La grammatica a scuola: quando? come? quale? perché? · 1 XVI Convegno Nazionale GISCEL La...

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1 XVI Convegno Nazionale GISCEL La grammatica a scuola: quando? come? quale? perché? Padova, 4-6 marzo 2010 Daniela Notarbartolo (ANSAS Nucleo territoriale ex-IRRE Lombardia) Val più la pratica della grammatica? Se la grammatica è una teoria, è necessario chiedersi a che cosa servano le teorie, e se non sia vero il famoso proverbio. Una buona teoria è qualcosa che permette di vedere sinteticamente un certo campo d’esperienza, rendendolo intellegibile nella sua varietà, oppure qualcosa che lo complica a dismisura ? È qualcosa che rende ragione della struttura e dei nessi fra le parti, per cui con pochi principi si capisce una molteplicità di fenomeni (Sabatini), oppure qualcosa che oscura l’insieme con la mole delle parti, fino a renderlo irriconoscibile? La constatazione è che la grammatica a scuola non rende maggiormente comprensibile, ma molto meno chiaro ciò che tutti adoperiamo di solito con una certa competenza pragmatica. Categorie, sottocategorie, frammentazione di un insieme fortemente unitario, oggetti dai contorni sfocati, tutto contribuisce alla opacità della materia. Il dubbio è che il modo di interrogare l’oggetto, il punto di osservazione, non sia adeguato. Come quando dalla fisica classica si è introdotto il principio di indeterminazione di Heisenberg e la teoria dei quanti: la realtà fisica era la medesima ma il modello esplicativo non era più adeguato a spiegare certi fenomeni. Si vedano le definizioni usate in grammatica, che restano il punto di partenza in qualunque manuale. Se ne lamentava già Monica Berretta nel 1977 (Linguistica ed educazione linguistica. Guida all'insegnamento dell'italiano, Einaudi), e pare che nulla sia cambiato nei libri di testo. Le definizioni dovrebbero dare criteri univoci per costruire insiemi coerenti (le classificazioni analitiche), per distinguere fra loro fatti apparentemente simili, o al contrario individuare fenomeni apparentemente diversi ma retti dalla medesima logica. Invece le definizioni sono chiavi che non aprono nessuna porta e ingannano l’allievo: come se gli si desse una cartina sbagliata per raggiungere un certo luogo. La conseguenza è che lo studente non distingue un che da un altro omofono, non distingue le parti del discorso, e interi capitoli gli restano oscuri (complementi predicativi, pronomi relativi, subordinate implicite e molto altro etc.). Ci sono esempi abbondanti di definizioni che non aiutano a capire e descrivono solamente i dettagli senza offrire criteri univoci per distinguere. Lo conferma una ricerca oggetto di un laboratorio didattico SSIS sulla definizione di predicato verbale e predicato nominale nei manuali: spesso essi sono definiti utilizzando come chiave distintiva il verbo essere, che invece è l’unica cosa che non distingue affatto (copula / ausiliare); ma vedi anche la confusione fra verbo e predicato, fra nome e soggetto, fra aggettivo e attributo. L’oggetto della grammatica non è la molteplicità delle realizzazioni. Anche le cosiddette regole sono tali solo in un senso particolare: regolare vuol dire sistematico, ha a che fare con l’accettabilità di certe forme in una certa lingua. Sono però poche le

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XVI Convegno Nazionale GISCEL

La grammatica a scuola: quando? come? quale? perché? Padova, 4-6 marzo 2010

Daniela Notarbartolo (ANSAS Nucleo territoriale ex-IRRE Lombardia) Val più la pratica della grammatica?

Se la grammatica è una teoria, è necessario chiedersi a che cosa servano le teorie, e se non sia vero il famoso proverbio. Una buona teoria è qualcosa che permette di vedere sinteticamente un certo campo d’esperienza, rendendolo intellegibile nella sua varietà, oppure qualcosa che lo complica a dismisura ?

È qualcosa che rende ragione della struttura e dei nessi fra le parti, per cui con pochi principi si capisce una molteplicità di fenomeni (Sabatini), oppure qualcosa che oscura l’insieme con la mole delle parti, fino a renderlo irriconoscibile?

La constatazione è che la grammatica a scuola non rende maggiormente comprensibile, ma molto meno chiaro ciò che tutti adoperiamo di solito con una certa competenza pragmatica. Categorie, sottocategorie, frammentazione di un insieme fortemente unitario, oggetti dai contorni sfocati, tutto contribuisce alla opacità della materia. Il dubbio è che il modo di interrogare l’oggetto, il punto di osservazione, non sia adeguato. Come quando dalla fisica classica si è introdotto il principio di indeterminazione di Heisenberg e la teoria dei quanti: la realtà fisica era la medesima ma il modello esplicativo non era più adeguato a spiegare certi fenomeni. Si vedano le definizioni usate in grammatica, che restano il punto di partenza in qualunque manuale. Se ne lamentava già Monica Berretta nel 1977 (Linguistica ed educazione linguistica. Guida all'insegnamento dell'italiano, Einaudi), e pare che nulla sia cambiato nei libri di testo. Le definizioni dovrebbero dare criteri univoci per costruire insiemi coerenti (le classificazioni analitiche), per distinguere fra loro fatti apparentemente simili, o al contrario individuare fenomeni apparentemente diversi ma retti dalla medesima logica. Invece le definizioni sono chiavi che non aprono nessuna porta e ingannano l’allievo: come se gli si desse una cartina sbagliata per raggiungere un certo luogo. La conseguenza è che lo studente non distingue un che da un altro omofono, non distingue le parti del discorso, e interi capitoli gli restano oscuri (complementi predicativi, pronomi relativi, subordinate implicite e molto altro etc.).

Ci sono esempi abbondanti di definizioni che non aiutano a capire e descrivono solamente i dettagli senza offrire criteri univoci per distinguere. Lo conferma una ricerca oggetto di un laboratorio didattico SSIS sulla definizione di predicato verbale e predicato nominale nei manuali: spesso essi sono definiti utilizzando come chiave distintiva il verbo essere, che invece è l’unica cosa che non distingue affatto (copula / ausiliare); ma vedi anche la confusione fra verbo e predicato, fra nome e soggetto, fra aggettivo e attributo. L’oggetto della grammatica non è la molteplicità delle realizzazioni. Anche le cosiddette regole sono tali solo in un senso particolare: regolare vuol dire sistematico, ha a che fare con l’accettabilità di certe forme in una certa lingua. Sono però poche le

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regole (Prandi), uno “zoccolo duro” fatto di concordanze, reggenze, ordine della frase, posizione dei modificatori, connessioni sintattiche ammissibili etc, quelle che permettono tra l’altro un approccio interlingua (Mariani). Importano le regole “centrali” e non quelle “periferiche” che subiscono oscillazioni, come per esempio il pronome gli nell’italiano neo-standard.

Gli oggetti indispensabili per condurre con strumenti adeguati gli studenti fino alle competenze di comprensione e di scrittura sono altri rispetto a quelli dell’analisi tradizionale: valore semantico dei connettivi, degli impliciti, regole di costruzione del lessico, coreferenze pronominali, successioni tematiche e macrostrutture di senso … (Serianni); oggetti che paiono non aver posto nella “teoria” grammaticale, ma cominciano a vedersi nelle prove standardizzate INVALSI e in altre prove di valutazione (Giscel Molise). Anche l'espressione grammaticale di categorie cognitive e comunicative (per esempio la negazione, la modalità, gli avverbi come modificatori …) resta fuori dalla teoria grammaticale (Schwarze). La grammatica non ha a che fare con le regole, ma con la varietà dei mezzi linguistici a disposizione per esprimersi. La teoria non è un modello astratto autoreferenziale, bensì la ragionevolezza e la comprensibilità della pratica.

Per concludere e dare un orizzonte a queste osservazioni: si rimprovera spesso al sapere umanistico-liceale di partire da definizioni per vederne poi l’applicazione, in grammatica fino al parossismo. Si tratta del limite di un certo sapere spacciato per teorico che si oppone radicalmente al sapere pratico applicativo dei settori tecnici. Invece la scienza è un modo di arrivare alla teoria partendo dall’osservazione e dall’esperienza, per arrivare alla legge e al modello. Il rinnovamento della scuola in direzione delle competenze attive di cittadinanza deve prendere una strada diversa proprio riguardo a ciò che si intende per teoria, e la grammatica può dare il buon esempio.

Bibliografia F. SABATINI, Lettera sul “ritorno della grammatica”, 2007 pro manuscripto, pubblicata in www.irrelombardia.it Ch.SCHWARZE, Grammatica della lingua italiana, trad. A.Colombo, Carocci 2009 M.PRANDI, Le regole e le scelte, UTET 2006 L.SERIANNI, Scritti sui banchi, Carocci 2009 D. NOTARBARTOLO, Intervista a A. Colombo sulla traduzione di Ch. Schwarze; Intervista a M.Prandi sul suo testo; Recensione a Scritti sui banchi di L.Serianni, in www.irrelombardia.it (http://www.irrelombardia.it/Progetti/Progetti-in-ordine-alfabetico/Insegnare-ancora-lagrammatica) L. MARIANI, Per un’educazione linguistica trasversale. La sfida della competenza plurilingue, relazione al convegno dell’USR Milano L’educazione linguistica oggi tra ricerca e didattica, 15 novembre 2007

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LA GRAMMATICA A SCUOLA VERSO IL XVI CONVEGNO GISCEL...

a cura di Donatella Lovison e Vittoria Sofia

Prologo

C’è chi vuole che la grammatica sia una serie di regole astruse, fatte per tormentare i ragazzi che le devono imparare. E chi racconta che insegni perfino il metodo migliore per tagliare un pollo. Dei primi non serve dar conto; ma se non avete mai provato a tagliare un cappone “per grammatica”, leggete questa novella[1], tradotta in un linguaggio moderno, del Sacchetti, scrittore fiorentino del Trecento.

C'era una volta un contadino benestante che aveva un figliuolo e due figlie. Essendogli morta la moglie, volle che questo suo figliuolo si facesse una posizione e lo mandò a studiare grammatica e legge a Bologna, città allora famosissima per gli studi.

Mentre il figliuolo era a Bologna a studiare, il contadino prese nuovamente moglie. Costei, che vedeva il marito spendere molti denari per mantenere onorevolmente il figliuolo fuori casa, incominciò a brontolare:

«Questo tuo figlio», diceva, «se ne sta laggiù a consumare denari, e io credo che non combini niente di buono, con tutto il suo studiare grammatica. Mi sembra, in verità, che sia soltanto un ‘corpo morto’. Nient'altro che un peso, per noi».

E così, ripeti oggi, ripeti domani, niente altro che ‘corpo morto ’ diceva per nominare il figliastro, tanto che la voce di quel soprannome che gli era stato affibbiato giunse anche all'orecchio del giovane studente.

