LA LENTE DIVENTARE VECCHI IN APICOLTURA (I PARTE) · vendo col dolore ma ogni sera, torna-to a...

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14 RIVISTA NAZIONALE DI APICOLTURA | FEBBRAIO 2018 | APINSIEME AMBIENTE SOCIALE DIVENTARE VECCHI IN APICOLTURA (I PARTE) Probabilmente molto di quello che accade in apicoltura quando si va avanti con gli anni capita anche in altri settori dell’esperienza umana. E probabilmente è difficile generalizzare, partendo dalla propria esperienza. Si può però, almeno, raccontarla e verificare a che livello (poco o tanto che sia) possa risultare condi- visa o utile Paolo Faccioli D iventare vecchio nel con- testo dellapicoltura ha avuto per me due impor- tanti effetti, uno sul piano fisico e uno sul piano mentale. Sul piano fisico è ovvio. Il corpo si dete- riora e il lavoro non è certo dei più leggeri. Come è noto, non esistono malattie professionali in apicoltura, perché se ci fossero vorrebbe dire che qualcuno non usa correttamente le disposizioni sulla sicurezza del la- voro. Diciamo allora che ci sono delle malattie che vengono del tutto spon- taneamente, ma che intralciano in modo particolare la nostra quotidia- nità di apicoltori. E sono soprattutto patologie articolari. Il prima proble- ma è: «Vado dal medico, o tengo du- ro?» Ho il sospetto che la seconda soluzione sia maggioritaria tra gli esponenti di un lavoro virile come lapicoltura. Almeno in una prima fase. Nella seconda, quando certi gesti quotidiani diventano impossibi- li, quando si fa esperienza di veri e propri stati di paralisi, quando si ar- ranca zoppicando per lazienda, la prima soluzione guadagna adepti. Sono stato anchio un adepto della prima soluzione, ma nella seconda fase. Per un anno ho lavorato convi- vendo col dolore ma ogni sera, torna- to a casa, mi concedevo una virile anestesia: una bottiglia di lambrusco. Il che nel frattempo ha danneggiato il mio fegato e creato una strana dina- mica da co-dipendenza alcoolica con la mia compagna, che per non veder- mi svuotare tutta la bottiglia me ne sottraeva una parte bevendola lei, per il mio bene. Altri colleghi si sono procurati lo stesso danno con gli anti- dolorifici, e allora io mi consolo: all in- terno di una scelta comunque un poperversa almeno la mia è stata più edonistica. Da quando però ho dovu- to affrontare la dura realtà perché ormai avevo bisogno di aiuto per al- zarmi dal letto, sono diventato un paziente motivato e zelante. Non al punto da consigliare ad altri i rimedi da me adottati come se fossero uni- versali (cosa che non vorrei fare nem- meno qui). Se ho trovato un grande aiuto nel mio ortopedico, non è stato solo in termini di diagnosi e prescri- zioni, ma di savoir vivre”. La prima cosa che mi ha colpito di lui è stato il suo modo di presentarmi la diagnosi. Le parole possono essere pesanti come pietre, suonare come condanne, spaventare, deprimere, e io temevo soprattutto che pronun- ciasse le parole ernia del di- sco(come altri temono di sentirsi dire Lei ha un cancro”; “Ha avuto unischemia e rischia di diventare cieco”, “Lei ha losteoporosi e se cade si sbriciola” … cose così). Invece? Si è avvalso di un modellino dell arti- colazione vertebrale che aveva sul tavolo e muovendolo mi ha spiegato e fatto comprendere ciò che mi face- va soffrire, nei termini di un proces- so. E un processo, una volta compre- so, ti rendi conto anche di che entità è stato il tuo contributo al suo verifi- carsi e quale sarebbe leventuale tuo contributo a non alimentarlo oltre, o addirittura a invertire la rotta. Capisci anche che è stato stupido, per provare la tua virilità, tenere duro fino a quel punto estremo. E allora, di fronte alle cure proposte, sarai meno portato a tirar fuori scuse come non ho tempo”, “ho altro per la testa”, “io di esercizio ne faccio abbastanza in apiario”. Questo ha fatto sì che ogni volta che mi presento da un medico, se non lo fa già lui spontaneamente (cosa che capita di rado), sarò io a costringerlo a spiegarmi qual è il pro- cesso. Voglio avere anchio qualcosa da dire nella mia guarigione. Per inciso, ave- vo davvero unernia del disco, ma lho scoperto dopo, leggendo il foglio con le prescrizioni, quando ormai l effetto inquietante della parola era stato LA LENTE

