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“Les meilleures lois se corrompent avec le temps” (1). FRANCESCO DI DONATO 1. Polisemie lessicali e polivocità giuridiche Derivata dal latino medievale manutentiōne(m), variante composta del latino manu (con la mano) e tenēre, la parola “manutenzione” indica il “man- tenimento” e la “conservazione in buono stato, in condizioni di efficienza e funzionalità” di un bene, nonché “il complesso delle operazioni che si devo- no eseguire a tale scopo” (2). Nelle principali lingue europee la semantica non ha sempre seguito la radice originaria: in francese l’idea della cura di un oggetto o di una proprietà immobiliare è resa con un sobrio entretien (la stessa parola che sta per “colloquio”); l’inglese, com’è di regola nelle paro- le della lingua colta, segue il francese antico e risolve con maintenance, che significa anche “sostentamento”, “aiuto” e “sostegno”. Lo spagnolo, invece, ha tre forme: una, manutención, simile all’italiano, che significa anche “man- tenimento” e “conservazione”; un’altra simile al francese, entretenimiento, La manutenzione delle norme nell’Antico Regime. Ragioni pratiche e teorie giuspolitiche nelle società pre-rivoluzionarie (1) F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, LGDJ, Paris, 1997 (ristampa dell’ed. Loysel, Paris, 1988), p. 211. (2) G. DEVOTO, G. C. OLI, Dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, ediz. 1990; T. DE MAURO, Grande dizionario italiano dell’uso, Torino, Utet, 2000. S T U D I p a r l a m e n t a r i e d i p o l i t i c a c o s t i t u z i o n a l e Anno 43 – N. 170 4° trimestre 2010

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“Les meilleures lois secorrompent avec le temps” (1).

FRANCESCO DI DONATO

1. Polisemie lessicali e polivocità giuridiche

Derivata dal latino medievale manutentiōne(m), variante composta dellatino manu (con la mano) e tenēre, la parola “manutenzione” indica il “man-tenimento” e la “conservazione in buono stato, in condizioni di efficienza efunzionalità” di un bene, nonché “il complesso delle operazioni che si devo-no eseguire a tale scopo” (2). Nelle principali lingue europee la semanticanon ha sempre seguito la radice originaria: in francese l’idea della cura diun oggetto o di una proprietà immobiliare è resa con un sobrio entretien (lastessa parola che sta per “colloquio”); l’inglese, com’è di regola nelle paro-le della lingua colta, segue il francese antico e risolve con maintenance, chesignifica anche “sostentamento”, “aiuto” e “sostegno”. Lo spagnolo, invece,ha tre forme: una, manutención, simile all’italiano, che significa anche “man-tenimento” e “conservazione”; un’altra simile al francese, entretenimiento,

La manutenzione delle normenell’Antico Regime. Ragioni pratiche e teorie giuspolitiche nelle societàpre-rivoluzionarie

(1) F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, LGDJ, Paris, 1997 (ristampa dell’ed. Loysel, Paris, 1988), p. 211.

(2) G. DEVOTO, G. C. OLI, Dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, ediz. 1990; T. DE MAURO,Grande dizionario italiano dell’uso, Torino, Utet, 2000.

STUDIparlamentarie di politicacostituzionale

Anno 43 – N. 1704° trimestre 2010

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che significa anche “divertimento”, “passatempo” e “mantenimento di per-sone”; e una terza più rara, affine all’inglese, mantenimiento, che significaper lo più “sostegno”, “alimento” e, al plurale, “viveri”, “vettovaglie”; hapoi anche il verbo manutener.

Nel linguaggio strettamente tecnico-giuridico, specialmente nel campodel diritto civile, la “manutenzione” è propriamente “il diritto di reagirecontro una molestia che incide sul possesso legittimo di un bene” (3). Essamanifesta quindi la volontà di un soggetto proprietario di conservare unbene-oggetto e di prendersene cura difendendo tale proprietà e possessodalla rivendica giudiziale o dal tentativo altrui d’impossessarsene per le viedi fatto. Intrinseco al termine è dunque un senso di movimento, un darsi-da-fare utilizzando tutti i mezzi legittimi per impedire la degenerazione diuna situazione favorevole in una sfavorevole. E così nella “manutenzione”vi è anche – sottesa – l’idea di prevenzione, l’idea cioè che sia necessarioanticipare gli effetti negativi che possono derivare dall’invecchiamento diun sistema attraverso una previsione ragionata e il più possibile razionaletanto dei processi degenerativi quanto dei rimedi che possono essere util-mente adottati per farvi fronte.

Nella lingua italiana pura, mentre vi sono alcuni sostantivi e aggettividerivati (“manutentore”, “manutentivo”), non esiste il verbo corrispondente(“manutenere”), che invece compare nei dizionari dell’uso (4), il che indicaun’esigenza predicativa crescente nella vita quotidiana in ordine all’attività dicura: un segno, nella società dell’indifferenza, dell’espansione sommersa del-l’heideggeriano “prendersi cura” come dimensione esistenziale e qualificativadel Dasein (5), nell’infinito sottobosco delle relazioni affettive ed effettive (6)?

Lasciamo in sospeso questa domanda e spostiamo l’attenzione su unaltro piano concettuale, peraltro inevitabilmente collegato al “peso seman-tico” appena delineato (7): se riferita al diritto e in particolare alla produ-zione delle norme giuridiche (il life-cycle of regulation (8)), l’idea della“manutenzione” assume un immediato ed evidente significato (teor)etico e,

(3) Ibid.

(4) Ibid.

(5) L’idea dell’esperienza esistenziale umana intesa come “cura” (Sorge), “aver cura [di persone]”(Fürsorge) e “prendersi cura [di cose]” (Besorgen), fu elaborata, com’è noto, da M. HEIDEGGER, Essere e tempo[1927], trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano, 1976, VI edizione, spec. pp. 81, 227 ss., 365 ss.

(6) Per questo concetto, fondamentale nel campo delle scienze sociali, di “relazioni effettive”, cfr. R.MOUSNIER, La costituzione nello Stato assoluto. Diritto, società, istituzioni in Francia dal Cinquecento al Settecento,a cura di chi scrive, Napoli, Esi, 2002, pp. 5, 7 e 153.

(7) Sulla stretta interdipendenza tra “peso semantico” e analisi dei concetti, cfr. G. SARTORI, Logica,metodo e linguaggio nelle scienze sociali, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 83-86 e soprattutto pp. 143-214.

(8) Cfr. M. DE BENEDETTO, M. MARTELLI, N. RANGONE, La qualità delle regole, Bologna, Il Mulino, 2011,pp. 47ss.: 50-53 e 198.

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nel contempo, politico sotteso all’indispensabile veste tecnico-giuridica.Prendersi cura di un ordinamento giuridico implica, infatti, l’idea che isistemi normativi di questo tipo non vivono – come le piante grasse neldeserto – senza una continua e paziente opera di aggiornamento (9); il cheimplica, come nel lavoro dei campi, rinnovamento dei germogli, soppres-sione dei rami secchi ed estirpazione dei rovi e delle erbacce, potaturaperiodica, piantagione di nuove sementi e scelta (politica, ossia discrezio-nale) di quali debbano essere e dove debbano essere piantate.

Ora, se la vita degli ordinamenti giuridici è pari a quella di ogni materiaorganica, ciò non solo implica l’idea di una dinamica transeunte ed evolutiva,ma comporta anche la negazione di ogni Verbum definitivo, di ogni ontologi-smo normativo, in definitiva di ogni idea di Verità. Se il diritto vive mutando,come ogni corpo vivente, bisogna ammettere che esso può morire e anzi chedi regola morirà un giorno seguendo il suo ciclo naturale. Le sue cellule (le sin-gole norme) sono sottoposte alla legge della “grande catena dell’essere” (10),in base alla quale al ciclo vitale di una segue la sua fine e la sua sostituzionecon altre cellule-norme nuove che a loro volta saranno soggette alla caducitàprogressiva. Chiunque operi nel campo giuridico sa perfettamente, perché losperimenta nell’attività diuturna, che a dispetto del suo intrinseco e naturalerigore – indispensabile per diffondere nella psicologia sociale l’idea della cer-tezza giuridica e, nelle società democratiche, il senso dell’eguaglianza dinanzialla legge – il diritto è in realtà un “flessibile diritto” (11).

Questo significa, in definitiva, due cose: per un verso, che la “manu-tenzione” delle norme ha come scopo ultimo e fondamentale l’eliminazioneo quantomeno la riduzione del rischio di eterogenesi dei fini nel percorsoche va dalla formulazione della norma alla sua attuazione concreta, con laproduzione di effetti che possono non corrispondere all’intenzione del legi -slatore e per certi versi possono addirittura essere del tutto opposti a quel-la (12). Per un altro verso, il discorso appena delineato implica che l’idea stes-

(9) Ivi, pp. 197-198: la “concezione di manutenzione” delle norme giuridiche è ormai generalmenteintesa non più come un “rimedio (rispetto a una patologia, come l’impossibilità di accedere alle regole, lanecessità di correggerle, la necessità di riformarle)”, ma piuttosto come una “vera e propria funzione (parteessenziale del ciclo della regolazione)”.

(10) Mutuo l’espressione dal classico di A. O. LOVEJOY, La grande catena dell’essere, trad. it. di L.Formigari, Milano, Feltrinelli, 1966.

(11) Cfr. J. CARBONNIER, Flessibile diritto. Per una sociologia del diritto senza rigore, trad. it. di A. De Vita,Milano, Giuffrè, 1997.

(12) Sull’eterogenesi dei fini e il suo impatto sul fenomeno giuridico, mi sia consentito rinviare al mioLa rinascita dello Stato. Dal conflitto magistratura-politica alla civilizzazione istituzionale europea, Bologna, IlMulino, 2010, ad indicem. Molto opportunamente M. DE BENEDETTO, Manutenzione delle regole, in M. DE

BENEDETTO, M. MARTELLI, N. RANGONE, La qualità delle regole, cit., p. 101, sottolinea come la manutenzioneabbia “lo scopo di assicurare specificamente la persistente adeguatezza della regola rispetto agli obiettividella regolazione”; altre considerazioni molto acute sul punto ivi, pp. 197 ss. Su questo punto, cfr. infra, nota36 e testo corrispondente.

LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME

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sa di “manutenzione” delle norme e dei sistemi che le raggruppano (13)determina il superamento della fallacia idealistica e richiede l’accettazione(tutt’altro che semplice per i giuristi) dello sfasamento tra fatti e valori, traessere e dover (o voler) essere, tra realtà e normatività (14). A questo medesi-mo discorso è sottesa altresì l’idea che il diritto è orientato per sua natura adelineare un mondo diverso da quello che esiste, poiché la volontà nomoteti-ca che lo alimenta ritiene lo status quo (sia quello della realtà sociale sia quel-lo della realtà giuridico-normativa) sempre insoddisfacente e perfettibile (15).

2. La tensione essenziale delle norme: valori contro fatti

Senonché quest’idea del mutamento perenne contrasta radicalmentecon l’esigenza che sta al fondo del fenomeno giuridico: la necessità di dareun ordine stabile al caos delle relazioni umane (16). Antropologicamente ildiritto nasce come strumento normativo determinato dall’esigenza di stabi-lire delle regole riconosciute da tutti e che servano per garantire certezza allerelazioni sociali. E così è indispensabile che il sistema giuridico debba “man-tenere una qualche rigidità per assolvere al proprio ruolo”, perché “occorredare certezza ai cittadini. E dar loro insicurezza sotto forma di norma giuri-dica non sarebbe una buona soluzione, tradirebbe la loro fiducia. In effetti, ildiritto non può permettersi di riflettere l’incertezza della realtà sociale” (17).

(13) Sui quali, più utili di molti trattati giuridici sono le pagine di L. V. BERTALANFFY, Teoria generale deisistemi, trad. it. di E. Bellone, Milano, Mondadori, 1983 (ed. utilizzata Oscar saggi, 2004), spec. pp. 25-61 e285-311.