Avvenne un giorno che egli tornò a passare le vacanze a casa. Per il suo arrivo, il padre aveva fatto preparare un bel cappone, e, quando tutti furono seduti a

tavola, la malevola matrigna sussurrò all'orecchio del marito: «Fa' che sia lui a tagliare il cappone, e digli che lo tagli ‘per grammatica ’, così vedremo se ha

davvero imparato qualcosa di utile». Il giovane, che era assai sveglio, non si fece ripetere due volte l'invito, e, presosi dinanzi il

piatto, cominciò a tagliare: «Tu, babbo», diceva, «sei il capo della casa, e come tale ti spetta, appunto, il capo del

cappone», e glielo mise nel piatto. «Tu, madre, sei la donna di casa, e per questo devi tutto il giorno stare in faccende, ed andare

su e giù per le stanze; dunque a te spettano le zampe del cappone» e gliele mise nel piatto. «Voi, sorelle mie, dovrete presto volar fuori casa per sposarvi: che cosa potrei darvi, dunque,

se non le ali?» e, tagliatele, ne diede una a ciascuna sorella. «Quanto a me», concluse, «io non son altro che un ‘corpo morto’. Per questo mi prenderò

questo corpo morto del cappone che resta sul piatto». Ciò detto, si mise a masticare gagliardamente, lasciando stupefatti i parenti, che si erano

accorti a loro spese di quanto valesse l'arte di tagliare un cappone per grammatica.

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E se conoscere la grammatica significasse semplicemente saper parlare e scrivere nella nostra lingua: che è, per fare un paragone, come conoscere il sistema per far funzionare un complicato motore? Per imparare il funzionamento di un motore, lo si smonta e lo si studia nelle sue varie parti; poi si rimettono insieme i pezzi, osservando attentamente come si collegano gli uni con gli altri; quando infine il motore è a posto, ben oliato e funzionante, lo si mette in moto. Così procede la grammatica: essa studia uno per uno i vari pezzi che compongono la lingua italiana, come sono fatti, di quanti tipi sono, a che cosa servono; poi studia i modi con i quali questi vari pezzi si collegano tra loro, in modo da formare, con il loro armonioso accostamento, quella bella macchina che è una pagina scritta bene.

A chi vuole esplorare il territorio con leggerezza prima di mettersi in viaggio, consigliamo le pp. 35-41 di questa deliziosa operetta di Edmondo De Amicis. http://www.pelagus.org/it/libri/L'IDIOMA_GENTILE,_di_Edmondo_De_Amicis_1.html

[1] Dalla raccolta “Trecentonovelle” di Franco Sacchetti, la cui nascita, in data e luogo, è tuttora considerata incerta (da Benci d’Uguccione Sacchetti in Ragusa – Dalmazia – 1330, o Firenze, 1335). Morì in San Miniato nel 1400, anche questo non certo. Rimangono, delle trecento originarie, 223 operette poste ancora fra il meglio della nostra letteratura novellistica.

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Casellario grammaticale di Adriano Colombo [Italiano & Oltre, n. 5/1987, pp. 209-211]

In Emilia Romagna è stata condotta un’indagine su come i ragazzi classificano le parole secondo le tradizionali parti del discorso. Ancora una volta viene confermata la loro inadeguatezza educativa.

1. Che cos’è un nome? Un alunno: «Io intendo per nomi le cose, gli oggetti». Insegnante: «Che cos’è per voi

un verbo?» Alunni: «L’azione che si compie»[1]. Un prezioso fascicolo stampato da una scuola media di Sassuolo (Modena) riporta

una serie di esperienze didattiche nel campo dell’educazione linguistica condotte nell’anno scolastico 1982-83. Nel caso in questione, i ragazzi dovevano classificare secondo le parti del discorso le parole di due brani. Di grande interesse sono le registrazioni dei dialoghi svoltisi nelle classi nel corso della verifica dei lavori. Gli allievi vengono invitati a giustificare le loro scelte, a esplicitare i loro criteri. Emergono così con immediatezza le concezioni grammaticali che questi ragazzi hanno assimilato attraverso la loro personale rielaborazione degli insegnamenti ricevuti nella scuola elementare e media.

Questa grammatica ha un fondamento teorico preciso. Il mondo è fatto di cose, qualità e azioni, e i nomi, gli aggettivi, i verbi sono le etichette che rispecchiano fedelmente, senza mediazioni, queste categorie del reale. La funzione della lingua si esaurisce nel nominare una realtà in sé già data e definita. Insomma, questa grammatica è una metafisica. Basta osservare le definizioni che i ragazzi si sforzano di dare del nome: «È come chiamare una cosa». «È il nome proprio di quella cosa... fa capire bene il significato di quella cosa di cui si sta parlando,.. è il nome dell’oggetto,.. per esempio ‘matita’ è il nome della matita». Dalla metafisica, è poi facile il passaggio alla magia: perché nella mente del ragazzo, che sembra essere per natura un ‘realista’ spinto, può accadere che il rapporto di riferimento da parola a cosa sia superato di una identificazione completa: come nelle battute citate all’inizio, dove il nome non indica la cosa, ma è la cosa, il verbo non indica, è l’azione.

Chi cresca con una simile visione della lingua sarà probabilmente indifeso di fronte alle mille ambiguità, ai giochi, ai trucchi che la lingua consente, anzi incarna istituzionalmente nel dar corpo al pensiero. Probabilmente crederà all’importanza di dirsi «riformatori» piuttosto che «riformisti», o viceversa, perché se le parole sono due, due devono essere le cose; tratterà le «affezioni cutanee» con ben altro rispetto che le «malattie della pelle»; crederà all’eternità della «famiglia», dato che uno stesso termine si applica a situazioni lontane nel tempo, e non importa se le situazioni sono svariatissime; infine farà forse fatica a distinguere tra «imputato» e «colpevole», perché dal momento che un reato è stato nominato, deve esistere. (Tutti questi esempi, è evidente, sono puramente immaginari.)

2. Le analisi dei ragazzi Anni fa, mentre svolgevo questo tipo di considerazioni davanti ai colleghi di una

scuola elementare, mi fu obiettato: «Lei fa della filosofia; a noi interessa solo insegnare la grammatica». Il succo dell’argomento mi sembra questo: non importa se le nostre

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definizioni sono criticabili da un punto di vista teorico, e poco rigorose; l’importante è che funzionino, che servano ad analizzare i testi.

L’argomento ha una sua forza: non c’è dubbio che quanti di noi adulti sanno parlare di grammatica l’hanno imparata in modi “tradizionali”, non dissimili da quelli adottati coi ragazzi che forniscono l’occasione di questo discorso. Attraverso quel genere di definizioni abbiamo pure imparato a distinguere nomi, verbi, aggettivi, e sentiamo che queste categorie corrispondono a fenomeni che nella lingua sono reali; il sentimento è confermato dalle ricerche dei linguisti, che non hanno mai radicalmente contestato la validità delle “parti del discorso”.

Questo punto merita di essere sottolineato. Qui si mette in discussione la “grammatica tradizionale” non per la sostanza delle categorie di analisi che impiega, ma per le definizioni, semantiche e sostanzialiste, che ne vengono date, e per l’approccio didattico che ne consegue. La didattica tradizionale procede su due piani: da un lato ci viene insegnato che «il verbo indica l’azione», dall’altro ci vengono presentati, ostensivamente, come verbi ricevere, risplendere, sembrare; applicata a questi casi la nozione di «azione» non significa assolutamente nulla, ma intanto, in modo del tutto implicito, ci si è suggerito ciò che si intendeva veramente: il verbo si riconosce in base a un criterio formale, morfologico, in base alla sua coniugazione. Lo stesso accade per la categoria del nome, di cui ci si dice che indica «persone, animali, cose» (ogni tanto mi domando che fine fanno i vegetali in questa lista), e poi «sentimenti, concetti, azioni...»; una lista così sterminata non può certo servire da criterio di riconoscimento; ma intanto, la massa degli esempi ci permette di arrivare intuitivamente, più o meno bene, a identificare i nomi.

Io credo che questa didattica contenga una lezione di disonestà intellettuale: il messaggio sottinteso è «non badare a quel che dico, ma a quel che faccio»; ti do una teoria, ma non prenderla troppo sul serio, l’importante è che ci mettiamo d’accordo sui risultati. Chi al contrario si ostini ad applicare davvero le definizioni che ha imparato, è condannato a sbagliare.

Le argomentazioni dei ragazzi di Sassuolo lo dimostrano in maniera esemplare. Era stato loro richiesto di classificare la parole in «nomi», «verbi», «articoli» e «altre parole» (il perché di questa classificazione monca non è spiegato nel fascicolo). Vediamoli dunque alle prese con alcuni casi concreti.

Di fronte alla forma può, un allievo dice: «L’ho messo in “altre parole” perché, oltre a non aver fatto il ragionamento del verbo, forse non mi dava la sensazione del movimento». In che cosa sarebbe consistito il giusto «ragionamento del verbo» non è detto; ma certo l’andare in cerca di una «sensazione» è un’applicazione adeguata di definizioni sostanzialiste, e l’associare l’idea di movimento a quella di “azione” mi sembra perfettamente lecito.

Un’espressione da analizzare era «un mazzo di asparagi novelli». Un gruppo di ragazzi classifica novelli come nome, con questa motivazione: «Io ho messo nome perché mi sembrava il nome degli asparagi, perché gli asparagi si chiamano novelli». Se la funzione del nome è quella di «chiamare le cose», rispecchiando una predeterminata gerarchia degli enti, il ragionamento ha una sua logica. Viceversa, c’è una qualche difficoltà a riconoscere un nome in mazzo: «Perché può essere sia un aggettivo che un nome, perché indica sia una quantità che una qualità».

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In generale, molti ragazzi non riescono a separare l’idea del nome da quella di un oggetto materiale: «Il nome sarebbe una cosa che si tocca». Tutta una classe ha messo difficoltà in «altre parole» con questa motivazione: «non è un nome, non è un oggetto, non è un animale, una persona, è una cosa che non si può toccare, è astratta e quindi è un aggettivo». Manca, nel discorso, l’osservazione che la difficoltà è una proprietà di certi fatti, una “qualità”, ma è probabile che questo fosse il ragionamento implicito, e perfettamente rispondente all’insegnamento ricevuto. Similmente, in «barca da corsa» la parola corsa «È un aggettivo, perché definisce come è la barca».

I nomi deverbali sono regolarmente classificati come verbi da una parte degli alunni: accade per scricchiolio, cigolio, saltelli («fare i saltelli con la corda»), salto («ad ogni salto»: «L’ho messo nel verbo perché mi ha fatto venire in mente la persona che salta»). C’è infine una battuta esemplare a proposito della parola azione: «Io, verbo, perché lo dice anche la parola che fa l’azione, quindi è un verbo». Mi era capitato in passato di dire una cosa del genere, come argomento ironico contro la definizione tradizionale del verbo; credevo di inventare, e invece...