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14 RIVISTA NAZIONALE DI APICOLTURA | FEBBRAIO 2018 | APINSIEME AMBIENTE SOCIALE

DIVENTARE VECCHI IN APICOLTURA (I PARTE)

Probabilmente molto di quello che accade in apicoltura quando si va avanti con

gli anni capita anche in altri settori dell’esperienza umana. E probabilmente è

difficile generalizzare, partendo dalla propria esperienza. Si può però, almeno,

raccontarla e verificare a che livello (poco o tanto che sia) possa risultare condi-

visa o utile

Paolo Faccioli

D iventare vecchio nel con-

testo dell’apicoltura ha

avuto per me due impor-

tanti effetti, uno sul piano

fisico e uno sul piano mentale. Sul

piano fisico è ovvio. Il corpo si dete-

riora e il lavoro non è certo dei più

leggeri. Come è noto, non esistono

malattie professionali in apicoltura,

perché se ci fossero vorrebbe dire

che qualcuno non usa correttamente

le disposizioni sulla sicurezza del la-

voro. Diciamo allora che ci sono delle

malattie che vengono del tutto spon-

taneamente, ma che intralciano in

modo particolare la nostra quotidia-

nità di apicoltori. E sono soprattutto

patologie articolari. Il prima proble-

ma è: «Vado dal medico, o tengo du-

ro?» Ho il sospetto che la seconda

soluzione sia maggioritaria tra gli

esponenti di un lavoro virile come

l’apicoltura. Almeno in una prima

fase. Nella seconda, quando certi

gesti quotidiani diventano impossibi-

li, quando si fa esperienza di veri e

propri stati di paralisi, quando si ar-

ranca zoppicando per l’azienda, la

prima soluzione guadagna adepti.

Sono stato anch’io un adepto della

prima soluzione, ma nella seconda

fase. Per un anno ho lavorato convi-

vendo col dolore ma ogni sera, torna-

to a casa, mi concedevo una virile

anestesia: una bottiglia di lambrusco.

Il che nel frattempo ha danneggiato il

mio fegato e creato una strana dina-

mica da co-dipendenza alcoolica con

la mia compagna, che per non veder-

mi svuotare tutta la bottiglia me ne

sottraeva una parte bevendola lei,

per il mio bene. Altri colleghi si sono

procurati lo stesso danno con gli anti-

dolorifici, e allora io mi consolo: all’in-

terno di una scelta comunque un po’

perversa almeno la mia è stata più

edonistica. Da quando però ho dovu-

to affrontare la dura realtà perché

ormai avevo bisogno di aiuto per al-

zarmi dal letto, sono diventato un

paziente motivato e zelante. Non al

punto da consigliare ad altri i rimedi

da me adottati come se fossero uni-

versali (cosa che non vorrei fare nem-

meno qui). Se ho trovato un grande

aiuto nel mio ortopedico, non è stato

solo in termini di diagnosi e prescri-

zioni, ma di “savoir vivre”.

La prima cosa che mi ha colpito di lui

è stato il suo modo di presentarmi la

diagnosi. Le parole possono essere

pesanti come pietre, suonare come

condanne, spaventare, deprimere, e

io temevo soprattutto che pronun-

ciasse le parole “ernia del di-

sco” (come altri temono di sentirsi

dire “Lei ha un cancro”; “Ha avuto

un’ischemia e rischia di diventare

cieco”, “Lei ha l’osteoporosi e se cade

si sbriciola” … cose così). Invece?

