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La Grande Settimana INSIEME VERSO LA PASQUA MICHELE CARRETTA

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La Grande SettimanaINSIEME VERSO LA PASQUA

MICHELE CARRETTA

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Cari amici,in queste pagine troverete un percorso che unisce spiritualità e musica, arte e fede, nel tentativo di favorire una riflessione approfondita sui sacri mi-steri che celebreremo durante la Settimana Santa. Quest’anno, a causa della pandemia che ha colpito duramente l’Italia e il mondo, le nostre comunità non potranno riunirsi per commemorare l’Ingres-so di Gesù in Gerusalemme, il dono del Suo corpo e del Suo sangue, la Sua morte in croce e il Suo trionfo sulla morte. Ma se sono chiuse le chiese, la Chiesa, sparsa e diffusa su tutta la terra, non è affat-to chiusa, perché Cristo ha promesso di essere pre-sente lì dove due o tre sono riuniti nel Suo nome. Il Dono di Cristo, dunque, si rinnova sull’altare del mondo, specialmente lì dove la vita è curata, protetta, custodita e amata «fino alla fine».

Il salmo 76, che preghiamo alle Lodi del merco-ledì della seconda settimana, ci offre l’opportuni-tà di fare nostri i pensieri che agitavano l’anima del salmista: «Ripenso ai giorni passati, ricordo gli anni lontani. Un canto nella notte mi ritorna nel cuo-re: rifletto e il mio spirito si va interrogando»;  e in Dn 3,25, lettura feriale prevista dal ciclo quaresi-male, leggiamo: «Ora non abbiamo più né prin-cipe né profeta né capo né olocàusto né sacrificio né oblazione né incenso né luogo per presentarti le primizie e trovare misericordia» (Dn 3,25). Come il salmista durante la notte ripensa ai canti che ave-va innalzato nel tempio, così anche a noi, in questo momento di sofferenza, sarà capitato di ricordare,

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nella notte del nostro cuore, il canto della fede. Tutti nostri pensieri, i nostri sentimenti di paura e angoscia, i dubbi - legittimi - che convivono con la nostra fede, sono già stati i medesimi del popo-lo d’Israele e di intere generazioni di cristiani, che hanno trovato proprio nella preghiera biblica il conforto e il coraggio per andare avanti, per spe-rare contro ogni speranza. E tutto questo saliva al cielo sostenuto da un’unica certezza: Dio non può dimenticare la sua misericordia! (Cfr Sal 76,4). Questa misericordia diventa tangibile nella perso-na di Gesù di Nazareth, volto umano della miseri-cordia del Padre, venuto nel mondo per dare la vita per il mondo interno. Ed è di questo grande dono che noi faremo memoria nella Grande Settimana che ci conduce alla Pasqua.

Ogni pagina di questo piccolo itinerario vuole dunque aiutare la preghiera e la riflessione, a par-tire dalla musica sacra che è stata composta per le liturgie della Settimana Santa, e che costituisce un patrimonio di inestimabile valore che non può es-sere dimenticato. Ogni brano poi, - indicato attra-verso un link su cui si deve cliccare previa connes-sione attiva - è seguito da una riflessione tratta dal magistero dei Padri e di Papa Francesco.

Sperando di offrire un umile e piccolo contributo alla vostra vita di fede, vi saluto e vi auguro una Santa Pasqua!

Michele Carretta

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Audi benigne Conditor

Audi benigne Conditor https://www.youtube.com/watch?v=4yhg4VZ6xkA

Oppure: M. Frisina – Ascolta creatore pietoso https://www.youtube.com/watch?v=uihKdgr49UE

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◆ PER LA MEDITAZIONE

«Ritorniamo al Signore: egli ci ha straziato ed egli ci guarirà. Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà. […] Affrettiamoci a conoscere il Signore, la sua venuta è sicura come l’aurora» (Os 6,1.3). La fiducia nel Si-gnore è sicura: “Verrà a noi come la pioggia d’autun-no, come la pioggia di primavera che feconda la terra” (v. 3). E con questa speranza il popolo incomincia a ritornare al Signore. E uno dei modi di trovare il Signore è la preghiera. Preghiamo il Signore, tor-niamo da Lui.

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Nel Vangelo (cfr Lc 18,9-14) Gesù ci insegna come pregare. Ci sono due uomini, uno presuntuoso che va a pregare, ma per dire che è bravo, come se di-cesse a Dio: “Guarda, scosì bravo: se hai bisogno di qualcosa, dimmi, io risolvo il tuo problema”. Così si rivolge a Dio. Presunzione. Forse lui faceva tutte le cose previste dalla Legge, lo dice: «Digiuno due volte alla settimana, pago le decime di tutto quel-lo che possiedo» (v. 12) … “sono bravo”. Questo ci ricorda anche altri due uomini. Ci ricorda il fi-glio maggiore della parabola del figliol prodigo, quando dice al padre: “Io che sono così bravo non ho la festa, e questo, che è un disgraziato, tu gli fai la festa…”. Presuntuoso (cfr  Lc  15,29-30). L’altro, di cui abbiamo sentito la storia in questi giorni, è quell’uomo ricco, un senza-nome, ma era ricco, incapace di farsi un nome, ma era ricco, non gli importava nulla della miseria degli altri (cfr Lc 16,19-21). Sono questi che hanno sicurezza in sé stessi o nel denaro o nel potere…Poi c’è l’altro, il pubblicano. Che non va davanti all’altare, no, resta a distanza. «Fermatosi a distan-za, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”» (Lc  18,13). Anche questo ci porta al ricordo del figliol prodigo: si accorse dei peccati fatti, delle cose brutte che aveva fatto; anche lui si batteva il petto: “Tornerò da mio padre e [gli dirò]: padre, ho peccato”. L’umiliazione (cfr Lc 15,17-19). Ci ricorda quell’altro, il mendicante, Lazzaro, alla porta del ricco, che viveva la sua miseria davanti alla presunzione di quel signore (cfr Lc 16,20-21). In questo caso, il Signore ci insegna come pregare,