Accanto agli errori indotti dall’insegnamento, sono notevoli i luoghi in cui i ragazzi, applicando più o meno inconsapevolmente un’analisi di tipo formale, sintattico, piuttosto che sostanziale e semantica, e più flessibile di quella richiesta dalla scuola, si avvicinano a intuizioni felici sulla struttura della lingua, che non possono essere accolte dall’insegnante ancorato a schemi dogmatici. Un esempio significativo è offerto dal seguente dialogo: Alunno: «Lui li conta, lui nome». Insegnante: «Lui è un nome?». Altri alunni: «È un pronome». Insegnante: «Tu perché l’hai messo tra i nomi, cosa è per te un nome?». Alunno: «Quello che compie l’azione». Insegnante: «Allora è giusto che lui sia tra i nomi?». Alunni in coro: «No». Applicando a modo suo una definizione sintattica (il nome si riconosce dalle posizioni che può occupare nella frase), il ragazzo è andato vicino a una generalizzazione importante: il pronome è un nome, per quanto di tipo particolare, di significato generico (questa sconvolgente “novità” si può , far risalire ad Apollonio Discolo, II sec. d.C); ma l’insegnante è legato a una classificazione rigida, e ha buon gioco nel fare appello al resto della classe, che ha imparato una “grammatica di liste”[2], e sa a priori in quale lista si incontra lui.

Ancora, a proposito dell’espressione «una marmitta contenente un bel mazzo di asparagi novelli», gli alunni si dividono sulla categorizzazione di contenente: «Per me è un nome, perché contenente è la pentola». «Secondo me è un aggettivo». «Contenente è un verbo perché fa l’azione di contenere». Quale migliore occasione per mostrare la doppia natura del participio che è verbo e insieme aggettivo, come ben videro gli antichi scopritori di questa categoria? Ma l’insegnante vuole che ad ogni parola sia attribuita una e una sola etichetta, e conclude: «Contenente è il participio presente del verbo contenere. Quindi, in questo caso non è un aggettivo, né un nome».

Un’altra occasione va sprecata quando qualche allievo propone di classificare ogni e alcune tra gli articoli: ha intuito la comune funzione sintattica degli articoli e degli aggettivi determinativi, che ha portato a istituire la categoria dei determinanti; ma l’intuizione non può essere accolta da una grammatica che procede per liste rigidamente separate.

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3. Alla ricerca di altre vie Credo che queste considerazioni siano d’attualità, nel momento in cui assistiamo

non al “ritorno”, ma al trionfo della grammatica nella scuola media; e della grammatica tradizionale. I libri di testo che vanno per la maggiore sono i più tradizionali, o peggio, quelli che affiancano a un’impostazione tradizionale qualche riverniciatura terminologica (che crea solo confusione), o qualche marginale rubrica “moderna”. Ma mi sembra di aver notato che anche alcuni manuali seriamente innovativi lo sono nelle parti dedicate alla storicità e variabilità della lingua, o all’educazione testuale, con approfonditi capitoli dedicati allo sviluppo delle abilità linguistiche; ma quando si viene al “nocciolo” tradizionale degli studi grammaticali, alla morfosintassi, la trattazione tende a ripercorrere le vie consuete. Insomma, pare diffondersi l’idea che l’educazione linguistica ha sì una portata ben più vasta della grammatica tradizionale, ma che per quanto riguarda la parte che si è sempre insegnata, l’analisi della frase, c’è un solo modo di insegnarla, e bisogna rassegnarsi.

Gli esempi che ho portato dimostrano forse a sufficienza che l’approccio tradizionale alla grammatica non è soltanto teoricamente infondato, come tante volte è stato ribadito, ma è didatticamente dannoso, per tre principali ragioni: (a) perché induce in errore (non è dunque, come qualcuno crede, “più facile” di altri approcci, perché ciò che fa sbagliare non è facile); (b) perché mancando di coerenza, infonde atteggiamenti di disonestà intellettuale e una mentalità dogmatica e antiscientifica; (c) perché si basa sul presupposto, di origine aristotelica[3], di una coincidenza tra le categorie della lingua e le categorie della realtà, che impedisce di riconoscere il carattere arbitrario della lingua, il rapporto sempre problematico tra le parole e le cose, e dunque di porsi in atteggiamento critico verso i messaggi linguistici.

È possibile un approccio diverso alla grammatica (intesa qui nel senso più ristretto, come morfosintassi), che vada esente da queste pecche? Di un tale approccio si possono se non altro indicare alcuni requisiti generali: (a) dovrebbe partire da un’analisi e definizione delle categorie di tipo formale e sintattico; (b) in questo modo dovrebbe dare il senso della relativa autonomia dei meccanismi linguistici rispetto ai contenuti nozionali di cui sono veicolo e alle funzioni comunicative, che è un aspetto essenziale dell’arbitrarietà della lingua[4]; naturalmente gli aspetti nozionali e funzionali non dovrebbero essere ignorati, ma tenuti su un piano distinto e suscettibile di sfasature rispetto al piano delle forme; (c) dovrebbe fare affermazioni verificabili e non contraddittorie; nei casi in cui non è possibile andare al di là di un’analisi approssimativa, dovrebbe dichiarare apertamente i propri limiti.

Tutto questo può dare ancora un’idea molto generica di come sarebbe fatta una tale grammatica; d’altra parte, per illustrarla nei dettagli, bisognerebbe scriverla. Chissà...

Indicazioni bibliografiche Una rassegna piuttosto ampia del dibattito sull’insegnamento della grammatica si trova in A. Colombo, La riflessione grammaticale: riflessioni di un conservatore, in AA.VV., Quale grammatica?,

Edizioni scolastiche B. Mondadori, Milano 1982, pp. 12-70. Tra gli interventi successivi più notevoli si possono ricordare:

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D. Bertocchi, La riflessione sulla lingua in LI e L2: alcune ipotesi per un curricolo comune nella scuola media, in AA.VV., Interdisciplinarità L1-L2, Edizioni scolastiche B. Mondadori, Milano 1983, pp. 71-94.

R. Simone, Può il ragazzo amare la grammatica?, «CIDI quaderni», VII (1983), n. 15, pp. 76-87. R. Simone, Per una grammatica nozionale, in AA.VV., L’educazione linguistica dalla scuola di base al

biennio della superiore, Edizioni scolastiche B. Mondadori, Milano 1984, vol. I, pp. 131-147. M. Berretta, La competenza metalinguistica nella scuola di base, ibid., vol. I, pp. 148-161. S. Gensini, Il verbo indica l’azione, «Riforma della scuola», 9-10 (1984), pp. 58-63; 11 (1984) pp. 49-52; 12

(1984), pp. 48-49. S. Gensini, La grammatica dell’italiano. Appunti per la discussione, «Lingua e nuova didattica», 3 (1985),

pp. 3-13. T. Scarduelli, La riflessione sulla lingua, in AA.VV., La didattica dell’italiano nel biennio, Marietti, Tonno

1986, pp. 50-104. I. Poggi, Introduzione, in Le parole nella testa, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 7-60.

[1] Scuola Media «G. Cavedoni» - Sassuolo: Pensare le parole. La grammatica: contenuti cognitivi e norme linguistiche, stampato con il patrocinio del Distretto Scolastico n. 19 di Sassuolo, s.d. [2] Cfr. R. Simone, Per un grammatica nozionale, in AA.VV., L’educazione linguistica dalla scuola di base al biennio della superiore, Edizioni scolastiche B. Mondadori, Milano 1984, vol. I, pp. 131-147. [3] Cfr. T. De Mauro, Introduzione alla semantica, Laterza, Bari 1965. [4] Su questo punto la mia tesi è in parziale contrasto con quanto sostenuto negli ultimi anni dai più autorevoli interventi sulla questione della grammatica (citati in bibliografia), che hanno insistito sull’opportunità di applicare la riflessione sulla lingua anzitutto ai concreti atti comunicativi.

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Per un'«educazione linguistica essenziale»: la riflessione sulla lingua di Adriano Colombo [La didattica, anno III n. 3, marzo 1997, pp. 51-55]

L’ambito della riflessione sulla lingua è forse il più difficile da trattare nella prospettiva di una “essenzializzazione” dell’educazione linguistica. È quello su cui si è raggiunta la minore chiarezza e omogeneità di proposte, e che stato quasi abbandonato dagli esperti dopo le vivaci discussioni degli anni settanta (1); è anche l’ambito in cui si scontano più pesantemente la scarsità dell’offerta formativa universitaria e le conseguenti carenze di preparazione degli insegnanti. È infine l’ambito in cui l’esplosione dei contenuti disciplinari proponibili è stata maggiore, in quanto è il più esposto a registrare direttamente la dilatazione del campo delle scienze del linguaggio che si è avuta in questi decenni.

Gli ambiti La stessa innovazione terminologica (“riflessione sulla lingua” al posto di

“grammatica”) implica, tra altre cose, un allargamento dell’oggetto, che non coincide più col tradizionale campo della morfosintassi, ma include potenzialmente la semantica (poco praticata in verità, nonostante gli appelli degli esperti e le indicazioni ufficiali), elementi di grammatica testuale, retorica e pragmatica, la considerazione della variabilità funzionale, geografica e sociale, storica della lingua, e potrebbe includere elementi di fonologia, che sono però di fatto ignorati.

Questa abbondanza di proposte - riflessa nell’incontrollata dilatazione dei manuali - è uno dei fattori dell’incertezza e confusione che si verifica da tempo nell’insegnamento. È su questo terreno, a mio parere, che vanno poste preliminarmente le domande strategiche di una “didattica essenziale”: che cosa insegnare? che cosa prima, che cosa poi?

La mia risposta è in un certo senso tradizionale: sono convinto che la morfosintassi debba necessariamente restare il “nocciolo” prioritario di qualunque riflessione sulla lingua. La morfosintassi dovrebbe fornire una batteria di strumenti concettuali e procedure indispensabili a ogni altro approccio riflesso alla lingua: che si tratti di lessico, di strutture testuali, di analisi stilistiche, di retorica e pragmatica della scrittura, di variazioni funzionali o di storia linguistica, ad ogni passo ci si imbatte nella necessità di usare categorie come “nome”, “verbo”, “soggetto”, tempi e modi, strutture di frase ecc. Queste categorie dovrebbero essere fondate in modo chiaro, razionale e organico (intendo insinuare che spesso lo sono in modo confuso, irrazionale e disorganico): si tratta di costruire un lessico tecnico condiviso, ridotto rispetto alla selva terminologica corrente, e insieme di indurre un atteggiamento analitico e critico senza il quale la riflessione sulla lingua non è riflessione.

Accanto alla morfosintassi, nella scala delle priorità, porrei la riflessione sul lessico: in parte per le stesse ragioni (l’indispensabilità di categorie come “derivazione”, “sinonimia”, “iperonimia”, “polisemia”), in parte per la “naturalità” di un approccio ai significati delle parole, in parte perché la capacitò di maneggiarli consapevolmente è centrale nello sviluppo delle abilità linguistiche.