(14) Di “sfasamento tra norma e fatto” parla esplicitamente M. DE BENEDETTO, op. cit., p. 199, che con-nette questo problema al “rapporto fra regole e tempo”.

(15) L’idea stessa della “manutenzione” di un ordinamento comporta l’abbandono di ogni messiani-smo politico e la definitiva rinuncia al cognitivismo etico in ogni sua forma. La filosofia politica che megliosi addice alla pratica della manutenzione è un esistenzialismo realista con forti propensioni riformistiche.Questa Weltanschauung si fonda sull’idea basilare secondo la quale la realtà non ha in sé delle oggettivitàfisse e immutabili, ma consiste in un divenire cangiante che lo sforzo razionale degli uomini deve conti-nuamente interpretare, cercando, il più possibile, d’indirizzarlo ai suoi fini e interessi (auspicabilmente paci-fici ed egualitari). Sul concetto di “fallacia idealistica”, cfr. R. AJELLO, Formalismo medievale e moderno, Napoli,Jovene, 1990, pp. 104-136 e ss.; sul problema della sfasatura fatti/valori e il suo impatto sugli ordinamentigiuridici, cfr. ID., Dalla ‘Scientia juris’ alle esperienze giuridiche: le dimensioni storiche; e ID., Continuità e trasfor-mazione dei valori giuridici, entrambi in ID., Epistemologia moderna e storia delle esperienze giuridiche, Napoli,Jovene, 1986, rispettivam. pp. 1-49 e 51-80.

(16) Cfr. A. FALZEA, Introduzione alle scienze giuridiche. I. Il concetto di diritto, Milano, Giuffrè, 1979, pp.5-29: 12 (dove recupera e sviluppa un’idea di H. Lévy-Bruhl, secondo il quale nessuna società potrebbe esi-stere senza un minimo di organizzazione giuridica che dia stabilità a regole condivise) e 16 (“il mondo èovunque retto da leggi”); N. ROULAND, Anthropologie juridique, Paris, PUF, 1995; F. TERRÉ, Le droit, Paris,Flammarion, 1999, pp. 15-22: 16, che ben sottolinea la “non-intemporalità e non-universalità” del diritto; A.SUPIOT, Homo juridicus. Essai sur la fonction anthropologique du Droit, Paris, Seuil, 2005, pp. 37 ss. (dove svi-luppa l’idea della “constitution normative de l’être humain”).

(17) J. CARBONNIER, Flessibile diritto, cit., p. XXX.

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L’istituzione di regole rigide è dunque coessenziale all’idea (e all’esi-genza) di stabilità e quest’ultima è condizione fondativa della società; è,propriamente, ciò che determina il passaggio dalla semplice comunità (disingoli, di famiglie o di gruppi) alla società organizzata. Secondo l’antico efin troppo noto brocardo romano, il diritto è costitutivo della società alpunto da identificarsi con essa: ubi societas, ibi jus; reversibile nel chiasmo:ubi jus, ibi societas (18). Del resto, la radice originaria dei termini “istituzio-ne”, “costituzione” e “Stato” è comune; ed è rinvenibile nell’indoeuropeostā o st∂ che contiene in sé due idee concentriche: quella di “disporre”,”ordinare” e quella di “dimorare nel tempo”, ”durare” (anche la parola“stabilità” contiene la medesima radice etimologica) (19).

La domanda in nuce al nostro tema è allora: come si può conciliare l’i-dea di fondo cui s’ispira il senso stesso del diritto, la sua ragion d’essere(quella della stabilità e della certezza delle regole), con l’altra idea oppostadi mutamento continuo insita nella “manutenzione” dell’ordinamento giu-ridico (20)? E come hanno affrontato il problema le società che hanno pre-ceduto la nostra attuale?

La domanda contiene in sé un paradosso logico: nessuno darebbe credi-to a regole che non si vogliano – e nel contempo che non siano generalmenteconsiderate – eterne, cioè valide in se stesse e indipendentemente dal conte-sto al quale sono destinate. Un jus percepito come disgiunto dal justum nonsusciterebbe alcun rispetto, e potrebbe essere osservato solo per la minacciadella pura forza, cioè per costrizione, come acutamente intuì Pascal nel notoaforisma 298 delle Pensées dedicato al rapporto tra “giustizia” e “forza” (21).

A maggior ragione nessuno obbedirebbe a una norma che nel momen-to stesso in cui disponga il suo comando affermi anche la sua provvisorietà

(18) Cfr. A. GUARINO, L'ordinamento giuridico romano [1949], Napoli, Jovene, 1990, V edizione, pp. 97ss.; M. TALAMANCA, Elementi di diritto privato romano, Milano, Giuffrè, 2001, p. 1, che parla di “correlazionebiunivoca” tra l’organizzazione sociale e l’ordinamento giuridico; A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del dirittoin Occidente, Torino, Einaudi, 2005.

(19) Sul punto, cfr. G. MIGLIO, “Genesi e trasformazioni del termine-concetto ‘Stato’”, in Stato e sensodello Stato oggi in Italia, Atti del 51° corso di aggiornamento culturale dell’Università Cattolica, Pescara, 20-25 set-tembre 1981, Milano, Vita e Pensiero, 1981, pp. 66-86, ora in ID., Le regolarità della politica, 2 voll., Milano,Giuffrè, 1988, II, pp. 799-832: 804-5.

(20) J. CARBONNIER, Flessibile diritto, cit., p. XXX: “Come conciliare la flessibilità […] con la certezza deldiritto? […] La flessibilità si situa all’interno di una certa rigidità conforme alla natura stessa del diritto, inte-sa a dare sicurezza ai consociati”. Per l’insigne A. la soluzione sta in primo luogo nelle “possibilità di opzio-ne. Ad esempio, su determinati fatti il sistema giuridico offrirà sfumature molteplici di regolamentazione,fra cui gli interessati sceglieranno”.

(21) B. PASCAL, Pensieri, trad. it. di M. Ferrario Barilli (sull’ed. Brunschvicg), Milano, Bietti, 1965, p. 197:“La giustizia senza forza è impotente; la forza senza giustizia è tirannica. […] Bisogna quindi unire la giu-stizia e la forza; e per giungere a ciò occorre che quel che è giusto sia forte, o quel che è forte sia giusto […Ma finalmente] non s’è potuto dare la forza alla giustizia, perché la forza ha contraddetto la giustizia e hadetto che essa è ingiusta, e solo la forza è giusta. Non potendo, pertanto, far sì che quel ch’è giusto sia forte,s’è fatto in modo che quel ch’è forte sia giusto”.

LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME

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e/o relatività o (peggio ancora) la sua inadeguatezza o parzialità. Aristotele“codificò” questo principio nella Crematistica: il mutamento delle leggi è unmale in sé poiché mutandole si screditano e con esse si scredita l’autoritàche le ha poste (22). A distanza di venti secoli, fu Rousseau – e ciò è tantopiù sorprendente in un grande innovatore come lui – a riprendere quel con-cetto e a rilanciarlo: “Le leggi sono rese sante e venerabili soprattutto dallaloro grande antichità”, scrisse il genio ginevrino nel celebre Discours sur l’o-rigine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, e perciò “il popolo pre-sto dispregia quelle leggi che vede mutarsi da un giorno all’altro e, abi-tuandosi a trascurare le vecchie usanze con il pretesto di fare meglio, siintroducono spesso dei grandi mali per correggerne dei minori” (23).

Il cardine di ogni diritto – come ben comprese Hans Kelsen, che costruìproprio su questo assunto, di chiara matrice ebraico-monoteistica, la sua teo-ria della Grundnorm (24) – è il comandamento primo che vi è sott(int)eso:“Non avrete altro Diritto al di fuori di me”. Ogni diritto custodisce quindi insé il valore dell’assolutezza, senza la quale non risulterebbe né sufficiente-mente autorevole né credibile. Senza questo valore intrinseco nessun diritto(come nessun Dio) acquisirebbe la necessaria perentorietà, fondamento diogni prescrittività, perdendo così la connotazione stessa di diritto (25).

Con riferimento specifico a una società come quella di Antico Regime,tutta fondata sull’idea di fondo dell’immutabilità e dell’aeternitas dei valori,occorrerebbe tout-court concludere – prim’ancora d’iniziare il discorso – cheessa escludeva a priori ogni idea di “manutenzione” delle norme. Il dirittoera la quintessenza dell’idea di stabilità, espressa in una massima che ebbemolto successo in tutto l’Occidente cristiano: “Quod semper, quod ubique,quod ab omnibus creditum est, hoc teneatur” (26). Il criterio per giudicare della

(22) ARISTOTELE, La politica, Bari, Laterza, 1969, IV edizione, lib. II, § 3, pp. 53-54. È per questo che lelegislazioni moderne hanno inventato l’istituto mitigante della deroga. Quest’ultima intende conciliare,infatti, l’esigenza di mantenere l’auctoritas della norma (e del potere che l’ha statuita) con la necessità di bloc-carne o temperarne gli effetti giuridici in alcuni casi. Tuttavia il suo abuso è un rimedio peggiore del male.

(23) J. J. ROUSSEAU, Origine della disuguaglianza [1755], trad. it di G. Preti, Milano, Feltrinelli, 2004, VIIIedizione, p. 19. È molto significativo altresì che questa frase di Rousseau sia stata posta in esergo alla rac-colta delle leggi francesi realizzata da A. J. L. JOURDAN, DECRUSY, F. A. ISAMBERT, Recueil général des ancienneslois françaises, depuis l’an 420 jusqu’à la Révolution de 1789…, 29 voll., Paris, Belin-Leprieur e Plon, 1821-1833,t. I, Prolégomènes (par Isambert), p. 1.

(24) Su cui cfr. M. TROPER, Cos’è la filosofia del diritto, trad. it. di R. Guastini, Milano, Giuffrè, 2003, pp.27-32 e 36-41; C. M. HERRERA, La philosophie de Hans Kelsen, Quebec, Presses Univ. de Laval, 2004, pp. 49-51.

(25) Su questo filone, restano limpide e profonde le riflessioni sviluppate da A. ROSS (a mio avviso ilmaggiore teorico del diritto del Novecento), Critica del diritto e analisi del linguaggio, trad. it. di A. Febbrajo eR. Guastini, Bologna, Il Mulino, 1982.

(26) Espunta da un padre del V secolo d. C., Vincent de Lérins (Vincenzo di Lerino), che l’aveva ela-borata nel confronto con testi di autori classici precedenti (Seneca, Tertulliano, S. Agostino) e “codificata”nella sua opera Commonitorium, scritta alcuni anni prima del Concilio di Efeso (450 d.C.), questa massimaattraversa pressoché tutta la storia del cristianesimo e della Chiesa, tanto da essere stata ancora oggetto divivaci discussioni al Concilio Vaticano I.

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validità di un’innovazione stava dunque nella compatibilità della “novità”con la Tradizione, con ciò che sempre, ovunque e da parte di tutti si fosseritenuto giusto. Il che, a ben vedere, costituiva un paradossale controsenso:una novità compatibile con la Tradizione è, infatti, una falsa novità, unanovità solo apparente. La Traditio era, di per sé, la manifestazione del Verbodivino, cristallizzato nell’uniformità dell’obbedienza passiva e perenne-mente rinnovata in forme tipizzate alla parola del Creatore.

Ora, si comprende agevolmente come l’applicazione di questa lineateorica al campo giuridico comportasse un’immobilità di fondo dell’ordojuris o quantomeno una grande difficoltà a determinare una sua evoluzio-ne. Nella monarchia assoluta legittimata dal diritto divino, le norme giuri-diche, attraverso la volontà del re, esprimevano la Volontà del Creatore.Essendo questa Volontà immutabile per definizione, ne derivava l’idea cheanche il diritto – come Dio, avrebbero scritto un Bossuet o un De Maistre –era considerato immutabile.