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come dobbiamo avvicinarci al Signore: con umil-tà. C’è una bella immagine nell’inno liturgico della festa di San Giovanni Battista. Dice che il popolo si avvicinava al Giordano per ricevere il battesimo, “nuda l’anima e i piedi”: pregare con l’anima nuda, senza travestirsi delle proprie virtù. Pregare così, nudi, con il cuore nudo, senza coprire, senza ave-re fiducia neppure in quello che ho imparato sul modo di pregare… Pregare, tu e io, faccia a faccia, l’anima nuda. Questo è quello che il Signore ci in-segna. Invece, quando andiamo dal Signore un po’ troppo sicuri di noi stessi, cadremo nella presun-zione di questo [fariseo] o del figlio maggiore o di quel ricco al quale non mancava nulla. La strada è abbassarsi. L’abbassamento. Il Signore ci insegna che giustificare sé stessi è superbia, è orgoglio, è esaltare sé stessi. È travestirsi da quello che non sono. E le miserie rimangono dentro. Il fariseo giustificava sé stesso. [Invece bisogna] Confessa-re direttamente i propri peccati, senza giustificarli. L’anima nuda. L’anima nuda. (Papa Francesco, Me-ditazione del 21 marzo 2020).

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All’inizio la sete…

Come il cervo va https://www.youtube.com/watch?v=kdKEezXyRzc

Oppure: G. P. da Palestrina – Sicut cervus https://www.youtube.com/watch?v=4jLru-Qsi_Y

Sicut cervus desiderat ad fontes acquarum,ita desiderat anima mea ad te, Deus.

» TRADUZIONE

Come il cervo anela ai corsi d’acqua,così l’anima mia anela a te, o Dio.

Giovanni Pierluigi da Palestrina è stato uno dei più grandi contrappuntisti della storia della musica, capace di rivestire di una forma nobile e perfetta ogni tipologia di testo liturgico. Nato a metà del sedicesimo secolo, fu cantore nella basilica di San-ta Maria Maggiore a Roma. Secondo la tradizione, negli anni turbolenti e tesi del Concilio di Trento (1545 – 1563), durante il quale si avrebbe voluto abolire la musica polifonica nella messa a privile-gio esclusivo del canto gregoriano, fu proprio il Palestrina a comporre una messa che avrebbe fatto cambiare idea ai prelati riuniti per il Concilio. Si dice che essi all’ascolto di tali melodie, avrebbero desistito e permesso che più voci continuassero a risuonare tra le navate delle chiese, tanto da avva-

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lere al Palestrina l’aulico attributo di Princeps Musi-cæ, e “salvatore della polifonia sacra”.

◆ PER LA MEDITAZIONE

«Come un cervo anela ai corsi d’acqua, così l’ani-ma mia anela a te, o Dio (Sal 42,2). Hai mai udito, in una fredda notte d’autunno, nel bosco, l’acuto bramire di un cervo? Tutto il bosco è preso da un fremito a questo grido di struggimento. Allo stesso modo grida qui un’anima umana, non per brama di beni terreni, ma per desiderio di Dio. Un credente a cui Dio si è fatto lontano desidera ardentemen-te il Dio della salvezza e della grazia. Egli conosce questo Dio a cui grida. Non è come chi cerca il Dio sconosciuto, che non troverà mai nulla. Egli ha già sperimentato, un giorno, l’aiuto e la prossimità di Dio. Per questo non chiama a vuoto. Chiama il suo Dio. Noi possiamo cecare Dio nel giusto modo solo se lui già si è rivelato a noi, solo se noi l’abbia-mo già trovato una volta.

Signore Dio, ridesta nella mia anima il deside-rio ardente di te. Tu mi conosci e io conosco te. Aiutami a cercarti e a trovarti. Amen.

L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente; quando verrò e vedrò il volto di Dio? Sete di dio. Noi cono-sciamo la sete del corpo, quando manca l’acqua; conosciamo la sete bruciante di felicità, di vita. Ma conosciamo la sete che l’anima ha di Dio? Un Dio che sia solo un’idea, o un’ideale, non può sedare questa sete. È del Dio vivente, del Dio fonte di ogni vita autentica che ha sete la nostra anima. Quando

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contempleremo il suo volto? Contemplare il volto di Dio: questo lo scopo di ogni vita, questa la vita eterna. È in Gesù Cristo che noi contempliamo questo volto, nel Crocifisso. Se l’abbiamo trovato qui, siamo assetati di contemplarlo in tutta chiarez-za nell’eternità. Gesù esclama: “Chi ha sete venga a me e beva” (Gv 7,37).

Signore, noi desideriamo contemplarti faccia a faccia. Amen.» (Dietrich Bonhoeffer, Memoria e fedeltà)

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L’Amore non è accolto

Gloria laushttps://www.youtube.com/watch?v=mX47Wj_UTQg&t=8s

Gloria, laus et honor tibi sit, Rex Christe Redemptor: cui puerile decus promsit hosanna pium.

Israel es tu Rex, Davidis et inclita proles: nomine qui in Domini, Rex benedicte, venis.

Cœtus in excelsis te laudat cælicus omnis, et mortalis homo, et cuncta creata simul.

» TRADUZIONE

Gloria, lode e onore sia a te, Cristo Re Redentore:al quale una schiera di fanciulli cantò l’Osanna devoto.

Sei tu il Re d’Israele, e di Davide l’inclita prole; Tu che vieni, o Re benedetto, nel nome del Signore.

Nel più alto dei cieli ti loda la schiera celeste, e l’uomo mortale insieme a tutte le cose create.

◆ PER LA MEDITAZIONE

«Anche oggi, nel suo ingresso in Gerusalemme, Cristo ci mostra la via. Perché in quell’avvenimen-to il maligno, il Principe di questo mondo aveva

DOMENICA delle PALME

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una carta da giocare: la carta del  trionfalismo, e il Signore ha risposto rimanendo fedele alla sua via, la via dell’umiltà.Il trionfalismo cerca di avvicinare la meta per mez-zo di scorciatoie, di falsi compromessi. Punta a sa-lire sul carro del vincitore. Il trionfalismo vive di gesti e di parole che però non sono passati attraver-so il crogiolo della croce; si alimenta del confronto con gli altri giudicandoli sempre peggiori, difettosi, falliti… Una forma sottile di trionfalismo è la mon-danità spirituale, che è il maggior pericolo, la tenta-zione più perfida che minaccia la Chiesa. Gesù ha distrutto il trionfalismo con la sua Passione.