Il resto può venire dopo. Ovviamente non si tratta di vietare, quando se ne presenta l’opportunità, anche ai primi livelli, una riflessione su una variazione di usi o su un

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meccanismo di costituzione dei testi; ma di stabilire un punto di partenza, una graduatoria di rilevanza rispetto alle fasi del curricolo.

Obiettivi, metodi, approccio teorico Le priorità di contenuto che ho abbozzato dipendono da una gerarchia di obiettivi,

che conviene esplicitare. Nei discorsi correnti, anche ad alti livelli, si continua ad associare l’idea della grammatica al problema della correttezza nello scrivere; pare che il legame diretto tra riflessione sulla e pratica della lingua, negato spesso a parole, resti fisso in molte menti. L’ipotesi che tratteggio parte invece da una distinzione chiara fra i due ambiti, salvo vederne poi le convergenze. Non si dà conoscenza riflessa che non sia teoria, costruzione di modelli interpretativi del reale; la riflessione sulla lingua o si giustifica come teoria, o non si giustifica.

Si giustifica, a mio parere, intanto per la significatività dell’oggetto di conoscenza: se la lingua è al centro della nostra attività mentale e sociale, è importante che il cittadino mediamente istruito ne conosca e capisca qualcosa, non solo in funzione di un uso immediato di queste conoscenze, così come è importante che sappia qualcosa di anatomia e fisiologia, non solo in funzione dell’educazione alla salute. Conoscere e capire implica l’uso di concetti scientificamente accettabili, cioè coerenti, falsificabili, costruiti sperimentalmente a partire dai dati. Qui si situa la seconda giustificazione della riflessione come teoria: essa consente di sperimentare un approccio di tipo scientifico forse meno arduo di altri, in quanto i dati sperimentali sono alla portata di tutti (i testi, gli usi) e la profondità delle astrazioni richieste non è vertiginosa.

Intendo insistere sulla riflessione sulla lingua come attività intelligente (2). L’insistenza non è superflua, se pensiamo a quanto di dogmatico, meccanico e mnemonico c’è stato nell’insegnamento grammaticale, e sopravvive in particolare proprio nella parte che ho proposto come “nocciolo”: molti insegnanti, tutt’altro che sprovveduti, eventualmente molto bravi nel promuovere attività testuali ricche e mirate, per riferirsi alla morfosintassi parlano di “grammatica normativa”, con questo declassandola a banale sussidio pratico, male necessario.

La priorità della finalità cognitiva implica la scelta di un metodo didattico attivo, sperimentale, induttivo (o ipotetico-deduttivo): le categorie possono essere definite e usate solo dopo essere state costruite da o con gli allievi attraverso la rilevazione, il confronto e la manipolazione dei dati testuali (3)

Quanto ai modelli linguistici di riferimento, c’è oggi un largo accordo sul fatto che non dovrebbero ispirarsi a una determinata tendenza della ricerca, ma a un ragionevole eclettismo. Questo è vero soprattutto in estensione, dato che nessuna “scuola” linguistica pare in grado di assicurare una copertura sufficiente alla gamma dei fenomeni che interessano all’insegnamento. Si può avere dunque la convivenza di spezzoni teorici (semplificati) attinti a fonti diverse, a condizione che siano compatibili e in sé attendibili; eclettismo non significa che tutte le teorie si equivalgono: ce ne sono di quelle che alla prova dei dati non reggono (le definizioni di origine aristotelica delle parti del discorso identificate con “azioni”, “sostanze”, “qualità”, ad esempio (4), o la “frase minima” della sintassi di Martinet), e insegnamenti sbagliati producono apprendimenti sbagliati e inutilizzabili.

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Il terreno comune tra diversi spunti teorici si potrebbe trovare nell’approccio “nozionale”, quale è stato a più riprese caldeggiato da Raffaele Simone (5): esso implica che le forme linguistiche e le loro classificazioni siano viste costantemente sullo sfondo delle categorie mentali profonde che manifestano, senza presupporre una coincidenza tra i due livelli (come accade nella tradizione aristotelica e “modista”), ma esaminando coincidenze, sovrapposizioni e sfasature tra sistemi linguistici e categorie mentali; la considerazione per gli aspetti funzionali (nel senso di Halliday) del linguaggio si unisce così all’attenzione per gli elementi di arbitrarietà delle lingue, che è essenziale per una percezione critica della comunicazione. Tutto questo, detto così in generale, può apparire astruso, ma può realizzarsi in termini semplici, fin dal momento in cui si insegna ai bambini di otto anni a usare le categorie di genere e numero.

Alla luce della finalità prioritaria che ho accennato si possono vedere anche altri obiettivi più diffusamente considerati propri della riflessione sulla lingua:

- la correttezza: che le conoscenze grammaticali non producano automaticamente un monitoraggio sulla produzione scritta e (tanto meno) orale è stato acquisito da tempo; ma possono contribuirvi indirettamente, non solo in quanto forniscono strumenti e terminologia per identificare a posteriori l’errore, ma in quanto dovrebbero produrre l’attitudine analitica, la capacità di “vedere” i costrutti, le frasi e le parole, la presa di distanza dal vivo della comunicazione che è necessaria per poter discutere in termini di correttezza (qualunque siano poi i criteri di correttezza assunti, che è un’altra questione);

- il rapporto con l’insegnamento delle lingue straniere; che questo abbia bisogno, in vari momenti (per quanto non iniziali) anche di spiegazioni grammaticali, pare fuori discussione; la riflessione sulla lingua madre ha il compito di fungere anche da “grammatica generale”, di fornire un’attrezzatura concettuale riutilizzabile nell’apprendimento della lingua nuova; può farlo in quanto non sia ossessivamente normativa, ma orientata a una comprensione intelligente dei fenomeni, che dia spazio alle analisi contrastive proiettandole sullo sfondo nozionale comune alle diverse lingue (6).

- lo sviluppo delle abilità linguistiche: per quanto “riflettere” sia in natura distinto da “fare”, la conoscenza riflessa può indubbiamente contribuire a una migliore padronanza linguistica,in particolare a livelli avanzati; può ad esempio favorire una certa flessibilità ideativa (la consapevolezza che esistono modi diversi di dire una stessa cosa, e la capacità di provarli); è indispensabile quando la lettura diventi analisi testuale; sfuma nella pratica dei testi ai livelli più alti della teoria testuale (coerenza, tipologia dei testi).

La collocazione nel curricolo Il problema di come la riflessione sulla lingua si collochi nel curricolo ha due facce.

La prima riguarda la sua situazione nell’impianto complessivo di un corso di Italiano: la maggiore o minore separatezza delle “ore di grammatica”, il rapporto fra la riflessione e la pratica concreta dei testi, il carattere più o meno autonomo e organico, o viceversa più o meno episodicamente legato a contesti motivanti, dei percorsi di riflessione. La questione è intricata e difficile da risolvere in termini generali. Molti insegnanti, soprattutto ai livelli della scuola media e del biennio, sono convinti che nessuna riflessione è motivata, e quindi produttiva, se si separa dal suo impiego immediato nell’analisi e produzione di testi; pare convergere con questo atteggiamento l’autorevole

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proposta di una “grammatica dal testo” (7). Personalmente sono convinto che le generalizzazioni grammaticali, lessicali, testuali sono tali in quanto valgono indipendentemente dai singoli testi, costituiscono un potenziale di opzioni anteriore alle diverse situazioni comunicative in cui si realizzano; questo dovrebbe risultare chiaro nell’impianto degli obiettivi di un corso, che dovrebbero comprendere un insieme di conoscenze e competenze strutturato, non lasciato all’arbitrio delle occasioni. Altra cosa, e necessaria, è reimpiegare continuamente quanto appreso nel vivo delle pratiche testuali, mostrandone la spendibilità e arricchendolo di senso. Altra cosa, ancora,è l’ipotesi di una riflessione sulla lingua “a finestre”, pensabile soprattutto in fasi avanzate: si tratta di utilizzare le occasioni testuali per colorire di volta in volta singole parti di un disegno organico; ipotesi difficile, ma non incompatibile con una conoscenza strutturata, a patto che insegnanti e studenti abbiano chiaro, di volta in volta, “dove si trovano”, come si colloca in un quadro complessivo ciò che vanno esaminando.

Il secondo aspetto della collocazione curricolare della riflessione sulla lingua è quello “verticale”: come distribuire conoscenze, competenze, abilità tra gli obiettivi propri dei tre livelli in cui la riflessione è praticata (scuola elementare, media, biennio superiore); come evitare ripetizioni e sprechi, false partenze, discontinuità. È noto che la situazione attuale da questo punto di vista è molto insoddisfacente: si fanno pressapoco dappertutto le stesse cose, ma con approcci spesso incomunicanti, le conoscenze acquisite a un livello sono utilizzate poco e male nei successivi. Una razionalizzazione degli sforzi - implicita nell’idea di “didattica essenziale” - esige che si formulino ipotesi coerenti, tenendo conto delle esigenze proprie di ciascun livello di età, dei programmi vigenti, di una ragionevole previsione dei tempi disponibili, e infine di ragionevoli margini di libertà didattica. È quanto mi riprometto di fare, nei limiti di una proposta parziale e tutta da discutere, in un prossimo articolo.

Note 1. Rimando in proposito alle osservazioni che ho fatto su questa rivista, n. 4, 1996, p.75. 2. Si veda in proposito V.Deon, “Una grammatica per l’intelligenza”, in La riflessione sulla lingua. 1. Orientamenti teorici, a cura di A.Colombo, Bologna, IRRSAE Emilia-Romagna, 1995, pp. 9-20. 3. Ne dà ottimi esempi M.P. Lo Duca nella rubrica Esperimenti grammaticali apparsa su “Italiano & Oltre” a partire dal n. 4/1991 (gli articoli saranno raccolti in un volume di prossima pubblicazione presso La Nuova Italia editrice). Una quantità di spunti interessanti si trova in Riflettere sulla lingua, a cura di C. Marello e G. Mondelli, Firenze, La Nuova Italia, 1991. 4. Per una critica efficace e documentata sulpiano didattico si veda D.Bertocchi, “Le cose e le azioni: conoscenze di senso comune e metodo scientifico nell’insegnamento della grammatica”, in “Teuth2, n. 2/1992, pp. 14-15. 5. Cfr. R.Simone, “Per una grammatica nozionale”, in AA.VV., L’educazione linguistica dalla scuola di base al biennio della superiore, Milano, Edizioni scolastiche B.Mondadori, 1984, vol. I pp. 131-147; per una sintesi teorica si può vedere R. Solarino, “Categorie e nozioni: un terreno di confronto tra le lingue”, in La riflessione sulla lingua. 1. Orientamenti teorici, cit., pp. 21-31. 6. Per un’esplicitazione di questo accenno ellittico rinvio ai due fascicoli del Progetto ALICE - La riflessione sulla lingua: 1. Orientamenti teorici (citato), 2. Materiali didattici, Bologna, IRRSAE Emilia-Romagna, 1995. 7. Cfr. M. L. Altieri Biagi, “La grammatica a partire dai testi”, “Le lingue del mondo”, Gennaio-Aprile 1988, pp. 30-33; l’autrice è tornata varie volte sulla questione.

