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BHARTI KUMARI LA MAESTRA BAMBINA Traduzione di GIOVANNI ZUCCA

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bharti kumari

la maestrabambina

Traduzione diGiovanni Zucca

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titolo originale: Mon école sous un manguier © michel lafon Publishing, 2011

realizzazione editoriale: Conedit libri srl - Cormano (mi)

i edizione 2012

© 2012 - edizioni Piemme spa 20145 milano - Via tiziano, 32 [email protected] - www.edizpiemme.it

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uno

nel chiarore dell’alba la neonata si agita e piange, braccia e gambe all’aria, come una tartaruga rove-sciata. da quant’è che lo fa, ormai? nessuno può dirlo con certezza. di lì a poco farà giorno. ancora qualche ora e ci sarà troppo caldo perché questa creatura sopravviva. troppo giovane per morire? sicuramente sì, ma la natura non ha tempo da per-dere, per così poco.

alcuni bambini di strada, di quelli che a furia di aggirarsi per la stazione la conoscono come le pro-prie tasche, si mettono a gridare a loro volta, atti-rando l’attenzione degli adulti. tra i binari e il marciapiede, abbandonato sui ciottoli grossi e ap-puntiti, la bambina è avvolta in un petticoat1 umi-diccio e macchiato di sangue.

una donna di alta statura si fa largo tra le perso-ne che cominciano a raccogliersi intorno al bebè. si

1 termine inglese che indica un capo di biancheria indossato sotto un sari, per attenuarne la trasparenza.

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china a raccogliere con delicatezza quella cosina tra le braccia. il pianto è incessante, strilli che lace-rano il cuore. la donna avvolge la creatura nel sari e se la stringe al petto, da cui emana un calore ras-sicurante.

«la portiamo via con noi, e ci occuperemo di lei» dice la donna al marito, che l’ha subito rag-giunta.

«ma non sappiamo nemmeno se è stata davvero abbandonata...» obietta lui, incerto.

«Vedremo di scoprirlo. andiamo alla polizia e dichiariamo che l’abbiamo trovata qui. in mezzo ai binari, alle sei e mezza del mattino, a rischiare di finire stritolata da un treno...» la donna sospira e scuote il capo. «non possiamo fare finta di niente. se nessuno si farà avanti per riaverla, la terremo con noi e la cresceremo come se fosse nostra.»

«ma dovremo assumerci una responsabilità non da poco: dovremo sfamarla, vestirla...»

«non preoccuparti, marito mio. Ci penserò io, a sfamarla.»

la donna alta non si lascia contraddire facil-mente. il suo tono è fermo, quasi perentorio. Fin quando sarà al mondo, provvederà lei alla piccola, proprio come fosse sua figlia.

Fula e suo marito rampati varcano la soglia del commissariato alle sette del mattino.

un agente dorme serenamente su una sedia, i piedi nudi poggiati su un’altra, con il manganello

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di bambù a portata di mano. i due coniugi passa-no davanti al poliziotto di guardia, salgono due gradini, si tolgono le scarpe ed entrano nella stan-za principale. il pavimento è fresco. i ventilatori appesi al soffitto viaggiano al massimo, con un ronzio monotono, quasi ipnotico. C’è un altro agente, anche lui assopito, la testa poggiata sulla scrivania. Quanto alla panca, è occupata da altri due poliziotti addormentati, che russano senza ri-tegno. la stanza è buia. Ci sono solo un paio di anguste finestrelle, da cui filtra, attraverso le zan-zariere, qualche raggio di luce mattutina.

Fula si avvicina all’agente dietro la scrivania, facendo attenzione a non rovesciare le pile di in-cartamenti in precario equilibrio sul cemento levi-gato.

«Namaste2, sir!»nessuna risposta. solo un ronfare rauco e co-

stante pervade l’atmosfera di umidità che aleggia nel commissariato.

«sir» ripete la donna, alzando un po’ la voce, ma non troppo. l’ultima cosa che vuole, è provocare la collera dell’agente.

«si può sapere cosa vuoi?»la voce burbera proviene da dietro. il poliziotto

si è tolto il berretto e la squadra di sbieco, un oc-chio semichiuso, lo sguardo ancora assonnato.

2 Forma di saluto rispettoso in hindi. anche l’inglese “sir” viene usato in segno di rispetto, quando ci si rivolge a un rappresentante dell’auto-rità.