Si è avvalso di un modellino dell’arti-

colazione vertebrale che aveva sul

tavolo e muovendolo mi ha spiegato

e fatto comprendere ciò che mi face-

va soffrire, nei termini di un proces-

so. E un processo, una volta compre-

so, ti rendi conto anche di che entità

è stato il tuo contributo al suo verifi-

carsi e quale sarebbe l’eventuale tuo

contributo a non alimentarlo oltre, o

addirittura a invertire la rotta.

Capisci anche che è stato stupido, per

provare la tua virilità, tenere duro

fino a quel punto estremo. E allora, di

fronte alle cure proposte, sarai meno

portato a tirar fuori scuse come “non

ho tempo”, “ho altro per la testa”, “io

di esercizio ne faccio abbastanza in

apiario”. Questo ha fatto sì che ogni

volta che mi presento da un medico,

se non lo fa già lui spontaneamente

(cosa che capita di rado), sarò io a

costringerlo a spiegarmi qual è il pro-

cesso.

Voglio avere anch’io qualcosa da dire

nella mia guarigione. Per inciso, ave-

vo davvero un’ernia del disco, ma l’ho

scoperto dopo, leggendo il foglio con

le prescrizioni, quando ormai l’effetto

inquietante della parola era stato

LA LENTE

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disinnescato. Seconda lezione di vita:

molto spesso i medici trattano la ma-

lattia ignorando il paziente. Ti curano

un’ernia del disco così come un tu-

more o una cardiopatia e non ti chie-

dono neanche che lavoro fai, quanto

ti puoi permettere di dedicare alla

guarigione, quanto impatto economi-

co può avere l’evento sulla tua attivi-

tà. Lastre e risonanze magnetiche gli

bastano. Il mio ortopedico si è invece

fatto spiegare la natura del mio lavo-

ro e mi ha detto: «In altri tempi ti

avrebbero consigliato di stare a ripo-

so totale, ma so che c’è il mercato che

ti sta con l’alito sul collo, dunque non

ti chiederò di smettere di lavorare,

solo devi imparare come fare diversa-

mente e con un altro ritmo i gesti

quotidiani». Così, da qualsiasi altro

specialista mi sia presentato in segui-

to, ho sempre cercato di mettere in

chiaro che io non ero solo la mia car-

tella clinica, che si informasse chi ero

e come vivevo. Terza lezione di vita:

quando mi presentai con un’artrosi

degenerativa alla spalla, prima di

procedere alla stesura delle prescri-

zioni, mi raccontò una storia. Mi disse

che dalle sue parti i potatori di vigna

lavorano con le braccia alzate, perché

potano vigne alte. Verso la settantina

molti di loro non ce la fanno più, e

allora semplicemente vengono spo-

stati a lavorare sulle vigne basse. Ma

sorprendentemente, passati una de-

cina d’anni, li ritrovi a potare con le

braccia alte. E questo non dipende

dalle cure, che di solito non fanno,

ma dalla capacità del corpo di trovare

soluzioni, di adattarsi. Questa storia

la definirei terapeutica: quando poi

mi ha assegnato i soliti “compiti a

casa”, li ho svolti con maggiore legge-

rezza e partecipazione perché ho

sentito che stavo permettendo un

processo di guarigione per cui il mio

corpo (entro certo limiti) era pro-

grammato. Ho dedicato quasi due

anni al primo successo terapeutico (le

cure, la fisioterapia, gli esercizi, la

riprogrammazione dei gesti). Se me

l’avessero detto prima mi sarebbe

sembrato un tempo esageratamente

lungo, e anche troppo impegnativo.

