LA LETTERA AI ROMANI - Altervista · 8,5), ad Antiochia e Cipro (At 11,19), e secondo la leggenda...

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LA LETTERA AI ROMANI I destinatari Mentre per altre fra le più importanti chiese antiche vengono nominati nella storia o nella leggenda dei fondatori - apostoli e discepoli degli apostoli in Samaria (At 8,5), ad Antiochia e Cipro (At 11,19), e secondo la leggenda Marco ad Alessandria, Lazzaro a Marsiglia, Tommaso ad Edessa . e in India -, notizie analoghe mancano per la Chiesa di Roma, eminente di certo fin dall’inizio. E possibile che si voglia ricordare che la sua fondazione aveva avuto luogo senza un singolo missionario importante. Il silenzio sia nella lettera ai Romani, sia negli Atti esclude che Pietro si sia trovato a Roma prima di Paolo o con lui, anche se una permanenza successiva a Roma é del tutto possibile. Una notizia del genere é testimoniata già alla fine del I secolo d.C. La testimonianza più antica è 1Pt 5,13 se qui Pietro (pseudepigrafo) scrive la sua lettera da Babilonia=Roma. Pietro e Paolo sono ricordati insieme come apostoli a Roma in 1Clern. 5,14 (nel 95 0 96 d.C.) e da Ignazio di Antiochia in Rom 4,3 intorno al 110). Alcuni primi cristiani potrebbero essersi recati a Roma spinti da uno dei molti motivi possibili a rivolgersi alla capitale dell’impero. Come già da secoli le religioni orientali erano penetrate a Roma, cosi anche il cristianesimo vi arrivò. Come afferma Tacito (Annales 15,44) nella sua prospettiva, «a Roma confluisce da ogni parte tutto quanto è disgustoso e indecente e tutto viene celebrato». È in questo modo che erano arrivati a Roma già da lungo tempo gli Ebrei. Si calcola che al tempo del Nuovo Testamento la comunità giudaica romana contasse circa 50.000 persone. Sono note almeno tredici sinagoghe. Davanti alle porte della città sono stati scoperti vasti cimiteri giudaici in catacombe. Già nel 139 a.C. un pretore si senti indotto ad espellere dalla città, a causa di disordini, tutti i Giudei che non erano

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  • LA LETTERA AI ROMANI

    I destinatari

    Mentre per altre fra le più importanti chiese antiche vengono nominati nella storia

    o nella leggenda dei fondatori - apostoli e discepoli degli apostoli in Samaria (At

    8,5), ad Antiochia e Cipro (At 11,19), e secondo la leggenda Marco ad

    Alessandria, Lazzaro a Marsiglia, Tommaso ad Edessa . e in India -, notizie

    analoghe mancano per la Chiesa di Roma, eminente di certo fin dall’inizio. E

    possibile che si voglia ricordare che la sua fondazione aveva avuto luogo senza un

    singolo missionario importante. Il silenzio sia nella lettera ai Romani, sia negli

    Atti esclude che Pietro si sia trovato a Roma prima di Paolo o con lui, anche se

    una permanenza successiva a Roma é del tutto possibile. Una notizia del genere é

    testimoniata già alla fine del I secolo d.C. La testimonianza più antica è 1Pt 5,13

    se qui Pietro (pseudepigrafo) scrive la sua lettera da Babilonia=Roma. Pietro e

    Paolo sono ricordati insieme come apostoli a Roma in 1Clern. 5,14 (nel 95 0 96

    d.C.) e da Ignazio di Antiochia in Rom 4,3 intorno al 110). Alcuni primi cristiani

    potrebbero essersi recati a Roma spinti da uno dei molti motivi possibili a

    rivolgersi alla capitale dell’impero. Come già da secoli le religioni orientali erano

    penetrate a Roma, cosi anche il cristianesimo vi arrivò. Come afferma Tacito

    (Annales 15,44) nella sua prospettiva, «a Roma confluisce da ogni parte tutto

    quanto è disgustoso e indecente e tutto viene celebrato». È in questo modo che

    erano arrivati a Roma già da lungo tempo gli Ebrei. Si calcola che al tempo del

    Nuovo Testamento la comunità giudaica romana contasse circa 50.000 persone.

    Sono note almeno tredici sinagoghe. Davanti alle porte della città sono stati

    scoperti vasti cimiteri giudaici in catacombe. Già nel 139 a.C. un pretore si senti

    indotto ad espellere dalla città, a causa di disordini, tutti i Giudei che non erano

  • cittadini italici poiché essi mandavano in rovina i costumi romani con culti

    stranieri (Valerio Massimo 1,3,3). Svetonio (Claudius 25,4) riferisce: Claudio

    “scacciò i Giudei da Roma, poiché, aizzati da Chrestus, provocavano

    disordinatamente disordini». Chrestus (“l’utile”) era certamente un tipico nome

    da schiavo. Tuttavia Chrestus nella pronuncia itacistica suonava Christus.

    Svetonio così capì e scrisse forse erroneamente Chrestus in luogo di Christus. Si

    nasconde sotto questo accenno probabilmente una notizia del fatto che alcune

    diatribe tra i Giudei di Roma riguardo a Gesù Cristo avevano suscitato disordini

    che avevano indotto l’imperatore ad emanare un tale provvedimento. Un editto di

    Claudio viene datato all’incirca nel 49 d.C. Già in questa data ci sarebbero cosi

    stati nella città di Roma numerosi giudei-cristiani. Con l’editto furono

    naturalmente colpiti anche loro, giacché formavano con i Giudei sia prima che

    dopo un’unica comunità razziale. D’allora in poi la chiesa romana fu composta di

    cristiani provenienti dal paganesimo. Al gruppo dei giudeocristiani espulsi

    apparteneva secondo At 18,2s. anche la coppia giudeo-cristiana Aquila e Prisca,

    con la quale Paolo si incontrò per la prima volta ad Efeso e che in seguito viene

    ripetutamente nominata e lodata (At 18,26; Rom 16,3; 2Tm 4,19). Proprio questi

    due possono aver dato a Paolo informazione sulla comunità di Roma. Dopo la

    morte di Claudio (54 d.C.) l’ordine di espulsione non venne più eseguito, e sia

    Giudei sia giudeo-cristiani poterono ritornare a Roma. Quando Paolo giunse a

    Roma all’inizio del 59 d.C. lì si trovava di nuovo una comunità giudaica con la

    quale l’apostolo prese ben presto contatto invitando presso di sé i notabili

    giudaici. Alcuni di loro ascoltarono l’annuncio di Paolo, i più però lo rifiutarono

    (At 28, 17-28). La Lettera ai Romani (1,5.13; 11,13; 15,16) sembra presupporre

    prevalentemente dei giudeo-cristiani come destinatari.

    Quando Paolo (nell’inverno 54 - 55) scrive ai Romani, a Roma esisteva

    un’importante comunità cristiana, la cui fede viene già celebrata in tutto il mondo

  • (Rm 1,8) Solo con una certa esitazione Paolo osa presentarsi ai Romani (1,11s;

    15,14s.). Quando Paolo, arrivando in Italia all’inizio del 59 sbarcò sul continente

    a Pozzuoli, trovò anche lì dei cristiani, presso i quali rimase sette giorni. Quando

    poi proseguì per via di terra il suo viaggio verso Roma, gli vennero incontro per

    una parte del viaggio dei cristiani di Roma (At 28,13-15).

    Scopo e contenuto

    Mentre Paolo aveva indirizzato le altre lettere a comunità da lui stesso fondate e

    che egli voleva sostenere dando consigli e aiuti, la comunità di Roma gli era

    personalmente sconosciuta. Quando l’apostolo scrive ad una comunità estranea,

    rimane valido il suo principio che lui non vuole predicare là dove Cristo è stato già

    annunciato (2Cor 10,16;Rm 15,20s.). Ora tuttavia Paolo vuole andare a Roma

    poiché, con l’incarico ricevuto della ‘missio ad gentes’, intende finalmente

    visitare anche Roma, la capitale del mondo, cosa che già da anni andava

    progettando (Rm 1,13-15; 15,23). Proprio quì egli vuole completare il servizio

    sacerdotale dell’evangelo anche fra i pagani (15,16). Poi però Paolo da Roma

    come base vuole proseguire il viaggio verso la Spagna per predicare anche là

    l’evangelo (15,24). Con la sua lettera l’apostolo intende presentarsi alla chiesa di

    Roma nella prospettiva della sua visita. Egli aspetta e si augura un vicendevole e

    arricchente dare e ricevere (1,11s.). Il dono di Paolo è il suo annuncio del vangelo.

