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La memoria dellaSeconda Guerra Mondiale

sia di monitoa non ripetere tali barbarie.

Papa Benedetto XVIRoma, 6 settembre 2009

Stampato con il contributo della Regione del VenetoL.R. n 35 del 14-12-2007, Norme per il sostegno delle

Associazioni Combattentistiche, d’Arma e delle Forze dell’OrdineD.G.R. N. 1266 del 5 maggio 2009

Stampato in proprio nel mese di novembre 2010Associazione Nazionale Combattenti e Reducisezione di Monselice - Padova -via Buggiani 2/B 35043, Monselice

Stampa www.futuramaonline.com - Monselice

a cura di Giuseppe Trevisan

Memorie di guerra1940-1946

Testimonianze di Combattenti e Reduci

Associazione Nazionale Combattenti e ReduciSezione di Monselice - Padova

Indice

IntroduzioneGiuseppe Trevisan

PremessaAntonio Bettin e Giovanni Veronese

La lunga prigionia di un marinaioTarcisio Bertazzo

Ricordi di un carabiniere combattente per la libertàAttilio Bizzotto

Memorie di guerra di un soldato del Genio, 1942-45Lino Belluco

Un sopravissuto del campo di morte di ZeithainCarlo Frizzarin

Appendice. Lettere alla moglie di un prigioniero in GermaniaGiovanni Gazzea

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Monselice, 4 novembre 2010

La Presidenza dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, sezione di Monselice - Padova, ringrazia coloro che hanno contribuito a raccogliere e stampare queste memorie. Si ritiene necessario e utile produrre tali ricordi affinché non vengano dimenticati i tanti sacrifici sofferti da molti Italiani in questa ultima guerra 1940-45.

Il PresidenteComm. Giuseppe Barbirato

Ai soldati italiani che hannocombattuto per la libertà

Introduzione

Da qualche tempo sono impegnato a raccogliere ancora nuove testimonianze di monselicensi che hanno partecipato alle vicende della Seconda Guerra Mondiale (1940-1945). Intendo in questo modo dare la possibilità alla ANCR (Associazione Nazionale Combattenti e Reduci) della nostra città di pubblicare un terzo libro di memorie che possa contribuire a far conoscere quali e quante ingiustizie e sofferenze abbia prodotto quella guerra.È giusto siano ricordate le frustrazioni e le malvagità subite dai nostri soldati italiani. Esse infatti debbono essere un deterrente che contribuisca a convincere tutti della necessità di rifiutare non solo la guerra, ma anche tutti gli atti di violenza che ancor oggi, purtroppo, vengono perpetrati a danno dei diritti degli altri. Ed è giusto altresì che noi, ex combattenti, rendiamo testimonianza delle esperienze negative subite in quegli anni affinché i nostri ricordi restino un monito a futura memoria.Per questa nuova indagine ho avuto modo di avvicinare vari ex combattenti. Il mio intento era quello di riuscire a convincerli a ricordare e a raccontare episodi significativi della loro vita militare. Purtroppo quasi tutti hanno mostrato di non ricordare quasi nulla perché certamente non intendevano tornare a rivivere esperienze traumatiche che dovevano essere risultate per loro troppo dolorose.Pochi si sono dimostrati disponibili a collaborare e a raccontarsi.Ho fatto indagini anche presso parenti di ex combattenti, ma tutti hanno dimostrato di non essere a conoscenza o di non ricordare fatti significativi della vita militare dei loro congiunti, ora defunti, in quanto questi ultimi non avevano lasciato alcun documento scritto. Tutti, tranne i parenti di Carlo Frizzarin, deceduto nel 2001. Essi infatti mi hanno consegnato una testimonianza scritta sulle sue esperienze di guerra.

9Introduzione

Da sempre conoscevo Carlo e sapevo che era stato uno degli IMI (Internati Militari Italiani) e che era un reduce dal lazzaretto tedesco di Zeithain. Nel 1994 lo sentii commemorare un compagno la cui salma era stata fatta riportare a Monselice da quel lazzaretto. Fu così che raccolsi le interviste che gli erano poi state fatte dai giornalisti locali per l’occasione e unii quegli articoli alle mie documentazioni riguardanti gli IMI.Nel 2000, andato in pensione come geometra, ho iniziato a riordinare le mie memorie e i molti documenti, raccolti qua e là, relativi ai combattenti monselicensi. Così un po’ alla volta mi convinsi che sarebbe stato utile far conoscere le tribolazioni di noi soldati che avevamo partecipato ad una guerra voluta da pochissimi ma cha aveva fatto soffrire e morire milioni di persone.Allora decisi di coinvolgere l’ANCR di Monselice per far stampare nel 2005 il libro Soldati che si raccontano, 1941-45. Questi racconti sono sei, scritti in prima persona. Nel 2006 pubblicai i miei ricordi di guerra. Il volume si intitola Stammlager XVII A - 733 giorni da prigioniero in Germania.Ora arriva questa terza opera, edita dalla nostra sezione ANCR, nella quale si parla di altri monselicensi e dei loro ricordi di guerra. I soldati combattenti sono:- Tarcisio Bertazzo, nato il 23 - XII - 1921, prigioniero in Africa,- Attilio Bizzotto, nato il 19 - XII - 1922, partigiano combattente,- Lino Belluco, nato il 14 - IV - 1923, in guerra con gli Alleati,- Carlo Frizzarin, nato il 14 - XI - 1923, prigioniero in Germania.Viene riportato poi, in appendice, il testo originale delle lettere spedite dal professor Giovanni Gazzea alla moglie Fernanda, quando era prigioniero in Germania.

Giuseppe Trevisan

Premessa

Un ginnasiale e un bambino tra l’asilo e le elementari ricordano episodi della seconda guerra mondiale tra Monselice centro e la frazione di Monticelli

Dottor ingegnere Veronese Giovanni nato a Monselice in via F. Crispi, ora 28 Aprile, attualmente abitante a Padova.

Martedì 28-12-1943, cielo azzurro e limpido

Quella mattina, saranno state le 10-10.30, mi trovavo a casa dello zio Mario con mio fratello Ruggero e mia sorella Anna (nata nel febbraio 1942).Stavamo parlando con mia cugina Ruggerina e c’era anche mia cugina Maria quando venne suonato l’allarme aereo. Presi in braccio mia sorella, dissi a Ruggero di prendere il passeggino a casa nostra (era adiacente a quella dello zio), e scendemmo in strada per andare, come eravamo soliti fare quando c’era l’allarme aereo, in campagna a casa dei Turrin sulla strada per Pernumia.Ma in strada c’erano persone che fuggivano verso la campagna in quanto in cielo era in atto un duello aereo fra bombardieri americani e caccia tedeschi; alzati gli occhi al cielo vidi alcuni aerei spaccarsi (si staccavano le ali), precipitare e attorno tanti palloncini bianchi (paracadutisti che si erano gettati o stavano scendendo); non saprei dire a che altezza stesse succedendo tutto questo, certo che le palline erano molto piccole e gli aerei avevano le dimensioni da giocattoli.Io con mia sorella in braccio mi misi a correre verso la Casa del Fascio seguito da mio fratello che trainava il passeggino (passeggino del tempo di guerra, tutto di legno bordato di duralluminio ma con le ruote di legno e cigolanti).

11Premessa

Alla deviazione per la strada per Pernumia mi trovai vicino Carlino Masetti, che abitava là vicino, e proprio allora a un metro di distanza da noi cadde un pezzo di pallottola.Ci mettemmo a correre finché arrivammo a casa dei Turrin dove ci raggiunse anche mia zia Pina (era in centro a fare la spesa).Nel frattempo la battaglia aerea era terminata, non era ancora mezzogiorno; mia cugina Maria era andata a cercare mio zio che, pur cieco, era andato presto al caffè del Beduin, e l’avevo trovato rifugiato nel negozio della Marcella Ziron; a metà strada fra caffè e casa.Si seppe che alcuni militari della GNR (le Brigate nere) avevano sparato ai paracadutisti prima che toccassero terra nelle zone a sud di Monselice.Alcuni giorni dopo nel laboratorio personale di mio cugino Mario vidi parecchi pezzi relativi al sistema di ossigenazione per la respirazione dell’equipaggio (raccordi in alluminio, manometri, valvole ed altro); anzi mio cugino mi regalò qualche manometro che mi divertii a smontare per vedere come funzionasse.Ebbi anche l’opportunità di vedere, tempo dopo, uno dei motori di un bombardiere abbattuto che era stato portato all’Istituto Tecnico Morini Pedrina (reparto meccanica) di Este.Dimenticavo di dire che io vidi solo una parte del duello aereo, quella che si vedeva sopra Monselice, in effetti la battaglia aerea si svolse sul cielo di alcuni comuni dei colli Euganei.La caccia tedesca (l’aviazione della RSI divenne attiva solo nei primi mesi del 1944) era partita da Vicenza e sembra sia stato abbattuto anche uno di questi caccia. Nel Gazzettino del giorno dopo furono dedicate poche righe e senza commenti a quanto era accaduto.

Bombardamento del Cinema Sociale di Monselice

Quel giorno, mercoledì 7 febbraio 1945, ero ritornato da scuola e dopo aver mangiato avevo preparato quanto serviva per il giorno dopo.Verso le 18.30, dalla mia abitazione, situata a porta Sant’Antonio

12 Premessa

(oggi via 28 Aprile), mi ero recato al Caffè Centrale “dal Beduin”, così era chiamato, in piazza V. Emanuele II (oggi piazza Mazzini).Dovevo riportare a casa lo zio Mario che, essendo quasi cieco, veniva accompagnato al caffè per chiacchierare con i vecchi amici e seguire qualche gioco delle carte ascoltando quanto veniva detto dai giocatori.Poiché quella sera lo zio doveva vedere un contadino, il “cinese”, che curava il suo “brolo”, ci incamminammo verso il ponte della Pescheria proseguendo per Riviera Belzoni e dirigendoci verso il ponte di Ferro. A metà strada trovammo il “cinese” e mio zio combinò per un intervento, quindi ci avviammo verso casa. Accompagnato lo zio, entrai nella mia abitazione, adiacente a quella dello zio; erano circa le 19.15. Alcuni minuti dopo arrivò, in bicicletta da Este, mio padre.In attesa della cena avevamo accesa la radio, mio padre si era seduto in poltrona e aveva preso in braccio mia sorella Anna (tre anni); dopo poco, circa alle 19.30, sentimmo il caratteristico rumore di un aereo, sicuramente Pippo. Passarono pochi secondi e ci fu un fortissimo botto.La luce venne a mancare, la radio tacque, mia sorella finì sotto la poltrona, io e mio fratello aprimmo la porta verso il cortile e, pur essendo buio, vedemmo a sud ovest del fumo che si stagliava alto verso il cielo. Ad occhio e croce le bombe dovevano essere cadute oltre la pescheria. Mentre la zia con mia sorella e mio fratello rimanevano a casa, uscito in strada con mio padre, sentendo qualcuno dire che Pippo doveva aver colpito proprio verso il ponte della Pescheria, decidemmo di andar a vedere se era successo qualcosa anche in via Dante n° 1 dove c’era la macelleria e dove abitava mia nonna materna e la famiglia di mio zio Giacomo Pietrogiovanna.Con mio padre ci avviammo verso il ponte di Ferro e poi per Riviera Belzoni rifacendo la strada che avevo fatto una mezz’ora prima con lo zio.Era più buio di prima e in prossimità dell’albergo Cavallino dovemmo districarci per passare tra i fili dell’illuminazione caduti a terra.

13Premessa

C’erano alcune persone che sembravano ombre, una mi sembra fosse il cav. Simone; disse a mio padre che era stata colpita la Banca vicina alla Torre e alla sua abitazione e anche il cinema.Sul ponte io urtai qualcosa con un piede e la spinsi in avanti, la cosa rotolò più in là: era una testa. Un po’ più giù dal ponte c’erano ancora fili a terra, la porta della macelleria dello zio era sconnessa e non si apriva per cui entrammo dalle finestre che, basse sul marciapiede, erano state divelte.Trovammo lo zio, la nonna, la zia e i cugini assai spaventati ma sani e salvi.Dopo poco, sempre al buio, mentre erano già iniziati i soccorsi alle tante persone ferite, rientrammo a casa. Il giorno dopo s’incominciarono a conoscere i dettagli sul bombardamento: circa alle 19.30 nella piazzetta antistante il cinema Sociale e nella adiacente piazza Isola (oggi, rispettivamente piazzetta Teatro e piazza XX Settembre) c’era un notevole numero di soldati tedeschi, in attesa che finisse lo spettacolo del pomeriggio, per entrare e vedere il programma a loro destinato, una volta che fossero usciti gli Italiani.Proprio mentre si aprivano le porte del cinema, lasciando così filtrare della luce, arrivò “Pippo”, presumibilmente proveniente da sud est, che vedendo la luce sganciò una serie di bombe che colpirono la Banca Popolare, la piazzetta davanti al cinema e un angolo del cinema. Verso la strada delle valli una bomba, senza scoppiare, forò il pavimento esterno della Pescheria vicino al ponte e si trova ancora là sotto.Mio cugino, Mario Trevisan, si trovava in strada poco lontano dal cinema, forse 50 metri, dato che era andato a trovare un’amica che abitava in via Moraro. Sentendo Pippo e il fischio delle bombe si gettò a terra mentre sopra il suo capo volavano schegge, tegole e altro.All’inizio di via Moraro abitava con i suoi Leo Liviero, un amico nonché futuro cognato della zia Rita. A quell’ora erano tutti a tavola nella sala da pranzo che aveva una vetrata sul canale Bisato.Lo spostamento d’aria sventrò la vetrata e fece volare tovaglia piatti e cena in canale; quella sera i Liviero saltarono il pasto.Leo sceso in strada trovò, nei pressi dei gradini che portano al

14 Premessa

ponte della Pescheria, alcuni soldati morti e altri feriti che soccorse portandoli dentro la vicina casa di suo zio.Ci furono parecchi morti anche tra i civili: la moglie del direttore della Banca schiacciata dalle macerie e il figlio Nico (carissimo amico) deceduto dopo alcuni giorni, il droghiere Goldin, alcuni altri, di cui non ricordo il nome dentro il cinema, i coniugi Bodon che abitavano nei pressi e altri ancora, più di una decina.Per i soldati tedeschi andò molto peggio, furono riempite 70 casse e ancor oggi, sul muro perimetrale del cimitero di Monselice, si possono vedere tutte le croci di marmo bianco (76) con i nomi dei caduti; alcuni corpi sono stati portati in Germania, ma tutti gli altri, la maggior parte, vennero trasferiti, in tempo di pace, nel cimitero di guerra di Costermano sul Garda.Per qualche tempo, in alto sul muro della casa sul ponte dove poi venne trasferito l’albergo Stella d’Italia, rimase l’impronta di un corpo.Per più di un mese nei pressi del cinema, del ponte e direi per il centro di Monselice ci fu odore di morte; si racconta che i gatti sui tetti trovarono e mangiarono brandelli di carne.Questa era la guerra!La mia famiglia, come molte altre, escluso mio padre che rimase a casa, andò sfollata in campagna a casa dello zio Toni (fratello della nonna), e lì restò fino a pochi giorni prima della fine della guerra.Tempo fa venni a sapere, come già a quel tempo si sussurrava, che il bombardamento fosse stato pilotato da informazioni o indicazioni provenienti da terra.Personalmente, nel caso specifico, ritengo la cosa poco probabile visto il comportamento di Pippo nei bombardamenti precedenti e successivi avvenuti in zona.Peraltro posso confermare per averle viste, seppure da lontano mentre ero sfollato, segnalazioni luminose fatte durante le ore notturne, ma Pippo non era nei dintorni; certamente Monselice si prestava bene, con i due colli Rocca e Montericco nonché il Lago della Costa di Arquà Petrarca, a fornire un punto di riferimento sicuro, di giorno e di notte, sia per l’orientamento degli aerei sia per eventuali lanci di materiale o persone.

15Premessa

Bombardamento 21 febbraio 1945

A causa del bombardamento del cinema da parte di Pippo (7 febbraio 1945) eravamo da poco sfollati alla Costa di Arquà Petrarca, presso lo zio Toni Lunardi, fratello della nonna materna Emma.Quel giorno, di pomeriggio, mi trovavo sul Calbarina presso la casa dove era sfollato anche mio zio Giacomo con la sua famiglia. Era una giornata splendida e pur essendo il 21 febbraio sembrava fosse primavera.Erano circa le 16.15 quando si sentì il rumore caratteristico di una formazione di aerei da bombardamento, in arrivo da sud-est.Le formazioni erano due, una di seguito all’altra, ciascuna formata da non molti aerei. Superata la verticale sul lago si stavano dirigendo verso nord-ovest; pensai che fossero dirette verso Vicenza.Dopo un po’ di tempo, però, invertirono la rotta di 180° ritornando da dove erano venute.Quando il primo aereo ebbe appena oltrepassato la perpendicolare sul lago vidi staccarsi dal disotto un razzo luminoso e subito dopo udii uno strano rumore e su Monselice, che era davanti ai miei occhi, precisamente nella zona della Casa del Fascio, meglio ancora all’ingresso da Padova nella zona dove dal Canale Bisato, parallelo alla statale per Padova, si diparte il canale del Bagnarolo verso Pernumia, vidi salire dei getti altissimi di polvere fin quasi a metà Rocca.Erano le bombe che scoppiavano, ne furono contate circa quaranta.Alcune di queste, essendo a scoppio ritardato, entrarono in funzione successivamente uccidendo anche qualche curioso e altri durante la notte o il giorno dopo.A quanto mi risulta - a parte i morti, i feriti e i danni materiali di qualche casa e del Macello distrutti, che peraltro mio padre aveva in precedenza immortalato in alcuni suoi quadri in mio possesso -, i danni furono a mio avviso modesti poiché l’obbiettivo era forse quello di distruggere la strada per Padova e la derivazione dei due canali.Mio fratello Ruggero che si trovava in casa, a Monselice a circa 200 metri dalla zona bombardata, rientrando alla Costa vide sull’argine della Canaletta che costeggiava la ferrovia il foro di una di quelle

16 Premessa

bombe e si allontanò in fretta. Il giorno dopo un pezzo di argine mancava; la bomba era scoppiata.Un po’ più avanti, sempre sulla strada per la Costa e precisamente all’incrocio con la salita dal passaggio a livello vi era una casa che durante la notte fu ridotta macerie.

Marzo 1945, bomba in via F. Crispi

Quella mattina di una domenica del marzo 1945 stavo arrivando in bicicletta a Monselice dalla Costa di Arquà Petrarca dove, salvo mio padre, eravamo sfollati; il programma era di passare per casa, andare a Messa, acquistare il pane e quindi con mio padre ritornare alla Costa per il pranzo.Avevo appena girato l’angolo tra Via XI febbraio e Via Crispi quando vidi, all’altezza di casa mia sull’altro lato della strada, un grosso cilindro bianco, sembrava uno di quei grossi paracarri che si trovavano a lato del campo della fiera e pensai l’avesse trascinato là qualche camion tedesco; ma come mi avvicinai un poco mi accorsi che sul fronte aveva una specie di ruota di ottone: era una bomba d’aereo inesplosa e tutta sporca di bianco. Sì! Era proprio una bomba da 500 libbre, sganciata da Pippo e stava di fronte tra il cancello di casa Dal Din e casa mia, sul lato opposto della strada.Alle ore 23 del sabato precedente Pippo, proveniente da Este, vedendo qualche luce aveva sganciato due bombe, la prima era caduta in un cortile interno dell’Albergo alla Rocca di proprietà delle sorelle Canoso, e non era esplosa, la seconda era invece esplosa sulla cosiddetta Rocchetta venti o trenta metri più in su.Da questo cortile con una strada in discesa, chiusa al termine da un cancello in ferro, si arrivava in strada ed era la via di accesso al cortile per il parcheggio di carrozze o auto.La prima bomba, caduta sul ripiano dell’orto a terrazza che contornava il cortile, aveva fatto franare il muricciolo di sostegno; rotolando e sporcandosi sul terreno calcareo, aveva poi imboccato la discesa e, divelta la parte inferiore del cancello, si era presentata in strada.Mi fermai sulla porta di casa e suonai, ma mio padre era a casa

17Premessa

di mio zio adiacente alla nostra. Mio padre mi raccontò cosa era successo: verso le 23 stava riportando a casa mio zio dal rifugio, che era fuori porta sant’Antonio, allorché sentendo il rumore dell’aereo si era fermato con lo zio addossandosi alle mura della cinta muraria. Avevano sentito il sibilo delle bombe, lo scoppio e inoltre erano stati colpiti da piccoli frammenti di pietra che, a seguito dello spostamento d’aria, erano caduti dalla cima delle mura.Passato l’aereo si erano avviati verso casa, ma alcune persone uscite dalle abitazioni per andare in rifugio avevano visto la bomba, anzi Enzo Zodio era andato proprio a inciampare su di essa.Gli abitanti di Via Crispi passarono tutta la notte in rifugio.Il giorno dopo un giovane di Arquà Petrarca, milite delle Brigate Nere che io ben conoscevo poiché aveva studiato a Este nello stesso ginnasio che avevo frequentato, legò con una corda molto lunga la bomba; con l’aiuto di altri la bomba fu trainata nel campo della fiera, nei pressi di una torre delle mura di cinta e qui, assieme a venti chili di tritolo, venne fatta scoppiare.Nei dintorni saltarono tutti i vetri, si scardinarono finestre, ecc. ma non ci furono feriti. A casa mia, la zia prese alcuni quadri di mio padre, che era un pittore dilettante, e li appiccicò con chiodi al posto dei vetri; alcuni di quei quadri sono ora in cornice, ma mostrano ancora i buchi di quella volta.Quel giovane, coraggioso e sprezzante del pericolo, morì qualche settimana più tardi, una domenica, mentre cercava di bonificare la zona, attorno al ponte delle Grole, dalle bombe a farfalla che erano state sganciate da Pippo durante la notte.Assieme ad altre persone prendeva in mano, delicatamente, questi ordigni per gettarli nel canale, dove scoppiavano, ma una delle bombe gli scoppiò in mano squarciandogli il ventre.

Calbarina: marzo 1945

Quanto accaduto si è svolto fra il febbraio e il marzo del 1945, sicuramente si sentiva già la primavera ed era un pomeriggio pieno di sole. Mi trovavo sul monte Calbarina sul cortile della casa dove

18 Premessa

era sfollato mio zio Giacomo con la famiglia e anche la mia nonna materna.Vicino a me c’era mia cugina Annarosa presso alle due finestre molto basse della cucina, e un po’ più in là, vicino alla porta d’ingresso, mia nonna e mio cugino Toni. Tutto a un tratto sentimmo un rumore d’aerei e alla nostra sinistra vedemmo due Mustang assai bassi filare verso Monselice.Essendo a conoscenza che nei campi di Belluco, a fianco della strada per Padova, erano state messe delle mitragliere antiaeree (distavano dal Calbarina due buoni chilometri e mezzo) e pensando che anche che i tedeschi avessero visto gli aerei e che gli avrebbero sparato contro, in direzione del Calbarina, gridai a mia nonna di entrare e presi mia cugina in braccio (aveva sette anni) ed entrai con lei in cucina da una delle finestre gettandoci poi distesi sul pavimento.Uno degli aerei, arrivato sopra Monselice, forse perché colpito già prima, e forse per questo i due volavano bassi, o dalle mitragliere antiaeree, sganciò i serbatoi supplementari, che caddero in paese incendiando case e bruciando persone, una rimasta ferita e morì circa otto mesi dopo a guerra finita.Gli aerei si allontanarono verso sud-est; il giorno dopo sul terreno del Calbarina trovai pezzi dei colpi sparati dalle mitragliere antiaeree.

Ultimi giorni di guerra

A Este, come scuola superiore, c’era solo il Liceo Scientifico cui si poteva accedere dall’ultimo anno di Istituto Tecnico o dalla IV Ginnasio, previo esame.Per l’anno 1944-45 presso il Collegio Manfredini, Rettore allora il Prof. Don Ernesto Tomba, venne aperta per interni ed esterni la prima classe del Liceo Classico; il liceo era stato istituito con il benestare del governo di allora, la RSI.Mio padre, che lavorava a Este, tenendo conto del periodo bellico e analogamente a quanto fatto dai genitori di alcuni miei compagni di ginnasio, mi iscrisse alla I liceo del Manfredini.Già dall’ottobre 1943 chi andava da Monselice a Este, per studio o

19Premessa

lavoro, doveva usare la bicicletta e quindi avrei pedalato per qualche chilometro in più.Durante i primi mesi di liceo c’erano stati due bombardamenti nei pressi del collegio e qualche mitragliamento; era anche caduto un caccia americano; non si deve poi dimenticare il “Pippo” che di notte buttava bombe dove vedeva luce. Nei primi giorni di aprile si incominciò a intravedere che la guerra stava per finire.La settimana precedente l’arrivo degli Alleati, nei pressi e prima del ponte della Torre, sul lato sinistro della strada per chi proviene da Este, i Tedeschi avevano sistemato alcune sagome colorate di legno e cartone rappresentanti dei camion e sulla destra, giù dalla scarpata nel campo adiacente e a distanza strategica, due batterie antiaeree di mitragliatrici.Il lunedì mattina, 23 aprile, arrivato in collegio per le lezioni trovai molti genitori che erano venuti a prendere i figli per portarli a casa. Molti erano partiti il giorno prima, in quanto proprio alla domenica, c’era stata una incursione sul ponte della Torre da parte dei caccia americani con mitragliamento dei camion di cartone, senza peraltro alcun abbattimento di aerei da parte della contraerea tedesca.Il vice rettore don Zanella, riuniti gli studenti e i genitori presenti, lasciando capire che ormai la guerra era prossima alla fine, ci comunicò che le lezioni venivano sospese e sarebbero state riprese a fine guerra; che comunque notizie più dettagliate si sarebbero potute avere il giorno dopo, invitando quindi chi abitava non troppo lontano a ritornare.Il mattino del 24 aprile (martedì); partito da casa e passando per Arquà e Baone, arrivai a Este a casa di Franco Polato per vedere se veniva in collegio.Qui c’era una novità: fermo in strada sulla mia bicicletta, appresi che nella notte Pippo aveva bombardato il collegio distruggendo la portineria.Franco mi disse che non sarebbe venuto, ma sul marciapiede c’era una signora che, sentendo i nostri discorsi, si avvicinò dicendoci che aveva il figlio in collegio e voleva andare al Manfredini per vedere dove

20 Premessa

era stato portato. Nel pomeriggio del 23 alle ore 15 c’era stato un bombardamento al ponte ferroviario vicino al collegio e una bomba era caduta in collegio senza però esplodere.Allarmati da ciò gli studenti rimasti erano stati evacuati con parte dei salesiani e portati, a quanto mi risulta, al Tresto.Così assieme a questa signora mi avviai a piedi, in quanto io solo avevo la bicicletta, prendendo lo stradone che dal cimitero porta al ponte della Torre e quindi al collegio.Giunti nei pressi della salita, ma prima del raccordo con la statale, con ancora qualche casa sulla sinistra e l’antiaerea tedesca nei campi a destra, la signora, forse pensando che mi faceva perdere del tempo, mi consigliò di montare in bicicletta e di andare avanti, ma non l’ascoltai.Trascorsero due minuti, non di più, quando udimmo il rumore di aerei; alti altissimi in cielo vedemmo due caccia o cacciabombardieri che stavano gettandosi in picchiata; io gridai alla signora di correre verso la prima casa, gettai la bicicletta nel fossato e corsi verso la casa; entrammo da una porta e ci gettammo distesi sul pavimento, contemporaneamente l’antiaerea incominciò a sparare.Gli aerei sganciarono alcune bombe e poi se ne andarono. Dopo un po’ uscimmo dalla casa, dove non c’era nessuno, e feci per avviarmi verso il collegio, ma la signora affermò che preferiva tornare indietro. Salii allora in bicicletta e mi avviai verso il ponte; sul lato destro della scarpata c’erano le buche delle bombe appena gettate dagli aerei.A tutta velocità arrivai davanti alla portineria del collegio, ma qui dovetti fermarmi e prendere in spalla la bicicletta, c’erano vetri dappertutto e macerie; con la bicicletta in spalla mi avviai verso il cortile sul retro dove allora si trovavano le cucine; saliti i pochi gradini trovai don Zanella che stava prendendo un caffè.Mi chiese cosa stessi facendo in quel luogo e io gli ricordai quanto aveva detto il giorno precedente; mi offrì un caffè, mi disse che ci saremmo rivisti alla fine della guerra e prima di accomiatarci mi benedì, credo fosse per buon augurio.Ripresi in spalla la bicicletta, ma non avevo fatto dieci metri che sentii un rumore d’aereo e vidi dalla parte di Ospedaletto venire avanti verso il collegio un Lightning in leggera picchiata.

21Premessa

Buttata la bicicletta entrai in uno dei due ingressi dei gabinetti e mi misi al riparo del grosso muro che divideva gli ingressi, ma non era ancora finita.Ero ancora al riparo quando entrò a precipizio, tremando, un soldato tedesco (in collegio c’erano soldati e ufficiali tedeschi) che mi abbracciò sempre tremando; con cenni gli feci segno che conveniva stare calmi e quando non sentii più l’aereo, che nel frattempo aveva mitragliato le sagome dei camion con relativa risposta antiaerea, ripresi in spalla la bicicletta e mi avviai alla portineria.Da qui, prestando attenzione a tutti i possibili rumori, saltai in sella alla bicicletta e di volata passai il ponte e mi avviai verso Monselice.Ma non era ancora finita: dopo il passaggio a livello della ferrovia nei pressi del ponte dei Buffi, dato il posto in cui mi trovavo vicino a due ponti ferroviari, fui costretto a ripararmi nel profondo fossato a lato della strada in quanto era iniziato il passaggio di un notevole numero di bombardieri, per fortuna in transito.Nel fossato c’era un bel gruppo di tedeschi, pure loro in transito.Passati gli aerei, ripresi il viaggio verso casa.Erano circa le 10.30 del mattino.

22 Premessa

Antonio Bettin, nato nell’allora frazione e ora via Monticelli e residente a Monselice, via San Vio 9

Prolusione

Da qualche anno non c’è più il servizio militare obbligatorio per i maschi italiani, ma l’esercito c’è ancora: di volontari, con la novità che anche le donne possono arruolarsi. In compenso rimangono le associazioni: ex alpini, ex artiglieri, ex marinai, eccetera, i quali si ritrovano soprattutto nelle adunate annuali. Ma la vera associazione militare è quella degli ex combattenti di tutte le armi, sempre meno numerosi, perché la guerra è finita da sessantacinque anni, ma veri maestri di vita per l’esperienza vissuta al fronte, in prigionia, alla macchia… e poi per l’esempio dato nella vita civile. E molti hanno fatto conoscere i loro diari o i ricordi di guerra e/o prigionia stampandoli.Anche a Monselice Giuseppe Trevisan, il mio maestro di quinta elementare, non solo ha dato alle stampe i suoi ricordi di guerra, ma soprattutto dopo ha continuato a stimolare i soci dell’associazione perché facessero conoscere le loro esperienze.A me, coinvolto come correttore di bozze, il maestro ha chiesto: “e tu perché non scrivi quello che ricordi della guerra?” Pare una domanda, ma era un ordine. Così mi scuso di questa intrusione, e riferirò nel modo più rapido i ricordi, dai quattro ai sette anni, del fanciullo che viveva a Monticelli, la frazione di Monselice incastrata tra i comuni di Arquà Petrarca, Galzignano, Battaglia Terme e Pernumia.Tranne il primo, questi ricordi sono tutti successivi al triste giorno dell’autunno 1942 in cui la mamma morì di peritonite post-partum nell’ospedale di Monselice, verso il quale la vidi partire nell’ambulanza sotto una pioggia torrenziale.

Il papà a Chiesanuova

Il papà tornava a casa il sabato pomeriggio perché, pur essendo stato riformato per una pleurite giovanile e non avendo fatto il servizio militare, fu richiamato e messo in un ufficio a Chiesanuova, dove si

23Premessa

teneva la contabilità dei lavori per le caserme che si stavano costruendo nella zona. Dopo la disgrazia, essendo i due fratelli di papà uno in Croazia e l’altro in Somalia, il papà fu definitivamente congedato. Prima tornava il sabato pomeriggio in bicicletta; mamma, nonna e zia lo facevano sedere e parlare e intanto gli portavano qualcosa perché si rifocillasse. Il nonno andava su e giù, teneva d’occhio se arrivava qualcuno in “botega” come era detto allora il negozio di generi alimentari (ma non solo, perché anche il laboratorio dello zio Giovanni era la “botega da falegname”). In disparte aspettavo che i grandi riprendessero i loro lavori perché il papà si dedicasse solo a me: mi prendeva sulle ginocchia, si parlottava e poi accavallava le gambe: io mi accomodavo sul piede alto, solo col papà che mi faceva trottare. Passavamo assieme la domenica; al lunedì mi svegliavo e il papà non c’era più, credo partisse il mattino presto, e sempre in bicicletta che considerava il mezzo di trasporto più sicuro.

Il saluto dei partenti

Dopo l’ottobre 1942 ricordo tre o quattro mattine nelle quali il giovanotto che aveva ricevuto la “cartolina di precetto” passò a salutare tutte le famiglie della borgata – una trentina – parenti e non parenti. Stava partendo “per il fronte”, ma non si sapeva quale e dove. Riceveva qualcosa, ringraziava ripetutamente col sorriso inframmezzato da qualche lacrima o anche da uno scoppio di pianto; e non capivo perché insieme sorrideva e piangeva.

Il ritorno di zia Olga e cugini

All’inizio del 1943 la nostra famiglia crebbe di quattro unità perché da Mogadiscio tornò la zia Olga con i tre figli Maria Teresa, Rosetta e Giovanni di tre, due e un anno. Alla fine del servizio militare in Somalia, allo zio era stata fatta la proposta di stabilirsi là come insegnante di falegnameria nella scuola di arti e mestieri della Missione cattolica. Era tornato per sposarsi a Gallio ed era ripartito quasi subito portando in Africa la zia Olga, come sentivo dire, e nelle foto del matrimonio ci sono anch’io in primo piano appena in grado di stare in piedi.

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Quando fu richiamato nell’esercito, nella prima nave della Croce Rossa che tornava in Italia lo zio Giuseppe caricò moglie e figli per allontanarli dai pericoli. Il viaggio fu un’odissea, perché, si diceva, il canale di Suez non era sicuro; peggio ancora era la marina inglese che, soprattutto coi sottomarini, infestava quella zona e anche gran parte del Mediterraneo. La nave circumnavigò l’Africa, entrò nel Mediterraneo da Gibilterra, scaricò i passeggeri in vari porti da Genova a Venezia, dove scesero gli ultimi con la zia e i figli alla fine di un viaggio di oltre quaranta giorni che aveva messo tutti alla prova.

La prima Comunione

La primavera del 1943 papà e nonni mi avevano permesso di andare al catechismo con gli amici che compivano i sei anni i quali, nella festa della SS. Trinità, ricevettero la prima Comunione. A ottobre entrai alle elementari con loro. Con loro ero nella classe di catechismo, ma senza la prima Comunione alla quale il parroco decise di ammettermi nella prima messa di una domenica di fine novembre. Dopo la cerimonia, come è consuetudine, c’è la colazione in canonica per il festeggiato, che non riesce a prendere nulla. Alle mie spalle lo zio Nino deve avere un magone più grosso del mio. Era sul fronte greco quando è morta la mamma, ed è stato congedato da pochi giorni per l’aggravarsi della sua miopia. “Torniamo subito” dice e mi prende in braccio fino al cimitero. Davanti alla tomba della mamma e sorella ci stringiamo, piangiamo, sorridiamo e poi ritorniamo verso la chiesa da dove, con tutti i parenti, si va a casa. Un pomeriggio della settimana successiva zia Teresina mi preparò e mi fece sedere sul sellino per bambini della sua bicicletta. Passò a prendere zia Francesca e insieme mi portarono a Monselice. Prima andammo dal fotografo. Là mi fecero indossare il vestito bianco della prima Comunione e furono fatte le fotografie rituali. Dopo mi portarono dal barbiere il quale mi tagliò i capelli lunghi (mio cruccio e vergogna) che le zie avevano voluto lasciar crescere dopo la morte della mamma. Non ricordo se eravamo partiti tardi o se andò per le lunghe dal barbiere. Uscimmo dal fotografo che scendeva il buio. Così le zie presero la strada alta (così veniva chiamata la statale 16) che era

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pressoché deserta. Accesero le pile che una certa luce la facevano, ma a un certo punto ammutolirono. Sulla nostra destra, sopra Pernumia, si vedevano le luci di un aereo che volava verso nord. Smisero di parlare e si fermarono. Dopo un po’ ripartimmo in silenzio e con le pile spente, anche se dell’aereo non si sentiva più il rumore né si vedevano le luci, finché arrivammo a casa della zia Francesca che ci fece accompagnare negli ultimi cinquecento metri dallo zio Nino.

La prima elementare

Autunno 1943. Anche se l’età non c’era tutta, papà ottiene la mia iscrizione alla prima elementare nella scuola costruita da pochi anni, come tante altre in località lontane dai centri. Ci sono due aule ampie, con i banchi di legno ancora nuovi, che possono accogliere fino a una cinquantina di alunni ciascuna, perché ci sono le pluriclassi: la prima con la terza e la seconda con la quarta. Chi vuole il diploma della scuola elementare deve fare la quinta, secondo la comodità, a Monselice o Arquà Petrarca o Pernumia o Battaglia Terme.

I rifugi

Di quell’anno ho un altro ricordo molto vivo. Sopra le nostre teste fin dall’estate erano passate sempre più spesso squadriglie di aerei da bombardamento, come le chiamavano i grandi: potrebbero bombardare anche da noi. Sento una parola nuova: rifugi; ci vorrebbero dei rifugi. E siccome la trentina di case di Monticelli è sul pianoro dell’antica cava di trachite che si è fermata lungo una parete di volgare pietra da annegamento alta al più una dozzina di metri e lunga poco più di un centinaio, verso la fine dell’estate devono aver deciso di scavarli i rifugi. Infatti lo zio Nando, invalido della prima guerra mondiale, un po’ in piedi un po’ seduto comincia a improntare l’apertura del rifugio alla fine del suo cortile sul lato ovest della nostra casa. Si sente martellare anche dietro le case dei Ferrato e dei Giuliani. Ma verso la primavera del 1944 la situazione deve essersi aggravata: arrivano gli operai delle cave a fine lavoro e, finché c’è luce, senti il battere dei martelli che preparano i fori per la polvere delle mine, poi lo scoppio delle mine,

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lo scricchiolio delle carriole che portano fuori pietre e ghiaia e grida che allontanano noi piccoli curiosi perché : “Ghe xe pericolo”. Ma, diremmo adesso, sono stati dei draghi: in tre o quattro settimane i rifugi ci sono. La porta di ingresso viene ristretta con pietre squadrate tenute insieme da tavole, travi e, dove occorre, un po’ di malta per ridurre lo spostamento d’aria, sentivo dire, nel caso fosse scoppiata lì vicino qualche bomba. L’ingresso diventa così un corridoio non più largo di mezzo metro per un paio di metri di lunghezza. La parte interna si allarga oltre i tre metri, è alta come il pianterreno delle nostre case ed è lunga una quindicina di metri fin dove comincia a restringersi per uscire all’esterno con un’apertura circolare, “di emergenza” dicevano, del diametro che non raggiungeva il metro: anche noi bambini per uscire dovevamo metterci sulle ginocchia. Fin da subito in uno scanso si è visto un lettuccio dove dormì fino alla Liberazione Carlo Garzon detto Zamara. Era proprietario dell’abitazione dove vivevano i prozii Nando e Amabile e del cortile nel quale c’era l’entrata del rifugio. Pensionato delle officine Galileo di Battaglia Terme dove risiedeva, si era trasferito a Monticelli prima ancora che su Battaglia iniziassero i bombardamenti per interrompere la statale 16 all’altezza dei mulini, dove ci sono le porte che scaricano l’acqua del Bisatto nel sottostante Vigenzone.

Vacanze 1944

Le vacanze del 1944 cominciarono con una bella villeggiatura, ma per me triste (eh… allontanare un bambino dagli amici quando finalmente può stare con loro tutto il giorno senza impegni!). Vero è che ci ho messo decenni per riconciliarmi con l’altopiano di Asiago da dove viene la mia ascendenza materna. Le zie Teresina Olga e Francesca portarono a Gallio nella gran casa dei Pertile, dove erano rimasti solo i prozii Rosa e Giovanni, genitori di zia Olga, con Domenico (che chiamavano Mèno), noi cinque bambini di casa Bettin col fratello rimasto orfano a tre giorni che continuava a crescere bene con nonna e zia materne. Fu comunque una vacanza benefica e tranquilla, senza aerei che sorvolassero l’altopiano. Sarebbe parso di essere fuori dalla guerra se non ci fosse stato lassù un distaccamento di varie centinaia

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di soldati accampati con le tende tra i pini del Gastah e che quasi ogni giorno finivano le marce passando davanti alla casa dei Pertile, che allora era la penultima del paese a poche centinaia di metri dalle tende dei soldati. Tra questi trovammo Dorino, da Monticelli, uomo giusto e carissimo come pochi. In libera uscita non mancava mai di passare da noi e, dalla terza volta, sempre con la gavetta piena di baccalà in umido che non riusciva più a mangiare, perché era ogni giorno quella minestra, e che noi bambini invece apprezzavamo. In cambio Dorino mangiava di gusto la pasta, le verdure e, quando c’era, la carne che le zie stentavano a farci mandar giù.