Il cuore di Cristo, però, è su un’altra via, sulla via santa che solo Lui e il Padre conoscono: quella che va dalla «condizione di Dio» alla «condi-zione di servo», la via dell’umiliazione nell’obbe-dienza «fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,6-8). Egli sa che per giungere al vero trionfo deve  fare spazio a Dio; e per fare spazio a Dio c’è un solo modo: la spogliazione, lo svuotamento di sé. Tacere, pregare, umiliarsi. Con la croce, fratelli e sorelle, non si può negoziare, o la si abbraccia o la si rifiuta. E con la sua umiliazione Gesù ha voluto aprire a noi la via della fede e precederci in essa.

Acclamazioni festose e accanimento feroce; è im-pressionante  il silenzio di Gesù  nella sua Passione, vince anche la tentazione di rispondere, di essere “mediatico”. Nei momenti di oscurità e grande tribolazione avere il coraggio di tacere, purché sia un tacere mite e non rancoroso. La mitezza del silenzio ci farà apparire ancora più deboli, più

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umiliati, e allora il demonio, prendendo coraggio, uscirà allo scoperto. Bisognerà resistergli in silen-zio, “mantenendo la posizione”, ma con lo stesso atteggiamento di Gesù. Lui sa che la guerra è tra Dio e il Principe di questo mondo, e che non si tratta di mettere mano alla spada, ma di rimanere calmi, saldi nella fede. È l’ora di Dio. E nell’ora in cui Dio scende in battaglia, bisogna lasciarlo fare. E mentre attendiamo che il Signore venga e calmi la tempesta (cfr Mc 4,37-41), con la nostra silenziosa testimonianza in preghiera, diamo a noi stessi e agli altri «ragione della speranza che è in [noi]» (1 Pt  3,15). Questo ci aiuterà a vivere nella santa tensione tra la memoria delle promesse, la realtà dell’accanimento presente nella croce e la speran-za della risurrezione (Papa Francesco, Omelia della domenica delle Palme 2019)

Signore Gesù, ravviva in noi la speranza della risurrezione e della Tua definitiva vittoria

contro ogni male e ogni morte. Amen!

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L’Amore che si offre

Francesco Gabellieri – Adoro te devote: https://youtu.be/za5jDrhrV6c

Adoro te devote, latens Deitas,quæ sub his figuris vere latitas:tibi se cor meum totum subiicit,quia te contemplans totum deficit.

Visus, tactus, gustus in te fallitur,sed auditu solo tuto creditur.Credo quidquid dixit Dei Filius:nil hoc verbo Veritatis verius.

In Cruce latebat sola Deitas,at hic latet simul et humanitas;ambo tamen credens atque confitens,peto quod petivit latro pænitens.

GIOVEDÌ SANTO

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» TRADUZIONE

Devoto io t’adoro, nascosta deità, che sotto questi segni ti celi in verità. cuore e corpo mio a te io sottometto, ché contemplando te vien meno tutto.

La vista, il tatto, il gusto, in te si ingannano,ma solo con l’udito si crede fermamente:credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio,nulla è più vero di questa parola di verità.

Sulla croce era nascosta la sola divinità,ma qui è celata anche l’umanità:eppure, credendo e confessando entrambe,chiedo ciò che domando il ladrone penitente.

◆ PER LA MEDITAZIONE

«In ogni strofa dell’inno troviamo un’affermazione teologica seguita da una invocazione con cui l’orante risponde ad essa e si appropria della verità evocata. All’affermazione della presenza reale, anche se nascosta, di Cristo nel pane e nel vino l’orante risponde sciogliendosi letteralmente in devota adorazione e trascinando con sé, nello stesso movimento, le innumerevoli schiere di anime che per oltre mezzo millennio hanno pregato con le sue parole.

Adoro: questa parola con cui si apre l’inno è da sola una professione di fede nell’identità tra cor-po eucaristico e il corpo storico di Cristo, “nato da Maria Vergine, che veramente ha patito e fu immo-

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lato sulla croce per l’uomo”. È solo grazie a que-sta identità infatti e all’unione ipostatica in Cristo tra umanità e divinità, che noi possiamo stare in adorazione davanti all’ostia consacrata, senza pec-care di idolatria. Già S. Agostino diceva: “In que-sta carne (il Signore) ha qui camminato e questa stessa carne ci ha dato da mangiare per la salvezza; e nessuno mangia quella carne senza averla prima adorata... Noi non pecchiamo adorandola, ma anzi pecchiamo se non la adoriamo”.

Ma in che consiste propriamente e come si mani-festa l’adorazione? L’adorazione può essere prepa-rata da lunga riflessione, ma termina con una in-tuizione e, come ogni intuizione, essa non dura a lungo. E’ come un lampo di luce nella notte. Ma di una luce speciale: non tanto la luce della verità, quanto la luce della realtà. E’ la percezione della grandezza, maestà, bellezza, e insieme della bon-tà di Dio e della sua presenza che toglie il respiro. E’ una specie di naufragio nell’oceano senza rive e senza fondo della maestà di Dio. Un’espressione di adorazione, più efficace di qualsiasi parola, è il silenzio. Adorare, secondo la stupenda espressione di san Gregorio Nazianzeno, significa elevare a Dio un “inno di silenzio”.

C’è una grande affinità tra Eucaristia e Incarna-zione. Nell’Incarnazione – dice sant’Agostino – “Maria concepì il Verbo prima con la mente che con il corpo” (Prius concepit mente quam corpore). Anzi, aggiunge, a nulla le sarebbe valso portare Cristo nel suo grembo, se non lo avesse portato con amore anche nel suo cuore. Anche il cristia-

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no deve accogliere Cristo nella sua mente, prima di accoglierlo e dopo averlo accolto nel suo corpo. E accogliere Cristo nella mente significa, concre-tamente, pensare lui, avere lo sguardo rivolto su di lui, fare memoria di lui, contemplando il segno che egli stesso ha scelto per rimanere tra noi.