Possiamo fidarci di questa visione ontologistica, così inflessibile e rigo-rosa, che è poi quella – teorica e assiologica – che quel tipo di società nel suocomplesso aveva istintiva tendenza a rappresentare (27)? Quanto le rappre-sentazioni sociali della propria identità risultano attendibili, e quanto levolontà e le intenzioni espresse descrivono l’effettiva realtà e non piuttostol’interesse appunto a “rappresentarsi” in un certo modo? L’abito – lo sap-piamo bene noi italiani – non fa il monaco (o lo fa raramente). Deve alloral’osservatore storico credere sempre alle fonti dottrinali, quelle cioè che“codificavano” nell’astrazione concettuale i connotati teorici e assiologici diquella società, o non deve piuttosto sottoporre quelle elaborazioni a unarigorosa indagine critica condotta in comparazione con i dati reali? Checosa conta di più per comprendere e descrivere un assetto socio-politico e ilsuo diritto: i programmi e le dottrine o i fatti? Le idee e gli auspìci o la durares della storia concretizzata, della realtà così com’è (stata)?

Se scegliessimo il metodo idealistico-normativistico, adottato dalla pre-valente storiografia giuridica, dovremmo concludere che l’analisi del pianoideale è esaustiva: nomina sunt res. Applicando questo metodo al nostrotema, se ne dovrebbe concludere che la società di Antico Regime non cono-sceva – e non poteva in alcun modo conoscere – il concetto di “manuten-zione delle norme”, poiché questa era negata in adjecto, come avrebberoasserito i giuristi di quell’epoca, dai valori costitutivi ossia dalle qualitàintrinseche del corpo sociale.

(27) Su questa sfasatura tra realtà e rappresentazione come elemento costitutivo della dimensionesociale, cfr. S. MOSCOVICI, Le rappresentazioni sociali, trad. it. di V. L. Zammuner, Bologna, Il Mulino, 2005(estratto da R. M. FARR, S. MOSCOVICI (a cura di), Rappresentazioni sociali, Bologna, Il Mulino, 1989); ID. (a curadi), Psycologie sociale des rélations à autrui, Paris, Colin, 2006. Cfr. anche G. MEAD, Mente, sé e società [1934],trad. it. di R. Tettucci, Firenze, Giunti, 1966 (ult. ediz. 2010); H. PUTNAM, Mente, linguaggio e realtà [1975], trad.it. di R. Cordeschi, Milano, Adelphi, 1987 (2004, III edizione).

LA MANUTEZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME

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3. La tensione essenziale della realtà: fatti contro valori

I giuristi di Antico Regime, misoneisti ab imis fundamentis, si attenneroscrupolosamente a questo principio. Nelle loro dottrine essi manifestaronosempre totale aderenza al cardine concettuale secondo cui il diritto nonpuò e non dev’essere modificato dal potere, altrimenti quest’ultimo assu-me il connotato sinistro di tirannia e di arbitrio. Un sovrano che volessepalesemente innovare l’ordo juris era screditato come despota e per i giuri-sti era prima di tutto colpevole di empietà, poiché non avendo timore d’in-taccare i nuclei essenziali del diritto, eterni per definizione, mostrava nonsolo l’impudenza di violare la “costituzione del regno”, ma – a monte – dinon avere quel timor di Dio, da cui tutto il diritto, imperniato sull’OrdineUniversale, derivava. Il re innovatore (o, se si preferisce, “manutentore”) simacchiava perciò del peggiore dei crimini, quello della lesa-maestà divina.E un re definito “cristianissimo” o “cattolico”, come rispettivamente eranoi sovrani francese e spagnolo, non avrebbe potuto infrangere quel limitesacro, senza conseguenze di assoluta gravità (28).

Spesso, quando si parla di “monarchia assoluta”, si resta prigionieri diluoghi comuni e non si tiene conto dei contesti ideologici nei quali i prota-gonisti di quel mondo operavano. Trovando la sua causa prima nella divi-na Voluntas, il diritto dei re era, sul piano assiologico, intangibile. Neppureun re avrebbe potuto modificarlo nelle sue strutture portanti (cioè “costi-tuzionali”), poiché la sua volontà era pari a quella degli altri re suoi pre-decessori, e la volontà di tutti e di ciascuno di essi non era che il riflessodella Volontà di Dio. L’assolutismo monarchico si fondava proprio su que-sto principio, che si potrebbe definire teosofico-politico: poiché Dio avevainvestito il re, quest’ultimo diventava “l’Unto del Signore” nella sacra escenica rappresentazione dell’incoronazione. Da quel momento il re facevale veci di Dio in terra e lo rappresentava nella sua onnipotente sovranità.Nel giuramento che pronunciava in quella solenne cerimonia, egli s’impe-gnava davanti a Dio a “rispettare i privilegi della Nazione”, il che, in unasocietà di ordini, di status e di corpi, dove tutti (chi più chi meno, ma tutti)avevano dei privilegi, significava di fatto riconoscere una potente limita-zione del proprio raggio d’azione (29).

La parola del re era dunque parola di Dio e di conseguenza non pote-

(28) Cfr. D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni. Esperienze costituzionali nella Francia moderna, trad. it. dichi scrive, Roma-Bari, Laterza, 1998 (III ediz. inalterata 2002), pp. 41-2; R. MOUSNIER, La costituzione, cit., pp.119-123. Sulle conseguenze dell’empietà dei sovrani, si pensi solo allo sviluppo delle teorie monarcomachesecondo le quali era legittimo per qualunque suddito uccidere il re sacrilego e non timoroso di Dio.

(29) Cfr. M. DAVID, La souveraineté et les limites juridiques du pouvoir monarchique du IXe au XVe siècle,Paris, Dalloz, 1954, pp. 154-8 e 183-9; R. MOUSNIER, La costituzione, cit., p. 306.

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va essere smentita da alcuno. Essa aveva la stessa pesanteur della paroladivina. Era in teoria un potere illimitato. Ma in pratica no. Proprio per ilfatto di rappresentare Dio in terra, il comportamento del re era incanalatoentro una dimensione ben precisa e invalicabile. Ciò che Dio non avrebbemai fatto, non avrebbe certo potuto fare il re. Egli incarnava il Bene e quin-di ogni atto riprovevole alla coscienza cristiana non poteva compierlo (30).Nei fatti, l’azione del re era quindi ben delimitata. Il re, si diceva, è sì asso-luto, ma “per far regnare la giustizia” (31). E il concetto di giustizia era emi-nentemente legato al valore del senso cristiano della parola.

Alcuni storici del diritto, fondandosi sull’analisi delle sole dottrine pro-dotte dalla letteratura politica filo-assolutistica, hanno creduto invece all’i-dea che l’assolutismo monarchico fosse veramente tale (32) e che di conse-guenza fosse concettualmente e istituzionalmente opposto al regime costi-tuzionale (che avrebbe poi trionfato nella Rivoluzione) (33). Ma è un graveerrore di metodo, distorsivo della realtà, dar credito solo all’elaborazionedei teorici e, men che meno, considerare solo l’aspetto formale delle normee dei princìpi e non (soprattutto) la loro applicazione concreta, la loro decli-natio nella complessa e difficile vita delle “relazioni effettive”.

(30) Fu proprio questo l’argomento base (noto come “teoria dei freni”) utilizzato da Claude de Seysselnel suo celeberrimo trattato La monarchia di Francia pubblicato nel 1519: D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni,cit., p. 44: “Questi ‘freni’ sono anzitutto gli obblighi di coscienza del re fissati nei comandamenti divini”. Sulpunto, cfr. E. SCIACCA, Le radici teoriche dell’assolutismo nel pensiero politico francese del primo Cinquecento (1498-1519), Milano, Giuffrè, 1975, pp. 87 ss.: 117 ss.

(31) Rinvio, per un approfondimento sul punto, al mio La rinascita, cit., pp. 191 e 196-199.

(32) Ad esempio, B. VONGLIS, L’État c’était bien lui. Essai sur la monarchie absolue, Paris, Éditions Cujas,1997; ID., La monarchie absolue française. Définition, datation, analyse d’un régime politique controversé, Paris,L’Harmattan, 2006. Analisi di questo tipo, basate sul dover essere programmatico e non sulla descrizionedell’essere così com’è, portano dritto a disegnare una dimensione fantastica (magari assai più affascinante ecolorita), ma non una realtà storica (per definizione sempre più cruda e dura dei valori formali che espri-me). Per realizzare invece un’analisi seria di una data società in un dato momento storico non bisogna limi-tarsi solo all’ordine dei discorsi formali (al cui novero appartengono tanto programmi e proclami politiciquanto le norme giuridiche), ma bisogna guardare piuttosto a come quei discorsi e quelle norme sono, attra-verso una determinata mentalità sociale e individuale, applicati e realizzati e soprattutto sentiti dalla mag-gioranza delle persone nella vita vissuta. Il che, tra l’altro, è molto più faticoso da ricercare e da trasfonderein una ricostruzione storiografica ordinata e comprensibile.

(33) Al contrario, la monarchia assoluta fu, fin dalla sua genesi tardo-medievale (dal XIII al XV seco-lo), un regime fondato su un “blocco costituzionale, tanto scritto quanto consuetudinario”, come da ultimoha mostrato, con esemplare chiarezza di stile, gran solidità di metodi di ricerca e poderosa costruzione sto-riografica, A. RIGAUDIÈRE, “Les fonctions du mot constitution dans le discours politique et juridique du basMoyen Âge français”, in Revista Internacional de los Estudios Vascos, Cuadernos, 4, 2009, pp. 15-51: 17; delmedesimo A. si veda soprattutto Penser et construire l’État dans la France du Moyen Age. XIIIe-XVe siècle, Paris,Comité pour l’Histoire économique et financière de la France, 2003. Sul punto (ormai oggetto di una copio-sa letteratura), cfr. almeno J. PH. GENET (a cura di), L’État moderne: Genèse. Bilans et perspectives, “Actes duColloque tenu au Cnrs à Paris”, 19-20 sett. 1989, Paris, Éditions du Cnrs, 1990; J. KRYNEN, L’empire du roi. Idéeset croyances politiques en France. XIIIe-XVe siècle, Paris, Gallimard, 1993; molti spunti in R. MOUSNIER, La costi-tuzione, cit., passim. Resta attestata sulla posizione di un “Medioevo senza Stato” larga parte della storiogra-fia giuridica italiana, esemplarmente racchiusa nell’opera di P. Grossi, la cui interpretazione al riguardo èsintetizzata in ID., L’Europa del diritto, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 16.

LA MANUTEZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME

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La storia del diritto e delle istituzioni non dev’essere solo una storiadelle dottrine e del pensiero giuridico, non deve interessarsi solo alla rico-struzione di norme e istituti che sono esistiti in un dato ordinamento, madeve qualificarsi piuttosto come storia dell’esperienza giuridica e perciò osser-vare e descrivere non solo il piano ideale e deontico del diritto formale, bensìi “nessi che legano i processi evolutivi delle produzioni ideologico-scientifi-che [= norme e dottrine] alla prassi umano-sociale e alla storia reale” (34).

Norme e istituti non possono certo essere estranei all’atelier de l’histoi-re du droit, ma vanno intesi e descritti nella loro “realtà effettuale”, ossiainquadrati nel contesto dinamico e nella dimensione di “precomprensio-ne” entro la quale acquistano il loro valore e la loro concreta qualificazio-ne (35). Nell’evoluzione della realtà, è fin troppo noto, rientrano le distor-sioni eterogenetiche – più o meno intenzionali – produttive di effetti chepossono essere anche molto lontani e talvolta persino del tutto opposti allerationes juris iniziali (36).

4. Il trionfo della prassi giurisdizionale:la manutenzione interpretativa

Nella società di Antico Regime il fondamento metafisico-religioso ren-deva dunque l’idea stessa di “riforma”, e quindi di “manutenzione”, deltutto inimmaginabile. La parola “riforma” era impronunciabile da parte delgiurista, che la percepiva come uno dei peggiori disvalori possibili (37).