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«allora?»«abbiamo trovato una neonata» dice lei, orgo-

gliosa.«Che cosa?»«alla stazione ferroviaria, sir, in mezzo ai binari.

sanguina e sicuramente dev’essere affamata!»«Come fai a sapere che è una femmina?»Fula trattiene un sospiro di irritazione. uomi-

ni...«Perché è nuda, sir! Qualcuno l’ha semplice-

mente avvolta in questo lembo di tessuto azzurro. l’abbiamo trovata mio marito e io, sui binari della stazione di dehri-on-sone, stamattina presto.»

«dove abiti?» chiede il poliziotto, rivolto al ma-rito. si alza faticosamente, e con un movimento rapido infila i piedi nudi direttamente nelle scarpe nere.

«a kusumbhara» risponde l’uomo. «si trova subito dopo akhorigola.»

«Va bene. allora scrivi qui, su questo quaderno, il tuo nome e quello del villaggio in cui abiti. se veniamo a sapere qualcosa in proposito, veniamo a parlarne con te.»

«ecco... io non so scrivere.»il poliziotto cerca di malavoglia una matita. tra-

scrive con pochi scarabocchi i dati riferiti dal ma-rito di Fula.

«ecco fatto. C’è altro?»«e nel frattempo, che facciamo?»il poliziotto sbuffa, chiaramente irritato dal do-

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versi occupare di un evento così minimo. e conti-nua a ignorare Fula, rivolgendosi solo al maschio di famiglia.

«nel frattempo, tieni la bambina con te e se hai qualcosa da mangiare, dalle da mangiare. se l’hanno abbandonata e non riusciamo a trovare sua madre, puoi decidere se adottarla o affidarla all’orfanotrofio di delhi. d’accordo? e ora forza, andatevene, che ho molto da fare.»

«Grazie, sir! le auguro una buona giornata, sir!» conclude il marito, ed esce camminando a ri-troso, e facendo ripetuti cenni alla moglie di se-guirlo.

il poliziotto si slaccia la cintola e rimette a posto la camicia dentro i pantaloni. Prende dalla scriva-nia una caraffa in plastica piena d’acqua, si rinfre-sca il viso con pochi spruzzi e si liscia i folti baffi. È il segnale che adesso è veramente sveglio. adesso può cominciare a occuparsi di faccende importanti.

Fula si stringe forte la “sua” creatura al corpo e decide di tornare a casa. e pazienza per il rame e l’acciaio che avrebbe potuto raccogliere in questo mattino d’inverno. Ci penserà suo marito a raccat-tare tutti i preziosi resti di ferraglia che trova, per poi andarli a rivendere in cambio di una manciata di rupie al mercante che si occupa di riciclare ogni sorta di materiali. Per ora, rampati le mette in ma-no cinque rupie, in modo che possa pagarsi il bi-glietto dell’autobus.

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alla stazione delle corriere, Fula si dirige alla zo-na dei negozi, che stanno aprendo uno dopo l’al-tro. il luogo brulica già di gente indaffarata. la donna estrae dal reggiseno una banconota da cento rupie, accuratamente ripiegata in quattro. Con i propri risparmi, faticosamente accumulati centesi-mo dopo centesimo, compra del latte. il negoziante glielo consegna in un sottile sacchetto di plastica.

Fula si sposta poi sul piazzale da cui partono le corriere, già affollate di passeggeri. tutti i posti a sedere sono occupati da un bel po’. la donna alta guarda la neonata, ci ripensa e poi cambia rotta. la piccola è troppo debole, rischia veramente di non sopravvivere al viaggio.

Fula decide allora di prendere un risciò collet-tivo. È molto più caro, ma arriverà a casa prima e almeno staranno un po’ più comode che in auto-bus, lei e la piccola.

il triciclo a motore ronza come un calabrone im-pazzito. le strade sono ingombre, anche se il traf-fico per il momento è ancora fluido.

se non ci fosse quel ponte... arriverebbe a casa in meno di mezz’ora. ma c’è il ponte, una passerella così fragile che i veicoli la imboccano sempre len-tamente, con prudenza. e dal momento che non c’è alcuna segnaletica, quello che è più avanti fa arretrare l’altro: e in mancanza di meglio, vale sempre l’eterna regola de “il veicolo più grosso passa prima di quello più piccolo”. l’india è anche questo...