    Poiché Paolo conosceva poco le circostanze e le questioni della chiesa

    romana, non si sentiva spinto a discutere e ad ordinare nella sua lettera su cose

    singole (a prescindere del rapporto fra deboli e forti in Rm 14,1 -15,6). Perciò la

    lettera ai Romani è diventata una presentazione di forte impronta delle questioni

    teologiche di fondo con cui Paolo aveva a che fare, e delle convinzioni a cui era

    giunto. L'unico grande tema è quello della giustizia di Dio (1,18 - 8,31). Dio è

    giusto e rende giusti (3,26). Finora era stata l'ira di Dio ad aver dominato sul

  • peccato sia dei pagani (1,18-32) che dei Giudei (2,1-3,20). Ora però la volontà di

    Dio in vista della giustizia si rivela nell'opera di espiazione compiuta per mezzo di

    Gesù Cristo (3,21-26). Ora viene donata la giustizia senza le opere della legge a

    quella fede che accoglie la salvezza di Dio (3,21 - 4,25). Con la giustizia sono date

    anche pace e speranza (5,1-11). La giustizia libera dalla morte (5,12-21), dal

    peccato (6,1-23) e dalla legge, che provoca il peccato (7,1-25). La perfezione è

    l'opera detto Spirito che libererà tutta la creazione (8,1-39).

    Una questione difficile e assillante è per Paolo il «mistero» del suo popolo

    Israele (9,1 -11,36). Da innumerevoli generazioni Israele si sforza di raggiungere

    la giustificazione davanti a Dio con l'adempimento della legge; così facendo alla

    fin fine vuole erigere una sua giustizia arbitraria (19,3). Ora le genti, le quali non

    si sono mai sforzate di ottenere tale giustificazione, sono di certo giunte ad essa

    per mezzo della fede, e Israele perde questa giustificazione (9,30 -10,21). In ogni

    caso una piccola parte di Israele adesso la ottiene. Paolo però ha ricevuto

    misteriose rivelazioni sul fatto che tutto Israele sarà salvato (11,1-32).

    Le lettere di Paolo si chiudono spesso negli ultimi capitoli con parenesi o

    comunicazioni finali di ordine personale. Questo vale anche per La lettera ai

    Romani. I capp. 12-15 vogliono illustrare il retto comportamento del cristiano

    nella chiesa e nel mondo. Il vivere quotidiano deve essere servizio di Dio nel

    mondo (12,1s.). I diritti del singolo e della comunità devono armonizzarsi in un

    certo ordine. L'amore è la legge fondamentale della chiesa (12,3-21). Al potere

    dell'autorità il cristiano deve obbedienza come ad un servitore di Dio (13,1-7). E

    siccome il giorno luminoso della venuta di Cristo sta per arrivare: i cristiani

    devono compiere le opere della luce (13,8-14). Nella comunità di Roma una

    minoranza di gente debole e angosciata sta di fronte a persone forti e di larghe

    vedute. Nella comunità devono aver valore sia la libertà che il rispetto dei singoli

    (14,1-23). Paolo stesso è divenuto servo di tutti (15,1-13).

  • In un'appendice Paolo espone altri suoi progetti di viaggio. Da Roma egli

    intende recarsi in Spagna per una grande opera missionaria. Prima però vuole

    andare a Gerusalemme, per portare là il ricavato della colletta raccolta tra i

    pagani. Egli è molto preoccupato se questo suo servizio verrà accolto bene oppure

    no (15,14-33). Questa preoccupazione si sarebbe poi confermata: a Gerusalemme

    egli doveva soccombere ai nemici (At 21, 19 - 26,32). La lettera si conclude con

    saluti a persone conosciute personalmente dall'apostolo: fra di loro colpiscono le

    molte donne nominate con parole di elogio (16,1-23). Chiude la lettera una

    solenne dossologia (16,25-27).

    Quando Paolo nella lettera ai Romani presenta l'inutilità del paganesimo e

    del giudaismo, egli non discute di cose passate. Ogni religione si trova sempre

    nella situazione del paganesimo quando, come religiosità naturale, intraprende il

    progetto di trovare Dio basandosi sulle proprie capacità e di essere giusti davanti a

    Lui. E ogni religione si trova nella tentazione del giudaismo, quando si affatica di

    continuo per farsi creditrice di Dio attraverso l'adempimento della legge (anima

    semper et pagana et iudaica). Paolo dice che queste due tentazioni sono inutili,

    perché l'uomo - in ogni caso egli si trova - non può crearsi da solo la salvezza, ma

    per lui c'è quella salvezza che Dio vuole donare attraverso la fede. È di questo che

    si deve parlare insistentemente nella chiesa, prima di ogni richiesta morale.

    Questo è l'evangelo.

    Nessuna lettera di Paolo ha avuto nella storia della Chiesa un'importanza

    cosi gravida di conseguenze come al lettera ai Romani. Essa ha presentato

    soprattutto alla teologia occidentale delle tematiche essenziali e

    contemporaneamente ha offerto le soluzioni nell'ambito delle discussioni su legge

    e libertà, opere e grazia. Le grandi ore della teologia occidentale sono state

    sempre segnate dalla lettera ai Romani; così ad es. nelle parole e nelle azioni di un

  • Agostino, di un Martin Lutero, di un Giovanni Calvino, come anche di Cornelio,

    Giansenio e Karl Barth.

    Critica letteraria

    Mentre l'origine paolina della lettera ai Romani (almeno nella sostanza) è

    incontestata, si sollevano invece delle notevoli questioni testuali e

    critico-letterarie relativamente ai capitoli 15 e 16.

    A)Benché resti incontestabile che 15, 1-33 e 16,1-23 provengano da Paolo,

    nel II secolo esisteva però una lettera ai Romani priva dei capp. 15 e 16. Se

    seguiamo una indicazione di Origene, questo era il testo di Marcione; ma non è

    risolta la questione se Marcione abbia recepito questa forma abbreviata oppure se

    l'abbia creata lui stesso. Marcione, il quale rimuove l'Antico Testamento e

    giudaismo dal Nuovo Testamento, potrebbe - questo presumeva già Origene -

    aver tralasciato Rm 15 a causa delle molte citazioni dell'Antico Testamento in

    esso contenute (Rm 15, 3.9- 12) e anche a motivo del riconoscimento dell'Antico

    Testamento fatto in Rm 15,4 e del risalto dato ai privilegi di Israele (Rm 15,8.27).

    Di Rm 16 si poteva fare a meno, poiché il capitolo consta fondamentalmente di

    saluti a molte persone sconosciute. Questa omissione precoce di Rm 15 e 16 ha

    avuto ripercussioni sconcertanti nella storia testuale posteriore. Le nostre edizioni

    attuali del testo, che offrono Rm 1,1 - 16,23; 16,25-27 (per lo più senza 16,24),

    poggiano su una tradizione testimoniata dal Papiro 61 intorno al 700 d.C.), dal

    Sinaitico, dal Vaticano e da antiche traduzioni. L'Alessandrino e altri codici

    riportano la dossologia di 16,25-27 due volte, dopo 14,23 e dopo 16,23. I

    manoscritti della Vulgata a 14,23 fanno seguire immediatamente la dossologia

  • 16,25-27. Il testo costantinopolitano, largamente diffuso nell'antichità, aveva

    quest'ordine: 1,1 - 14,23; 16,25-27; 15,1 -16,23 (24).

    B) Dopo l'omissione di Rm 15 e 16, la conclusione della lettera con 14,23 era

    insoddisfacente: non si trovavano i saluti conclusivi, usuali sia in Paolo che nelle

    lettere antiche. Probabilmente per questo fu creata nel II secolo la solenne

    dossologia di 16,25-27 che doveva servire come conclusione della lettera. Che

    essa non sia originaria lo si suppone già dall'incerta collocazione storico-testuale.

    Accanto all'augurio conclusivo originale di Rm 15,33, Rm 16,25-27 è un

    doppione. Questi versetti si distinguano poi dal linguaggio usuale di Paolo per

    certe particolarità di oggetto e di stile, anche se essi portano avanti il patrimonio di

    idee paolino. Non paoline appaiono delle espressioni come « eterno Dio », « Dio

    che solo è sapiente », « il mistero taciuto per secoli eterni », «nell'eternità».

    Nessun'altra lettera di Paolo si conclude con una dossologia del genere. Rm

    16,25-27 fu creata probabilmente nella scuola di Paolo, la quale conferma e

    celebra qui davanti alla chiesa l'opera perenne dell'apostolo. Dio - così dicono i

    versetti - rafforza la chiesa per mezzo del vangelo dell'apostolo, che è l'annuncio

    di Gesù Cristo fra le genti.

    C) un altro tentativo successivo di creare una conclusione della lettera ai

    Romani abbreviata è il testo di Rm 16,24. Il versetto è tramandato in diverse

    forme e costruito secondo lo schema di altri saluti conclusivi di Paolo (Rm 16,20;

    Gal 6,18; Fil 4,23; Filem 1,25; 2Ts 3,18). Il versetto non appartiene al testo

    originario, e nelle nostre attuali edizioni è collocato giustamente solo

    nell'apparato critico.