L’arrivo dei Tedeschi

Verso la fine delle vacanze arrivarono, nella loro ritirata, anche a Monticelli i Tedeschi. Doveva essere una compagnia. La maggior parte degli uomini fu alloggiata in uno stabile tra Rivella e la chiesa di Monticelli e nelle dipendenze di villa Italia a Lispida. Gli ufficiali alloggiarono nella canonica; gruppetti di soldati in case di campagna che dovevano sembrare adatte per gli scopi degli occupanti e una cinquantina di uomini si sistemò a Monticelli, la maggior parte nell’ex chiesa di san Carlo che dal 1930, quando fu benedetta la nuova chiesa, era stata trasformata in un piccolo teatro. A casa nostra un maresciallo e tre sergenti requisirono due stanze: la cucina e il soggiorno che erano indipendenti e quindi non fummo disturbati molto, ma dovemmo entrare e uscire per la cantina o la bottega e poi spostare la cucina con stufa, tavola, credenza eccetera. Dovemmo dunque restringerci; ma c’era la guerra… e, a un certo punto dell’inverno, tornò congedato dal fronte dalmata l’aviere zio Giovanni. Non so se era nonno il maresciallo tedesco, ma era dolce con noi bambini e veniva quasi ogni giorno a passare un po’ di tempo da noi, dove si rivelò un ginnasta coi fiocchi: i talloni sull’orlo di una sedia, la nuca appoggiata sul sedile di un’altra e restava così sospeso, parallelo alla terra, che non ricordo fino a dove mi faceva contare. Una volta volle a tutti i costi caricarsi sulle spalle il nonno; noi bambini lo guardavamo a bocca aperta, finché non la chiudemmo per non ridere quando sistemò il peso proprio sotto una trave contro

28 Premessa

la quale andò a battere la testa del nonno. Non so cosa sapessero di lui i grandi, ma più crescevo e più mi parve che avesse una terribile nostalgia di casa, dei figli, di bene…

L’anno meraviglioso

Lo stabile occupato da un bel numero di soldati tra Rivella e la chiesa di Monticelli era proprio la nostra scuola. Ve lo immaginate un anno intero senza maestri e lezioni? Le vacanze che non finivano? In realtà c’era ben poco da godere e noi bambini non sapevamo né potevamo capire cosa stesse capitando. Le giornate si accorciavano, ma avevamo ancora modo di vedere, come d’estate, formazioni di decine di aerei – le fortezze volanti dicevano – che andavano verso nord. Con frequenza sempre maggiore arrivavano anche i caccia che si calavano in picchiata lasciando partire due cosine, parevano due ghiande, le quali, nonostante sparissero dietro il monte Lispida, ci inviavano dopo un po’ il boato dello scoppio. Qualche volta tentarono di bombardare il ponte della ferrovia sul canaletto che fiancheggia la strada Costa – Rivella. Rimanevano enormi buchi dietro il casello tra la ferrovia e la Canaletta. Una bomba portò via al casello l’angolino nord – est del tetto, ma gli Zanasi continuarono il loro servizio.Una domenica mattina di quell’inverno uscimmo dalla prima messa e trovammo la giornata rigida ma luminosissima, col sole non molto alto sull’orizzonte. Papà entrò con altri in canonica davanti alla quale si formò un capannello di donne con qualche bambino. All’improvviso una pattuglia di caccia spuntò dai colli di Arquà Petrarca e passò sopra le nostre teste verso Battaglia Terme. Da Lispida partirono alcune raffiche della contraerea. Subito sentimmo che dal cielo limpidissimo qualcosa cadeva a terra. Una donna vide e prese in mano un pezzetto rotondo di ferro che scottava. “Sono pezzi di contraerea” gridò e corremmo tutti dentro la sala della canonica dove i parenti stavano o comperando il giornale oppure ordinando – come si diceva – delle messe. La cosa finì là. Ma tornammo a casa in silenzio e, dentro, non dovevano essere tranquilli i grandi.

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Pippo e altro

Pippo veniva chiamato l’aereo, ma dovevano essere tanti, che di notte a bassa quota perlustrava il territorio e, dove vedeva luci o movimento, bombardava. In casa si parlava poco di questo per non spaventare i piccoli; ma io dormivo col papà proprio sopra lo stanzone adibito a osteria che ogni sera si riempiva di uomini i quali, giocando a carte, si rimproveravano o gridavano quando vincevano, ma sempre più spesso parlavano seriamente di quello che capitava e sentii di bombardamenti, di rifugi, di alleati di qua del Po. Ma il sonno, per fortuna, la vinceva presto e allora non seppi mai neppure della strage di Pippo nel cinema Roma a Monselice. Invece ho avuto nelle pagine precedenti alle mie la risposta a una domanda che ho fatto tante e tante volte a persone di Monselice. Un pomeriggio di quell’inverno molto chiaro nonostante le nuvole stavo tornando a casa, quando il rumore di aerei mi fece girare. Erano solo quattro, non erano caccia e, ancora abbastanza lontani da Monticelli, piegarono alla loro sinistra facendo due o tre giri attorno a Monselice, sembrava, finché presero la direzione verso di noi e sganciarono decine e decine di bombe. Poi si girarono e sparirono verso Sud.Sarà stato per il vento che tirava verso Monselice, ma a Monticelli non si è sentito uno scoppio. Dalle pagine dell’ingegner Giovanni Veronese ho finalmente saputo che anche quel giorno, 28 febbraio 1945, Monselice era stata colpita, anche se molte di quelle bombe non erano esplose subito. Erano giorni strani durante i quali bisognava scappare, almeno una volta, nei rifugi. I ragazzi più grandi spesso scappavano fuori, facevano quei pochi metri di sentiero fin sopra la parete che, per quanto bassa, sovrastava tutte le case del paese e là guardavano i bombardamenti dei caccia su Rivella o Battaglia Terme oppure giocavano. Una volta sono scappato fuori anch’io, ma poco dopo arrivò zio Giovanni che disse solo: “Se veniva tuo papà era almeno uno sculaccione”.Non uscii più per quanto noioso fosse il rifugio.

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Un mattino non c’erano più i Tedeschi a casa nostra (il maresciallo se n’era andato senza salutare), e non ce n’erano più neppure nella chiesetta vecchia né in canonica. “Riva i aleati” dicevano i grandi, ma non li abbiamo visti finché un paio di giorni dopo, il pomeriggio del 28 aprile, scappammo ancora nel rifugio perché in cielo si erano viste strane giravolte di aerei e si erano sentite scariche di mitraglia. A un certo punto “l’antifona – come diceva il nonno – era cambiata”. “I aleati xe passà; i xe drio passare; i go visti a Rivea; no i finise pì”. Così gridavano dei giovanotti, mentre si erano formati alcuni capannelli di grandi. Ogni tanto qualcuno si staccava e andava verso la chiesa. Sì, il campanile era stato cannoneggiato! Appena sotto le campane c’erano due orribili fori rotondi di un paio di metri di diametro. “Sì, parché no ghe gera la bandiera bianca” giustificava qualcuno. Erano quelle frasi senza senso che qualcuno trovava, non si sa come, il modo di dire. Come qualche settimana prima quando Aldo Ferrato aveva dovuto andare al distretto militare per delle visite come richiamato. Il pomeriggio lo mandarono a casa anche col biglietto del treno per la località nella quale doveva presentarsi. Ma non obbedì all’ordine. Aspettava il treno per tornare a casa in stazione a Padova “nel posto sbagliato”. In uno dei numerosi e terribili bombardamenti sulla stazione padovana fu tra i tanti colpiti e uccisi, mentre due compagni, che erano a una decina di metri da lui, tornarono: “se el fuse sta visin ai amisi…” dissero molti.

“La guerra - dicevano - è finita”; ma a noi piccoli pareva di esserci ancora dentro. Solo due esempi: nei primi mesi del 1946 lo zio Bepi scrisse che stava per arrivare dalla Somalia e indicò anche la data dell’arrivo. La zia Olga lo aspettava rileggendo la lettera e facendo i conti dei giorni del viaggio: giorni che passarono invano, lo zio non tornava. Zia Olga entrò in una crisi che si dovettero allontanare i cugini. Ma, grazie a Dio, con un ritardo di un paio di settimane zio Giuseppe arrivò e la famiglia si ricompose finché, morti nel giro di pochi mesi i genitori di zia Olga, gli zii decisero di iniziare le pratiche per emigrare in Australia, dove dagli anni Venti c’erano i quattro

31Premessa

fratelli maschi della zia che erano scappati dall’altopiano di Asiago dopo la prima guerra mondiale che lo aveva distrutto.

Quel 28 aprile avevamo visto uscire del fumo anche dalla nostra scuola. I tedeschi avevano ringraziato dell’ospitalità appiccando il fuoco all’edificio. Ma noi non continuammo la vacanza. Durante l’estate la parrocchia offrì alle maestre Belluco e Vergani una delle due sacrestie dove quasi tutti gli alunni si recavano, alcuni al mattino e altri al pomeriggio, e per fortuna ci si alternava, perché quelli a cui toccava il pomeriggio uscivano da quella sacrestia in pieno sole, nonostante porta e finestre aperte, boccheggianti. A ottobre poi riprendemmo la scuola in due stanze di villa Italia a Lispida. La scuola fu pronta per l’ottobre 1946. Molti di noi osservavano come stava Marianna. La bidella sempre impeccabile, col grembiule nero lavato e stirato ogni giorno, stava al suo posto gentile e severa, premurosa ed esigente.Dario non era arrivato neanche quella notte… Dario che, quando era passato a salutarci già con la divisa militare pochi giorni prima che la mamma ci lasciasse, mi aveva alzato sulle braccia giocando come sempre. Non ritornò né si seppe mai dove e come era finito.

La lunga prigioniadi un marinaio

Estate 1942, imbarcato sull’incrociatore Taranto

TARCISIO BERTAZZO

Classe 1921Monselice – PD – Via Arzerdimezzo

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Memorie di guerra dal 1941 al 1946raccolte da Anna Scricco di Monselice,ricercatrice di storia italiana contemporanea

La mia famiglia

Sono nato a Monselice, il 23 dicembre 1921, in una famiglia numerosa con profonde radici cattoliche. Eravamo in dieci figli, cinque maschi e cinque femmine, io ero l’ottavo; dopo di me altri due fratelli maschi, Damiano e Camillo. Mia madre, Giuseppina Montesso, morì quando io avevo nove anni. La sorella di diciassette anni fece da mamma, oltre che a me, anche ai due miei fratelli più piccoli. Le mie tre sorelle maggiori avevano già preso i voti per essere suore e perciò vivevano in convento. Mio padre Federico, nato nel 1867 fu castaldo per le proprietà agricole che il conte Nani aveva a Monselice e nei dintorni. Mio padre, una volta andato in pensione, ricevette come compenso l’affitto privilegiato di undici campi, così tutti noi imparammo a lavorarli. Quando scoppiò la Grande Guerra, a nostro padre fu assegnato il ruolo di “territoriale”, cioè operaio nelle officine Galileo di Battaglia Terme, che funzionavano allo scopo di fornire armi ai nostri soldati al fronte. Con la ritirata di Caporetto quelle officine furono trasferite a Prato, così nostro padre dovette lavorare lontano dalla sua famiglia per oltre un anno. Papà Federico fu sempre per tutti noi un grande esempio di laboriosità, rettitudine e di forte senso della giustizia. Riusciva sempre a trovare il modo di incrementare il reddito familiare dei campi, siti in via Arzerdimezzo a Monselice, con una piccola attività commerciale di compravendita di prodotti agricoli. Tutti noi figli abbiamo frequentato, oltre le elementari, anche le tre classi dette “complementari”, che erano le sole scuole medie qui a Monselice. Mio fratello Espedito, del 1911, riuscì invece a diplomarsi insegnante elementare, andando a scuola in città. Espedito fu in seguito richiamato alle armi per andare a combattere, come soldato

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della sanità, nella Guerra d’Etiopia scoppiata nel 1935. Finita la guerra, non ritornò a casa, ma rimase in Africa. Un Monselicense che viveva in Kenya con la famiglia lo ingaggiò per l’educazione dei figli. Costui aveva una grande concessione inglese di circa 10 km quadrati di terreno ed era molto ricco; Espedito dopo due anni si stancò e ritornò a casa in famiglia. A Monselice trovò subito un altro posto di insegnante. Quando scoppiò il secondo conflitto mondiale, fu nuovamente richiamato e aggregato ad un gruppo militare che lavorava in un consolato italiano in Germania. Dopo l’8 settembre, giorno dell’armistizio, se ne ritornò in patria dal consolato con una motocicletta. Era una nuova moto Triumph, modello allora prestigioso, che era fornita di bandierina e documenti consolari: tutto questo gli tornò molto utile poiché, presentando la documentazione alle varie pattuglie tedesche che incontrò durante il viaggio di rientro, poté passare indisturbato ai controlli. Poi, fino alla fine della guerra, rimase sempre nascosto. Al termine delle ostilità, riebbe la possibilità di proseguire nel suo impiego di maestro.Per quanto riguarda gli altri miei fratelli, il più vecchio, Ottaviano, nato nel 1905, non fu richiamato e lo stesso avvenne per il più giovane, classe 1925; ma le cose andarono diversamente per il fratello Damiano. L’otto settembre del 1943 era soldato a Grado e qui trovò una famiglia che fu molto gentile con lui aiutandolo in modo determinante a raggiungere Monselice, dove visse nascosto per tutto il periodo della repubblica di Salò. Io invece, avendo intrapreso la vita del marinaio, rimasi assente da casa mia per ben quattro anni e mezzo.In famiglia tutti noi ragazzi avevamo assorbito in modo determinante l’orientamento politico di nostro padre: egli oltre che essere fervente cattolico, era anche un attento e convinto sostenitore del pensiero politico di Don Luigi Sturzo. Da sempre io avevo avvertito in casa che la dittatura fascista, con le sue manie smisurate di grandezza, avrebbe portato il nostro Paese alla rovina. In questo contesto familiare, noi figli siamo sempre rimasti estranei a qualsiasi organizzazione giovanile fascista. A nostro parere erano nate non per sviluppare i valori delle persone, ma solo allo scopo

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di mettere in luce esclusivamente le prerogative del capo, il Duce, come Mussolini si definiva. Era questo che papà ci aveva insegnato. Il Duce era sì un istrione dalle grandi doti di demagogo, ma non si rivelò saggio, come amministratore, per non aver saputo prevedere e provvedere alle future sorti dell’Italia.Quando venne il 10 giugno 1940, Mussolini dichiarò guerra alla Francia e ai suoi alleati. Ricordo chiaramente che mio padre, mestamente, disse allora: “Ormai tutto è finito!”

Marinaio

Ai miei tempi i ragazzi che avevano compiuto diciotto anni, ed erano in buone condizioni fisiche, dovevano partecipare per alcuni mesi all’anno fino al momento della loro chiamata alle armi, a dei corsi preparatori, per affrontare la vita militare. Erano i corsi del “premilitare” che si svolgevano al sabato, il cosiddetto sabato fascista. Queste esercitazioni consistevano in esercizi ginnici e lezioni sulla conoscenza e l’uso delle armi. Tutti i partecipanti venivano divisi in squadre comandate da militanti fascisti sempre in divisa, il cui unico intento era, alla fin fine, dimostrare ai vari gerarchi di essere perfettamente in grado di organizzare i giovani come i soldati delle caserme. Ai miei occhi quell’inutile perdita di tempo non piaceva, così cercai un modo per evitare questi allenamenti e riuscii a trovare una scappatoia: tutti coloro, che volontariamente chiedevano per iscritto di poter diventare marinai, non erano obbligati a partecipare alle marce premilitari, ma venivano invece addestrati nella conoscenza della vita in marina. Fu così che per tre anni frequentai, assieme ad una decina di miei coetanei, le lezioni di un marinaio, un sottufficiale in pensione. Ci raggruppavamo in una stanza della casa del fascio (ora trasformata in abitazioni) che sorgeva alla confluenza del Viale della Repubblica e via Galilei. Quel simpatico “capo” - così si definiva il suo grado - mi trasmise l’amore per la marina, le prime conoscenze delle navi e l’orientamento con le stelle. Passai la visita militare presso la Capitaneria di porto di Venezia e fui dichiarato abile.In marina vigeva la regola di chiamare alle armi il 15 dicembre dell’anno in cui il neo marinaio compiva vent’anni.

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Fu per questo che io partii per La Spezia il 15 dicembre del 1941: considerai questa regola la mia fortuna, poiché gli altri miei coetanei, che invece avevano scelto il “premilitare”, erano già partiti per la guerra e, destinati ai vari fronti, purtroppo, alcuni di loro erano già deceduti in battaglia.Io fui imbarcato sull’incrociatore “Taranto”, appena nominato nave ammiraglia della Forza Navale Speciale, comandata dall’Ammiraglio Tur. Con tale incarico il Taranto assunse il ruolo di incrociatore guardiacoste. Il Taranto, come seppi più tardi, costruito in Germania nel 1911, era stato ceduto all’Italia come preda bellica nel 1920. L’incrociatore fu subito sottoposto a un primo restauro nell’arsenale di Taranto, da cui il suo nome. Subì successivamente altre revisioni; in quella del 1936 le ciminiere, da quattro, furono portate a tre. Furono poi rafforzati gli armamenti tanto che nel 1940, all’inizio della guerra, il Taranto era una nave solida e ben armata. Aveva sette cannoni da 149/43 e due da 88/45 (il primo numero indica il calibro in millimetri, cioè il diametro della bocca da fuoco; il secondo è il coefficiente che, moltiplicato per il diametro, dà la lunghezza della canna: nel nostro caso, per esempio, la lunghezza della canna, in mm 149x43=6407, era pari a 6,407 metri). La nave aveva anche quattro lanciasiluri da 500, mitragliere antiaeree leggere e le sistemazioni per la posa di campi minati con una dotazione di 120 mine. Venni anche a conoscenza che il Taranto, prima del mio imbarco, aveva partecipato all’inizio del 1941 al bombardamento delle coste jugoslave, quando Mussolini aveva dichiarato guerra ai paesi balcanici, e che poi aveva anche collocato delle cortine di mine. Nei primi due mesi affrontai un intenso addestramento che mi garantì maggiore conoscenza della nave in cui ero imbarcato. L’equipaggio era di circa 500 marinai dei quali 15 erano ufficiali. Oltre all’Ammiraglio Tur, vi erano un Capitano di Vascello, che era il comandante dell’incrociatore, dei Capitani di corvetta e dei vari Guardiamarina. I graduati di truppa erano i nostromi, i capi, i sottocapi e i marinai scelti. La vita era disciplinata e stabilita da regole precise, ma tutto

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sommato non c’era niente di cui noi marinai potessimo lamentarci. Ogni cosa era di buona qualità a cominciare dal rancio.Divenni ben presto “marinaio scelto” e passai sotto le dirette dipendenze del comandante Tur, un incarico che svolsi per 8 mesi con altri sette compagni. A turni di quattro, espletavamo tutte le richieste del comando, per cui le nostre giornate non erano mai piatte e monotone. I nostri impegni erano vari: il più simpatico era quello di recarci nelle varie capitanerie di porto, dove arrivavamo durante le nostre perlustrazioni costiere, per consegnare o prelevare plichi, così si approfittava di questi incarichi per scendere a terra oltre ai permessi di libera uscita. Noi otto avevamo talvolta anche l’incarico di recarci nei locali più importanti della nave per portare dispacci, sia nella plancia – che era il centro direzionale dell’incrociatore –, sia sottocoperta, dove si trovavano le santebarbare delle munizioni.Talvolta nella nave venivano imbarcati i marinai della divisione San Marco per le esercitazioni, erano i marines dell’esercito italiano. Il nostro compito era di guardacoste e navigavamo dal mar Ligure a quello Adriatico, ad una velocità di crociera di 20 nodi e talvolta fino a 27. Una volta, sullo stretto di Messina, fummo attaccati da aerei angloamericani: subito entrarono in azione le mitragliere e riuscimmo così a non subire avarie. Nel nostro girovagare vedemmo anche i risultati della battaglia avvenuta nel Canale di Sicilia. Fu un combattimento feroce tra Inglesi e Italiani. Per la nostra marina fu uno sfacelo, centinaia di cadaveri venivano sospinti verso la costa, erano come pesci morti. Un altro momento di trepidazione fu quando costeggiammo la Grecia ed entrammo nel Canale di Corinto, perché la popolazione ci era da sempre fortemente ostile, ma fortunatamente non ci fu nessun incidente.Il 1942 fu per me, in complesso, un periodo abbastanza sereno perché vidi e toccai tutte le coste della nostra penisola. Come soldo ricevevo una decade di centodieci lire che provvedevo a inviare alla mia famiglia: io non avevo bisogno di niente perché ero fornito di tutto a sufficienza (Per i giovani preciso che la “decade” era il soldo

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militare distribuito ogni dieci giorni e che, per avere un ragguaglio col valore odierno, bisogna moltiplicare per mille). Anche la posta era regolare e, non appena facevamo tappa in qualche città, ricevevo sempre notizie dai miei cari e questo mi aiutava, mi sosteneva moltissimo. Io avevo instaurato con i miei commilitoni buoni rapporti. Talvolta i miei compagni mi prendevano affettuosamente in giro perché ero l’unico a possedere un orologio Roamer, una marca a quei tempi molto prestigiosae per questo mi veniva sempre chiesta l’ora esatta, tanto che poi andava trascritta nei vari diari di bordo. Ricordo con simpatia il capitano di corvetta Antonio Leonardi e un nostromo che continuamente ci suggeriva i vari metodi per evitare scottature di sole, o colpi di freddo che avrebbero potuto causarci dolori cervicali.Verso la fine del 1942, il Taranto, mentre mi trovavo a La Spezia, fu messo in disarmo e portato in un arsenale, la ciurma fu ridistribuita qua e là e io ricevetti l’ordine di raggiungere Lampedusa.

Lampedusa

Partimmo in treno in una quindicina di uomini, tra i quali c’erano due ufficiali guardiamarine e giungemmo a Trapani, in Sicilia. Da là, con il traghetto postale, passando per Pantelleria, sbarcammo a Lampedusa. Oggi è un nome noto per via degli sbarchi di extra comunitari, ma al tempo del mio racconto era una sperduta isola del Mediterraneo con pochi abitanti. Arrivammo quando il genio militare stava terminando le piazzole per i cannoni 149/43 e i depositi delle munizioni, il tutto costruito in cemento armato. Trovammo tanti altri soldati di varie armi. Tutti insieme eravamo qualche migliaio. La difesa, dislocata nei vari punti ritenuti strategici, era formata da due dozzine di cannoni prolungati, da mitragliere antiaeree e dalle armi individuali dei soldati presenti. Noi marinai per esempio avevamo solo delle pistole. Io fui addetto a una batteria costituita da quattro cannoni, completa di telemetri per il tiro, comandata da un capitano di artiglieria.Di tanto in tanto dovevo partecipare alle ronde di controllo.

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Ormeggiati nel porto c’erano solamente tre motosiluranti MAS e alcuni piccoli natanti; mancavano aerei e ogni sistema di avvistamento del naviglio nemico. La vita trascorreva calma e tranquilla, data la mancanza di ogni distrazione per la piccolezza della roccaforte. Il rancio era discreto, la corrispondenza arrivava e tutti noi ascoltavamo le notizie radiofoniche con la speranza che la guerra cessasse presto, considerando anche la scarsità delle forniture belliche di cui noi disponevamo.Verso il 10 giugno 1943 cominciammo a sentire rumori molto lontani, e di notte vedemmo fiammate all’orizzonte: gli Alleati stavano bombardando Pantelleria, isola a nord di Lampedusa. Pur essendo lontana da noi molti chilometri, noi sentivamo la terra tremare sotto i nostri piedi; fu un bombardamento tremendo, seppur durato poco più di un giorno. Alla fine Pantelleria si arrese.All’alba del 13 giugno 1943, noi di Lampedusa fummo destati dagli aerei angloamericani che stavano bombardando il porto e distruggendo ogni cosa. Subito dopo fummo letteralmente circondati da un gran numero di navi e di natanti da sbarco avversari. Il mare era punteggiato ovunque dalle sagome di navi di ogni misura con le loro potenti armi pronte per il tiro e lo si vedeva chiaramente guardando con i cannocchiali. Eseguendo gli ordini, iniziammo a sparare qualche bordata con i nostri cannoni, la mia batteria sparò per tre volte. Malgrado tutti insieme ci stessimo impegnando per la difesa, fin dall’inizio capimmo che tutto era inutile, una difesa vana, eravamo… un moscerino che cerca di affrontare un elefante: cessammo di sparare. Anche gli aerei nemici cessarono il fuoco, pur continuando a volteggiare sopra le nostre teste mentre i cannoni alleati tacevano; questo rappresentò per noi una fortuna, la nostra salvezza. I nostri nemici avrebbero potuto radere tutto al suolo facendo un vero e proprio massacro con pochissimo sforzo perché la nostra reazione poteva essere solo misera. Il comandante della nostra piazza, approfittando della sospensione dell’attacco, fece issare bandiera bianca in segno di resa e ordinò che noi gettassimo le nostre armi in mare.Assistemmo allo sbarco degli Inglesi. Costoro, dopo aver provveduto

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ai controlli, ci inquadrarono per poi farci salire cento per volta sui loro mezzi navali. Io fui fra i primi, dando ascolto al consiglio del mio capitano di partire subito, senza perdere tempo: forse pensava al detto chi primo arriva meglio alloggia. Ubbidimmo senza discutere, visto che i vincitori si dimostrarono rispettosi nei nostri confronti.Il nemico non ci bombardò,dopo aver riscontrata la nostra pochezza, vedendo in noi dei poveri diavoli gettati allo sbaraglio da Mussolini, privi di ogni via di scampo né per mare né in cielo e, soprattutto, sforniti di ogni mezzo adeguato di difesa.

Prigioniero degli Inglesi in Tunisia

Gli Inglesi iniziarono l’evacuazione di noi Italiani, servendosi delle motozattere da sbarco che avevano approntato per l’invasione dell’isola, se avessero trovato resistenza. Dopo qualche giorno, infatti, parecchi di quei natanti furono riempiti di prigionieri che partirono per varie destinazioni: io arrivai a Susa in Tunisia, gli altri in Marocco. Partimmo di sera e alla mattina seguente arrivammo. Subito ci misero in fila per fare il censimento: ci chiesero i dati anagrafici e il reparto nel quale eravamo inquadrati e ci dettero il numero di matricola che, se ben ricordo, era 73.467. Ci rifocillarono e poi, divisi in squadre, ci fecero salire sui camion trasportandoci in località Majaz-al-Bab.Era un campo di smistamento posto all’inizio del deserto: aveva tende, baracche di legno e tanto filo spinato. I soldati inglesi che facevano la guardia erano rispettosi verso di noi e ci trattavano in modo corretto, anche se distaccato.Il cibo era buono, solo che c’era tanto silenzio e tanto sole; l’unico svago era, oltre al tempo del rancio e del sonno, quello di chiacchierare o giocare. Per tenere vive le discussioni c’erano le notizie di radio Londra, che noi ascoltavamo con delle piccole radioline a galena, fornite di cuffie: anch’io me ne ero portata una da Lampedusa.Nessuno tentò di scappare. I motivi erano vari: le notizie erano discretamente rassicuranti sulla fine della guerra, ci trovavamo in prigionia nel deserto con tutte le sue incognite e gli Arabi del villaggio vicino, che di tanto in tanto vedevamo, si dimostravano ostili nei nostri confronti.

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Prigioniero dei Francesi a Ouina

Dopo qualche settimana di dolce far niente, gli Inglesi ci caricarono su camion portandoci a Ouina, poco distante da Tunisi, consegnandoci ai soldati francesi. Qui cominciarono i nostri guai.Il campo di concentramento, pur essendo ben delimitato da alti cavalli di frisia e posto entro un uliveto, era assolutamente privo di attrezzature. Era gestito da soldati veterani francesi, comandati da un graduato di truppa, e costoro, a ogni piè sospinto, ci rinfacciavano la pugnalata che Benito Mussolini aveva dato alla Francia il 10 giugno del 1940. Appena entrati cominciarono col dirci: Guardate bene questa porta, perché può darsi che non la vediate al ritorno, evidentemente volevano farci capire che potevamo morire prima di ritornare in patria. Eravamo circa 2500. Ci spogliarono di tutto quello che ritenevano utile per loro e, in cambio, ci diedero misere vesti vecchie e rattoppate che, sia sul dorso sia sul petto, avevano dipinte le lettere P.G., prisonniér de guerre, prigioniero di guerra.Tutti noi che provenivamo da Lampedusa eravamo pieni di ottimo vestiario poiché l’avevamo tolto dai depositi militari immediatamente dopo la nostra resa. Perdemmo tutto, ci lasciarono solo un telo da tenda ogni quattro che usammo per ripararci. Nel campo trovammo solo un rubinetto d’acqua e una lunga fossa che serviva da servizi igienici e che poi risultò troppo vicina alle nostre tende. Si viveva, si mangiava e si dormiva immersi in un odore nauseabondo. Il cibo che ci davano era tanto scarso che, in poche settimane, gli ulivi rimasero quasi senza foglie! Ci davano una pagnotta da dividere in otto, un pugno di riso, una cucchiaiata di grasso, un pomodoro da dividere in due e alcuni grani di fave. La razione d’acqua che ci concedevano era di solo mezzo litro al giorno, che dovevamo usare per bere e lavarci. Fummo sottoposti a un supplizio non degno della civilissima Francia.Cominciarono a regnare la sporcizia, il degrado fisico e le malattie. Fu un periodo infernale. Che i Francesi volessero punire gli Italiani, che apostrofavano sempre come fascisti, lo dimostrava anche la diversa situazione in cui si trovavano i cinquecento soldati tedeschi che erano in un campo di prigionia vicino al nostro: essi avevano

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a disposizione tre rubinetti d’acqua, e i loro servizi igienici erano lontani dalle tende dove dormivano. Fortunatamente per qualche centinaio di persone c’era la possibilità di andare a pulire la città di Tunisi, dove si subivano parecchie invettive giornaliere, ma avendo nel contempo la possibilità di elemosinare pane e acqua. I generosi erano gli Italiani che si erano stanziati in Tunisia prima della guerra fascista. Costoro cercavano, di nascosto dalle guardie arabe, di offrirci pane e acqua. Io non andai mai a fare lo spazzino perché il mio unico intento era uscire in modo definitivo da quell’inferno; per questo ero sempre attento e vigile a controllare se vi era una via d’uscita.Intanto, prima lentamente poi a frotte, parecchi di noi deperirono e si ammalarono; costoro venivano inviati, di volta in volta, all’ospedale militare di Tunisi gestito dagli Americani. I medici di quell’ospedale vollero capire il perché di tutti quei ricoveri, così arrivò una loro commissione nel nostro campo.Era il fatidico 25 luglio 1943, giorno della caduta di Mussolini. Certamente quei medici americani rimasero sbalorditi perché, il giorno dopo, arrivarono camion con attrezzature ed operai. Il 29 luglio 1943 il campo era trasformato con baracche, cucine, acqua e servizi igienici: proprio in quel giorno io partii per lavorare in un’azienda agricola.Era successo che, quando i Francesi ci avevano tolto il nostro equipaggiamento, io riuscii a non farmi requisire il mio orologio Roamer, fu così che pensai di scambiarlo per un aiuto. Nel nostro campo, comandato da un maresciallo francese, vi erano anche sottufficiali italiani, responsabili dell’ordine interno e della redazione dei vari elenchi dei prigionieri che volevano lavorare come spazzini in qualche luogo. Arrivò anche la richiesta di quaranta lavoratori da una grossa azienda agricola sita a Potainville, distante circa venti chilometri: erano stati richiesti un imbianchino e contadini esperti nella coltivazione di vigneti e uliveti. Io, che avevo già contattato il nostro preposto, subito mi offrii come imbianchino. Fu così che barattai l’orologio, che mi ero tenuto caro, per essere inviato in campagna assieme ad altri due grandi amici.

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Fui accontentato in parte perché il responsabile riuscì ad includere solo un amico friulano; l’altro, che era piemontese, se l’ebbe a male, anche se non fu colpa mia la sua mancata inclusione nell’elenco di uscita.

Potainville

Arrivammo in camion al villaggio. Io mi ambientai subito, soprattutto grazie alla buona qualità di cibo, ma anche perché finalmente avevamo la possibilità di dormire in case pulite, su dei letti a castello a due piani. La tenuta agricola era grande e ben fornita di ogni servizio e ben tenuta. Aveva un’ampiezza di dieci chilometri quadrati, cioè mille ettari: aveva stalle, magazzini e case. Laggiù vivevano la famiglia del proprietario Carl Potain, il capo guardia francese, parecchi inservienti arabi, addetti alla sorveglianza degli animali, noi italiani appena assunti, e infine qualche nostro connazionale ivi residente da prima della guerra.Nella tenuta venivano prodotti oltre mille ettolitri di vino, parecchi altri di olio d’oliva. Pascolavano greggi di pecore e capre, cavalli per i guardiani, e oltre duecento muli, destinati al lavoro nei campi.Il territorio di quella fattoria terminava verso il mar Mediterraneo, la cui spiaggia sabbiosa era separata da noi dalla linea ferroviaria e dalla strada che collegavano Tunisi a Susa.Su quei confini, in riva al mare, vi erano cumuli lunghi chilometri, dove erano state ammassate enormi cataste di attrezzature americane, non molto custodite. Vi si poteva trovare tanta utensileria e ricambi d’ogni genere: non avevo mai visto un’ammucchiata di materiali così enorme. Subito Radio Scarpa, il nostro passaparola, sentenziò: L’America è così ben fornita di tutto, che è praticamente impossibile sopraffarla: solo i megalomani di Hitler e Mussolini potevano sperare di vincerla!Non molto distante dal luogo dove eravamo noi, verso ovest, sorgeva la cittadina di Amamelift che, in seguito, sarebbe divenuta una tappa importante nei nostri andirivieni. Questa località era ricca di bazar, generalmente gestiti da Ebrei che vivevano in buoni rapporti con la popolazione araba, circolavano anche parecchi Francesi, Tunisini e vari civili italiani quivi emigrati già nel periodo precedente la prima guerra mondiale. Sulle prime noi prigionieri italiani, trovammo difficoltà nell’instaurare

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relazioni sociali, sempre a causa della pugnalata mussoliniana, ma con l’andar del tempo la maggior parte dei residenti capì che tutti noi non eravamo fascisti convinti, cioè militari pronti a tutto per Mussolini, ma solo dei poveri diavoli mandati allo sbaraglio sui vari fronti di guerra.A Potainville ho fatto molti lavori tra cui, come detto prima, l’imbianchino. Per un certo tempo fui impiegato come muratore, poi come metallurgico e anche come infermiere: mi adattavo a fare qualsiasi mestiere per tirare avanti, per poter sbarcare il lunario il meglio possibile. L’unico cruccio era la posta: non ho mai ricevuto nessuna risposta da casa, ma è vero che io non ho usato tutte le lettere di franchigia che ci venivano distribuite, forse perché ero più impegnato nel trovare lavori allo scopo di poter raggranellare del denaro e usarlo anche per le necessità giornaliere.Fra tutte quelle persone che abitavano nel villaggio di Potainville e nella cittadina vicina ne ricordo diverse che, per un verso o per l’altro, hanno influenzato certi episodi della mia prigionia.Rammento con piacere un muratore di origine siciliana, forse nato laggiù, col quale io ho lavorato, che mi trattava con umanità e simpatia. Ogni mattina mi portava latte e caffè con pane, dicendomi sempre: Bertaccio, (storpiando il mio cognome) è un brava e buona persona e un gran lavoratore. Ho conosciuto anche due autisti civili, nostri compatrioti che lavoravano in Africa i quali dopo la sconfitta dell’Asse, furono internati nel 1943. Costoro in Italia erano autisti della ditta veneta Domenichelli che, con altre società dedite ai trasporti su gomma, avevano subita la militarizzazione assieme agli automezzi, visto che mancavano i camion dell’esercito, onde mantenere i contatti fra le retrovie e i vari fronti di battaglia. Uno di questi autisti era un Padovano che lavorò come conducente per un po’ di tempo; in seguito fu mandato a lavorare in una fabbrica meccanica, lontana dalla sua residenza, da dove rientrava solo il sabato.Ad attenderlo c’era una ragazza siciliana, la cui famiglia era giunta colà nel 1800. Costoro alla fine si sposarono, ebbero un bambino e dopo il rimpatrio, a guerra finita, si trasferirono a Montegrotto Terme. Attualmente la signora, ora vedova e quasi novantenne, sta bene e ci manteniamo di tanto in tanto in contatto telefonico.

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Per quanto riguarda il secondo autista che io conobbi, era di provenienza piemontese e divenne inserviente presso una famiglia dell’alta borghesia francese, formata dalla madre con due figli piccoli. Il padre ufficiale era prigioniero in Germania. Siccome la signora era priva di notizie del marito, aveva preso l’abitudine di farsi portare dal suo autista presso il comando generale americano, che si trovava nel campo d’aviazione di Cartagine, città famosa per la sua storia, situata ad una trentina di chilometri di distanza dal golfo di Tunisi.Questa donna si era autoconvinta che i servizi aerei americani e la loro intelligence avrebbero potuto darle qualche notizia del marito.Nel campo di Cartagine erano rinchiusi anche centoventi militari miei connazionali, ai quali era stata affidata la mansione di tenere pulito il sito. Erano trattati molto bene, avevano a loro disposizione cibi e vestiti ed era stato loro concesso di poter utilizzare, anche per mezza giornata, gli automezzi degli Americani per spostarsi nelle vicinanze in caso di bisogno o per svago. Nacque un forte collegamento fra i prigionieri del campo d’aviazione e noi internati presso i Francesi. Ben presto iniziammo a scambiarci merci: noi davamo prodotti freschi della terra, loro ci portavano scatoloni ricolmi di cibarie e di vestiario. Quello che noi offrivamo era frutto di piccoli furti, fatti un po’ alla volta per non farci scoprire; al contrario gli altri prelevano le merci col consenso degli addetti ai magazzini. La merce che loro ci chiedevano con maggior frequenza era il vino e così io e i miei amici, non appena potevamo, preparavamo delle taniche piene di vino che poi nascondevamo fino al momento dello scambio.Ormai tra noi di Potainville avevamo creato un piccolo gruppo solidale, per cui ci scambiavamo e dividevamo tutto. Aiutandoci tutti insieme, contribuimmo a gestirci delle piccole scorte di cibo. Ricordo che io, imbianchino, ero stato incaricato di tinteggiare le cantine ove si trovavano le botti di vino. Vi salivo sopra per imbiancare il soffitto e, contemporaneamente, introducevo nello sportello superiore di una delle botti, una lunga canna facendola poi passare all’esterno del locale attraverso la finestrella di ventilazione. La canna così giungeva a un mio compagno il quale, con il vino prelevato, riempiva le taniche.Faccio una piccola digressione per ricordare che alcune persone

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fondamentali per quegli scambi, come l’autista della signora francese e un sergente maggiore che coordinava il mio campo, furono poi gli organizzatori di una fuga rocambolesca che coinvolse sedici di noi di Potainville, ma di questo parlerò meglio più avanti. Ora ho ancora tanto da raccontare della mia vita nella fattoria.A Potainville era stata adibita a chiesetta cattolica una saletta, così coloro che si sentivano urgere in seno i principi religiosi, quasi ogni domenica, potevano assistere alla messa, celebrata da un sacerdote francese. Noi Italiani abbiamo anche cominciato a confessarci da quel religioso, ma non sempre lui ci capiva, così finiva per dirci: Parlate pure l’italiano, perché Dio conosce tutte le lingue.Là erano parlati prevalentemente francese e arabo. Noi imparavamo abbastanza bene la lingua francese sia perché leggevamo i quotidiani sia perché ascoltavamo trasmissioni radiofoniche in lingua.Algeria, Tunisia e parte del Marocco erano colonie appartenenti alla Francia e pertanto si parlava francese e la moneta usata era quella francese anche se, accanto a queste, gli Arabi avevano mantenute una propria lingua e una propria valuta. Un giorno, lavorando la terra col piccone, mi infortunai un piede: sbadatamente mi ferii con la punta. Il responsabile di Potainville mi mandò all’ospedale della vicina città su di un calesse guidato da un Arabo. Mi disinfettarono, applicarono un cerotto sulla ferita e mi fecero una puntura antitetanica sul ventre. Mi dimisero subito, ma appena fuori dall’ospedale svenni. Il mio accompagnatore fu pronto a trasportarmi in una farmacia vicina. Mi dettero da bere una pozione che mi fece sentire subito meglio, in poco tempo mi ristabilii. Il farmacista mi trattenne là per un po’ di tempo, per controllarmi il polso e nel frattempo parlandomi, scoprendo che ero un Italiano, iniziò anche lui a parlare nella mia stessa lingua. Raccontò che durante il fascismo era arrivato in quella città per dirigere la farmacia che aveva acquistato. Iniziata la guerra gli confiscarono la farmacia e lo internarono. Fu sostituito da un farmacista francese e lui divenne inserviente. Quest’incontro fortuito mi portò giovamento perché col farmacista ben presto fraternizzammo.

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Un giorno, mentre rientravamo in gruppo dal lavoro, dal campo militare francese vedemmo uscire una delegazione di autorità. Fummo invitati a disporci in fila sull’attenti dal caposquadra che ci indicò, fra loro, il generale De Gaulle. Il generale si fermò, ci rivolse alcune domande sulla nostra provenienza e sulla nostra situazione; ci esortò a lavorare e a essere disciplinati, in questo modo avremmo avuto garantito un buon trattamento da parte delle autorità francesi; infine ci chiese cosa pensassimo di Mussolini, ovviamente nessuno di noi espresse giudizi positivi, io feci un gesto a indicare che meritava di essere eliminato. Il generale sorrise e ci disse che ormai la guerra volgeva al termine e che presto saremmo tornati a casa. Era il maggio del 1944.La mia vita nel villaggio dell’azienda agricola durò fino al marzo 1945, e posso dire che fu tutto sommato soddisfacente, vivendo però sempre alla giornata senza scopi prefissati. Seguivo l’andamento del conflitto ma senza forte interesse. Passarono i giorni, venne l’armistizio dell’8 settembre, seguito da varie altre battaglie, ma niente di tutto questo mi risvegliò l’entusiasmo: mi ero appiattito, pensavo solo a rimanere sano di corpo e di mente e alle mie iniziative lavorative, fatte per distrarmi un po’ e per procurarmi quello che ritenevo necessario per me.