Te contemplans, contemplando te, dice il nostro inno. Cosa racchiude quel pronome “te”? Certa-mente il Cristo realmente presente nell’ostia, ma non una presenza statica e inerte; indica tutto il mistero di Cristo, la persona e l’opera; è un riascol-tare silenziosamente il vangelo o una sua frase in presenza dell’autore stesso del vangelo che da alla parola una forza e immediatezza particolari. Ma questo non è ancora il vertice della contempla-zione. I grandi maestri di spirito hanno definito la contemplazione: “Uno sguardo libero, penetrante e immobile” (Ugo di San Vittore), oppure: “Uno sguardo affettivo su Dio” (san Bonaventura). Fare contemplazione eucaristica significa dunque, con-cretamente, stabilire un contatto da cuore a cuore con Gesù presente realmente nell’Ostia e, attraver-so lui, elevarsi al Padre nello Spirito Santo. Nella meditazione prevale la ricerca della verità, nella contemplazione, invece, il godimento della Veri-tà trovata. La contemplazione tende sempre alla persona, al tutto e non alle parti. Contemplazione eucaristica è guardare uno che mi guarda. Que-sto stadio di contemplazione è quello descritto dall’autore dell’Adoro te devote quando afferma: te contemplans totum deficit, contemplando te tutto vien meno. Queste sono parole nate certamente

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dall’esperienza. “Tutto vien meno”, cioè che cosa? Non solo il mondo esterno, le persone, le cose, ma anche il mondo interno dei pensieri, delle imma-gini, delle preoccupazioni. “Oblio di tutto fuorché di Dio”, scriveva Pascal descrivendo un’esperienza simile a questa. E Francesco d’Assisi ammoniva i suoi frati: “Gran miseria sarebbe, e miserevole male se, avendo Lui così presente, vi curaste di qualunque altra cosa che fosse nell’universo inte-ro!”» (Padre Raniero Cantalamessa, Predica alla Casa Pontifica, 2004)

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L’Amore crocifisso

Johann Kuhnau – Tristis est anima mea (mottetto a 5 voci)https://www.youtube.com/watch?v=CZZk1D8JeYg

Tristis est anima mea usque ad mortem, sustinete hic et vigilate mecum. Non videbitis turbam quae circumdavit me? Vos fugam capietis, et ego vadam immolari pro vobis. Ecce appropinquat hora, et filus hominis tradetur in manus peccatorum.

» TRADUZIONE

L’anima mia è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me.Non vedete la folla che mi circonda?Vi darete alla fuga, ed io andrò a immolarmi per voi.Ecco, l’ora si avvicina, e il figlio dell’Uomo è consegnato nelle mani dei peccatori.

◆ PER LA MEDITAZIONE

Johann Kuhnau è stato un musicista e composi-tore tedesco vissuto nel secolo XVII. Tra le poche opere pervenuteci, vi è questo mottetto della Set-timana Santa, il cui testo è tratto dall’antico e sug-gestiva Ufficio delle Tenebre. La musica amplifica i sentimenti di Gesù, vero uomo, davanti all’ora che

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VENERDÌ SANTO

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si avvicina: «L’anima mia è triste fino alla morte». Prima ancora della morte fisica, vi sono l’angoscia e lo sgomento, la paura, il terrore e l’inquietudine che agitano l’anima di Cristo fino a farlo sudare sangue. Per questo Gesù ha bisogno dell’umana compagnia dei tre discepoli: «Restate qui e vegliate con me». Ma i discepoli dormono, indifferenti alla solitudine di Gesù: «non vedete la folla che mi cir-conda?». Quella stessa folla che lo aveva accolto osannante al suo ingresso in Gerusalemme, ora è venuto per arrestarlo e più tardi preferirà Barabba a Lui.

I discepoli, dunque, dormono. Nella barca agitata dalla tempesta, con i discepoli impauriti e senza fede, era Gesù a dormire, tanto che loro corrono a svegliarlo: “Maestro, non t’importa che siamo finiti?». Doveva bastare la sua silenziosa presenza a rasserenarli. Ora che è l’anima di Gesù ad esse-re agitata dalla tempesta della passione, sono essi a dormire. Quale è la differenza tra i discepoli e il Cristo? I primi non hanno fede e anche ora, nel

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Getsemani, davanti all’inquieta angoscia di Gesù, non riescono a vegliare con lui. Gesù, invece, con-tinua ad avere fede nel disegno del Padre: «vado a immolarmi per voi». Colpisce la determinatezza di quel «pro vobis» -«per voi»- che non arretra davanti alla violenza degli uomini. Cristo conti-nua ad essere il buon pastore che «offre la vita per le pecore» e che anticipa la sua morte del dono dell’Eucaristia: «Questo è il mio sangue dell’alle-anza, versato per molti, in remissione dei peccati» (Mt 26,28).

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Michael J. Trotta: Seven Last Wordshttps://www.youtube.com/watch?v=dw45tS_SJEM

My God, Why Have You Abandoned Me?

» TRADUZIONE

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbondonato?

Michael John Trotta è un musicista e composito-re americano, nato nel 1978. Una delle sue opere più importanti è dedicata alle ultime sette parole di Cristo sulla croce. Quella proposta è la quinta del settenario in cui Cristo rivolge il suo grido al Padre.

◆ PER LA MEDITAZIONE

«Nei vangeli di Marco e Matteo non c’è attorno a Gesù nessuna figura umana che esprima affetto e simpatia, che segnali un atteggiamento di compassione. Gesù è spaventosamente solo. Viene alla mente il salmo che si legge nella Compieta del venerdì: “Hai allontanato da me amici e conoscenti, mi fanno compagnia solo le tenebre” (Sal 88,19). Come è possibile? Come può uno che diffonde su una folla scatenata nell’insultarlo la dolcezza del perdono, che rassicura un ladro con la promessa di una compagnia da condividere in un luogo delizioso, come può lanciare un simile grido di disperazione? Si ripete sulla croce l’ora terribile dell’agonia nell’Orto degli Ulivi, quando al suo bi-

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sogno di vicinanza e di compagnia risponde il son-no dei discepoli. Si capisce meglio il senso di que-sta parola se si ricorda che essa è il versetto inziale di un salmo, il 22, che ha aiutato la prima comunità cristiana a capire il senso di quanto era capitato a Gesù nella conclusione così tragica della sua vita. Diventa quindi importante percorrere l’intero sal-mo per entrare, attraverso la dinamica del testo, nell’animo di Gesù, e imparare da lui a vivere i mo-menti di crisi, che in misura più o meno grave, più o meno frequente, dobbiamo tutti affrontare – sen-za per questo perdere la speranza.