    D) Al dato di critica testuale secondo cui Rm 15 e 16 nell'antica tradizione

    mancano, si aggiungono delle questioni che il testo tramandato di Rm 16 solleva

    in aggiunta. Quando Paolo scriveva la lettera ai Romani, non era mai stato in

    precedenza a Roma. In che modo conosce lui, in quella città e in quella chiesa per

  • lui estranee, quei molti cristiani che in Rm 16,3- 10 che sono chiamati per nome?

    Aquila e Prisca, nominati in Rm 16,3, secondo At 18,19.26 e 1Cor 16,19 si

    trattengono ad Efeso. Ora essi si devono trovare a Roma, come sembra dalla

    comunità che si riunisce nella loro casa. Anche Epèneto, la primizia dell'Asia,

    potrebbe essere pensato meglio ad Efeso che a Roma. Alcuni sospettano così che

    in Rm 16 vi sia una originaria lettera ad Efeso, dove Paolo nella sua lunga attività

    aveva certo conosciuto molta gente. Oppure se è difficile pensare ad una lettera

    tutta di saluti, Rm 16 sarebbe il pezzo restante di una (altrimenti perduta) lettera

    ad Efeso. L'accorato avvertimento dal guardarsi da falsi maestri (Rm 16,17-20)

    sarebbe poi mirato ad un motivo ben preciso. Rm 16 manca dunque forse nei

    manoscritti più antichi perché il capitolo è stato aggiunto più tardi? Si dovrebbe

    inoltre cercare di circoscrivere ancora meglio il problema. Rm 16,3-20

    apparterebbe in ogni caso alla lettera agli Efesini scoperta in precedenza. Il saluto

    di 16,20 appare come la sua conclusione. Rm 16,1 e 16,21-23 sembrano però

    appartenere allo stesso gruppo e indicare Corinto come luogo di provenienza. In

    16,1 è nominato Cencre, il porto di Corinto; il Gaio di Rm 16,23 è probabilmente

    lo stesso membro della comunità di Corinto ricordato in 1Cor 1,14. Un'ulteriore

    supposizione è perciò quella che forse Paolo abbia inviato la lettera ai Romani sia

    a Roma che ad Efeso. La lettera per Roma si sarebbe chiusa con l'augurio di

    benedizione di Rm 15,33. Rm 16,1s. e 16,21-23 sarebbero degli speciali saluti

    personali di Paolo mandati da Corinto a Roma. Alla lettera per Efeso Paolo

    avrebbe aggiunto l'attuale testo di Rm 16,3-20 come saluto. Alla più breve

    tradizione romana della lettera fu aggiunta più tardi la sezione Rm 16,3-20

    prendendola dalla tradizione efesina. Il testo più lungo si è imposto come il più

    completo. A questo testo furono aggiunti Rm 16,24 e rispettivamente 16,25-27

    come conclusioni. La maggior parte degli esegeti propende a poco a poco per

    l'opinione che Rm 16 o almeno i versetti 16,3-220 non sarebbero appartenuti in

  • origine alla lettera ai Romani, ma che sarebbero stati una lettera indirizzata ad

    Efeso. Alcuni ritengono pur sempre che queste riflessioni critiche non sono poi

    così costrittive.

    Col vivace movimento di viaggi da cui era attraversato il Mediterraneo di

    allora, sembra del tutto possibile che dei cristiani conosciuti da Paolo nei paesi

    dell'Oriente si fossero nel frattempo trasferiti a Roma. Anche Aquila e Prisca

    potrebbero come mercanti essere ritornati da Efeso alla loro dimora originaria di

    Roma (At 18,2). Paolo però voleva ricordare ad uno ad uno i cristiani di Roma a

    lui noti forse per non apparire lì del tutto estraneo.

    E) Alcune parole ora sull'analisi critica, che anche nella lettera ai Romani

    vuole riconoscere diverse parti, paoline e deutero-paoline. W. Schmitals pensa

    così che nella lettera ai Romani sarebbero unite insieme due lettere di Paolo (Rm

    A soprattutto con 1-11, e Rm B principalmente con 12,1-16,23); non

    mancherebbero poi delle aggiunte redazionali. Si discute inoltre l'ipotesi che nella

    lettera ai Romani oltre a 16,3-20 si potrebbe trovare ancora qualche altro testo

    della già scoperta lettera agli Efesini, come 12, 11 - 15,6 o 14,1 - 15,13. - È

    talvolta considerato non paolino anche l'abile florilegio biblico di 3,10-18 oppure

    le affermazioni incondizionate (ad ogni modo sorprendenti) sull'autorità sfatate in

    Rm 13,1-7. Con fondati motivi Rudolf Bultmann considera piccole glosse i testi

    di Rm 2,1.16; 6,17b; 7,25b; 8,1; 10,17; 13,5.

    L'intricata tradizione di Rm 15 e 16 è descritta minutamente , oltre che nei

    manuali, nelle ricerche di K. Aland, H. Gambler jr., E. Kamlah e R. Schumacher.

    Luogo e data di composizione

    Paolo scrisse la lettera ai Romani (secondo gli accenni di Rom 15,25=At

    20, 1-3) in Macedonia o in Acaia alla fine del terzo viaggio missionario, prima del

    suo ultimo viaggio a Gerusalemme. La casa di Gaio ospitava lui e la comunità

  • (Rm 16,23). Questi è probabilmente quel Gaio di Corinto, che Paolo stesso aveva

    battezzato (1Cor 14,14). Paolo si trattiene dunque a Corinto. In Rm 16,21

    Sosipatro e Timoteo aggiungono dei saluti personali. Con essi Paolo rimase

    secondo At 20,4 a Corinto nella sua permanenza ripetuta in quel luogo. In Rm

    16,1 Paolo raccomanda la sorella (cristiana) Febe, la diaconessa della comunità di

    Cencre, il porto di Corinto, e chiede che essa sia ricevuta bene. Febe doveva

    probabilmente recapitare la lettera. Per tutti questi motivi la lettera è stata

    probabilmente scritta a Corinto. Come tempo si pensa all'inizio del 55 d.C. In Rm

    16,1 e 16,21 si presuppone in ogni caso che entrambi i testi appartengono alla

    lettera originale diretta a Roma.).

    2. Introduzione alla Lettera

    Della lettera ai Romani faremo la « lectìo cursiva exegetica » dei brani che

    formano la struttura portante della nostra lettera, Rm 1,1- 2,16; 3,21-6,14; 8-9; 12-13; 16.

    La lettera ai Romani è la più teologica di Paolo ed è difficile anche la

    comprensione.

    La struttura della lettera

    La lettera ai Romani è compresa come due grandi blocchi:

    L'indirizzo , (Rm 1,1-7) mittente e destinatari, a cui si inframmezza una piccola

    professione di fede, un piccolo credo che tratta del vangelo, della morte e risurrezione di

    Cristo.

    Il ringraziamento (1,8-15) mostra il motivo per cui vuole andare a Roma; Paolo

    infatti scrive questa lettera ad una comunità che lui non ha fondato e che non ha mai visto

    direttamente, anche se egli si mostra molto informato delle situazioni della comunità.

    Paolo dice che si sente in un dovere di reciprocità, “vengo per ascoltare e per parlare”,

  • quindi vuol passare per Roma per uno scambio di fede, infatti la sua meta era la Spagna.

    Il suo arrivo a Roma si realizzerà in modo diverso da quello che lui aveva progettato;

    infatti dopo aver scritto la lettera tornerà a Gerusalemme, all'inizio del 58, sarà

    imprigionato e andrà a Roma due anni dopo nel 60-61 e vi arriverà come prigioniero.

    Dopo il primo processo avrebbe avuto un certo periodo di libertà e quindi avrebbe avuto

    il tempo di andare in Spagna, ma le notizie diventano molto incerte; alcune tradizioni lo

    suggeriscono ma prove schiaccianti non ce ne sono; una volta arrivato a Roma gli Atti

    degli Apostoli che ci guidano in questo viaggio di Paolo, non ci parlano più di lui, lo

    lasciano a Roma anche per un intento chiaramente teologico: Roma era il centro del

    mondo e da qui Paolo può lanciare in tutte le direzioni con una valenza di universalità

    senza nessuna costrizione il suo messaggio.

    Dopo il ringraziamento dal versetto 1,16 abbiamo una 'parte dogmatica' che

    arriva fino a 11,36 (secondo altri studiosi fino al cap. 9); questa sezione è così chiamata

    perché in questa parte prevale la riflessione, prevalgono gli indicativi sugli imperativi, c'è

    un aspetto di ricerca sempre con delle finestre applicative alla situazione concreta.

    Dal capitolo 12,1 al capitolo 15,13 abbiamo la 'parte parenetica', cioè di

    esortazione; per Paolo c'è una continuità inscindibile fra quello che è il vangelo e quella

    che è la condotta.

