La Globalizzazione - liceo-orazio.gov.it · giuridici: in un quadro di globalizzazione...

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La Globalizzazione Tema di approfondimento culturale per l’a.s. 2001/2002 a cura della Prof.ssa Licia Fierro con la collaborazione di (in ordine alfabetico) Prof.ssa Angela Del Prete Prof.ssa Silvia Gori e con la collaborazione tecnica di Fabiana Laggetto Introduzione Globalizzazione è parola relativamente nuova, ma è già diventata d’uso comune anche se la maggior parte di noi ne intende il significato solo in termini generali. È pur vero che molti economisti e sociologi ci forniscono già studi sull’argomento ai quali possiamo attingere, e tuttavia sentiamo l’insufficienza delle nostre conoscenze non appena ci poniamo il problema nell’ambito della didattica delle varie discipline. E infatti il fenomeno globalizzazione esige un’analisi delle sue radici, ma anche uno studio dei suoi effetti in ambito culturale e sociale. L’economia, la finanza, il commercio, l’informazione non si concepiscono più a livello “locale” ma a livello planetario. Apparentemente questo processo di unificazione delle varie branche dell’economia dovrebbe comportare benessere e miglioramento della condizione di vita di tutta l’umanità. La maggiore estensione del processo di unificazione avrebbe in tal senso un effetto aggregante. In realtà quanto più si estende il mondo “globalizzato”, tanto più resta emarginato il mondo “non globalizzato”. L’idea del “tutto omogeneo”, ha prodotto anche la nuova utopia di alcuni intellettuali che promettono nelle loro costruzioni teoriche la realizzazione del sogno comunitario. Quello che, però, vediamo con i nostri occhi è che le popolazioni escluse dal mondo globalizzato dei ricchi cercano di dare un senso alla loro separazione e addirittura la difendono sul piano culturale accentuandone i caratteri particolari in modo intransigente come avviene nelle varie forme di fondamentalismo. Questa separazione è dunque economica, culturale e sociale? Nel mondo pianificato e globalizzato diventano dunque più nette le differenze e ancor più pericolose che nel passato? L’altra domanda riguarda i cambiamenti istituzionali e

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La Globalizzazione

Tema di approfondimento culturale per l’a.s. 2001/2002

a cura della

Prof.ssa Licia Fierro

con la collaborazione di

(in ordine alfabetico)

Prof.ssa Angela Del Prete

Prof.ssa Silvia Gori

e con la collaborazione tecnica di

Fabiana Laggetto

Introduzione Globalizzazione è parola relativamente nuova, ma è già diventata d’uso comune anche se la maggior parte di noi ne intende il significato solo in termini generali. È pur vero che molti economisti e sociologi ci forniscono già studi sull’argomento ai quali possiamo attingere, e tuttavia sentiamo l’insufficienza delle nostre conoscenze non appena ci poniamo il problema nell’ambito della didattica delle varie discipline. E infatti il fenomeno globalizzazione esige un’analisi delle sue radici, ma anche uno studio dei suoi effetti in ambito culturale e sociale. L’economia, la finanza, il commercio, l’informazione non si concepiscono più a livello “locale” ma a livello planetario. Apparentemente questo processo di unificazione delle varie branche dell’economia dovrebbe comportare benessere e miglioramento della condizione di vita di tutta l’umanità. La maggiore estensione del processo di unificazione avrebbe in tal senso un effetto aggregante. In realtà quanto più si estende il mondo “globalizzato”, tanto più resta emarginato il mondo “non globalizzato”. L’idea del “tutto omogeneo”, ha prodotto anche la nuova utopia di alcuni intellettuali che promettono nelle loro costruzioni teoriche la realizzazione del sogno comunitario. Quello che, però, vediamo con i nostri occhi è che le popolazioni escluse dal mondo globalizzato dei ricchi cercano di dare un senso alla loro separazione e addirittura la difendono sul piano culturale accentuandone i caratteri particolari in modo intransigente come avviene nelle varie forme di fondamentalismo. Questa separazione è dunque economica, culturale e sociale? Nel mondo pianificato e globalizzato diventano dunque più nette le differenze e ancor più pericolose che nel passato? L’altra domanda riguarda i cambiamenti istituzionali e