Giova ricordare che il salmo non va preso come una preghiera già fatta, che basta ripetere perché funzioni. Questa è un’idea magica di orazione, ma Dio non è un mago, e dobbiamo imparare a sta-re davanti a Lui come davanti ad una persona, che grazie all’incarnazione diventa concreta, visibile e palpabile, in Gesù, vero e unico mediatore. Ciò significa che Gesù trasmette a noi i sentimenti di Dio e presenta a lui i nostri, che lui ha voluto con-dividere nella sua vera e reale umanità. Questo sal-mo ci dice che Gesù può aver temuto per un mo-mento di essere abbondonato dal Padre, ma pian

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piano ha recuperato la fiducia. Ripercorrere questo percorso nel salmo 22 ci aiuta a fare nostra l’espe-rienza di Gesù nelle sue varie fasi, giungendo fino al traguardo di luce e speranza. Torna utile a questo proposito citare un passo di Giovanni Cassiano, che ci offre l’ottica esatta con cui pregare un salmo. Scrive infatti il grande mae-stro del monachesimo occidentale: “Alimentato da un tale costante nutrimento, comincerà a raccogliere in se stesso tutti i sentimenti contenuti nel salmi, fino a recitarli e cantarli non come composti dal profeta, ma come se fossero prodotti da lui stesso al modo di una preghiera tutta propria nata dalla profonda compun-zione del suo cuore, e così crederà che i salmi siano sta-ti creati in vista della sua persona, fino a convincersi che ciò che essi esprimono non fu formulato in passato dal profeta, ma che essi vengano di volta in volta ricre-ati e realizzati in lui, ogni giorno. (Conferenze X)» (Nico Guerini, Le ultime sette parole di Gesù sulla croce, Milano, Ancora Edizioni, 2018)

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Marc Antoine Charpentier – Tenebrae factae sunthttps://www.youtube.com/watch?v=c7T6pPQp5B4

Tenebrae factae sunt super universam terram dum crucifixerunt Jesum Judaei. Et circa horam nonam exclamavit Jesus voce magna: «Deus meus, quid me dereliquisti?».Et, inclinato capite, emisit spiritum.Et clamans voce magna Iesus ait:«Pater, in manus tuas commendo spiritum meum».Et, inclinato capite, emisit spiritum.

» TRADUZIONE

Calarono le tenebre su tutta la terraquando i giudei crocifissero Gesù.E verso l’ora nona Gesù grido a gran voce: «Dio mio, perché mi hai abbondato?»E, chinato il capo, emise lo spirito.E Gesù gridando a gran voce disse:«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».E, chinato il capo, emise lo spirito.

Marc-Antoine Charpentier è stato un compositore francese del periodo barocco, nato probabilmente a Parigi nel 1634. Ha lasciato più di 500 compo-sizioni di diverso stile, che vanno dalla leggerezza mai banale delle opere profane, fino alla severità tipica del repertorio sacro, di cui questo mottetto è una straordinaria testimonianza. Il testo unisce due delle parole di Gesù sulla croce, quella che urla l’abbondono del Padre, fatta propria dall’evan-

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gelista Marco, e l’altra piena di fiducia che esprime l’abbandono nelle mani del Padre, custodite come una perla nel vangelo di Luca. Il mottetto è una lunga e severa meditazione su queste parole, affidate alla straordinaria esecuzione del basso, la voce più bassa delle corde maschili. Le prime parole del responsorio affondano nel penta-gramma come l’anima di Cristo affonda nell’oscu-rità dell’angoscia causata dall’abbandono di ogni umana compagnia. La solitudine diventa estrema quando anche Dio scompare, e le tenebre scese sulla terra diventano un pallido riflesso dell’oscu-rità che opprime l’anima del figlio di Dio. Il can-to diventa forte come il grido di Cristo; si dilata fino a spezzarsi sulla parola «dereliquisti», simile ad un pianto a singhiozzo che esprime l’angoscia e lo strazio dell’uomo dei dolori. Poi la calma appa-rente della morte, che mette fine ad ogni angoscia, e il nuovo grido pieno di fiducia: «In manus tuas commendo spiritum meum».

◆ PER LA MEDITAZIONE

«Il grido di Gesù morente riprende la preghiera del Salmo 31: la preghiera, piena di confidenza in Dio, che i rabbini raccomandavano di recitare alla sera: “Padre, nelle tue mani depongo il mio spirito”. È la preghiera di un povero abbondonato, smentito, che nell’assenza di ogni verifica proclama la sua unica fiducia in Dio, e in quella fiducia abbandona tutto se stesso. Morire serenamente, fidandosi di Dio, è un altro tratto essenziale del martire cristiano.

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Diversamente da quanto raccontano Marco e Mat-teo, per Luca la vita di Gesù non finisce con un tragico interrogativo, ma nella serena convinzione di un compimento. Serenità, fiducia e abbando-no, questi i sentimenti di Gesù morente. Come per noi, anche per Gesù non c’è stata una salvezza dalla morte, ma una salvezza nella morte» (Bruno Maggioni, I racconti della passione e della risurrezio-ne nel Vangelo di Luca, Assisi, Cittadella Editrice, 2010, p. 74).

Signore Gesù, aiutaci a vedere nella Tua Croce tutte le croci del mondo.

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Marco Frisina – Del Re i vessilli avanzano https://www.youtube.com/watch?v=mvkl2f ZKjOY

Oppure: G. P. da Palestrina - O Crux https://www.youtube.com/watch?v=BPtAIghYnrw

O cruc ave, spes unica, hoc passionis temporeauge piis justitiam reisque dona veniam.

» TRADUZIONE

Ave o Croce, speranza unica, in questo tempo di passioneaccresci il timore nei fedeli e dona il perdono ai peccatori.