    La conclusione (15,14-16,27) è formata da due parti, alcune confidenze (15,14 -

    16,23) e la dossologia finale (16,24-27) che portano dei problemi di critica testuale; Paolo

    mostra di conoscere a Roma più di quanto conosce ad Efeso, e infatti qui sorprende la

    sfilza di persone che saluta e che forse ha conosciuto personalmente, forse fuori Roma.

    Le confidenze sono interessanti per sfatare il mito del Paolo antifemminista, infatti parla

    di Tebe, diaconessa della Chiesa di Cencre (16,1) a cui attribuisce un ruolo eccezionale,

    ed è in controtendenza sia con l'ambiente giudaico che con quello greco in cui la donna

    non aveva nessun ruolo ufficiale nella vita pubblica. Quando appunto a Corinto Paolo

    diceva che le donne dovevano stare zitte nelle assemblee è perché lì forse l'atmosfera si

  • surriscaldava molto di frequente e non era consono alle donne parteciparvi, ovviamente

    quella di Corinto era una disposizione transitoria dettata dalle circostanze.

    La parte dogmatica

    Per quanto riguarda la parte dogmatica c'è una discussione ancora in atto: Paolo

    tratterebbe a quattro riprese lo stesso tema di fondo con tre parti:

    • situazione di peccato, (1,16-2,16): « amarti.a », peccato, è il tema ricorrente; e su questa

    situazione di peccato che scombussola l'uomo arriva il dono della giustificazione

    (2,17-5,11); nei tratti di Cristo, che è la « formula uomo».

    Secondo l'opinione di alcuni autori il versetto 13 del secondo capitolo accenna alla

    giustificazione:

    « 13cPerché non coloro che ascolano la legge sono giusti davanti a 'Dio, ma

    quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati ».

    « οὐ γὰρ οἱ ἀκροαταὶ τοῦ νόµου δίκαιοι παρὰ τῷ θεῷ, ἀλλ᾽ οἱ ποιηταὶ τοῦ νόµου δικαιωθήσονται.»

    Quel « δικαιωθήσονται » ha proprio tutta la forza della giustificazione della lettera,

    è un primo guizzo che Paolo proietta in questo quadro piuttosto scuro e tetro.

    Nella seconda parte Paolo insiste in altri termini sul peccato di tutti; citando

    abbondantemente l'Antico Testamento dice che tutti sono inconsistenti, lacunosi: quello che già

    ha detto nella prima parte, facendo un quadro fenomenologico, quasi un documentario, adesso

    tratta questo argomento dal punto di vista anticotestamentario. In questa parte c'è un lungo

    sviluppo della giustificazione: tutti hanno peccato, ma a questa situazione in cui l'uomo si trova,

    Dio risponde offrendo all'uomo la giustificazione, offrendola liberamente, spetterà all'uomo aprirsi

    a questa attraverso l'apertura alla fede; qualunque sia la situazione in cui l'uomo si trova, le opere

    compiute in precedenza non sono in proporzione a questa offerta: la giustificazione è un'offerta

  • gratuita da parte di Dio fatta a tutti. È la fede al primo livello. La situazione dell'uomo si rovescia

    dal negativo al positivo.

    Nei versetti 5,1-11 abbiamo il comportamento da figli: avendo la giustificazione

    abbiamo un accesso diretto al Padre, lo Spirito Santo riversa nei nostri cuori l'amore proprio di

    Dio.

    Nella terza parte (5,12-8,39) troviamo la situazione di peccato vista con il rapporto alle

    origini, si parla di Adamo contrapposto a Cristo; si parla però ancora di un peccato che gli uomini

    portano con sé perché rivivono la situazione di Adamo. È sempre la situazione di peccato vista da

    un'altra angolatura. Su questa situazione di peccato interviene la liberazione di Dio tramite l'offerta

    della giustificazione (cap. 7). Nei Cap. 6 e 7 abbiamo offerta la liberazione, la giustificazione con

    le opere che seguono. Nel capitolo 8 si parla della vita vissuta secondo lo spirito; è il capitolo in cui

    i vari aspetti della condotta propria dei figli di Dio secondo lo spirito sono illustrati e dettagliati.

    A questo punto arriviamo alla quarta sezione che riguarda il problema degli Ebrei; è una

    sezione molto delicata perché riguarda il quadro di dialogo giudeo-cristiano; interpretando questa

    sezione in maniera aderente al testo non c'è una mentalità antigiudaica o antisemita da parte di

    Paolo, infatti egli era un ebreo e se ne vantava; piuttosto c'è una grande sofferenza che lo tormenta

    e che esprime sin dall'inizio, perché la maggior parte dei suoi fratelli ebrei non hanno accolto il

    messaggio di Cristo, il messia. Il problema di fondo è questo: i miei fratelli che non hanno

    accettato Cristo appartengono al popolo eletto, al popolo scelto da Dio, e le scelte di Dio sono

    irreversibili. Allora perché queste scelte si sono arenate davanti a questo blocco del popolo, di

    fronte a Cristo che è i1 dono più grande di Dio? Perché? Cerca di dare una ragione e lo fa con un

    intuizioni molto profonde: i brani classici sulla predestinazione si trovano in questa sezione. Paolo

    cerca di dire qualcosa sulla predestinazione per capire la situazione dei suoi fratelli Giudei che non

    hanno accettato Cristo, e non si pone il problema della predestinazione in generale come poi in

    seguito si è sviluppato e si è complicato nella storia della teologia, più che nella storia della esegesi.

    Ritornando all'esegesi riguardo agli Ebrei Paolo conclude ricordando ai pagani che essi

    sono innestati sulla radice ebraica; Paolo poi è ottimista in prospettiva dicendo che ad un certo

  • punto Israele si convertirà, cioè accetterà Cristo: il « quando » e il « come » Paolo non lo sa e non

    lo dice, lui fa un ragionamento di teologia biblica: se la scelta di Dio del suo popolo è irreversibile,

    e Dio è giusto in quanto la parola pronunciata da Lui si attua, la promessa fatta ad Abramo si deve

    compiere, e siccome di questa promessa fa parte anche Cristo, allora arriverà il momento in cui il

    valore di Cristo entrerà nell'ambito del popolo giudaico. Questi tre capitoli sono molti discussi e

    creano un'infinità di problemi anche di un notevole interesse.

    Quello che interessa a noi è che in questo brano si trovano questi tre elementi che Paolo ha

    enunciato prima, ma si trovano in senso negativo: « il peccato dei Giudei è di non aver

    accettato Cristo perché non gli hanno creduto, gli Ebrei quindi sono rimasti nella condizione di

    peccato antecedente Cristo e sullo stesso piano dei pagani; Paolo parla di una pseudo

    giustificazione: quindi restando ancora una situazione di peccato si ha una falsa giustificazione,

    perché non si è accettato il messaggio del vangelo; questa assenza di giustificazione è chiamata

    'propria giustizia', cioè è il farsi un proprio schema di vita costruendolo con le norme della

    legge, per Paolo allora la giustizia del fariseo che, sostenendo di aver osservato tutti i precetti e di

    essere in regola con la legge, è una giustizia costruita dalla persona stessa, perché la vera giustizia

    viene dall'accettare la vitalità di Cristo che è data da Cristo morto e risorto; se si rimane in un

    ambito di osservanza legate e casuistica, questa ci dà una ‘propria giustificazione’ e non quella

    data da Cristo.

    • C'è un comportamento devitalizzato, cioè i Giudei rimangono nella loro condizione di

    peccato perché, peccatori come gli altri, essi si sono chiusi al dono di Cristo che avrebbe loro

    portato una vera giustificazione e ad una condotta conseguente e proporzionata alla

    giustificazione, sono rimasti chiusi, prigionieri di loro stessi, della loro giustizia, e devitalizzati e

    senza questa vitalità propria di Cristo risorto per quanto riguarda la loro condotta.

    Passiamo alla sezione parenetica, cioè esortativa, Paolo procede privilegiando la parte

    applicativa, esortativa nel senso che prevale l'imperativo; qui c'è una strutturazione che a grandi

    linee ci fa capire la struttura portante della lettera ai Romani. Quando si parla di 'parte parenetica', si

    intende una parte applicativa, che cerca di scuotere le persone nella loro vita quotidiana, come una

  • predica che accentua martellando i vari aspetti della prassi, questa sezione della lettera ai Romani

    però non è una 'parte parenetica' in questo senso, ma nel senso che prevale l'aspetto del vissuto

    inquadrato nei grandi principi che Paolo ha prima esposto nelle precedenti parti della lettera.