(34) La sfera dell’“esperienza”, infatti, contiene anche le fonti formali del diritto intese nel suo ambi-to come “fatto normativo”, mentre non si può dire l’inverso. Sulla definizione dell’“esperienza”, come fon-damentale concetto del metodo scientifico, restano molto utili le pp. di G. PRETI, Praxis ed empirismo, Torino,Einaudi, 1957, recentem. rist. a cura di S. Veca, Milano, Bruno Mondadori, 2007; e, sulle cause della refrat-tarietà italiana a questo elementare paradigma al quale tutto il pensiero moderno delle società avanzate si èattenuto dalla rivoluzione scientifica in poi, cfr. M. ALCARO, La crociata anti-empiristica, Milano, FrancoAngeli, 1981 (dal quale è tratta la citazione nel testo: p. 11).

(35) Sulle strutture di precomprensione e la necessità di ricostruirne il senso e la forza d’influenzasulle produzioni culturali, cfr. P. BOURDIEU, Spiriti di Stato. Genesi e struttura del campo burocratico, trad. it. diR. Ferrara in ID., Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna, 1995 (nuova ediz. 2009), pp. 89-131: 91-93 e 112-113.

(36) A questo proposito, un libro che i giuristi (tanto i positivisti quanto gli storici) dovrebbero legge-re (e che non mi è mai capitato invece di vedere citato e discusso nella trattazione di temi consoni alle lorodiscipline) è quello di T. K. MERTON, E. G. BARBER, Viaggi e avventure della serendipity. Saggio di semantica socio-logica e sociologia della scienza, , trad. it. di M. L. Bassi, Bologna, Il Mulino, 2002.

(37) Una testimonianza eloquente in proposito è quella di Niccolò Fraggianni, uno dei più colti e raf-finati giuristi del Settecento italiano, per il quale le “riforme” costituivano “torbide novità” frutto di “capric-ciosi progetti che tuttodì si eccitano e si fanno da […] teste ripiene di entusiasmi e di visioni”; l’attività rifor-matrice dell’ordo juris produceva quindi un enorme rischio per la tenuta del “sistema totale”; di conseguen-za, tutti coloro che si ponevano tra le fila dei “riformatori” non erano per lui che demolitori dell’interessegenerale alla stabilità; occorreva perciò senza tentennamenti combattere e “biasima[re] coloro che collenuove opinioni vogliono singolarizzarsi, et intorbidare la tranquillità dello Stato”: cfr. F. DI DONATO,

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Nella lingua francese si usava un’espressione, réformation, capaceappunto di distinguere l’attività di semplice ritocco della legislazione dallaréforme, percepita come uno stravolgimento profondo degli assetti consoli-dati. La réformation era quindi “una cosa completamente diversa dall’inno-vazione” e anzi ne era “l’esatto contrario”. Nessun re cercò “nel cambia-mento radicale dei princìpi il vero progresso legislativo”, ma l’obiettivodella corona fu costantemente “il ritorno ai princìpi primigèni delle istitu-zioni, princìpi che il tempo aveva corrotto”. Anche quando le “circostanzenuove imponevano continui ritocchi, degli aggiornamenti e dei perfeziona-menti”, queste operazioni “dovevano essere fatte nel senso degli antichiprincìpi, nella linea della tradizione” (38).

Il “modo di pensare” di quel mondo prevedeva un corpo sociale strut-turato ab imis fundamentis “in ranghi fissi e immutabili, in quanto conside-rati come elementi di un grande disegno permanente della natura regolatasecondo ritorni ciclici che traducono in un divenire stabile le leggi naturalie la volontà di Dio” (39). Di fronte alla figura e al potere innovativo del restava insomma – com’è stato scritto con una formula assai appropriata – la“Nazione organizzata” (40). E questa “organizzazione” consisteva prima ditutto in un’incondizionata difesa delle tradizioni coutumières.

In un contesto di questo tipo la mentalità imperante era quindi l’esat-to opposto della nostra attuale: l’innovazione e il cambiamento erano visticon sospetto e negatività, mentre tutto ciò che era tradizionale, antico estabile era considerato positivamente e con interesse (41). “Noi siamo benlontani – recita una regia Déclaration del 24 agosto del 1780 che riassume,anche retrospettivamente, la questione – dal determinarci troppo facil-mente ad abolire le leggi antiche e legittimate da un lungo uso” (42). Inottemperanza di questo principio considerato sacro, né il re né i suoi mini-stri potevano “introdurre un diritto nuovo che sconvolgerebbe i princìpiconducendo gradualmente a innovazioni pericolose” (43).

Il mutamento del diritto – tanto negato in teoria quanto, come in ogniorganizzazione socio-giuridica, indispensabile nella pratica e segnatamente

Esperienza e ideologia ministeriale nella crisi dell’Ancien Régime. Niccolò Fraggianni tra diritto, istituzioni e politica,2 voll., Napoli, Jovene, 1996, pp. 52, 78-79, 323 e 508-509.

(38) F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 213.

(39) Cfr. R. MOUSNIER, La costituzione nello Stato assoluto, cit., p. 47.

(40) F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 222; si veda, al riguardo anche R. MOUSNIER, “La Nationorganisée”, in Réaction, n. 1, 1991, pp. 73-91.

(41) Ivi (ultime tre opp. citt.), passim; cfr. F. DI DONATO, La rinascita, cit., p. 466.

(42) Cit. in F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 211.

(43) Ibidem.

LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME

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nell’attività di governo – passava quindi attraverso un altro canale. La legge,che non poteva essere innovata e di fatto nemmeno abrogata (44), potevaperò essere interpretata dagli esegeti autorizzati a questa delicatissima atti-vità alla quale nessun altro, neppure i re, aveva accesso poiché richiedeva lajuris peritia della quale soltanto i sacerdotes juris erano investiti.

Ciò che era consentito ai sovrani era la modifica o la creazione dellenorme “transeunti” ossia quelle che attenevano alla sfera superficiale degli“accidenti”, mai a quella delle “sostanze” o, come si diceva con il linguaggiodella scolastica aristotelica, delle “quiddità”. I rispettivi preamboli di due ordi-nanze regie (una di Carlo VIII sulla riforma delle giustizia, emanata nel lugliodel 1493; l’altra di Luigi XII del marzo 1498) ci spiegano alla perfezione questoprincipio di fondo secondo il quale la “varietà” delle situazioni e il “muta-mento dei tempi” potevano spingere i sovrani a intervenire sui testi di leggeesistenti, ma mai per stravolgerli bensì solo per “aggiungere o diminuire”qualche aspetto di dettaglio e sempre per un palese e ineludibile bisogno diadattare le leggi alla realtà “per il bene della giustizia e dei nostri sudditi” (45).

Tuttavia, anche su quelle norme (si pensi, ad esempio, alla materiafiscale, per definizione e necessità soggetta a continui mutamenti) i sovranie i loro governi dovevano ottenere il consensus populi. E naturalmente anchein quest’àmbito i giuristi trovarono il modo d’interporre la loro mediazionepatriarcale, ricorrendo al raffinato artificio del consensus gentium (46): il con-senso del popolo (al mutamento legislativo) era presunto, a condizione diessere “delibato” dagli organi giurisdizionali che di quel consenso e deivalori che esso veicolava si sentivano gli esclusivi depositari (47).

(44) Su questa difficoltà all’abrogazione palese della legge nell’Antico Regime, cfr. ivi, p. 210, dovel’A. considera questo “un principe général de conservation” dell’ordinamento vigente “très net: le roi respecte,autant qu’il est possible, les lois de ses prédécesseurs” e pertanto egli è “en principe hostile aux nouveautés”. Sulmedesimo punto, cfr. il mio La rinascita, cit., cap. 3, pp. 153-230, e spec. § 5.3 (pp. 187-192), § 5.5 (pp. 194-199)e § 5.6 (pp. 199-206), dedicati rispettivamente ai problemi della “gerarchia delle norme di rango equivalen-te”, alla “legge prigioniera della legge” e alla gerarchia normativa come “spada di Damocle sospesa sullatesta del re”. Cfr., inoltre, F. DI DONATO, La revisione costituzionale in una prospettiva storico-istituzionale. Il pro-blema del mutamento giuridico in relazione al mutamento sociale e culturale, in S. GAMBINO, G. D’IGNAZIO (a curadi), La revisione costituzionale e i suoi limiti. Fra teoria costituzionale diritto interno esperienze straniere, Milano,Giuffrè, pp. 555-578: 569-573.

(45) Cit. in F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 211.

(46) Cfr. D. LUONGO, Consensus Gentium. Criteri di legittimazione dell’ordine giuridico moderno, 2 voll.: I.Oltre il consenso metafisico; II. Verso il fondamento sociale del diritto, Napoli, Arte Tipografica Editrice, rispetti-vamente 2007 e 2008.

(47) L’obiezione secondo la quale l’espressione del consenso ai provvedimenti fiscali spettava agliStati generali e non ai parlamenti s’infrange contro lo scoglio della realtà per cui gli Stati non vennero piùconvocati dal 1614-15 fino al 1789. In questo vuoto totale i giuristi-magistrati s’incunearono abilmente ed ela-borarono la dottrina della sostituzione del Parlamento agli Stati in quanto unico organo (questo era il lin-guaggio usato) “rappresentativo della Nazione”: cfr. F. MAZZANTI PEPE, “Le aspirazioni del Parlamento diParigi a una funzione sostitutiva degli Stati generali (1715-1771)”, in Annali della Facoltà di Scienze politichedell’Università di Genova, I, 1973, pp. 609-650. Sulla complessa relazione tra corona e magistratura in ordine

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Fu questa la via attraverso la quale i giuristi-magistrati di AnticoRegime diventarono i veri padroni occulti della politica regia. La procedu-ra legislativa che prevedeva la “registrazione” obbligatoria (in Francia l’en-registrement parlementaire) fu intesa come un vero e proprio diritto di vetoopposto al sovrano e ai suoi governi ministeriali. Molto spesso questopotentissimo strumento d’influenza politica servì a trasformare la jurisdictioin potere sovrano, non foss’altro che per la pratica della negoziazione chenecessariamente si apriva tra la corona e la magistratura al fine di garanti-re l’approvazione di provvedimenti ritenuti indispensabili all’azione gover-namentale (48). E altrettanto spesso fu utilizzato dalla magistratura comebarrage alla “manutenzione” legislativa tentata, spesso non senza razionali-tà, dai ministri regi e dai loro attrezzati uffici.

In tal modo, all’ideale dichiarato dai giuristi di far coincidere potestas ejurisdictio corrispose nei fatti il tentativo, spesso riuscito, di far trionfare lalegge interpretata (dai supremi organi giurisdizionali) (49). Il perno di que-sta linea giuspolitica era costituito dalla dottrina secondo la quale la volontàdel re era priva di ogni effetto se non fosse stata rivestita della forma giuridica chesolo l’approvazione dell’alta magistratura (in Francia il Parlamento) poteva confe-rire ai provvedimenti legislativi.

Per questo, se non ci si sofferma solo all’esame delle astratte dottrine esi analizzano attentamente le pratiche del sistema, non si tarda ad accorgersiche i giuristi investiti della funzione giurisdizionale furono spesso nellemonarchie “assolute” i veri sovrani. Con una ineguagliabile subtilitas, essiassicurarono così la continuità formale dell’ordo juris, realizzando nel con-tempo i cambiamenti possibili e gl’interventi “manutentivi” ritenuti utili enon incompatibili con l’assetto consolidato del sistema; nel quale il perno eracostituito dal potere esegetico dei grandi organi magistratuali che attraversola giurisdizione riuscivano spesso ad arrivare al nucleo della sovranità poli-tica, orientando le scelte d’indirizzo o quantomeno riuscendo a imporre algoverno un negoziato che le influenzava, non di rado anche sensibilmente.