Quando mi sono sentito fuori dai

guai (almeno da quel guaio) il mio

ortopedico mi ha ringraziato per es-

sere stato un buon paziente

(calcando sulla parola paziente).

Dunque, la quarta lezione di vita: un

paziente dev’essere paziente, come

sta a significare l’aggettivo. Può non

esserlo, ma in sala d’aspetto c’era

sempre gente che era lì perché, per

risolvere in fretta il problema, si era

sottoposta a chirurgia e adesso cer-

cava di metterci una toppa cambian-

do medico. Mio padre, che pure era

un chirurgo, più andava avanti con gli

anni, più ripeteva che la chirurgia è

qualcosa da fare solo come ultima

scelta.

Tra un disturbo e l’altro, ci sarebbe

spazio per una quinta lezione di vita,

quella che non ho ancora bene assi-

milato. Dovrei fare esercizio regolare,

ma tendo a farlo solo alla comparsa

di dolori, che invece l’esercizio regola-

re dovrebbe aiutare a prevenire.

E, conoscendo bene l’ambiente apisti-

co, so che l’esercizio regolare non è

tenuto in grande considerazione. Uno

tende a pensare che fa già tanto eser-

cizio fisico in apiario, che non ha

un’ora di tempo ogni giorno da

“buttar via”, eccetera. Purtroppo l’e-

sercizio che si può fare in apiario è

estremamente squilibrato. Un’ecce-

zione nel quadro generale è il mio

amico sardo Giuseppe Caboni.

Una volta siamo andati insieme a un

convegno dei professionisti francesi,

ad Agen (Francia). La prima cosa che

ha fatto è stata di trovarsi la palestra

più vicina all’albergo e di iscriversi,

frequentandola per un’ora ogni mat-

LA LENTE p

ub

blic

ità

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tina durante tutta la durata del con-

vegno. Giuseppe non è “vecchio” co-

me posso sentirmi io, ma evidente-

mente ha deciso che alla vecchiaia

vuole arrivarci in bellezza, e si appli-

ca. Oltre alle malattie che potrebbero

sembrare professionali ma che, come

sappiamo, non lo sono, ci sono quelle

che solo con molta fantasia potrem-

mo ricollegare all’apicoltura.

Cardiopatie, tumori, eccetera, ma

anche mali apparentemente minori

come sordità, retinopatie...

Sono comunque cose che influiscono

sul nostro lavoro. Dopo una certa età

la ASL ci manda proposte di alcuni

esami gratuiti, consigliabili dopo i 50

anni, ci arrivano, per esempio, ap-

puntamenti per visite audiometriche

gratuite. Nella lettera pubblicata sul

numero di novembre 2017 di questa

rivista Lapo Lapucci ha già affrontato

quel pregiudizio per cui l’apicoltore,

abbacinato dall’idea di fare “il mestie-

re più sano del mondo”, può essere

tentato di non monitorare la sua sa-

lute. In questa stessa direzione lavo-

rano l’idea di aver troppo da fare o

un atteggiamento di sfida che può

nascondere la paura di confrontarsi

con la realtà. Quelli che mi conosco-

no daranno per certo che sono il tipo

da tenere sul comodino una copia di

“Siddhartha” di Hermann Hesse. Inve-

ce non l’ho nemmeno mai letto. Però

sulla vita del Buddha so comunque

qualcosa. So che era un principe che

il padre aveva confinato nella reggia,

avvolgendolo di una nube dorata,

perché fosse libero dalla preoccupa-

zione e non potesse avere nessun

contatto con la vecchiaia, la malattia

e la morte. Ma il principe Siddhartha

evase dalla sua prigione dorata e

sulla strada trovò proprio un vecchio,

un lebbroso e una pira funeraria.

Questo fu l’inizio della sua trasforma-

zione, la più profonda delle trasfor-

mazioni che un uomo può attraversa-

re. Tempo fa pubblicai su una rivista

una recensione sul libro di Lars Gu-

staffson, “Morte di un apicultore”.