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Analizzare la frase con la grammatica valenziale di Donatella Lovison, Giscel Veneto

In partenza: alcune riflessioni teoriche Secondo Sabatini (2004) non si può e non si deve fare a meno dello studio riflesso

sulla lingua nell’istruzione scolastica almeno per tre motivi: 1. non è possibile usare in modo consapevole e appropriato la lingua, specialmente nello scrivere, senza conoscere analiticamente il suo funzionamento; 2. questa conoscenza aiuta certamente anche nell’apprendere le altre lingue; 3. l’analisi della lingua è indagine sui nostri processi mentali, sui nostri rapporti sociali e sulla nostra storia culturale.

Si parla (ultimamente anche in maniera discutibile), di assenza o di insuccesso dell’insegnamento grammaticale nella scuola. Ecco alcune ragioni:

«La grammatica moderna, anzi la grammatica tout court e le connesse questioni del suo insegnamento continuano ad essere assenti nel momento della formazione iniziale degli insegnanti» (Lo Duca 2006).

«Lo studio risulta per gli alunni gravoso e infruttuoso per mancanza di scientificità: molte definizioni non spiegano i meccanismi della lingua; le spiegazioni spesso non trovano riscontro nell’uso reale della lingua e quindi non sono utilizzabili» (Sabatini 2004).

In particolare gli studiosi appena citati criticano i cosiddetti “complementi”. «La definizione dei cosiddetti complementi (fatta eccezione per il complemento

oggetto) rientra molto di più nella semantica che non nella sintassi: è un tentativo di inquadrare in concettitipo (colpa, pena, mezzo, prezzo, fine, causa, vantaggio, modo, distribuzione, ...) la nostra visione del mondo (azioni umane, eventi vari), ma per quanto si voglia essere sottili, l’interpretazione di tali espressioni finisce con l’essere approssimativa e controversa. Es.: si viaggia più comodamente in treno = mezzo o stato in luogo? ti ho detto queste cose per burla = modo o fine? […] Esercizi di questo tipo (che furono ideati per aiutare a tradurre dall’italiano in latino), […] possono forse abituare a chiarire una serie di aspetti della realtà espressi con quelle parole, ma non spiegano certo come è costruita la frase» (Sabatini 2004).

In conclusione, l’obiettivo della riflessione sintattica dovrebbe invece essere cogliere unitariamente le relazioni tra tutti gli elementi che possono entrare in una frase.

Il modello valenziale: definizioni teoriche di “nucleo della frase” (I riferimenti sono sempre relativi a studi teorici e ad una esemplificazione di come

l’argomento venga trattato in un manuale di grammatica per la scuola secondaria di primo grado - L’italiano di oggi - che ho adottato e usato in classe per dieci anni)

«Si può paragonare il verbo a una specie di atomo munito di uncini, che può esercitare la sua attrazione su un numero più o meno elevato di attanti, a seconda che esso possieda un numero più o meno elevato di uncini per mantenerli nella sua dipendenza. Il numero di uncini che un verbo presenta, e di conseguenza il numero di attanti che esso può reggere, costituisce ciò che chiameremo la valenza del verbo»

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(Lo Duca 2006, cit. da L. Tesnière, Elementi di sintassi strutturale, Rosenberg & Sellier, Torino 2001).

«Il modello della grammatica cosiddetta “valenziale” individua nel verbo le valenze (paragonabili a quelle degli elementi chimici), ossia la predisposizione che ogni verbo ha, secondo il suo significato, a combinarsi con un certo numero di altri elementi per produrre un’espressione minima di senso compiuto: la frase ridotta al minimo indispensabile, quello che viene anzi chiamato il nucleo della frase» (Sabatini 2004).

«In chimica, gli atomi dei vari elementi si combinano tra loro per formare le molecole dei composti. Ogni elemento può allacciare un numero fisso di “legami” con gli altri atomi, che si chiamano “valenze”. Analogamente, ogni verbo ha un suo numero di valenze, cioè di rapporti con elementi esterni che “ha bisogno” di attivare» (Tavoni 1999).

«Chiamiamo frase nucleare una frase composta solo dal verbo e dai suoi argomenti [...]. La funzione svolta dal verbo può anche essere svolta da un aggettivo (accompagnato dal verbo essere)» (Salvi, Vanelli 2004).

«Terremo distinti terminologicamente gli attanti, che sono i partecipanti dell’evento descritto dal verbo, e gli argomenti, che ne sono la realizzazione sintattica; mentre gli attanti si situano al livello della interpretazione semantica della costruzione, gli argomenti si situano al livello della costruzione sintattica. Un termine alternativo per argomento è valenza» (Salvi, Vanelli 2004).

Un primo spunto didattico Prendendo spunto da questa definizione scientifica e pensando alla riflessione in

classe, è necessario portare gli allievi a ragionare su due piani: 1. il significato del verbo e lo scenario da esso evocato (piano del significato); 2. la realizzazione di questo “scenario” nella frase (piano sintattico).

Ho trovato utile in questo senso, e visto che le valenze del verbo possono essere o meno saturate nella frase, utilizzare in maniera distinta i due termini valenza e argomento, anche se la distinzione terminologica non ha carattere di scientificità: valenze del verbo (semantica) e argomenti del predicato (sintassi).

Ad esempio, il verbo scrivere nel suo “scenario” è trivalente (chi scrive / che cosa scrive / a chi scrive), ma nelle frasi gli argomenti non sono sempre tre: Luisa ha scritto una lettera a Giacomo (tre argomenti) Ieri Luisa ha scritto tutto il pomeriggio (un argomento) Luisa ha scritto un testo per domani (due argomenti)

Questa distinzione può facilitare la riflessione sui verbi a più costruzioni. «Un verbo può avere più di una struttura argomentale; a ogni diversa struttura

argomentale corrispondono uno o più significati» (Lo Duca 1999). «Questi autobus vanno (con andare usato in senso assoluto, monovalente) significa

“sono in servizio” o anche “funzionano bene”; questi autobus vanno al centro (con andare bivalente) significa “sono diretti al centro”. Spesso il cambiamento di costruzione deriva dall’uso metaforico del verbo: riferito al fenomeno atmosferico tuonare è zerovalente, mentre in tuonano i cannoni (=“i cannoni stanno sparando”) è monovalente e in il direttore tuona i suoi ordini ai dipendenti (=“il direttore impartisce con voce tonante ordini ...”) è addirittura trivalente» (Sabatini 2004).

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«Diversi verbi transitivi possono a volte essere usati “in modo assoluto”, cioè senza complemento oggetto. A volte, dunque, questi verbi si comportano come verbi bivalenti (Ho mangiato la torta), a volte come verbi monovalenti (Ho mangiato). Ma si tratta di costruzioni diverse, che hanno significati diversi e non possono alternarsi indifferentemente. Lo dimostra il fatto che uno scambio di battute come questo è agrammaticale: * Hai mangiato la torta? Sì. Ho mangiato e lo è anche * Hai mangiato? No, non ho mangiato la torta. Questo vale anche per alcuni verbi intransitivi che possono essere bivalenti o monovalenti come andare, ma non le due cose insieme: * Oggi, finalmente, l’ascensore va? Sì, va al terzo piano» (Tavoni 1999).

Ancora sul modello valenziale: circostanti o espansioni, fuori e dentro il nucleo «Normalmente i parlanti non si limitano a dare le informazioni essenziali: aggiungono

altre informazioni supplementari, che Tesnière chiamava circostanti (oggi si dicono più spesso espansioni), relative al tempo e/o al luogo in cui un certo evento si verifica (oggi/ per tutto il mese Maria ha studiato in biblioteca/ qui); o relative alla causa che è all’origine di un certo evento (Maria studia per passione/ perché è ambiziosa); o relative allo strumento che rende possibile il realizzarsi dell’evento (Maria scrive con la matita/ con il computer), e via di questo passo» (Lo Duca 2006).

«Tutte le altre informazioni che possiamo aggiungere a quelle fornite dal nucleo stretto possono collegarsi a questo in due modi ben diversi e quindi collocarsi su due distinti piani. Possono essere specificazioni dei singoli costituenti del nucleo: ossia attributi, apposizioni, espressioni preposizionali, frasi relative, che specificano gli argomenti, o anche avverbi e locuzioni avverbiali che specificano il verbo. Questi elementi sono legati morfologicamente e sintatticamente, oltre che semanticamente, ai singoli elementi del nucleo. […] Possiamo chiamarli semplicemente circostanti del nucleo […]. È possibile però aggiungere molte altre informazioni anche a questo nucleo arricchito: informazioni che non si legano più, specificamente, agli elementi del nucleo, né ai loro circostanti, ma che tuttavia fanno parte della scena complessiva. […] Per non confonderle con i circostanti del nucleo dobbiamo denominarle in un altro modo: è invalso per esse il termine di espansioni» (Sabatini 2004).

«Gli elementi che “saturano” le valenze di un verbo sono i suoi argomenti. Perché una frase sia ben formata occorre che tutte le valenze del verbo siano “saturate”. Il predicato con i suoi argomenti costituisce il nucleo della frase. Tutti gli altri elementi della fase, non necessari perché la frase sia ben formata, si chiamano extra-nucleari, o espansioni.

Le espansioni che si legano proprio al predicato, strettamente, specificandone o modificandone il significato, si chiamano avverbiali (Francesco ha letto la poesia in modo commovente; Ha piovuto a dirotto). Quelle che si legano, “più dall’esterno”, all’intero nucleo, si chiamano circostanziali» (Tavoni 1999).

Limiti e intenti della proposta didattica successiva

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La distinzione tra “circostanti” ed “espansioni”, tra “avverbiali” e “circostanziali” crea qualche difficoltà di ragionamento sistematico nell’allievo, per cui la proposta che presenterò è frutto della ricerca di un modello convincente e applicabile in classe che, prendendo spunto dalle conoscenze dei linguisti coniugate con la pratica didattica quotidiana, sia uno strumento ragionevolmente utile per descrivere ogni tipo di frase, semplice e complessa.

Il criterio generale che governa il modello proposto parte dalla scoperta e dall’utilizzo di relazioni di significato esistenti tra gli elementi costitutivi della frase, per arrivare a descrivere i legami sintattici (in sintonia con Lo Duca 2006, che afferma: «la nostra analisi dovrà riguardare e integrare i due livelli dell’analisi: quello sintattico e quello semantico»).

Molti studiosi e autori di manuali (Sabatini 2004 ad esempio, o Tavoni 1999) propongono rappresentazioni grafiche della frase secondo il modello valenziale, quindi anche il modello di seguito descritto punta sulla strategia della rappresentazione grafica che facilita la comprensione della struttura della frase.