giuridici: in un quadro di globalizzazione dell’economia, della finanza, dell’informazione quali forme di costituzione e di autogoverno si daranno le comunità nazionali? Se i discorsi su questa materia si presentano necessariamente complessi ed esigono perciò una visione d’insieme, ciò non toglie che si debba poi scendere nel concreto delle situazioni particolari e perciò ci si debba interrogare sulle scelte dell’Italia ed eventualmente sul suo ”destino”. Abbiamo l’ambizione di fornire agli studenti l’occasione di riflettere attraverso il contributo di esperti dell’economia e del diritto. Abbiamo progettato e realizzato lezioni-dibattito in quattro momenti così articolati: nel mese di gennaio in data 17 il professor Vincenzo Visco ordinario nell’Università di Roma “La Sapienza” e già ministro del Tesoro nella passata legislatura ha approfondito il tema della globalizzazione nei suoi aspetti economico-finanziari. Nella terza settimana di febbraio il professor Pietro Rescigno, maestro indiscusso della civilistica italiana dell’ultimo cinquantennio, ha tenuto una lezione sul tema globalizzazione in relazione ai problemi giuridici ad essa connessi. Il giorno 4 marzo il dottor Vittorio Agnoletto, leader del movimento no-global ha proposto una relazione sugli aspetti politico-sociali della globalizzazione. Il 10 aprile, il dottor Pier Luigi Ciocca, vicedirettore generale della Banca d’Italia, ha unificato nella sua relazione gli aspetti economici e quelli storico-istituzionali in una prospettiva di lungo periodo. Gli alunni del liceo sono stati coinvolti in riflessioni autonome sulle varie conferenze e le migliori trovano spazio in questa pubblicazione.

PARTE PRIMA Le riflessioni degli studiosi Vincenzo Visco GLI ASPETTI ECONOMICO FINANZIARI Conferenza del 17 gennaio 2002 Il professor Visco si è subito dedicato alla carriera universitaria, dopo essersi laureato con il professor Cesare Cosciani, che è stato il suo maestro. Il nostro ospite ha speso la sua vita nello studio, nella ricerca e, nel suo campo di indagine, ha apportato contributi fondamentali che certo solo gli addetti ai lavori possono comprendere nella loro profondità. Vorrei ricordare un contributo fra tutti importante negli ultimi tempi nell’ambito delle scelte della politica economica nel nostro paese e cioè i suoi studi e le sue soluzioni al problema della tassazione. Egli è professore ordinario di Scienza delle