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lo strepitare dei clacson è assordante. Fula guarda al di là del corrimano del risciò, e si rende conto che il livello del fiume si è alzato. subito si sente stringere alla gola dall’angoscia: se la strut-tura dovesse cedere – cosa che tutti si aspettano che accada, prima o poi – non potrebbe in alcun modo salvare se stessa, né la creatura che ha tro-vato.

una volta giunta sull’altra riva, viene assalita da una nuova paura: e se la ferita della povera pic-cola fosse più grave di quello che sembra? in fon-do, pensa, l’ha raccolta solo a pochi metri dalle rotaie, dove durante la notte sono transitati diver-si treni. Fula chiede quindi al conducente del ri-sciò di fermarsi dal dottore. l’ambulatorio non è ancora aperto, ma ci sono già diversi pazienti in silenziosa attesa sotto la tettoia davanti all’ingres-so, seduti su una panca dipinta di bianco. il medi-co abita sopra l’ambulatorio.

Fula bussa alla porta dell’appartamento e chie-de alla domestica, dopo averle spiegato la situa-zione, di avvertire con urgenza il dottore.

«da dove viene questa bambina?» chiede il me-dico, dopo averla fatta accomodare.

«il guaio è che non lo so, dottore.»«l’ha trovata lei?»«sì, stamattina, alla stazione ferroviaria.»«le guardi i capelli, signora: è appena nata. da

poche ore, direi... avrà al massimo un giorno di vita, secondo me.»

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«sanguina, dottore, ha una ferita alla gamba de-stra!»

«sì, ho visto, ma stia tranquilla,» il medico le fa un cenno rassicurante «è solo un graffio superfi-ciale. ora gliela disinfetto, e poi le metto una fa-sciatura leggera.»

«Pensa che possa soffrire di qualche altro ma-lanno?»

«Cara signora, non posso pronunciarmi su ciò che non vedo, ma a prima vista non sembra aver subito traumi alla testa, e se piange così, è segno che è in buona salute. sta pensando di tenerla?»

«sì» risponde Fula senza esitare. «Cioè... se nes-suno viene a reclamarla, naturalmente.»

«mi sembra molto improbabile. nessuno verrà a riprendersi una femmina. se fosse stato un ma-schio, non l’avrebbero di certo abbandonato. ma una femmina...» il medico si stringe nelle spalle. una bocca in meno da sfamare oggi, una dote in meno da mettere insieme domani. entrambi sanno bene che è così che vanno le cose.

«Grazie, dottore. Quanto le devo?»«nulla, nulla.» l’uomo sorride. «Conservi il suo

denaro, ne avrà bisogno per darle da mangiare e per portarla all’ospedale a farla vedere, nei prossi-mi giorni. È un gran bel gesto, quello che sta com-piendo. Ci vuole coraggio, a essere generosi...»

«spero che mio marito non si metta di mezzo, ma qualunque cosa dica, io la crescerò come se fosse mia figlia. stamattina, quando ho visto que-

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sto fagottino, ho capito subito che era un neonato. mi sono lanciata in mezzo ai binari senza neanche guardare se c’era un treno in arrivo. ho detto ai bambini che le stavano intorno di allontanarsi, avevo paura che le facessero del male, magari in-volontariamente. dicevano che era lì da almeno un’ora, e nessuno si era avvicinato, per vedere cos’era, anche solo per curiosità.» Gli occhi di Fula luccicano di emozione. «Come se fosse un pac-chetto dimenticato, o la reincarnazione di uno spi-rito maligno. non ho avuto bisogno di coraggio, perché il mio cuore mi ha detto immediatamente di prenderla tra le braccia.»

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due

Questa storia, la storia delle mie prime ore di vita, mia madre me l’ha raccontata decine di volte, sen-za neanche bisogno che gliela chiedessi.

ogni volta con gli stessi particolari, i poliziotti che dormivano, il risciò, il dottore gentile... ogni tanto, mi sembrava che si sentisse in dovere di discolparsi, davanti ai miei occhi, per non avermi partorita lei stessa. e volesse anche darmi, in qualche modo, elementi sufficienti a costruirmi una mia identità. Questi ricordi sono così vividi nella sua mente che è riuscita a trasmettermeli quasi per intero. io l’ho sempre considerata la mia Ma1, non l’ho mai vista come una madre adot-tiva.

Più tardi ma e io siamo tornate a casa. lei mi ha fatto scivolare in bocca qualche goccia di latte, gra-zie a una pezzuola di cotone ripiegata. e mentre

1 “mamma” in hindi, termine in uso principalmente nelle zone rurali.