La tendenza dei giuristi a oltrepassare la funzione meramente applicati-va delle norme per ambire alla funzione nomotetica e d’indirizzo politico èdunque una costante della loro vicenda storica e mille sono i rivoli di questo

alla politica fiscale, si veda il bel libro di A. ALIMENTO, Riforme fiscali e crisi politiche nella Francia di Luigi XV.Dalla ‘‘taille tarifée’’ al catasto generale, Firenze, Leo S. Olschki, s.d. [1995].

(48) Su questo cruciale problema della formazione effettiva della legge nella pratica del sistema diAntico Regime, è in corso uno studio monografico, fondato su ricerche archivistiche di prima mano, indi-rizzate e dirette da chi scrive, ad opera di G. Ambrosino, dottorando di ricerca presso l’École des Hautes Étu-des en Sciences Sociales di Parigi e presso l’Università di Messina.

(49) Per lo sviluppo di questi temi, cfr. F. DI DONATO, L’ideologia dei robins nella Francia dei Lumi.Costituzionalismo e assolutismo nell’esperienza politico-istituzionale della magistratura di antico regime (1715-1788),Napoli, Esi, 2003, spec. pp. 326-336.

LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME

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fiume carsico che scorre senza interruzione nei sottofondi delle società occi-dentali (e oggi non solo occidentali (50)). La “manutenzione” (occulta) del-l’ordo juris fu uno dei principali strumenti attraverso i quali la magistraturariuscì ad assicurarsi quel potere. Nell’Italia contemporanea le leggi vengono,in gran parte dei casi, scritte o ispirate da magistrati distaccati negli ufficilegislativi dei ministeri o consultati riservatamente da ministri e uomini poli-tici. Nelle società di Antico Regime, variatis variandis, la situazione non eramolto diversa. Nella Francia “assolutistica”, come in quasi tutti gli altri Paesieuropeo-continentali che a quel modello – chi più chi meno – s’ispiravano, igiuristi-magistrati non si limitavano affatto ad applicare norme precostituite,ma partecipavano attivamente alla formazione e alla manutenzione delleleggi: in primis scrivendole materialmente (pensiamo solo al lavoro svolto inFrancia dai maîtres des requêtes), poi influendo sui loro contenuti attraverso laprocedura di registrazione (con le annesse negoziazioni a latere dell’iter for-male e gli accordi sous-table con il ministero), e poi ancora interpretandole nel-l’ordinaria attività giurisdizionale, dove avevano sempre buon gioco a “pie-garle” ai significati più graditi a seconda della convenienza corporativa det-tata dalle contingenze storico-politiche (51). In quest’ultima attività si realiz-zavano quegl’interventi di “manutenzione”, ossia quegli “aggiustamenti”progressivi, che sul piano legislativo erano interdetti dalla fissità assiologico-normativa, ossia dal carattere “ontico” del diritto (52). Colmo del paradosso,erano gli stessi magistrati a difendere accanitamente questo ontologismogiuridico, perché ciò consentiva loro di arginare il potere legislativo dellasovranità politica della corona e dei suoi governi ministeriali, aprendo cosìspazi di manovra immensi per la jurisdictio. La manutenzione era, in talmodo, bloccata sul piano della funzione nomotetica esercitata dal poterepolitico e nel contempo era realizzata per via giurisprudenziale.

(50) Cfr. C. N. TATE E T. VALLINDER, The Global Expansion of Judicial Power: the Judicialization of Politics,New York, New York Univ. Press, 1995.

(51) Persino uno storico ultraregalista come F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 212, dové ammet-tere – anche se la formula adottata appare alquanto vaga e blanda – che la corretta traduzione in pratica delleleggi doveva fare i conti con “la négligence des officiers chargés de veiller à leur application”; era questa una “sortede fatalité à laquelle le roi se résigne”.

(52) Questo carattere del diritto, proveniente dall’ordine giuridico del Medioevo, sopravvive come“eredità” nell’Età moderna, attraverso la forma mentis dei giuristi e specialmente dei magistrati. La defini-zione del diritto medievale come diritto “ontico”, cioè costituito da un “ordine scritto nelle cose […] fisichee sociali” e che attraverso l’interpretatio “può essere letto e tradotto in regole di vita” è di P. GROSSI, L’ordinegiuridico medievale, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 14, 30 e passim; ID., Assolutismo giuridico e diritto privato,Milano, Giuffrè, 1998, pp. 285-286 e passim; ID., L’Europa, cit., pp. 14 e passim; ID., Nobiltà del diritto: profili digiuristi, Milano, Giuffrè, 2008, p. 242. Per la più acuta disamina critica degli effetti (a)sociali determinati daquesta onticità (in questa prospettiva definita “ontologismo”), cfr. R. AJELLO, Epistemologia, cit., pp. 9 e 13-16;ID., L’esperienza critica del diritto. Lineamenti storici. I. Le radici medievali dell’attualità, Napoli, Jovene, 1999, pas-sim e spec. 119-159: 129-132, 185-189 e 355-364; ID., “L’asociale cordialità. Contributo alla storia delle mentali-tà in Italia”, in Frontiera d’Europa, anno XIII, n. 1, 2007, pp. 5-72 e da ultimo ID., Eredità medievali paralisi giudi-ziaria. Profilo storico di una patologia italiana, Napoli, Arte Tipografica Editrice, 2009, passim e spec. pp. 90-95.

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Si pensi ancora, a tal riguardo, al potentissimo strumento, utilizzato apiene mani dai parlamenti, delle “sentenze regolamentari” (gli arrêts de règle-ment), attraverso i quali l’alta magistratura dettava legge e – come si dissedurante la Fronda di uno dei più potenti robins del tempo, il presidenteLamoignon – “faceva il bello e il cattivo tempo a Parigi e in Francia” (53).Questo tipo di provvedimenti – giurisdizionali solo in apparenza, in realtàveri e propri atti legislativi – servirono al corpo giudiziario per realizzareuna manutenzione controllata dell’ordinamento che fosse sempre vantag-giosa in primo luogo per la magistratura (54).

5. La manutenzione giurisprudenziale, strumento arcanodel governo politico del giureconsulto

La manutenzione giurisprudenziale – l’unica possibile nei fragili e pre-cari equilibri politico-istituzionali dell’Antico Regime – realizzava, dunque,segretamente, una delle indispensabili funzioni connesse alla vita evolutivadegli ordinamenti giuridici. La pratica del diritto giurisprudenziale rende-va possibile ciò che la teoria e l’impalcatura formale del sistema impediva-no (55). Si può dire allora che gli interventi manutentivi si realizzavano tuttiall’interno degli arcana juris nella dimensione del potere occulto che, in unasorta di anonimato istituzionale permanente, proteggeva i suoi autori mate-riali dalla responsabilità degli effetti prodotti.

A dispetto delle vantate perfezioni formali dell’ordo juris, si realizzavacosì nella vita giuridica concreta un paradosso assurdo: i princìpi di fondodel sistema erano salvaguardati nel momento stesso in cui incisivamente siviolavano. In tal modo si otteneva una perfetta coincidentia oppositorum: siassicurava all’ordo juris una indiscussa fissità assiologica nelle sue struttureformali ritenute (e propagandate come) perfette in quanto riflesso dellaVolontà divina e nel contempo si operava occultamente per realizzare il suoaggiornamento pressoché costante.

(53) Sugli arrêts de règlement, cfr., per rapidi ed essenziali ragguagli, D. RICHET, Lo spirito delle istituzio-ni, cit., pp. 29-30; e, per l’analisi approfondita e documentata, P. PAYEN, Les arrêts de règlement du Parlementde Paris au XVIIIe siècle. Dimension et doctrine, Paris, Puf, 1997; ID., La physiologie de l’arrêt de règlement duParlement de Paris au XVIIIe siècle, Paris, PUF, 1999.

(54) La possibile obiezione che l’efficacia degli arrêts de règlement fosse limitata solo al ressort di ciascunacorte di giustizia è superata innanzitutto dal fatto che il circondario del Parlamento della capitale comprendevaun vastissimo territorio dell’esagono e in secondo luogo dal legame circolare stabilito tra i diversi parlamenti;un legame che nel Settecento sarebbe stato addirittura teorizzato da Louis-Adrien Le Paige, leader della robe par-lementaire, con la famosa tesi dell’union des classes, secondo la quale tutti i parlamenti non erano che le moltepli-ci espressioni sul territorio (“classi”, cioè sezioni) di un unico grande organo giuspolitico, il Parlement appunto.

(55) Si veda al riguardo l’ormai classico studio di L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurispru-denziale, Milano, Giuffrè, 1967 (rist. inalt. 1975), spec. pp. 79-199.

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In questo senso e per quel che riguarda l’Antico Regime, la “manuten-zione” dell’ordine giuridico dev’essere considerata uno dei principali strumenti delpotere arcano della magistratura attraverso il quale la jurisdictio era convertitaoccultamente in sovranità politica. Per diversi secoli i giudici si tramandaronoquesta forma mentis e questo savoir faire: saper fare negando di farlo. Nefurono gelosi custodi; e stroncarono con minuzioso accanimento ogni ten-tativo di rendere palese la funzione manutentiva.

Ne è prova la vicenda toccata in sorte all’autore di uno dei più bei trat-tati giuridici del Cinquecento francese (che, almeno a mia conoscenza, nonè stato pressoché mai considerato dagli storici del diritto) nel quale la pra-tica della manutenzione era tematizzata palesemente e suggerita come tec-nica legislativa capace di gestire ordinatamente il caos legislativo.Quest’opera è il Legum abrogatarum et inusitatarum tractatus di PhilibertBugnyon, che pagò di persona, con una carriera stentatissima e relegata nel-l’oscurità della provincia profonda, il suo ardire per aver pubblicato quelvolume (uscito prima in francese nel 1563 con il titolo Traicté des loix abro-gées et inusitées e poi successivamente tradotto in latino, perché lingua uni-versale (56)). L’establishment magistratuale lo considerò una grave violazio-ne del segreto e un serio e pericoloso tentativo d’incrinare il sistema degliarcana juris. L’opera ebbe invece un certo successo tra i giuristi pratici che vitrovavano un utile strumento di lavoro in grado di favorire una qualchecomprensione del diritto vigente nella nebbia alzata dal coacervo di normes-refrein o di norme contraddittorie (57). Così come, per motivi politici evi-denti, l’autore riscosse simpatia negli ambienti ministeriali, arrivando asuscitare la stima e la considerazione del cancelliere Michel de l’Hôpital.

In questo trattato Bugnyon tracciò le linee di una implicita tecnica legis-lativa di manutenzione delle leggi, prendendo in considerazione ed elen-cando tutte le norme dell’ordinamento francese che erano state abrogate oerano state ritenute desuete. Questo enorme lavoro fa, tra l’altro, luce suimotivi per i quali i giuristi-magistrati di Antico Regime preferirono semprela desuetudine all’abrogazione come strumento principe ritenuto idoneo arealizzare la manutenzione (58). L’attività abrogativa, infatti – in questoaspetto un istituto eminentemente moderno volto alla semplificazione del-l’ordinamento – toglie potere interpretativo al giurista e nel contempoinchioda il politico, autore dell’atto abrogativo, alle sue palesi responsabi-

(56) P. BUGNYON, Traicté des loix abrogées et inusitées en toutes les Cours du royaume de France…, Lyon,chez B. Molin, 1563 (= Bibliothèque Nationale de France, F. 11616 e F. 17956).

(57) Il volume conobbe diverse edizioni tra il 1563 e il 1578 e fu poi continuamente aggiornato e com-mentato (nell’ediz. del 1602 da Pierre Guésnois) fino al 1702, anno dell’edizione apud Petrum de Dobbeleer,Bruxelles, che è la più importante e aggiornata e reca il titolo latino: Legum abrogatarum et inusitatarum inomnibus Curiis, Terris, Jurisdictionibus et Dominiis regni Franciae tractatus.

(58) Cfr. F. DI DONATO, La rinascita, cit., p. 198.

