LA GUERRA DI POSIZIONE e DI...

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1 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli Viale Pasubio 5, Milano | www.fondazionefeltrinelli.it Approfondimenti | kit didattico “Guerra di posizione, di logoramento, totale” Materiale: Scheda PDF LA GUERRA DI POSIZIONE e DI LOGORAMENTO La condizione di stallo creatasi nel 1914 causò il logorio dei reparti combattenti. La protagonista della guerra diventò la trincea: un fossato scavato nel terreno per mettere i soldati al riparo dal fuoco nemico. All’inizio furono concepite come rifugi provvisori per le truppe in attesa dell’attacco decisivo; in seguito divennero la sede permanente dei reparti di prima linea. Esse furono dotate di ripari, protette da reticolati di filo spinato e da “nidi” di mitragliatrici, diventando difficilmente inespugnabili. La vita nei terrapieni logorava i combattenti nel morale e nel fisico; vivevano in condizioni igieniche deprecabili, senza potersi lavare né cambiare; erano esposti al caldo, al freddo e alle intemperie, oltre che agli attacchi nemici, da terra ma soprattutto dai bombardamenti aerei. Gli assalti iniziavano nelle prime ore del mattino, erano preceduti da un tiro di artiglieria che in teoria avrebbe dovuto scompaginare le difese avversarie ma che aveva il risultato di eliminare ogni effetto sorpresa. I soldati, se riuscivano a raggiungere le trincee di prima linea, dovevano subire il contrattacco che li ricacciava indietro. La guerra nelle trincee fece svanire l’entusiasmo patriottico con cui i soldati avevano affrontato il conflitto. I soldati semplici non avevano idee sui motivi per cui combattevano. La visione eroica della guerra restò prerogativa di alcune minoranze di combattenti organizzati in reparti speciali (come le truppe d’assalto tedesche o gli arditi italiani). I soldati combattevano perché erano costretti dalla presenza di un apparato spietato nel punire le insubordinazioni. Tuttavia la paura e l’avversione alla guerra si tradussero in forme di rifiuto: le più diffuse

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Approfondimenti | kit didattico “Guerra di posizione, di logoramento, totale” Materiale: Scheda PDF

LA GUERRA DI POSIZIONE e DI LOGORAMENTO

La condizione di stallo creatasi nel 1914 causò il logorio dei reparti combattenti. La protagonista della

guerra diventò la trincea: un fossato scavato nel terreno per mettere i soldati al riparo dal fuoco nemico.

All’inizio furono concepite come rifugi provvisori per le truppe in attesa dell’attacco decisivo; in seguito

divennero la sede permanente dei reparti di prima linea. Esse furono dotate di ripari, protette da reticolati

di filo spinato e da “nidi” di mitragliatrici, diventando difficilmente inespugnabili.

La vita nei terrapieni logorava i combattenti nel morale e nel fisico; vivevano in condizioni igieniche

deprecabili, senza potersi lavare né cambiare; erano esposti al caldo, al freddo e alle intemperie, oltre che

agli attacchi nemici, da terra ma soprattutto dai bombardamenti aerei.

Gli assalti iniziavano nelle prime ore del mattino, erano preceduti da un tiro di artiglieria che in teoria

avrebbe dovuto scompaginare le difese avversarie ma che aveva il risultato di eliminare ogni effetto

sorpresa. I soldati, se riuscivano a raggiungere le trincee di prima linea, dovevano subire il contrattacco che

li ricacciava indietro.

La guerra nelle trincee fece svanire l’entusiasmo patriottico con cui i soldati avevano affrontato il conflitto.

I soldati semplici non avevano idee sui motivi per cui combattevano. La visione eroica della guerra restò

prerogativa di alcune minoranze di combattenti organizzati in reparti speciali (come le truppe d’assalto

tedesche o gli arditi italiani).

I soldati combattevano perché erano costretti dalla presenza di un apparato spietato nel punire le

insubordinazioni. Tuttavia la paura e l’avversione alla guerra si tradussero in forme di rifiuto: le più diffuse

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erano quelle individuali, come l’autolesionismo consistente nell’infliggersi volontariamente ferite per

essere dispensati dal servizio militare. Meno frequenti erano le ribellioni collettive.