L’industriosità italiana a Potainville

Anche se noi reclusi a Potainville venivamo remunerati per il nostro lavoro esclusivamente con vitto e alloggio, ben presto riuscimmo ad avere dei soldi. Tutti noi facevamo qualche attività secondaria che ci dava la soddisfazione di ottenere del denaro per poterci comprare quello che volevamo. Io ne sviluppai principalmente due: una imparata da commilitoni bergamaschi, l’altra nata per caso, che riuscii a sviluppare in modo autonomo e segreto.In Tunisia, allora colonia francese, circolavano le monete metalliche da un franco, coniate negli anni 1920-22. Erano dei dischetti fatti con una lega un po’ malleabile, che rimaneva sempre lucente senza ossidarsi; si diceva che oltre al rame ci fosse anche un po’ d’oro. Il fatto era che quelle monete si prestavano molto bene ad essere trasformate in anelli, che erano ben ricercati dagli Arabi. Alcuni Bergamaschi, che

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da civili lavoravano come operai metallurgici, trovarono il metodo per ricavarne anelli, lavoro che io subito imparai alla perfezione. Questo singolare lavoretto era tuttavia lungo e necessitava di tanta pazienza: svolto con pochi e semplici utensili, si sviluppava in tre fasi successive. La prima era praticare un foro centrale sulla moneta, creato con l’ausilio di un dado che serviva da incudine: sopra si poneva la moneta, si procedeva poi col martello battendo piccoli colpi su un punzone con la testa piatta posto al centro della moneta e in corrispondenza del foro del dado, girando e rigirando la moneta, si riusciva così a forarla. La seconda fase prevedeva di fare in modo che l’anello potesse infilarsi nelle dita del committente. Per ottenere questo dapprima si prendeva la misura del dito con dei cerchietti, poi si infilavano le corone metalliche ottenute nella canna di un vecchio moschetto tunisino che era troncoconica. Battendo ogni corona e girandola ininterrottamente, questa si abbassava lungo la canna e si poteva ottenere il foro desiderato. La terza fase consisteva nell’eliminare le piccole sbavature usando tela smerigliata, e infine nel lucidare per bene l’anello, utilizzando uno straccio imbevuto di polvere di carbone vegetale. I vari utensili adoperati li avevamo presi dai mucchi di provviste che gli Americani avevano accatastato ai confini dell’azienda agricola.Questa piccola attività si rivelò assai proficua, nonché un piacevole passatempo per tutti noi, poiché ricevevamo da 10 a 15 franchi per ogni anello. Capitò un giorno che venne da me un ragazzino dandomi una moneta e chiedendo in cambio l’anello. Gli misurai il dito e lo informai di tornare alla sera con 10 franchi. Non appena guardai la moneta mi accorsi che era un marengo d’oro di Napoleone. Che fare? Ormai mi ero abituato a pensare e a fare solo in modo egoistico, così presi un franco francese e mi misi di gran lena al lavoro; la sera dopo l’anello era pronto; il ragazzetto venne a prenderselo, mi diede dieci franchi e a me rimase il marengo! Andai dal mio amico farmacista, che me lo fece vendere per 15 franchi. Un noto proverbio dice l’occasione fa l’uomo ladro, anche se io,

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intimamente, mi sentivo giustificato, considerate le ristrettezze in cui vivevo.Il secondo affare nacque per caso. Chiaccherando con gli Arabi, uno di loro mi parlò di un suo giovane figlio che si era ammalato. Io che avevo vissuto in una famiglia numerosa, dove di tanto in tanto qualcuno si doveva curare per qualche malessere, avevo finito per imparare tanti metodi empirici tradizionali che davano risultati positivi per piccoli malanni. Quella volta mi informai bene dei sintomi e gli diedi dei consigli pratici, semplici da applicare. In poco tempo il ragazzo guarì del tutto, fu così che per il padre divenni un infermiere provetto. Quell’Arabo fece evidentemente il passaparola visto che altri Arabi cominciarono a chiedermi consigli per i malanni dei loro figli. Senza volerlo ero diventato un infermiere che gratuitamente dava suggerimenti di spicciola medicina. Venni chiamato anche a consulto. Mi comprai dall’amico farmacista un termometro. Cominciai ad usarlo al capezzale di qualche giovane. Fu così che con questa trovata alla fine divenni un quasi medico… ricompensato con grandi abbuffate di cibi prelibati. A noi internati veniva distribuito gratuitamente, ogni mese, un tubetto di vetro con quindici pastiglie di chinino, poiché la zona era considerata malarica. Noi Italiani non ne facevamo grande uso, così avvenne che avevamo accumulato in deposito del chinino. Queste pastiglie non avevano sempre lo stesso colore, ce n’erano di gialle, rosse, viola, arancione, così pensai di sfruttare la colorazione diversa per fare delle medicine. Scioglievo il chinino con poca acqua e tanto zucchero, in modo da creare pastiglie di colori diversi. Poi facevo delle piccole sfoglie dello spessore di quattro cinque millimetri che incidevo con il tubetto di vetro, contenitore del chinino, realizzando dei dischetti che lasciavo indurire: questi erano i miei piccoli rimedi per curare modesti malanni. Ogni volta che venivo chiamato, partivo con un piccola custodia, ove ponevo il termometro e delle scatolette con dentro le pastiglie di diverso colore. Per prima cosa davo dei consigli, poi distribuivo le pastiglie, scegliendole fra i vari colori, a seconda delle persone che avevo davanti. Sono stato davvero fortunato: la popolazione era contenta

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e mai nessuno si è lamentato dei miei metodi a base di chinino e zucchero!Io però facevo tutto gratuitamente e con circospezione, allo scopo di evitare noie con le autorità, tanto che non ne parlai neanche con gli amici commilitoni, anche se proprio da loro compravo il chinino.Se mi chiedevano spiegazioni, dicevo che poi l’avrei regalato ai poveri. Per gli Arabi ero in pratica diventato uno specialista e spesso, a guarigione giunta, per ringraziarmi mi invitavano a pranzo. Per queste occasioni mi ero attrezzato col mio cucchiaio della gavetta, che tenevo sempre infilato nel taschino della camicia, e che io usavo, mentre gli Arabi per mangiare adoperavano semplicemente le mani.

La fuga

Anche se a Potainville si stava abbastanza bene, il pensiero principale di tutti era quello di riuscire a tornare a casa. Era così importante che, per almeno sedici di noi, fece l’effetto di una molla propulsiva, dandoci il coraggio per tentare di scappare, costasse quel che costasse, per raggiungere i nostri cari il più presto possibile.Come già detto, noi che eravamo rinchiusi nella tenuta agricola, avevamo instaurato un proficuo rapporto con gli Italiani inservienti nel campo d’aviazione di Cartagine. Coloro che tenevano i maggiori contatti, tessendo una profonda amicizia, erano l’autista della signora francese unitamente al sergente maggiore che coordinava il nostro gruppo di Potainville. Erano in continua relazione con quei prigionieri di Cartagine che andavano a fare delle pescate notturne nel Mediterraneo per rifornire di pesce fresco la mensa degli Americani. Quei pescatori, per uscire in mare aperto, avevano a disposizione un veloce natante fornito di un motore di novanta cavalli e accessoriato di grandi serbatoi contenenti carburante sufficiente per compiere più uscite in mare. Arrivò metà marzo del 1945 e gli Americani iniziarono ad approntare tutti gli armamenti, per partire al più presto verso l’Italia. Quella partenza era necessaria per presidiare l’Italia liberata, mentre continuava la lotta per cacciare i Tedeschi dal nord Italia.

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Tutti noi di Potainville eravamo impazienti di raggiungere il sud della Patria ormai libera. Fu così che nacque un accordo fra i pescatori e il nostro gruppo: loro ci avrebbero lasciato la barca arenata sulla spiaggia, ai confini dell’azienda agricola, noi di notte saremmo partiti verso l’Italia. La sera prestabilita per la nostra fuga ci muovemmo in sedici, tra cui l’autista e il sergente maggiore che erano gli artefici principali degli accordi, riunendoci sul natante. Per disincagliarlo avevamo portato due binde (martinetti a cremagliera, ora completamente oleodinamici) e del legname. Dopo qualche sforzo riuscimmo a partire, era notte fonda. Noi sedici ci eravamo portati dietro uno zaino per essere forniti dell’essenziale per scappare, mentre avevamo lasciato sui nostri letti la parte più pesante delle cose di nostra proprietà. Io poi avevo raccolto e messo in un sacchetto i franchi che erano in via di essere trasformati in anelli e i piccoli attrezzi che avevo usato per lavorare; gettai tutto sul tetto di un capannone: era meglio disfarsi del materiale che scottava, perché, se fosse stato trovato, le autorità avrebbero inflitto gravi punizioni al colpevole. Infatti, quei lavori che facevo erano paragonabili a quelli di un falsario.Salimmo sull’imbarcazione con i serbatoi pieni, con la speranza di anticipare il rientro in Italia. Purtroppo il diavolo ci mise lo zampino. Dopo un po’ di navigazione, il natante cominciò a girare su se stesso perché si era rotto il timone: il guasto era senz’altro successo durante il disincaglio e fu un danneggiamento involontario. Ci assalì la disperazione, poi piano piano accettammo il malanno e ci demmo daffare per il ritorno alla spiaggia di partenza. Ci aiutò la risacca, ma alla mattina approdammo distanti una quarantina di chilometri da Potainville. Fummo, purtroppo per noi, subito avvistati da un Maltese che risiedeva proprio là dove ci eravamo arenati. Costui mostrandosi amichevole, ci fece molte domande, mentre noi imbufaliti ci mettemmo in cammino. Tornammo ai nostri letti ormai che era sera, tuttavia nessuno ci rivolse qualche osservazione. Mangiammo e andammo a riposare. La mattina dopo fu un amaro risveglio. Vennero i soldati francesi del corpo di guardia della cittadina: malauguratamente sapevano

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molte cose su di noi poiché erano stati avvisati dal Maltese. Il primo a essere preso fu l’autista della signora francese, forse perché aveva detto troppo a quel Maltese; da lui vollero sapere tutti i nostri nomi. Al suo rifiuto lo picchiarono e solo allora li rivelò, tranne quello del sergente maggiore, per evitargli una sicura e pesante incriminazione, molto più di quella destinata a noi, essendo lui l’unico graduato del gruppo.L’autista riuscì ad avvisarci sull’accaduto e su cosa aveva confessato: noi ci accordammo di ripetere tutti la stessa cosa, qualora ci avessero interrogati per evitare di tradirci a vicenda.

Il ritorno ad Ouina

I soldati ci portarono al campo base di Ouina, da dove eravamo partiti un anno prima. Là ci tolsero le cose migliori del nostro equipaggiamento, lasciandoci solo l’indispensabile: noi mogi mogi fummo subito portati in prigione: era iniziato l’aprile 1945, proprio il mese fatidico della liberazione totale dell’Italia. Fu in quell’occasione che scoprirono e mi sequestrarono il diario che io avevo redatto con cura, giorno dopo giorno. Il campo aveva ormai una buona organizzazione, anche se per noi sedici era diventato una prigione.Il carcere era formato da varie tende, circondate da cavalli di frisia e contenute in un riquadro ricavato entro il grande campo base. Il bello di quella faccenda era che noi vi eravamo entrati immediatamente dopo che le prigioni erano state svuotate per un indulto in occasione della Santa Pasqua avvenuta il 1° aprile.Il responsabile francese, un anziano maresciallo dell’esercito, ci interrogò ancora, intenzionato com’era a scoprire chi fra noi fosse stato l’ispiratore ed avesse organizzato il tutto. Noi mantenemmo la stessa linea come d’accordo: era stata un’idea collettiva, volevamo solo tornare a casa.Dapprima incolpò il sergente maggiore, poiché era l’unico graduato, poi me e un altro marinaio, perché diceva che eravamo i soli ad avere cognizioni di orientamento marittimo; tutti però ripetemmo ciò che avevamo dichiarato fin dall’inizio.

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Questo nostro atteggiamento forse fece diminuire la gravità e la durezza del nostro castigo, che tuttavia si mutò in una maggior durata della prigionia, mentre diversi nostri compagni venivano rimpatriati. Durante lo svolgimento degli interrogatori mi capitò un evento emozionante che riuscì a consolarmi malgrado la sventura capitatami. Un giorno guardavo fuori dalla tenda coloro che passavano per dirigersi alla vicina biblioteca. A un tratto vidi di spalle un prigioniero italiano che stava leggendo dei manifesti, fissati all’esterno della biblioteca, scritti in lingua italiana. Lo apostrofai, dicendo: Capo, cosa c’è scritto? Il soldato si voltò, si avvicinò, ci riconoscemmo subito: era l’amico Giuseppe Mascotto che abitava a Monselice in via Valli. Fu per entrambi un grande lampo di gioia! Subito feci chiamare il capo campo italiano, a cui ci rivolgevamo per le nostre richieste, e chiesi di farmi uscire per abbracciare l’amico ritrovato. Il capo campo, che era un maresciallo dell’esercito, mi rispose che non era possibile ma che tuttavia avrebbe consentito che fosse Giuseppe a venire da me, almeno per un po’ di tempo. Subito Giuseppe accettò senza pensarci: facemmo una lunghissima chiacchierata abbandonandoci ai ricordi e scambiandoci notizie sulle rispettive disavventure. Giuseppe era uno di quelli che avevano fatta la ritirata in Libia ed era stato fatto prigioniero dagli Inglesi. Mi raccontò che poi furono consegnati alle forze francesi che, servendosi di soldati arabi, li fecero marciare a piedi per ben cinquecento chilometri fino ad Orano. Raccontò che fu una marcia infernale sotto il sole cocente, spesso senza acqua. Parecchi morirono sfiniti o uccisi per strada, poiché l’autorità francese fu ferocemente inflessibile con quei poveri Italiani, sempre per il solito motivo, la già ricordata pugnalata. A posteriori mi viene ancora da dire che le ritorsioni francesi su noi soldati ormai vinti furono del tutto inutili protervie verso chi, a sua volta, aveva subito l’arroganza di Mussolini dittatore. Il Mascotto non riuscì mai a riprendersi fisicamente in modo completo da quella micidiale marcia e, alla fine, il comando francese acconsentì a rimpatriarlo per malattia: per questo era stato portato nel campo di concentramento vicino a Tunisi per l’imbarco.

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Mentre eravamo in prigione giunsero altri prigionieri, pure loro rinchiusi in campi di punizione francesi. Era evidente che Ouina era un punto di concentramento per un successivo trasferimento.Infatti fu così che ci caricarono, quaranta alla volta, su otto vagoni merci e ci spedirono a Marrakech, in Marocco, ove arrivammo dopo un viaggio estenuante, durato una settimana. Fu un percorso faticoso, dovendo stare sempre chiusi nei vagoni, senza finestre, ma solo con piccoli fori in alto. Ci davano sì da mangiare e da bere, però in tutto il viaggio ci permisero di scendere solamente due volte, per sgranchirci le gambe. Quei vagoni diventarono ben presto puzzolenti e sudici, come del resto accadde anche a noi. Ricordo bene quando sostammo a Casablanca: era il 25 aprile 1945. Il treno era stato fatto deviare temporaneamente verso il deposito del Campo di Marte. Ci sdraiammo sui binari per distendere gli arti ormai un poco intorpiditi. Dopo un po’, passò di là un venditore di giornali; ne comprai uno, spendendo soldi tunisini, e lessi che gli Alleati avevano oltrepassato il Po, ed erano entrati nel Veneto. Subito alzammo grida di gioia: che felicità, che bellezza nel sapere finalmente libera la nostra Patria! Si va a casa! Non sapevamo ancora cosa ci aspettava!Il giorno seguente giungemmo a Marrakech.

A Marrakech

Era il 26 aprile del 1945. L’ufficiale dell’esercito francese, che comandava la nostra scorta di soldati arabi, consegnò tutti i documenti di viaggio al responsabile del nuovo campo che era un maresciallo francese, coadiuvato a sua volta da un altro suo pari appartenente all’esercito italiano. Nel nuovo sito trovammo altri Italiani e tanti stranieri, così da raggiungere il numero di circa seicento prigionieri. Eravamo accampati al seminterrato di un ospedale costruito fino al grezzo, perché i lavori erano stati sospesi a causa della guerra. Anche lo scantinato non era completo, mancavano diverse cose, come il pavimento, ma almeno eravamo riparati dal sole e dalle intemperie. Purtroppo però lo trovammo pieno zeppo di parassiti:

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il calore e la mancanza di accurate pulizie davano come risultato, in questi posti assolati, il proliferare delle cimici.Il trattamento verso di noi tuttavia era discreto e la sorveglianza non rigorosa. Chi voleva lavorare poteva farlo tranquillamente, bastava farsi iscrivere negli elenchi giornalieri redatti dal responsabile italiano. Mi iscrissi anch’io per poter lavorare e ricevere qualche aiuto dalla popolazione. Si usciva a gruppetti, scortati da soldati arabi e si andava a cercare impiego ai mercati locali, oppure al cimitero francese (gli arabi ne avevano uno per conto proprio). Al mercato si facevano le pulizie e si provvedeva al trasporto delle derrate, così sempre si riusciva ad avere in cambio qualche cibaria per completare il rancio. Al cimitero si pulivano le tombe, si annaffiavano i fiori e per questo lavoro c’era sempre qualche buona persona che ci ricompensava con delle monete che poi usavamo per le compere.Dal trattamento che noi fuggiaschi ricevemmo, capimmo che alla fin fine non avevamo ricevuto nessuna pena specifica: e questo ci rallegrò. Eravamo considerati solamente prigionieri di guerra.Fra di noi vi erano anche dei laureati che da civili erano insegnanti di lingua inglese. Costoro cominciarono a far corsi per farci conoscere quella lingua. Io mi iscrissi e cominciai le lezioni dalle quali in fondo mi sentivo gratificato, perché così aumentavo le mie conoscenze. Dopo aver imparato per necessità la lingua francese, potevo apprendere anche quella inglese.Passati circa due mesi ci fu la richiesta, fatta al capo campo, di otto operai meccanici e contadini: sette subito risposero di sì, mancava l’ottavo. Dato che io mi ero fatta la fama di abile meccanico, quei sette vennero a propormi con insistenza il lavoro. Sulle prime fui reticente, poi indeciso e alla fine cedetti; mi convinsero che nei campi, all’aria aperta, la vita sarebbe stata migliore. Per di più non era che a me piacesse la vita del campo di Marrakech, tuttavia trovavo interessanti le lezioni di inglese. Fu così che anch’io mi recai a Teroudant.

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Taroudant

Eravamo stati ingaggiati da una famiglia belga che aveva una decina di ettari coltivati a orti e frutteti. Quella zona era sotto la giurisdizione di Agadir, città posta al di là della catena montuosa dell’Atlas.Venne a prelevarci una signora di mezza età, perché il marito era agli arresti domiciliari, punito come collaborazionista con i tedeschi. Venne con una corriera postale e ci portò via con altra corriera che faceva il cammino inverso. Da quel momento la responsabilità di tutti noi otto fu di quella signora che, da subito, si mostrò dura nei nostri confronti. Ci fece salire non dentro la corriera, ma sopra dove c’era una piattaforma per legare i bagagli: era la fine di luglio del 1945. Partimmo di mattina presto e arrivammo a destinazione verso sera. Attraversammo la catena montuosa dell’Atlas, punteggiata di neve, fermandoci di tanto in tanto in miseri villaggi. Noi mangiammo e bevemmo quel poco che ci eravamo portati dietro. Ad attenderci c’era il marito, il sig. Fritz e due bambini. Ci assegnarono un ricovero discreto e il cibo si dimostrò fin da subito buono ma di quantità ridotta, tanto che poi si doveva rubacchiare qualche prodotto agricolo per completare la dieta.Il lavoro più importante e faticoso era l’irrigazione. Un’abbondante quantità d’acqua e il molto sole che splendeva davano ottimi risultati. Io e il toscano Giuseppe Magazzini, aiutati saltuariamente da un altro, eravamo gli addetti ai motori di pompaggio. Il più potente era a vapore, l’altro a scoppio.Il motore a vapore era vecchio e aveva bisogno di una continua manutenzione. I serbatoi del vapor acqueo erano lesionati qua e là e noi, per turare le falle, dovevamo arrangiarci a tamponarle con della terra argillosa, che trovavamo scavando in profondità.Quei lavori agricoli dopotutto, si dimostrarono pesanti perché occorreva, essere costantemente presenti e attenti che i motori funzionassero, che l’acqua scorresse e che tutto il terreno venisse irrigato. Solo così i frutti della terra crescevano e maturavano in fretta.Tutti insieme eravamo assidui, una vera squadra, ma talvolta non riuscivamo ad essere sempre pronti poiché le forze ci mancavano, data la scarsità di cibo. Chiedemmo un pasto più sostanzioso, ma

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ci fu risposto di no. Chi in effetti gestiva quella fattoria era proprio la signora, donna energica, decisa e dispotica, ci considerava e ci trattava solamente come prigionieri di guerra, anche se ormai il conflitto era finito. Non mostrava verso di noi alcun gesto di umana comprensione. Fu così che tutti decidemmo di fare uno sciopero, sospendendo il pompaggio dell’acqua e quindi l’irrigazione. La reazione fu immediata: la nostra padrona chiamò la polizia francese locale. Fummo trattati da criminali: purtroppo il responsabile di quel distaccamento accettò soltanto la dichiarazione della donna e così il suo verbale risultò del tutto sfavorevole per noi, addirittura noi due meccanici italiani: fummo dichiarati sabotatori, poiché non avevamo fatto funzionare i motori per un giorno e mezzo, visto che eravamo in sciopero. Noi meccanici, assieme al nostro saltuario assistente che aveva marcato visita, fummo spediti al campo di smistamento di Agadir dove c’erano le prigioni e l’ospedale, accompagnati da due soldati arabi come scorta. Andammo a piedi, percorrendo una trentina di chilometri: era la fine di febbraio 1946.Durante la faticosa marcia sostammo per riposare e rifocillarci in due villaggi con il cibo che avevamo di scorta. In uno di questi trovammo un piccolo presidio militare. Il comandante era un Italiano naturalizzato Francese, scappato in Francia durante la salita al potere di Mussolini. Fu veramente cattivo con noi, sbeffeggiandoci e insultandoci e ci trattò da nemici fascisti con grida e urla.

Agadir

Quel campo si trovava in un luogo che non dimenticherò mai: laggiù ho trascorso giorni terribili, per fortuna fu per poco più di una settimana.Arrivati, io e l’altro meccanico fummo messi in prigione; il terzo invece fu mandato all’ospedale francese per un controllo. Poco dopo però fu spedito pure lui in prigione perché non fu dichiarato ammalato, ma solamente uno scansafatiche e un bugiardo. Le prigioni erano stanzette di circa un metro e mezzo per tre, costruite in muratura.

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Il letto era un rialzo di circa cinquanta centimetri, formato da mattoni, con sopra una soletta di calcestruzzo. La porta era nel mezzo del lato più corto e, a fianco, c’era il bugliolo per gli escrementi. Questo non era altro che un buco sul pavimento, che si prolungava nel corridoio in una canaletta, dove scorrevano i liquami spinti da un po’ d’acqua. Subito sopra a questo scolo c’era un foro sul muro, sufficientemente grande per far passare le gamelle dei cibi ed il passaggio a carponi di una persona. Riscontrai che in quelle condizioni eravamo in una decina di soldati, fra Italiani, Francesi e Inglesi. Al pomeriggio, verso sera uscivamo strisciando attraverso la bassa apertura vicina alla porta e andavamo in cortile, per sgranchirci le gambe e chiacchierare. Mi capitò anche di fare una baruffa: un soldato francese, improvvisamente, forse perché esasperato da quella assurda situazione in cui si trovava anche lui, cominciò ad insultare noi Italiani con la classica parola dispregiativa francese Macaronì, macaronì! Mi stancai nel sentirmi gridare queste offese, gli urlai di smettere. Per tutta risposta mi sferrò un pugno che cercai di scansare, ma mi colpì sul collo. Reagii istintivamente con un potente pugno, colpendolo all’occhio che subito iniziò a gonfiarsi. Rimasi scosso dal mio gesto ed entro di me mi pentii, sia perché la mia azione era stata troppo violenta, sia perché, se quel tale mi denunciava, per me sarebbero stati guai ancora più seri. L’indomani quell’uomo fu ricoverato all’ospedale ove dichiarò, fortuna mia, che quel malanno se l’era procurato cadendo dalle scale.Rimanemmo in quel tugurio di prigione per una settimana. Nel frattempo il nostro amico, quello che era stato dichiarato bugiardo, marcò visita e questa volta rimase in ospedale.Noi due a nostra volta, vedendo come funzionava l’ingranaggio, marcammo visita e fummo condotti in ospedale. Qui finalmente trovammo comprensione, assistenza e anche, meraviglia, un medico che ci aiutò. Costui per prima cosa ci chiese il perché fossimo ancora internati, dato che i nostri altri connazionali avevano già da tempo iniziato a rimpatriare. Gli raccontammo ogni cosa; mosso a compassione ci tenne là, sotto le sue cure, raccomandandoci di far finta di dormire ogni volta che passava la ronda medica giornaliera.

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Non finirò mai di ringraziare quel capitano medico francese che ascoltò con pazienza ed umanità le nostre traversie e che ci ospitò per sette giorni; così potemmo mangiare e dormire senza limiti, rimettendoci bene in forze. Finché poté quel medico ci aiutò, poi fu costretto a dimetterci. Il comando francese anche questa volta, leggendo il vecchio verbale che riportava solo le parole della signora belga, invece di mandarci nel campo di smistamento, da dove eravamo partiti, ci inviò in un’altra prigione, addirittura fra una trentina di soldati di varie nazionalità, quasi tutti appartenenti alla legione straniera e accusati di fatti orribili. Eravamo tutti rinchiusi in un unico stanzone, facente parte di un centro speciale adiacente al campo di smistamento. Passammo colà solamente una giornata e mezza, ma fu per noi l’inferno. Là esplodevano di continuo, senza inibizioni, eros e violenza fuori misura. Era una bolgia talmente orgiastica che, al solo pensiero, mi vengono ancora le lacrime agli occhi. Io mi misi in un angolo e pregai con gran fervore e a lungo i miei genitori morti prima che partissi per la guerra, perché mi salvassero da quella dannata situazione.Quello che mi successe nel pomeriggio del secondo giorno fu miracoloso: non ho mai trovato una spiegazione logica, sono convinto dell’aiuto dei miei genitori. Venne a fare le pulizie un gruppo di arabi forniti di un carretto trainato a mano. Io e i miei due amici ci mettemmo ad aiutarli di buona lena: spingemmo il carretto fino al portone d’uscita, che era di collegamento col campo di smistamento. Il portone fu aperto e rinchiuso con lucchetto, noi tre passammo assieme agli inservienti, nessuno ci fece osservazioni. In aggiunta a questa fortunata uscita da quell’inferno, ne avemmo anche un’altra. Trovammo il maresciallo francese che gestiva il campo in compagnia di quello Italiano che lo aiutava, che erano gli stessi sottufficiali dell’altra volta, i quali finalmente ci dettero ascolto e si impietosirono per la nostra cattiva sorte: fu un secondo miracolo! Noi chiedemmo di rimanere là, ma di non voler ritornare mai più in quella prigione e facemmo richiesta di essere inclusi negli elenchi dei rientri per il rimpatrio.

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Il maresciallo italiano si assunse la responsabilità che noi non saremmo fuggiti e che non avremmo causato problemi, il Francese accettò e fu così che fummo inseriti nella lista dei rientri verso l’Italia. Dormimmo nel corridoio dei servizi, poiché non c’era altro posto, essendo tutte le baracche ormai piene. Il giorno dopo ci svegliarono e ci inquadrarono, per la tanto sospirata partenza, in due scaglioni di circa 250 soldati. Fummo stipati nei cassoni dei camion militari. Mentre salivamo sugli automezzi, ebbi occasione di vedere una parte di quelli ancora rinchiusi nell’inferno che montavano faticosamente, con le catene ai piedi, su un camion che partì prima di noi. Se rimanevamo là in quello stanzone molto probabilmente saremmo dovuti partire anche noi con i piedi incatenati, costretti a camminare in quel modo. Non ho mai finito di pensare a un altro miracolo. Lasciavo alle spalle un luogo di cattivi ricordi e me ne andavo verso la libertà! Si andava verso un nuovo raggruppamento a Marrakech, in attesa di partire per Casablanca dove avvenivano gli imbarchi.

Ritorno a Marrakech

Giungemmo a Marrakech, non attraversando la catena montuosa dell’Atlas come la prima volta, ma aggirandola e passando per una carovaniera del deserto. Che giornata meravigliosa! Lasciavo alle spalle un luogo di cattivi ricordi e mi avviavo verso la liberazione. Mentre percorrevamo quelle strade, piene di sole, noi tutti stavamo in silenzio, per la sconfinata felicità del prossimo ritorno in Patria: si sentivano solamente i monotoni rombi dei motori dei camion.Ritornati, ritrovammo il solito ambiente: questa volta però il mio animo era più sereno, ormai ero certo della partenza. Tornai a mettermi in nota per i lavori al mercato o al cimitero. Riuscivo a ricevere, in contropartita del lavoro, qualche franco ma soprattutto datteri, banane, noci, fichi e patate, che poi alla sera spartivo con gli amici. Fortunatamente il mio corpo si rinvigorì, sia per il cibo abbondante, sia per il pensiero del prossimo ritorno.Durante questa forzata permanenza a Marrakech ricevetti una cartolina in franchigia da casa. Finalmente alle mie lettere ottenni una risposta scritta da mio fratello Damiano: fu l’unica di tutta

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la mia prigionia. M’informava che tutta la famiglia era in buona salute, e che le grosse preoccupazioni erano ormai passate. Se ben ricordo, la cartolina doveva essere datata fine novembre 1945, dato che riportava anche la notizia della morte del nostro arciprete avvenuta, come ho saputo dopo, il 10 settembre 1945. Quanto ha girato quella cartolina!Intanto alcuni scaglioni già stavano partendo per Casablanca, per essere poi imbarcati, mentre venivano subito rimpiazzati da altri gruppi provenienti da diverse località dell’entroterra del Marocco. Giunse l’aprile 1946 e io ero in attesa, ma finalmente sentii il grido fatidico: si parte. In treno fummo portati a Casablanca. In attesa dell’imbarco aspettavo il mio turno di partenza. Intanto continuavano ad arrivare altri scaglioni di Italiani che sovraffollarono il campo, dato che le partenze erano di parecchio inferiori agli arrivi. Successe allora che gli ultimi arrivati furono smistati con dei camion nel vicino campo di concentramento di Mediouna, che era vuoto. Purtroppo io fui tra questi. Colà passai un lungo mese con addosso un gran senso di ansiosa attesa. I camion ritornarono e ci riportarono a Casablanca in una caserma per i controlli. Capii che finalmente era arrivato il mio turno di partenza per l’Italia.Là, vivendo in tranquillità, cominciai ad andare nella baracca adibita a cappella, avendo notato che il cappellano era un mio conterraneo. Ritornai chierichetto come quando ero bambino. Il cappellano di tanto in tanto mi ringraziava donandomi generi di confort, come le sigarette. Io non fumavo e così ebbi l’idea di venderle o regalarle ai compagni. Una volta, di ritorno dalla funzione, notai una fila di Italiani seduti davanti ad una porta. Meraviglia! Fra questi riconobbi un vecchio amico, Arsenio Filippi, il gelataio del mio paese, che poi d’inverno cambiava mestiere lavorando in una pasticceria. Che bellezza! Quante chiacchiere facemmo quel giorno e in quelli successivi!Dopo la guerra il Filippi si rese noto a Monselice per il suo negozio di dolciumi e di piccoli giocattoli; tutti i ragazzetti andavano da lui, quando cercavano qualche cosa di nuovo, giacché era all’avanguardia in fatto di prodotti per i giovincelli. Morì alcuni anni fa.

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Il ritorno

L’amico Arsenio Filippi partì prima di me, però io lo seguii poco dopo assieme a tanti nuovi amici che mi ero fatto in quel mio girovagare.Espletate le varie formalità di verifica, ci avviammo a piedi verso il sospirato porto distante appena un paio di chilometri. Là vidi subito la nave che ci avrebbe portati a casa, era la “Leonardo da Vinci” noleggiata appositamente dalla Pontificia Commissione che, come subito seppi, si adoperava per accelerare il rientro degli ex prigionieri. La stanchezza e l’ansia scomparvero.Alla fine mettemmo i piedi sulla tolda: ormai ero sicuro che non sarebbero sorti altri imprevisti e giunte altre disavventure.Trovammo ad attenderci alcuni medici incaricati di farci un controllo sul nostro stato di salute per evitare contagi. Ci fecero un’accurata visita compilando nel frattempo una scheda. Vidi anche che selezionavano alcuni, facendone un gruppetto a parte; erano coloro che erano affetti da malattie. La maggioranza di noi fu comunque dichiarata sana e pronta alla traversata. Partimmo. Dopo qualche giorno di navigazione approdammo a Napoli: era il 27 maggio 1946. Erano passati tre lunghi anni di prigionia in Africa!Per arrivare ai moli dovemmo percorrere ben 250 metri di passerella che appoggiava sui relitti di navi affondate. Una volta sbarcati ci portarono alla Capitaneria del porto ove fummo mandati alla disinfestazione e ai bagni, poi ci vennero date vesti usate ma pulite. In noi sentivamo rinascere la vita! Ci schedarono con i dati anagrafici, in aggiunta a quelli relativi alla vita militare e alla lunga prigionia, allegando i risultati della visita medica fatta prima. Infine a ognuno fu consegnato il foglio di via per tornare al proprio distretto militare e a casa. Io dovevo presentarmi prima alla Capitaneria di porto di Venezia e poi ritornare a Monselice. Fra noi amici, prima di dividerci, ci riunimmo insieme, ci abbracciammo, salutandoci fragorosamente, poi ci congedammo gli uni dagli altri per intraprendere ognuno la propria strada. Io, arrivato a Bologna, dovetti fare una piccola deviazione ed allungare il tragitto verso Ostiglia, Mantova, Padova, a causa dei bombardamenti che

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avevano danneggiato gravemente i binari ferroviari per cui c’erano linee ancora interrotte. Giunto a Padova avrei dovuto proseguire verso Venezia, invece presi subito il treno che andava a Rovigo passando per Monselice. Durante il viaggio un bigliettaio pignolo voleva farmi pagare il biglietto, ma io non avevo soldi! Gli altri viaggiatori presenti mi difesero e dissero all’unisono che era un’assurdità, ormai raggiunta Padova, dover prima andare alla Capitaneria a Venezia, quando la casa era vicina e ci mancavo da quasi cinque anni. Alla fine il controllore lì per lì si arrese, non cercò più di farmi scendere, ma in cambio mi tormentò altre varie volte, affinché pagassi il biglietto. Fu una richiesta che mi urtò, ma in fondo non me ne preoccupai minimamente: ne avevo superate tante di situazioni ben più complicate!Sceso alla stazione di Monselice mi incamminai verso casa: era il 29 maggio 1946. Per primo incontrai, lungo l’attuale via 28 aprile 1945, il sig. Massimiliano Andolfo, allora cinquantenne, che abitava nella mia stessa via di Arzerdimezzo. Mi salutò con grande effusione e subito mi rassicurò, quando chiesi notizie sui miei familiari, che godevano tutti di ottima salute: avevo incontrato un nuovo assessore comunale. Mi disse anche che il 2 giugno vi sarebbero state le votazioni con cui avremmo scelto se mantenere la Monarchia o scegliere la Repubblica; nel contempo poi mi informò che mio fratello maggiore Ottaviano era in piazza a fare propaganda per spronare la gente al voto. Per un po’ lo cercammo poi, non trovandolo, io proseguii verso casa. Mentre ero in piazza per cercar mio fratello Ottaviano, uno mi riconobbe e subito corse via in bici per avvisare gli altri miei parenti. Fu così che, arrivato nella mia via, sentii un vociare festoso: erano tutti i parenti che mi venivano incontro! Fu uno scoppio generale di felicità e allegria. Si aggiunsero conoscenti e amici, ero il centro di tutte le attenzioni. A casa poi vi fu un continuo bombardamento di domande e risposte: ognuno aveva qualcosa da domandare o da dire.A poco a poco fui aggiornato delle varie vicissitudini vissute in paese e dintorni, seppi dei vari morti in Germania, tra i quali anche

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il figlio di Massimiliano, proprio il primo Monselicense che avevo incontrato.Dopo qualche giorno, presi il treno usando il foglio di via che possedevo, per recarmi alla Capitaneria del porto di Venezia, ove raccolsero tutti i miei dati, che aggiunsero poi al mio curriculum militare.Il due giungo 1946 andai anch’io a votare.Nel giro di poco tempo dovetti ritornare alla Capitaneria per ricontrollare la mia posizione: incredibile, avevano già preparato il rimborso di quanto mi spettava. Percepii oltre trecento mila lire di indennità, fra quelle che non avevo ricevuto a Lampedusa e quelle per gli anni di prigionia. A quei tempi quella somma era una fortuna. Ripresi comunque al più presto il mio lavoro di coltivatore diretto e quello di commerciante di alcuni prodotti agricoli, come mi aveva insegnato mio padre e potei sviluppare la mia attività con tranquilla sicurezza utilizzando i soldi che avevo percepito.Mi sposai con Angelina, formammo una famiglia che crebbe assieme all’aumentare delle nostre possibilità economiche. Adesso, trascorsi tanti anni, io e la mia Angelina viviamo una vita tranquilla, distesa e anche fortunatamente operosa nonostante gli acciacchi. Siamo sempre circondati dall’amore dei nostri quattro figli e da tanti nipoti tutti affettuosi e per questo siamo appagati di quanto abbiamo costruito!Il racconto della prigionia l’avevo ormai rinchiuso nel dimenticatoio: era troppo doloroso per me rivivere quei lunghi e terribili anni di guerra. Capitò però che l’amico di lunga data Giuseppe Trevisan, anche lui combattente e prigioniero in altri fronti, mi spronò a riesumare quei lontani ricordi pieni di dolori e pericoli: mi ripeté tante volte che era necessario spiegare ai nostri giovani “cosa è la guerra”: essa è stata la terribile mistificazione di ogni giustizia! Per questo motivo pure lui aveva deciso, alcuni anni prima, di scrivere le memorie sofferte dei suoi anni di soldato e prigioniero nella seconda guerra mondiale.

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Autunno 1942. Sono in visita sull’incrociatore Pompeo Magno.

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Estate 1942. Sono imbarcato nell’incrociatore Taranto. Era comandato dall’ammiraglio Tur, poiché era nave ammiraglia della Forza Navale Speciale.

Fig 6:

Fig 7:

Fig 14:

Fig 15:

L’incrociatore Taranto in navigazione visto nella fiancata. Il suo motto era Ovunque un raggio di sole della gloria d’Italia.

L’incrociatore Taranto in navigazione visto di prua.

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L’Italia dal 1918 al 1943. Percorso che io come marinaio feci negli anni dicembre 1941 – giugno 1943. Da Venezia a La Spezia poi a Lampedusa passando per Trapani. Si noti che l’Istria era italiana e che la Jugoslavia era un unico stato comprendente gli attuali Slovenia, Serbia, Croazia, Kossovo, Montenegro.

69Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio

Lampedusa, mattina del 13 giugno 1943: uno stuolo di navi da guerra e aerei inglesi si apprestano a invadere l’isola. Io mi trovavo marinaio dislocato là addetto ai cannoni 140/43 prolungati. La nostra debole difesa cessò presto e il comandante fece issare bandiera bianca.Disegno di B. Mardegan.

Tunisia colonia francese. Gli Inglesi ci portarono a Susa dandoci poco dopo in consegna ai Francesi.

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La zona della Tunisia dove ho trascorso la prigionia dal giugno 1943 all’aprile 1945. A – Cartagine, B – Potainville (Body Cedria), C - Majaz Al Bab, D – Ouina.I francesi ci rinserrarono nel campo di concentramento di Ouina, che però era mancante di tutto, c’erano solamente i cavalli di frisia perimetrali.Disegno di B. Mardegan.

71Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio

La fattoria di Potainville (Bordj Cedria). Io dovevo tinteggiarla, così approfittai per spillare del vino che davo in cambio agli italiani prigionieri degli americani nella base di Cartagine.Marzo 1945. Potainville: tentativo di fuga per arrivare a Lampedusa perché sapevamo che quasi tutta l’Italia era liberata. In sedici spingemmo in mare una motozattera americana. Disegni di B. Mardegan.

72 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio

Africa del Nord prima del 1945, da Est: Libia colonia italiana, Tunisia,Algeria, Marocco colonie francesi.Marocco ove sono stato prigioniero dall’aprile 1945 al maggio 1946. Marrakech, Taroudant, Agadir, Casablanca.

73Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio

Il mio foglio matricolare con i dati anagrafici.

74 Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio

Documentazione del mio periodo militare.

Ricordi di un carabiniere

combattente per la libertà

ATTILIO BIZZOTTO

Classe 1922 Monselice – PD – Via Celio

76 Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Memorie raccolte da Giuseppe Trevisan Prigioniero nello Stalag XVII A di Kaisersteinbruk, Germania

PremessaFino a qualche anno fa, non ho mai voluto far conoscere agli altri i miei ricordi di soldato e combattente per la libertà. Era perché sentivo che le mie traversie erano meno pesanti di quelle sofferte da coloro che hanno patita la prigionia. Ho avuto, e ancora ho, un rispetto reverenziale per tutti quelli che hanno penato per anni nei campi di concentramento. L’essere lontani da ogni affetto familiare, l’essere sperduti fra una moltitudine di afflitti, costretti a vivere in luoghi stranieri e ostili, ho sempre ritenuto che quella vita fosse il supplizio peggiore per ogni essere umano. Noi soldati, che durante la lunga guerra siamo invece rimasti in Patria, abbiamo avuta la possibilità di lenire i nostri affanni e le nostre paure con l’amore di parenti e amici e col vivere nelle nostre terre. Per questo enorme divario ho sempre pensato che i miei ricordi di guerra fossero meno significativi di quelli dei miei commilitoni dispersi nei deserti africani o rinchiusi nei lager nazisti. Ritenevo che scrivere o dettare le mie memorie di carabiniere e partigiano, vissute solo in Italia, fosse la pretesa vanagloriosa di essere equiparato a coloro che hanno patita la guerra in modo molto pesante.In questo ultimo torno di tempo però l’amico Giuseppe Trevisan mi convinse della utilità di far conoscere tutto quanto di male ha portato la guerra, perché possa essere di insegnamento per il futuro. Ho accettato sia perché l’amico che mi ha esortato è lui stesso un reduce dai lager, sia perché ormai c’è un rifiorire continuo di memorie di soldati combattenti. Così ho pensato che i ricordi della mia vita militare possano anch’essi servire per formare un quadro sempre più completo di quanto abbiamo sofferto nella disastrosa seconda guerra mondiale.Mi auguro che questa fatica di dettare e scrivere le mie memorie

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possa dare un ulteriore contributo per la conoscenza dei disastri subiti da tutti noi Italiani per colpa del dittatore Mussolini. Vorrei infine ringraziare sentitamente l’amico Giuseppe Trevisan che mi ha dato l’idea di far conoscere le mie memorie. È grazie a lui, al suo grande entusiasmo, alla sua pazienza e dedizione che siamo riusciti a portare a termine questo lavoro.