Finanze nella facoltà di Giurisprudenza dell’università “La Sapienza” di Roma. L’altra faccia di Giano è il Visco politico, il Visco che ha saputo trasferire i frutti dei suoi studi nell’azione politica concreta, il che non è da tutti. Ministro per breve tempo nel governo Ciampi, poi fortunatamente per noi molto più a lungo nei governi Prodi e D’Alema, quindi ministro del Tesoro nel governo Amato. Si deve proprio all’azione politica di Visco il fatto che l’Italia abbia nel ’97 ridotto drasticamente il suo deficit, ovvero l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni al di sotto del 3% del PIL, cioè del Prodotto Interno Lordo, per rispettare i parametri di Mastricht condizione ineludibile per l’ammissione dell’Italia all’Euro. Chi più di lui potrà ragguagliarci sugli aspetti economico-finanziari della globalizzazione? Che cosa significa “globalizzazione”? Che cosa è questo fenomeno di cui si parla tanto? In realtà il termine “globalizzazione” non indica altro che un processo di integrazione e compenetrazione delle economie di diversi paesi che prima erano separate. Quindi è qualcosa che ha a che vedere con gli scambi commerciali, con i trasporti, con gli investimenti, con la creazione di imprese che partono da un paese e vanno ad investire in un altro, con le tecnologie che rendono tutto questo possibile, che si diffondono e si integrano. E’, dunque, in qualche modo un processo di unificazione di pezzi del mondo. Se la si vede in questo modo, può darsi che i sospetti pregiudiziali rispetto a questo fenomeno possono attenuarsi. Perché si tratta, in sostanza, di un processo di crescita. Del resto, non si tratta di un fenomeno nuovo. Si discute sulle date della sua origine. Alcuni fanno riferimento a Marco Polo, che in effetti era a modo suo un globalizzatore in quanto cercava di estendere rapporti commerciali tra Venezia e l’Asia: non è che gli piaceva solo viaggiare! Poi si è parlato di Cristoforo Colombo e della scoperta delle Americhe. In verità quelli furono i prodromi di un cambiamento storico epocale, che avvenne parecchio tempo dopo. Inoltre, dal punto di vista che ci interessa, questi sono episodi troppo circoscritti per essere considerati l’inizio di questo fenomeno: in quelle epoche, gli scambi commerciali riguardavano le spezie, la seta, i metalli preziosi e poche altre merci, perciò la convergenza dei prezzi - che è ciò che la globalizzazione determina – non assumeva una rilevanza economica determinante. Il punto che bisogna aver chiaro per comprenderela natura dei processi di globalizzazione, è che l'integrazione commerciale consiste nel fatto che beni che si producono a basso prezzo in un posto vengano spostati in un altro dove sono venduti a prezzi molto più alti. La differenza copre i costi di trasporto e consente profitti per gli operatori: questa è la molla che fa scattare i meccanismi dell’integrazione economica e commerciale. Perciò possiamo dire che la globalizzazione vera, quella che noi conosciamo è un fenomeno strettamente collegato allo sviluppo del capitalismo, la cui origine si può datare intorno alla metà dell'ottocento ed essenzialmente dopo la fine delle guerre napoleoniche. In quella fase assistiamo infatti alla prima affermazione del capitalismo moderno, mentre viene smantellato il sistema mercantilistico con tutti i meccanismi protettivi di difesa nazionale e sub-nazionale creati nel passato: è l’avvio dell’economia moderna. Questa prima fase dura circa un secolo e arriva fino alla prima guerra mondiale del 1915, ed è probabilmente la fase di globalizzazione più intensa e rilevante quantitativamente