Video sulla fine della guerra di movimento

http://www.grandeguerra.rai.it/articoli/fine-della-guerra-di-movimento/23131/default.aspx

Il logoramento. E' una forma di guerra che tende a logorare il nemico calcolando che esaurisca prima le forze. Consiste in

una pressione costante con assalti diretti da parte delle forze mobili e con l’azione dei mezzi di distruzione

(artiglieria, gas e aerei). L'obiettivo può essere considerato in due fasi: immediato, contando che gli attacchi

diano il loro apparente scopo diretto; oppure a medio/lungo termine contando che pur non avendo

successo consumino le riserve umane e materiali (e morali) del nemico. Tipica battaglia di logoramento è

quella di Verdun. Qui, i tedeschi, contavano sul fattore morale in assoluto: i loro avversari francesi per

difendere Verdun, già storica piazzaforte ed ancora punto nevralgico delle difese francesi (ci sono ancora

diverse fortezze erette dal 1885 in poi come catena di sbarramento), si sarebbero dissanguati. Si verifica

quindi un misto di intimidazione strategica: puntare con decisione ad un obbiettivo che il nemico non può

non difendere; e di logoramento: indurre il nemico a stazionare davanti all’obiettivo militare affrontando

mesi e mesi di continui scontri.

Naturalmente un simile scontro è possibile solo nell'era industriale, non essendovi nel passato mezzi atti a

mantenerlo attivo: è infatti quella che gli intellettuali contemporanei definirono "guerra dei materiali" e si

verifica in pieno a partire dal 1916/17.

L’esercito italiano mise in atto una strategia di logoramento particolare: una serie di 11 offensive sullo

stesso obbiettivo: Gorizia, Isonzo e Carso. Si contava, su una presunta debolezza avversaria stante la

contemporanea lotta degli austriaci coi russi: in effetti si cercava una sinergia con altrettante offensive

condotte dai russi, tali da far tremare l'Austria quando funzionavano all’unisono. L'azione era specifica:

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catastrofici bombardamenti di artiglieria ed aerei (questi sulle retrovie), a volte di settimane di durata,

infine lo scatto in massa delle fanterie a rullo compressore.

Con questa azione a logorarsi non era solo il nemico in difesa, ma anche l’esercito in attacco. Dieci milioni di

morti sono facilmente comprensibili se si pensa a queste follie d’assalto.

Il nemico Di Emilio Lussu, da Un anno sull'altipiano

Addossati al cespuglio, il caporale ed io rimanemmo in agguato tutta la notte, senza riuscire a distinguere

segni di vita nella trincea nemica. Ma l'alba ci compensò dell'attesa. Prima, fu un muoversi confuso di

qualche ombra nei camminamenti, indi, in trincea, apparvero dei soldati con delle marmitte. Era certo la

corvée del caffè. I soldati passavano, per uno o per due, senza curvarsi, sicuri com'erano di non esser visti,

ché le trincee e i traversoni laterali li proteggevano dall'osservazione e dai tiri d'infilata della nostra linea.

Mai avevo visto uno spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i

passanti su un marciapiede di città. Ne provai una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale

che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, lamia meraviglia. Anch'egli era attento e

sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si

mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte

inutilmente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l'apparirci inanimate, come cose

lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera

vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!... Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati

come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè,

proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa.

Un'idea simile non mi era mai venuta alla mente. Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero

dovuto prendere il caffè? Perché mai mi appariva straordinario che prendessero il caffè? E, verso le 10 o le

11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico può vivere senza bere

e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore?

Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella trincea, fra due traversoni, v'era un

piccolo spazio tondo, dove qualcuno, di tanto in tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non

arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero più grande degli altri, perché v'era

attorno maggior movimento. Il movimento cessò all'arrivo d'un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si

capiva ch'era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo e l'uniforme appariva nuovissima.

Probabilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare. Era

giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancora più giovane. Sembrava non dovesse avere

neppure diciott'anni. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimase che lui. La

distribuzione del caffè doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo che l'ufficiale.

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Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra.

Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo.

Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco.

La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma così, solo per

istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per

terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato immediatamente, senza perdere

un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una

difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai

bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare.

L'ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra

lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch'io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare

che anch'io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch'era automatico, divenne

ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L'indice che toccava il grilletto

allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare.

Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di

uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura

necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma inevitabili,

della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo dunque, moralmente, due

volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un

fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il

nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell'ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che

ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io

continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v'era dubbio, io avevo il dovere di tirare.

E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto nervoso. La sera precedente,

prima di uscire dalla trincea, avevo dormito quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo; dietro il cespuglio,

nel fosso, non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere più calmo, in una camera di casa

mia, nella mia città.

Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale,

giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi

a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo.

Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un

uomo! Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell'alba si faceva più chiara ed il sole si

annunziava dietro la cima dei monti. Tirare così, a pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale!

Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto cento uomini, o mille, contro

cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: « Ecco,

sta' fermo, io ti sparo, io t'uccido » è un'altra. È assolutamente un'altra cosa. Fare la guerra è una cosa,

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uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo. Non so fino a che punto

il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s'erano

formate due coscienze, due individualità, una ostile all'altra. Dicevo a me stesso: “Eh! non sarai tu che

ucciderai un uomo, così!” Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l'esame di

quel processo psicologico. V'è un salto che io, oggi, non vedo più chiaramente. E mi chiedo ancora come,

arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la

coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al

mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra:

- Sai... così... un uomo solo... io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose: -

Neppure io. Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo anche noi. La sera,

dopo l'imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio. …

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LA MOBILITAZIONE TOTALE Anche le popolazioni civili furono investite dalle trasformazioni che accompagnarono la guerra.

I mutamenti interessarono l’economia, in particolare il settore industriale. Le industrie interessate alle

forniture belliche (siderurgiche, meccaniche e chimiche) conobbero un forte sviluppo. Tutto ciò impose una

riorganizzazione dell’apparato produttivo e una dilatazione dell’intervento statale. I settori dell’industria

furono posti sotto il controllo dello Stato; in alcuni casi si giunse al razionamento dei beni di consumo di

prima necessità.

Il sistema era gestito da organismi composti da militari e industriali, che trassero dall’economia bellica

vantaggi in termini di profitto e potere. Mutarono anche gli apparati statali: aumentò la burocrazia e il

potere esecutivo si rafforzò a spese degli organi rappresentativi, poco adatti alle esigenze di rapidità e

segretezza nelle decisioni. I poteri dei governi erano insidiati dai militari: sottoposti all’autorità degli organi

costituzionali, gli stati maggiori avevano in realtà potere assoluto su tutto ciò che riguardava la conduzione

della guerra e potevano influenzare le scelte dei politici.

VIDEO INTERVISTA https://youtu.be/bGDpjrqPEKA

Tutti i mezzi, compresa la censura e la sorveglianza sui cittadini sospetti di disfattismo, furono usati per

combattere i nemici interni e per mobilitare la popolazione verso la vittoria. Strumento essenziale fu la

propaganda, essa non si rivolgeva solo alle truppe, ma cercava di raggiungere le popolazione civile.

In Svizzera nel 1915 e nel 1916 si tennero 2 conferenze socialiste internazionali che si conclusero con

l’approvazione di documenti in cui si rinnovava la condanna della guerra e si chiedeva una pace senza

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annessioni e senza indennità. Alle conferenze parteciparono i rappresentanti dei partiti socialisti dei paesi

neutrali (svizzeri, olandesi e scandinavi) e di quelli che avevano rifiutato l’adesione alla guerra.

Col prolungarsi del conflitto si rafforzarono i gruppi socialisti contrari alla guerra, fra cui gli spartachisti

tedeschi (chiamati così dalla Lega di Spartaco fondata da Liebknecht e Rosa Luxemburg) e i bolscevichi russi,

guidati da Lenin.