Io e la mia famigliaSono Attilio Bizzotto, nato il 19 dicembre 1922 a Cittadella e dal 1952 residente a Monselice, in via Celio, entrambi grossi comuni in provincia di Padova.Provengo da una famiglia numerosa di coltivatori diretti. Ho imparato fin da piccolo a lavorare i campi e ad essere sempre pronto a obbedire ai miei genitori. All’inizio del 1941 quando avevo poco più di diciotto anni, mia madre, vedendo spesso due carabinieri passare a piedi davanti a casa nostra, che per servizio di controllo andavano dalla loro caserma di Cittadella al confine tra le province di Padova e Vicenza, si convinse che per me, prossimo a partire per il servizio militare, il corpo migliore fosse quello dei carabinieri. Così quando vedeva i carabinieri passare, mi chiamava e mi invitava a scegliere quell’arma perché pensava che i carabinieri fossero solo addetti alla sicurezza entro i confini patri. Questa considerazione poi si consolidò in lei perché mio fratello Giuseppe, nato nel 1920 e chiamato alle armi come artigliere di montagna, fu inviato in Jugoslavia poiché Mussolini, l’11 aprile 1941, aveva dichiarato guerra a quello Stato. Ben presto fu fatto prigioniero dai partigiani di Tito, non dando più notizie di sé. Questo fatto traumatizzò tutti noi e fu così che, lentamente, le parole della mamma penetrarono in me, arrivando a convincermi che l’arma dei carabinieri mi permetteva con più facilità di stare in Italia, anche perché il mio carattere si confaceva al comportamento ordinato che vedevo in quei militari. Per questi motivi, durante la guerra fui carabiniere a Roma, ove imparai a vivere in modo austero, direi patriottico, perché poi per amore di una Italia libera fui partigiano nel mio Veneto.

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Nella capitale fui addetto alla guardia del palazzo reale, il Quirinale, ed ebbi così modo di vedere da vicino e vivere passo passo i fastigi e la caduta di Mussolini e, nel contempo, di partecipare alla prima battaglia in Roma contro i Tedeschi. Da partigiano ho poi potuto sperimentare la folle pretesa dei due dittatori, Hitler e Mussolini, che pur di vincere spargevano ovunque terrore e morte. Conobbi nel contempo l’eroismo di tanti giovani che, pur non avendo nessuna preparazione militare, lottarono con entusiasmo e abnegazione contro il nazifascismo, talvolta fino al sacrificio della vita.Nell’inverno del 1941-42, quando ormai in famiglia si temeva per la morte del fratello, arrivò fortunatamente a casa nostra, da fonti ufficiali, la notizia che Giuseppe era ricoverato in un ospedale italiano per un congelamento agli arti.Più tardi si vennero a conoscere le sue peripezie.Quando i partigiani slavi facevano dei prigionieri italiani, controllavano subito il colore delle mostrine sul bavero della giubba e quello della cravatta. Chi le aveva nere o cremisi veniva subito ucciso, mentre gli altri erano risparmiati. I colori delle mostrine e della cravatta indicavano l’appartenenza dei soldati italiani ai vari reggimenti. Il colore nero era dei battaglioni fascisti, detti Emme da Mussolini, quello cremisi dei bersaglieri. Questi due corpi militari erano notoriamente reparti che usavano tattiche distruttive con incendi, saccheggi e fucilazioni. Gli altri corpi, come fanteria e artiglieria, formati anche da soldati anziani con famiglia, si astenevano da qualsiasi libera ribalderia. Per questo mio fratello Giuseppe che portava il colore ocra delle mostrine, era artigliere, e rosso della cravatta, perché apparteneva alla divisione Re, fu salvo. Dopo lunghe peripezie invernali vivendo fra i boschi assieme ai titini si ammalò. Purtroppo non avendo adeguati vestiti e scarpe gli si congelarono le gambe e i piedi e nel contempo ebbe altri guai prodotti dal gran freddo. I partigiani, forse impietositi, lo portarono di notte davanti a un ospedale da campo italiano. Là lo salvarono e mio fratello molto lentamente si riprese. Ebbe poi varie licenze di convalescenza, tanto che l’8 settembre 1943 egli si trovava a casa, ove poi rimase.

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Allievo carabiniere

A metà del 1941, fatta la visita militare, fui dichiarato abile per l’artiglieria da montagna. Intanto però mi ero convinto di arruolarmi volontario nei carabinieri, così mi informai presso la caserma di Cittadella, ove trovai un maresciallo molto gentile il quale mi spiegò che avevo la possibilità di diventare carabiniere ausiliario, anziché soldato di leva, facendo una semplice domanda. Me la compilò e io la sottoscrissi.Dopo poco tempo mi arrivò l’invito di presentarmi all’ospedale militare di Padova per ulteriori controlli di salute e di comportamento. Fui dichiarato idoneo. A metà settembre 1941 mi arrivò la cartolina di precetto che mi convocava a Roma per il primo ottobre nella caserma allievi carabinieri sita vicino al Vaticano, tra il viale delle Milizie e quello di Giulio Cesare.Subito fui assegnato alla seconda compagnia. Dopo breve tempo capii come si articolavano i vari gruppi. Vi erano sei compagnie, delle quali cinque per gli allievi carabinieri e una di carabinieri; la quarta, che era la compagnia d’onore, addetta ai servizi speciali per le alte cariche dello Stato italiano e degli altri Stati. Là vi erano anche le sedi del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, che allora era il generale Azzolino Hazon, e del comandante di tutte le compagnie, che era il colonnello Dino Tabellini. Durante i tre mesi del corso di addestramento si facevano alla mattina esercizi ginnici, al pomeriggio lezioni sui codici civili, penali e militari.Fra noi vi erano anche allievi provenienti dalla Croazia e dall’Albania assieme ai loro ufficiali che facevano da interpreti. Con costoro fraternizzavamo e ci mescolavamo specie durante il rancio e gli esercizi fisici. C’erano stranieri nel nostro corpo perché alcuni stati della penisola balcanica erano nostri alleati. La Jugoslavia, immediatamente con l’inizio delle ostilità nel 1941, si sfasciò in varie zone tra cui la Croazia di Ante Pavelic che divenne alleata dell’Italia. Nell’ottobre del 1940 Mussolini aveva dichiarato guerra alla Grecia, partendo dalla alleata Albania, che fu dichiarata parte integrante dell’Italia, come poi successe per

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la Dalmazia, dell’ex Jugoslavia. Da queste nazioni partirono gli allievi per diventare carabinieri e ritornare poi nelle loro patrie per la sicurezza pubblica.Di quel tempo ricordo qualche impressione e dei fatterelli. Subito fui colpito dal fatto che quasi tutti gli stranieri prima di consumare il rancio, che ci veniva servito a tavola, si facevano il segno della croce; io, anche se di famiglia religiosa, non ero abituato. Di buon grado mi adeguai. Vi fu poi un’occasione di fare una sonora risata generale. Durante l’esercizio per scivolare su un telo, partendo dal terzo piano di un caseggiato e arrivare a terra, un allievo albanese chiese al suo ufficiale come doveva fare.Costui che in quel momento non vestiva la tuta sportiva, ma la divisa nera con gambali e speroni, si accinse a mostrare come si doveva scivolare a terra. Si mise in posizione, fece un salto sul telo e scivolò… Tuttavia, col salto, gli speroni si erano conficcati nel telo, tagliandolo fino in fondo. Visto che l’ufficiale non aveva subito alcun danno, tutti noi presenti facemmo una grande risata.In quei tre mesi noi allievi dovemmo imparare in modo preciso molte formalità comportamentali dei carabinieri. In pubblico usare costantemente i guanti bianchi, che dovevano essere sempre candidi, avere la divisa sempre in ordine, assumere un atteggiamento controllato in ogni situazione e infine mantenere sempre una corretta riservatezza in qualsiasi momento della vita militare e civile.Talvolta questa ferrea e meticolosa disciplina metteva paura a qualche allievo e anche a chi era già diventato carabiniere, perciò chi non se la sentiva di osservarla appieno poteva chiedere il trasferimento in altri reparti militari, purché in zone di guerra.Personalmente io ho sempre accettato con serenità e attenzione quanto mi era richiesto, soprattutto perché il mio abito mentale era già abituato alle norme ferree della mia vita familiare per cui gli ordini dovevano essere eseguiti e non discussi coi distinguo. Verso la fine del dicembre 1941, prima di finire il corso, venne da noi allievi il capitano Orlando De Tommaso, comandante la quarta compagnia, quella appunto che faceva i servizi d’onore. Quel capitano camminò lentamente davanti a noi schierati per scegliere

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alcuni carabinieri per rimpinguare la sua compagnia, che aveva dei vuoti. Di tanto in tanto si fermava davanti a qualcuno chiedendogli solamente le generalità di cui prendeva nota: certamente si fidava del suo intuito nell’individuare coloro che avevano disponibilità e passione di esercitare tutte le regole richieste per rendere gli onori alle alte autorità. Si fermò anche davanti a me, forse perché allora avevo i capelli biondi e gli occhi sorridenti. Infatti poi, quando lo ebbi come comandante, sempre mi apostrofava col nomignolo di “biondino”. Chiesto il mio nome proseguì dicendomi: “Sei contento di venire con me nella IV compagnia?”. Risposi prontamente di sì, perché era nota anche a me la sua fama di persona corretta, giusta e di comandante preparato e disponibile al dialogo.Il 31 dicembre 1941, alla fine del corso, furono radunati tutti i promossi fra i quali c’ero anch’io. A noi furono distribuite delle lettere di destinazione: io ricevetti una busta indirizzata al capitano De Tommaso Orlando, Comandante della quarta compagnia carabinieri a Roma. Era per me una destinazione prestigiosa perché facevo parte della compagnia che era scelta per i servizi d’onore e anche per quelli della massima fiducia.

Carabiniere

All’inizio del gennaio 1942 mi presentai al capitano De Tommaso, che mi assegnò al secondo plotone sotto il comando del tenente Di Lorenzo. Per altri due mesi continuarono ad addestrarci: al mattino ancora attività ginniche, al pomeriggio lezioni di comportamento nelle varie attività di guardia, di scorta e nel coordinare l’ordine pubblico. Dopo cominciammo a prestar servizio presso il palazzo reale, le ambasciate estere e l’Altare della Patria, che custodisce le spoglie del Milite Ignoto. Fu così che intervenni a vari picchetti d’onore e di controllo per i Reali, Ministri italiani e personalità straniere. In quel tempo ho partecipato a varie parate; vivevo una vita interessante, facevo esperienze suggestive e particolari. Mi trovavo in un ambiente ove tutti erano pieni di attenzioni e dove tutti avevano mansioni precise. Là c’erano sempre, sia pur di passaggio, persone prestigiose che ispiravano un tocco di signorilità anche a noi semplici

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carabinieri. Ho imparato ad essere sempre pronto, preciso, a non discutere gli ordini e a non parlare di quanto mi era stato ordinato o di quello che avevo visto fare da altri: così, come me, anche tutti gli altri commilitoni. Il trattamento era buono, le varie divise sempre in ordine, potevo godermi la libera uscita con vedute davvero piacevoli ed esclusive. Per le diverse mansioni avevo a disposizione tre tipi di divise. Quella nera normale, che usano anche oggi i carabinieri, per andare in libera uscita o per svolgere mansioni tra il pubblico; quella alla cavallerizza con gambali, pure tutta nera, per i picchetti di guardia o d’onore; infine quella grigio-verde con pantaloni alla cavallerizza, la bandoliera grigia e i gambali neri, usata per servizi di fatica o di ordine pubblico. A questo punto, per i giovani ormai non più abituati all’ordinamento militare, penso opportuno precisare cosa è il picchetto militare.È questo formato da un gruppo, più o meno grande, di soldati comandati da un ufficiale, che porta a tracolla la fascia azzurra; costui, in quelle occasioni, gode di una autorità assoluta su persone e cose, sia per i controlli di sicurezza, sia per rendere gli onori militari.I soldati dei picchetti facevano e fanno ancora, a turno, da guardia cioè da sentinella. Per le armi noi generalmente avevamo una rivoltella Berretta calibro nove a canna corta con due caricatori: uno nel serbatoio dell’arma, pronto per lo sparo, e un altro in un taschino della fondina che tenevamo sotto la giubba. Quando si andava di picchetto prelevavamo il moschetto con la baionetta incernierata per fare il presentat-arm. Dentro la caserma c’era un’armeria dove erano custodite le armi per quando si andava ai picchetti e poi ancora tante altre armi e munizioni per le grosse operazioni con i pattuglioni. Il 1942 lo trascorsi senza particolari difficoltà, però cominciai a percepire nella popolazione incertezza e sgomento per le cattive notizie provenienti dai vari fronti di guerra.

Il bombardamento di Roma

Il 1943 fu l’anno decisivo per le sorti della Patria e per me quello delle grosse emozioni. Drammatico fu il bombardamento pomeridiano di

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Roma del 19 luglio 1943. Proprio in quel pomeriggio ero di guardia al Quirinale assieme a un altro commilitone. Eravamo impettiti davanti alle due garitte, poste ai fianchi dell’ingresso, sulla posizione di riposo col moschetto fra le braccia, quando sentimmo un cupo rumore che aumentava velocemente: intuivamo che erano gli Alleati che si apprestavano a bombardare la città. Meravigliati e sgomenti, perché ci avevano detto più volte che Roma era dichiarata città aperta e che certamente gli Alleati non l’avrebbero bombardata, vedemmo gli aerei dirigersi verso il Quirinale, proprio dove eravamo noi. Sentimmo i primi sibili e scoppi: il commilitone della garitta accanto svenne per l’emozione. Io suonai l’allarme, vennero alcuni carabinieri del picchetto di guardia, portarono il compagno all’interno e subito lo sostituirono con un’altra sentinella. Le bombe caddero nel quartiere di San Lorenzo fuori le mura, proprio poco lontano da noi.Subito dopo sentii un parlottio vivace nell’andito del palazzo, guardai: era il re Vittorio Emanuele III che insisteva col suo aiutante militare perché voleva andare sul posto bombardato, mentre l’aiutante lo sconsigliava perché non era ancora suonata la sirena di fine pericolo. Il re volle partire, sentimmo il rumore di un’auto e noi guardie ci irrigidimmo sul presentat-arm.Dopo poco notai un’auto con la targa della Città del Vaticano che, salendo per via IV Novembre, si dirigeva verso il luogo del bombardamento: anche il il papa Pio XII si recava a dare una parola di conforto alla popolazione colpita. Ritornato in caserma seppi che il nostro generale comandante Azolino Hazon, assieme al capo di stato maggiore colonnello Barengo, durante il bombardamento erano partiti per andare a organizzare i primi soccorsi; essi però furono colpiti a morte dalle bombe. A loro fu concessa poi la medaglia d’argento al valor militare per il loro immediato intervento, nonostante le bombe non avessero cessato di cadere. Venni a sapere anche che, in quel frangente, il papa benedicente fu acclamato, mentre il re fu accolto con qualche protesta. Quella uscita di Pio XII dal Vaticano fu la prima fatta da un papa dopo la presa di porta Pia.

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Arresto di Mussolini

Il fatto importante che io vissi con trepidazione, e che desidero raccontare passo passo, fu la caduta del governo di Benito Mussolini, sfiduciato dal Gran Consiglio Fascista, avvenuta nelle prime ore del 25 luglio 1943. Questi eventi successero proprio quando io e il mio plotone prestavamo servizio al Quirinale.Il mio secondo plotone della IV compagnia montò in servizio di guardia al palazzo reale alle ore 18 del 24 luglio 1943, da dove smontò alla stessa ora del 25. Noi carabinieri di guardia vedemmo un continuo andirvieni, un gran trambusto senza capirne la portata. D’altra parte la nostra specifica preparazione di come i carabinieri dovevano comportarsi nei casi di interesse pubblico e privato, che era di tacere e non riferire nemmeno coi commilitoni, ci portò a non chiedere spiegazioni. Infatti, il motto dei carabinieri era, e ritengo lo sia ancora: “Usi obbedir tacendo e tacendo morir”. E così tutti ci comportammo. A cose fatte si venne a sapere del colloquio del Re con Mussolini nel palazzo reale, durante il quale il duce fu destituito, sostituito e posto sotto la custodia dei tre plotoni di carabinieri della quarta compagnia. Il primo fatto fuori del consueto e che ci sorprese fu che in quella giornata il picchetto era stato raddoppiato, tanto che una parte di noi, io compreso, fummo costretti a riposare e a dormire sdraiati per terra, sopra i giornali per non insudiciare la divisa, perché i letti disponibili erano solo per un plotone. Finito il nostro turno di guardia, rientrammo in caserma sostituiti da altri reparti di soldati. Partimmo con la banda in testa e marciammo verso la nostra caserma. Arrivati in piazza Venezia successe, come accadeva di tanto in tanto, che la folla inneggiasse a noi carabinieri. Quella volta vi fu anche la richiesta che la fanfara suonasse più volte la marcia reale: il numero dei presenti e i battimani furono di gran lunga superiori al solito. Ci meravigliammo, ma non capimmo cosa ci fosse nell’aria. Altro fatto strano fu che la porta della caserma era chiusa. Battemmo, ci aprirono ed entrammo nel grande cortile ove si

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facevano le esercitazioni. Là trovammo parecchi borghesi, perché era giorno di visita dei familiari, ma essi erano trattenuti da un cordone di carabinieri armati. Noi salimmo nelle nostre camerate, ancora ignari delle conseguenze di quegli strani movimenti che avevamo visto. Subito un maresciallo ci disse: “Stasera niente libera uscita ed ora andate in fureria dove riceverete l’ordine di servizio”.Mi si avvicinò e disse: “Tu, Bizzotto, metti la divisa nera, prendi la pistola e vieni con me nell’Ufficio Comando della IV compagnia”.Cosa che prontamente feci. Arrivato al Comando trovai un altro carabiniere. Attendemmo davanti alla porta. Poco dopo uscì il nostro capitano Orlando De Tommaso che ci disse: “Voi state qui, riceverete ordini solo da me”. Eravamo a custodia in un corridoio dove c’erano tre porte: una conduceva in un salotto e due negli uffici del Comando. Nel salotto vidi di spalle due persone, una sdraiata su un divano e l’altra pareva fargli assistenza. Dall’ufficio comandopiù volte un ufficiale superiore entrò e uscì dal salotto. Alle undici della sera ci fu dato il cambio e andammo nella nostra camerata. Subito notai dei letti vuoti e qualcuno mi disse che vari carabinieri erano andati di sentinella nella terrazza. Era questa una grande copertura piana dalla quale si dominava tutta la zona vicina. Verso le nove del 26 luglio venne nella camerata un altro maresciallo che mi ingiunse di vestire ancora la divisa nera e di ritornare nel corridoio presso l’Ufficio Comando. Là, anche questa volta, vi era un altro carabiniere: ricevemmo l’ordine di fare una stretta sorveglianza. Quella mattina vi fu un maggior andirivieni di ufficiali superiori; talvolta la porta del salotto rimaneva un po’ aperta. Fu così che vidi di spalle una persona vestita in borghese che osservava gli allievi carabinieri che nel cortile facevano esercitazioni.Ad un tratto un ufficiale che stava scrivendo, con la porta socchiusa, mi fece cenno di entrare: mi consegnò una lettera per il colonnello Dino Tabellini, capo della caserma. Fu allora che la persona che osservava il cortile si voltò: era Mussolini che subito uscì col dire: “Se gli Italiani fossero stati tutti come voi carabinieri, avremmo vinto la guerra!”. In quel momento capii che tutti quei silenzi e quelle precauzioni erano dovuti al fatto che il duce deposto era stato dato

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in consegna dal re alla nostra compagnia, forse perché il capitano era il più stimato dal nuovo Generale Comandante l’Arma. Infatti io, in precedenza, avevo visto il generale dialogare amichevolmente col nostro capitano. A mezzogiorno, ottenuto il cambio, ritornai in camerata per riposare. Alla sera, verso le venti, tutti noi carabinieri della IV compagnia fummo mandati in armeria a prelevare armi e munizioni, tra cui fucili mitragliatori e mitragliatrici, e ci mandarono a presidiare le terrazze ove rimanemmo fino alle otto del 27 luglio.Andati a riposare restammo liberi fino alle diciotto, quando ci fecero ritornare a presidiare le terrazze, dove restammo fino a mezzanotte.Mi domandai, tra me e me, se erano state prese quelle precauzioni nel timore che i fascisti si organizzassero per liberare Mussolini, aiutati magari dai soldati tedeschi presenti in città. Il giorno dopo, il 28 luglio 1943, la vita di caserma ritornò normale. Fu perché nelle ultime ore antelucane Mussolini fu spostato segretamente in altra zona, scortato da quattro carabinieri, uno dei quali era Alfredo Lazzaro, mio grande amico. Allora non seppi altro.Molti anni dopo venni a conoscenza di come Mussolini fu scortato e dove fu portato. Il 27 settembre 1997, in un raduno di carabinieri in congedo a Bassano del Grappa, mi incontrai con sei commilitoni della quarta compagnia, tra cui il Lazzaro. Fu in quell’occasione che a pranzo ci confidammo le storie di quei lontani giorni. Mi disse che nella tarda serata del 27 luglio 1943, lui e altri tre carabinieri provenienti da plotoni diversi, furono mandati nell’ufficio del capo della Polizia di Roma. Quell’alta autorità disse loro: “Un grande servizio vi attende: a voi è affidata la sorte della Patria”. Fu loro ordinato di fare la scorta a un’auto da Roma a Gaeta. Fu là che i carabinieri videro scendere Mussolini dall’auto. Allora i carabinieri si accorsero di aver scortato il duce. Mentre scendeva guardandosi attorno, Mussolini riconobbe Lazzaro e gli disse: “Ricordo la tua faccia perché mi hai già fatto scorta d’onore”. Era vero, Lazzaro si ricordava pure lui! A Gaeta erano attesi da una motovedetta che li trasportò a Ponza, ove trovarono una persona che li portò in una villetta poco lontana dal mare.Quei quattro carabinieri rimasero là per tre giorni. Mussolini fu

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guardato a vista dai quattro che fecero anche da inservienti e cuochi, cuocendo soprattutto pesce. L’amico mi disse che il duce era stanco, sfiduciato e avvilito, parlava poco e passava il tempo seduto a pensare. Per mascherare un po’ la sua depressione teneva sempre addosso gli occhiali da sole. I quattro furono sostituiti da altri carabinieri mandati espressamente dal comandante dei carabinieri Cerica. Il Lazzaro ritornò a Roma ove ricevette un encomio solenne. In una lettera che ho ricevuto da Pasquale Baldi, altro mio commilitone, datata Bari 10.IV.1998, mi precisa che pure lui fece parte del gruppo di carabinieri quando il duce fu portato alla Maddalena, in Sardegna. Nel contempo venni a sapere con certezza che i Tedeschi, da subito, avevano cercato di liberare Mussolini e che l’autorità italiana fece quegli spostamenti accennati, e poi altri ancora, per depistare i nazisti, i quali però alla fine riuscirono nel loro intento liberando Mussolini sul Gran Sasso.Agli spostamenti successivi di Mussolini provvidero altri reparti di soldati, mentre noi carabinieri della IV compagnia ritornammo a fare i soliti servizi fino all’otto settembre 1943.

L’armistizio

Verso le ore venti di quel famoso otto settembre 1943 io mi trovavo in libera uscita nel parco divertimenti del rione Prati assieme agli amici commilitoni Alfredo Lazzaro ed Erice Tonazzo.La radio improvvisamente cessò di trasmettere musica, le giostre si fermarono, una voce stentorea, cominciò a leggere il famoso bollettino dell’armistizio. Ricordo ancora la grandissima emozione che provai mentre lo ascoltavo: “Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle Forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.

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Ricordo che il cronista ripeté anche con grande entusiasmo: “È stato firmato l’armistizio, la guerra è finita!”. Subito noi tre ritornammo in caserma: eravamo pieni di gioia perché convinti che la guerra fosse finita davvero e che saremmo ritornati a casa ben presto. Non sapevamo, invece, cosa ci aspettava! Arrivati tutti in caserma, il nostro capitano ci riunì subito e ci fece un discorsetto che ci raggelò.Senza giri di parole ci disse che era arrivato il momento non di gioire, ma di piangere perché subito si sarebbe accesa una tormentata guerra che anche noi avremmo dovuto combattere. Poi ci ordinò di andare nell’armeria per ritirare armi e munizioni: cosa che subito noi facemmo, come altre compagnie di quella caserma.

La battaglia di Cecchignola

L’eco della lettura dell’armistizio risuonava ancora in tutta Roma, che già i Tedeschi tentarono di prendere il comando della città. Nella tarda sera dell’otto settembre 1943 un forte gruppo di soldati tedeschi con armi pesanti occuparono con un colpo di mano alcuni capisaldi in quel di Cecchignola sulle vie Ostiense e Laurentina.Per di più reparti mobili di Tedeschi si spinsero in avanti. Furono fermati nella zona della Basilica di San Paolo da reparti della divisione Granatieri di Sardegna che ricacciarono i Tedeschi nelle loro basi ove si erano insediati precedentemente. Era necessario riconquistare quegli sbarramenti per salvare Roma. Bisognava però rafforzare le truppe italiane per sferrare un forte attacco contro i Tedeschi che si erano già schierati per una difesa a oltranza di quanto avevano conquistato poche ore prima. A mezzanotte dell’8 settembre fu mobilitato precipitosamente il secondo battaglione carabinieri formato dalla mia quarta compagnia di carabinieri e da due di allievi. Fummo equipaggiati per il combattimento d’assalto. Il capitano De Tommaso, comandante la nostra quarta compagnia, chiese ed ottenne che la compagnia, formata da carabinieri addestrati, fosse posta in avanguardia, perché le altre due erano formate da allievi che non avevano ancora completato la loro preparazione.

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Volle anche che la vecchia e gloriosa bandiera dell’Arma dei Carabinieri, custodita gelosamente in una teca del Comando Generale sito come già precisato nella nostra caserma, venisse portata in battaglia. Era una bandiera vecchia e logora; era il simbolo di tante gloriose battaglie vinte nei tempi passati. Ritengo che l’abbia voluta con sé, sia per infondere coraggio a noi che ci disponevamo alla battaglia, sia perché intuiva che quella sortita era la prima cruenta lotta della nuova Italia, e che perciò si doveva dare un forte segnale di riscossa. Fummo trasportati in camion attorno alla Basilica di San Paolo. Ci mettemmo accovacciati a terra in attesa di ordini. Intanto si sentivano lontani brontolii di spari.Dopo qualche tempo, forse due ore, ci fu dato l’ordine di partire verso il ponte della Magliana. Ci infilammo con grande attenzione in una vicina trincea, costruita per la difesa della città, che affiancava una strada secondaria. Ci accorgemmo subito dove era avvenuto il primo scontro perché vedemmo corpi riversi pieni di sangue. Un giovane allievo, vedendo quei morti stesi un po’ ovunque, si mise a piangere. Subito gli si avvicinò un maresciallo con la pistola in pugno che con tono perentorio lo apostrofò dicendo forte: “Non fare il vigliacco perché in guerra i vigliacchi sono i primi a morire”.Forse si comportò così duramente per ammonire tutti noi presenti. L’allievo carabiniere si riprese, poi più nessuno mostrò esitazioni.Mentre camminavamo il fuoco tedesco si faceva via via più intenso. Per nostra fortuna il fuoco delle armi pesanti tedesche veniva rintuzzato dall’artiglieria del reggimento Lancieri di Montebello, mentre gli alti argini della trincea ci riparavano dai tiri della fucileria e anche dagli eventuali cecchini. In un momento di pausa il capitano De Tommaso salì sulla strada per controllare meglio quale fosse la tattica da prendere per snidare i soldati tedeschi.In quel momento io mi trovavo poco lontano da lui ed ero riparato dietro un mucchio di legna secca. Vedendomi mi disse: “Biondino vieni con me!”. Io sarei partito subito, perché quel comandante era per me un esempio di capacità e onestà, ma avevo con me un fucile mitragliatore ed ero assieme a un altro compagno che portava le munizioni. Mi venne da dirgli: “Signor capitano non posso venire

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perché dovrei lasciare il mitragliatore senza un sostituto”. (Il fucile mitragliatore, modello 38, era un’arma pesante, tanto che per sparare si usavano due piedi retrattili di appoggio sul terreno e, per di più, aveva bisogno di un operatore per portare e infilare le munizioni nel serbatoio). Il capitano capì e chiamò un altro carabiniere che era un amico romano facente parte della mia stessa terziglia quando facevamo esercitazioni ginniche. Fu l’ultima volta che li vidi vivi. Intanto il capitano, esaminati a vista i dispiegamenti delle forze in campo, chiamò a raccolta i carabinieri per organizzare un attacco. Fu così che gli uomini radunati cominciarono a risalire gli argini: la maggioranza su quello verso la strada, io e il servente sull’altro perché dovevamo operare tiri di copertura col mitragliatore. Ci nascondemmo dietro un po’ di paglia. Mentre veniva preparata la manovra, sulla strada fiancheggiante l’argine, dove erano saliti i carabinieri col capitano, si profilò una colonna di una decina di autoambulanze tedesche. Si fermarono vedendo i soldati italiani, improvvisamente uscirono allo scoperto soldati tedeschi con armi spianate facendo una sparatoria infernale anche se breve. Noi rispondemmo subitamente, però dei carabinieri furono uccisi o feriti e nel fossato ci fu confusione perché tutti scesero. Con l’aiuto generale dei presenti subito la riorganizzazione dello schieramento fu risolta, mentre le autoambulanze tedesche ripartirono a tutta velocità. La battaglia continuò e noi continuammo ad avanzare verso il ponte della Magliana. Camminammo sparando per ogni temuto pericolo, incuranti della fame e delle difficoltà. Fu certo per la determinazione del nostro battaglione di carabinieri, con l’appoggio dei Granatieri di Sardegna e dei Lancieri del Montebello, che si riuscì a riprendere i capisaldi e il ponte della Magliana. Fu una vittoria importante sia perché avevamo riconquistato uno snodo viario, sia perché dimostrammo che se all’esercito italiano fossero stati impartiti ordini precisi e chiari, avremmo dato molto filo da torcere ai Tedeschi e, forse, la guerra sarebbe terminata prima.Quella battaglia, durata per noi carabinieri ben diciotto ore e mezza, la vissi con fermo impegno e forte volontà, ma anche in modo

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trasognato. Da subito non riuscii a ricordare le sequenze dell’andare, degli spari, delle grida di incitamento o di dolore dei feriti: fu per me, pur andando avanti e sparando senza paura, un tempo doloroso della mia vita senza riuscire a fissarlo ben bene nella memoria.Ancora oggi ricordo infatti solo alcuni particolari, parzialmente già raccontati e, per ultimo, uno che mi accadde verso la fine.Lo racconto solo come testimonianza di come mi sono trovato durante il combattimento. Arrivati sotto il ponte della Magliana in una pausa prima di sferrare l’attacco vittorioso, mi trovai vicino all’amico carabiniere Pietro Tosato. Mi chiese una sigaretta, certo per distendere un po’ l’ansia. Tirai fuori il portasigarette che ricordavo quasi pieno, lo trovai invece vuoto, evidentemente durante le pause della battaglia avevo fumato tutte le sigarette senza rendermene conto! Fu così che con la punta della baionetta segnai sul portasigarette d’ottone, che conservo ancora, le parole: “ 9-9-1943 – sotto il ponte di Cecchignola in guerra. Attilio Bizzotto, Pietro Tosato senza sigarette”. Finita la battaglia venni a conoscenza che diversi carabinieri erano morti e che il mio capitano De Tommaso era caduto da eroe mentre conduceva i carabinieri all’assalto, assieme a lui morì anche quel commilitone che mi aveva sostituito poco prima dei combattimenti. Fu per me una notizia straziante, vuoi perché il capitano era un mio superiore che stimavo moltissimo, vuoi perché fu colpito anche il suo accompagnatore che mi sostituì: fortunosamente io mi salvai! Al capitano poi fu concessa la medaglia d’oro della Resistenza per le sue virtù di trascinatore: egli fu la prima medaglia d’oro della Resistenza italiana contro i nazifascisti. Alle 18.30 di quel fatidico nove settembre 1943, quando ormai tutto si era risolto, ricevemmo il cambio da un reparto dei carabinieri della divisione Pastrengo. Dopo una sosta di qualche ora per far sbollire l’ansia di quelle terribili ore di combattimento, partimmo scarpinando per varie ore per ritornare in caserma. Dovemmo fare oltre dieci chilometri portando con noi le armi e la bandiera. Eravamo molto stanchi: erano quasi venti ore che avevamo passate senza riposare né mangiare. Ci fermavamo di frequente anche perché alla spossatezza fisica si

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aggiungeva il peso dell’equipaggiamento e la responsabilità della custodia della nostra storica bandiera. Fortunatamente, almeno per me che avevo sulle spalle il pesante fucile mitragliatore, il tenente che ci comandava in quel rientro, dette l’ordine che venissero scambiati i portatori dei pesi maggiori: fu per questo che io ebbi il cambio di portare anche il nostro vetusto stendardo sfilacciato ma vincente. Arrivammo in caserma alle cinque del mattino del 10 settembre 1943. Subito provammo una grande sorpresa, invece di trovare i nostri commilitoni festanti per la vittoria, trovammo solo il picchetto mentre le camerate erano vuote: tutti erano spariti! Rimettemmo la gloriosa bandiera nella teca del Comando, depositammo le armi nel magazzino, ci rifocillammo con quanto trovammo in cucina, attendemmo ordini dal nostro tenente il quale, constatata la mancanza assoluta di qualsiasi ufficiale superiore che desse disposizioni di servizio, sulla scorta di quanto venne a sapere dall’ufficiale di picchetto, ci disse che eravamo liberi di fare quello che credevamo: uscire o rimanere in caserma. Subito venimmo a sapere che il nostro Comando, dopo aver deciso in modo autonomo il cambio di noi carabinieri per Cecchignola, non avendo avuto riposte dall’Alto Comando Militare alle richieste di delucidazioni, decise di lasciar liberi i carabinieri se scegliere di andarsene o rimanere in caserma. La stessa cosa successe a tutti i reparti che erano a difesa di Roma e che in quel momento formavano tre Corpi d’Armata e tre divisioni: la Centauro, i Granatieri di Sardegna e la Piave, per un totale di settantamila uomini che disponevano di 400 carri armati e 500 pezzi di artiglieria. Fu così che i Tedeschi, pur avendo in sito solamente due divisioni per un totale di circa ventottomila soldati, poterono senza colpo ferire occupare la città di Roma. Ciò fu dovuto al Maresciallo Badoglio, comandante di Stato Maggiore Militare, e al generale Carboni, capo del Servizio Informazioni Militari, SIM, che comandava anche il Corpo d’Armata Motorizzato, CAM, dislocato a Roma, i quali si comportarono in modo a dir poco equivoco: invece di dare informazioni e direttive si eclissarono in abiti civili e partirono via mare assieme al re per rifugiarsi presso gli Alleati.

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I milioni di soldati sparsi nei vari fronti, lasciati senza ordini, si comportarono in modo diverso gli uni dagli altri: chi scappò a casa, chi combatté contro i Tedeschi, chi abbandonò le armi. Purtroppo il risultato fu devastante perché vi furono molti morti e prigionieri nei lager tedeschi.

Giorni d’attesa

Riposatomi per alcune ore, decisi poi di prendere alcuni effetti personali e di uscire. Mi recai in via San Giacomo Venezian ove abitava un amico di Cittadella, mio paese d’origine, che era alle dipendenze del Vaticano. Egli mi ospitò per alcuni giorni così che potei girare presso caserme e amici carabinieri, onde regolarmi sul da farsi. Perché potessi confondermi nel via vai delle persone l’amico mi aveva regalato un suo vestito che purtroppo era di taglia piccola rispetto al mio corpo. Fu forse per questo abito fuori misura che fui guardato attentamente da un gruppo di ragazzi sui quindici anni, armati di fucili, pistole e bombe a mano. Li sentii consultarsi chiedendosi fra loro se ero un italiano o un tedesco. Fu così che uno mi si avvicinò con circospezione chiedendomi l’ora ed ebbi modo di dire l’ora e anche che ero un italiano. Ho citato questo piccolo fatto per significare quale era lo stato di confusione e di tensione che serpeggiava in tutta Roma. Il 12 settembre andai alla caserma di San Lorenzo per avere notizie dall’amico carabiniere Lorenzo Vico, attendente della vedova del generale Hazon ucciso nel bombardamento. Questi mi consigliò di non ritornare nel Veneto perché tutti gli uomini che viaggiavano venivano controllati e quelli in età di fare il soldato, mandati nei campi di concentramento in Germania. Fu così che il 13 settembre rientrai in caserma. Ritrovai vari amici e un nuovo capitano. Egli mi chiese solo il nome e mi disse che potevo andare nella mia camerata: non mi fu chiesta nessuna spiegazione per l’assenza. Nel mio letto trovai tutto quello che avevo lasciato, non mancava proprio nulla. Ripresi la vita di caserma, però con alcune varianti; si andava in libera uscita senza armi, solo se c’erano motivi plausibili, come portare biancheria a lavare. Per

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uscire però bisognava mettere sul braccio una fascia bianco-gialla: non mi fu detto il significato, ma ho pensato volesse dire che Roma era città aperta per le sue numerose opere d’arte, per le sue imponenti testimonianze storiche e infine perché sede dello stato extraterritoriale del Vaticano, la cui bandiera è appunto bianco–gialla. In quei giorni il mio secondo plotone della quarta compagnia fu mandato di mattina come picchetto d’onore ai funerali del capitano De Tommaso. Accettai di buon grado di partecipare a quella solenne celebrazione perché quel capitano mi era restato nel cuore e, ancora oggi, lo ricordo con affettuosa riverenza.

Fatti di prepotenza

Il 14 settembre 1943 il mio plotone, assieme ad un altro della quarta compagnia, fu inviato quale picchetto di servizio pubblico alla stazione Ostiense di Roma: erano arrivati venti vagoni di derrate alimentari da distribuire alla popolazione. A Roma in quel momento vi era carestia e i cibi scarseggiavano. Trovammo molta folla, autorità civili e parecchi ufficiali tedeschi accompagnati da soldati. Noi dovevamo fare dei cordoni a difesa dei vagoni perché la gente non li saccheggiasse. Il lavoro di distribuzione fu lento e difficoltoso. Non ne avevano ancora distribuita una metà, quando l’ufficiale tedesco che comandava, salì su un vagone e disse in italiano: “Abbiamo finito, i restanti vagoni spettano ai soldati tedeschi”. La folla cominciò a gridare e spingere cercando di rompere i nostri cordoni. Quell’ufficiale diede a noi l’ordine di sparare, i nostri ufficiali invece non ci impartirono nessun ordine, noi stemmo fermi. I nostri ufficiali, pur sapendo che disobbedivano a degli ordini, non aprirono bocca dimostrando così a tutti quanto fosse alto il loro equilibrio umano, legato al senso di comprensione verso i bisognosi. Capii anche molto bene, come la disciplina tedesca fosse profondamente arrogante e che in definitiva fosse una obbedienza spesso irrazionale che andava al di là di ogni giustizia. Quell’ufficiale tedesco, arrabbiato, strappò al carabiniere che gli era vicino il mitragliatore e sparò una raffica in aria e una a terra, là dove non c’era folla.

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Tutti tacquero e cominciarono a sfollare. Allontanandosi però, tutti inveirono contro i tedeschi e le autorità comunali che non avevano perorato con forza la giusta richiesta dei cittadini che ad alta voce chiedevano fossero dispensate le derrate dei venti vagoni. Tutto si svolse fortunatamente senza spargimenti di sangue. Quel fatto mi portò a considerazioni amare: noi Italiani avevamo trovato dei padroni pronti a qualsiasi azione pur di continuare la guerra, convinti di vincerla. Il 15 settembre verso sera successe a un mio commilitone un fatto che dimostrò in modo chiaro e netto che la presenza delle forze tedesche in Roma aveva fatto sorgere dei rigurgiti di arroganza fascista. Quel carabiniere che era in libera uscita, era entrato in un bar per prendere un caffè. Mentre stava sorbendolo sentì dietro di sé una voce stentorea che diceva: “Voi carabinieri della quarta compagnia siete tutti dei traditori perché avete arrestato Mussolini”. Si volse e vide davanti a sé uno in divisa fascista e con una rivoltella in pugno che, continuando a gridare, sparò un colpo che fortunatamente andò a vuoto. Il collega preferì andarsene senza far parola, anche perché era disarmato come era stato prescritto in quei giorni di confusione.Denunciò il fatto al superiore, all’indomani a noi carabinieri fu concesso di portare in libera uscita la pistola, però senza munizioni! Questi due esempi, anche se modesti, furono per me dei segni che alla fine mi portarono a considerare il ritorno a casa come la cosa più opportuna.

Intermezzo

Nonostante nel mese di settembre 1943 vi fossero anche in Roma episodi che dimostravano la volontà nazifascista di prendere il comando in ogni settore politico-militare, nella nostra caserma si era diffusa la convinzione, specie fra gli ufficiali, che noi carabinieri non saremmo stati oggetto di retate e di invio in Germania nei campi di concentramento. Infatti nella nostra caserma, dove quasi tutti eravamo ritornati ai nostri posti, continuavamo a svolgere i vari servizi che ci erano abituali prima dell’armistizio. Il 18 settembre 1943 io, col mio plotone della quarta compagnia, ero di picchetto d’onore

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all’Altare della Patria, Sacrario dei Caduti, quando fui partecipe di un fatto importante per me, perché segnò una svolta della mia vita.L’amico Antonio Franchetto, di Castelfranco Veneto, era di sentinella proprio in quei momenti quando sua madre arrivò dal Veneto. Subito senza preamboli dichiarò all’ufficiale, che comandava il picchetto, che era arrivata fin là per portare a casa il suo Toni, perché nel Veneto i Tedeschi avevano rastrellato soldati di ogni arma e anche giovani civili, e che lo voleva nascondere nei propri luoghi natii dato che conosceva alla perfezione boschi e caverne nei monti, piuttosto che lasciarlo a Roma in balia dei Tedeschi e dei fascisti. L’ufficiale incaricò un brigadiere di sostituire la sentinella con un altro, perché potesse parlare con sua madre: io fui scelto per la sostituzione. Durante le operazioni per il cambio della guardia, sussurrai all’amico: “Se decidi di andare a casa, avvisami perché io parto con te”. Dopo l’ufficiale diede a madre e figlio due giorni di tempo per decidere.Passate quarantotto ore l’amico carabiniere venne a dirmi di aver deciso di ritornare a casa il 22 settembre 1943, partendo dalla stazione Termini col treno delle 21,15. In quel momento vicino a me c’era anche l’altro amico Alfredo Lazzaro da Treviso, che subito dichiarò di associarsi.Verso sera del giorno stabilito, vestito in borghese, uscii dalla caserma con la valigia d’ordinanza piena e un altro pacco, dichiarando al capoposto del picchetto di guardia che mi recavo in lavanderia per la pulizia del mio guardaroba. Invece mi avviai verso la stazione. Nella valigia avevo messo tutto il mio vestiario personale, nel pacco avevo dei libri fra i quali avevo nascosta la fondina con la mia pistola in dotazione e due caricatori, avvolti in un pezzo di stoffa. Arrivai alla stazione, comprai il biglietto, non vidi gli amici, arrivò l’ora della partenza del treno e salii da solo.