e qualitativamente: cambia effettivamente il mondo grazie agli scambi commerciali, l'integrazione economica, la progressiva riduzione dei costi di trasporto, le scoperte scientifiche e l’innovazione tecnologica e, soprattutto (la cosa può sembrare sorprendente) l'integrazione dei mercati finanziari che allora era ancora maggiore di quella che abbiamo raggiunto oggi. Dopo di allora, assistiamo ad una fase, quella compresa tra le due guerre mondiali e che arriva fino agli anni cinquanta, che si può definire di reazione e di arretramento: una fase protezionistica, autarchica, caratterizzata da precise scelte e ideologie nazionalistiche, che chiude i Paesi e le rispettive economie facendole ripiegare su se stesse. Poi, negli anni cinquanta, comincia una nuova fase di integrazione che esplode in modo evidente negli anni ottanta e soprattutto novanta del secolo scorso. Bisogna tenere presente che questi processi spesso, anzi sistematicamente, si sovrappongono e si collegano ad ondate di innovazioni tecnologiche. Non è, dunque, casuale che l'informatica e la telematica siano diventate le nuove icone materiali dell’era contemporanea e che molte tecnologie innovative siano state il tramite dell'accelerazione del processo di integrazione economica, negli ultimi tempi. L'essenza del processo è, tuttavia, quella collegata allo scambio e alla localizzazione al di là dei confini nazionali di uomini e capitali. Ciò che probabilmente interessa di più è, in ogni modo, comprendere quali siano gli effetti della globalizzazione. Partiamo dalla forza lavoro. Ricordiamo che cosa accadde a partire dalla metà dell'ottocento con i massicci spostamenti di popolazione da tutta l'Europa verso gli Stati Uniti: non c’erano solo italiani, c'erano i norvegesi, gli svedesi, gli irlandesi, i quali, in massa, andavano a colonizzare, a lavorare nel “Nuovo Mondo”. Essi non andavano a svolgere ruoli di comando: andavano a fare i lavori che erano disponibili. Da che cosa era mossa, quella gente? Non certo da desideri o velleità di prevaricazione o di conquista. Erano mossi, piuttosto, dalla fame: andavano a lavorare dove si poteva guadagnare e costruirsi un futuro. Costoro, pur essendo inconsapevoli del processo di globalizzazione di cui erano protagonisti, erano ad esso molto favorevoli per l’occasione di vita che veniva loro offerta: spostarsi da un posto dove vivevano miseramente di stenti ad un posto dove lavoravano e costruivano il proprio futuro, era un fatto sicuramente positivo, anche se comportava la necessità di affrontare il trauma dello sradicamento dalle culture d’origine e dell’inserimento in contesti radicalmente diversi in cui era giocoforza adattarsi. Di ciò, soprattutto la prima generazione di immigrati, soffrì sicuramente molto. Per le generazioni successive, le cose sono state diverse, e i milioni di meridionali italiani che hanno contribuito allo sviluppo dell'America del sud e del nord, adesso sono alla terza e quarta generazione: si sono integrati e molti hanno fatto fortuna. Da questa vicenda si possono trarre alcune considerazioni abbastanza semplici: se c'è libertà di movimento dei capitali, lo smantellamento delle barriere doganali, e quindi la libertà di commerciare e di muoversi, accade che dai Paesi dove c'è eccesso di manodopera, una parte di questa vada dove c'è carenza dì manodopera. A questo punto accadono un paio di fenomeni, uno nel luogo di partenza e l'altro nel luogo di arrivo. Nel luogo di partenza vi è meno eccesso di manodopera: è come se venisse tolto un tappo lasciando defluire un po' d'acqua e riducendo così, la pressione sul mercato del lavoro. La minore offerta di lavoro, con ogni probabilità (almeno questo è ciò che dicono le statistiche), spinge il salario di quelli che restano verso la crescita. In questo caso la