LUGLIO 1915. LA NUOVA ITALIA INDUSTRIALE: MOBILITAZIONE INDUSTRIALE E

MILITARIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE

di Eleonora Belloni

La Mobilitazione Industriale, “l’organo cui fu affidato il compito di organizzare, regolare e disciplinare tra

loro, tenendole unite e volte ad uno stesso fine, quello della massima produzione di materiale bellico, le

energie attive, industriali ed operaie del Paese”.

Così veniva definito il meccanismo della mobilitazione industriale dai suoi stessi organizzatori, in un verbale

del Comitato centrale datato 1916. Risultato e allo stesso tempo mezzo di una guerra “totale” che portava

con sé la necessità di una condivisione del sacrificio da cui nessuno poteva ritenersi escluso, la

mobilitazione delle forze produttive diveniva parte integrante (e portante) della più generale mobilitazione

nazionale. In Italia, in un paese a detta dei più impreparato alla guerra e già provato, ancor prima dell’inizio

delle operazioni militari, dai lunghi mesi di estenuante confronto, verbale e non solo, tra neutralisti e

interventisti, la macchina della mobilitazione industriale si fece trovare sorprendentemente pronta,

mettendosi in moto fin dal luglio 1915. Come avrebbe scritto Luigi Einaudi, “l’improvvisazione fu

inevitabile” ma “fu probabilmente vantaggiosa a sfruttare ed applicare” (L. Einaudi, La condotta economica

e gli effetti sociali della guerra italiana, 1922, p. 62). In tutto ciò il paese poté senza dubbio godere di una

sorta di vantaggio da late comer: quasi un anno di guerra sul fronte occidentale aveva ormai dimostrato

senza possibilità di dubbio che la guerra che si stava combattendo era diversa da tutte quelle combattute

nella storia millenaria dell’umanità, e che avrebbe richiesto una mobilitazione di uomini e di mezzi come

mai prima sperimentata.

Resa possibile dalla Legge n. 271 del 2

maggio 1915 che conferiva al governo

poteri straordinari in caso di guerra e

dal R.D. n. 993 del 26 giugno, con cui si

conferivano al governo ampi poteri in

materia di controllo della produzione

al fine di assicurare rifornimento di

materiali ad Esercito e Marina, la

mobilitazione industriale entrava

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formalmente in vigore con il R.D. n. 1.065 del 9 luglio 1915 con cui venivano creati il Comitato Supremo per

i rifornimenti di armi e munizioni e il Sottosegretariato delle Armi e Munizioni, affidato alla guida del

generale Alfredo Dallolio. Mobilitazione generale – fu così da subito evidente – significava anche un

trasferimento mai prima sperimentato di poteri dalle autorità civili alle autorità militari. La decisione di

affidare ad un militare la gestione della macchina della mobilitazione industriale segnava una scelta netta e

precisa delle autorità italiane a favore di una militarizzazione della produzione, solo in parte attenuata dalla

concreta gestione di Dallolio che preferì (o avrebbe preferito) lasciare agli industriali gran parte dei compiti

organizzativi e decisionali. Ad ogni modo, anche i Comitati regionali (prima sette e poi undici), dipendenti

dal Ministero della guerra, furono posti sotto il controllo di militari. Le industrie dichiarate “ausiliarie” (allo

sforzo bellico) vennero militarizzate, così come la manodopera in esse impiegata.

Non si trattava – lo si volle subito e poi a più riprese precisare – di una statalizzazione, poiché le industrie

rimanevano di proprietà dei privati imprenditori; si era di fronte, tuttavia, ad un’importante svolta in

termini di intervento statale nell’economia. Basti pensare che la legge sulla mobilitazione regolava aspetti

quali la quantità e il genere di merce prodotta, i prezzi, i tempi di fornitura, i prezzi di acquisto delle materie

prime e, sul fronte della manodopera, le assunzioni, gli orari di lavoro, i salari. La dichiarazione di

ausiliarietà, guardata inizialmente con sospetto dagli industriali, divenne ben presto “ambitissima” (L.