Verso casa

Una volta i vagoni passeggeri avevano un lungo corridoio laterale che univa parecchi scompartimenti dove in ognuno potevano sedere otto persone: scrutai un po’ ed entrai dove vidi dei giovani. Due erano infagottati in abiti civili, di taglia diversa dalla loro, poi vi

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erano tre ragazze: capii subito che quei giovani erano soldati in fuga, come lo ero anch’io. Cominciammo a parlare facendoci piccole confidenze reciproche. Prima di Firenze il treno fece due soste fuori programma perché un bombardamento aveva danneggiato un tratto di binari. Fu a questo punto che uno dei giovani disse: “Siamo stati fortunati finora, speriamo di non incappare ora in qualche pattuglia di Tedeschi, quelli ti perquisiscono e se ti trovano un’arma, ti fanno scendere e ti uccidono sul posto senza alcuna altra indagine. Se tu hai un’arma, rivoltosi verso di me, consegnala alle donne, come abbiamo fatto noi, perché esse non vengono perquisite”. Io senza pronunciare parola diedi la mia pistola con la fondina e i caricatori alla signorina che mi era vicina e che subito se la mise in seno. Non vi furono controlli. Arrivati a Bologna quei giovani scesero e, dopo calorosi saluti, la giovane mi restituì l’arma che subito nascosi nel soffietto che univa il mio vagone con quello precedente. Arrivai a Padova senza intoppi. Ripresi la rivoltella, scesi con i miei due fagotti nascondendo l’arma ancora fra i libri. Era l’una di notte del 24 settembre 1943. Consultai l’orario e vidi che la littorina per Cittadella e Bassano partiva alle sette. (La littorina era un vagone mosso da un motore diesel che serviva per i piccoli tragitti. Fu in funzione durante il fascismo e fu così chiamata dalla parola romana “Littorio” che indicava un fascio di verghe con una scure centrale: era il simbolo che portavano le guardie a protezione dell’autorità; divenne il simbolo fascista). Dovevo attendere varie ore prima di partire, così studiai dove mettermi per restare in attesa senza ricevere visite indesiderate. Tutto era discretamente illuminato, così vidi che in una sala d’aspetto c’erano due porte: una d’entrata dal marciapiede e un’altra per andare nei locali di biglietteria la quale aveva anche un’altra porta di uscita.Entrai, trovai una signora un po’ anziana, mi sedetti in un posto in penombra, vicino alla porta che menava alla biglietteria. Da quel posto potevo osservare quello che succedeva nella banchina esterna. Vidi due militi fascisti che si stavano avvicinando, scappai lasciando là la valigia e il pacco. La signora aveva visto la mia fuga

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e l’arrivo della milizia ferroviaria: capì certamente subito che io ero uno sbandato. Intanto mi ero nascosto nei coni d’ombra fra i binari, così potevo controllare, senza essere visto, chi entrava e chi usciva dai vari locali della stazione. Vidi i militi fascisti che si recarono altre due volte nella sala d’aspetto. Finalmente, dopo una paziente attesa m’accorsi che i due si erano vestiti in borghese, evidentemente avevano finito il loro turno di guardia. Aspettai un po’ e non vedendo altri movimenti ritornai nella sala d’aspetto. La signora mi fece un sorriso che io contraccambiai. Mi disse che la ronda aveva chiesto di chi erano i fagotti e che lei aveva risposto che erano di una persona anziana che era uscita a prendere aria: certamente la sua risposta tranquilla e precisa non insospettì i fascisti. Capii che noi sbandati ricevevamo aiuti da tutta la popolazione. Rimasi sempre nella sala d’aspetto con i nervi tesi per l’attenzione e per non appisolarmi: fui sempre vigile.Aprirono la biglietteria, comperai il biglietto e partii verso casa.Arrivato a Cittadella, nonostante dovessi fare quattro chilometri per arrivare in famiglia con valigia e pacco pesanti, mi avviai a piedi col cuore gonfio di gioia per ritrovare i familiari. Fatto un chilometro arrivai davanti al duomo che ben conoscevo, mentre uscivano i fedeli dalla Messa. Ero fermo davanti un incrocio da attraversare, quando iniziò a passare una colonna tedesca di camion porta truppe, con tanti soldati armati. Rimasi là a guardare impalato e inebetito dalla paura mentre vidi i fedeli che precipitosamente se ne ritornavano in chiesa o si nascondevano dietro le colonne del pronao.Fortunatamente nessun camion si fermò, era evidente che quei soldati avevano una loro missione da compiere, così anche questa volta la passai liscia. Quel fatto improvviso e imprevisto mi impressionò specie perché la popolazione scappava quando vedeva i Tedeschi. Continuai il mio cammino. Fatta poca strada vidi che un mio parente stava per aprire la sua osteria. Mi fermai per salutarlo e chiedere aiuto per il trasporto dei miei pesanti colli.Mentre stavamo parlando si fermò un furgone, l’autista voleva bere il “grappino” mattutino. Era un conoscente dell’oste; subito gli chiese se mi poteva portare fino a casa. Arrivai inaspettato; tutti furono felici

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di vedermi anche perché era circa un mese che non davo notizie. Festeggiato da parenti e amici me ne stetti per qualche tempo rintanato in casa, pronto a nascondermi nel caso si fossero viste ronde tedesche o fasciste. Io in quei giorni ero contento di essere con i miei e di aver superato indenne tanti pericoli, però nel contempo mi rimproveravo nel mio più profondo intimo, di non aver rispettata la regola fondamentale dei carabinieri che è quella dell’obbedienza, perché io me ne ero andato via insalutato ospite.

Amici carabinieri di Roma

Quando il capitano De Tommaso fece le scelte fra gli allievi promossi carabinieri per la sua quarta compagnia del Comando Generale, oltre una quindicina eravamo Veneti. Poco a poco nella compagnia si formarono vari gruppi composti da amici corregionali, soprattutto per le stesse frequentazioni degli usi e costumi tradizionali. Di questi amici ne ricordo principalmente tre, due dei quali ho già cominciato a parlare, e un altro che dirò più avanti. Lo faccio perché li ho rivisti dopo la guerra. In aggiunta a questi, a Roma feci amicizia con un carabiniere che abitava a Belvedere, vicino a Cittadella, ma che apparteneva allora alla stazione provinciale carabinieri di San Lorenzo. Proprio costui nella prima decade di ottobre mi raccontò fatti dolorosi che mi tolsero ogni rammarico di essermi allontanato dal mio reparto.L’amico Vico che era, come ho già detto, l’attendente della vedova del generale comandante l’Arma dei Carabinieri, morto nel bombardamento di Roma, ritornò a casa. Venne da me vestito di tutto punto con la divisa dei carabinieri. Mi disse che era ritornato ai primi d’ottobre nella sua terra per raccogliere derrate fresche da portare alla vedova che lui aiutava per il disbrigo delle faccende extracasalinghe. Mi spiegò che, prima di partire da Roma, era andato a cercarmi nella mia caserma per vedere se avevo qualcosa da mandare o da ricevere dalla famiglia. Gli dissero che ero assente da una decina di giorni, così lui dedusse che dovevo essere arrivato a casa. Parlammo degli amici rimasti in servizio e restammo d’accordo che mi avrebbe informato di ogni sviluppo della situazione a Roma.

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Dopo quattro giorni lo rividi a casa mia vestito in borghese.Meraviglia! Quando la sera dell’otto ottobre era arrivato in treno a Roma, vide un pattuglione di soldati tedeschi che rastrellavano carabinieri e soldati in divisa. Fortunatamente per lui nello stesso scompartimento c’era una coppia di sposi romani: lui gli diede il soprabito per nascondere la divisa, lei gli tolse il berretto che nascose nella borsetta. Così a braccetto scesero e attraversarono il cordone tedesco. La coppia, che abitava poco lontano, gli diede un letto per dormire e un abito civile per vestirsi. Alla mattina lasciò là le varie derrate che aveva acquistato nel Veneto e, con estrema precauzione, se ne tornò a casa. Mi disse anche di essere stato informato che poco prima i Tedeschi avevano fatti prigionieri tutti i carabinieri del Comando Generale e che furono mandati direttamente in Germania. Argomentò che forse erano stati mandati nei lager per punirli perché furono i custodi di Mussolini quando fu deposto: fra costoro vi erano anche i due che dovevano ritornare con me! A guerra finita mi fu detto anche che quelle retate di carabinieri, che prestavano servizio d’ordine pubblico senza ancora aver giurato fedeltà a Mussolini, erano dovute al timore che i carabinieri fossero sempre pronti ad aiutare qualsiasi sbandato e, soprattutto, gli ebrei. Infatti prima mandarono i carabinieri in Germania, poi rastrellarono gli ebrei italiani.Questi fatti segnarono in me una forte decisione: il passato non esisteva più, ora dovevo guardare solo al futuro. Ero pronto ad aiutare chi aveva bisogno di essere protetto dai nazifascisti. Nel dopoguerra ritrovai alcuni vecchi amici e seppi così che Franchetto e Lazzaro, coloro che dovevano accompagnarmi nel ritorno, ritornarono dalla Germania nel 1945. L’amico Vico invece non l’ho più rivisto, mi dissero che era ancora nell’arma dei carabinieri e che aveva il grado di maresciallo. Quello che più mi ha colpito è stata la situazione in cui si è trovato un carabiniere originario di Schio. Dopo aver passato parecchi mesi nella mia compagnia, fu inviato in Jugoslavia, ormai occupata dagli eserciti italiano e tedesco, per il servizio d’ordine pubblico. Arrivato l’otto settembre 1943 scappò e fece la vita dello sbandato

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fra i boschi marciando verso l’Italia. Arrivato nella Venezia Giulia – ora Istria -, incappò in una pattuglia di carabinieri italiani collaborazionisti coi Tedeschi. Costoro lo convinsero di aggregarsi al loro gruppo che godeva di tranquilla quotidianità. Conoscendolo, certamente accettò solo perché i Tedeschi in quei momenti avevano la feroce determinazione di punire tutti i soldati italiani della Jugoslavia perché avevano fatto resistenza armata. Poco tempo dopo invece fu mandato a scovare partigiani titini e soldati italiani renitenti. Disertò e fra monti e boschi si avviò verso casa. I Tedeschi, saputa la sua diserzione, mandarono una pattuglia fascista per ricercarlo a casa. Non trovandolo prelevarono il padre, lasciando detto che, se non si presentava entro un certo periodo di tempo, suo padre sarebbe stato mandato nei lager tedeschi a lavorare. Informato, l’amico si trovò ad affrontare un dilemma immane.Presentarsi voleva dire subire un processo ed essere condannato e mandato in Germania, senza avere la garanzia che suo padre sarebbe stato liberato. Era allora noto che i Tedeschi consideravano i carabinieri acerrimi nemici di Mussolini e quindi dovevano essere puniti nel peggiore dei modi. Chiese consiglio a varie persone, anche al suo Vescovo. Tutti gli risposero di attendere un po’ per vedere se si chiariva la situazione, perché di sicuro c’era una punizione per lui e poi anche per il padre che aveva protetto il figlio disertore. Non si presentò: il padre fu mandato in Germania ove morì. L’amico riuscì a cavarsela e a sopravvivere, però dentro gli rimase sempre un grandissimo e profondo dolore perché il padre era morto per gli stenti patiti in Germania per colpa sua. In famiglia

Per alcuni mesi vissi nella quiete e nel lavoro presso i miei familiari. Aiutai mio padre a coltivare i campi nel periodo autunnale: arai la terra e seminai il frumento. Mio fratello Giuseppe, ritornato dalla prigionia jugoslava, come già detto, ancora un po’ acciaccato, si mise a lavorare da falegname assieme al nostro fratello Gaspare che, pur essendo solo diciottenne, aveva imparato il mestiere come apprendista. Costoro crearono il loro laboratorio nel portico della

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nostra stalla. Cullato dalla quiete degli affetti familiari, mi misi a riordinare nomi e date della mia vita militare, facendo brevi appunti. Lo stesso poi feci nei momenti di quiete del periodo della mia attività di partigiano.Erano note modeste che ho conservato, assieme ad altre cose di quei periodi, e che ora mi sono state utili per dettare le mie memorie. Intanto avevo ripreso anche la mia solita vita sociale, seppur con molta precauzione per evitare ogni controllo nazifascista. Ritornai a frequentare i circoli cattolici, allora molto fiorenti dalle nostre parti. Il mio Arciprete, quando mi rivide, mi abbracciò sussurrandomi: “Ogni giorno ho pregato e prego per voi giovani parrocchiani”.Trovai anche don Lino Girardi il quale, pur essendo cappellano militare dei carabinieri a Padova, ogni giovedì riuniva noi giovani di Cittadella: e i partecipanti erano tanti! Quel sacerdote non solo ci spiegava il Vangelo, ma anche ci informava di tutto ciò che raccoglieva relativamente all’andamento della guerra e di come i nazifascisti trattavano gli sbandati. Fra i presenti vi erano anche dei giovani che avevano visto di persona i rastrellamenti nelle stazioni ferroviarie di Treviso e Castelfranco Veneto. Dissero anche che agli sbandati veniva subito chiesto se aderivano alla repubblica fascista di Mussolini: chi non accettava veniva caricato nei vagoni merce per la deportazione in Germania.Sentendo più volte questi soprusi, tutti cominciammo a chiederci come si poteva aiutare quelli che non volevano collaborare coi fascisti. Da parte mia avevo già operato dei soccorsi agli sbandati, prima ancora di essere partigiano a tutti gli effetti. Nei primi giorni del dicembre 1943 ebbi modo, assieme ad altri, di aiutare dei soldati prigionieri che riuscirono a fuggire dai campi tedeschi. Il 6 dicembre furono tre soldati inglesi che rifornimmo di cibi e vestiario e che poi conducemmo verso le montagne; il 20 dicembre furono altri quattro Inglesi che aiutammo allo stesso modo. Fu anche per questi motivi che sorse in me imperiosa la volontà di mettermi dalla parte della giustizia e diventare partigiano. Già da qualche mese sentivo parlare sottovoce negli ambienti cattolici che frequentavo della formazione di gruppi di patrioti che facevano

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colpi di mano per procurarsi armi e munizioni onde poi organizzare attività di disturbo ai soldati tedeschi e a quelli di Mussolini. Fu così che cercai e trovai un contatto per unirmi a quelle formazioni.

Aprile 1944 Il dieci aprile 1944 per me, mio fratello Giuseppe e il cugino Angelo Sgarbossa è stata una data fatidica. Assieme a qualche altro divenimmo partigiani aggregati ad un plotone comandato dal concittadino professor Erminio Sgarbossa, che aveva il nome di battaglia di Fricco. Egli era cugino sia di noi Bizzotto, per via di nostra madre che era una Sgarbossa, sia di Angelo Sgarbossa. Dopo aver consegnato i nostri dati anagrafici, io presi il nome di battaglia di Ercole (scelsi quel nome perché stavo leggendo un libro su quel mitico eroe forzuto), mio fratello Giuseppe il nome di battaglia di Leo e Angelo quello di Sacripante. Subito Fricco precisò che noi facevamo parte della brigata “Italia libera”, poi parlò dei nostri doveri e dei nostri impegni. Dovevamo tacere il più possibile e non fare confidenze a nessuno; eseguire con accortezza e decisione solamente quello che stabilivano i comandanti; aiutare comunque e ovunque ebrei, sbandati italiani, soldati stranieri fuggiti dai campi di concentramento tedeschi, in pratica aiutare tutti coloro che rifiutavano il nazifascismo o che da questa forza erano ricercati.Insistette molto sul silenzio, sulla volontà e sull’attenzione per non incappare in fraintendimenti, negligenze e stratagemmi messi in atto dai nemici. Frequentando gli ambienti partigiani a poco a poco mi resi conto di come la Resistenza si andava formando e strutturando nella mia zona, da Cittadella a Bassano del Grappa. I gruppi di partigiani nascevano per la volontà di qualcuno che di norma poi veniva eletto comandante. Le piccole formazioni raggruppavano generalmente persone dello stesso paese, quelle medie di paesi contermini, quelle grandi di province. I comandanti erano di solito ex ufficiali dell’esercito o professionisti che si distinguevano per le loro doti. Tutti noi partigiani avevamo un nome di battaglia e si conoscevano i veri nomi solo di pochi, onde

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evitare il pericolo, nel caso di essere fatti prigionieri e messi sotto tortura, di rivelare da chi era formato il reparto di appartenenza.Il nostro organigramma era quello dell’esercito italiano.Si partiva dalla squadra e, a multipli di tre, si saliva al plotone, compagnia, battaglione, brigata, per finire poi alla divisione. Ogni nostro reparto si distingueva non da numeri, ma da nomi di eroi, di luoghi o di persone celebri.Il comandante di ogni gruppo era coadiuvato da una o più persone a seconda del numero dei combattenti sottoposti. La quantità dei facenti parte di ogni singolo reparto era variabile a seconda degli aderenti. Talvolta le formazioni si differenziavano per impostazioni politiche o strategiche diverse, creando qua e là dei duplicati.Così pure, per i gruppi che formavano i reparti più grandi, non sempre l’organigramma si sviluppava con lo stesso ordine prima accennato. A me toccò anche di vedere cambiato il nome del reparto nel quale ero stato incardinato. Alla fine capii anche che la mia brigata “Italia libera” era formata da apolitici che erano però quasi tutti di formazione cattolica, come lo ero io. Nonostante queste variabili i nostri reparti però furono sempre concordi nella lotta contro i nazifascisti, aiutandosi spesso a vicenda.Noi partigiani di pianura dividevamo il nostro tempo fra i lavori in famiglia e i compiti che di volta in volta ci venivano assegnati dal nostro comandante o dai responsabili politici dei vari CNL (Comitato Nazionale di Liberazione) sorti nelle città e in molti paesi. Quello di Cittadella fu molto importante ed era retto dall’avvocato Gavino Sabadin che lavorò in modo fattivo non solo nella mia città, ma anche in tutto il Veneto.Mentre le nostre formazioni divenivano sempre più numerose, entrarono nei nostri reparti anche alcuni disertori dell’esercito di Mussolini. Erano persone motivate perché avevano fatto una doppia scelta coraggiosa: diserzione dai nazifascisti e lotta contro di essi. Costoro portarono con sé tutto ciò che avevano di armi ed equipaggiamenti.Durante il periodo della lotta partigiana io e mio fratello

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partecipammo alle stesse azioni, perché eravamo dello stesso plotone, però ci avevano assegnati a squadre diverse e in pratica quasi sempre distanti fra noi: evidentemente il comandante non voleva coinvolgere entrambi nei medesimi momenti e luoghi di pericolo.

Staffetta

Poco dopo essere stato accolto fra i partigiani, mi fu assegnato il compito di staffetta portaordini. Assieme a un altro giovane fui incaricato di prelevare dall’ufficio di collocamento di Cittadella un pacco per poi scambiarlo con un altro lungo il percorso che si doveva fare. Il pacco ricevuto doveva essere poi fatto recapitare al nostro comandante di battaglione. Bisognava percorrere la strada Castelfranco Veneto – Vedelago ove avremmo trovato il contatto con due ragazze. Partimmo in bicicletta con gli zaini ove avevamo messo il pacco e degli indumenti usati per dimostrare, se fermati da pattuglie nazifasciste, che noi andavamo a portare assistenza a famiglie bisognose.Raggiunto un tratto di strada ove non c’erano case e occhi indiscreti che ci scrutassero, ci fermammo e ci mettemmo a trafficare su una bicicletta come se si fosse bucato un pneumatico. Come si faceva una volta, rovesciammo la bici sul ciglio stradale e levammo dalla sede dei cerchioni, usando le levette di dotazione, copertone e pneumatico. Lavorammo lentamente scrutando i radi passanti. Arrivarono due ragazze pure loro in bici, si fermarono e ci chiesero se avevamo bisogno di aiuto, dissero nel contempo la parola d’ordine; capimmo e rispondemmo a tono. Scambiammo i plichi. Le ragazze ripartirono, noi riassettammo le bici e gli zaini e ritornammo. Arrivati, con attenta circospezione, consegnammo il plico a chi di dovere. Eravamo contenti perché avevamo fatta la nostra prima azione, con attenzione e con il risultato che era andata a buon fine: personalmente pensavo di aver vinto il mio primo approccio con la lotta contro i nazifascisti.

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Preso di mira da due soldati tedeschi armati Verso la fine dell’aprile 1944 ero sul cancello di casa dove abitavamo e stavo andandomene da un amico, quando vidi due soldati tedeschi di ronda armata in bicicletta, fermi a parlare con un anziano del paese. Era costui una persona che io conoscevo appena, ma che era noto per le sue sbronze e perché sapeva un po’ di lingua tedesca in quanto aveva lavorato, da giovane, in miniera in Germania. Io mi fermai e rimasi indeciso sulla strada Valsugana se continuare o ritornare sui miei passi. Ad un tratto quelle tre persone si voltarono verso di me. Sentii allora l’anziano esclamare a gran voce: “Quello potrà essere un partigiano!”. I due soldati appoggiata la bici si avviarono a piedi verso di me. Io, sapendo di non essere fornito di una documentazione specifica per i controlli militari nazifascisti, scappai a gambe levate.Rientrai in cortile e uscii dal cancello opposto che menava in un sentiero campestre parallelo alla roggia Munara, e presi la direzione verso i campi aperti. I soldati mi corsero dietro, ma io li distanziai. I soldati cominciarono a spararmi contro, io allora zigzagai fra gli alberi, l’erba e una roggia. Costoro vedendo che ero troppo lontano per colpirmi, ritornarono sui loro passi, ripresero le biciclette e mi corsero dietro. Io ero sparito alla loro vista. Passando però vicino alla casa di Fricco e temendo anche per lui, volli allertarlo. Saltai sulla strada, la attraversai e riuscii a parlare con il mio capo plotone. I soldati cominciarono di nuovo a sparare: tutt’e due ci infilammo nei canaletti di irrigazione dei campi coltivati a erbaio: riuscimmo a salvarci correndo a perdifiato e saltando qua e là. Arrivati presso alcune case entrammo in quella a destra. Trovammo una signora che al volo capì la nostra situazione. Ci prese per mano ci condusse dietro una tettoia agricola, vedemmo un pollaio ove c’erano pulcini che pigolavano entro una cassetta. Sollevò la cassetta, tolse un asse; sotto c’era un piccolo rifugio ove ci nascondemmo. La signora risistemò tutto e se ne tornò alle proprie faccende casalinghe. Non sentimmo alcun rumore, restammo nascosti per alcune ore e alla fine la signora venne a liberarci. Ci raccontò che i due soldati col fucile spianato volevano sapere da lei dove erano andati i due partigiani.

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Lei, forse spaventata o forse ad arte, negò solamente scrollando la testa. I Tedeschi con le baionette innestate infilzarono numerose volte un mucchio di fieno colà raccolto nella barchessa. Alla fine le chiesero per dove erano fuggiti i due partigiani, la signora indicò una strada che portava a Laghi, una frazione opposta al luogo dove io abitavo; i Tedeschi andarono velocemente in quella direzione.Dovemmo molto a quella donna che si mostrò una vera patriota pronta a rischiare di persona. Seppi poi dall’anziano zio Ernesto, residente nel nostro caseggiato, che i due soldati, mentre nell’inseguimento si trovavano ancora nel cortile di casa, vedendolo gli chiesero chi era quello che scappava, lo zio rispose: “Non lo conosco”.Tornato a casa sul tardi trovai i miei in apprensione, sia perché lo zio aveva avvisato che io ero stato inseguito da soldati tedeschi, sia perché una loro pattuglia era arrivata a casa nostra nel pomeriggio chiedendo dove era una camicia celeste: rovistarono, ma non trovarono niente. Avevano visto la mia camicia celeste mentre scappavo e avevano cercato di ritrovarla: per fortuna ne avevo una sola di quel colore e l’avevo addosso. Mia madre volle subito bruciare quella camicia, tutti ne fummo contenti!

Maggio – giugno 1944

Nel mese di maggio mi fu assegnato un compito rischioso: custodire per qualche tempo la ricetrasmittente del mio comandante Fricco. Costui era un professore di matematica che aveva abitato a Chicago, negli Stati Uniti, ove aveva frequentato le scuole primarie e secondarie, e quindi conosceva molto bene l’inglese, tanto che il suo nome di battaglia “Fricco”, come ho saputo più tardi, l’aveva derivato da una parola inglese che vuol dire “capellone”. Ritornata la famiglia in Italia si laureò a Padova. Data questa sua particolare peculiarità egli era anche addetto a tenere i contatti telefonici con gli anglo-americani, cosa che fece in modo costante e ammirevole. Teneva la scatola delle apparecchiature in una valigia vecchia che di soppiatto spostava qua e là, per non farsi scoprire dai Tedeschi durante le trasmissioni, perché essi erano forniti di macchinari speciali per localizzare i ricetrasmettitori.

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In quel periodo io facevo il custode notturno di una casa colonica fra i campi che serviva saltuariamente da rifugio alla numerosa famiglia dell’ing. Brunetta di Padova, proprietario della terra lavorata dalla mia famiglia che l’aveva in affitto. Fricco venne a notte fonda e armeggiò: trasmise e ricevette informazioni. Fu così che fece per tre volte distanziate fra loro. L’ultima volta si portò via la ricetrasmittente per nasconderla in un altro luogo. Io, anche se ero presente e attento controllore per evitare sorprese inaspettate, non capivo certamente la conversazione in lingua inglese, però mi rimaneva la soddisfazione di partecipare direttamente a quelle trasmissioni tanto necessarie sia per i rifornimenti d’armi fatti dagli Americani, sia per dare indicazioni logistiche sugli spostamenti di truppe tedesche. Mentre si infittivano le azioni di disturbo contro i Tedeschi e repubblichini, si sviluppava anche la raccolta di armi, fatta con colpi di mano soprattutto contro i fascisti, e venivano infoltiti i reparti con nuove adesioni di volontari, sbandati e renitenti alle leve mussoliniane fatte dal generale Graziani.Nella nostra zona tra Cittadella e Bassano si erano formati anche gruppi disarticolati dal resto: questo portò a sentire la necessità di un nuovo coordinamento. Il 7 giugno sei responsabili dei nostri reparti si riunirono a Cassola per studiare il da farsi. Il risultato fu di raggruppare tutti i partigiani che operavano da noi nel battaglione Silvio Pellico, a ricordo dell’eroe del nostro Risorgimento. Ho saputo poi che fra quei sei comandanti c’erano due mie conoscenze che risalivano all’anteguerra e che adesso ho il piacere di ricordare: l’insegnante Albino Rebellato, detto Bino, prezioso collaboratore dell’avvocato Gavino Sabadin capo del nostro CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), e Sante Bernardi, detto Buonconsiglio, che era il comandante della mia compagnia e che abitava poco lontano da me.Comandante del nuovo battaglione fu nominato l’ufficiale chiamato Negri, che si dimostrò un valido e capace organizzatore.Fu stabilito anche che il battaglione Pellico si dedicasse principalmente a eseguire sabotaggi, provvedendo nel contempo di avere come collaboratore un esperto artificiere.

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Luglio 1944: armi paracadutateNella notte dell’8 luglio partecipai, per la prima volta, alla raccolta di numerosi colli, pieni di armi, lanciati dagli aerei Alleati. Lo feci con entusiasmo perché molto motivato e perché ritenevo che quel lancio fosse stato concordato in una trasmissione che il mio comandante Fricco fece in mia presenza.Il lancio notturno doveva essere fatto in un luogo isolato, sito a cinque chilometri da Bassano del Grappa e a mezzo chilometro da Cassola. Era stato scelto quel luogo, lontano da Bassano, soprattutto perché in quella città erano dislocati soldati tedeschi e militi fascisti. Sul punto precisato furono sparpagliati vari partigiani armati perché i colli lanciati col paracadute dovevano essere parecchi e bisognava recuperarli e se il caso difenderli. Purtroppo, a causa di un forte vento e forse anche per la scura notte, i colli caddero nell’abitato di Cassola.Noi partigiani dovemmo correre il rischio di entrare nell’agglomerato cittadino per raccoglierli. Fortunatamente in quel paese non c’erano soldati nazifascisti di guardia e gli abitanti che ci videro collaborarono.I nostri comandanti, onde evitare sgradite sorprese, avevano dislocate alcune pattuglie lungo le strade di accesso, perché dessero l’allarme se vedevano pattuglie nazifasciste e per contrastarle. Io e la maggioranza degli uomini raccogliemmo le pesanti sacche e le trasportammo in un casolare disabitato sito in mezzo alla campagna; naturalmente previo assenso del proprietario in modo potesse destreggiarsi in caso di controlli dei nazifascisti. Finito il lavoro quando albeggiava, fummo congedati. Restituimmo le armi avute ai nostri capi plotone, come era ormai d’uso, e andammo a riprenderci le biciclette, che avevamo nascoste qua e là, e che avevamo usate per arrivare al punto designato per la raccolta. Io avevo ricevuto una mitraglietta e una bomba a mano: diedi indietro la mitraglietta e dimenticai la bomba. L’avevo messa nella tasca dove tenevo la rivoltella da carabiniere, parecchio più pesante della bomba; per cui lì per lì non percepii la differenza di peso derivante dalla bomba a mano. Infatti questa era di alluminio e nell’esercito

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veniva usata solo negli assalti quando si correva e se ne dovevano lanciare parecchie per produrre scoppi, fumo e disorientamento. Per informazione preciso che quelle di difesa, da lanciare nascosti da un riparo, erano invece pesanti e producevano tante schegge di ferro per ferire e uccidere. Proprio in quella mattinata arrivai verso le sette in un crocevia della Valsugana, proprio dove c’era un raggruppamento di case in quel di Cittadella, quando incappai in una ronda di due soldati tedeschi.Mi fermarono sul ciglio stradale, cominciarono a farmi domande e a chiedere i documenti. Io non capivo ma intuivo, così tra gesti e poche parole tirai per le lunghe. I soldati si spazientirono, diedi allora a loro la carta d’identità. Proprio mentre uno di loro la riceveva, sentii una forte voce che diceva: “Attilio, Attilio, cosa fai qui?”. Era mia cugina Elia Marsan che apriva la finestra della sua camera da letto e che dava una sbirciata sulla strada. Subito la cugina capì le mie difficoltà, cominciò a parlare ad alta voce, chiamando uno di quei due col nome di Jacob perché lo conosceva giacché era alloggiato in quel rione e lei gli lavava la biancheria e faceva lavori di cucito. Così si mise a dialogare con quei due soldati un po’ in lingua tedesca e un po’ in dialetto. Giurò e spergiurò che io ero un bravo ragazzo, che non facevo male a nessuno, nemmeno a una mosca. Io approfittai di quei momenti che i Tedeschi erano rivolti verso la cugina, così lestamente con astuzia lasciai cadere fra l’erba del fosso laterale sia la bomba che la pistola rompendo la tasca dove le tenevo. Dopo la chiacchierata, il soldato che era stato apostrofato e che aveva in mano il mio documento, me lo rese dicendo: “Gut, bene”; forse perché convinto o perché lui, anziano, non voleva creare divergenze con la popolazione presso la quale viveva tranquillo.Arrivato a casa pregai mia sorella Gina, che stava per uscire, di andare dalla cugina Elia dicendole che avevo bisogno di parlarle. A sera fonda venne da me, calorosamente la ringraziai di essere venuta e, sapendo che lei faceva il doppio gioco coi Tedeschi per informare il comandante Fricco, le spiegai dove avevo nascoste le mie armi. Il giorno dopo a mezzogiorno mi portò pistola e bomba a mano. Ringraziai Dio perché fino ad allora tutte le

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coincidenze pericolose mi erano state favorevoli.Poco dopo seppi che quelle armi che avevamo nascoste nel casolare erano state prese in consegna dal mio comandante di battaglione, che ne usò una parte per armare il nostro gruppo Silvio Pellico. Le rimanenti furono consegnate a cinque squadre di sabotatori.

Battaglione Silvio Pellico

Il comando del nuovo battaglione Silvio Pellico si mise subito in contatto con le formazioni della brigata “Italia Libera” sul massiccio del Grappa, con le quali poi si mantenne sempre in relazione. Intanto iniziarono le istruzioni per il maneggio degli esplosivi e per imparare come e dove mettere le cariche di scoppio per ottenere gli effetti maggiori. Il mio primo forte impatto con la lotta armata fu il 23 luglio 1944, quando ricevemmo l’ordine di sabotare la ferrovia Padova – Bassano.Di notte andammo e innescammo le cariche esplosive e riuscimmo a far saltare in aria un bel po’ di binari, tanto che il transito fu sospeso per due giorni.Ben presto mi resi conto del valore di quel sabotaggio, che sulle prime mi sembrava poco importante. Bassano del Grappa era diventata un punto cardine dei nazifascisti, vi erano dislocate parecchie truppe per rintuzzare le azioni dei partigiani e anche per difendere la caserma Efrem Reatto, dove erano insediati un tribunale fascista e le prigioni, il cui capo era un certo Perillo che dalle nostre parti era conosciuto per il suo integralismo fascista. Quel nostro sabotaggio, poi seguito da altri, aveva lo scopo di rallentare il trasporto dei condannati ai lager tedeschi e il vettovagliamento alle truppe dislocate in città e di creare diversivi per alleggerire le azioni di rastrellamento attorno al Grappa sul cui massiccio vi erano parecchi patrioti. Infatti quel monte, fornito di boschi e anfratti, offriva nascondigli ai fuggiaschi e anche una certa quantità di viveri perché vi erano zone coltivate, prati per il sostentamento di animali da latte, abitazioni e stalle, ove vivevano montanari disponibili a dare aiuto.Un po’ alla volta quei renitenti alle leve fasciste che si erano colà nascosti si trasformarono in partigiani, formando vari gruppi

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con i propri comandanti. Queste nuove formazioni non erano isolate, ma erano organicamente coordinate con i vari battaglioni e brigate esistenti in pianura. Infatti fra quei patrioti vi erano plotoni inquadrati nella mia brigata “Italia libera”. Essendovi questi collegamenti il mio vicecomandante di battaglione diede a più riprese aiuti sostanziosi di viveri, armi e materiali a coloro che erano sparpagliati sul Grappa.Il 13 agosto fu per noi del Pellico un giorno doloroso perché i nazifascisti arrestarono e imprigionarono a Bassano il nostro comandante Negri: tememmo subito per la sua vita. Solo allora seppi che il mio comandante era il tenente Ermenegildo Moro. Il 23 agosto successivo Bill fu nominato nostro nuovo comandante. Bill, che prima era il vice, diede l’ordine di sabotare la ferrovia da Cittadella a Belvedere della linea Bassano – Padova. Non venne allargata questa azione per paura di eventuali rappresaglie che potevano essere inflitte al comandante Negri da poco catturato.Il 6 settembre 1944 ricevemmo l’ordine dal CLN di Bassano di recuperare a Tezze sul Brenta le scorte di cibo e materiali vari (indumenti, prodotti sanitari, ecc.) offerti dalla popolazione e ammassati in nascondigli, per rifornire le formazioni dislocate nel territorio. Partimmo in circa 140, al comando di un comandante del gruppo di Cartigliano, per andare nottetempo a prelevare quanto ci avevano ordinato e anche per arrestare quattro fascisti che avevano richiamato in zona i soldati tedeschi, impedendo così per tre volte i lanci di rifornimento armi degli Alleati.Ad azione ultimata, il comandante della mia compagnia Belvedere, Bernardi Sante detto Buonconsiglio, ci fece marciare inquadrati per rendere omaggio al monumento dei caduti e anche per incoraggiare gli incerti: marciammo e cantammo alcuni inni dedicati alla libertà: fu una vera sfida ai nazifascisti!L’otto settembre 1944, primo anniversario dell’infausto armistizio portatore in Italia di una enorme confusione sociale e politica, la mia compagnia sabotò di nuovo la linea ferroviaria Padova – Bassano, producendo gravi danni e distruggendo binari, scambi e

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pali telegrafici. Questo colpo fece nascere in me la fiducia assoluta che alla fine avremmo vinto in quanto i nazifascisti, nonostante le loro dure repressioni, si dimostravano sempre più vulnerabili. Il 17 settembre vi fu un articolato tentativo di sequestro di soldati tedeschi di ronda notturna, dislocati a Villa Ca’ Dolfin di Rosà, per scambiarli con due nostri attivisti fatti prigionieri mentre di notte facevano volantinaggio per dissuadere i giovani dal rispondere alle leve fasciste. Dato che noi non avevamo armi pesanti ed equipaggiamento adatti per assaltare le prigioni e liberare i nostri compagni, il comando pensò di catturare dei Tedeschi per lo scambio.I Tedeschi facevano la ronda con autoblindo nel percorso fra i paesi di Rosà, San Pietro, Tezze, Belvedere e Cusinati delle province di Padova e Vicenza. Fu così che i tre plotoni della mia compagnia furono dislocati in tre luoghi distanti fra loro, dato che l’autoblindo tedesca, che faceva il giro, cambiava continuamente i punti di partenza e di arrivo. I Tedeschi furono attaccati in un punto lontano una decina di chilometri da Belvedere, dove si trovava il mio plotone.Noi aspettammo un bel po’, poi ci fu recapitato l’ordine a mezzo staffetta di ritornare alla base. Venimmo a sapere che l’imboscata aveva avuto esito negativo per noi, tanto che tre nostri compagni furono fatti prigionieri, anche se fu ferito un tedesco.Fino al settembre 1944, il Pellico riuscì a sviluppare una trentina di azioni militari, come poi precisarono i nostri comandanti. Noi agivamo nei paesi: Belvedere, Tezze sul Brenta, Rossano Veneto, Rosà, San Pietro di Rosà, Cassola, Ezzelino da Romano, Cartigliano, Bassano del Grappa.Ora voglio qui ricordare anche il battaglione Mazzini che, agendo nei territori vicini ai nostri, si distinse per molte imprese. Lo cito perché il comandante era Masaccio, eroe della Resistenza, persona che ricordo con ammirata devozione, e del quale parlerò più avanti, perché divenne poi mio comandante di brigata.

La battaglia del Grappa

Questo episodio di guerra fu molto importante per le sorti della Resistenza nelle nostre zone dove io ero chiamato a operare.

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Lo sterminio fatto dai nazifascisti sul massiccio del Grappa dal 23 al 26 settembre 1944 portò rovinose conseguenze. Non ho certo la pretesa di scrivere la storia di quei fatti eccezionali, anche perché ormai tutto è consolidato e precisato in varie rievocazioni pubbliche. Desidero solamente fare la cronaca di quello che ho visto e sentito da vicino e di quanto la sorte mi ha portato a fare e conoscere. È con umiltà di intenti che mi accingo a richiamare fatti e persone che ne furono autorevoli e sfortunati protagonisti. È anche con trepidazione e angoscia che parlo di quello che ha segnato profondamente la mia vita di partigiano. Verso la fine del 1944, fui molto vicino agli epiloghi perigliosi, ma la sorte volle che io inconsapevolmente non ne fossi direttamente coinvolto, giacché per ben tre volte, così io ritengo, mi fu salva la vita solo per coincidenze occasionali. Dalle nostre parti, come già detto, molti renitenti si rifugiarono sul Grappa: tra questi giovani renitenti vi fu anche un mio conoscente. Costui prima di salire sul monte venne da me dicendomi che il mio comandante Fricco lo aveva consigliato di procurarsi prima un’arma, perché sul Grappa non c’erano distribuzioni di armi, poiché scarseggiavano. Gli aveva detto anche che io avevo una pistola personale e che avrei potuto dargliela. Convinto dalle sue parole che mi chiarirono come quel giovane conoscesse a fondo la organizzazione del mio plotone, gliela consegnai senza resistenza anche perché nelle varie azioni militari noi partigiani di pianura venivamo riforniti, di volta in volta, di armi e munizioni più potenti di una rivoltella. Quel conoscente salì sul Grappa, lottò contro i nazifascisti, fu rastrellato e impiccato nell’eccidio del settembre 1944. Al riguardo seppi poi che, durante il supplizio, per ben due volte si ruppe la corda del suo capestro e che solo alla terza volta il boia impietoso riuscì a compiere la sua nefanda opera. I giovani rifugiati sul Grappa furono inquadrati, oltre che nella mia brigata “Italia libera”, come già detto, anche in altre, a seconda delle disposizioni d’animo o amicizie di ciascuno. Vi furono brigate: Garibaldi – Gramsci, Matteotti, Archeson e Campo Croce

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che erano filiazioni di “Italia libera”. Tra quei partigiani vi erano anche soldati degli eserciti alleati, fuggiti dai campi di concentramento. Costoro però facevano riferimento alla Commissione Inglese che si trovava in pianura diretta da ufficiali inglesi. Intanto continuava quel mordi e fuggi sulle vie di comunicazione in pianura, per danneggiare i trasporti nord – sud, azioni che rinvigorivano i ranghi della Resistenza per la loro efficacia e che nel contempo mettevano sempre più in pericolo i presidii nazifascisti del territorio, tanto che il comando tedesco stabilì di eliminare in modo radicale quella situazione. Visto che il Massiccio del Grappa era il punto di forza e il centro principale dei partigiani, stabilì di fare un rastrellamento a tappeto di quella zona per dare un colpo mortale alle formazioni partigiane. All’inizio del settembre 1944, i Tedeschi pertanto cominciarono ad ammassare uomini e mezzi per sferrare un attacco a tenaglia investendo un ampio fronte. I comandi partigiani subito ne furono informati, poi se ne resero conto anche perché i nazifascisti con ingenti forze rastrellarono il Cansiglio che era una porta di fuga per i difensori del Grappa. Mentre i Tedeschi e i repubblichini di Salò ammassavano truppe alla base, i comandanti del Grappa si predisponevano per la difesa del Massiccio. Capitò che i reparti della mia divisione “Italia libera” appostati in montagna chiesero aiuto col radiotelefono a Fricco, comandante del mio plotone che agiva in pianura. Fricco, uomo pieno di ardore, ma nel contempo lucido osservatore degli sviluppi bellici, volle controllare prima di persona come era la situazione. Salì sul Monte Grappa, ma prima avvisò alcuni di noi perché facessero il passaparola di riunirci in una sera stabilita in una certa zona, ora e luogo precisati, per partire equipaggiati di armi e viveri in aiuto degli amici difensori del Grappa. All’ora stabilita Fricco si presentò a noi tutto mesto, con i segni del dolore stampati in faccia: non si poteva salire, bisognava ritornare a casa. Più tardi seppi che lui, accompagnato da uno del luogo, perlustrò il fronte. Vide che i nazifascisti avevano iniziato l’accerchiamento, constatò l’imponente numero di uomini, armi e automezzi che avevano gli attaccanti, vide

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squadroni di ucraini delle SS, battaglioni fascisti, soldati di varie specialità; al contrario verificò che i nostri commilitoni partigiani non avevano cannoni e mortai, ma solo armi leggere, rilevò che le postazioni approntate erano assolutamente modeste, si convinse che l’aiuto di pochi uomini, sprovvisti di armamento pesante, non avrebbe modificato in alcun modo l’esito dello scontro. Se ne tornò sconsolato anche perché riuscì a uscire da quel campo di battaglia solo perché gli fece da guida uno che conosceva tutti gli anfratti di quei luoghi.Molto più tardi venni anche a conoscenza che il comandante del battaglione Mazzini, Masaccio, che si trovava in pianura, fu informato da una donna, che faceva il doppio gioco, di quanto stavano preparando i Tedeschi per eliminare il nodo dei partigiani sul Grappa. Salì subito e consigliò il Comitato, che raggruppava i comandanti dei vari reparti dislocati nel Massiccio, come è precisato in alcuni comunicati, di fare una lotta di movimento, con ritirate strategiche per salvare quanto più possibile gli uomini impegnati. Qualcuno del Comitato propose anche di abbandonare temporaneamente il Grappa perché di facile accerchiamento. La maggioranza dei comandanti però fu per la guerra di posizione e di resistenza a oltranza. Questo fu dovuto al fatto che un rappresentante della Missione inglese assicurò rifornimenti di armi pesanti, a mezzo di una superfortezza volante, e che era imminente uno sbarco di accerchiamento dei marines nell’alto Adriatico, per cui il Grappa sarebbe stato una valida testa di ponte. Questa dichiarazione fu poi ritenuta sconcertante perché non ebbe seguito. Dopo molti anni si venne invece a sapere che effettivamente il primo ministro inglese Churchill, nel 1944, patrocinava uno sbarco nel Veneto, presso Caorle, e un lancio di paracadutisti nella zona del Grappa. Questa azione era prevista per tagliare la ritirata dall’Italia delle truppe tedesche, prima che le armate russe arrivassero in Jugoslavia, per sottrarre quel paese al comunismo. Gli Americani invece preferirono lo sbarco in Normandia. La mancanza di validi aiuti per i nostri partigiani del Grappa produsse una conseguenza nefasta.