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lità d’indirizzo legislativo. L’abrogazione è pratica netta e dal momento incui è messa in atto tutti possono sapere che una legge non è più in vigore.La manutenzione per desuetudine, invece, comporta l’infinita possibilitàche il giurista-interprete eserciti un arbitrio che, più che libero, può consi-derarsi illimitato, poiché nel momento in cui egli abbia interesse ad appli-care una legge desueta può sempre “ripescarla” dal mare magnum dell’or-dinamento, asserendo la sua vigenza formale (omnia in corpore iuris inve-niuntur: “nel corpo del diritto si può trovar tutto”). Alla desuetudine (59) –istituto flessibile quant’altri mai – si può assimilare poi la semi-desuetudi-ne, sapendo che la gamma delle sfumature può qui divenire infinita nelleabili mani di una subtilitas raffinata e tecnicamente ineccepibile, producen-do effetti estremamente vantaggiosi per l’élite degli interpreti autorizzati.

Con l’abrogazione questa pratica sarebbe invece impossibile, poiché lalegge abrogata non è in alcun modo recuperabile. I morti non resuscitano; imalati invece (anche se gravi) talvolta, se adeguatamente curati, possonoguarire e ristabilirsi. Al momento opportuno attraverso la desuetudine, ilgiurista-esegeta poteva riuscire a far rivivere norme che si trovavano instato di quiescenza, che morte del tutto quindi non diventavano mai.

L’ordinamento giuridico di Antico Regime non era un ordinamento comenoi lo conosciamo oggi, e cioè una struttura formata da norme che possonoessere ordinariamente cambiate e che scaturiscono da organi assemblearidemocraticamente eletti e quindi mutevoli in archi temporali relativamentebrevi. Nel mondo prerivoluzionario vigeva una regola fondamentale: che sic-come era Dio il creatore della società, quest’ultima era un organismo dato noncostruito. I valori sui quali l’ordinamento si fondava erano comunicati diretta-mente da Dio al magistrato che doveva applicarli. Quindi il diritto era, pro-priamente, un diritto divino-naturale, che di conseguenza non era modificabi-le se non attraverso l’escamotage della manutenzione giurisprudenziale.

6. Storia della follia reiterativa: un tentativo governamentaledi arginare la tirannia degli apparati giurisdizionali

La manutenzione propriamente legislativa (ad opera del potere politi-co) era dunque molto difficoltosa nell’Antico Regime; e ciò tanto nel siste-ma giuridico quanto nell’assetto politico-istituzionale, ossia (si potrebbedire con il linguaggio del diritto attuale) tanto nelle norme di relazionequanto in quelle di azione. Una delle pratiche che maggiormente testimoniadi questa difficoltà è quella della reiterazione delle leggi (un po’ alla streguadi quanto accade oggi in Italia con la prassi – palesemente incostituzionale,eppur frequentissima – della reiterazione dei decreti-legge).

(59) Cfr. F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., pp. 409-410.

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Molto spesso accadeva nell’Antico Regime che una stessa legge venissereiterata più volte, talvolta addirittura con un intervallo di pochi mesi. Bastaanche solo sfogliare, per rendersene conto, i repertori delle leggi (60) o i mano-scritti degli atti parlamentari, nei quali i provvedimenti legislativi eranocostantemente richiamati (61). Possedendo immensi archivi, dei quali eranogelosissimi custodi (era qui, del resto, il nerbo del dépôt légal), i magistrati-interpreti riuscivano a costruire un complesso reticolato di precedenti attra-verso cui potevano flettere il senso delle disposizioni normative inserendole inun contesto legislativo di lunga durata. Agli occhi dei giuristi-interpreti eraquesto il senso pregnante dell’ordo juris, cosa ben diversa da un insieme,ancorché strutturato e coordinato, di norme. L’ordo juris era un ordine dato efisso, che solo la juris peritia del magistrato aveva il munus di rivelare.L’interpretatio del giudice, come l’ago dell’infinita tela di Penelope, faceva edisfaceva continuamente quell’ordine, adattandolo alla realtà attraverso lapropria mediazione, con una flessibilità di fatto pari solo alla rigidità assolutadel sacro oggetto (il diritto) ipostatizzato. L’attività esegetica dei giuristi-inter-preti era dunque attività “patriarcale”, “sacerdotale” e “sapienziale” (62).

In un contesto di questo tipo, la pratica della reiterazione delle leggi, chedi primo acchito sembra un’attività irragionevole e priva di sensata spiega-zione, si comprende invece perfettamente pensando all’elevato tasso di dis-applicazione che le leggi subivano. La reiterazione (renouvellement législatif)deve dunque essere messa in stretta relazione con la desuetudine (63). Nellaconvinzione (in realtà più che altro una pia speranza) che repetita juvant, ilgoverno regio riproponeva con frequenza la stessa legge noncurante del-l’apparente insensatezza del gesto istituzionale.

In realtà, la reiterazione delle medesime disposizioni normative era unrazionale (e disperato) tentativo da parte del potere politico-ministeriale diarginare la dilagante espansione della giurisdizione togata che utilizzava latecnica della desuetudine e della disapplicazione come formidabile armaper ampliare a dismisura l’influenza della magistratura sulle affaires d’État.Reiterando le stesse norme se non altro s’impediva alle corti di giustizia di

(60) A. J. L. JOURDAN, DECRUSY, F. A. ISAMBERT, Recueil général des anciennes lois françaises, cit.

(61) Una magnifica fonte archivistica, a mia conoscenza mai studiata, utilissima nel senso al quale sifa qui riferimento, è l’Extrait des Registres de Parlement custodito presso la Bibliothèque Municipale de Dijon,mss. 1496-1501. Questi documenti, da me personalmente consultati, sono di grande importanza per varieragioni tra cui, non ultima, la copertura di un ampio arco temporale che va dal 1515 al 1693, cosa che rendeparticolarmente attendibile e significativa la campionatura della casistica classificata.

(62) I primi due aggettivi riflettono il pensiero di R. AJELLO, Arcana juris. Diritto e politica nel Settecentoitaliano, Napoli, Jovene, 1976, passim; il terzo quello di P. GROSSI, L’ordine, cit., spec. pp. 125 ss.; ID., L’Europa,cit., pp. 37 ss. e 52. È evidente che nel diverso uso di questa, tutt’altro che neutrale, aggettivazione è racchiu-so un differente giudizio critico nei confronti del ceto giuridico e dell’esperienza giuridica medievale emoderna.

(63) Cfr. F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 410.

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considerarle eo ipso desuete. Quand’anche lo fosse stata nell’inosservanzapratica, una legge promulgata di fresco non poteva essere giudicata “desue-ta”. Sarebbe stato un nonsenso, nella logica ordinaria prima che nella tecni-ca esegetico-giuridica. Lo impediva, tra l’altro, la mentalità formalisticaimperante: se una legge esisteva nei suoi aspetti formali esisteva tout-court.La desuetudine (come, del resto, la consuetudine) richiede tempi lunghi e latecnica della reiterazione interrompe la continuità dell’oblio, segmentandouna precisa volontà di riaffermare tali o talaltri contenuti dispositivi (64). Lareiterazione aveva dunque lo stesso effetto giuridico dell’interruzione dellaprescrizione (65).

Il giudizio sulla reiterazione delle norme come pratica insensata e follerisente inevitabilmente del nostro contesto dal quale noi osserviamo e giu-dichiamo. Agli occhi dei legislatori di Antico Regime, invece, la praticadella reiterazione non sembrava affatto illogica e irrazionale. Per loro, anzi,quella della reiterazione era una misura “manutentiva” necessaria, e persi-no indispensabile, per tentare di avvicinare il più possibile la realtà socialeal diritto, ossia per ridurre le distanze tra l’essere (sociale) e il dover essere(giuridico), in definitiva tra fatti e valori. Questa era una delle conseguenzepiù rilevanti dell’idealismo assiologico e del rigore formalistico, di cui lamentalità giuridica in primis era portatrice.

Naturalmente, che l’ordinamento potesse evolvere per via legislativa,saltando a pié pari la mediazione patriarcale delle corti di giustizia, erapoco più di una vacua aspirazione da parte del potere sovrano, poiché cia-scuna legge, ancorché reiterata mille volte, doveva, o prima o poi, giungereal redde rationem del momento applicativo; e a quell’ineludibile varco l’at-tendeva l’interpretatio dei giuristi-magistrati. La forma mentis dei sacerdotesjuris era una struttura psicosociale consolidata in lunghi secoli, a partire daquella grande fucina di metodi esegetici e di mentalità che era stato ilMedioevo italiano (66), nel quale i giuristi avevano maturato l’idea che laloro tecnica interpretativa potesse essere una formidabile arma politica (67).Questa visione del mondo si radicò a tal punto che, malgrado le grandi dif-ferenze di contesto e le molteplici e variegate vicissitudini storico-politicheattraversate, il grand corps de l’État dei magistrati continuò sempre a mante-

(64) Ibidem.

(65) Secondo un principio giuridico già presente nel diritto romano e poi sancito nel diritto civile divari ordinamenti europei, l’atto interruttivo della prescrizione fa iniziare ex novo il calcolo del periodo tem-porale utile per potersi dichiarare la medesima (nell’ordinamento italiano vigente, art. 2945 c.c.).

(66) Cfr. P. GROSSI, L’ordine, cit., pp. 162-182: 165, che mette in luce, come meglio non si potrebbe, il“rilevante” potere “che dà all’interprete la possibilità di vanificare l’autorità della norma”.

(67) Cfr. P. COSTA, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433),Milano, Giuffrè, 1969; R. AJELLO, L’esperienza critica, cit., spec. pp. 323-326: 325.

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nere il medesimo atteggiamento istituzionale nei confronti della royauté (68).Si spiega così il rassegnato eufemismo del milieu regalista espresso, come

più chiaramente non si sarebbe potuto, nelle lettere patenti del luglio 1606: “Iltempo annienta tutte le cose e in assenza della pratica e dell’esercizio dellemigliori leggi e ordinanze, esse si revocano da sole” (69). Di qui la scelta direiterarle, adattandole, ove possibile e necessario, in qualche dettaglio anuove situazioni di fatto venute nel frattempo a determinarsi. Proprio su que-sti “dettagli” si appuntavano i tentativi ministeriali d’inserire, nel tronco dellavecchia legislazione, elementi di rinnovamento più o meno estesi e penetran-ti. I quali, tuttavia, non sfuggivano mai all’occhio vigile dei magistrati, che nelprocedimento di “verifica” (vérification) operavano non solo un controllo di“legalità” formale, ma anche un controllo di “opportunità” e di “equità” (70).

Questa situazione, cristallizzata nel tempo lungo della storia dello Stato,era oggettiva. Era cioè indipendente dai mutamenti dinastici e dalla perso-nalità, più o meno forte, di questo o di quel sovrano. Qui viene in evidenzail problema di fondo implicito nel tema della “manutenzione” dell’ordina-mento giuridico, nel momento cruciale del mutamento al vertice del potereche si attuava nella successione da un re a un altro. Che cosa accadeva all’or-do juris quando, morto un re, vi era l’ascesa al trono, l’”avvento” (événement)come si diceva, di un altro sovrano? Quale momento sarebbe stato più pro-pizio per realizzare tutti gli interventi manutentivi ritenuti più opportuni eurgenti? Poteva il nuovo re cambiare ad libitum l’ordinamento vigente rite-nuto da lui e dai suoi ministri parzialmente inadeguato? Poteva il nuovosovrano “manutenere” le norme a suo modo, cioè intervenendo con atti dipura volontà per cambiare le norme già esistenti, aggiornandole, modifican-dole incisivamente in parte o abrogandole del tutto? Poteva egli mutare,esplicitando la sua semplice volontà personale, l’assetto ordinamentale delregno in base al principio romano quidquid principi placuit legis habet vigorem?