Einaudi, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, 1922, p. 103). Un dato su tutti aiuta

a capire il perché: le assenze dal lavoro, che avevano toccato l’8,4% prima della militarizzazione, sarebbero

scese al 4,88% nel periodo della mobilitazione.

La macchina della mobilitazione permise al paese di

affrontare le sfide di un conflitto “moderno” ed

“industriale”, assolvendo sostanzialmente il compito di

rifornire l’esercito. Poco meno di 800 nel 1916, nel 1918 gli

stabilimenti ausiliari risultavano circa 2.000, per un totale di

900.000 addetti. Le donne impiegate negli stabilimenti

ausiliari passarono dalle 23.000 nel 1915 alle 200.000 nel

1918; alla stessa data, i ragazzi impiegati erano circa 60.000.

Il 35,7% erano esonerati e militari, il 33% operai, il 28,6%

donne e ragazzi, il 2,1% prigionieri e profughi, lo 0,6% operai

provenienti dalla colonia libica.

Mobilitazione Industriale come misura eccezionale di guerra,

dunque? Non così nell’idea dei suoi organizzatori.

Interessante che già nel 1916 il pensiero principale di coloro

che si trovavano a gestire la produzione bellica andasse al

dopoguerra, a quelle “conseguenze economiche della pace” di cui tanto si dibatterà nell’Europa appena

uscita dal conflitto. E altrettanto interessante che venissero poste con grande lungimiranza questioni quali

quella dell’opportunità di “abusare della vittoria” o di “volerne trarre vantaggi materiali eccessivi”.

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Di questo avevano discusso i rappresentanti dei paesi alleati alla Conferenza economica di Parigi del giugno

1916. Come i vertici delle nazioni che si accingevano a vincere la seconda guerra mondiale si sarebbero

riuniti nell’incontro di Bretton Woods, nel 1944, e dunque a guerra non ancora conclusa, parlando di

commercio e finanza, consapevoli che la ricostruzione dell’ordine mondiale sarebbe partita proprio da

quell’economia che quell’ordine aveva contribuito a minare, così i rappresentati delle nazioni coinvolte nel

primo conflitto mondiale si incontrarono a Parigi avendo ben presente la centralità del problema

economico-finanziario ai fini della ricostruzione post-bellica. Ma se a Bretton Woods i paesi coinvolti

potranno far tesoro delle nefaste conseguenze che la mancata risoluzione delle questioni economiche

aveva prodotto in termini di laceramento della pace negli anni Trenta, a Parigi, nel 1916, e poi nel 1919,

sarebbe invece prevalso il principio della difesa degli interessi nazionali in nome dell’indipendenza

(economica) delle nazioni.

Le riflessioni del 1916 rimanevano tuttavia importanti perché denotavano una forte consapevolezza, da

parte di chi si trovò a gestire i meccanismi della mobilitazione, dei problemi che la riconversione avrebbe

posto nel dopoguerra. “Durante la pace la Germania si è preparata alla guerra, durante la guerra noi

dobbiamo prepararci alla pace!”: così avrebbe scritto Enrico Toniolo, stretto collaboratore di Dallolio, nel

suo libretto su La mobilitazione industriale in Italia (1916), uscito subito dopo la conferenza economica di

Parigi. L’idea propugnata da Dallolio a Parigi era in sostanza quella di una prosecuzione, seppur adattata,

della mobilitazione in tempo di pace. Una prosecuzione che avrebbe dovuto trovare nell’alleanza tra Stato

e industria il suo pilastro portante.

“Poiché l’alleanza e la rispettiva cooperazione fra esercito e industria avranno portato alla vittoria, è

necessario che Governo e Industria siano di nuovo e più largamente alleati in avvenire”. (E. Toniolo, La

mobilitazione industriale in Italia, 1916). In queste parole stava molto di quello che sarebbe emerso come il

problema industriale – ma sarebbe forse più corretto dire il problema politico-sociale tout court – dell’Italia

del dopoguerra.