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mi nutriva con questo “biberon” improvvisato, ha annunciato alle sue due figlie, Parmila e anita, che a partire da quel momento avevano una nuova so-rella.

i medici dell’ospedale non mi hanno diagnosti-cato nulla di particolare, se si eccettua la straordi-naria fortuna di essere sopravvissuta ore accanto alle rotaie, dov’erano passati diversi treni a grande velocità. secondo le loro valutazioni, sono nata poco prima di mezzanotte.

il dottore gentile aveva ragione: nessun poli-ziotto, nessun funzionario pubblico si è mai pre-sentato dai miei genitori a chiedere di me. se è sta-to aperto un procedimento giudiziario, dev’essere stato chiuso molto in fretta, perché mai nessuno è venuto a darcene comunicazione.

tutta la gente del paese era al corrente delle mie vicende. sono nata dal grembo di una donna, e so-no stata cresciuta dall’affetto di un’altra. o, per meglio dire, ho perso mia madre e ne ho trovata un’altra nel giro di poche ore. non ho mai più sa-puto nulla dei miei genitori biologici. ma immagi-no che mi abbiano deposto tra i binari, senza farsi notare, mentre il treno era fermo in stazione. il fat-to che sia accaduto di notte è la prova che mi han-no abbandonata deliberatamente. la persona che l’ha fatto non voleva essere vista, né tanto meno fermata dalla polizia.

È dipeso dal fatto che sono una femmina? Che sono il frutto di una relazione extraconiugale, di

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un rapporto illecito in cui i figli non erano previ-sti? non lo so, e per il momento non me ne voglio preoccupare.

Quello che conta – qui, in india, per gente come noi – è riuscire a sopravvivere.

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tre

la canna di bambù si abbatte sulla cattedra. un silenzio di piombo avvolge l’aula. Qualche attimo più tardi, il bastone cala sul braccio di ramesh, poi sulla spalla di sacco. le ragazze dell’ultima fila so-no paralizzate dalla paura e quelle che solo pochi minuti fa ancora ridevano adesso sono ammutoli-te, neanche avessero di fronte un cobra. il maestro se ne sta lì tutto impettito, e tanto per mostrarci chi è che comanda tiene quella sorta di frusta con due mani, la fa roteare con un sibilo minaccioso e sferra un altro colpo sulla cattedra traballante. Per pre-cauzione, viste le precedenti esperienze, sono se-duta in fondo all’aula, accanto a daya e a Pallavi. se il maestro perdesse davvero la testa, potremmo comunque scappare dalla porta di dietro senza prendere un sacco di botte. in fondo siamo solo bambini, e quell’energumeno di mitalesh ci terro-rizza, specie quando è ubriaco. lui pensa che non ce ne accorgiamo quando è ebbro, ma non appena entra in aula io sono in grado di capirlo immedia-

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tamente, se ha bevuto o meno. e stamattina ha be-vuto, eccome.

il gesso traccia le cifre da zero a nove sulla lava-gna scheggiata, e noi le ripetiamo in coro, ad alta voce. in realtà non sappiamo che cosa vogliono di-re, sappiamo solo che bisogna contare in hindi. È una cosa abbastanza banale, sono parole che usa-no anche i nostri genitori, l’autista dell’autobus o il venditore di dolciumi della bottega all’angolo della via, all’uscita da kusumbhara. mitalesh si ar-rabbia con gli scolaretti della prima fila, che non riescono a stare al passo con la lettura delle cifre, snocciolate come una preghiera.

Continuiamo a ripetere questa litania per quello che a me sembra un’eternità, ore e ore, e quando mitalesh esce dalla stanza, esige che continuiamo a recitarla. sacco e ramesh si protendono in avan-ti, per tenere d’occhio i suoi movimenti. sbirciano, attraverso il vano di quella che dovrebbe essere la porta dell’aula, se ha il battente di legno. il fabbri-cato in cui ci troviamo non è una vera scuola, quanto piuttosto una bicocca ancora in costruzio-ne, in mezzo ai campi, a poca distanza dal villag-gio. dai lucernari quadrati ci arriva la luce del giorno. il proprietario, che non ha ancora messo insieme il denaro necessario a comprare finestre, porta e chiavistello, per il momento ci lascia usare la sua casupola di mattoni incompiuta come “scuola”.

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torna il maestro, che si sta allacciando la patta dei calzoni.