◆ PER LA MEDITAZIONE

«La più grande opera compiuta da Cristo è la sua Crocifissione. È stato crocifisso per la verità o per amore? Se per la verità, si sarebbe difeso. Eppure non si è difeso e ci ha mostrato il suo amore fa-cendosi crocifiggere per noi nell’ingiustizia, nell’u-miliazione. È questa la nostra vita. Vuoi vivere come Cristo? Puoi scegliere: ti puoi difendere e dimostrare la tua innocenza e così non sarai crocifisso. Oppure puoi non difenderti, accettare di essere umiliato per amore di Cristo e, dunque, essere crocifisso. Ti sembra che se pratichi l’amore ci perderai. Eppure è impossibile perché l’amore per natura “non avrà mai fine”. È impossibile che se pratichi l’amore in una data situazione poi ci per-di tu. Sarà l’amore a farmi stare a galla e a farmi giungere all’altra riva. L’amore ha ali di fuoco. Mi impedisce di affondare e mi trasporta da una riva

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all’altra. Ho detto che se il mondo, i malvagi, Sata-na riuscissero a farmi precipitare all’inferno, l’amo-re a cui mi sono aggrappato, come dicono i santi, mi innalzerà al cielo.

Al contrario, se ci aggrappiamo alla verità, ai princi-pi, alle regole, ai doveri, non sapremo mai se stiamo davvero difendendo la verità oppure è l’egoismo che è in noi ad agire. I princìpi che proclamiamo, a cui ci aggrappiamo, sono verità oppure sono degli umori, delle idee del tutto personali? Non si sa. Ma l’amore, se vi aggrappate ad esso, non potete dire che è egoismo perché l’amore è nemico dell’ego.

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Se afferrerai l’amore calpesterai il tuo ego, lo rin-negherai, lo ucciderai. Ciò significa che chi assu-me posizioni fondate sull’amore uccide se stesso. Guardate a Cristo e capirete. Poteva scegliere tra difendersi davanti a Pilato oppure offrirsi come sacrificio per coloro che amava. Se avesse pronun-ciato anche una sola parola di verità, Pilato avreb-be fatto all’istante un passo indietro. Ma la grande opera d’amore alla quale noi e il mondo intero ci abbeveriamo ogni giorno non si sarebbe compiuta. Nell’amore c’è davvero l’omicidio dell’ego. Nell’a-more c’è morte, totalmente autentica, totalmente assicurata. È una via divina, regale. Non ti farà mai perdere qualsiasi causa. Non ti farà mai regredire. Non ti farà mai pentire, mai, mai. Invece difendere la verità…» (Matta El Meskin, Ritrovare la strada, Bose, Qiqajon Edizioni, 2017)

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La Parola si fa silenzio

Lorenzo Perosi – Recessit Pastor nosterhttps://www.youtube.com/watch?v=PAR5ErXtqVY

Recessit pastor noster, fons aquae vivae, ad cuius transitum sol obscuratus est.Ecce quomodo moritur justus, et nemo percipit corde: et viri justi tolluntur et nemo considerat. A facie iniquitatis sublatus est justus: et erit in pace memoria eius.

» TRADUZIONE

E’ scomparso il nostro Pastore, la fonte di acqua viva,al cui passaggio il sole si oscurò.Ecco come muore il giusto e nessuno se ne duole:gli uomini giusti sono tolti di mezzo e nessuno vi pone attenzione.Il giusto è sottratto all’iniquitàe la sua memoria sarà nella pace.

Lorenzo Perosi è stato un sacerdote, musicista e compositore italiano. Ha pubblicato decine di messe, centinaia di mottetti, laude popolari, litanie e Oratori diffusi in tutto il mondo. E’ stato Maestro del coro della Cappella Sistina per molti anni, fino alla sua morte avvenuta nel 1956. Il brano è tratto dall’oratorio sacro «La Risurrezione di Cristo» composto nel 1898 e ripercorrere l’intera vicenda della morte e risurrezione di Cristo. Il testo della

SABATO SANTO

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cantata è dato dall’unione di due diversi responsori tratti dall’Ufficio delle Tenebre, Recessit Pastor No-ster ed Ecce quomodo. In esso si offre una medita-zione sulla morte di Cristo: è lui il pastore che mo-rendo offre la vita per il suo gregge, è Lui il giusto cantato dall’Antico Testamento che muore a causa dell’ingiustizia degli uomini, che viene tolto dal mondo affinché non conosca il male. Per questo il suo ricordo durerà in eterno.

◆ PER LA MEDITAZIONE

«Può apparire paradossale parlare del sabato santo perché per i cristiani è un giorno contrassegnato dal silenzio, un giorno che potrebbe apparire “tem-po morto”, svuotato di senso. Anche i vangeli tac-ciono su questo “grande sabato”: il racconto della passione di Gesù si arresta alla sera del venerdì, all’apparire delle prime luci del sabato e riprende solo con l’alba del primo giorno della settimana, il terzo giorno, appunto. Giorno vuoto, dunque? Nella tradizione cristiana occidentale, il sabato santo è l’unico giorno senza celebrazione eucari-stica, l’unico giorno restato “aliturgico”, senza ce-lebrazioni particolari: tacciono le campane, non ci sono fiammelle accese nelle chiese spoglie, né can-ti… Anche la preghiera dei cristiani si fa silenziosa ed è carica soprattutto di attesa: attesa di ciò che muterà profondamente ogni cosa, ogni storia.