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Tutti noi sapemmo subito che le truppe d’assalto nazifasciste erano formate da parecchi soldati, ma nessuno pensava fosse così imponente il numero. La storiografia precisa che erano quindicimila, perfettamente armati anche di cannoni, per snidare meno di millecinquecento patrioti poco armati. Certamente nessun comandante partigiano, né lo stratega alleato che consigliò la resistenza ad oltranza, pensarono a una così marcata sproporzione di uno contro dieci. L’impari lotta durò dal 23 al 26 settembre 1944 e in quel teatro di guerra ben pochi riuscirono a salvarsi.Vi fu un tremendo eccidio e quei partigiani furono da subito chiamati “Martiri del Grappa”. Se io avessi ricevuto l’ordine di partire, certamente non sarei qui a parlare di quella lotta!La sorte volle che il Grappa, già famoso per le battaglie della Prima Guerra Mondiale, divenisse anche per la Seconda luogo di scontri eroici e di morti gloriose. La storiografia ha scritto che quei quattro epici giorni del settembre 1944 portarono un risultato terrificante: 171 impiccati, 603 fucilati, 804 deportati nei lager tedeschi, dei quali 600 morirono in Germania, 285 case e stalle date alle fiamme.Quei soldati delle SS, che erano volontari stranieri, e quei militi fascisti che erano invece italiani, unitamente ai loro superiori si dimostrarono colmi di una disumanità sconcertante.Proprio il 26 settembre 1944, fatidico giorno finale dell’eccidio, quando ancora l’esito della battaglia non era di dominio pubblico, mi successe un fatto che non ho mai dimenticato. Verso le sette e trenta di mattina si presentò a casa mia il camilliano padre Odone Nicolini, che io ben conoscevo. Mi chiese se potevo accompagnarlo in bicicletta a Bassano del Grappa: accettai e partimmo. Fu per me un giorno di tensione e di paura che superai solo perché quel religioso mi confortò con la sua forza d’animo sacerdotale veramente edificante. Di questo episodio parlerò più avanti nel capitolo che riguarda il frate camilliano.

Conseguenze della rovinosa battaglia del Grappa

La battaglia del Grappa fu una tremenda lezione per noi partigiani e un forte monito per gli Alleati. Molti nostri comandanti si

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convinsero della necessità di un coordinamento generale per creare una articolata capacità di sostegni vicendevoli; gli Alleati si resero conto che gli Italiani erano sì disposti alla lotta, ma che avevano bisogno di armamenti: fu così che intensificarono i lanci di armi ed esplosivi e non fecero più promesse.La disfatta del Grappa portò un forte inasprimento dei controlli nazifascisti specialmente nelle nostre contrade poste alla base delle Prealpi, dove io vivevo. La Gestapo, la polizia segreta di Hitler, certamente si era accorta che quasi tutti i prigionieri del Grappa provenivano dai paesi contermini. In aggiunta poi, forse vi fu qualche notizia compromettente trovata nelle tasche dei reclusi e sicuramente vi furono delle confessioni estorte con bastonature a sangue. Tutte quelle rivelazioni spinsero il Comando tedesco a fare continui controlli sul nostro territorio. Riuscirono a sequestrare armi e a imprigionare i comandanti di alcuni reparti: dovemmo limitare le nostre azioni di sabotaggio, però aumentarono le nostre ricognizioni sui movimenti delle truppe nazifasciste.Uno dei primi giorni dell’ottobre 1944, verso l’imbrunire, partecipai a una azione contro una colonna di cinque o sei camion portatruppe, pieni di soldati tedeschi armati. Il mio comandante di compagnia, Buonconsiglio, era stato informato dell’itinerario che doveva fare quel convoglio sulla strada Valsugana, in località Belvedere. Preparò un agguato. In zona aperta vi era la Villa Ca’ Dolce posta entro un grande parco cintato. Il comandante Buonconsiglio, io e altri due partigiani ci nascondemmo all’interno delle mura che fiancheggiavano la strada. Eravamo forniti di grossi chiodi a tre punte e ci mettemmo distanziati nel bosco su un lungo tratto di strada. Lasciammo passare i due motociclisti di staffetta e poi gettammo i chiodi. Almeno tre camion si fermarono. Scappando verso l’aperta campagna sentimmo grida e imprecazioni. Pochi giorni dopo fui ricercato da una pattuglia tedesca. Fui però fortunato perché una omonimia mi salvò. In paese poco lontano da me abitava un altro Attilio Bizzotto, mio lontano parente che aveva pressappoco la mia stessa età. Una pattuglia di soldati tedeschi si presentò nella casa dell’altro Attilio per arrestarlo. Trovarono solo la

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madre la quale spiegò ai soldati che il figlio lavorava da meccanico sotto una ditta tedesca. Sicuramente quei soldati controllarono e certamente pensarono che il nome Attilio Bizzotto fosse stato erroneamente incluso nelle liste di arresto. Infatti nessuno poi venne a cercarmi.Subito mio padre venne a sapere di quella ricerca, io perciò divenni sempre più vigile ed attento nel tenermi lontano dai soldati tedeschi per evitare ogni controllo.Il 18 ottobre i Tedeschi catturarono il mio comandante di compagnia Sante Bernardi detto Buonconsiglio. Io, che vivevo alla macchia, vidi da lontano come lo presero: lo snidarono bruciando totalmente tutta la casa e le adiacenze. Fu condotto nella vicina Ca’ Dolfin dove c’era una prigione e dove facevano i primi interrogatori. Poco dopo prelevarono dalle loro case il mio comandante Erminio Sgarbossa detto Fricco, e anche mio fratello Giuseppe; pure essi furono portati a Ca’ Dolfin.Visti quei continui imprigionamenti io, su consiglio di padre Nicolini, iniziai a lavorare per i Tedeschi. Lo stesso consiglio lo ricevettero anche due miei cugini, Galiano Bizzotto e Angelo Sgarbossa. Fu così che per alcune settimane facemmo i boscaioli a Lonigo, assieme a una dozzina di cittadellesi.L’abbiamo fatto per avere il tesserino che ci permetteva girare in tranquillità, senza pericoli di arresti, e svolgere nel contempo quelle incombenze che i nuovi comandanti partigiani ci assegnavano.Nei boschi tagliammo e sfrondammo, con sega ed ascia, quegli alberi che i soldati tedeschi di guardia ci indicavano. Era un lavoro che conoscevo personalmente perché d’inverno lo facevo nei campi di famiglia. Fra quei soldati di guardia c’era un anziano che sicuramente era un esperto di quel mestiere e che mi prese subito a ben volere, visto come io sapevo ben maneggiare ascia e sega; fu così che mi chiamava quando c’erano tagli rischiosi. Noi vivevamo in baracca e avevamo a disposizione cibo e vino.Successe che un giorno il mio parente Galiano Bizzotto bevve più del solito e si ubriacò. Cominciò a chiamare “cruchi” i Tedeschi, i quali sapevano che era una parola italiana offensiva per loro.

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Uno della guardia lo prese, lo portò nel suo ufficio forse per punirlo o per denunciarlo. Io allora ricorsi al tedesco che mi portava simpatia e gli spiegai, come potevo, che il parente era ubriaco e che non sapeva quel che diceva. Fortunatamente costui si interpose, spiegò che la causa era il troppo vino bevuto: il parente fu rilasciato. In quel torno di tempo si distinse nel tenerci un po’ allegri, l’altro mio cugino Angelo Sgarbossa. Egli era un insegnante, era l’organista della chiesa, amava dir facezie e organizzare commedie: ci tenne un po’ distesi con le sue trovate. Finito il lavoro, dopo alcune settimane ci rimandarono a casa senza però ritirarci il tesserino, forse perché pensavano di richiamarci, invece fortunatamente non ci chiamarono più a far lavori. Intanto mio padre e la cugina Clara Sgarbossa giornalmente andavano a Ca’ Dolfin in bici per portare da mangiare ai reclusi Giuseppe ed Erminio.I contenitori dei cibi erano dei pentolini speciali di lamiera smaltata, allora molto usati dagli operai che pranzavano sul posto di lavoro. Erano di forma piatta, oblunga e avevano la capacità di circa un litro. Sopra avevano infilata a cannocchiale una scodellina: in pratica si versava sotto la minestra, sopra nella scodellina il companatico. Il pentolino aveva un coperchio, che serrava ermeticamente il contenuto, ed era manovrato da un grosso pomolo. Questo non era avvitato o saldato ma stampato col restante, per cui aveva all’interno una cavità e un foro. Qui mio padre e la Clara nascondevano i messaggi, oggi diremmo i “pizzini”, e chiudevano il foro con mollica.Le varie ispezioni non riuscirono mai a trovare alcunché perché il pentolino prima di partire veniva immerso per vario tempo in acqua calda, non solo per riscaldare il cibo, ma anche per provocare una forte evaporazione che formava all’interno un velo continuo di goccioline. In aggiunta poi portavano anche tabacco trinciato e cartine per sigarette: allora era molto comune arrotolare da sé le cartine per farsi le sigarette. Il trinciato lo ricavavamo dalle foglie di tabacco che andavamo a comperare nei paesetti dell’alto Brenta e che sminuzzavamo con le forbici da potare le viti. Tutto questo era per creare un forte legame coi reclusi perché essi si sentissero sorretti dall’amore dei parenti. Dopo alcune settimane mio fratello fu liberato, il cugino Fricco invece fu

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mandato a Vicenza nella prigione di San Biagio, luogo dove io poi accompagnai varie volte il padre Nicolini.Tra ottobre e novembre 1944 mi capitò un fatto che avrei voluto finisse in modo migliore. Una mattina, ritornando dalla casa dell’ingegnere Brunetta che custodivo, entrando nella nostra stalla mi si pararono davanti due soldati nazisti della SS: stavano parlando col cugino Galiano perché cercavano un soldato inglese che era fuggito dal campo di concentramento e l’avevano visto aggirarsi nei nostri paraggi. Non mi inquisirono perché mostrai il tesserino di lavoro rilasciatomi dai Tedeschi, però pretesero che io aprissi tutte le porte che essi vedevano: ispezionarono dappertutto. Non trovarono il soldato e se ne partirono con le loro motociclette, visibilmente contrariati. Quando cessò il rumore dei motori Galiano mi disse: ”Ce la siamo cavata bene” e, senza profferir parola, mi condusse in un localetto defilato che noi usavamo come cantina. Aperta la porta vidi un soldato inglese a cavalcioni di una botte. Si cominciò a parlare con mezze parole e molti gesti. Mi parve in affanno e così cercai di fargli capire che andavo a prendergli dei viveri. Credendo di essermi spiegato, io e Galiano andammo nella mia cucina a fare i prelievi. Ritornati con un pacchetto di pane, salame e vino, non lo trovammo: era fuggito. Rimasi sconcertato, io ce l’avevo messa tutta per dirgli che eravamo amici e che gli avrei procurato del cibo per aiutarlo nella fuga verso i boschi montani, ma non ero riuscito a spiegarmi!

Inverno 1944 – 1945

La perdita del Grappa e i successivi rastrellamenti di uomini e armi spinsero i comandanti superstiti a riorganizzare i resti dei reparti rimasti. Fu così che Masaccio, comandante del battaglione Mazzini, all’inizio di ottobre riuscì a riunire i vari gruppi nella nuova brigata “I Martiri del Grappa”. Il comandante eletto fu Masaccio stesso, io divenni membro di questa nuova formazione perché vi confluirono i resti di “Italia libera”. Furono intensificati i collegamenti con gli Alleati e questi, certamente convinti di non aver dato sufficienti aiuti prima della battaglia del Grappa, risposero con massicci aviolanci soprattutto di esplosivi. Iniziarono metodici e mirati sabotaggi per

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disarticolare i rifornimenti alle truppe nazifasciste, per creare panico e disorientamento fra le truppe che controllavano il territorio e anche per infervorare i patrioti.Mentre infuriava la lotta senza quartiere contro i nazifascisti, l’8 febbraio 1945 divenne realtà quello che vari comandanti partigiani auspicavano da tempo: la creazione di un Comando Unico Veneto. Ben sei brigate, prima operanti in modo autonomo, e fra queste la “Martiri del Grappa”, furono unificate nella nuova divisione “Monte Grappa”. Per il comando fu chiamato un colonnello dell’ex esercito italiano che era fuggito dai lager tedeschi e si era rifugiato nelle prealpi venete: egli prese il nome di battaglia Pizzoni.Contemporaneamente fu istituito il CLNV (Comitato di Liberazione Nazionale del Veneto) formato da rappresentanti di tutti i partiti di allora (DC – PCI – PSI – PLI – PRI – PdA), il cui capo divenne l’avv. Gavino Sabadin. La nuova direzione impresse da subito una dinamicità organica e simultanea tale da disorientare i Tedeschi dissuadendoli dal ricorrere a ritorsioni sistematiche.La forte pressione contro i Tedeschi e i fascisti risvegliò in molti giovani l’amore alla libertà, per cui sorsero nuovi gruppi pronti alla lotta. Mi fa piacere ora ricordare che il mio concittadino avv. Gavino Sabadin riuscì a favorire la formazione di un gruppo di tre brigate che egli denominò tutte “Damiano Chiesa”.Il più famoso e spettacolare caso di sabotaggio fu quello contro il ponte vecchio di Bassano il cosiddetto ponte degli alpini, che era l’unico ponte rimasto in piedi sul fiume Brenta, dopo che gli Alleati avevano distrutto tutti gli altri con bombardamenti aerei. Questo attacco fu fatto dalla mia Brigata Martiri del Grappa, su ordine del Comando Unico Veneto, e di esso parlerò dettagliatamente nel capitolo Masaccio. Mentre succedevano questi fatti io ero fortemente impegnato nel porgere aiuti alla famiglia del mio comandante di plotone Fricco. Suo padre, mio zio, conduceva e lavorava personalmente un podere di una decina di campi forniti di una stalla con quattro bovini. Quando Fricco fu imprigionato, nell’ottobre, suo padre cominciò a deperire essendo fortemente inquieto perché erano note le mortali bastonature a sangue usate dagli inquirenti.

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Il sei gennaio del 1945 morì di crepacuore. Io che avevo già iniziato ad aiutarlo alle prime avvisaglie della malattia, sentii l’obbligo morale di assumermi tutti i lavori agricoli della famiglia di Fricco. L’ho fatto anche perché i miei fratelli Gaspare e Giuseppe, pur continuando a fare il loro mestiere di falegname, davano un aiuto a mio padre nei lavori agricoli. I fratelli del cugino erano invece scolari o studenti. Fu così che ogni giorno governavo la stalla, mungevo le vacche, lavoravo i campi; poi, quando potevo, davo anche una mano a mio padre nella nostra stalla: ovvero la giornata piena di lavoro.Alla morte dello zio Agostino Sgarbossa, il camilliano Odone Nicolini volle di persona avvisare il figlio Erminio perché era molto amico di tutta la famiglia. Io lo accompagnai in bici fino alle prigioni di Vicenza. Non partecipai al colloquio del sacerdote col prigioniero, però nel ritorno il Nicolini mi disse come erano andate le cose. Dopo aver confortato il detenuto, Nicolini si rivolse al dirigente della prigione esprimendogli il desiderio di tutti i parenti che chiedevano la presenza del figlio ai funerali. La prima risposta fu un no, poi dialogando e insistendo Nicolini ottenne la proposta di lasciarlo partire, purché fosse stato accompagnato da due soldati della SS, ma Fricco non accettò quella proposta.Talvolta dopo il lavoro diurno mi fermavo dalla zia fino a tardi e spesso a dormire là, per ascoltare radio Londra, andando in una casa vicina posta in mezzo ai campi, dalla quale si poteva controllare se arrivavano le ispezioni, proprio come facevo prima quando il comandante Fricco era libero. Rimanevo di notte dagli Sgarbossa anche perché la zia e i cugini avevano paura, e la presenza di un uomo giovane dava loro coraggio. Io poi continuavo a tenermi informato delle azioni militari partigiane dai vecchi amici, anche se non ero direttamente chiamato dai miei comandanti, giacché sapevano delle mie gravose incombenze, d’altra parte i partigiani più impegnati erano gli artificieri. Venni anche a sapere che, nonostante la mancanza di Fricco, i contatti radio erano aumentati come anche i rifornimenti che piovevano dal cielo. Fu allora che mi tornò alla mente una frase detta da Fricco quando alla sera andavo da lui per ascoltare radio Londra e/o ricevere ordini. Una volta improvvisamente disse: “I fratelli Rocco fanno un buon lavoro”.

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Lì per lì non feci nessun collegamento con la radiotelefonia della Resistenza, poi lentamente mi resi conto che i Rocco lavoravano nei collegamenti con gli Alleati. Sulle prime io ritenevo che da noi i contatti con gli angloamericani fossero tenuti solamente da Fricco, anche perché come ho già detto ero stato presente ad alcune sue trasmissioni in inglese; poi però, quando Fricco fu imprigionato e sentendo che i collegamenti continuavano capii che questi erano opera dei fratelli Rocco, Angelo e Elio. Ho tratto questa conclusione perché sapevo che Angelo era un radiotelegrafista dei sommergibili. Io e i Rocco abitavamo vicini e prima della guerra ho giocato con Elio, il più giovane, che era mio coetaneo: io abitavo a Ca’ Moro, loro a Belvedere, due frazioni contermini però con comuni e province diverse. Mio papà quando, andava nella filanda sita a Belvedere, io lo accompagnavo. Là trovavo Elio Rocco, perché suo padre era uno della filanda, e così giocavamo assieme.Dopo la guerra non li ho più visti, ma venni a conoscere la loro grande e utile attività svolta per i partigiani del nord – est. Il loro gruppo d’azione era chiamato Missione MRS (Mazzini Rocco Service) sul quale ho ricevuto poi delle precisazioni. Il Marini si chiamava Renato, era di Padova, e prestava il suo servizio come ufficiale dell’aviazione. Costui e Angelo Rocco si trovavano al Sud d’Italia quando gli Alleati la invasero. Si misero subito a disposizione degli angloamericani che, nell’ottobre 1943, li trasportarono via mare fino a S. Benedetto del Tronto, dove nottetempo sbarcarono con ricetrasmittenti. Saliti lentamente al nord arrivarono nella nostra zona. Contattarono l’avv. Sabadin di Cittadella e iniziarono la loro preziosa opera informativa assieme a Elio Rocco ed altri.A poco a poco l’attività si estese in varie parti delle province di Vicenza, Treviso, Venezia, Padova. Queste trasmissioni davano forti preoccupazioni ai Tedeschi e le SS tentarono parecchie volte di interromperle facendo perquisizioni per scovare le apparecchiature. Arrivarono perfino a fare un blitz nella Basilica del Santo a Padova che godeva anche allora del privilegio di extraterritorialità.Ai fratelli Rocco e al Marini fu concessa la medaglia d’argento al valor militare.

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Aprile 1945

Per noi della divisione Monte Grappa fu il mese della riscossa generale, perché si riuscì a risolvere situazioni precarie e pericolose prima dell’arrivo delle armate alleate nelle nostre terre. Si sapeva da Radio Londra che ai primi di aprile 1945 l’esercito russo era arrivato ai confini dell’Austria, allora regione annessa al Grossreich hitleriano, e che gli Alleati partiti dal sud Italia stavano per arrivare al nostro fiume Po. Così pure si sapeva che tutto il territorio germanico era sottoposto a una violenta pressione delle armate alleate sul fronte ovest e di quelle russe sul fronte est. Ormai le reazioni dei nazifascisti ai vari e continui sabotaggi erano deboli e non venivano più puniti con feroci rappresaglie: forse sentivano ormai imminente il loro sfacelo. Io che avevo vissuto appartato nei primi mesi del 1945, svolgendo pesanti impegni parentali, sentii dentro il mio spirito l’urgente bisogno di fare qualcosa per la Libertà come negli anni precedenti. Così mi presentai al CLN di Cittadella per essere impegnato in qualche azione della Resistenza. Gli eventi di quella seconda metà di aprile furono un susseguirsi di piccoli e grandi episodi che ho vissuto in modo esaltante tanto da non fissare completamente nei ricordi tutti i nomi e le date che caratterizzarono quei giorni. In quel torno di tempo venni a sapere che il mio primo comandante Negri era arrivato a casa e che partecipava alle battaglie finali. Il Negri, imprigionato, bastonato e condannato a morte dal tribunale fascista di Bassano, fu fortunosamente prima posto in carcere duro e poi inviato nei lager nazisti. Fu mandato in un campo di concentramento del sud – est della Germania, in pratica nell’Austria orientale, dove arrivarono ai primi di aprile le armate russe così tutti i prigionieri furono liberi. Negri, sempre molto determinato, si mise in cammino e presto arrivò a casa.Soprattutto nella seconda metà di quell’aprile i partigiani scatenarono una diffusa guerriglia tra il Brenta e il Piave. Riuscirono a cacciare o a fare prigionieri tedeschi e fascisti. Qua e là reparti repubblichini, per rifarsi una verginità, affiancarono i partigiani.Il 28 aprile fu un giorno cruciale per Cittadella e, per meglio capire gli eventi, mi permetto fare delle precisazioni topografiche sulla mia

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città. Essa aveva e ha il centro storico con numerosi abitanti cintato completamente da mura medioevali, con tutto attorno varie frazioni tra le quali Ca’ Moro luogo della mia residenza. Entro le mura vi era la vita pulsante di tutto il Comune con la sede municipale. Quando ancora non esistevano le attuali numerose autostrade, Cittadella era uno snodo stradale di importanti vie di comunicazione. Da sud a nord è attraversata dalla Statale Padova-Trento e da ovest a est da quella che collega Vicenza a Treviso. Quel giorno ventotto fu per noi cittadellesi pieno di tragiche paure che io ho vissuto da vicino.Il CLN ormai governava il centro storico e aveva provveduto per la sua difesa. Le porte delle mura erano sbarrate da tronchi di alberi, cavalli di frisia e sacchetti di sabbia, là erano dislocate pattuglie di controllo, come anche sulle mura. Proprio quella mattina passai prima a chiedere notizie di Erminio, mio capo plotone imprigionato a Vicenza, poi andai in municipio per mettermi a disposizione del CLN che vi risiedeva. Per primo incontrai Bino Rebellato, comandante partigiano, che alla mia richiesta di come andavano le cose, scosse energicamente la testa: lo vidi molto preoccupato. Dalle varie staffette che arrivavano e partivano venni a sapere che una lunga colonna di truppe tedesche con camion e carri armati era in marcia di avvicinamento da Padova verso di noi. La colonna poi si era fermata a Ca’ Nave, a pochi chilometri dal centro, e da là fu inviato in avanscoperta un reparto che si presentò nel primo pomeriggio alla porta Padova del castello. Dopo aver appostato alcuni plotoni di fucilieri e un cannone, un sottufficiale tedesco superò i primi sbarramenti, ma fu fermato da un patriota armato con un fucile mitragliatore.Era costui il partigiano avvocato Carmelio Conz che era stato liberato il giorno prima dalle carceri di Padova, dopo tre mesi di reclusione, e che era ritornato a casa. In quella mattina stessa si era messo a disposizione del CLN, che l’aveva direttamente incaricato di andare a presiedere porta Padova, dove avrebbe trovati altri partigiani, consegnandogli armi e munizioni. Conz iniziò un dialogo col tedesco fatto di mezze parole e di molti

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gesti, mentre nel contempo mandò una staffetta a cercare padre Nicolini che era il consueto interlocutore con i Tedeschi. Il fatto era che i Tedeschi volevano entrare entro le mura senza combattere, sia perché quello era un luogo che si prestava a una eventuale difesa, sia perché dovevano congiungersi là con altre due colonne provenienti da est e ovest per formare poi un fronte di sbarramento nella vicina Fontaniva, a sinistra del Brenta. Nell’attesa dell’arrivo dell’interprete furono precisati i motivi del contendere: i Tedeschi volevano entrare nel centro città. Conz rispose che era cosa impossibile perché era presieduto da duemila uomini armati e che se i Tedeschi volevano andare verso nord, dovevano girare attorno alle mura.Col Nicolini poi il dialogo si fece serrato. Intanto un ufficiale tedesco chiese anche la presenza al dialogo del Sig. Angelo Pasquale, del quale conosceva la probità, per essere rassicurato sulla veridicità di quanto veniva detto. Quell’ufficiale conosceva bene il Pasquale perché costui, avendo una fabbrica di liquori, andava di persona in Germania a comperare le essenze che gli abbisognavano e ogni volta soggiornava nell’albergo gestito dal padre di quel tenente. Arrivò per partecipare alla discussione anche il generale comandante delle truppe ferme sulla strada per Cittadella. Costui poco dopo però venne a sapere per radiotelefono che la divisione proveniente da Ovest, sulla strada Vicenza – Cittadella, era stata attaccata e fermata dai partigiani prima di arrivare alla riva destra del Brenta, cioè prima di Fontaniva.Volle andare a controllare di persona: capì che le due colonne non potevano riunirsi, accettò le proposte fattegli a mezzo di padre Nicolini. Il giorno 28 stava per finire. I Tedeschi passarono al di fuori delle mura verso nord, i partigiani non fecero alcun attacco e ai Tedeschi furono restituiti quella quarantina di soldati e ufficiali che erano stati imprigionati durante la liberazione del centro storico. Noi cittadellesi avevamo superato il pericolo di essere prima bombardati dai Tedeschi, che volevano entrare nella roccaforte, e poi dagli Alleati che avrebbero sicuramente bombardato pesantemente Fontaniva e Cittadella, se i Tedeschi fossero riusciti ad attestarsi sul Brenta. Finalmente passò l’incubo e io tornai a casa. Se qualcuno poi volesse sapere in toto lo sviluppo di quelle trattative,

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può leggerle nel libro di Guerrino Citton “Il prete partigiano” (che è padre Odone Nicolini) da pagina 257 a pagina 268.Il giorno dopo ritornai dai cugini per andare assieme a prelevare Erminio dalle prigioni di San Biagio a Vicenza. Avevo pensato che Vicenza fosse stata liberata, perché la colonna tedesca era stata fermata dai partigiani a vari chilometri da quella città proprio sui confini della provincia di Padova. Andammo in bici io, Clara e qualche amico. Arrivati vedemmo uscire dal portone delle prigioni un gruppetto di detenuti, fra questi Erminio. Che gioia! Teneva in mano solo un oggetto che poi capii essere di mollica di pane rafferma sostenuta da stecchini: lo aveva fatto per passare il tempo e lo tenne per ricordo. Lo montammo a turno sulle nostre bici. Arrivammo a casa nel primo pomeriggio, trovammo tutti in grande festa: erano arrivati gli Alleati! Per noi ritornati da Vicenza per i parenti e per gli amici doppia festa e doppia allegria. L’Erminio, ex Fricco, fu subito richiesto dal CLN per fare l’interprete, perché il responsabile militare della città usava un inglese con tante parole in gergo e non sempre veniva capito dall’interprete. Così fu chiamato Erminio che conosceva molto bene ogni espressione in lingua inglese avendo fatto le scuole inferiori e superiori in America. Ricordo che lui mi disse parecchie volte la prima frase che tradusse di quell’ufficiale alleato: “Se dovete uccidere dei fascisti per vendicarvi dei torti subiti fatelo entro domani (30 aprile); poi non sarà più concesso uccidere, ma solo fare prigionieri”. A Cittadella però nessuno fu ucciso nonostante quella possibilità sancita dal comandante militare.Intanto quella colonna che aveva aggirata Cittadella e le altre provenienti da Est e che dovevano congiungersi, furono furiosamente attaccate dai partigiani ormai armati anche di armi pesanti. Le compatte schiere tedesche si sfaldarono, furono fatti tanti prigionieri consegnati poi agli Americani. Molti soldati tedeschi però riuscirono a fuggire fra i campi, organizzandosi fra loro in gruppi per raggiungere la Germania a piedi. Anche il nostro CLN si preoccupò di rastrellarli. Io fui mandato come capopattuglia assieme ad altri due per andare in bici

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a Rossano. Trovammo solo nel bivio Cassola – Rosà due giovanissimi italiani vestiti con la divisa dei battaglioni M che si dirigevano a piedi verso Treviso, certamente per ritornare a casa. Erano dimessi e silenziosi, nessuno li aveva aiutati.Li perquisimmo, rovesciammo i loro zaini, non trovammo armi né oggetti rubati: decidemmo di lasciarli andare. Personalmente mi fecero pena, erano due giovani spaventati desiderosi solo di ritornare agli affetti familiari, che volontariamente avevano abbandonato convinti dai sogni di gloria della propaganda fascista: per me erano due pulcini implumi.Poco dopo noi elementi della compagnia Belvedere, assieme ad altri di una brigata Damiano Chiesa, ricevemmo l’ordine di andare a rastrellare dei soldati tedeschi visti a Villa Favera e a Ca’ Tron, nella periferia di Cittadella. Partimmo in una cinquantina ben armati, in corriera seguita da un’altra corriera vuota per caricare gli eventuali prigionieri. Prima andammo a Villa Favera dove c’era una grande officina meccanica approntata dall’esercito tedesco; vi trovammo un folto gruppo di soldati armati ed equipaggiati per la partenza. I nostri responsabili, come avevano ricevuto gli ordini, si misero a dialogare coi Tedeschi. Questi, dopo aver chiarito che sarebbero stati fatti prigionieri con il rispetto assoluto di tutte le garanzie internazionali, deposero le armi. Furono caricati nella corriera, che ci aveva seguiti, per essere condotti dai carabinieri di Cittadella e poi consegnati ai vincitori. Alcuni dei nostri rimasero in sito per raccogliere le armi, io e tutti gli altri partimmo per Ca’ Tron nel comune di Santa Croce Bigolina.Mentre stavo salendo in corriera un soldato tedesco mi si avvicinò e mi disse: “Io sono Jacob, quel soldato che ha ricevuto i tuoi documenti mentre mi chiamava tua cugina: ebbene io ho sempre saputo che tu eri un partigiano. Ti chiedo solo il piacere di farmi consegnare agli angloamericani e non ai russi!”. Rimasi sconcertato. Subito mi rividi tutto trepidante davanti a due soldati tedeschi, mentre in tasca avevo una bomba a mano e una pistola. Sentii ancora le parole della cugina Elia Marsan. Forse quel soldato mi aveva detta la verità giacché mi lasciò libero dopo quel breve dialogo che certamente non poteva essere

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esaustivo. Subito pensai di essere stato molto più fortunato di quanto credessi d’esserlo stato dopo quell’incontro mattutino. Comunque fui contento che quei Tedeschi cadessero nelle mani degli angloamericani, i soli d’altra parte che arrivarono da noi. Capii che quei soldati conoscevano solo la propaganda nazista! Eliminati dalla circolazione Tedeschi e repubblichini, tutti noi partigiani tornammo agli impegni familiari. Io non chiesi di ritornare a fare il carabiniere, ritorno che certamente mi avrebbero concesso, ormai preferivo la vita di borghese. Continuai a coltivare la campagna. A completamento dei miei ricordi sento il dovere di parlare in modo un po’ dettagliato di coloro che ho incontrato nei duri anni della Resistenza e che hanno colpito la mia mente e il mio cuore. Sono due persone che mi hanno infuso equilibrio, volontà e coraggio per superare le difficoltà della vita.

Padre Odone NicoliniPadre Nicolini nacque nel Trentino il 6 agosto 1903, quando quella provincia faceva parte dell’impero austroungarico di Francesco Giuseppe. Imparò anche la lingua tedesca che nell’ultima guerra gli fu utilissima nel periodo 1943-45 quando nell’Italia centro – nord comandavano i nazifascisti. La sua vocazione fu tardiva. Fece il soldato di leva nell’esercito italiano come artigliere, poi lavorò in famiglia fino al 1930 quando iniziò gli studi in seminario. Cedette al fratello i suoi averi e nel 1935 entrò nella congregazione dei Camilliani: quei religiosi che portano sul pettorale della loro veste una grande croce rossa. Il 5 luglio 1942 fu consacrato sacerdote nel convento di Mottinello di Rossano Veneto. Dato che i Camilliani sono ministri degli infermi, fu destinato a compiere la sua missione nell’ospedale di Cittadella.Durante le mie licenze di carabiniere cominciai a conoscerlo perché accompagnavo sovente una sorella nell’ospedale della mia città, in quanto soffriva di un malanno cutaneo che aveva continuamente bisogno del bisturi. Quando poi ritornai dopo l’armistizio, lo incontrai spesso e divenimmo amici perché lui dava un fraterno aiuto agli sbandati e ai partigiani. Per questa sua utile opera fu poi

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chiamato “Il prete dei partigiani”, come è scritto nel corposo libro di Guerrino Citton, uscito nel 2004, che tratteggia la vita e l’opera di questo sacerdote camilliano. Dato però che io dialogavo con lui, specie quando lo accompagnavo in bici nelle sue missioni a favore dei prigionieri dei nazifascisti, credo poter dire che padre Nicolini non era organico con la Resistenza, ma era un prete senza paura fornito di un alto senso sacerdotale che lo portava a consolare e ad aiutare gli afflitti. Ritornando ora a quell’indimenticabile 26 settembre 1944 quando lo accompagnai a Bassano del Grappa, ricordo che era una giornata di sole e che pedalavamo affiancati non essendovi nessun via vai di rotabili: così potemmo parlare. Padre Nicolini mi disse che era venuto a conoscenza che, nella caserma Reatto di Bassano, erano stati fucilati sette giovani dietro le mura e che i loro corpi giacevano seminudi per lasciarli a vista come monito ai prigionieri che non volevano confessare e come dissuasione per tutti. Continuò dicendomi che intendeva lavarli, rivestirli e benedirli. Nei pressi di Rosà vedemmo una pattuglia armata formata da due militi fascisti e due soldati tedeschi che controllavano il traffico. Subito mi allarmai perché io non avevo nessun lasciapassare. Il padre vistomi pensieroso e incerto mi sussurrò: “Non preoccuparti, non succederà nulla, la mia veste è un lasciapassare”. Infatti non ci furono chiesti documenti e passammo.Arrivati nei pressi di Bassano vedemmo da lontano, al centro della strada, un gruppo di persone: civili, soldati tedeschi e militi fascisti; mi allarmai molto. Dissi a padre Nicolini: “Non me la sento di continuare la strada con lei, torno indietro”. Questa volta mi rispose: “Va bene, fa quello che ti detta la mente”. Certamente anche lui mostrò grossa preoccupazione, ma lui era un sacerdote che doveva compiere un atto di misericordia verso dei morti. Così lui continuò e io ritornai prendendo le stradine di campagna. Alla sera si seppe quello che era successo in quel memorabile giorno. Padre Odone Nicolini fu un indomito, mise a repentaglio la sua vita per poter confortare ben trentun giovani ammassati su un camion e condannati al capestro fra gli alberi del viale Venezia di Bassano. I Tedeschi erano incattiviti e totalmente spietati, non volevano dar

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spazio al sacerdote, il quale però perorando con forza le sue motivazioni riuscì a salire sul camion e confortare quei morituri.Se io fossi rimasto con lui, cosa mi sarebbe successo?Certamente avrei subito un tremendo interrogatorio e chissà come sarebbe andata a finire! Per quella giornata padre Nicolini rilasciò nel 1946 alla Corte d’Assise di Vicenza, che giudicava quel fatto, una relazione piena di nobiltà d’animo, di angoscia e nel contempo di fermezza sacerdotale, come è riportato nel libro “La Resistenza tra il Brenta e il Piave” di Gianfranco Corletto. In seguito accompagnai diverse volte in bicicletta il sacerdote a Vicenza per visitare i prigionieri che erano rinchiusi nelle carceri di San Biagio. Verso metà ottobre 1944 di mattina, dopo che padre Nicolini aveva visitato i detenuti, vi fu un bombardamento aereo. Fu così che egli mi disse: “Aspettiamo la fine di ogni allarme per ritornare, nell’attesa andiamo a pranzare da una famiglia amica che mi ha già invitato tante volte”. Andammo. Durante la siesta riprese il bombardamento, i padroni di casa andarono nel rifugio, noi rimanemmo, fu così che Nicolini mi raccontò cosa gli era successo a Bassano in quel famoso 26 settembre. Mi disse esattamente quello che poi riferì in tribunale in modo magistralmente evocativo. Mi precisò anche che, grazie alle forti pressioni dei Vescovi di Vicenza, Padova, dell’abate di Bassano e anche dello stesso Commissario del Comune di Bassano, erano state sospese ben cinquanta impiccagioni di partigiani decise per la sera del 27 settembre, e anche che fu permessa la sepoltura dei sette fucilati nella caserma Reatto e di togliere dagli alberi del viale i trentun impiccati; tutti quei morti furono sepolti nel cimitero. Ogni volta che facevo quei viaggi ritornavo a casa col cuore gonfio di tristezza e di impotenza perché i discorsi evocativi erano sempre pieni di dolori. In un percorso fatto sempre nell’ottobre 1944 ci fermammo a Bolzano Vicentino perché il padre voleva visitare un carcerato rinchiuso in una villa dei dintorni di quel paese. A delle donne che uscivano dalla prima messa, padre Nicolini chiese la strada più breve per arrivare alla villa dove erano insediati i Tedeschi. Subito le donne si misero a piangere e ci raccontarono. I custodi di quella villa erano soldati delle

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SS che avevano addestrato dei cani per sbranare le persone: facevano finta di lasciar liberi dei poveri disgraziati prigionieri e poi, quando costoro erano nei campi per ritornarsene a casa, aizzavano contro di loro i cani che dilaniavano i corpi di quei poveretti, lasciando insepolti i loro resti. Proprio quella mattina alcune donne avevano visto un corpo straziato insepolto.Non so se al padre fosse arrivata prima la notizia di quei misfatti, certo che ammutolì. Il padre però andò ugualmente a visitare il carcerato che conosceva. I soldati tedeschi gli risposero che quella persona era stata trasferita. La sua faccia era visibilmente impietrita, ma con me non fece commenti né io gli chiesi niente perché il raccapriccio in entrambi era molto evidente. In novembre poi ritornai a Vicenza e questa volta se non avessi avuto il tesserino del lavoro, avrei passato molti guai. Io, assieme a Padre Nicolini e a due mie cugine, sorelle di Erminio, andai a trovare Fricco, imprigionato a San Biagio e all’arrivo incappai in un pasticcio. Le guardie fasciste lasciarono passare il padre e non noi tre; le cugine andarono per i fatti loro e io in una chiesa vicina in attesa che il camilliano finisse la sua visita. Io, impaziente, uscii per controllare, proprio in quel momento passava una pattuglia di repubblichini, si fermarono per controllare i miei documenti. Lessero che io lavoravo per i Tedeschi, ma anche che ero stato carabiniere. Così mi condussero dentro nei loro uffici e cominciarono a farmi proposte per aderire alla repubblica di Salò. Io rispondevo sempre che i miei genitori erano vecchi e che io ero il solo che potesse lavorare i campi e farli produrre. Mi proposero perfino di farmi nominare maresciallo e mettermi a capo di una stazione carabinieri in una cittadina vicina. Finalmente dopo parecchie ore, alle sei di sera mi rilasciarono. Quelle insistenze mi convinsero sempre più che io ero nella giusta posizione e che il fascismo avrebbe avuto ancora una vita molto breve, dato che mi proposero di saltare tutti i gradi dei sottufficiali e premiare per una adesione, trasformando un modesto e giovane carabiniere in un maresciallo, cioè in uno che poteva disporre di parecchia autorità. Dovetti fare la strada da solo perché gli altri erano ripartiti non sapendo dove io fossi andato e temendo nel contempo della

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mia sorte. Quando arrivai, verso le ventuno, trovai i familiari in apprensione, perché dai miei compagni di viaggio era stato detto loro che i repubblichini mi avevano arrestato. Fortunatamente il tesserino di lavoro mi salvò! In cuor mio ringraziai padre Nicolini che mi aveva consigliato, come già detto, di procurarmene uno lavorando per i Tedeschi. Data la stima generale di cui godeva Nicolini, egli sapeva tutto ciò che succedeva ai partigiani e alle loro famiglie da Cittadella a Bassano. Era continuamente in moto con la sua bicicletta per provvedere ai bisogni. La sua veste, contrassegnata da una grande croce rossa, svolazzava ovunque. In questo suo girare spesso mi chiamava per accompagnarlo, anche se io poi rimanevo uno spettatore che non conosceva le varie vicende che lui voleva dipanare. Quando all’inizio del 1945 lavoravo per la famiglia di Erminio, spesso rimanevo a dormire dalla zia perché, come ho già precisato, lei e le sue giovani figlie avevano paura; allora io dormivo nella stanza di nonno Giuseppe, già molto anziano. Rimanevo colà volentieri perché oltre ad avere l’occasione di ascoltare radio Londra, avevo anche il piacere di godere della compagnia di padre Nicolini. Egli infatti veniva dalla madre di Erminio almeno due volte alla settimana: “per bere il caffè”, ma era per dare conforto e trasmettere ottimismo. Così di chiacchere in chiacchere venni a conoscere nomi e fatti della Resistenza di cui io avevo una vaga conoscenza. Evidentemente aveva fiducia in me.Fu così che venni a conoscere la storia di alcuni sacerdoti e di alcune donne che operarono in modo efficace con i partigiani. Venni a sapere la storia di Don Giuseppe Menegon, parroco di Loria – Treviso. Fu tradito da uno che il sacerdote aveva soccorso, fu imprigionato prima a Treviso poi a Padova. Fortunatamente per lui, fu inquisito dal giudice nazista Albrecht Kaiser, responsabile del tribunale militare di Padova che aveva anche la supervisione di tutti i tribunali veneti. Dopo un lungo interrogatorio sul filo dei diritti e dei doveri dei cittadini verso il proprio Stato, quel giudice assolse don Menegon dalle accuse e si proclamò un suo estimatore perché fu conquistato, lui ateo, dalla ineccepibile coerenza di quel sacerdote.Questa stima servì a Menegon e a Nicolini per salvare la vita a dei

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partigiani, fra questi i miei comandanti Moro e Buonconsiglio.Questi due preti riuscirono talvolta a superare le disposizioni di Perillo, il temuto capo del tribunale militare di Bassano, talaltra a far cambiare idea allo stesso Perillo. Padre Nicolini, oltre a ricordare vari sacerdoti che salvarono parecchi giovani, raccontò anche la storia di alcune donne che si prodigarono a fare da staffetta fra i reparti dei partigiani. Ricordo qui con particolare commozione quanto mi disse Nicolini riguardo ai miei due comandanti sopra ricordati, e che dopo anni trovai anche scritto a pagina 123 nel libro di Franco Corletto “Masaccio”. I Tedeschi sapevano già tutto della Resistenza nelle nostre zone, volevano però la conferma dal Buonconsiglio che disperatamente non parlava. Negri in prigione a Bassano, già condannato a morte, fu portato a confronto con Buonconsiglio che era nelle prigioni di Ca’ Dolfin dove era stato bastonato lungamente e ridotto a una larva umana.Davanti a tutti gli inquisitori Negri si assunse ogni responsabilità invitando l’amico a dire tutto. Buonconsiglio svenne, poi confessò quanto sapeva. Ebbero salva la vita: Negri dopo un mese fu spedito in Germania, Buonconsiglio nelle prigioni di San Biagio a Vicenza.Padre Nicolini fu sempre un ascoltato interlocutore sia a favore dei partigiani prima, che dopo per i nazifascisti: era il suo spirito sacerdotale che gli faceva mettere davanti a ogni cosa la persona umana. Alcuni esempi che ho riscontrato di persona: verso la fine della guerra, due fascisti repubblichini disertarono a Bassano. Ripresi furono condannati a morte da Perillo. Il camilliano esortò e argomentò con quell’inquisitore finché il Perillo inviò i due in una prigione sul Garda, da dove poco dopo uscirono vivi.Dopo l’arrivo degli Alleati il Nicolini salvò un collaborazionista fascista: alcune persone con percosse continue, lo trascinavano lungo la strada per ludibrio. La folla li aizzava, padre Nicolini strappò dalle mani dei giustizieri l’individuo e lo portò via con sé, salvandogli la vita. Per me fu una persona eccezionale che mi diede un forte aiuto spirituale e psicologico durante la Resistenza. A padre Nicolini fu concessa, per i suoi meriti eccezionali, la medaglia d’argento al valor militare e varie città gli dettero la

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cittadinanza onoraria. Per chi desidera ampliare la conoscenza dell’opera di padre Nicolini c’è il libro “Padre Odone Nicolini il prete dei partigiani” di Guerrino Citton stampato nel 2004 a cura del comune di Fontaniva (Vicenza).