Il modello lascia spazio eventuale anche per l’analisi logica tradizionale, oppure per «introdurre delle riflessioni semantiche ‘leggere’ sulla funzione dei diversi elementi in campo» (Lo Duca 2006) in un ulteriore piano di analisi, integrato e non in contraddizione con il modello.

In classe: la frase semplice

Prerequisiti di partenza 1. Saper riconoscere il verbo in una frase 2. Saper riconoscere preposizioni e congiunzioni 3. Saper riconoscere un sintagma (verbale, nominale, aggettivale, preposizionale, avverbiale) 4. Percepire ogni frase in situazione di comunicazione (qualcuno sta dicendo qualcosa a proposito di qualcuno/qualcosa),(tema-rema // topic-comment) Obiettivi 1. Prestare attenzione ad ogni elemento espresso nella frase e non solo al suo significato globale 2. Saper individuare gli argomenti del verbo 3. Saper descrivere una frase semplice - nei suoi componenti nucleari ed extranucleari - scoprendo i legami semantici tra i componenti - individuando i legami sintattici tra i componenti La scoperta delle valenze

Si suggeriscono alcune strategie metodologiche per l’insegnante, quali quella di porre domande per indirizzare verso la scoperta e di guidare gli allievi non dando la soluzione, ma sostenendo o confutando le ipotesi che loro formulano.

È possibile incontrare qualche difficoltà iniziale, in quanto gli alunni possono trovare difficoltà nella distinzione tra elementi necessari (nucleari) ed elementi secondari (extra-nucleari), perché percepiscono (e correttamente!) i circostanziali come elementi importanti per la comunicazione.

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Vediamo di simulare quello che può succedere in classe. Se si sta lavorando sul verbo camminare la domanda potrebbe essere:

Di quali elementi non può fare a meno il verbo camminare per funzionare? Viene facilmente individuato che c’è bisogno di qualcuno che cammina, cioè il soggetto. I ragazzi possono però formulare l’ipotesi che sia essenziale dire dove qualcuno cammina (per strada, lungo il sentiero, ecc.). L’insegnante allora mette in discussione l’ipotesi portando esempi in cui il dove non sia presente, quali: Luigi è nervoso e cammina avanti e indietro senza sosta. Ieri ho camminato tutto il giorno e ora sono stanca.

La domanda può essere quindi riformulata: Di quali elementi ha bisogno AL MINIMO il verbo camminare per funzionare?

Si arriva con gli allievi a determinare che l’unico elemento necessario è il soggetto. Gli altri elementi sono importantissimi ma non strettamente necessari al funzionamento del verbo. Suggerimenti metalinguistici

Come si diceva in precedenza, per facilitare la condivisione del metalinguaggio ed evitare ambiguità concettuali, è bene decidere con gli studenti una terminologia che sia chiara e permetta di distinguere il piano del significato da quello sintattico della frase.

Evidentemente è difficile con ragazzi della scuola secondaria parlare di attanti, ma si può ad esempio parlare di valenze quando si tratta del verbo “in sé”, nel suo significato e di argomenti quando il verbo diventa predicato, cioè viene “calato” nella frase e messo in relazione sintattica con altri elementi.

A fini pratico-didattici ho anche trovato utile chiamare convenzionalmente gli argomenti in questo modo: x = soggetto; y = sintagma nominale (complemento oggetto o diretto); z = sintagma preposizionale (complementi indiretti);

Tutti gli elementi extranucleari sono chiamati ‘espansioni’, nel caso della frase semplice, ‘subordinate extranucleari’ nel caso della frase complessa. L’argomento x, il soggetto

Non si può riconoscere il soggetto mediante la domanda tradizionale “chi o che cosa compie l’azione espressa dal verbo?” per almeno due ragioni: 1. perché i verbi non esprimono solo azioni ma anche eventi e stati Non sono in casa Luigi è caduto con la bici 2. perché la domanda non è logica nelle frasi passive in cui chi fa l’azione è l’agente Quella lettera è stata scritta da Andrea

Ecco un elenco di possibili domande per condurre gli allievi ad individuare in modo sicuro il soggetto sintattico, non confondendolo con altri elementi della frase: � di chi/di che cosa si parla? cosa se ne dice? (tema-rema/topic-comment) � chi/che cosa è che (+ verbo+ altri elementi)? � in questa frase di chi/di che cosa si dice che (+verbo)?

Esempi dimostrativi: 1. Maria ha preso un’insufficienza in matematica

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di chi / di che cosa si parla? cosa se ne dice? (tema-rema / topic-comment) chi / che cosa è che (+ verbo + altri elementi)? in questa frase di chi si dice che ha preso un’insufficienza? = di Maria. 2. Ieri si è rotta la catena della mia bici di che cosa si parla?= della catena della bici; cosa se ne dice?= che ieri si è rotta; che cosa è che si è rotto? = la catena; in questa frase di che cosa si dice che si è rotto? = della catena. 3. Maria è stata promossa in terza media di chi si parla?= di Maria; cosa se ne dice?= che è stata promossa …; chi è che è stato promosso? = Maria; in questa frase di chi si dice che è stata promossa?= di Maria.

Rappresentazione grafica della frase semplice Tappe 1. Segmentare la frase in sintagmi e numerarli 2. Individuare il predicato e sottolinearlo 3. Scoprire le valenze del verbo 4. Scoprire gli argomenti che le saturano nella frase (x-y-z) 5. Evidenziare in un cerchio o in un quadrato (di colore blu in questa sede) per il predicato 6. Gli elementi nucleari sono legati al predicato con una freccia a doppia punta 7. Le espansioni sono legate all’elemento che le regge semanticamente e sintatticamente con una freccia ad una sola punta 1° esempio

Ieri 1/ a Padova 2/ è piovuto 3 /a lungo 4

Per scoprire i legami di significato e sintattici tra i sintagmi di una frase si prova ad abbinare i sintagmi stessi, facendo leva sulla capacità degli allievi di lavorare sul significato. In una frase come quella soprastante, ad esempio, le “coppie” da provare sono: è piovuto ieri (3+1) è piovuto a Padova (3+2) è piovuto a lungo (3+4) Funzionano dal punto di vista della completezza del significato, quindi c’è un legame stretto tra il predicato e questi sintagmi. Invece non funzionano dal punto di vista del significato, quindi non sono legate tra loro, le coppie: ieri a lungo (1+4) a Padova a lungo (2+4) ieri a Padova (1+2)

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Per completare la riflessione sintattica è essenziale portare gli studenti ad individuare i connettivi e a farli coincidere graficamente con le frecce. Una possibile domanda guida da porre agli allievi è: quale parola unisce l’elemento 2 al 3? Guardando il grafico e le frecce, la risposta sarà ‘a’. Nel caso della frase presa ad esempio, gli studenti potrebbero individuare anche la ‘a’ tra 3 e 4. In questo caso si richiama il concetto di locuzione preposizionale/avverbiale se studiato precedentemente, ovvero lo si introduce in questo momento, per ricordare che la locuzione è “un blocco unico”, come se fosse una parola sola. La rappresentazione sarà quindi così completata:

Ieri 1/ a Padova 2/ è piovuto 3 /a lungo 4

2o esempio

Carlomagno 1 / cavalcava 2 / alla testa 3 / dell’esercito 4/ dei franchi 5

3o esempio Per la lezione 1 / di stamattina 2 / Giulia 3 / ha tradotto 4 / tre 5 /brani 6/ dal francese 7

/ in italiano 8

Nel caso di attributi e apposizioni si chiede allo studente quale elemento sia prevalente dal punto di vista del significato. In questo esempio la coppia è “tre brani” ed è intuitivo dare la prevalenza a “brani”, per cui l’attributo risulta legato al nome in un piano ulteriore/sottostante e non viceversa. Nel caso di soggetto sottinteso (come in Per la lezione di stamattina ha tradotto tre brani dal francese in italiano), la numerazione procede così: Per la lezione 1 / di stamattina 2 / (lei) 3 / ha tradotto 4 / tre 5 /brani 6/ dal francese 7 /

in italiano 8 La rappresentazione di frasi con predicato nominale

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Nel caso del predicato nominale «la struttura del predicato non dipende dal verbo, ma dal nome, che è il termine principale del predicato» (Prandi 2006).

È necessario quindi rappresentare il legame con il nome e non con il verbo e scoprire se l’ elemento analizzato sia o no argomento del nome. 1° esempio

Maria1 /è a una alunna2 b /capace3

2° Esempio

La mamma1 / è a orgogliosa b 2/di sua4 figlia5

Come rappresentare frasi con predicativi

La proposta si basa sulla scoperta del doppio legame di significato del predicativo, tra: � predicato, predicativo e soggetto � predicato, predicativo e complemento oggetto 4o esempio

Matteo1 /è considerato2 /il migliore3 / della classe4

‘Il migliore’ è semanticamente legato sia a ‘è considerato’, sia a ‘Matteo’. 5o esempio

L’allenatore1 / ha convocato2 / Alex 3/ come titolare4

‘come titolare’ è semanticamente legato sia a ‘ha convocato’ sia ad ‘Alex’

Qualche ulteriore riferimento teorico per l’analisi della frase complessa

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(I riferimenti sono sempre relativi a studi teorici e ad una esemplificazione di come l’argomento venga trattato in un manuale di grammatica per la scuola secondaria di primo grado)

«La struttura frasale su cui si organizza tutta la frase complessa è la frase principale. In linea di principio una frase complessa sarà costituita da tante strutture frasali quante sono le forme verbali che in essa compaiono.

Quanto alla funzione, suddivideremo le proposizioni in tre tipi: 1) proposizioni che fungono da argomento della frase matrice come le proposizioni Soggetto od Oggetto diretto; 2) proposizioni che fungono da elemento extranucleare della frase matrice come proposizioni temporali, causali, ecc. 3) proposizioni che modificano elementi nominali in funzione attributiva, come le proposizioni relative» (Salvi, Vanelli 2004: 215, 218). � «Le subordinate relative - introdotte da pronomi relativi - si riferiscono a un nome o pronome (che si chiama antecedente) contenuto nella frase sovraordinata. Per questo hanno una funzione simile all’attributo o all’apposizione. � Le subordinate argomentali - introdotte da congiunzioni o preposizioni - saturano le valenze del predicato della frase sovraordinata. Hanno quindi una funzione simile a un argomento della frase. � Le subordinate non argomentali - introdotte da congiunzioni o preposizioni - hanno una funzione simile a un altro complemento, extranucleare, della frase» (Tavoni 1999: 822).