Sabato santo, giorno dopo la morte, tempo in cui davanti ai discepoli c’era solo la fine della speranza, un’aporia, un vuoto su cui incombeva il non senso,

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l’insopportabile dolore, la lacerazione di una se-parazione definitiva, di una ferita mortale: Dov’è Dio? E’ questa la muta domanda del sabato santo. Dov’è quel Dio che era intervenuto al battesimo di Gesù, aprendo i cieli per dirgli: “Tu sei mio figlio, di te provo molta gioia” (Mc 1,11)? Dov’è quel Dio che era intervenuto sull’alto monte, nell’ora della trasfigurazione con Mosè ed Elia e aveva esclama-to: “Ecco mio figlio, l’amato!” (Mc 9,7)? Nell’ora della croce Dio non è intervenuto, a tal punto che Gesù si è sentito abbandonato da lui e glielo ha gridato: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abban-donato?” (Mc 15,34). Ecco, un giorno intero passa e non c’è intervento di Dio… Eppure Dio non ha abbandonato Gesù: se l’abbandono appare l’amara verità per i discepoli, Dio in realtà ha già chiamato a sé Gesù, anzi, lo ha già risuscitato nel suo Spiri-to santo e Gesù vivente è agli inferi ad annunciare anche là la liberazione. “Discese agli inferi” confes-siamo nel Credo. Ecco ciò che nel nascondimento avviene al sabato santo: giorno vuoto, silenzioso per i discepoli e per gli uomini, ma giorno in cui il Padre attraverso di lui porta negli inferi la salvezza. Come Giona nel ventre del pesce per tre giorni e tre notti (cf. Mt 12,40), così anche Gesù dalla cro-ce fu deposto nella tomba e, da lì, discese ancora, agli inferi, allo sheol dove dimorano i morti.

Mistero grande, sul quale oggi la chiesa sembra preferire tacere, quasi fosse afona. Eppure i padri della chiesa, e soprattutto la liturgia antica, hanno voluto cantare anche questa “azione” di Gesù dopo la sua morte. In un inno di Efrem il Siro così si can-

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ta: “Colui che disse ad Adamo ‘Dove sei?’ è sceso agli inferi dietro a lui, l’ha trovato, l’ha chiamato e gli ha detto: ‘Vieni, tu che sei a mia immagine e somiglianza! Io sono disceso dove tu sei per ri-portarti alla tua terra promessa!’”. Gesù, disceso agli inferi con la sua morte – una morte diventata “atto”, una morte assunta e vissuta – ha distrutto la morte stessa in un mirabile combattimento, come ricorda anche la liturgia siriaca: “Tu, Signore Gesù, hai combattuto con la morte durante i tre giorni del tuo dimorare nella tomba, hai seminato la gioia e la speranza tra quelli che abitavano gli inferi”.

Il cristiano oggi non dovrebbe dimenticare questo mistero del grande e santo sabato, vero preludio alla Pasqua ma anche lettura della discesa di Cri-sto nelle regioni infernali che abitano anche ogni cristiano, nonostante il suo desiderio di sequela di Gesù. Chi non riconosce in sé la presenza di questi inferi? Regioni non evangelizzate, territori di incre-dulità, luoghi dove Dio non c’è e nei quali ognuno di noi nulla può se non invocare la discesa di Cri-sto perché le evangelizzi, le illumini, le trasformi da regioni di morte assoggettate alla potenza del de-monio in humus capace di germinare vita in forza della grazia. Così il sabato santo è come il tempo della gravidanza, è un crescere del tempo verso il parto, verso il trionfo della vita nuova: il suo silen-zio non è mutismo ma tempo carico di energie e di vita.

Come non pensare al secolo che ci sta alle spalle come al secolo in cui il sabato santo è stata l’espe-rienza di molti credenti in Gesù e di altri uomini

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la cui fede solo Dio conosce e giudica? Nei cam-pi di sterminio sotto il nazismo, nei gulag e nelle prigioni sovietiche, in tanti paesi in cui l’ideologia atea comunista ha ridato martiri alla chiesa, quale profondo sabato santo… Anni fa, in Cina ho in-contrato un vescovo di quella chiesa ufficialmen-te non in comunione con Roma che in latino mi ha detto: “Noi viviamo il sabato santo, ma siamo in attesa della Pasqua: verrà! Dica al Santo Padre che lo amiamo!”. Sabato santo, Dio sembra assen-te, il male sembra prevalere, il dolore appare sen-za senso e Dio, dov’è? Sabato santo a volte anche per chi nel suo cammino di fede trova le tenebre, vede vacillare la propria fede, non riesce a nutrire speranza: giorno di insensibilità, in cui ogni fidu-cia sembra inaccessibile, troppo grande perché la si possa concepire. Sabato santo di molti malati, soprattutto quelli affetti dall’aids, legati a Cristo nella sua vergogna… Ma sabato santo anche come tempo in cui il sangue dei martiri e delle vittime cade come seme a terra per fecondarla in vista di un frutto abbondante, tempo in cui il disfacimen-to del nostro essere esteriore fa spazio alla crescita del nostro uomo interiore… Ognuno allora potrà dire del suo sabato santo: “Dio veramente era qui accanto a me, ma io non lo sapevo!” (Gen 28,16). Non c’è aurora di Pasqua senza sabato santo» (Enzo Bianchi).

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L’Amore Crocifisso e Risorto

Antonio Vivaldi – Gloria in excelsis Deohttps://www.youtube.com/watch?v=wXx_1pZV8tE

◆ PER LA MEDITAZIONE

«Oggi scopriamo che il nostro cammino non è vano, che non sbatte davanti a una pietra tomba-le. Una frase scuote le donne e cambia la storia: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (Lc 24,5); perché pensate che sia tutto inutile, che nessuno possa rimuovere le vostre pietre? Perché cedete alla rassegnazione o al fallimento? Pasqua, fratelli e sorelle, è la festa della rimozione delle pietre. Dio rimuove le pietre più dure, contro cui vanno a schiantarsi speranze e aspettative: la morte, il peccato, la paura, la mondanità. La storia umana non finisce davanti a una pietra sepolcrale, perché scopre oggi la «pietra viva» (cfr 1 Pt 2,4): Gesù risorto. Noi come Chiesa siamo fondati su di Lui e, anche quando ci perdiamo d’animo, quando siamo tentati di giudicare tutto sulla base dei nostri insuccessi, Egli viene a fare nuove le cose, a ribaltare le nostre delusioni. Ciascuno stasera è chiamato a ritrovare nel Vivente colui che rimuove dal cuore le pietre più pesanti. Chiediamoci anzitutto:  qual è la mia pietra da rimuovere, come si chiama questa pietra?