Masaccio

Fra i comandanti partigiani che ho conosciuto, quello che mi ha colpito in modo totale, è stato Masaccio. Lo conoscevo di nome quando era comandante del battaglione “Mazzini”, poi lo conobbi di persona e cominciai ad ammirarlo. Per me egli impersonò il condottiero impavido perché, dopo il famoso e burrascoso settembre 1944 portatore di morti e distruzione di organici fra noi partigiani, riuscì a riorganizzarci in modo perfetto. Di questo eroe, medaglia d’oro della Resistenza, parla diffusamente Gianfranco Corletto nel suo libro, appunto intitolato “Masaccio”, edito nel 1965 da Neri Pozza. Masaccio era il nome di battaglia del professore Primo Visentin, nato a Riese – Treviso – nel 1913. Ebbe una vita giovanile misera. Salì pian piano la scala dell’insegnamento, prima diplomandosi maestro elementare e poi laureandosi in lettere a Padova: così passò prima dai bambini poi agli studenti delle scuole tecniche superiori. Mobilitato per la guerra, non accettò di fare il corso allievi ufficiali, allora fu inquadrato nell’esercito regio come soldato di artiglieria. Dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943, partecipò da subito alla Resistenza col nome di battaglia Masaccio. Prese questo nomignolo perché era amante della pittura e aveva studiato a fondo il pittore del ‘400 con quel nome. Il professore organizzò un gruppo di partigiani in un battaglione che chiamò “Mazzini”, perché si sentiva come quel patriota del nostro Risorgimento, cioè essere un combattente per amor di Patria. Si dimostrò un comandante attento, anche se un po’ irruento, che studiava e programmava le azioni militari, badando nel contempo alla salvaguardia dei suoi uomini. Fu per questa sua visione realistica che Masaccio, all’inizio del settembre 1944, aveva consigliato i comandanti delle formazioni rifugiate sul Grappa di condurre una guerriglia mobile piuttosto che fare una resistenza ad oltranza.

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Malauguratamente non fu ascoltato e vi fu l’eccidio di molti patrioti.Il 5 ottobre 1944, alle quattro del mattino, presso il cimitero di Castion di Loria, Masaccio riunì i comandanti superstiti del disastroso rastrellamento del monte Grappa. Tanto parlò che tutti accettarono di costituire una nuova brigata, riunendo tutti i gruppi col nome “Martiri del Grappa”, e che operasse a cavallo delle province di Vicenza e Treviso con centro il massiccio del Grappa, ormai faro di gloria per tutti: sia per i martiri della prima guerra mondiale che per quelli della Resistenza. I miei comandanti, parteciparono a quella riunione così noi tutti del plotone di Fricco facemmo parte della nuova brigata. Masaccio ne divenne il capo e scrisse subito un lungo e articolato ordine del giorno relativo alla Costituzione del nuovo corpo di volontari; poi il giorno dopo un altro rivolto alle popolazioni del Grappa, del Brenta, del Piave. Sono due bollettini che danno la misura di come fossero chiare e valide le sue idee sulla organizzazione partigiana e di quanto fosse consapevole della necessità di informazione dei cittadini. Questa opera di educazione popolare l’ampliò con l’uscita, il primo gennaio 1945, della “Gazzetta pedemontana” che dopo poco fu sostituita, con orizzonti più ampi, dalla “Gazzetta del Patriota”. Fu una attività efficace perché portò il popolo a conoscere da vicino la lotta contro i nazifascisti.Masaccio continuò la sua opera organizzativa ed insieme educativa con parecchi altri bollettini di servizio. Parlava anche di onestà, obbedienza, coscienza, solidarietà, coraggio. Raccomandava ai combattenti di praticare queste virtù perché chi lottava per la libertà e la democrazia, doveva essere motivato da idealità. L’azione militare della sua brigata iniziò il 12 ottobre 1944 e continuò ininterrotta, con parecchie decine di azioni, fino alla vittoria finale. Poco dopo la creazione della nuova brigata, il mio comandante di battaglione Negri, fu imprigionato; fu sostituito da Bill, Andrea Cocco, suo vice. Anche lui si dimostrò un coraggioso comandante tanto che divenne l’aiuto di Masaccio.Io ebbi l’occasione, per alcune volte, di incontrare di persona Masaccio nelle riunioni che promuoveva per istruirci sui modi e i metodi di lotta. Furono per me lezioni illustrative che mi entusiasmarono per il fascino

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che emanavano le parole e il volto del capo. Fu fautore nel creare una organizzazione che riunisse tutte le brigate che operavano nel Veneto centrale tra Padova, Vicenza e Treviso. Finalmente l’unione arrivò l’8 febbraio 1945 quando fu istituita la divisione Monte Grappa, formata da sei brigate, sotto un unico comando militare e politico.Insediatosi il comando della Divisione, subito fu elaborato un piano strategico di sabotaggi per disorientare e disgregare le forze nemiche. Vi furono azioni mirate nei territori sotto la giurisdizione del Comando Unico. Vi fu anche, il 17 febbraio 1945, un successo strabiliante dei miei comandanti Masaccio e Bill – il primo comandante della brigata Monte Grappa, il secondo del battaglione Silvio Pellico – che con duecentocinquanta chilogrammi di esplosivo danneggiarono irrimediabilmente il ponte vecchio di Bassano, detto anche ponte degli alpini. Lo racconta Bill nel libro di Gianfranco Corletto nelle pagine 154 – 156. Certo noi lo sapemmo dopo, ma questo fatto, congiuntamente ad altri sabotaggi contemporanei, sollevarono gli animi di tutti, specie di noi partigiani, perché capimmo che erano arrivati gravi scricchiolii per la potenza tedesca. A me piace ricordare quell’azione perché si sviluppò con una progressione che oggi diremmo cinematografica, giacché degli episodi simili sono stati raccontati in film di guerra. I quattordici sabotatori, vestiti da soldati tedeschi o repubblichini e Masaccio con divisa da ufficiale, divisi in due squadre, passarono indenni fra la folla ove c’erano anche militari nazifascisti. Quella azione temeraria rovinò il ponte, che fu restaurato solo dopo la guerra, purtroppo ebbe uno strascico penoso con l’uccisione, per ritorsione, di tre giovani innocenti prelevati dalle prigioni. Oggi sul ponte di Bassano c’è una placca bronzea che ricorda il fatto con questa parole: “Per salvare la città da minacciato bombardamento aereo il 17 febbraio 1945 Masaccio - prof. Primo Visentin da Riese Pio X - con un pugno di volontari della libertà, questo ponte fece saltare. Per rappresaglia il 22 febbraio 1945 Alberti Federico, Lunardi Cesare, Zavagnin Antonio qui furono fucilati dai nazifascisti”.Masaccio morì da un colpo di fucile proprio nel giorno della vittoria. A ricordo di questo eroe della Resistenza, le brigate partigiane Martiri

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del Grappa e Cesare Battisti donarono all’Università di Padova una statua per onorare il professor Primo Visentin – Masaccio, che si era laureato in quell’ateneo, e che ora si trova nell’atrio del Bo.La statua del celebre scultore Arturo Marini raffigura Palinuro, personaggio virgiliano che fu pilota del fuggiasco Enea da Troia in fiamme, che però vinto dal sonno cadde in acqua e morì, proprio in vista delle coste d’Italia.Questa mitica figura, emblematica di una sicura rotta, simboleggia Masaccio comandante partigiano intrepido che portò la Resistenza veneta alla riscossa, dopo il disastroso rastrellamento nazifascista sul Monte Grappa del settembre 1944, e che poi morì quando ormai la Libertà era sicura.

Ritorna la pace

Mentre detto le mie memorie sono passati sessantacinque anni dal fatidico aprile 1945 che apportò all’Italia la pace e, assieme, anche quella democrazia che era stata soffocata per oltre un ventennio dal fascismo di Mussolini. Se si chiedesse ora ai giovani cosa è stata per gli Italiani quella pace, certamente i più ci guarderebbero con occhi interrogatori; solo pochi avrebbero le semplici conoscenze dei libri di storia studiati. Per noi invece, che abbiamo sofferto e lottato per la pace, è stata anche una grande festa, una esplosione di gioia, di entusiasmo e di frenetica attività. Avevamo perso cinque anni di vita entro una fornace che aveva bruciato le nostre speranze e i nostri desideri. Quando quel fuoco distruggitore fu spento dall’eroismo di tanti, ci riprendemmo il nostro destino. Abbiamo vissuto quei primi anni da liberi, con impeto, con voglia di rifarci, di lavorare per un domani migliore, senza voltarci indietro a chiedere giustificazioni o spiegazioni.Deposte le armi diventammo solerti cittadini operatori.È stato certamente per questa ansia di agire per ricostruire che noi combattenti guardammo solo verso il futuro, dimentichi ormai del passato. Solo ora, ormai appagati del lavoro fatto durante la nostra vita, desideriamo ricordare le nostre vicissitudini perché siano di insegnamento alle nuove generazioni.Io uscito fortunatamente, direi quasi miracolosamente, indenne ho

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dimenticato tutti gli affanni della guerra fino a che l’amico Giuseppe Trevisan mi ha convinto a esplorare dentro di me e a raccontare le mie memorie, anche perché mi ha ripetuto tante volte che le miserie delle guerre devono essere monito per il futuro.Nel 1945 mi immersi nei lavori dei campi di mio padre, anche perché non volli chiedere di essere riammesso nell’arma dei carabinieri: ormai preferivo la vita borghese che dava tante possibilità di agire a seconda delle proprie ambizioni.Nel 1946 alle prime elezioni amministrative fui eletto consigliere comunale di Cittadella, quale rappresentante della mia frazione di Ca’ Moro. Ciò mi fece partecipare in modo diretto alle nuove vicende per creare una società diversa da quella fascista. Un giorno, quando ormai cercavo un lavoro autonomo, incontrai un commilitone che aveva trovato un posto sicuro. Mi spiegò che la sua ricerca fu facilitata dall’Associazione di assistenza dei carabinieri in congedo di Padova. Mi iscrissi e trovai quasi subito lavoro.Nel 1952 il comune di Monselice si era rivolto alla Associazione chiedendo dei nominativi per scegliere e assumere un vigile urbano. Mi chiamarono, accettai e feci un anno di prova, nell’anno successivo ebbi il posto stabile nell’organico, in seguito a un regolare concorso. Nel 1954 mi sposai con Agnese, anche lei di Cittadella, e venimmo ad abitare a Monselice. Nacquero quattro figli e nel contempo cominciammo anche a costruire la nostra casa. Furono anni intensi di lavoro. Io usavo le ferie agostane per fare il vigile sussidiario prima a Piove di Sacco, per alcuni anni, e poi a Ortisei, in Val Gardena. Agnese aveva aperto un laboratorio per la produzione di maglie di lana. Andato in pensione nel 1979 con la legge 336 a favore dei combattenti, continuai a lavorare come vigile sussidiario per il comune di Ortisei non solo in agosto, ma anche negli altri mesi turistici dell’estate e dell’inverno.Di questa parentesi di servizio a Ortisei mi piace ricordare la grande umana affabilità del Presidente Pertini. Egli d’estate villeggiava a Selva di Val Gardena e spesso si recava a Ortisei, accompagnato dalla sua scorta, per prendere la funivia dell’Alpe di Siusi. Ricordo che una domenica, essendo di servizio davanti alla chiesa parrocchiale

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mentre la folla usciva dalla chiesa, prontamente fermai il percorso delle auto per dar modo alla gente di attraversare la strada. Il caso volle che lasciassi passare le auto di scorta del Presidente e fermassi invece proprio la sua. Ripristinato il passaggio delle auto, il Presidente si affacciò al finestrino, mi salutò e mi lodò pubblicamente perché ero stato impeccabile nel mio servizio. Volle anche stringermi la mano. Un’altra volta accadde che vidi Pertini uscire da una farmacia: si dirigeva senza scorta verso di me. Mi disse di non dire a nessuno che l’avevo visto. E aggiunse: “Sono peggio di un prigioniero!”. Dopo mezz’ora lo vidi ripassare con la scorta. Vedendomi mi fece un cenno di saluto con la mano: seppi poi che era stato a salutare i Catores (un gruppo di volontari di soccorso alpino) e che era stato raggiunto dalla sua scorta dopo un’affannosa ricerca. Inoltre ebbi modo di parlare con lui in altre occasioni perché mi invitò più volte a bere un caffè con lui e alcuni carabinieri presso il Caffè Haiti dove andava abitualmente.Ritiratomi definitivamente dal lavoro a Ortisei, cominciai a fare volontariato in alcune associazioni di Monselice, smettendo qualche anno fa.Sono tranquillo e sereno: la continua occupazione del tempo, che ha contrassegnata la mia vita, mi ha dato un vigore costante per superare le difficoltà. Penso che la vita possa dare sicurezza, libertà, benessere e amore soprattutto se si è volonterosi, attivi e consapevoli dei propri limiti.

Partigiani cittadellesi illustri

Ritengo che noi partigiani dell’Alta padovana dobbiamo sempre ricordare anche due cittadellesi perché essi, prima, durante e dopo la guerra, hanno impersonato l’anima veneta insofferente di ogni ingiustizia. Gavino Sabadin, animatore politico della Resistenza, e Bino Rebellato, cantore dei nostri sacrifici, sono due personalità entrate ormai nella nostra storia. Desidero qui parlare di loro perché essi sono stati due punti di riferimento, per le loro capacità, disponibilità e nobiltà di propositi, di noi giovani fervorosi, ma anche talvolta inesperti. Non pretendo certo che queste mie modeste parole possano aggiungere

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gloria e fama a questi due valorosi combattenti per la Libertà d’Italia, desidero solo rendere a loro un mio tributo reverenziale, e nel contempo riconoscente, per quello che essi hanno fatto a me infondendomi coraggio, pazienza e ardore.Gavino Sabadin, 1890 – 1980. Fu l’avvocato che aiutò sempre i più deboli. Prima della Grande Guerra fondò da noi le leghe bianche a difesa dei contadini e dei piccoli proprietari, una volta molto numerosi. Quando il fascismo soppresse le leghe, concentrò la sua opera a sostegno della “Federazione piccoli proprietari”, la sola permessa dal duce. Queste sue attività gli portarono notorietà e stima. Il 25 luglio 1943, caduto Mussolini, subito iniziò la sua opera per raccogliere volontari a difesa delle patrie sorti. Venuto poi l’armistizio dell’8 settembre, raccolse attorno a sé persone di diverse tendenze politiche e fondò il gruppo organizzativo di lotta contro i Tedeschi: anche da noi a Cittadella nacque il CLN. Fu il responsabile cattolico e capo del nuovo organismo. Lavorò con costanza, oculatezza e forza nella organizzazione dei volontari, tanto da formare, come già detto, tre brigate che lui chiamò “Damiano Chiesa”. Riteneva che questo valoroso combattente della prima guerra mondiale fosse il più emblematico eroe sia come combattente contro i Tedeschi, sia come fervente cristiano. Sabadin divenne anche responsabile del CLN veneto e dopo la guerra Prefetto pro tempore di Padova. Poi fino alla sua morte, dovuta a un incidente, fu un noto e capace dirigente amministrativo di vari enti pubblici. Fu insignito di parecchie onorificenze.Albino Rebellato, detto Bino, 1914 – 2004. Fu insegnante, poeta, scrittore ed editore. Divenne un punto di riferimento della cultura veneta e nazionale. Fu comandante partigiano della terza compagnia della brigata “Damiano Chiesa” e stretto collaboratore del responsabile del CLN Gavino Sabadin. Fu insignito di vari riconoscimenti pubblici.Mi piace riportare a suo ricordo l’inno che scrisse per la nostra divisione “Monte Grappa” che esalta il valore partigiano. Sono versi che riecheggiano la passione e l’amore per la Libertà della Patria, proprio come quelli dei poeti del nostro Risorgimento.

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Tutti i petti un sol grido percosse e di giovani forti una schiera d’ogni parte cantando si mosse impugnando una sola bandiera. La bandiera nell’ombra sepolta che ora palpita libera al vento e l’Italia che tutta n’è avvolta è di voci e di squilli un concento. Torturati derisi inseguiti, nella fede che illumina e crea in un solo concordi, riuniti, già gli eventi pieghiamo all’Idea.

Dai quaranta impiccati a Bassano s’è levata una voce potente e Dio scese a guidarci la mano, d’ognun fece una folgore ardente. Fucilate, impiccate, legate! Rinchiudeteci dentro una fossa: ma un ardore di fedi inviolate si disserra immortale dall’ossa. Su dal sangue, dall’orrido inferno che di sangue cosparse la terra sorge a spegnere amore fraterno, dell’orgoglio tirannico l’era.

Ritornello (dopo ciascuna strofa)

Sono infrante le nostre catene: libertà, libertà! Libertà che l’umano avvalora nel bene, di bellezza fulgor, verità.

144 Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Tesserino di riconoscimento del 7 gennaio 1942 firmato dal colonnello comandante la mia legione Dino Tabellini, ottenuto subito dopo essere stato promosso da allievo a carabiniere.

145Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Roma, 1 aprile 1943, stazione Ostiense. Picchetto d’onore della mia quarta compagnia per l’arrivo del Primo Ministro Ungherese, alleato dell’Italia, ricevuto dal Capo del Governo Mussolini. Io sono in seconda fila, dietro al terzo carabiniere partendo da sinistra. Io con la divisa nera come è l’attuale, per svolgere mansioni fra il pubblico, e con la divisa grigio-verde con pantaloni alla cavallerizza e gambali per servizio di ordine.

146 Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Roma 1942. Il picchetto della mia IV compagnia, con bandiera e banda in testa, marciamo per andare a fare la guardia d’onore alla residenza del re Vittorio Emanuele III. Roma, mattinata del 19 luglio 1943. La grande caserma dove alloggiavano la mia legione e il comando generale dei carabinieri. Nel cortile, due compagnie di allievi, promossi carabinieri, prestano giuramento alla presenza del Generale Comandante dell’Arma Azolino Hazon.

147Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Il generale dei carabinieri Azolino Hazon, perito mentre prestava aiuto alla popolazione romana durante il bombardamento pomeridiano del 19 luglio 1943. Gli fu concessa la medaglia d’argento alla memoria.

Roma, 21 luglio 1943. Funerali del generale Azolino Hazon. La salma è posta sull’affusto di un cannone trainato da muli. Il picchetto d’onore è formato dal gruppo di carabinieri a cavallo.

148 Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Roma, notte tra l’8 e il 9 settembre 1943. Noi carabinieri della legione di stanza nella Caserma Comando, fummo armati e trasportati con camion presso la Basilica di San Paolo fuori le mura. Qui siamo rimasti circa due ore, accovacciati in attesa di ordini per far sloggiare da Cecchignola truppe tedesche, le quali improvvisamente avevano occupato quello snodo stradale. Disegni di B. Mardegan. Trincea costruita a difesa di Roma congiungente la Basilica di San Paolo con il ponte della Magliana. Camminamento usato dalla nostra legione carabinieri, IV compagnia in testa, per riconquistare la posizione strategica occupata dai tedeschi.

Motivazione della medaglia d’oro al valor militare

Comandante di compagnia allievi carabinieri impegnata per la difesa della

capitale, nella riconquista di importante caposaldo che truppe tedesche avevano

strappato dopo sanguinosa lotta a reparto di altra arma, mosse all’attacco con slancio

superbo, trasfondendo nei suoi giovanissimi gregari grande entusiasmo ed alto

spirito combattivo, dopo tre ore di aspra ed alterna lotta, in un momento decisivo

delle sorti del combattimento, per trascinare il suo reparto inchiodato dal fuoco

nemico a poche centinaia di metri dall’obiettivo e lanciarlo contro l’ultimo ostacolo,

non esitava a balzare in piedi allo scoperto, sulla strada furiosamente battuta,

affrontando coscientemente il supremo sacrificio. Colpito a morte da una raffica di

arma automatica, cadeva gridando ai suoi carabinieri: “Avanti! Viva l’Italia!”.

Il suo grido e il suo olocausto, galvanizzando il reparto, lo portarono d’impeto,

in una nobile gara di eroismi, alla riconquista dell’obiettivo.

149Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Il capitano Orlando de Tommaso, comandante della mia IV compagnia carabinieri, morto da eroe il 9 settembre 1943 durante la battaglia per ricacciare le truppe tedesche che tentavano di occupare Roma entrando dal ponte della Magliana di Cecchignola e poi seguire il percorso della trincea fino al cuore della città. È la prima medaglia d’oro della Resistenza.

Motivazione della medaglia d’oro al valor militare

Comandante di compagnia allievi carabinieri impegnata per la difesa della

capitale, nella riconquista di importante caposaldo che truppe tedesche avevano

strappato dopo sanguinosa lotta a reparto di altra arma, mosse all’attacco con slancio

superbo, trasfondendo nei suoi giovanissimi gregari grande entusiasmo ed alto

spirito combattivo, dopo tre ore di aspra ed alterna lotta, in un momento decisivo

delle sorti del combattimento, per trascinare il suo reparto inchiodato dal fuoco

nemico a poche centinaia di metri dall’obiettivo e lanciarlo contro l’ultimo ostacolo,

non esitava a balzare in piedi allo scoperto, sulla strada furiosamente battuta,

affrontando coscientemente il supremo sacrificio. Colpito a morte da una raffica di

arma automatica, cadeva gridando ai suoi carabinieri: “Avanti! Viva l’Italia!”.

Il suo grido e il suo olocausto, galvanizzando il reparto, lo portarono d’impeto,

in una nobile gara di eroismi, alla riconquista dell’obiettivo.

150 Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Roma, Altare della Patria. Mentre ero di picchetto d’onore presso questo sacrario il 18 settembre 1943, arrivò dal Veneto la madre di un mio commilitone, che era in quel momento di guardia, la quale disse di volere portare a casa suo figlio: fu in quel momento che io decisi di abbandonare il servizio militare. Partii da Roma il 22 settembre ‘43.

Il mio portasigarette sul cui coperchio ho inciso con la punta della baionetta la data, il luogo e il nome del commilitone, che mi sono trovato a fianco, al termine della battaglia di Cecchignola del 9 settembre 1943.

151Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Il 10 aprile 1944 io e mio fratello Giuseppe diventammo parte integrante delle formazioni Partigiane. Qui mio fratello, artigliere di montagna con obici da 75/13 quando partecipava alla guerra dei Balcani. È ritratto nel 1942, assieme ad altri fa il presentat-arm con le canne degli obici che pesavano Kg 105 ciascuna, escluso naturalmente ogni altro accessorio. Mio fratello è il secondo da sinistra. Monte Grappa, 25-26-27 settembre 1944, vi fu la più grande battaglia campale della Resistenza Veneta: poco meno di 1.500 patrioti contro circa 15.000 soldati tedeschi e fascisti. Quasi tutti i partigiani morirono, i tedeschi incendiarono molte case e stalle. Si noti sopra i pochi resistenti e sotto i molti soldati nazifascisti all’attacco con armi pesanti. Disegno di B. Mardegan.

152 Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Padre Nicolini sale sul camion per confortare i giovani che vengono portati in un viale di Bassano del Grappa per essere impiccati. Tarda mattinata del 26 settembre 1944.

I giovani impiccati appesi agli alberi di un viale ora chiamato “Viale dei Martiri”. Inizio del supplizio ore 15 del 26 settembre 1944. Disegni di B. Mardegan.

153Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Bassano del Grappa, ponte vecchio detto degli Alpini, sabotato dai partigiani comandati da Masaccio per evitare i bombardamenti aerei degli alleati che avrebbero causato gravi danni alla città. Per rappresaglia il 22 febbraio 1945 furono fucilati dai nazifascisti: Federico Alberti, Cesare Lunardi e Antonio Zavagnin. Bassano del Grappa, 17 febbraio 1945. Il comandante Masaccio assieme ad altri partigiani, tutti travestiti da soldati tedeschi, trasportano con un carrettino tirato da biciclette, 150 kg di esplosivo per fare saltare il ponte vecchio detto “degli Alpini”. Disegni di B. Mardegan.

154 Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Foglio matricolare da cui risulta la mia attività di Partigiano (vedi immagine seguente).

155Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Parte del foglio matricolare da cui risulta la mia attività di Partigiano. Reparto: Brigata Martiri della Libertà. Conferimento della croce di guerra.

156 Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Dichiarazione del distretto militare di Padova per la concessione della croce di guerra.

157Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Dichiarazione del distretto militare di Padova per la concessione della croce di guerra.

158 Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Tessera rilasciatami perché partigiano.

159Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Certificato di Patriota rilasciatomi dal comandante americano maresciallo Alexander, controfirmato dal comandante della mia divisione Monte Grappa e da un ufficiale alleato con timbro del CVL – Comitato Veneto di Liberazione.

A sinistra, padre Odone Nicolini, frate camilliano, che fu di grande aiuto per molti partigiani, per questo fu chiamato “Il prete dei partigiani”. A destra, sacerdoti veneti che operarono nella zona: Don Giuseppe Menegon, Don Francesco Mascotto, Don Carlo Davanzo, Don Anselmo Riello.

160 Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà

Masaccio, nome di battaglia del prof. Primo Visentin, nato nel 1913 a Riese (Treviso), è stato il mio comandante di Brigata, Martiri del Grappa, dall’ottobre 1944, dopo l’eccidio del settembre. Una fucilata lo uccise sul finire della guerra. È medaglia d’oro della Resistenza.

Masaccio, Medaglia d’oro al valor militare

Motivazione

Fin dall’inizio del movimento cospirativo, organizzò le formazioni armate,

trascinando con l’esempio, con l’entusiasmo e con l’ardimento le squadre dei giovani

da lui inquadrate.

Comandante di Brigata, partecipò alle più ardue azioni di lotta e di sabotaggio e la

sua audacia non conobbe ostacoli, né pericoli.

A poche ore dalla liberazione, mentre intimava la resa ad un forte gruppo di tedeschi

asserragliati, cadde colpito a morte, chiudendo da eroe la sua adamantina vita

dedicata al luminoso ideale della Patria libera.

Il suo nome, consacrato dal sacrificio, è assurto a simbolo della zona del Grappa.

25 aprile 1945

Memorie di guerradi un soldato del Genio

1942 – 1945

1944, aggregato alle truppe americane

LINO BELLUCO

Classe 1923Monselice – PD – Via Trento Trieste

162 Lino Belluco - Memorie di guerra di un soldato del Genio

Sono Lino Belluco, nato il 6 aprile 1923 a Monselice in via Savellon Mulini, dove erano i campi coltivati da mio padre agricoltore.Soldato di leva, fui chiamato alle armi nel settembre 1942, mentre frequentavo il liceo classico “Tito Livio” di Padova. Fui destinato al 14° reggimento del Genio di stanza nella caserma Fantuzzi di Belluno. Ebbi una lunga e accurata preparazione tecnica, sia per essere in grado di ricevere e trasmettere con l’alfabeto Morse i vari dispacci militari, sia per conoscere dettagliatamente le attrezzature di una stazione radio-marconista mobile, cioè posta su automezzo.Contemporaneamente dovetti fare anche servizio di caserma per assolvere i quotidiani impegni che richiede una comunità militare e per le solite esercitazioni tattico-militari.Un giorno ero il caporale capoposto del picchetto di guardia. Fui chiamato dalla sentinella, che si trovava nella garitta a fianco del portone principale, la quale mi indicò un signore di bassa statura con una grossa valigia che stava avvicinandosi. Osservai ben bene quell’uomo che lentamente camminava verso di noi. Con grande sorpresa lo riconobbi: era il professor Lino Lazzaroni, mio insegnante di italiano al liceo di Padova. Gli corsi incontro e, pieno di commozione, lo abbracciai. Era stato richiamato ed assegnato alla mia caserma. Il professore faceva parte di quegli ultimi scaglioni di anziani chiamati alle armi: il fascismo aveva raschiato il fondo del barile.Nella tarda estate del 1943 noi genieri, assieme a tanti altri soldati di varie specializzazioni, fummo destinati alla difesa della Corsica. Partimmo da Belluno in treno di buona mattina e alla sera arrivammo al porto di La Spezia. Avevamo appresso tutto il nostro equipaggiamento militare e le stazioni radio-marconiste. Io, oltre allo zaino, portavo anche una pesante valigia piena di libri scolastici con l’idea di poter studiare nelle pause libere dal servizio, come avevo fatto in caserma.I piazzali di quel porto erano pieni di una moltitudine eterogenea di soldati, carichi di zaini e armi. Dormimmo all’addiaccio. Il giorno dopo lentamente ci stiparono in una nave: alla fine eravamo millecinquecento soldati impossibilitati anche di muoverci, proprio come le sardine in barile!Salpammo solo a notte inoltrata per non subire attacchi aerei Alleati;

163Lino Belluco - Memorie di guerra di un soldato del Genio

finalmente arrivammo di mattina presto a Bastia in Corsica. Lo sbarco durò parecchie ore. A piedi, come al solito, arrivammo in un grande campo oappena fuori dalla cinta cittadina: era il centro di smistamento per le varie destinazioni. Il campo era pressoché sguarnito di servizi, così dovemmo allestire le tende, con i teli in dotazione, per dormire.Rimanemmo là qualche giorno ad oziare e poi a grattarci il corpo per i numerosi parassiti che infestavano quel luogo: erano il lascito in regalo e la risultanza di tutti quelli che erano passati di là prima di noi.Fortunatamente ci spostarono: andammo nella periferia di una cittadina che si chiamava Corte, dove trovammo uno spiazzo abbastanza attrezzato, così potemmo lavarci e ripulirci. Mancavano fabbricati e così ci attendammo di nuovo. Innalzammo grandi tende che contenevano nove brande per il riposo di noi soldati: era un luogo tranquillo. Ma la quiete fu interrotta abbastanza presto dall’armistizio dell’8 settembre 1943. I nostri comandi non accettarono la richiesta di collaborazione avanzata dalle truppe tedesche presenti nell’isola, così scoppiò il conflitto tra noi e i nazisti. Vi furono combattimenti ravvicinati per circa un mese. Gli assalti tedeschi erano violenti con l’uso di fanteria, artiglieria e mezzi blindati che causarono distruzioni e morti fra noi Italiani. Più i Tedeschi insistevano nei loro attacchi, più in noi si sviluppava un sentimento di ripulsa verso i nuovi nemici e ci sentivamo motivati a sconfiggere proprio coloro che avevano messo a ferro e fuoco l’Europa, creando macerie e lutti a non finire. In uno di quegli attacchi successe a me un fatto che ho sempre considerato miracoloso. Mentre eravamo in perlustrazione sul territorio, una improvvisa bordata di cannonate tedesche colpì il nostro campo e, in particolare, centrò appieno la mia tenda rovinando ogni cosa compresi i miei libri: se fossimo stati all’interno saremmo stati sfracellati, proprio come lo furono le brande e gli zaini.I Tedeschi, constatato che non sarebbero mai stati capaci di neutralizzarci, o forse perché avevano bisogno di altri soldati in Italia, se ne andarono dalla Corsica alla fine dell’ottobre 1943.Vi fu una pausa ristoratrice e sistemammo ogni danno, con mio dispiacere però i libri erano andati tutti perduti.

164 Lino Belluco - Memorie di guerra di un soldato del Genio

Rimanemmo in attesa di ordini per essere impiegati, truppa combattente, a fianco degli alleati angloamericani e francesi.Venne il 1944 e in Campania si svilupparono lunghi e sanguinosi combattimenti. Attorno a Montecassino i Tedeschi difendevano la linea Gustav contro un gruppo di divisioni americane, inglesi, polacche e francesi. Le battaglie più aspre si svilupparono nel mese di febbraio ed ebbero il loro culmine con la distruzione della grande abbazia di Montecassino, avvenuta il 15 febbraio 1944. In quei frangenti noi fummo spostati dalla Corsica alla Campania, ove sbarcammo immediatamente dopo il devastante bombardamento di Cassino.Il mio contingente di radio-marconisti fu aggregato all’armata americana che ci fornì divise e attrezzature. Io fui impiegato come capo squadra in una stazione mobile posta su una jeep.Facevo collegamenti fra il comando italiano e i nostri soldati in prima linea, attraversando pericoli di ogni sorta. Quando arrivammo nelle Marche, in un’azione di avanscoperta, fui colpito dolorosamente da un fatto. Con la mia squadra dovevo fare un servizio di collegamento durante una battaglia. Il mio amico e collega Banzato, anche lui capo pattuglia, ma in quel momento a riposo, volle sostituirmi in quella azione ritenuta molto pericolosa. Era più anziano di me e forse si sentiva più esperto; insistette molto e volle partire al posto mio. Andò, ritornò steso sulla jeep ferito gravemente: gli fu amputata una gamba.Risalimmo lentamente lo stivale, occupando una alla volta le varie linee di difesa ideate dal comandante tedesco Kesselring. Arrivammo a Castel San Pietro alla fine di marzo 1945. Qui ci fermammo brevemente, rimanendo in attesa di ordini, mentre altri soldati partirono per liberare il Veneto e il Friuli. Poco dopo il mio gruppo di radio-marconisti, assieme ad altri soldati, fu inviato a Dobbiaco per controllare la zona frontaliera tra l’Austria e l’Alto Adige. Poco dopo la vittoria finale dell’aprile 1945 io fui congedato.I trasporti per arrivare a casa erano allora molto problematici, per questo il mio comando permise a me e ad altri miei conterranei di ritornare a casa in jeep, con l’intesa di riconsegnare l’automezzo al comando tappa più vicino. Arrivati allegri e contenti nel centro di Monselice, trovai amici e conoscenti coi quali ci abbracciammo.

165Lino Belluco - Memorie di guerra di un soldato del Genio

Uno mi avvisò che mio padre Ferruccio era stato ricoverato all’ospedale di Monselice per una ferita infertagli da un colpo di fucile, sparato da un soldato tedesco in ritirata: così corsi a salutare per primo mio padre che fortunatamente trovai quasi del tutto guarito, tanto che fu dimesso poco dopo.Ripresi subito gli studi liceali interrotti, ritrovai il professore Lino Lazzaroni, ormai amico di naia; successivamente mi laureai in scienze agrarie all’Università di Padova.Infine, non posso non ricordare con commozione i soldati che sono morti da eroi, parecchi dei quali miei amici, fra questi la medaglia d’oro Bruno Bussolin di Monselice, caduto sul Monte S. Michele d’Abruzzo il 19 maggio 1944. Abbiamo combattuto per avviare la vita di noi Italiani a un lungo periodo di pace. L’Europa unita come una grande nazione nacque anche dal nostro sacrificio di soldati.

Epilogo della lotta in CorsicaPochi anni fa l’amico Giuseppe Trevisan mi fece leggere un articolo in fotocopia, del giornale “La Nazione”, con la cronaca di Livorno dell’11 giugno 1963, che aveva come titolo Arrivano le 620 salme dei Caduti in Corsica. La nave Stromboli trasportava a Livorno, proveniente da Bastia di Corsica, le cassette ossario dei soldati italiani caduti durante i combattimenti dopo l’8 settembre 1943 contro le truppe tedesche. Con una solenne cerimonia quelle spoglie furono tumulate in parte nel sacrario del cimitero della Cigna ed altre nei cimiteri dei paesi natii dei soldati. Il sindaco di Livorno fece un proclama ai cittadini: mi piace ricordarne l’ultima parte, perché ha rinnovato in me una profonda commozione. L’amministrazione saluta riverente le gloriose vittime dell’ultima guerra ed invita la cittadinanza a rendere tributi di onore ai resti mortali di questi Italiani che offrirono la loro giovinezza nella difesa della libertà e della indipendenza del nostro Paese. Non pensavo che i morti in quegli scontri, dei quali io fui un fortunato sopravvissuto, fossero 620 commilitoni tutti morti per una sola parola: No, detta ai Tedeschi che chiedevano di collaborare.

166 Lino Belluco - Memorie di guerra di un soldato del Genio

1943, Caserma Fantuzzi di Belluno. Gruppo di soldati del Genio Radiotelegrafisti. Da destra io sono il terzo. Il primo a sinistra è il commilitone Bonzato, che perse una gamba quando tutti e due combattevamo nel centro Italia al comando degli Alleati contro l’armata tedesca. Bonzato volle sostituirmi e fu ferito durante una battaglia.

Estate 1944. La jeep americana in dotazione alla mia squadra, comandata da me, caporale, primo accosciato da destra.