    C'è il fondamento (Rm 12,1s) la liturgia della vita, la vita vissuta e alcune punte di

    questa parte sono "il bene che vince il male", "il rapporto con le autorità civili" che al tempo

    della lettera ai Romani era Nerone, che seppur sotto l'influsso di Seneca, non era uno stinco di

    santo. Paolo esorta i Romani ad essere dei buoni cittadini, pagando le tasse, pagare i contributi, ad

    avere un corretto rapporto con le autorità. Poi insiste su "l'amore come pienezza della legge"

    l'amore a cui sono 'appesi' tutti gli altri precetti della legge, e finalmente parla del giorno vicino"

    per dire che il procedimento della storia della salvezza sta avanzando, non dice che la parusia sia a

    breve scadenza, ma solo che ci avviamo verso l'avvento della parusia.

    Una parte importante è quella in cui Paolo parla della vita comunitaria (Rm14,1-15,13);

    il Paolo intransigente a Corinto riguardo all'incestuoso, qui si mostra particolarmente

    comprensivo; i forti sono coloro che sono cristiani maturi, i deboli sono i cristiani all'inizio del

    cammino, gli incerti, fragili. Paolo dice che sia i forti, sia i deboli formano un'unica comunità e si

    devono tenere per mano. "Noi forti dobbiamo portare le difficoltà dei deboli".

    Esegesi di Rm 3,21-26: “Dio giusto e giustificante”

    Movimento letterario del brano

    Questo è un movimento letterario caratteristico. Non basta fare l'esegesi perfetta del testo e

    dei singoli versetti, ma bisogna saper cogliere il rapporto incrociato che i singoli versetti hanno in

    forza dell'insieme, e il trovarsi sempre insieme in un determinato contesto dà loro un dippiù di

    significato che presi singolarmente.

    Indicazioni bibliografiche.

  • VANNI, U. "Il sangue di Cristo e Paolo: realtà, simbolo, teologia'', in Sangue e

    Antropologia nella liturgia 11 (1983), 134-141.

    CADMAN , W.H., "Dikaiosunh Rm 3,21-26", STUDIA EVANGELICA 2 (1964),

    532-534. KASEMANN, E., "ZUM VERSTÄNDNIS VON ROM 3,24-26", IN ZNW 43

    (1950), 150-154. LYONNET, S., "NOTES SUR L'EXÉGÈSE DE L'EPÎTRE AUX

    ROMAINS", BIBLICA 38 (1957), 35-61.

    Il movimento letterario in questo brano è di questo tipo: c'è un presente, c'è un passato a cui

    ci si rifà e un ritorno ad un presente liturgico. Anche il primo presente può essere interpretato

    come un presente liturgico, ma il testo non lo dice esplicitamente a differenza del secondo dove c'è

    una manifestazione della giustizia di Dio, della capacità di giustificazione da parte di Dio che

    avviene e si realizza proprio in un ambiente liturgico.

    Rm 3,2l-22a Presente: nuni. → è il presente in cui si è realizzata e manifestata la realtà della

    giustificazione, cioè del pareggio della formula uomo, « l'immagine di Dio nei tratti di

    Cristo» e la sua realtà storico spaziale e concreta, cioè l'uomo in carne e ossa.

    Rm 3,22b-25a Passato: Questa giustificazione riscatta un passato in cui c'è stato uno squilibrio

    per quanto riguarda la giustificazione; lo squilibrio del passato è rimediato dalla giustificazione del

    presente, il cui vuoto è il peccato. Paolo fa un affermazione molto forte: tutti peccarono, tutti

    hanno avuto bisogno nel passato di questo intervento di Cristo per superare questa lacunosità e

    vuoto del peccato per arrivare alla piena forma della giustificazione, che si manifesta nel presente.

    Nel passato c'è stato il peccato di tutti e l'intervento di Cristo, l'intervento storico della morte di

    Cristo che ha distrutto il peccato e ha permesso la realizzazione della giustificazione.

    Rm 3,25b-26: La realizzazione della giustificazione viene manifestata nel presente della piena

    simultaneità con la liturgia, fatto vedere e reso tangibile nell'esperienza liturgica.

  • I singoli versetti

    v. 21

    Νυνὶ δὲ Adesso però

    χωρὶς νόµου fuori dalla legge

    δικαιοσύνη θεοῦ la giustificazione di Dio

    πεφανέρωται, si è manifestata (e rimane)

    µαρτυρουµένη testimoniata

    ὑπὸ dalla

    τοῦ νόµου καὶ τῶν προφητῶν legge e dai profeti

    L'inizio del verso 21 « Nuni..», esprime bene il quadro pesante della situazione di peccato sia dei

    Giudei che dei pagani. Il verbo centrale e l'asse portante di tutto il versetto è « πεφανέρωται » un

    perfetto che esprime quindi un'azione cominciata nel passato e il cui effetto dura anche nel

    presente. È importante altresì notare che adesso nel nostro presente la giustificazione di Dio si è

    manifestata, e anche nel nostro presente questa manifestazione ci viene testimoniata, fatta capire

    addirittura dalla legge e dai profeti, da un rilettura dell'Antico testamento.

    Nuni. de. : è proprio il presente che Paolo e i Romani stanno vivendo.

    χωρὶς νόµου: al di fuori della legge dell'Antico Testamento; ricordiamo il triangolo dell'Antico

    Testamento: Dio dell'alleanza che ha una istanza operativa che esprime nella Torah, poi ci sono le

    minacce che spingono alla pratica della Torah, e l'uomo che la pratica raggiunge il vertice

    dell'Alleanza; questo triangolo viene ripreso nel triangolo del Nuovo Testamento dove l'origine

    dell'istanza operativa è Dio stesso come Padre che in Cristo manifesta ciò che lui desidera, il tutto

    viene visualizzato e reso attuabile dalla forza dello spirito: e allora l'uomo toma da figlio a livello

    del Padre. Per Paolo la legge dell'Antico Testamento la concretizzazione dell'alleanza,

    contrariamente all'Alleanza stessa, è superata.

    δικαιοσύνη θεοῦ: cioè il pareggio tra la formula uomo e la sua realizzazione storica; la formula

    uomo è « l’immagine di Dio nei tratti di Cristo ». La giustificazione propria di Dio è una

  • giustificazione che non riguarda solo Dio, ma la giustificazione che parte da Dio e raggiunge

    l'uomo; è la giustificazione propria di Dio e non la propria e personale giustificazione costruita

    dall'uomo. Paolo proprio in questa lettera al capitolo 9 polemizza con gli Ebrei che vogliono

    mantenere la 'loro giustificazione', mentre la giustificazione vera è quella di Dio.

    πεφανέρωται: è la giustificazione che scatta quando, ascoltato l'annuncio del vangelo, l'uomo si

    apre con la fede e viene battezzato. Nel contesto del Battesimo quindi comincia la giustificazione;

    essa si è anche manifestata nella morte di Cristo, come dice Paolo in Rm 6:

    « 4cPer mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte,

    perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del ''Padre,

    così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. »

    Paolo dicendo 'siamo stati sepolti' allude al battesimo per immersione che era in uso nella

    Chiesa primitiva e che dà l'idea di uno scendere in un sepolcro e uscirne, altrimenti l'allusione alla

    sepoltura sembrerebbe un po' fuori contesto. Nel rito del battesimo non solo si realizza, ma viene

    anche espressa, c'è una specie di presentazione visibile della giustificazione perché essa consiste

    nel lavarsi dal peccato, lo scendere nell'acqua, e il successivo emergere dall'acqua sottolinea la

    piena partecipazione alla risurrezione di Cristo.

    La giustificazione quindi iniziata nel rito del battesimo continua a manifestarsi nella liturgia della

    Chiesa, come anche nella cena. La manifestazione quindi vera e propria è nell'ambito del rito del

    battesimo.

    Una volta che il cristiano è battezzato ritrova nell'Antico Testamento indizi di questa

    giustificazione, che avviene fuori della legge.

    ♦ µαρτυρουµένη ὑπὸ τοῦ νόµου καὶ τῶν προφητῶν: l'espressione « τοῦ

    νόµου καὶ τῶν προφητῶν » è una frase fatta per indicare l'insieme dell'Antico

    Testamento. Paolo dice due cose importanti: la giustificazione, propria di Dio,

    adesso si è rivelata ed è stata testimoniata. Sono due aspetti collegati, ma diversi: sono

    stati manifestati nel mistero pasquale come si sono poi applicati al cristiano nel

    battesimo.

  • L'evento applicato al cristiano fa sì che egli fattivamente, ontologicamente partecipi alla morte e

    alla risurrezione di Cristo; lo svolgimento del rito e anche la vita che il cristiano continuerà a fare

    dopo alimentata in modo particolare dalla cena eucaristica, tutto questo allora continuerà a

    manifestare ed esprimere questa realtà fondamentale che è avvenuta, e cioè purificazione,

    liberazione da tutto quello che ingombra l'interiorità del cristiano e poi impronta nel cristiano della

    formula stessa dell'uomo e del cristiano, cioè « l'immagine di Dio nei tratti di Cristo ».