In Salvi e Vanelli (2004) le proposizioni argomentali sono distinte in: proposizioni soggetto, proposizioni completive, proposizioni completive indirette. Tavoni (1999) distingue le frasi argomentali in soggettive e completive. Una subordinata argomentale completiva può: - svolgere la funzione di complemento oggetto (oggettiva); es.: Vorrei che tu fossi più ordinato; - spiegare un elemento della frase reggente, costituito da un nome o da un pronome dimostrativo (dichiarativa); es.: L’annuncio che Marco era partito ci lasciò di stucco - svolgere la funzione di complemento indiretto (completiva oblique); es.: Mi sono assicurato di avere le carte in regola - essere un’interrogativa indiretta che può dipendere sia dal verbo della reggente sia da un elemento nominale; es.: Alla domanda se conoscesse quell’uomo, non seppe rispondere

In classe: la frase complessa

Prerequisiti 1. Possedere il concetto di legame sintattico 2. Saper riconoscere una frase semplice Obiettivi 1. Possedere il concetto di reggenza 2. Saper analizzare e descrivere una frase complessa - distinguendo coordinate, subordinate nucleari ed extra nucleari rispetto alla reggente - scoprendo i legami semantici tra le frasi semplici all’interno della frase complessa

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- individuando i connettivi sintattici tra le frasi semplici all’interno della frase complessa

Rappresentazione grafica della frase complessa

Tappe � Individuare i predicati e sottolinearli � Individuare la frase semplice che sta “attorno” ad ogni predicato � Numerare le frasi semplici � Scoprire la principale e rappresentarla in un cerchio (colorato di blu) � Scoprire le coordinate e legarle alla reggente con una linea sullo stesso piano senza punte di freccia � Scoprire le subordinate � A partire dal predicato della frase principale e/o reggente: scoprire le frasi argomentali (x-y-z) e legarle alla reggente con una freccia a doppia punta � Scoprire le circostanziali e legarle alle reggenti con una freccia ad una punta � Individuare i connettivi tra le frasi e scriverli in corrispondenza delle frecce Suggerimenti didattici

Per l’individuazione della frase principale è necessario parlare di frase “che sta in piedi da sola ed ha significato compiuto ” nel caso non ci siano frasi argomentali, e frase “reggente e completata da altre frasi” nel caso ci siano frasi argomentali.

Per le frasi subordinate si parlerà di frasi che da sole non hanno senso compiuto, ma si distingueranno in frasi argomentali, cioè richieste come argomento dal predicato della frase reggente e frasi extra-nucleari, che non sono argomento di alcun predicato. 1o esempio

Vado a casa1 / a studiare 2

2° esempio Anche se non ne ho voglia1, / visto che sono le sei2 / mi sbrigo3 / e vado a casa4 / a studiare,5 / perché domani c’è la verifica di matematica, 6/ che non è uno scherzo 7

Si vede con questa rappresentazione come si possono immediatamente visualizzare le coordinate, i gradi di subordinazione delle frasi e i connettivi sintattici tra le frasi. Come per la frase semplice, per scoprire i legami di significato, e successivamente sintattici, tra le frasi si prova ad abbinare le frasi tra loro: i legami di significato “guidano” la scoperta del legame sintattico.

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Ad esempio nella frase soprastante non funzionano semanticamente le “coppie”: Mi sbrigo // che non è uno scherzo (3+7) Anche se non ne ho voglia // visto che sono le sei (1+2) né tantomeno visto che sono le sei // perché domani c’è la verifica di matematica (2+6) ovvero Anche se non ne ho voglia / /che non è uno scherzo (1+7) ecc. Funzionano invece: mi sbrigo // visto che sono le sei (3+2) e vado a casa // a studiare (4+5) così come a studiare // perché domani c’è la verifica di matematica (5+6).

È interessante, in questa fase di abbinamento semantico di coppie di frasi, discutere in classe sui significati possibili. Si può scoprire che certe coppie potrebbero funzionare, ma che non funzionano nella specifica frase complessa, così come è costruita. Ad esempio gli allievi possono formulare l’ipotesi che dal punto di vista del significato funzioni la coppia mi sbrigo // perché domani c’è la verifica di matematica (3+6). L’insegnante li guiderà a tener conto del fatto che in questa specifica frase è inserita anche la frase 4, e vado a casa, quindi chiederà con quale delle due frasi semplici il legame sia più forte e più corretto dal punto di vista del significato e della struttura globale della frase complessa in questione. Le argomentali oggettive (y) 3° esempio

Vorrei tanto 1/ che tu venissi a casa mia 2 / e che facessi merenda con me3 Le domande guida da porre agli allievi sono: quante valenze ha il verbo della principale, in questo caso ‘volere’? Risposta: 2 (x e y). Da che cosa è rappresentato l’argomento y? La risposta potrebbe essere: dalle frasi 2 e 3. Si osserverà che dal punto di vista del significato la risposta può essere corretta, ma che la frase 3 è introdotta dalla congiunzione ‘e’ che non può essere omessa, perciò non potrebbe funzionare la coppia vorrei tanto// e che facessi merenda con me. Si ragiona quindi sul valore della coordinazione.

Nota

Con frasi simili a questa è interessante provare a modificare il lessico mantenendo il significato. Ciò favorisce il passaggio nell’adolescente dal lavoro esclusivo sul significato a quello sulla superficie della lingua. Ad esempio: Mi piacerebbe tanto1 / che tu venissi a casa mia 2 / e che facessi merenda con me3 La n° 2, pur rimanendo argomentale, da oggettiva diventa soggettiva e può rispondere alle domande usate per individuare il soggetto, come per la frase semplice.

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Le argomentali completive oblique (z) 4° esempio

Ha pensato solo1/ a fare bella figura con il prof 2/ quindi ci ha voltato le spalle3 Domande-chiave - Quante valenze ha il verbo pensare? Risposta: 2 (x e z). - Da che cosa è rappresentato l’argomento z? Risposta: dalla frase 2.

5° esempio

Temo 1/ di non riuscire 2/ ad essere promosso quest’anno 3/ ma non mi arrendo 4

Le interrogative indirette (y) Possono rappresentare l’argomento y della reggente, ma vanno analizzate focalizzando l’attenzione sulla modalità interrogativa delle frasi e sulla loro trasformazione in discorso indiretto. 6° esempio

I ragazzi le chiesero 1/ quale fosse l’argomento della lezione 2

Il discorso diretto

La rappresentazione grafica del discorso diretto è complessa. Con il procedere della sperimentazione in classe la soluzione sottostante è risultata la più convincente. Il discorso diretto è l’ argomento y della frase reggente nella prima rappresentazione; viene poi rappresentato a parte per analizzarlo al suo interno. 7° esempio (con relative incassate e asindeto)

Ai giornalisti //che partecipavano alla conferenza2// il ministro ha dichiarato: 1/ “La lotta all’evasione //che abbiamo impostato 4 //sta dando i suoi frutti 3

Bibliografia di riferimento M.G. Lo Duca (2006), Si può salvare l’analisi logica? in La crusca per voi, n. 33, Ott. 2006, pp. 4-8.

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M.G. Lo Duca (1999), Esperimenti grammaticali, RCS Libri, Milano. M.G. Lo Duca (2003), Lingua italiana ed educazione linguistica, Carocci, Roma. M. Prandi (2006), Le regole e le scelte, Utet Università. F. Sabatini (Settembre 2004 ), Lettera sul “ritorno alla grammatica” Obiettivi, contenuti, metodi e mezzi. G. Salvi, L. Vannelli (2004), Nuova grammatica italiana, il Mulino, Bologna Ch. Schwarze (2009), Grammatica della lingua italiana, a cura di A. Colombo, Carocci, Roma. M. Tavoni (1999), L’italiano di oggi, Le Monnier, Firenze.

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Perché fare grammatica in una classe di lingua? di Maria G. Lo Duca [Scuola e Lingue Moderne, 2004, XLII, 4-6, pp. 11-13]

Sicuramente la domanda che fa da titolo a questo intervento non è molto originale, nel senso che la ricerca – linguistica, glottodidattica e più in generale pedagogica - si è posta da sempre questo interrogativo, ed è ultimamente approdata ad una serie di risposte assai interessanti cui possiamo fare facilmente riferimento. Tali risposte sono venute da campi disciplinari diversi, tra i quali non sempre la comunicazione e il travaso delle conoscenze sono facili e immediati. Il nostro intento sarà dunque quello di tentare di ricapitolare i termini della questione, per individuare con qualche certezza in più - come linguisti, glottodidatti o insegnanti – quello che è stato fatto, e quello che resta ancora da fare.

Una prima, fondamentale risposta al quesito è stata data dalla linguistica acquisizionale, che è quella branca della linguistica che studia le modalità e i tempi dell’acquizione di una lingua, materna (L1) o seconda (L2), in contesto spontaneo, vale a dire senza alcuna forma di insegnamento esplicito. In entrambe le situazioni è stato ampiamente dimostrato che l’acquisizione del sistema linguistico avviene non già per imitazione dell’input, familiare e/o sociale, cui l’apprendente sia esposto (come sostenevano i comportamentisti), ma attraverso l’individuazione e la ricostruzione del sistema della lingua obiettivo: come si spiegherebbero altrimenti certi errori ‘intelligenti’ presenti nel linguaggio dei bambini? Quando un bambino dice io ando, per ‘io vado’, regolarizza il paradigma flessivo di ‘andare’ secondo una regola già individuata, anche se non esplicita; lo stesso dicasi di sposamento per ‘matrimonio’ o trenista per ‘autista di treno’ (tutti gli esempi sono autentici), formazioni in cui il bambino applica delle regole di derivazione molto produttive in italiano a contesti che non le prevedono. Chi ha prodotto queste parole non le ha certo sentite pronunciare da qualcuno, visto che esse non esistono in italiano. Dobbiamo supporre, data la regolarità della loro formazione, che il bambino vi arrivi autonomamente, per induzione, ricavando le relative regole di formazione dai dati cui è quotidianamente esposto, con dei ‘ragionamenti grammaticali’ anche molto sofisticati (del tipo: cantare canto, parlare parlo…, quindi andare ando; pagare pagamento, allenare allenamento… quindi sposare sposamento; auto autista, camion camionista…, quindi treno trenista).

Gli stessi percorsi di regolarizzazione e di sovraestensione di regole (non solo morfologiche e lessicali, ma anche sintattiche) sono ben documentati nell’acquisizione spontanea di una L2. Sono state condotte molte ricerche - quelle per noi più accessibili sono di ambito americano ed europeo - su bambini e adulti che apprendono una seconda lingua in contesto spontaneo. Ad esempio in Italia è attivo da almeno due decenni un gruppo di ricerca, noto come ‘Progetto Pavia’, che studia l’acquisizione dell’italiano da parte di adulti immigrati non sottoposti ad alcuna forma di insegnamento guidato. Il gruppo, che ha prodotto molti studi che hanno riguardato vari fenomeni (una sintesi di questi studi, a cura di A. Giacalone Ramat, è di prossima pubblicazione presso l’editore Carocci), documenta con analisi dettagliate il lungo e complesso lavoro cognitivo che porta gradualmente questi apprendenti alla individuazione delle regolarità della lingua (in questo caso l’italiano) che stanno cercando di apprendere. Persino gli

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errori di interferenza dalla L1, quelli che il comportamentismo attribuiva a un trasferimento automatico di abitudini linguistiche dalla L1 alla L2, vengono oggi interpretati piuttosto come frutto di un’ipotesi che l’apprendente fa sulla forma della lingua obiettivo: l’ipotesi che in quel particolare caso, o per quel particolare fenomeno, la L2 presenti lo stesso assetto (fonologico, morfo-sintattico, lessicale, pragmatico) della L1.