Un sopravissuto del campo

di morte di Zeithain

CARLO FRIZZARIN

nato a Monselice il 4-XI-1923

deceduto il 26-VIII-2001

168 Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain

Ricerche fatte da Giuseppe Trevisan

Premessa Quando mi sono dedicato alle ricerche delle memorie di questo amico ritenevo avesse lasciato un proprio diario, come diverse persone mi avevano assicurato. Chiesi allora alla moglie, la quale subito mi precisò che non c’era nessun diario personale, ma che vi erano due libri custoditi gelosamente da suo marito che li considerava come diari dei suoi patimenti nel campo di Zeithain. Fu così che lessi come testimonianze di Carlo Frizzarin due libri-diario: uno di un sacerdote cappellano e l’altro di una crocerossina. Io poi rinvenni gli articoli giornalistici che avevo raccolti per mia documentazione sui lager, i quali mi sono serviti per confrontarli con i libri diario. Leggendo il tutto mi sono convinto di poter descrivere con sufficiente precisione la vita tormentata di questo amico a Zeithain. Mancano certamente gli episodi che hanno segnato profondamente Carlo e i suoi commilitoni in quel Kranklager (campo degli ammalati), ritengo però poter fare ugualmente un quadro realistico, perché mi sento anche aiutato dalla mia esperienza diretta dei lager nazisti

Il lager di Zeithain

Soprattutto dalla lettura dei due libri ricevuti, mi sono fatto un’idea precisa di cosa fosse stato il Reserve Lazaret, come lo chiamavano i Tedeschi. Era uno dei tanti lager con baracche e letti a castello di legno, sempre pieni di cimici, circondato da cavalli di frisia, con guardiania costante di soldati armati. In più aveva differenze specifiche di controllo dato che era adibito a ospedale per malattie contagiose: era appunto un lazzaretto. Si trovava sulla sponda destra del fiume Elba e dipendeva dallo Stammlager IV B di Mühlberg/Elba, in Sassonia, dal quale distava una decina di chilometri.Quello Stalag (abbreviazione di Stammlager) era molto grande, e lo deduco perché colà furono immatricolati circa trecentomila

169Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain

prigionieri. Questo calcolo è stato fatto, considerando le matricole delle piastrine dei nostri novecento soldati deceduti in quel lazzaretto che erano arrivati quasi per ultimi, infatti esse portano dei numeri superiori al 260 000.Luca Airoldi, il frate francescano cappellano di Zeithain, precisò nel suo libro-diario che quel campo conteneva, alla fine del 1943 circa 6000 russi e poi polacchi, serbi qualche centinaio di francesi, inglesi, americani, perfino un centinaio di indiani e infine circa duemila italiani, molti dei quali provenivano dei Balcani.Il relatore continua dicendo che ogni nazionalità aveva il proprio reparto, separato dai restanti da un reticolato alto tre metri, e che le baracche degli italiani erano divise in tre serie: quelle della medicina indicate con A, quelle della chirurgia col B e infine quelle delle malattie infettive – soprattutto TBC – con la C. L’Airoldi completa la presentazione del campo Lazaret – Zeithain scrivendo: Un ospedale… penserà qualcuno, e teoricamente lo era, ma quanto diversa era la realtà! Se le baracche rigurgitavano di ammalati… e se ogni baracca aveva il suo medico curante e suoi infermieri, mancava assolutamente tutto il resto. Un ospedale beffa! Basti pensare poi che, se mancavano quasi totalmente le medicine, mancavano pure i cibi sufficienti. Su quest’ultimo argomento io ho fatto poi un confronto con quello che ricevevo negli Arbeitslager (campi di lavoro). I prigionieri ammalati ricevevano circa il 60% di quello che ottenevamo noi prigionieri lavoratori. Valga come esempio: io ricevevo 250 grammi di pane al giorno, loro 150 grammi!Fortunatamente, anche in quel campo gli italiani potevano arrangiarsi, facevano cioè baratti con gli stranieri che ricevevano i pacchi dalla Croce Rossa, oppure con astuzia e sotterfugi riuscivano ad accaparrarsi qualcosa da mettere sotto i denti. A Zeithain, ove mancavano tantissime cose e ove era presente solo la morte giornaliera, vi furono tanti italiani eroici. A partire da coloro che sapevano di dover morire, ai medici, infermieri, crocerossine e cappellani. I primi morivano con la pace degli eroi, tutti gli altri si prodigavano con abnegazione a dare sollievo, nel

170 Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain

modo migliore possibile, in quell’infernale campo.Colà morirono novecento italiani le cui spoglie furono quasi tutte inumate in un camposanto ben organizzato, che dopo circa cinquant’anni ha permesso il ritrovamento di tutte le salme. Il merito va soprattutto al cappellano del campo e ai suoi soldati aiutanti, fra i quali penso vi sia stato anche l’amico Carlo Frizzarin. Quel sacerdote volle le singole fosse molto profonde, poiché temeva che quel terreno sabbioso subisse stravolgimenti nel caso il vicino fiume Elba straripasse.I russi, arrivati in quel luogo nell’aprile 1945, vi fecero un grande campo d’aviazione demolendo tutto ciò che impediva lo spianamento e quindi anche il cimitero. Quella zona poi passò sotto alla Germania Est, il cui governo non permise mai di fare controlli per riesumare le salme.Solo nel 1989, quando vi fu la caduta del muro di Berlino e la riunificazione tedesca, furono consentite le ricerche e il recupero delle tombe.

Testimonianza del cappellano

Il francescano padre Luca Airoldi cappellano del lazzaretto di Zeithain, scrisse nel 1962 il libro-diario Zeithain campo di morte, dove 900 nostri invocavano ancora Italia, edito dalla Scuola tipografica Artigianelli di Pavia. Da subito quel libro divenne per Carlo Frizzarin il diario della sua prigionia, tanto da considerarlo espressione personale del suo calvario. Quel libro è certamente un diario importante, scritto di nascosto durante la prigionia ed è a mio giudizio, una formidabile ed eloquente testimonianza di quanto di esecrabile abbia fatto il nazismo, nella inutile e sanguinosissima guerra scatenata dalla follia di Hitler per le sue manie di grandezza.Quel sacerdote autore è stato, oltre che un infaticabile ministro di Cristo, anche un preciso, paziente ed attento osservatore di quello che vedeva e di quello che era costretto a fare.A partire da pagina 129, nelle 220 pagine della sua opera, scrisse il susseguirsi continuo e inarrestabile elenco delle morti avvenute nel lazzaretto. Annotò non solo le generalità di tutti i defunti, ma anche

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ciò che riusciva a conoscere di quei soldati moribondi: segno della sua costante e incessante assistenza a quei poveri destinati a morire perché mancanti cibo e di medicine. I primi italiani morti a Zeithain furono inumati nel cimitero dello Stalag IV B. Poi, monsignor Ezio Ghidini, cappellano di quel campo base, ottenne dai tedeschi di costruire il cimitero degli italiani a Zeithain, nel quale, a partire dal 2 febbraio 1944, furono sepolti quasi novecento nostri militari. L’organizzatore fu il francescano, aiutato però da parecchi nostri prigionieri che scavarono le fosse, costruirono le casse, le croci e i cippi di riconoscimento. I morti venivano rinchiusi nudi nella cassa con al collo mezza piastrina identificativa dello Stalag IV B, che aveva anche il numero di matricola del defunto. Il francescano fu così scrupoloso che annotò sul proprio diario i numeri delle piastrine e delle tombe, facendo nel contempo una precisa planimetria.Questi accorgimenti furono molto utili, cinquant’anni dopo, quando vi fu la riesumazione. Certamente Carlo Frizzarin, generoso qual era, contribuì in modo fattivo a quest’opera di misericordia: non a caso conservava quel libro come una reliquia!Dal resoconto dei deceduti ho constatato che a Zeithain la TBC infierì su quasi tutti gli italiani, segno della molto scarsa alimentazione. Il 2 febbraio 1945 vi morirono sette nostri soldati provenienti dallo Stalag XVII A, che era il mio. Sicuramente quel mio campo base, sito poco distante dalla Cecoslovacchia, fu sgomberato quando l’armata russa arrivò in quella regione. In quei giorni io mi trovavo in un arbeitslager, distante circa 100 chilometri verso ovest: dove i russi arrivarono solo all’inizio dell’aprile 1945.Zeithain invece fu liberato dai russi verso la fine di quel mese. Subito i russi migliorarono le cure per gli ammalati anche se purtroppo gli italiani continuarono a morire, date le loro gravi condizioni. Intanto coloro che potevano muoversi sciamarono fuori dal campo e lentamente se ne tornarono in Patria, come fece Carlo Frizzarin, che ritornò all’inizio del luglio 1945.Padre Airoldi continuò ad aiutare gli ammalati anche sotto i russi e riuscì a far curare i più bisognosi negli ospedali di Praga.

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A furia di richieste si scontrò con il responsabile russo del distretto; fu così che per non avere noie con l’autorità russa dovette fuggire il 15 giugno 1945 da Zeithain. Dopo aver salutato ammalati e sanitari rimasti nel campo, partì verso ovest travestito da soldato francese, per ottenere aiuti e non essere sottoposto a interrogatori, dato che in quella zona vi era allora mescolanza di militari di varie nazionalità. Arrivò dagli Alleati con il suo pesante zaino pieno di ricordi personali dei molti defunti, compreso il suo prezioso diario che era riuscito a scrivere ed a salvare dalle perquisizioni, nascondendolo fra gli arredi sacri. Arrivato in Italia, pian piano ricercò i familiari dei morti, consegnando a loro quanto aveva portato con sé.Padre Airoldi per lunghi anni operò intensamente per il rientro in Italia di quelle salme che lui e i suoi aiutanti avevano seppellito.Purtroppo rimase una voce inascoltata; vuoi perché allora da noi i ricordi dolorosi erano tantissimi, vuoi perché Zeithain era nella Germania dell’Est che non permetteva controlli. Fu così che il francescano nel 1962 pubblicò il suo libro-diario per scuotere le coscienze. In Italia ottenne sì una risonanza, ma non scosse minimamente il governo della Germania dell’Est.

Testimonianza di una crocerossina

Vittoria Maria Zeme fu crocerossina volontaria a Zeithain. Durante la sua prigionia scrisse il proprio diario in un’agendina che riuscì sempre a nascondere, nonostante le varie perquisizioni subite. Solo nel febbraio 1994 fece stampare il libro-diario dal titolo Il tempo di Zeithain 1943-1944, diario di una crocerossina internata volontaria in un lager lazzaretto nazista, lo stampatore fu Alberti libraio editore, Verbania-Intra. La Zeme in questo libro non solo parla dell’opera sacerdotale di Luca Airoldi, confermando anche la tristissima condizione di vita in quel campo, ma in un certo modo completa il diario del francescano, perché racconta anche la riesumazione delle salme avvenuta negli anni 1989-90 (il sacerdote era morto nell’ottobre del 1985).Nella prefazione l’autrice, che porta il numero di matricola 256 569 dello Stalag IV B, dice:

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Questo mio diario mi ricordava di essere una persona, non un numero, e mi avrebbe ricordato un giorno, se mai avessi potuto salvarmi e salvarlo, di essere stata protagonista e testimone di un evento storico, assurdo, terribile, che non doveva assolutamente ripetersi.Il libro ha una presentazione chiara ed efficace di un ex prigioniero - internato IMI - che ben interpreta la situazione e i sentimenti di noi soldati lasciati in balia dell’ignavia di coloro che avevano il potere, quando, l’8 settembre 1943, hanno firmato l’armistizio.La crocerossina snoda il diario della sua assistenza ai malati piena nell’intimo di un grande dolore per le gravi deficienze assistenziali, anche se cercava di essere sempre sorridente con coloro che avevano tanto bisogno di conforto.Pure lei cominciò ad avere forti problemi di salute, per alte febbri che durarono mesi interi, tanto che alla fine del maggio 1944 fu inclusa nel treno violetto per il rientro in Italia di 150 ammalati. Nel suo libro descrive anche il giorno precedente la partenza, quando le fu estratto il dente del giudizio che le procurava atroci dolori. Il medico privo di strumenti, dovette estrarre il dente con una tenaglia da falegname, senza nessun anestetico: e questo era un ospedale!Finalmente alla sera del 3 giugno 1944 il treno partì. Arrivò a Verona la sera del 6 giugno. Gli ammalati furono distribuiti in vari ospedali; però l’impatto sulla popolazione di quei relitti umani, suscitò un così grande sconcerto fra gli abitanti italiani da allarmare le autorità nazifasciste. Ne derivò che la promessa fatta di riportare in Italia altri ammalati, fu annullata per timore di sommosse. Evidentemente l’assistenza ai malati nei campi ospedali tedeschi era molto diversa da quella descritta dalla propaganda mussoliniana!La crocerossina parlando poi del cappellano Luca Airoldi, scrive che quel francescano si era molto prodigato dopo la guerra, con costanza e in tutte le direzioni, per portare in patria i caduti di Zeithain. Solamente nel 1972 riuscì ad avere un permesso dal governo della Germania dell’Est, che una delegazione della Croce Rossa potesse controllare il sito dove si trovava il cimitero. Fra i partecipanti vi furono anche padre Airoldi e la crocerossina Maria Vittoria Zeme. Al riguardo, costei scrive nel libro:

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Partimmo pieni di speranza per Zeithain, ma il regime poliziesco della Repubblica Democratica Tedesca – DDR - rese inutile il nostro viaggio perché non potemmo fare ricerche. Fummo condotti davanti a una stele, che era un monumento sepolcrale per i caduti russi del lager 304 (così era la denominazione ufficiale di Zeithain fino al gennaio 1944), là erano sepolti in grande fosse comuni 150 000 (centocinquantamila) soldati russi. Qualsiasi commento è superfluo!Continuando la Zeme precisa che finalmente, dopo la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania, nel 1989 l’associazione italiana “Onorcaduti” ebbe il permesso di eseguire ricerche del camposanto ormai coperto dalla grande base aerea russa, che aveva nascosto ogni segnacolo di quello che era stato Zeithain.Vi furono lunghe indagini e alla fine fu trovata in profondità la cassa da morto di un soldato italiano, il cui scheletro era contrassegnato dalla piastrina di zinco dello Stalag IV B col numero di matricola.Con l’ausilio della planimetria e delle annotazioni del cappellano Airoldi, fu possibile fare una riesumazione generale, con una ricognizione precisa, di tutte le salme. I resti furono riposti singolarmente in piccoli cofani contrassegnati da nome e indirizzo dei defunti e trasportati nel grande cimitero militare di Redipuglia, dove si svolse una solenne celebrazione, con la presenza delle Autorità dello Stato Italiano. Molti parenti dei caduti chiesero il trasferimento dei resti nei cimiteri dei paesi di origine; le salme rimaste furono tumulate nel Sacrario dei Caduti d’Oltremare di Bari, da dove non potranno più essere rimosse. Padre Airoldi non ebbe la consolazione di vedere compiuto il proprio desiderio: egli morì nel 1985. Sicuramente Carlo Frizzarin conosceva bene la crocerossina, anzi di certo l’ha aiutata nell’esplicazione del suo impegno umanitario: ne sono sicuro sia perché, conoscendo la disponibilità di Carlo, ritengo l’abbia sostenuta laddove c’era qualche bisogno di forza fisica, sia perché c’è in proposito una cronaca giornalistica di cui parlerò più avanti.

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Documenti e interviste di Carlo Frizzarin

Dai documenti che allego risulta che Carlo Frizzarin fu arruolato per il servizio di leva il 28 giugno 1942 e subito lasciato in congedo illimitato provvisorio perché figlio di agricoltore: fu infatti considerato necessario per i lavori nei parecchi campi che suo padre aveva in affitto a Monselice in via Savellon Retratto.Ricevette la chiamata alle armi il 15 gennaio 1943 e fu assegnato all’Ottavo Reggimento di Artiglieria di Corpo D’Armata. Dopo breve addestramento il 23 aprile 1943 venne inviato in territorio di guerra nei Balcani. Fu ricoverato nel successivo luglio, dapprima in un ospedale da campo e poi ad Atene in Grecia. Ritengo sia stato per febbri malariche, come successe ad altri di stanza in quei luoghi. Certamente non fu per affezioni polmonari poiché egli riuscì a sopravvivere in un lazzaretto tedesco, ove molti italiani trovarono la morte a causa tisi. All’armistizio dell’8 settembre 1943 Carlo si trovava ancora in ospedale e finì subito prigioniero dei tedeschi. Nell’ottobre successivo fu internato nello Stammlager IV B di Mühlberg/Elbe col numero di matricola 264 742. Dopo poco tempo fu trasferito nel Lazaret di Zeithain, dipendente dal campo di concentramento di base, nel quale Carlo trascorse parecchi mesi e che è stato il luogo principale della sua prigionia.Colà dovette fortemente lottare per sopravvivere in quell’infernale situazione: era internato in un ospedale non di guarigione ma di morte.Dopo i brevi riassunti dei due diari che illustrano la terribile vita dei duemila malati contagiosi italiani, internati nel Lazaret di Zeithain, ora presento all’attenzione del lettore alcune interviste, apparse sui giornali negli anni ’90, fatte a Carlo Frizzarin e riguardanti il periodo della sua prigionia. Alcune descrivono il recupero delle salme dal cimitero italiano a Zeithain, altre invece riportano la viva voce del Frizzarin, quando parla di se stesso. Questi articoli giornalistici ribadiscono le tremende vicissitudini cui furono sottoposti i nostri soldati in quel lazzaretto.

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Ora che Carlo non c’è più, ritengo cosa migliore riportare le interviste integrali, soprattutto perché in quegli scritti traspare con chiarezza l’esistenza di un suo profondo coinvolgimento vivo ancora dopo cinquant’anni. Le sue parole sono l’eco commossa degli antichi sacrifici sofferti nel campo di morte. Sul Gazzettino di domenica 9 settembre 1991 venne pubblicato un lungo articolo della cronaca di Padova. Il titolo è: Tornano le salme di 25 deportati. Sono 850 gli Italiani morti tra il 1943 e il 1945 nel campo di Zeithain nell’ex Germania Est. Previsto entro ottobre il rientro in Italia sul colle di Redipuglia. Parla un sopravvissuto. Il cronista Claudio Bertoncin scrisse: Oggi Carlo Frizzarin vive a Monselice. Nella sua mente c’è il ricordo tragicamente lucido dei mesi bui trascorsi in quelle squallide baracche di legno a Zeithain, stipati all’inverosimile l’uno sull’altro su letti a castello sconquassati. E poi la fame. Il giorno del mio ventesimo compleanno, il 4 novembre del 1943, ho venduto l’orologio in cambio di sei filoni di pane nero. Il rancio quotidiano consisteva in un paio di patate ed una fettina di pane. A Zeithain il gruppo di italiani iniziò ad arrivare il 12 ottobre 1943: venivano dalla Grecia, parecchi colpiti da malaria contratta durante la campagna d’Albania. Eravamo stati fatti prigionieri all’ospedale di Atene. Ci hanno caricati in treno dicendo che ci avrebbero portati in Italia. Dopo giorni e giorni di viaggio, dal portone scorrevole del carro merci, dove ci avevano sistemati, vedemmo l’insegna di Innsbruck. Ci mettemmo a piangere: avevamo capito che la nostra destinazione era la Germania e che solo Dio sapeva cosa ci sarebbe capitato. Il lavoro dei campi è stato la salvezza di Carlo Frizzarin. In tre uomini andavamo a lavorare sui campi vicini al campo di Zeithain: raccoglievamo asparagi assieme a una quindicina di donne tedesche. Furono queste che, senza farsi vedere, ci passavano qualche fetta di pane, qualcosa da mettere sotto i denti: eravamo degli scheletri. Ad Atene, prima di lasciare la Grecia, Carlo Frizzarin aveva voluto confessarsi. Fin da adesso, gli disse il cappellano, considerati assolto per

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tutto quello che ruberai per riuscire a restare in piedi, purché il tuo gesto non sia di danno per altri che sono nelle tue stesse condizioni.I preti, durante la prigionia, erano la nostra unica speranza, confida il monselicense sopravvissuto agli orrori della tirannia tedesca…Il giornalista Renato Malaman, sul giornale Il Mattino, cronaca di Padova del 23 novembre 1991, scrive: Carlo Frizzarin è l’unico sopravvissuto padovano del campo di Zeithain. In tutti questi anni è stato, e continua ad essere, il prezioso punto di riferimento per i familiari di tanti defunti del famigerato campo che si trovava nella ex DDR. A favorire il recupero degli 840 corpi sono stati, oltre le Autorità Federali Tedesche, anche il libro-diario del francescano Luca Airoldi di Pavia. Carlo Frizzarin da Zeithain ha portato come souvenir una cicatrice nell’anima. Di quel calvario ha fissato ogni particolare. Frizzarin era giunto a Zeithain con una tradotta di carri bestiame sigillato alla partenza da Atene. Il viaggio durò parecchi giorni, eravamo privi di cibo, durante le soste la gente ci lanciava qualcosa da mangiare. Frizzarin è stato internato prima nel terribile Stalag a Mühlberg-Elbe (era lo Stammlager IV B, dove provvedevano per le immatricolazioni), poi quasi subito, a Zeithain. “Nel campo la vita era un inferno, si moriva di fame. Per spartirci in otto un filone di pane usavamo un rudimentale bilancino. Durante l’inverno, con il gelo, ci costringevano ad uscire dalle baracche completamente nudi per andare a fare la doccia. Loro nel frattempo disinfettavano gli ambienti dove eravamo costretti a vivere, mettendo tutto sottosopra. Letti e indumenti risultavano poi ricoperti di un fastidioso unguento. Nessuno comunque cedette alla tentazione di arruolarsi alla Wermarcht, sarebbe stato grave, anche se qualcuno in quel modo avrebbe salvata la vita. La fame era uno spettro quotidiano. Un giorno assaltammo un camion di fettucce di barbabietole rinsecchite; le nascondemmo nei berretti. I pacchi viveri da casa arrivavano raramente. Ed erano anche un pericolo. Un nostro compagno, dopo aver mangiato avidamente il contenuto, durante la notte ci rimise le penne. Ormai eravamo talmente denutriti che ingurgitare cibi provocava fatali lesioni all’intestino.”

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L’ultimo riscontro giornalistico è del 14 febbraio 1995. Sempre il cronista Renato Malaman scrisse sul Mattino, un lungo titolo a tutta pagina: Un ex internato di Monselice ritrova una collega di prigionia, lei è piemontese ex crocerossina e sui patimenti del campo nazista di Zeithain ha scritto un libro di memorie. Riporto ora la cronaca: Monselice. Emozionatissimi, si sono sentiti al telefono dopo che lui aveva ricevuto il suo libro-diario. Ora vorrebbero incontrarsi.Un contatto a sorpresa mezzo secolo dopo l’olocausto. Protagonisti un ex detenuto del lager di Zeithain, il monselicense Carlo Frizzarin oggi settantaduenne, e una crocerossina, che rifiutò l’adesione alla RSI (Repubblica Sociale Italiana di Salò). Maria Vittoria Zeme da Pallanza, città sulla sponda del lago Maggiore.Entrambi sono tra i pochi sopravvissuti del terribile campo di concentramento che si trovava vicino a Lipsia. Se lo ricorda bene Carlo Frizzarin quella giovane crocerossina, dall’espressione spesso sorridente, che tanto conforto ha regalato ai dannati di Zeithain. E la notizia che anche lei è sopravvissuta ai tragici giorni dell’internamento nel lager gli ha aperto il cuore. L’ho saputo grazie al suo libro-diario che l’Associazione Nazionale Ex Internati mi ha fatto recapitare – spiega Frizzarin –; “con il libro mi è stato spedito anche il recapito dell’autrice. Le ho telefonato. È stata una grande emozione. Ci piacerebbe anche incontrarci. Vedremo…”L’articolo continua. Carlo Frizzarin è la bandiera vivente dei sopravvissuti del campo di Zeithain. Ha dedicato molte energie alla conservazione e alla divulgazione della memoria di quel luogo di sofferenze, perché le nuove generazioni non dimentichino cos’è stato il genocidio nazista.Ha parlato ai ragazzi delle scuole della sua esperienza. Lo scorso anno era in prima fila, issando il cartello col nome del lager, all’incontro con il presidente Scalfaro svoltosi a Terranegra (Padova, ove c’è il Tempio dell’Internato Ignoto). Carlo Frizzarin ora è felice di riscontrare che anche altri non vogliono che si dimentichi il Lazaret di Zeithain.

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Riflessioni

Quando ho iniziato a raccogliere notizie del prigioniero Carlo Frizzarin ero dubbioso di riuscire a trovare dei riscontri che mi permettessero di ricostruire le sue vicissitudini, interpretando nel contempo il suo stato d’animo. Lo temevo poi perché ognuno di noi prigionieri ha vissuto il proprio calvario con reazioni particolari e soggettive, dovute sia alla personale preparazione e formazione mentale, sia anche alle situazioni contingenti da superare.Ritengo che Carlo abbia vissuto le sue giornate da uomo di grande fede e di forte tempra, badando e cercando di superare le difficoltà giorno per giorno, senza nessun scoraggiamento, dando nel contempo aiuto ai più deboli. Sono convinto di questo perché ho visto Carlo Frizzarin operare con impegno a servizio degli altri. Lo ricordo anche per la sua devozione alla Madonna di Medjugorie (Croazia), per la quale egli incessantemente lavorò per divulgare la sua devozione.Alla fine di questa mia ricerca mi sono persuaso di aver interpretato le lunghe sofferenze di Carlo in modo corretto.Certo la sua presenza avrebbe potuto far conoscere tanti episodi che avrebbero circostanziato al meglio i lunghi patimenti e le sue reazioni. Comunque ritengo che queste mie note, ricavate da più fonti, dimostrino come Carlo Frizzarin abbia saputo reagire con determinazione ad avversità davvero terribili, riuscendo a ritornare con un corpo ancora sano. A me rimane la fiducia che la prigionia di Carlo, piena di dolori e stenti, serva di monito alle nuove generazioni per dissuaderle sempre e comunque dal compiere atti di forza perché questi, inesorabilmente, portano particolari lutti e rovine.

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Foglio matricolare del distretto militare di Padova ove si possono riscontrare i dati anagrafici e le notizie militari di Carlo Frizzarin.

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Questionario del distretto militare di Padova, redatto dopo il rientro dalla prigionia. Si può rilevare che il lager era Mühlberg/Elbe – contrassegnato IV B – e che la matricola di Carlo Frizzarin era 264 742.

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Copertina del libro Zeithain, campo di morte del cappellano francescano Luca Airoldi stampato nel 1962. Da notare che il titolo è stato scritto su una pagina del suo diario compilato in prigionia.

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Il francescano padre Luca Maria Airoldi (1910-1985), durante la sua prigionia. Si notino le sue vesti raccogliticce strette da una fascia nera, segno del cordone caratteristico dei frati dell’ordine di San Francesco.

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Un funerale a Zeithain. Si vedono il portale di legno fatto dai prigionieri e il carro agricolo per il trasporto della cassa, coperta dalla bandiera italiana che allora aveva lo scudo sabaudo con la croce.

Cimitero italiano di Zeithain. Sullo sfondo tumuli con le croci, in primo piano tombe senza croci data la mancanza di assi per costruirle.

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Una pagina del lbro-diario dell’Airoldi. Si vuol dimostrare come il cappellano raccogliesse i dati dei defunti. I morti italiani di luglio 1944 furono 58, quelli di agosto 75.

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L’avviso del comune di Monselice per annunciare il ritorno della salma di Gino Sadocco, morto a Zeithain l’1 aprile 1944. Carlo Frizzarin in quell’occasione tenne il discorso commemorativo.

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La copertina del libro stampato nel 1994, della crocerossina Maria Vittoria Zeme con il suo piastrino di prigionia n° 256 569 dello stalag IV B. I piastrini si potevano dividere in due parti: uno per l’identificazione, l’altro per l’anagrafe.

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Foto della crocerossina conosciuta da Carlo Frizzarin.

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In alto. Nimis (Udine). Raduno dei sopravvissuti da Zeithain, con qualche loro familiare, probabilmente a metà degli anni ’70. Padre Airoldi seduto, Carlo Frizzarin in piedi, il primo da destra.

1992. Ritorno della salma di Gino Sadocco. Carlo Frizzarin a sinistra, c’ è poi Italo, il fratello di Gino Sadocco.

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1995. Carlo Frizzarin nell’incontro al Tempio di Terranegra – Padova – col presidente della repubblica Scalfaro. Tiene in mano il cartello del lager Zeithain con le foto dei tre cappellani del campo IV B.

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Carlo Frizzarin nei primi anni ’90.

Appendice

Lettere alla moglie

di un prigioniero in Germania

GIOVANNI GAZZEA

nato a Monselice il 20-VIII-1913

deceduto il 7-III-1991

194 Appendice

Il monselicenze Giovanni Gazzea, classe 1913, è stato un soldato fatto prigioniero dai tedeschi nel settembre 1943 in Albania. Fu internato nello Stalag VI D sito a Dortmund in Vestfalia, ricevendo la matricola 72296. Ritornò in Patria il 5 agosto 1945. Fu insegnante di lettere e preside delle scuole medie “Guinizzelli” di Monselice.Si riportano qui, in ordine cronologico, le lettere che scrisse alla moglie Fernanda. Esse formano un percorso di affetti e ricordi dove traspare il suo animo sensibile e delicato senza evidenziare le terribili difficoltà nelle quali viveva nei famigerati lager nazisti.

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Mia carissima Danda, lo spazio che mi è concesso è insufficiente al desiderio, al bisogno di comunicarti mie notizie. Bisognerà fare di necessità virtù ed accontentarci. Di salute sto benissimo, come mi auguro di te, di Giuliana e di tutti. Questo è l’essenziale. Basta a darci una certa qual tranquillità. Deponiamo tutte le nostre speranze nella bontà e misericordia di Dio. Preghiamo, tesoro caro. Il Signore non mancherà di soccorrerci, di assisterci col suo potentissimo aiuto. Immagina l’ansietà con cui aspetto la risposta. Scrivimi di tutti e di tutto. Inutile che ti elenchi le cose che desidero sapere. Hai sgomberato la casa? Ti sei ritirata presso tuo papà? E Giuliana? E il suo occhietto? Che dice ora del suo papà? Oh, Danda mia, le lunghe ore che passeremo insieme a raccontarci, riportandoci col pensiero, in ore di felicità, a questi giorni duri e amari! Sono assieme a Rocca, Bettio e Garbo. Stiamo tutti benone e a volte, facendo buon viso a cattivo giuoco, siamo di buon umore.Saluti a tutti. Bacioni alla mia Lisia. Ti abbraccioGianni(Timbro postale di Monselice del 19.12.43)

195Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie di un prigioniero in Germania

18 gennaio 1944Mia cara, dopo quanto ti scrissi nella lettera e nella prima cartolina non saprei, date le circostanze di tempo e di luogo, che cosa altro raccontarti, se non l’ardentissimo mio desiderio di sapere prestissimo notizie di te, di Giuliana e di tutti e soprattutto di riabbracciarti, magari domani. Ti rinnovo l’assicurazione che godo ottima salute e che sono al riparo da qualsiasi pericolo. Saluti a tutti.Bacioni a te e GiulianaGianni(Timbro postale di Monselice del 18.2.44)

18 gennaio 1944Mia cara, lo spazio ristretto della lettera non mi ha concesso di dedicare un pensierino alla mia Lisia. Cara, puoi facilmente immaginare quanto la desidero. Oh, se tu potessi mandarmi una sua foto recente, e anche tua. Nel pacco, di cui ti parlai nella lettera, non dimenticare un po’ di tabacco e cartine e sigarette, se ce ne sono. A confezionare il pacco fatti aiutare dai miei parenti. Spero lo faranno volentieri. Rispondimi subito subito. Prega, mia cara, che il Signore ci conceda di rivederci presto.Bacia Lisia. Saluti a tutti. Ti abbraccioGianni(Timbro postale di Monselice del 18.2.44)

Danda carissima, ancora non ho ricevuto risposta alla mia del 25 novembre u.s. Ogni giorno che passa si acuisce in me il desiderio di sapere di voi notizie buone e copiose. Spero tu abbia ricevuto e di ricevere pure io fra giorni, anche e soprattutto perché qualche lettera dall’Italia è arrivata. Di salute, mia cara, sto molto bene davvero, come quando mi trovavo in Italia ed in Grecia. Sono dimagrito un pochettino, ma non ho sino ad ora avuto il minimo disturbo. Col trascorrere dei giorni, in virtù di quello spirito di adattamento corporale e spirituale ch’è intrinseco ad ogni anima

196 Appendice

umana, anche il morale è migliorato un po’. E’ giovato e giova non poco la speranza di sapere presto vostre notizie ed in principal modo la speranza che la misericordia divina guardi all’umanità ormai così duramente provata e la sua bontà ponga presto fine ad ogni tribolazione. Mia cara insieme a questa lettera ti spedisco un modulo buono per la spedizione di un pacco. Istruzioni concernenti la spedizione e l’imballaggio le trovi stampate sul modulo stesso. Attenti ad esse scrupolosamente. Una cassettina di legno è l’imballaggio più consigliabile. Il peso non deve superare i 5 kg. Che cosa voglio? 2 canottiere – 2 paia di mutandine – 3 paia di calze – degli aghi – del filo – un servizio completo per barba, qualche pezzo di sapone da bucato, del Mom o altra polvere insetticida, un po’ di farina bianca, 1 kg. di fagioli, un po’ di pane biscottato, del pepe, e qualche cosa altro che puoi trovare. Non dimenticare qualche pacchetto di tabacco.BaciGianni(Timbro postale di Monselice del 17.2.44)

Mia carissima, ancora sono privo di tue notizie. Sono ormai sette mesi che non so nulla di voi. Immagina se il morale può essere alto. Almeno fossi certo che tu hai ricevuto le due lettere e le due cartoline che ti ho scritto e questa che come le precedenti viene a dirti che di salute sto benissimo e che di nient’altro vivo che del più ardente dei desideri di rivederti presto, presto, prestissimo. Ti penso, ti sogno giorno e notte e sono in preda alla più tormentata delle ansietà per il buio nel quale vivo su quanto concerne la tua vita e quella della mia adorata piccola Giuliana. Anche stavolta ti invio un modulo, buono per la spedizione di un pacco. Mi necessita sopra ogni altra cosa del sapone. Fa l’impossibile per mandarmene. Vorrei inoltre del filo, degli aghi, un paio di forbici, uno spazzolino da denti, una matita copiativa, un quaderno grosso, un pettine e di biancheria: una camicia, qualche fazzoletto, due paia di calze e possibilmente un paio di pantofole col fondo in

197Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie di un prigioniero in Germania

cuoio. Sono senza scarpe. Gli zoccoli di legno mi fanno sanguinare i piedi. Non dimenticarti di mandarmi del Mom. Gradirei, se ti riesce trovarlo, un po’ di tabacco e cartine. Spedirò una cartolina agli zii di Villa perché ti diano qualche cosuccia da includere nel pacco. A te chiedo un po’ di riso, un po’ di marmellata, un po’ di cioccolato e del pane biscottato e del latte condensato. Abbiamo bisogno di cibi sostanziosi.Saluti a tutti. Vi bacioGianni(Timbro postale di Monselice dell’8.3.44)

23 marzo 1944Mia cara, ho ricevuto ieri 22 la tua del 27 - 12 - 43 e la cartolina del 17 - 2 - 44. C’è un po’ di disordine nella posta. Pazienza. Castello e Casarin si trovano in un altro campo. Di loro non abbiamo notizie dall’ottobre scorso. Ti spedisco un altro modulo, il 4°. Almeno 1 arriverà. Mandami pane – farina, fagioli e qualche altra cosa di buono. Sempre un po’ di tabacco. I parenti ti aiuteranno.Baci a te e LisiaGianni(Timbro postale di Monselice del 19.4.44)

8 maggio 1944Mia cara, in data 6 c. m. ho ricevuto la tua del 9/3 e il secondo pacco. Grazie infinite di tutto. Preziosa la camicia e più i sandali. Ora posseggo biancheria sufficiente per il cambio e sono contento. Di salute, mia cara, sto benone. Qui nulla di nuovo. Si aspetta sempre e con ansia crescente il grande giorno, vicino o lontano, Dio solo lo sa. Ti spedisco ancora un modulo per il pacco. Mandami tutto pane e un po’ di marmellata. Muoio dalla voglia di un piatto di risotto o pasta asciutta. Ma se impossibile, pazienza.Bacioni a tutti Gianni(Timbro postale di Monselice del 29.5.44)

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1 giugno 1944Mia carissima Danda, ti rinnovo innanzi tutto l’assicurazione che sto bene. Ho una fame da lupo. In queste ultime settimane mi sono anche ingrassato. Il lavoro non mi riesce più tanto pesante come durante i mesi dell’inverno. Confido molto nella bontà e misericordia divina e nella efficacissima intercessione dei nostri genitori, che di lassù sicuramente ci guardano. Tale fiducia mi fa bene sperare in una fine rapida e buona. Sarà stata una dura esperienza, atta a renderci più lieti i giorni che verranno e che vivremo tanto vicini. Oh, se tu sapessi il mio fantasticare durante le ore di lavoro e durante quelle di riposo! Ma non mi allungo perché lo spazio è troppo breve. Ti racconterò, ti racconterò. Mia cara, proprio stasera ho ricevuto comunicazione che mi è arrivato un pacco. Ancora non me lo hanno consegnato perciò non so dirti se è quello degli zii o il tuo. A rigore dovrebbe essere quello degli zii. Sono ansioso di averlo per conoscerne il contenuto. A proposito quando mi spedisci un pacco nella lettera che precede o segue immediatamente la spedizione, descrivimi dettagliatamente il contenuto per soddisfare la mia naturale curiosità. Aldo dà buone notizie? Non mi è possibile scrivergli. Quali novità a Monselice? E gli studi di Gianni come vanno? Giorgino è stato promosso? Manda i miei saluti al Rettore del Collegio e a tutti i parenti. Vorrei tanto fare una lunga chiacchierata con tuo papà. Baci a te e Giuliana Gianni(Timbro postale di Monselice del 21.6.44)

7 luglio 1944 Mia carissima, dopo quasi un mese di silenzio m’è arrivata, due giorni fa, una tua cartolina del 16/6. M’hanno risollevato non poco il morale le buone notizie di cui mi fu apportatrice. Anche la mia salute è sempre ottima. Lo stato di magrezza non è tanto

199Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie di un prigioniero in Germania

impressionante quanto quella mia frase t’ha fatto immaginare. Non preoccuparti. Supererò. Il cuore me ne dà la più assoluta certezza. Pacchi ne ho ormai ricevuti 5. Il 4 e il 5 insieme. Gli zii sono stati davvero molto solleciti e generosi: pane, pasta, fagioli, lardo, salame, farina. Ho vissuto un paio di settimane mangiando […] mente. Peccato che tutto abbia presto fine e sopraggiungano sempre troppo presto i giorni della sola razione e delle solite zuppe di verdura. Pazienza. Se è vero che i pacchi finiscono presto è altrettanto vero che pure i giorni passano veloci e, Dio voglia, non sia lontano quello della fine. Di Bettio ti ho già detto in altre mie. Gli altri, Rocca e Garbo, stanno benone. Quali novità costì? Che ne è di Aldo, di […] ? Salutami tutti di cuore. Ricambia i saluti a zia Stella. E Giulianuccia mia? Cara, ho tanta fede nelle sue preghiere. Quanto desidero vederla e insieme a lei te, che amo tanto. Le vostre foto sono la mia più cara compagnia. Vi abbraccio insieme con tutto l’amore di cui è capace il cuore. Gianni

7 agosto 1944 Danda cara, sono ancora privo di vostre notizie dal 16/6. Mi consola, un tantino, il fatto che nelle mie condizioni sono quasi tutti al campo. Mi auguro che lo stato di salute vostro sia pari al mio. Da un mese sono a riposo, cioè non lavoro; grazie alla carezza di una stanga di acciaio sul dorso del piede destro. Ne avrò per un mesetto ancora. Intanto passano i giorni e si approssima la fine. Il giorno del Santo Natale vorrei mangiare i tortellini alla bolognese, ed ascoltare la poesiola d’occasione, declamata da Giuliana. Ti prego di provvedere in merito. Conviene essere ottimisti. Il pacco, che mi avrai, sicuramente, spedito, il mese scorso, col modulo di giugno, non l’ho ancor ricevuto. Nel mese di luglio ci hanno dato due moduli. Il secondo l’ho mandato agli zii di Villa. Non mancheranno di accontentarmi e, sono

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certo, lo faranno molto volentieri. Quali novità costì? E’ tornato nessuno dalla Germania? Aldo, come sta? che cosa scrive? dove si trova attualmente? La nostra casetta è sempre in ordine? Ti raccomando caldamente i miei libri. […] cresce bene? Oramai è una donnetta. Ha già iniziato il suo quarto anno. Saluti cordialissimi a tutti; in particolare a Stella, Dante, Lina, Toni, famiglia Toso ecc. ecc. Baci ed abbracci a te e Lisia Gianni(Timbro postale di Monselice del 20.9.44)

19 agosto 1944 Danda carissima, immagino l’ansia con cui attenderai questa mia, per conoscere quale fu la scelta, di cui ti parlai nell’ultima. Nessuna. Non ci hanno messo al bivio. E allora? A quanto sembra saremo civili entro il 31 del c. m. Ti darò notizie più precise e più dettagliate in avvenire, quando, naturalmente, sarò in grado di potertele fornire. Nell’ultima dimenticai di dirti che ho ricevuto la tua lettera dell’1 luglio e la cartolina del 6. Felice dell’ottima salute che godete. Ti ringrazio di cuore degli auguri. Anch’io il 30 giugno ho pensato più che gli altri giorni alla mia Lisia e mi sono ripromesso di festeggiarla per quel dì anniversario anche quanto non mi è stato possibile sino ad ora. Tu non puoi pensare quanto forte sia il desiderio di rivederla. Di salute sto benissimo. L’appetito non mi manca. Il piede, che mi ha concesso e mi concede tanti giorni di prezioso riposo, guarisce bene. Ci hanno sospeso la spedizione di moduli per pacchi. Perciò perdute tutte le speranze. Attendo il nuovo indirizzo di Aldo per scrivergli. Non tenermi all’oscuro di nulla, bello o brutto, che vi riguarda.Ti raccomando vivamente. Salutami tutti di cuore. Bacioni infiniti a […]. Ti abbraccio, tuo Gianni(Timbro postale di Monselice del 25.9.44)

201Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie di un prigioniero in Germania

24 settembre 1944 Danda carissima, giorni fa ti scrissi che la questione inerente il mio passaggio a civile era rimasta in sospesa, grazie al piede, e che non sarei più tornato al vecchio campo. Invece… eccoti l’ennesima prova della vanità delle nostre credenze. Entro il 30 c. m. tutti saremo civili e ritorneremo al campo originario. L’amico Pulito è già partito. M’è dispiaciuto assai staccarmi da lui. Ci siamo lasciati con la promessa di incontrarci presto a Monselice e di festeggiare debitamente l’incontro. Ritornando al 1242 difficilmente ritornerò al duro lavoro di prima. Il piede non mi consente ancora di camminare speditamente e soprattutto di rimanere ritto 12 ore. Non so prevedere quale lavoro, quale sorte mi attenderà. Iddio disporrà di me ed io sarò contento della sua volontà. Intanto ci sia concesso sperare che la sua infinita bontà ponga presto fine al flagello che dilania da tanti anni questa povera umanità. Ritornando al 1242 spero di ricominciare a ricevere regolarmente tue notizie e magari qualche pacco. Ho letto sul nostro giornale che potete spedire, senza modulo, da due a tre pacchi al mese, di 5 kg. ciascuno, o di viveri, o di vestiario. Te ne domando uno di vestiario: 2 o 3 paia di calze grosse, una camicia, un pullover, un vestito vecchio, un paio di mutande, filo, sapone,dentifricio. Indirizzalo al 1242. Saluti e baci, tuo Gianni(Timbro postale di Monselice del 21.11.44)

202 Appendice

Foglio matricolare dal quale si conosce il curriculum militare dal 1933 al 1945, dove si può rilevare che, pur essendo laureato, non ha frequentato il corso Allievi Ufficiali perché non fornito di istruzione premilitare, allora considerata obbligatoria dal fascismo.

203Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie di un prigioniero in Germania

Continuazione del Foglio matricolare con il percorso militare fino al 6 ottobre 1945, quando fu posto in congedo.

204 Appendice

Lettere di Giovanni Gazzea alla moglie Fernanda, spedite dallo Stammlager VI D, matricola 72296.