«basta!»Ci grida che siamo degli incapaci, dei buoni a

nulla, degli asini. e che non serve proprio a un bel niente insegnarci una qualsiasi cosa, perché il più bravo di noi è talmente stupido da non essere nep-pure in grado di contare il resto, quando qualche negoziante disonesto cercherà di derubarci, ap-profittando della nostra ignoranza.

non ha tutti i torti, infatti io sto imparando ben poco. ripeto fino alla nausea, come gli altri, le cifre da zero a nove. e capisco meglio perché certi sco-lari sono tentati di smettere di andare a scuola. Questo modo di insegnare non solo non è incorag-giante, è ripugnante. Come può pensare mitalesh che ci si possa istruire rimasticando parole? a me-no che non le abbia a sua volta studiate e imparate in questo modo, quelle quattro cose che sa.

mitalesh si accovaccia in un angolo e noi ripren-diamo la lettura, mentre le sue palpebre si abbas-sano pian piano. secondo noi è una finta. ha già usato questo trucco altre volte, e guai al bambino o alla bambina che avesse smesso di biascicare le so-lite quattro formulette. ma stamattina sono sicura che non sta facendo la commedia. il punto è che è ubriaco, tutto qui. dico a daya, in un sussurro, che tra poco il maestro comincerà a russare. Finalmen-te una buona notizia! stiamo buoni e tranquilli per qualche minuto, come per convincerci che siamo

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fuori pericolo, poi in fondo all’aula si levano i pri-mi chiacchiericci. È logico che sia così, è lì che sono sedute le femmine. anche i ragazzi mormorano tra loro, e ridono, sempre più forte, pur badando a tenere sotto controllo il volume delle voci. alcuni ne approfittano per uscire dall’edificio e andare a urinare qui attorno.

Fuori il sole è caldo, e un vento fresco accarezza la campagna. l’aria è più respirabile che in classe. i contadini sono nei campi, le donne interrano le sementi e pregano in coro cantando perché il rac-colto sia ricco e abbondante, mentre altre contadi-ne conducono i bufali al fiume.

la pausa si trasforma ben presto in una ricreazio-ne, tanto imprevista quanto improvvisata. Per alcu-ni, è il momento di marinare la scuola, e anch’io sono tentata dall’idea di imitarli. in fin dei conti, mitalesh non ci insegna niente, ci fa perdere tem-po e in più ci picchia con la sua canna di bambù. mi ha colpita più volte sulle braccia e sulle gambe, ed è un’esperienza molto dolorosa. Posso afferma-re con assoluta certezza che a nessuno di noi scola-ri piace questo maestro. e poi le abbiamo sentite tutti, le voci che corrono su di lui. si dice che abbia rubato soldi a destra e a manca, intrufolandosi nelle case della gente anche in pieno giorno. È an-che stato in prigione vari mesi, per questo. a me in particolare fa paura, perché può diventare molto violento. e se ci lamentiamo di lui con i nostri ge-

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nitori, rischiamo di prenderle di nuovo, una se-conda volta, perché non l’abbiamo ascoltato. Que-sto miscuglio di autorità attribuita a qualcuno che non la merita e di palese ingiustizia mi fa male, quasi quanto le bastonate.

la nostra pausa si preannuncia dunque calma e piacevole, fino a quando ramesh viene a dirmi che sono una bastarda, e che non ho una madre. dice agli altri ragazzi che mi hanno trovata in cit-tà, dentro a una pattumiera. «non farci caso» mi sussurra daya, ma io non la penso così, al contra-rio, do molta importanza a quello che dicono di me. mi sento andare il sangue alla testa, perché non mi piace che mi insultino, né che parlino male della mia famiglia. salto addosso a ramesh e gli rifilo un violento spintone, tanto da farlo cadere. i suoi amici accorrono a prendere le sue difese, e rincarano la dose dicendo che mia madre è una prostituta, che non sa chi è mio padre ed è per que-sto che si è liberata di me, quand’ero una neonata.

mi lancio su ramesh che è ancora a terra, e lo prendo a schiaffi. un altro scolaro di nome suchal, pur essendo mio amico, mi tira dei calci. mi alzo, lo afferro per i capelli e tiro, tiro con tutte le mie forze. ramesh mi sputa in faccia, e prende un sas-so da terra. io lo assalgo prima che abbia il tempo di mirare e lo graffio in volto. appaiono le prime gocce di sangue, ma invece di placarmi non fanno altro che accrescere la mia collera. un braccio sot-tile e muscoloso mi blocca la mano, io mi divinco-

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lo strillando come se mi scorticassero viva, così la contadina che è intervenuta a dividerci mi rifila un ceffone così forte da lasciarmi stordita.

arriva qualcuno di corsa. È mio padre... sono salva! ora glielo fa vedere lui, di che stoffa sono fatti i kumari!

invece no. mi fanno da parte, costretta ad assi-stere mentre mio padre, e la madre di ramesh, fanno a gara per consolare il bambino che mi ha insultata.