    La testimonianza è un fatto successivo: una volta che il cristiano possiede questa realtà e la vede

    anche espressa nella sua liturgia e nella sua condotta, la ritrova anche testimoniata e affermata

    nella legge e i profeti. La « sedaka » che è attribuita a Dio nell'ambito dell'Antico Testamento è

    la fedeltà che Dio ha rispetto alle sue promesse e soprattutto questa capacità transitiva che Dio ha

    nel rendere l'uomo giusto, nel far sì che l'uomo faccia pareggio tra la sua formula e la sua realtà

    concreta.

    v. 22a

    δικαιοσύνη δὲ θεοῦ giustificazione di Dio

    διὰ πίστεως Ἰησοῦ Χριστοῦ attraverso la fede in Gesù Cristo

    εἰς πάντας τοὺς πιστεύοντας per tutti coloro che credono

    v. 22b

    οὐ γάρ ἐστιν διαστολή non c’è infatti differenza

    v. 23

    πάντες γὰρ ἥµαρτον tutti infatti peccarono

    καὶ ὑστεροῦνται e sono privati

    τῆς δόξης τοῦ θεοῦ della gloria di Dio

  • Il punto più delicato lo troviamo nel versetto 22: ci spostiamo dal presente al passato. Il presente lo

    abbiamo ancora nel 22a, mentre nel versetto 22b abbiamo proprio quel riferimento al passato che

    è il punto centrale del riferimento al passato.

    Paolo ha bisogno di spiegare questa giustizia e giustificazione di cui ha parlato: la giustificazione

    di Dio attraverso Cristo raggiunge coloro che credono. Nel verso 22a abbiamo il problema del

    «Ἰησοῦ Χριστοῦ» che può essere inteso o come genitivo soggettivo o genitivo oggettivo: fede

    in Gesù, o fede propria di Gesù Cristo. Paolo ci dice che «adesso », nel nostro tempo

    liturgico, nel nostro presente simultaneo ci troviamo insieme, con una allusione all'assemblea

    liturgica. Col versetto 22 siamo con lo sguardo al passato che va rapportato a quello che Paolo ha

    detto: nel nostro presente la giustificazione propria di Dio si è manifestata e rimane manifestata

    perché Dio l'ha rivelata e l'ha donata in Cristo, e rimane manifestata anche nella vita dei cristiani, e

    adesso vedremo come. La giustificazione non è qualcosa che viene fatta solo vedere, manifestata,

    ma viene fatta vivere e donata a ogni cristiano. C'è una bipolarità: manifestazione da parte di Dio,

    che è cominciata e che continua, accoglienza da parte dell'uomo che è cominciata e che continua e

    che rende visibile la manifestazione avvenuta. Quando il cristiano vive la sua giustificazione in un

    certo senso dimostra e testimonia che questa giustificazione è veramente cominciata ad esistere e

    continua ad esistere.

    C'è un dinamismo che consiste nel portare il contenuto della manifestazione stessa verso tutti

    quelli che credono; quel « εἰς πάντας τοὺς πιστεύοντας » è importante perché mostra la

    direzionalità e l'intenzionalità di questa manifestazione della giustificazione da parte di Dio.

    Non c'è infatti differenza perché sia i Giudei che i non Giudei sono in uno stato di non

    giustificazione perché tutti peccarono e sono privi della gloria di Dio, la realtà valore di Dio che in

    un certo senso coincide con la giustificazione: la gloria di Dio sulla linea di quello che abbiamo

    detto, il peso specifico di Dio, quello che qualifica Dio come tale, il pieno valore di Dio viene

    comunicato all'uomo con la creazione, in un'immagine che tende a diventare somiglianza; allora

    se l'uomo è immagine vera di Dio che poi diventa somiglianza, per cui guardando l'uomo si pensa

    a Dio, allora c'è nell'uomo questo valore o questa qualità di Dio e quindi c'è in un certo senso la

  • gloria di Dio; però l'uomo peccando crea un vuoto e le lacune nel suo sistema portano via parte di

    questa immagine e somiglianza di Dio: l'uomo che pecca si priva della gloria, del peso specifico

    di Dio che dovrebbe avere e quindi non è più giustificato, cioè non fa più pareggio tra quello che è

    la formula uomo, l'immagine di Dio nei tratti di Cristo e la sua realtà.

    Approfondiamo l’espressione “διὰ πίστεως Ἰησοῦ Χριστοῦ”, ‘attraverso la fede di Gesù

    Cristo: abbiamo detto che possiamo intendere il genitivo “Iesou Christou” soggettivo o oggettivo.

    L’interpretazione più comune, “la fede in Gesù Cristo”, è quella che intende il genitivo come

    oggettivo, cioè la fede che permette di accogliere il messaggio del Vangelo, il Cristo morto e risorto.

    Questa interpretazione è sen’altro plausibile, però c’è da chiedersi se sia l’unica, perché

    l’espressione ‘la fede di Gesù Cristo’ sembra dire qualcosa di più: tende ad attribuire un

    atteggiamento di fede anche a Gesù Cristo, personalmente (genitivo soggettivo: Cristo è il soggetto

    della fede). Diciamo subito però che non si può attribuire in modo assoluto il nostro atteggiamento

    di fede a Gesù Cristo, uomo, per la natura divina infatti non avrebbe alcun senso.

    Mai, in Paolo e negli altri autori, Gesù appare ‘soggetto di fede’, mai si usa il verbo pisteuo

    riferendolo a Gesù. Che gli uomini dovessero credere è abbondantemente attestato sia in Paolo che

    in Giovanni, ma è sempre riferito all'uomo e non a Gesù. Gesù quindi non diventa un soggetto di

    fede come lo siamo noi. Detto questo si può escludere qualunque atteggiamento di fede, una 'fede

    analogica' in Gesù? Molti studiosi oggi tendono a rispondere negativamente, cioè non si può

    escludere in Cristo un tipo di fede, che non è la nostra, ma che ha con quest'ultima qualche punto di

    contatto.

    Quella fede con cui accettiamo il vangelo, primo livello di fede, ci permette di accogliere

    Gesù Cristo; accogliendo Gesù Cristo morto e risorto accogliamo un Gesù vivente che ci da tutte le

    virtualità della sua morte e risurrezione; se dunque è vivente quelle che sono i suoi atteggiamenti e

    scelte di fondo tendono a trasferirsi da lui a noi: è dunque la partecipazione della vitalità di Cristo

    risorto, che pervade tutti gli aspetti della nostra vita. A questo punto c'è un atteggiamento di fondo di

    Gesù analogo alla fede che è l'affidamento al Padre: Gesù si affida sempre al Padre, è un

    entusiasta del Padre, quello che fa lo fa amando e dialogando con il Padre. Questo atteggiamento ha

  • qualche punto di contatto con la fede che è un affidarsi completamente al Padre che ci dona la

    ricchezza di Cristo. Questo punto di contatto importante non è il contenuto, Cristo che mi viene

    dato, ma è l'atteggiamento di fondo di Cristo che è l'affidamento che ha avuto nei riguardi del Padre

    e che diventa anche mio con la fede al primo livello.

    La fede è un'apertura, non è una produzione, essa è semplicemente un dire 'sì, facendo un

    esempio può essere paragonata ad un interruttore che mi fa passare la corrente elettrica per

    accendere una lampadina. Se però non c'è un contenuto (Cristo = corrente elettrica) a poco serve

    questa apertura. Se Dio non fosse sempre in questo atteggiamento di dono nei riguardi di Cristo,

    potremmo avere tutte le aperture della fede, ma il dono di Cristo non entrerebbe in noi: entra perché

    Dio ce lo dà in continuazione.

    Questo scaturisce dal fatto che Paolo sente la polemica riguardo le opere della legge: "fai

    quello che la legge dice altrimenti non arrivi al livello dell'alleanza"; Paolo dice che le opere sono

    rilevanti prima della fede: quello che per Paolo va fatto è aprirsi a questo dono di Dio, poi verranno

    anche le opere.

    L'affermazione « πάντες γὰρ ἥµαρτον » è un'affermazione di categoria, Giudei e non Giudei, non è

    quindi necessariamente un 'tutti' distributivo, ci potevano essere delle eccezioni, delle persone molto

    rette come nel campo pagano con la figura di Seneca che non coincide con l'atteggiamento che

    Paolo descrive nella sua lettera. Il peccato per Paolo è una lacuna ed usa tre termini per designarlo:

    => , amarti.a amarta.nw: amartìa è un bersaglio non colpito, lo sbagliare nel colpire un

    bersaglio. C'è Uno sbaglio, una lacuna che viene portata in campo morale: ci sono delle esigenze

    che non vengono rispettate, c'è un vuoto che costituisce il peccato. Quando nell'Antico Testamento

    il contesto è determinato dalla legge evidentemente amartìa quasi sempre è un peccato legale, è

    un vuoto che si realizza rispetto alle esigenze della legge. Per quanto riguarda i pagani Paolo dice

    che anche i pagani che non hanno "la Legge" sono legge a se stessi', perché essi trovano dentro di

    loro delle istanze operative che rispondono ad un piano operativo che essi non rispettano.