Secondo la dottrina della monarchia assoluta il nuovo re poteva farebenissimo tutto ciò, poiché la sua volontà era per l’appunto sciolta dalleleggi vigenti (a legibus soluta). Era il sovrano a comandare e la sua volon-tà di comando si traduceva eo ipso nella legge dello Stato (rex est lex, lexest rex) (71). Ma questa – come si è visto (72) – era, appunto, la teoria, nonla pratica dello Stato assoluto, era il valore non il fatto (73).

(68) Cfr. F. AUTRAND, Naissance d’un grand corps de l’État. Les gens du Parlement de Paris 1345-1454, Paris,Publications de la Sorbonne, 1981.

(69) F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 212.

(70) Sul significato in concreto di questi diversi tipi di controllo, cfr. D. RICHET, Lo spirito, cit., p. 28; e,per riferimenti più approfonditi, il mio La rinascita, cit., p. 199, nota 118.

(71) Cfr. G. FLORIDIA (a cura di), Lex facit regem, rex facit legem, Teramo, Arkè, 2005.

(72) Cfr. supra, nota 32 e testo corrispondente.

(73) Sulla pratica del sistema, cfr. D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni, cit., pp. 61 ss.

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Per avvalorare l’idea, invero piuttosto rudimentale, che il monarcadello Stato assoluto potesse effettivamente qualsiasi cosa volesse (quasi unmoderno re Mida), la mente corre a frasi celebri tramandate di bocca inbocca per intere generazioni e ancora di larga fruizione popolare, come“L’État c’est moi” di Luigi XIV. Ma il re-sole non disse mai nulla del gene-re. La frase esatta che egli pronunciò sul letto di morte e che fu regolar-mente documentata ha un significato inequivocabilmente opposto: “Iovado via, ma lo Stato resterà sempre” (74). Nella storia del cosiddetto“Stato assoluto”, a dispetto dei proclami propagandistici e delle dottrinegiuspolitiche dei royalistes (che le elaboravano e le diffondevano proprioperché esse non trovavano corrispondenza nella realtà, altrimenti non se nesarebbe avvertito un così impellente bisogno), nessun re dimenticò mai,nella pratica effettiva dell’azione governamentale, i limiti costituzionali alsuo potere (75).

Nella pratica costituzionale dello Stato assoluto quello del re fu un“duro mestiere” (76), nel quale le delusioni e le amarezze furono assai piùfrequenti e numerose delle gioie e dei piaceri. In Francia, la figura del refu sempre sostanzialmente subordinata a quella dello Stato-Nazione.Tanto che per evitare contrapposizioni deleterie per l’interesse generale siricorse alla metafora del “matrimonio tra il re e la Respublica” (77). Il refrancese non poteva dunque volere qualsiasi cosa. La sua volontà legislati-va non consisteva in una discrezionalità illimitata, ma s’identificava piut-tosto con una disposizione a confermare più che a modificare. Ciò peralmeno due ragioni. Prima di tutto perché, come ci ha mostrato la notissi-ma teoria dei “due corpi del re” (78), quello che moriva era solo il corpo

(74) Cfr. R. MOUSNIER, La costituzione, cit., p. 135.

(75) Ibid. Secondo Mousnier, Luigi XIV fu l’unico sovrano che tentò di modificare il tradizionale equi-librio politico-istituzionale attraverso “una deliberata violazione della costituzione consuetudinaria” delregno, ma “fallì” l’obiettivo (ivi, p. 107). È davvero sorprendente come molti manuali scolastici di storia dif-fondano ancor oggi questa favola fossilizzata nella celebre (e apocrifa) frase messa in bocca al re-sole: “LoStato sono io”, segno di quanto sia difficoltoso estirpare gli errori nel contesto di una società scolastica nonvotata alla ricerca, all’innovazione, all’aggiornamento e allo sviluppo del senso critico. Perfino l’Enciclopediadei Ragazzi, Roma, Ist. dell’Enc. It. Treccani, 2005, vol. V, pp. 175-176: 176 (voce: “Luigi XIV il simbolo del-l’assolutismo monarchico”) accredita questo falso storico; ivi, vol. II, p. 267 (voce: “Assolutismo”) si asseri-sce nell’occhiello che la monarchia assoluta era “un potere privo di vincoli e di controlli”, e nel testo che inquel regime il re era “libero di fare e di cambiare le leggi”, anche se poi si aggiunge poco oltre che il mede-simo “sovrano era tenuto a rispettare, in obbedienza al comune sentire e ai valori condivisi, le leggi divinee naturali e le leggi fondamentali del regno a partire da quella della successione al trono” (entrambe le voci,nel complesso equilibrate e dense di utili ed essenziali notizie, sono firmate da M. L. Salvadori).

(76) Cfr. M. ANTOINE, Le dur métier de Roi. Études sur la civilisation politique de la France d’Ancien Régime,Paris, Puf, 1986, eccellente lavoro frutto di un profondo e amplissimo scavo archivistico di prima mano.

(77) Cfr. R. DESCIMON, “Les fonctions de la métaphore du marriage politique du Roi et de laRépublique. France, XVe-XVIIIe siècles”, in Annales E.S.C., n. 6, nov.-déc. 1992, pp. 1127-1147.

(78) Di derivazione medievale e oggetto di studio del capolavoro di E. H. KANTOROWICZ, I due corpi delre. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, trad. it. di G. Rizzoni, Torino, Einaudi, 1989.

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fisico di un sovrano, mentre il corpo spirituale restava, reincarnandosisenza soluzione di continuità in ogni successore. Ciò significava che “il[vero] re non moriva mai” (79) e che quindi il potere regale sussistevain un continuum perfetto che non subiva alcuna cesura. Fu questa lalinea che, con puntigliosa coerenza, i giuristi regalisti a lungo difesero(un nome per tutti, quello di Bernard du Haillan, che si protese in arti-colate dimostrazioni sulla continuitas che caratterizzava la sovranitàregale indipendentemente persino dalla cerimonia dell’incoronazione).In secondo luogo, perché – proprio in conseguenza dell’immortalitàdel corpo spirituale del re – la Voluntas sovrana doveva rispecchiarefedelmente questa continuità della Traditio. Se fosse stato lecito per unsovrano contraddire la volontà di un suo predecessore allora sarebbevenuta meno la continuità del regno. E questo era impossibile stanteproprio il carattere “ontico” del diritto e la natura “essenziale” delloStato.

Il re non poteva quindi arbitrariamente decidere tutto ciò che voleva,poiché, come si è visto, egli era “re-cristianissimo” e la sua parola coincide-va con la stessa parola di Dio che egli rappresentava in terra. Da questopunto fermo discendeva tutta una serie di conseguenze di enorme rilevan-za giuridica e istituzionale. Prima tra tutte l’idea che il re non poteva affat-to agire come voleva, senz’alcun limite, ma doveva farlo nel rispetto diquella Traditio consolidata in un corpus normativo che era indicato con ilnome di “costituzione del regno” e che comprendeva, oltre i sacri e intan-gibili princìpi di fondo dello Stato assoluto (quali, ad esempio, la tuteladella sicurezza e della proprietà dei sudditi e la tuitio regni la difesa del ter-ritorio nazionale (80)), le cosiddette “leggi fondamentali” (81) e tutte le dis-posizioni normative emanate (sempre nel nome di Dio) dagli altri re che loavevano preceduto (82). Infatti, siccome anche i suoi predecessori eranostati nella medesima condizione di rappresentanti del Verbum divinum, laloro parola pesava tanto quanto quella del re attuale (lo schema è il mede-

(79) R. GIESEY, Le roi ne meurt jamais: les obseques royales dans la France de la Renaissance, con prefazionedi F. Furet, Paris, Flammarion, 1987.

(80) D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni, cit., p. 53.

(81) Nell’ampia bibliografia sul tema mi limito a ricordare: A. LEMAIRE, Les lois fondamentales de lamonarchie française, d’après les théoriciens de l’Ancien Régime, Paris, Fontemoing, 1907, rist. anast. Genève,Slatkine, 1975; E. CARCASSONNE, Montesquieu et le problème de la constitution française au XVIIIe siècle, Paris,PUF, 1927, rist. anast. Genève, Slatkine, 1970; B. BASSE, La constitution de l’ancienne France. Principes et lois fon-damentales de la royauté française, Liancourt, Presses Saint-Louis, 1973; C. SAGUEZ- LOVISI, Les lois fondamenta-les au XVIIIe siècle. Recherches sur la loi de dévolution de la couronne, Paris, PUF, 1983; A. VERGNE, La notion deconstitution d’après les cours et assemblées à la fin de l’Ancien Régime (1750-1789), Paris, De Boccard, 2006;RIGAUDIÈRE, Les fonction du mot constitution, cit..

(82) Cfr. supra nota 44.

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simo delle asserzioni infallibili del papa che parla ex cathedra (83)). Unsovrano, perciò, non poteva disattendere questo principio senza violare lostesso fondamento costitutivo della monarchia di diritto divino, che regge-va anche se stesso, legittimando il proprio potere.

7. La svolta rivoluzionaria e la sua lunga preparazioneideologica: dalla manutenzione giurisprudenzialealla manutenzione legislativa

Se guardiamo in questa prospettiva, il problema della manutenzionedelle norme nell’Antico Regime ci appare di grandissima complessità, per-ché si fonda su un paradosso apparentemente insolubile: il re è “assoluto”,ma di fatto non dispone di un potere sufficiente per effettuare un’ordinariamanutenzione dell’ordinamento giuridico, cristallizzato nelle forme immu-tabili della sua natura metafisico-sacrale.

Già a metà del Cinquecento, Jean Bodin, il maggiore teorico della poli-tica e del diritto francese del suo tempo, comprese la centralità di questoproblema: si trattava di conciliare la sovranità assoluta (identificata con l’in-divisibilità del potere legislativo) e la necessità di garantire stabilità e cer-tezza al diritto vigente. L’impasse fu superata ricorrendo all’abile formula –risolutiva tanto sul piano teoretico quanto (soprattutto) sul piano pratico-politico – della conferma delle leggi “per tacita tolleranza” (par souffrance)(84). Questa espressione significava che, salendo al trono, il nuovo re con-fermava eo ipso, per silenzio-assenso, le norme giuridiche vigenti al tempodel suo predecessore. Fu una geniale finzione giuridica che permise il con-solidamento del systema juris della monarchia assoluta e, sul lungo periodo,consentì di garantire la stabilità dell’ordinamento giuridico. Fu definitiva-mente sancita l’idea che lo Stato monarchico-assoluto era uno Stato struttu-rato su un fondamento giuridico (85). E fu un passaggio decisivo nell’evo-luzione costitutiva dello Stato moderno (86), che venne allora qualificando-si sempre più come “Stato di diritto” (87). Il contributo del pensiero giuri-

(83) Cfr. B. TIERNEY, Origins of Papal Infallibility. 1150-1350. A Study on the Concepts of Infallibility,Sovereignty and Tradition in the Middle Ages, Leyden, E. J. Brill, 1972.

(84) Cfr. D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni, cit., p. 23.

(85) Cfr. G. G. ORTU, Lo Stato moderno. Profili storici, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 139 ss.

(86) Cfr. A. TENENTI, Stato: un’idea, una logica. Dal comune italiano all’assolutismo francese, Bologna, IlMulino, 1987; O. BEAUD, La potenza dello Stato, trad. it. di L. Tullio, Napoli, Esi, 2002, spec. pp. 19-188.

(87) Secondo la sintetica ed efficace definizione di M. TROPER, Per una teoria giuridica dello Stato, trad.it. di A. Carrino et alii, Napoli, Guida, 1998, pp. 170-171: “Lo Stato non è altro che il nome che si dà al pote-re politico quando si esercita in una certa forma, la forma giuridica”.

LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME

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dico a questa costruzione politico-istituzionale fu dunque di enorme rile-vanza (88). Questa “logica” di fondo inevitabilmente (per eterogenesi deifini) legittimò il peso di ciò che più tardi Montesquieu avrebbe definito ildépôt légal negli affari di Stato. Questo passaggio significò, di fatto, un’abili-tazione al potere interpretativo-politico dei giuristi-magistrati e alla loroazione “manutentiva” dell’ordinamento, realizzata in condizioni di quasiesclusività.

Lungi dall’essere un aspetto puramente tecnico-specialistico, confinatoa un’attività tipica del giurista subordinato, quella della manutenzione dellenorme giuridiche, insomma, è una vicenda politico-istituzionale il cui ruolonella dinamica evolutiva dello Stato moderno è rilevantissimo e la cui com-plessità è difficile da racchiudere in una sintesi esaustiva e coerente. Se èfuor di dubbio che la soluzione bodiniana della tacita conferma preparò dalontano la svolta rivoluzionaria del 1789 (un classico caso di “spirito rivo-luzionario prima della Rivoluzione” o di sue “origini lontane” (89)), inquanto pose il diritto nazionale al di sopra del re, è innegabile altresì cheessa finì col mettere la funzione manutentiva totalmente nelle mani del cetomagistratuale, l’unico potere strutturato capace di assolvere all’indispensa-bile funzione di aggiornamento dell’ordo juris.

È appena il caso di notare, en passant, come, salvo qualche pionieristicaeccezione (90), la storiografia giuridica nel suo complesso non ha prestato ladovuta attenzione a questo aspetto capitale degli ordinamenti europei esoprattutto non ha inteso né valorizzare né analizzare la logica politico-isti-tuzionale che vi è sottesa. Cosicché, anche quando singulatim sono stati pro-

(88) Cfr. A. PADOA SCHIOPPA, “Il ruolo del diritto nella genesi dello Stato moderno: modelli, strumenti,princìpi”, in AA.VV., Studi di Storia del Diritto, Pubbl. dell’Ist. di St. del Dir. It. dell’Univ. di Milano, Fac. diGiurispr., vol. II, Milano, Giuffrè, 1999, pp. 25-77, ora in ID., Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna, IlMulino, 2003, pp. 315-363. In ordine a questo punto, si attesta su una linea interpretativa completamente diver-sa da quella di chi scrive, M. FIORAVANTI, “È possibile un profilo giuridico dello Stato moderno?”, in L.BARLETTA, G. GALASSO (a cura di), Lo Stato moderno di Ancien Régime, Atti del Convegno di Studi, San Marino,6-8 dicembre 2004, Università degli Studi della Repubblica di San Marino, Scuola superiore di studi storici, SanMarino, Aiep Editore, 2007, pp. 185-195, sulla cui impostazione rinvio alle mie considerazioni critiche nel cap.V del mio La rinascita, cit., passim, e spec. pp. 368 ss., 384 ss., 395 ss., 401 ss., 423 ss.

(89) Un affascinante tema di ricerca, questo, che ha dato ottimi risultati nel campo della storia delleidee politiche e religiose (a partire dallo studio di F. ROCQUAIN, L’esprit révolutionnaire avant la Révolution.1715-1789, Paris, Plon, 1878), ma nessuno, che io sappia, nel campo della storia più specificamente giuridi-ca: cfr. D. RICHET, “Autour des origines idéologiques lointaines de la Révolution française: élites et despoti-sme”, in Annales E.S.C., n. 24 (1), janv.-févr. 1969, ora in ID., 1991, De la Réforme à la Révolution. Études sur laFrance moderne, Paris, Aubier, 1991, pp. 389-416; W. DOYLE, Origins of the French Revolution, London-Glasgow-New York, Oxford Univ. Press, 1980; D. MORNET, Le origini intellettuali della Rivoluzione francese (1715-1787)[1933], trad. it. di E. Di Rienzo, Milano, Jaka Book, 1982; R. CHARTIER, Les origines culturelles de la Révolutionfrançaise, Paris, Seuil, 1990 ; D. K. VAN KLEY, The Religious Origins of the French Revolution. From Calvin to theCivil Constitution, 1560-1791, New Haven and London, Yale University Press, 1996.

(90) Cfr. M. ASCHERI, Tribunali, giuristi e istituzioni. Dal Medioevo all’Età moderna, Bologna, Il Mulino,1989; ID., Istituzioni medievali, Bologna, Il Mulino, 1994; I. BIROCCHI, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giu-ridica nell’Età moderna, Torino, Giappichelli, 2002.

FRANCESCO DI DONATO

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dotti contributi pregevoli, si è spesso mancato d’inquadrarli nel contestoampio dell’esperienza statuale e socioistituzionale, prevalendo quindi l’ot-tica restrittiva del tecnicismo esegetico delle fonti normative (91).

Proprio sul tema della manutenzione, questo metodo tradizionale dellastoriografica giuridica viene a trovarsi in gravi difficoltà, poiché un’analisiesegetica, ancorché minuziosa e accurata, delle fonti normative, delle dot-trine giuridiche o degl’intenti programmatici non darà alcun risultato utilea comprendere l’effettivo svolgimento delle pratiche “manutentive” nelconcreto funzionamento del sistema.

Ad esempio, è vero che ogni sovrano rivendicò – ciascuno con il suostile e la sua forza caratteriale – la prerogativa di fare le leggi sans dépendanceet sans partage, come affermò (un po’ troppo perentorio per essere credibile)Luigi XV nel famoso discorso detto (per ironia, dai giuristi-magistrati) della“flagellazione”, pronunciato nella séance royale del 3 marzo 1766 (92). Maquesta dichiarata volontà di realizzare un totale dominio sull’ordinamentorestò sempre una promessa, un “sogno” che non si realizzò mai (com’è statogiustamente ricordato (93)), se non – paradossalmente – con la caduta dellamonarchia assoluta e l’avvento della Rivoluzione e dell’impero napoleoni-co. E, a scavare a fondo, a dispetto di ogni apparenza neppure allora i nuoviassetti giuridici, politici e istituzionali riuscirono a mutare in profondità laforma mentis dei giuristi-esegeti, che restò (come resta tutt’ora, soprattutto inItalia, con tutti gl’innegabili progressi che pur si son fatti) improntata almetodo di origine medievale dell’interpretatio (94).

La realtà è molto spesso (se non quasi sempre) assai diversa dalle aspi-razioni, dai “sogni” e dalle linee programmatiche espresse da chi competeper la conquista del potere e persino da chi riesce a ottenerlo. In Francia le

(91) Per la critica più penetrante e – ça va sans dire – non condivisa dai diretti interessati, delle immu-tabili categorie metodologiche della storiografia giuridica specialmente italiana, arroccata a difesa del suo“specifico” e chiusa quindi all’interdisciplinarietà, cfr. R. AJELLO, Arcana juris, cit., passim e spec. pp. 3 ss., 109ss. e 273 ss.; ID., “Problemi e prospettive dell’insegnamento in Italia. ‘Storia del diritto italiano’: articolazio-ni disciplinari vecchie e nuove”, in P. GROSSI (a cura di), L’insegnamento della storia del diritto medievale e moder-no. Strumenti, destinatari, prospettive, Atti dell’incontro di studio, Firenze, 6-7 novembre 1992, Milano, Giuffrè,1993, pp. 61-102; ID., Il collasso di Astrea. Ambiguità della storiografia giuridica italiana medievale e moderna,Napoli, Jovene, 2002.

(92) Cfr. D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni, cit., p. 159. L’ironia consisteva nel fatto che secondo i robinsil re aveva in quel discorso “flagellato” gl’innocenti giudici del Parlement proprio come era stato flagellato ilCristo prima della crocifissione! Scritto dal cancelliere e guardasigilli Maupeou che, essendo stato consiglieree poi primo presidente del Parlamento, i suoi ex colleghi consideravano un infame traditore, il discours de la fla-gellation è assurto a una sorta di manifesto ideologico del carattere assoluto del potere regio, mentre al contra-rio è propriamente l’urlo d’impotenza di un re disperato per l’impossibilità di farsi obbedire dai suoi officiers.

(93) A. RIGAUDIÈRE, “Un rêve royal français: l’unification du droit”, in Académie des Inscriptions et desBelles-Lettres. Comptes rendus des séances de l’année 2004, nov.-déc., fasc. IV, 2004, pp. 1553-1567.

(94) Cfr. U. PETRONIO, “L’analogia tra induzione e interpretazione. Prima e dopo i codici giusnaturali-stici”, in C. STORTI (a cura di), Il ragionamento analogico. Profili storico-giuridici, Napoli, Jovene, 2010, pp. 183-292.

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“leggi del re” così ben descritte nei loro più dettagliati aspetti formali estrutturali (95), non riuscirono sempre a dispiegare tutti gli effetti che i loroautori e ispiratori intendevano realizzare. Nel complesso gl’interventimanutentivi sull’ordinamento in via legislativa restarono improntati a unasostanziale souplesse da parte dei governi regi (96). È vero che contribuiro-no a strutturare il sistema istituzionale e la civilisation étatique, ma quantoall’effettiva incisività sul systema juris non arrivarono mai a realizzare que-gli ideali di “coerenza, chiarezza e comprensibilità” che sono oggi indicaticome gli elementi tipici di una corretta opera di manutenzione (97). Il dirit-to francese restò, fino alla rottura rivoluzionaria, un diritto composto damateriali eterogenei, con molteplici e varie influenze (98) e sottoposto all’e-norme e costante pressione giurisprudenziale dei parlamenti, che realizza-rono un’attività di “manutenzione” spesso assai più incisiva degl’interven-ti legislativi, arrivando perfino a governare i territori e le città attraverso unuso politico-amministrativo minuziosissimo della giurisdizione (99).

Occorse, appunto, la cruenta cesura del 1789 per determinare il passag-gio da una manutenzione giurisprudenziale a una manutenzione legislativa,collegata alla responsabilità politica e alla trasparenza del potere (100).

(95) Cfr. F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit..

(96) Ivi, p. 214.

(97) Cfr. M. DE BENEDETTO ET AL., La qualità delle regole, cit., p. 102.

(98) Cfr. V. PIANO MORTARI, Diritto romano e diritto nazionale in Francia nel secolo XVI, Milano, Giuffrè,1962; ID., “La formazione storica del diritto moderno francese. Dottrina e giurisprudenza del secolo XVI”, inAA.VV., La formazione storica del diritto moderno in Europa, Atti del Terzo Congresso internazionale della SocietàItaliana di Storia del Diritto, I, Firenze, L. S. Olschki, 1977, pp. 195-219; ID., “Tradizione romanistica e tradizionegiuridica europea nella Francia del secolo XVI”, in Il diritto comune e la tradizione giuridica europea, Perugia,Libreria universitaria, 1980; ID., “L’ordo juris nel pensiero dei giuristi francesi del secolo XVI”, in Clio – Rivistatrimestrale di studi storici, 1989, ora tutti in V. PIANO MORTARI, Itinera juris. Studi di storia giuridica dell’Età moder-na, Napoli, Jovene, 1991, rispettivam. pp. 111-144, 67-78 e 245-267. Si veda anche il bel saggio di V. GUIZZI, “Ildiritto comune in Francia nel XVIII secolo”, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis - Revue d’histoire du droit,Groningen, XXXVII, 1969, pp. 1-46.

(99) Gouverner la ville à travers la juridiction è appunto il titolo di un mio prossimo saggio che costitui-sce lo sviluppo di una relazione svolta al Congresso internazionale Pouvoirs publics (Etat, administration) etville en France, Italie et Espagne de la fin du XVIIe siècle à la fin du XVIIIe siècle, tenutosi il 15 ottobre 1999 pres-so l’Université “Paul Valéry” di Montpellier.

(100) Su questo tema, rinvio al mio saggio in corso di pubblicazione: “La Costituzione fuori del suotempo. Dottrine, testi e pratiche costituzionali nella lunga durata”, in Quaderni costituzionali, n. 4, 2011; e a uncontributo monografico di prossima pubblicazione che verterà sul tema “i giuristi e la Rivoluzione francese”.