Poonam mi prende tra le braccia e controlla se sono rimasta ferita. secondo me capisce benissimo che cos’è successo.

È una bella donna, gentile e colta, ma io per pri-ma ho difficoltà a fidarmi di lei, sicuramente per-ché non è originaria del nostro villaggio. Viene da Varanasi, la città santa che costeggia il fiume sacro, il padre Gange. ha sposato akshay e vive con la famiglia dei suoceri, a due passi dalla nostra casa. È direttrice di una scuola dove gli studenti, a quan-to si dice, hanno lavagnette e pastelli colorati, divi-se e persino libri di testo. Pare anche che abbiano gli attrezzi da cucina necessari a prepararsi il pran-zo, dopo le lezioni. mi piacerebbe molto frequen-tare la sua scuola, ma la suddivisione arbitraria delle zone e l’età mi hanno sbattuta tra le grinfie di mitalesh.

il maestro, richiamato dagli schiamazzi, sta di-scutendo animatamente con gli adulti che fanno

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cerchio intorno a ramesh il quale, spalleggiato dalla madre, rimprovera il maestro per averci la-sciati in classe da soli. Poonam mi chiede come so-no andate le cose. io ho la gola secca, e fatico a parlare, ma riesco a non piangere, mentre rispon-do: «hanno insultato la mia famiglia».

«ed è per questo che lo hai aggredito?»«Parlano male di mia madre! dicono che è una

prostituta!»«Cosa?» Poonam spalanca gli occhi. «una pro-

stituta?»«sì, è questo che dicono, e dicono che è il moti-

vo per cui mi ha abbandonata! Perché non sapeva neanche chi era mio padre, e non c’era nessuno che potesse provvedere a me!»

«e tu lascia che dicano. Che t’importa, bharti? sono bambini, sai bene che dicono qualunque sciocchezza gli passa per la testa!»

«davvero? se è vero che dicono un sacco di sciocchezze, io glielo voglio impedire, ecco. Vo-glio che chiudano le loro boccacce, questi buoni a nulla!»

Poonam scuote la testa e sospira. «non puoi metterti a fare a botte ogni volta che qualcuno par-la male di tua madre.»

«ah, no? e perché mai?»«Perché certe persone sono fatte così e...»«e...? e tu? magari lo pensi anche tu, che mia

madre è una prostituta? È così?»«non penso nulla, bharti, perché non so nulla di

Page 22: la maestra bambina - api2.edizpiemme.itapi2.edizpiemme.it/uploads/2014/02/566-2218.pdf · braccia e gambe all’aria, come una tartaruga rove-sciata. da quant’è che lo fa, ormai?

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tua madre.» Poonam mi accarezza. «ma non è questo il punto. se ti dico di stare attenta, è perché sono maschi, sono più forti di te, fisicamente, e quindi possono anche farti male. molto male, pur-troppo.»

«no che non possono farmi male. Perché quan-do li affronto non ho niente da perdere, e sono pronta a tutto!»

Poonam rimane senza parole, come sbalordita dalla determinazione che traspare dalle mie paro-le e dai miei gesti. mi piace e le do retta, in genere, ma come può dirmi di permettere alle persone di insultarmi, solo perché loro sono ragazzini e io non so nulla della mia madre biologica? anche mio padre è della stessa idea, sostiene che devo far finta di niente. dice che la maggior parte degli altri bambini è invidiosa di me perché ho una pelle più chiara della loro, il che, nella società indiana, è una caratteristica indiscutibile di bellezza e di nobiltà. ma se le cose stanno così, perché non pensano che mia madre sia una principessa, o una ricca brami-na, che per qualche ragione non ha potuto tener-mi con sé? io non la conosco, non so chi sia, non so nemmeno se è ancora viva, ma non posso ac-cettare che qualcuno infanghi il suo nome e il suo ricordo.