    Queste sono delle lacune che riguardano l'uomo, cosa interessano a Dio? E’ allora utile

    ricordare che quando Dio crea l'uomo, lo fa coinvolgendosi, con amore, con passione. E allora se

  • questo uomo non si realizza e si rovina, è chiaro che Dio rimane offeso, ferito e soprattutto poiché

    lo ama Dio si irrita, si arrabbia; Dio non si offende perché i suoi diritti sono stati violati, ma perché

    ama e rimanendo in disagio e contrariato non tollera le lacune dell'uomo.

    => parabasij trasgressione, "trans-gressio" cioè un muoversi al di là: c'è la legge che indica une

    certa linea di comportamento ed io rispetto a questa linea vado al di fuori; faccio mancare nel mio

    contesto un elemento che doveva essere presente, quindi faccio un vuoto nel mio quadro.

    => para,ptwma, da parapi,ptw, indica un passo falso che fa cadere, se l'uomo non si comporta

    secondo questo quadro di riferimento che lo porta alla realizzazione, fa delle scelte diverse che lo

    fanno cadere.

    Tutti peccarono quindi, senza distinzioni per le loro scelte, perché le loro scelte sono andate al di

    fuori di quella linea che Dio aveva proposto sia ai giudei, sia ai pagani.

    Continuando l'esegesi del nostro brano ci viene precisato da parte di Paolo che «πάντες γὰρ

    ἥµαρτον», tutti peccarono; e quale è il risultato del peccato, da comprendersi nelle due aree

    culturali in cui Paolo si trova, Giudei e pagani? Paolo inoltre insiste che tutti peccarono « e sono

    privi della gloria di Dio », cioè gloria nel senso di peso specifico di Dio, di una realtà propria di

    Dio; non è che l'uomo priva Dio della sua gloria perché ciò sarebbe impossibile, ma priva se stesso

    della gloria divina, si espropria di qualche cosa propria di Dio. Questa espressione quindi a prima

    vista è paradossale, Paolo infatti dice che compete proprio all'uomo questa somiglianza e immagine

    di Dio per cui l'uomo è stato fatto secondo la formula uomo, immagine di Dio nei tratti di Cristo.

    Riassumendo quindi possiamo dire che secondo Paolo l'uomo si priva di qualcosa che è suo

    proprio che non è chiuso nell'orizzonte umano ma che è aperto alla trascendenza per volere di Dio:

    nella misura in cui l'uomo non realizza se stesso, toglie quel qualcosa di Dio che Egli aveva messo

    nell'uomo, e nella misura in cui l'uomo si distacca da Dio toglie qualcosa da se stesso.

    Un'ultima osservazione è tener presente che questa privazione della gloria di Dio, della realtà

    propria di Dio che l'uomo attua nel suo contesto con il peccare, non è qualcosa solo di metafisico, di

    ontologico, bensì concerne anche il comportamento. L'uomo che non si realizza a immagine di Dio

  • si realizza a immagine rovesciata; infatti se si realizza a immagine di Dio egli realizza i valori

    positivi nella sua vita privata, sociale e politica: è l'uomo che realizza la legge di Dio (Antico

    Testamento).

    Paolo ora con il verso 24 mischia un po' il presente con la situazione passata; egli constata

    che la giustificazione è già in atto come processo però essa si basa su un evento che appartiene al

    passato, la morte e risurrezione di Cristo con la forza di liberazione; nel presentare quindi la

    giustificazione che si sviluppa nel presente tiene ancora un occhio rivolto al passato, e tiene presente

    anche quello che della giustificazione è già attualità, che si svilupperà ancora in futuro.

    v. 24

    δικαιούµενοι δωρεὰν giustificati gratuitamente

    τῇ αὐτοῦ χάριτι per la sua benevolenza

    διὰ τῆς ἀπολυτρώσεως per mezzo della redenzione

    τῆς ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ quella in Cristo Gesù

    Il participio « δικαιούµενοι », giustificati è un presente per cui indica una continuità, una

    specie di giustificazione che avanza. Il termine « δωρεὰν » è ben tradotto con gratuitamente, ma

    è rifacendoci all'etimologia giustificati come dono, non ci si rifà ad una gratuità commerciale,

    come un regalo apparente , ma c'è da parte di Dio una benevolenza che si fa dono. Paolo poi

    sottolinea ulteriormente questa benevolenza di Dio con un dativo di collegamento, per mezzo della

    redenzione quella in Cristo Gesù.

    C'è un rapporto tra « δικαιούµενοι δωρεὰν » e la conclusione « ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ »; questa

    giustificazione ci viene in rapporto con Cristo Gesù: questo sottolinea che questa redenzione attuata

    da Cristo Gesù non è un prezzo pagato alla giustizia del Padre, ne tantomeno al demonio, perché se

    ci fosse stata questa esigenza da parte della giustizia di Dio, cioè l'uomo contrae un debito con Dio e

    questo viene pagato da Cristo che dà la vita, il versetto 24 non avrebbe nessun senso, non ci sarebbe

    più una giustificazione gratuita, ma è Cristo che paga il debito dell'uomo. Invece Cristo dà la sua

    vita per l'uomo, il Padre la accetta ma tutto in un dialogo misteriosissimo di amore.

  • Anche la redenzione, questo riscatto-ricompera di cui parlavamo, che Cristo ha attuato è

    essa stessa un dono particolare della bontà e della benevolenza di Dio.

    Paolo realizza un approfondimento in rapporto con l'Antico Testamento facendo un

    paragone ardito fra il coperchio dell'arca e la vita donata da Gesù Cristo: è un brano difficile e

    controverso.

    v. 25

    ὃν προέθετο ὁ θεὸς ἱλαστήριον che Dio progettò propiziatorioδιὰ

    τῆς πίστεως, ἐν τῷ αὐτοῦ αἵµατι tramite la fede nel suo sangue

    εἰς ἔνδειξιν τῆς δικαιοσύνης αὐτου per la manifestazione della sua giustizia

    διὰ τὴν πάρεσιν τῶν προγεγονότων ἁµαρτηµάτων tramite la remissione dei peccati

    antecedenti

    v. 26a

    ἐν τῇ ἀνοχῇ τοῦ θεοῦ nella pazienza di Dio

    Alcuni traducono il verbo « προέθετο » con progettare, altri studiosi lo traducono con

    esporre: la differenza da fare è che il progettare è nell'eternità propria di Dio, mentre esporre è

    mettere davanti ed entrambi i significati sono propri di questo verbo, ma a detta del professore è

    preferibile il significato di progettare. Gesù Cristo è pensato quindi come uno strumento di

    propiziazione « ἱλαστήριον », che Cristo realizza nel suo sangue e di cui il cristiano si appropria

    mediante la fede. Lo scopo del progetto di Dio è la manifestazione della sua giustizia, della sua

    capacità di giustificazione. Il significato di fondo è questo: il peccato di per sé offende Dio perché

    l’uomo, facendo la scelta sbagliata del peccato, contraddice l’indicazione che Dio gli dà, e quindi fa

    un danno a se stesso e a Dio che è colui che ha fatto l’uomo. Di fronte a questo uomo che si auto

    lesiona Dio ha un atteggiamento di sopportazione. Il termine ἀνοχῇ in prospettiva vuole indicare

    che Dio ha una capacità di sopportazione e potremmo aggiungere quello che Paolo dice altrove,

    cioè che Dio è Padre, è Padre con cuore di Madre e allora possiede questa pazienza costruttiva,

  • quelle risorse di amore all’infinito proprie di un padre con cuore di madre come il profeta Isaia ci

    presenta (Is 66,13)

    Ora passiamo dal passato al presente.

    ὃν προέθετο ὁ θεὸς: il « προ » può intendersi o in senso spaziale "davanti", una

    visualizzazione della croce, o in senso temporale trascendente "prima"; se intendiamo il « προ »

    secondo la prima ipotesi avremo il significato di "porre avanti a", cioè Dio fece una specie di

    manifestazione visiva del Cristo, percettibile e visibile, se intendiamo il « προ » secondo la seconda

    ipotesi allora avremo “porre prima”, nel 'prima' di Dio, cioè nella sua trascendenza, il che è

    tipico del ragionamento di Paolo. É preferibile il senso di prima temporale, un 'prima' che

    aggancia la trascendenza divina.

    ἱλαστήριον: Cristo è paragonato al "coperchio propiziatorio" «ἱλαστήριον evpi,qema»; è

    l'unica volta nel Nuovo Testamento che questo aggettivo si trova come sostantivo. C'è una

    allusione che Paolo ha in mente, e chissà quanto i Romani ne hanno capito!! Infatti anche la

    comunità giudaica di Roma non sembra che fosse una comunità particolarmente istruita come

    quella per esempio che era ad Alessandria, che aveva una familiarità con l'Antico Testamento tanto

    da cogliere queste allusioni. Paolo prende l'immagine del coperchio dell'arca dove una volta l'anno

    nel giorno dell'espiazione veniva versato il sangue del capro espiatorio, e attraverso il sangue

    versato secondo un rito descritto in Lv 16, venivano espiati, annullati i peccati del popolo.