Per tornare alla nostra domanda iniziale, una prima risposta potrebbe dunque suonare grosso modo così: la ricerca acquisizionale è giunta alla conclusione che non si dà acquisizione di una lingua, non importa se prima o seconda, senza l’attivazione di una qualche forma di coscienza metalinguistica, e questo lavorio grammaticale inconscio riguarda la totalità degli apprendenti, bambini e adulti, scolarizzati e non. La scuola non può che prendere atto di questi risultati: può certo decidere, in particolari contesti educativi, di insegnare una seconda lingua senza fare grammatica in modo esplicito, ma deve sapere che comunque gli apprendenti faranno grammatica per loro conto, anche solo confrontando i dati di L1 e L2, o confrontando insiemi diversi di dati in L2 per ritrovarvi somiglianze e differenze, di forma, di posizione della catena parlata, di funzioni. Sulla base di questi confronti ricaveranno regole - linguistiche, pragmatiche - e le applicheranno nell’interazione in L2. I loro errori saranno la spia più evidente di questo lavorio, e ci daranno molte preziose informazioni sul livello di competenza raggiunto, dunque sulle regole già scoperte, in tutto o in parte, oltre che sui punti più problematici nella ricostruzione del sistema della L2. Non sarebbe meglio, allora, guidare come docenti questo processo di scoperta, aiutare gli allievi a sollevare a livello di consapevolezza le intuizioni e le ipotesi inconsce, dipanare assieme l’articolazione e le sotto-articolazioni delle regole, fornire le parole tecniche indispensabili per parlare di lingua e di grammatica?

Una seconda risposta ci viene dalla ricerca glottodidattica, che ha tentato di misurare gli effetti dell’insegnamento grammaticale sull’effettivo uso linguistico degli allievi. E’ in proposito molto interessante una rassegna di questi studi fatta dalla linguista e glottodidatta canadese Nina Spada (1997), la quale presenta in modo dettagliato i risultati di molti studi condotti direttamente in classe. Tali studi confermano in generale l'esistenza di un effetto positivo che la coscienza dei fatti linguistici ha sull'apprendimento delle lingue, inducendo, ad esempio, un maggiore correttezza, o accelerando i tempi di scoperta e la fissazione delle regolarità.

Tuttavia è bene chiarire che cosa esattamente si intende con programma di insegnamento attento alla esplicitazione dei fatti grammaticali (in inglese form-focused instruction), perché qualcuno non pensi che si tratti di un ritorno alla vecchia metodologia di insegnamento linguistico, nota come metodo grammaticale-traduttivo. In realtà, le proposte moderne si muovono tutte nell’alveo di un approccio cognitivo ed euristico al problema dell’acquisizione di conoscenze: non c’è nessuno oggi, in campo pedagogico, che pensa di poter ridurre l’insegnamento ad una mera trasmissione, dal docente al discente, di pacchetti di conoscenze precostituite e debitamente confezionate. Trasferito in campo glottodidattico questo approccio comporta che fare grammatica in modo esplicito non significa certo presentare in classe regole e paradigmi predefiniti, perché gli allievi se ne approprino, vale a dire li memorizzino e li usino nella comprensione e nella produzione. Significa invece adottare un metodo attivo che

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favorisca la scoperta graduale delle regole da parte degli allievi, esponendoli a dati linguistici reali dai quali, opportunamente guidati, essi potranno estrarre le regole di volta in volta implicate e ricostruire per questa via il sistema della lingua oggetto di insegnamento. Non c’è niente, in questo programma, che ricordi la vecchia pedagogia grammaticale.

E tuttavia, questa risposta non ci soddisfa del tutto, perché induce a pensare che gli interventi grammaticali debbano essere sempre massimamente espliciti, con l'insegnante e gli allievi intenti (nella migliore delle ipotesi) a parlare di lingua e di grammatica, a raccogliere dati, a individuare categorie e sottocategorie, a ipotizzare regole e paradigmi, a costruire tavole, a consultare manuali e dizionari. Certo il quadretto ipotizzato, di una classe attivamente impegnata nella costruzione del proprio sapere grammaticale, ci piace molto, al punto da dire che una tale situazione di insegnamento sarebbe ottimale sotto molti punti di vista. Ma non dobbiamo dimenticare che i contesti educativi possono essere i più vari, e ogni docente dovrà in un certo senso adattare i propri interventi, e se è il caso moderare le proprie aspettative, sulla base della situazione in cui si troverà ad operare. Rispetto al nostro tema, questo vuol dire che dobbiamo essere ben consapevoli che si possono introdurre elementi di riflessione grammaticale in modo anche molto 'nascosto', sollecitando diversi gradi di ‘presa di coscienza’ da parte degli allievi, a seconda appunto della conformazione della classe e delle finalità perseguite.

A tale proposito ci piace ricordare le parole di un altro glottodidatta, il francese M. Candelier, che in un breve ma intelligente articolo (1996) cerca di chiarire il concetto di 'grammatica esplicita' cui abbiamo fatto più volte riferimento. Tale concetto ha a che fare da una parte con l’intenzionalità dell'insegnante, quando abbia deciso di sollecitare nei suoi allievi una riflessioni sui fatti formali della L2, dall’altra con la presa di coscienza da parte dell'apprendente. Al riguardo Candelier ricorda che l’insegnante potrà proporsi di attivare diversi gradi di 'coscienza' o consapevolezza metalinguistica, i quali vanno da un minimo ad un massimo di esplicitezza.

Un primo livello può essere costituito dall’obiettivo del far 'notare' un certo frammento di lingua: basterà in questo caso proporre in classe un imput mirato, che contenga più e più volte i fatti formali sui quali si pensa di dover indirizzare l’attenzione del discente. Il ruolo dell’insegnante può fermarsi qui, nella convinzione che i tratti coinvolti dal programma saranno, appunto, ‘notati’ dagli allievi. Un secondo livello, successivo al primo, comporterà invece non solo il ‘notare’, ma anche il 'fare attenzione a', dunque sforzo cosciente e mirato per individuare le caratteristiche (formali, distribuzionali, semantiche, pragmatiche) dell’elemento (o degli elementi) sotto osservazione. Un terzo livello comporterà infine, oltre al ‘notare’ e al ‘fare attenzione a’ anche il ‘confrontare’ ciò che è stato notato con elementi già noti, vale a dire notati e analizzati in altre occasioni. Solo gli ultimi due livelli raggiungono il piano della conoscenza cosciente e della piena verbalizzazione.

Ugualmente, diverse saranno le procedure con le quali tenteremo di attivare i diversi tipi di consapevolezza: per il primo livello adotteremo semplici procedure di messa in rilievo, sia orali (gestualità, ripetizione o pronunce enfatiche di elementi), sia scritte (visualizzazione di singoli elementi con caratteri particolari, uso del colore, sottolineature, costruzione di tavole, schemi, diagrammi); per il secondo e il terzo livello adotteremo

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procedure metalinguistiche verbali via via più complesse, con le quali procederemo a) a descrivere le forme e le funzioni degli elementi in qualche modo già notati b) a confrontare le nuove informazioni con le precedenti conoscenze c) ad ipotizzare le regolarità di comportamento, arrivando a formulazioni via via più precise e dettagliate delle regole relative d) a collegare in modo sistematico vecchie e nuove scoperte.

Questi diversi percorsi - variamente designati come ‘riflessione formale o grammaticale’, ‘riflessione o consapevolezza metalinguistica’, ‘presa di coscienza’ e altro ancora - sono tutti legittimi. La scelta dell’uno o dell’altro sarà condizionata in prima istanza dal tipo particolare di contesto educativo in cui ci si trovi ad operare. Tuttavia non sarebbe male far dipendere la scelta anche da considerazioni più prettamente linguistiche e psicolinguistiche. La ricerca acquisizionale cui abbiamo fatto riferimento all’inizio è giunta alla conclusione che differenti aspetti del linguaggio sono processati e immagazzinati in modo diverso, che ad esempio per certi fenomeni particolarmente complessi di una lingua può non bastare la semplice esposizione, sia pure insistita, a dati linguistici che li esibiscano. In questi casi tale esposizione, programmata dall’insegnante, fornirà certo contesti corretti e dunque darà informazioni preziose su ciò che è possibile fare in L2, ma non darà informazioni su ciò che non è possibile fare. Di questo si dovrebbe poter parlare, magari a partire da errori effettivamente commessi dagli studenti, il che significa che per molti fenomeni saremo costretti ad attivare le forme più esplicite di riflessione.

Fin qui la ricerca, i cui risultati suggeriscono però ulteriori domande: quali fatti, quali fenomeni sono, nelle diverse lingue, da considerarsi più facilmente assimilabili con forme di riflessione più nascoste, più implicite, e quali invece richiedono interventi più espliciti? E che peso hanno le lingue di partenza degli apprendenti nel determinare l’adozione di una procedura piuttosto che di un’altra? E la loro età? E il loro iter scolastico? E’ proprio vero che studenti adulti molto scolarizzati (tipicamente, studenti universitari) sono tra gli apprendenti più interessati ad una presentazione esplicita dei fatti formali di una lingua? Domande, queste, su cui la ricerca ci consegna risposte parziali e certo insufficienti ad orientare un programma scolastico. Soprattutto manca uno sforzo di messa in relazione, empiricamente fondato, dei diversi fenomeni grammaticali di una data lingua con i diversi gradi di coscienza metalinguistica che è opportuno raggiungere e con le diverse procedure che sarà di volta in volta il caso di attivare.

Bibliografia Candelier, M., 1996, Savoir métalinguistique et intériorisation: ce que la recherche nous dit, et ce qu'elle devrait nous dire, «Lend. Lingua e Nuova didattica», XXV, 3, 38-47. Ellis N. G. (ed.), 1994, Implicit and explicit learning of languages, Academic Press, London, San Diego. Giunchi P. (a cura di), 1990, Grammatica esplicita e grammatica implicita, Zanichelli, Bologna. Lightbown P. - Spada L., 1993, How Languages are Learned, Oxford University Press, Oxford. Lo Duca M. G., 1997, Esperimenti grammaticali. Riflessioni e proposte sull’insegnamento della grammatica dell’italiano, La Nuova Italia, Firenze. Prat Zagrebelsky M. T., 1985, Grammatica e lingua straniera, La Nuova Italia, Firenze. Rutherford W., 1987, Second Language-Grammar: Learning and Teaching, Longman, London-New York. Sharwood Smith M., 1993, Input enhancement in instructed SLA, «Studies in Second Language Acquisition», 15, 165-179. Spada N., 1997, Form-Focused Instruction and Second Language Acquisition: A Review of Classroom and Laboratory Research, «Language Teaching», 30, 73-87.