DOMENICA DI PASQUA

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Spesso a ostruire la speranza è la pietra della sfidu-cia. Quando si fa spazio l’idea che tutto va male e che al peggio non c’è mai fine, rassegnati arriviamo a credere che la morte sia più forte della vita e di-ventiamo cinici e beffardi, portatori di malsano sco-raggiamento. Pietra su pietra costruiamo dentro di noi un monumento all’insoddisfazione,  il sepolcro della speranza. Lamentandoci della vita, rendiamo la vita dipendente dalle lamentele e spiritualmen-te malata. Si insinua così una specie di  psicologia del sepolcro: ogni cosa finisce lì, senza speranza di uscirne viva. Ecco però la domanda sferzante di Pasqua: Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Il Signore non abita nella rassegnazione. È risorto, non è lì; non cercarlo dove non lo troverai mai: non è Dio dei morti, ma dei viventi (cfr Mt 22,32). Non seppellire la speranza!

C’è una seconda pietra che spesso sigilla il cuo-re: la pietra del peccato. Il peccato seduce, promette cose facili e pronte, benessere e successo, ma poi lascia dentro solitudine e morte. Il peccato è cer-care la vita tra i morti, il senso della vita nelle cose che passano.  Perché cercate tra i morti colui che è vivo?  Perché non ti decidi a lasciare quel peccato che, come pietra all’imboccatura del cuore, impe-disce alla luce divina di entrare? Perché ai lucci-canti bagliori del denaro, della carriera, dell’orgo-glio e del piacere non anteponi Gesù, la luce vera (cfr Gv 1,9)? Perché non dici alle vanità mondane che non è per loro che vivi, ma per il Signore della vita?

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Ritorniamo alle donne che vanno al sepolcro di Gesù. Di fronte alla pietra rimossa, restano alli-bite; vedendo gli angeli rimangono, dice il Van-gelo, «impaurite» e col «volto chinato a ter-ra» (Lc  24,5). Non hanno il coraggio di alzare lo sguardo. E quante volte capita anche a noi: preferiamo rimanere accovacciati nei nostri limiti, rintanarci nelle nostre paure. È strano: ma perché lo facciamo? Spesso perché nella chiusura e nella tristezza siamo noi i protagonisti, perché è più facile rimanere soli nelle stanze buie del cuore che aprirci al Signore. Eppure solo Lui rialza. Una poetessa ha scritto: «Non conosciamo mai la nostra altezza, finché non siamo chiamati ad alzarci» (E. Dickinson, We never know how high we are). Il Signore ci chiama ad alzarci, a risorgere sul-la sua Parola, a guardare in alto e credere che sia-mo fatti per il Cielo, non per la terra; per le altezze della vita, non per le bassezze della morte:  perché cercate tra i morti colui che è vivo?Dio ci chiede di guardare la vita come la guarda Lui, che vede sempre in ciascuno di noi un nu-cleo insopprimibile di bellezza. Nel peccato, vede figli da rialzare; nella morte, fratelli da risusci-tare; nella desolazione, cuori da consolare. Non temere, dunque: il Signore ama questa tua vita, anche quando hai paura di guardarla e prender-la in mano. A Pasqua ti mostra quanto la ama: al punto da attraversarla tutta, da provare l’angoscia, l’abbandono, la morte e gli inferi per uscirne vit-torioso e dirti: “Non sei solo, confida in me!”. Gesù è specialista nel trasformare le nostre morti in vita, i nostri lamenti in danza (cfr  Sal  30,12):

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con Lui possiamo compiere anche noi la Pasqua, cioè il passaggio: passaggio dalla chiusura alla comunione, dalla desolazione alla consolazione, dalla paura alla fiducia. Non rimaniamo a guardare per terra impauriti, guardiamo a Gesù risorto: il suo sguardo ci infonde speranza, perché ci dice che siamo sempre amati e che nonostante tutto quello che possiamo combinare il suo amore non cambia. Questa è la certezza non negoziabile della vita: il suo amore non cambia. Chiediamoci: nella vita dove guardo? Contemplo ambienti sepolcrali o cerco il Vivente?

Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Le donne ascoltano il richiamo degli angeli, che aggiungono: «Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea» (Lc  24,6). Quelle donne avevano dimenticato la speranza perché non ricordavano le parole di Gesù, la sua chiamata avvenuta in Galilea. Persa la memoria viva di Gesù, restano a guardare il sepolcro. La fede ha bisogno di riandare in Galilea, di ravvivare il primo amore con Gesù, la sua chiamata: di  ri-cordarlo, cioè, letteralmente, di  ritornare col cuore,  a Lui. Ritornare a un amore vivo col Signore è essenziale, altrimenti si ha una fede da museo, non la fede pasquale. Ma Gesù non è un personaggio del passato, è una Persona viven-te oggi; non si conosce sui libri di storia, s’incon-tra nella vita. Facciamo oggi memoria di quando Gesù ci ha chiamati, di quando ha vinto le nostre tenebre, resistenze, peccati, di come ci ha toccato il cuore con la sua Parola.

Fratelli e sorelle, ritorniamo a Galilea.

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Le donne, ricordando Gesù, lasciano il sepolcro. Pasqua ci insegna che il credente si ferma poco al cimitero, perché è chiamato a camminare incontro al Vivente. Chiediamoci:  nella mia vita, verso dove cammino? A volte ci dirigiamo sempre e solo verso i nostri problemi, che non mancano mai, e andiamo dal Signore solo perché ci aiuti. Ma allora sono i nostri bisogni, non Gesù, a orientarci. Ed è sempre un cercare il Vivente tra i morti. Quante volte, poi, dopo aver incontrato il Signore, ritorniamo tra i morti, aggirandoci dentro di noi a rivangare rimpianti, rimorsi, ferite e insoddisfazioni, senza lasciare che il Risorto ci trasformi. Cari fratelli e sorelle, diamo al Vivente il posto centrale nella vita. Chiediamo la grazia di non farci trasportare dalla corrente, dal mare dei problemi; di non infrangerci sulle pietre del peccato e sugli scogli della sfiducia e della paura. Cerchiamo Lui, lasciamoci cercare da Lui, cerchiamo Lui in tutto e prima di tutto. E con Lui risorgeremo» (Papa Francesco, Omelia Ve-glia Pasquale 2019).

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