    Questa specie di sacrificio toglieva i peccati del popolo: il Sommo Sacerdote entrava nel

    santo dei santi e versava il sangue sul coperchio dell'arca e questo rito metteva in armonia Dio e il

    suo popolo. Partendo probabilmente da questo uso Paolo arditamente dice che Cristo nella sua

    azione di ricompera-redenzione svolge la stessa azione del coperchio dell'arca spruzzato di sangue,

    cioè di stabilire l'armonia tra Dio e il popolo. Non è stata inoltre una iniziativa di Dio, ma è Dio che

    l'ha progettato come 'STRUMENTO DI PROPIZIAZIONE' per compiere la redenzione, con una

    grandissima differenza che il sommo sacerdote offriva il sangue di un animale e questo ristabiliva

    l'armonia, Cristo invece dà la sua propria vita; il sommo sacerdote si serviva di un propiziatorio, il

  • coperchio dell'arca diveniva luogo di propiziazione, analogamente Cristo, in questo dono della sua

    vita realizzato nella croce, diventa luogo di riconciliazione totale tra l'uomo e Dio.

    Il tutto avviene « διὰ τῆς πίστεως », attraverso la fede, e questo fa un po' di difficoltà perché

    nel testo sembra messo con una certa violenza; di fatto se si pensa al contesto di Paolo questa

    violenza non si trova perché Paolo non si stanca di ripetere, anche in polemica con i Giudei, che

    l'elemento che ci permette di appropriarci della ricchezza della morte e risurrezione di Cristo è

    l'apertura della fede e non le opere che abbiamo fatto. Vedi le argomentazioni sulla fede di Gesù al

    versetto 22a.

    ἐν τῷ αὐτοῦ αἵµατι: il suo sangue è la vita donata da Cristo, ma siccome Paolo si sta spostando dal

    passato al presente, e vedremo nel versetto seguente una accentuazione molto forte del presente, è

    chiaro che la vita donata da Cristo ha anche come secondo significato nel prolungamento del primo

    un significato eucaristico perché nella cena si annunzia la morte del Signore e si assimila, come

    abbiamo visto a Corinto, la morte del Signore con tutte le sue implicazioni della propria vita.

    εἰς ἔνδειξιν τῆς δικαιοσύνης αὐτου : per dimostrare la sua giustizia ; questo è un punto importante

    per una giusta interpretazione: riguardo l'ipotesi della visualizzazione, interpretando la crocifissione

    come una dimostrazione, viene spontaneo quindi dire che Dio nella crocifissione ha mostrato la sua

    giustizia; scatta allora l'idea della giustizia commutativa del Padre soddisfatta dal dono del sangue di

    Cristo: questa interpretazione non sarebbe comunque giustificata, perché la manifestazione della

    giustizia di Dio è la capacità di rendere l'uomo giusto, piuttosto che una giustizia che esige. Nella

    seconda interpretazione un po' più profonda, sulla linea di Paolo, è che Dio nella crocifissione

    mostra sicuramente quanto chiede al Figlio per spostarci dalla situazione di non appartenenza ad

    una situazione di omogeneità, ma visualizza la sua capacità di giustificazione e non la sua giustizia

    da tribunale, mostra cioè la capacità di rendere l'uomo in pareggio con quel suo progetto nei suoi

    riguardi, cioè fare di lui l'immagine di Dio nei tratti di Cristo.

    Quindi se interpretiamo « προέθετο » e « ἱλαστήριον » sulla linea di progettare nella sua

    eternità come mezzo di propiziazione e di recupero, allora questa visualizzazione non si riferisce

  • all'evento della croce ma alla vita cristiana. Dio quindi ha pensato a Cristo crocifisso come luogo

    dove avviene questo superamento totale della peccaminosità; l'uomo può essere peccaminoso

    quanto vuole, può disubbidire alla legge, ma viene, se vuole, raggiunto da questa capacità

    vertiginosa di recupero che egli ha nei riguardi dell'uomo realizzata nella croce, e la manifesta in

    quella giustificazione che si realizza nella vita cristiana; quando il cristiano, giustificato, comincia ad

    amare gratuitamente, realizza i valori di Dio nei tratti di Cristo, e questo si vede, allora in questa

    realizzazione dei valori cristiani delta vita si legge la giustificazione di Dio, la capacità che ha Dio di

    giustificare l'uomo.

    Tutto questo presuppone la remissione dei peccati avvenuti in precedenza « διὰ τὴν πάρεσιν τῶν

    προγεγονότων ἁµαρτηµάτων »: « ἁµαρτηµa » indica non tanto l'atto di peccato, lo suppone, ma il

    risultato di una azione, quindi qui indica non solo gli atti di peccato avvenuti prima, ma gli effetti

    causati dagli atti di peccato. Paolo qui indica quindi la remissione delle conseguenze degli atti di

    peccati avvenuti in precedenza.

    ἐν τῇ ἀνοχῇ τοῦ θεοῦ: Dio di fronte al peccato non scatta punendo l'uomo, non lascia l'uomo nella

    situazione in cui l'uomo precipita, ma con il suo amore lo sopporta e lo supera.

    πρὸς τὴν ἔνδειξιν per la manifestazione

    τῆς δικαιοσύνης αὐτοῦ della giustizia di lui

    ἐν τῷ νῦν καιρῷ nel tempo di adesso

    εἰς τὸ εἶναι αὐτὸν per essere lui

    δίκαιον καὶ δικαιοῦντα giusto e giustificante

    τὸν ἐκ πίστεως Ἰησοῦ chi è dalla fede di Gesù.

    Paolo qui non ci dice niente di nuovo, insiste sulla manifestazione che nella linea

    dell'interpretazione di « προέθετο » come progettare avviene nell'ambito della vita cristiana con

    una probabile insistenza sull'assemblea liturgica. Non è solo la manifestazione della giustizia intesa

  • come capacità giustificante di Dio avvenuta nell'evento della crocifissione, Paolo insiste sul presente

    « ἐν τῷ νῦν καιρῷ », in cui c'è una manifestazione, una visualizzazione attiva della giustizia di

    Dio che avviene sempre mediante la fede.

    πρὸς τὴν ἔνδειξιν: "endexin" è una manifestazione attiva, da « dei,knumi » da cui il latino

    "dico", esprimo parlando, evidenziando.

    τῆς δικαιοσύνης αὐτοῦ: questa è la giustificazione che solo Dio dà; non è una giustificazione che

    l'uomo fabbrica da solo, ma una giustificazione che Dio ha e vuol dare in dono.

    ἐν τῷ νῦν καιρῷ: questo è importantissimo soprattutto riguardo la distinzione con «cro,noj »: «

    cro,noj » indica il tempo in generale, tutta la linea del tempo, « kairo,j » invece è una parte di

    questa linea del tempo con delle caratteristiche particolari. Quando Paolo usa quindi «kairo,j»

    indica un tempo particolare, non un giorno, un mese, un anno, ma un periodo con caratteristiche

    che lo distinguono dal tempo in generale e da altri « kairo,i ». Paolo ha in mente questo segmento

    di tempo che lui sta vivendo insieme ai Romani.

    Dio mostra-visualizza-dice la sua capacità di giustificazione nel tempo in cui stiamo parlando, nel

    nostro tempo, nella nostra vita in cui ci sono i tratti e le gemme della giustificazione in modo che

    Dio « εἰς τὸ εἶναι αὐτὸν δίκαιον καὶ δικαιοῦντα » è giusto e giustificante. Dio è giusto non nel senso

    della giustizia commutativa ma nel senso che fa pareggio tra quelle che sono le sue promesse e la

    loro realizzazione nella storia, Dio se promette di salvare salverà: c'è un pareggio tra quello che

    esprime di se stesso e quello che poi farà di fatto nella storia. Se Dio è davvero giustificante allora la

    sua azione produce quindi un certo pareggio, non proprio quello finale, nell'uomo che si apre con la

    sua fede al vangelo, accettando poi i contenuti di Cristo in un secondo livello di fede.

    Il cristiano è « τὸν ἐκ πίστεως Ἰησοῦ » colui che è dalla fede di Gesù. Perché il cristiano abbia

    la stessa aspirazione oblativa di fondo di Gesù si richiede una assimilazione, tempo, una crescita

    della sua omogeneizzazione cristologica, una cristificazione del cristiano: solo quando questa

    cristificazione almeno in parte è già avvenuta (nel secondo livello di fede) ha senso la frase che

    qualifica il cristiano come colui che è dalla fede di Gesù, che nasce e fiorisce dalla fede di Gesù.