Doveva essere la prima recensione di

una serie, ma divenne la seconda:

«Non si può iniziare con qualcosa di

meno lugubre?» mi chiese una cara

amica che partecipava a quel proget-

to. Noi apicoltori dovremmo avere

ben presente la morte, se non perso-

nalmente almeno attraverso lo spec-

chio delle api. Morte che infliggiamo

loro su base quotidiana (come dice

appunto anche Lars l’apicultore pro-

tagonista del romanzo di Gustaffson).

E anche con lo spettacolo della malat-

tia siamo, attraverso di loro, abba-

stanza familiari. Forse un po’ meno

con la vecchiaia, visto che una regina

dopo due anni ci sembra degna della

pattumiera. Potremmo considerare

serenamente la nostra vecchiaia, le

nostre malattie, e persino la nostra

morte, invece di cercare di mantener-

ci mortalmente allegri.

La vecchiaia e la malattia sono forse

diverse per chi fa un lavoro d’ufficio o

artigianale, che al massimo lascia

l’ufficio o chiude l’officina. Noi non

possiamo chiudere l’apiario, possia-

mo solo chiudere l’intera attività. Stia-

mo lavorando con esseri viventi che

non ci avevano chiesto di essere or-

ganizzati in apiari. Possiamo pensare

LA LENTE

L’autore dell’articolo in una rievocazione storica di tutti i suoi guai articolari, che includono

una tripla ernia del disco, un’artropatia cervicale, morbo di Dupuytrene come

complicazione di una frattura a un dito, epicondilite, artropatia del ginocchio, rizoartrosi.

Non rappresentabili tramiti gadget ortopedici la patologia degenerativa della spalla e

dell’anca. Eppur si muove.

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tutt’a un tratto di dire loro «Adesso

arrangiatevi, ho altro a cui pensare?».

Abbiamo sicuramente anche degli

altri apiari nelle vicinanze, di colleghi

a cui non possiamo dire «Io le mie api

le abbandono, ho altro a cui pensa-

re». Per questo credo dobbiamo es-

sere a maggior ragione in grado di

includere la malattia e la vecchiaia tra

i nostri pensieri, invece di esorcizzar-

le. Eugenio Castrini, uno storico api-

coltore del cuneese, si accorse che

stava invecchiando, perdendo la vista

e faticando sempre più a stare ai rit-

mi di prima. Decise allora, improvvi-

samente, di smettere. Mi raccontò:

«Smettere è stata una decisione

sofferta. Avevo ormai settant’anni e

vedevo che faticavo e mi sono detto

che al posto di smettere a caldo è

meglio smettere a freddo. Non ho

rimpianti, non ho nostalgie. Quando

è stato il momento l’apicoltura l’ho

fatta con dedizione, poi è venuto la

fase di tirare i remi in barca. Nel pe-

riodo in cui fisicamente e intellettual-

mente ero nel pieno delle forze, non

ho lesinato. Quando, poi, ho tirato i

remi in barca, non ci son stati rim-

pianti». Non dico che questa sia per

tutti la scelta migliore, ma sicuramen-

te è la scelta di un apicoltore che ha

saputo invecchiare nel modo per lui

più giusto. Parlare dal punto di vista

del corpo e della mente come fossero

cose separate è solo un espediente

narrativo. In effetti parlando dell’in-

vecchiamento del corpo ho dovuto

prendere in esame anche come la

mente si è adattata ai nuovi cambia-

menti o ha determinato nuove moda-

lità di espressione del corpo. Ma con-

tinuerò quest’espediente narrativo

nella prossima puntata, che sarà de-

dicata a come può cambiare la mente

di un apicoltore invecchiando.

Paolo Faccioli

LA LENTE p

ub

blic

ità

A pagina 40 Francesco Colafemmina ha

recensito per noi, su Apinsieme, il libro

cui fa riferimento Paolo Faccioli

RECENSIONE