globalizzazione sicuramente riduce le disuguaglianze nel Paese di provenienza della manodopera. Nel paese d'arrivo succede il contrario. I lavoratori in arrivo si accontentano dei bassi salari, aumentano la quantità di lavoro offerta, e ciò agisce da calmiere sui salari: quindi è possibile, anche se non è sempre accaduto, che nel paese ricevente la globalizzazione non riduca le disuguaglianze ma le accentui. Questo può aiutare a capire anche i fenomeni di immigrazione che oggi riguardano i paesi europei, anche se ci sono alcune differenze importanti. Al di là della religione e del colore della pelle, quando in America arrivarono i primi emigranti italiani, sembravano incivili, arretrati, suscitavano diffidenza e subivano discriminazioni: non erano accolti con entusiasmo dalle popolazioni locali. Oggi in Europa accade la stessa cosa: ed è possibile che, attraverso i meccanismi di mercato, l’arrivo di masse di immigrazione abbia l'effetto di tener bassi i salari dei nostri paesi. Ciò crea sicuramente dei problemi. Ma, i paesi nei quali i flussi migratori si riversano possono utilizzare nuova manodopera e ciò favorisce il loro sviluppo. Al tempo stesso l’emigrazione, sia direttamente (grazie alla riduzione della popolazione eccedente), sia indirettamente attraverso le rimesse degli emigrati, facilita lo sviluppo dei paesi d’origine. Questo meccanismo ha operato in modo evidente negli ultimi anni. Per esempio negli ultimi dieci anni la popolazione degli Stati Uniti è aumentata del quindici per cento grazie all’immigrazione e ciò ha permesso tutto il loro sviluppo. I nuovi arrivati infatti consentono alle nuove attività di disporre di manodopera abbondante a basso costo, fanno da calmiere per l’intero mercato del lavoro, e quindi consentono elevati tassi di crescita senza pressioni inflazionistiche. E in realtà, tutta la storia dello sviluppo degli Usa, da quando nacquero ad oggi, è basata su questa capacità di accoglienza e di utilizzazione dei flussi di immigrazione. Hanno coniato l’espressione melting pot, cioè pentola in cui si mescola tutto. L’incredibile sviluppo economico statunitense degli ultimi dieci anni, è una ulteriore conferma di questa capacità. Lo stesso fenomeno può verificarsi per le merci e per gli investimenti, anche se in questi casi risulta meno evidente. La liberalizzazione degli scambi è infatti legata alla eliminazione o riduzione di barriere doganali protettive, così come l'immigrazione è legata all'esistenza o inesistenza di quote, di blocchi, di divieti. Se si liberalizzano gli scambi commerciali, si realizza una apertura reciproca fra i paesi importatori ed esportatori ed è necessario analizzare quali sono le conseguenze sui prezzi relativi delle merci. I paesi più poveri, normalmente, esportano prodotti primari, come prodotti agricoli o materie prime, mentre importano manufatti. La liberalizzazione commerciale, sia nel primo periodo di globalizzazione sia in quello più recente, è stata spesso sfavorevole ai paesi in via di sviluppo, tuttavia è necessario analizzare bene le cose, perché, ad esempio, proprio questa situazione spinse i paesi produttori del petrolio a organizzarsi in sindacato (l’Opec) per regolare i prezzi del petrolio e utilizzare al meglio l'esclusiva della produzione di cui disponevano. Proprio il versante del commercio e il relativo problema delle tariffe doganali, è uno dei più discussi in questo momento. Si tratta di una questione che pone molti problemi su cui riflettere. E’ evidente che la liberalizzazione dei commerci aiuta tutti, così come è evidente che l'enorme sviluppo che c'è stato nei trasporti, la riduzione dei loro costi, è

un elemento di sviluppo e di integrazione formidabile che crea benefici per tutti. Ma esistono interessi contrapposti molto precisi, basta pensare, per esempio, al petrolio. Si dice sempre che le guerre in Medio Oriente sono legate al problema del controllo del petrolio, il che è assolutamente vero e sarebbe anche strano se non lo fosse, dato che tutta l'economia mondiale si basa sul petrolio e finché non saremo in grado di fame a meno non potrà diminuire la rilevanza strategica del Medio Oriente: non ci sono moralismi validi o indignazioni possibili. Possiamo indignarci quanto vogliamo, ma i governi di tutti i Paesi – e soprattutto dei Paesi più ricchi e più grandi - di qualsiasi colore essi siano, devono garantire alla loro popolazione la disponibilità di riscaldamento, di carburante per l’automobile, di energia per far funzionare le fabbriche, quindi faranno di tutto per evitare di restare senza. E la gente probabilmente sarà d'accordo. Nel caso del petrolio si è quindi creato un equilibrio fra interessi dei paesi produttori e di quelli consumatori che per quanto instabile risponde alle esigenze di entrambi. Ma meccanismi e considerazioni analoghe valgono anche per tutte le altre merci. Si prendano i prodotti agricoli: uno dei modi più facili per sviluppare l'economia nei paesi sottosviluppati e in particolare quelli dell'Africa (ma non solo) sarebbe la decisione, da parte dell’Europa, degli Stati Uniti, ecc. di liberalizzare i commerci dei prodotti agricoli. Questo però non avviene perché in tutti i paesi gli agricoltori sono una categoria elettoralmente forte, in particolare in Europa. Prendiamo l'Argentina: se l'Argentina potesse esportare liberamente in Europa la carne che essa produce, gli europei mangerebbero carne molto più buona e a prezzi molto più bassi, ma le migliaia di produttori, allevatori, commercianti di bestiame, in Italia come in tutta Europa, dovrebbe cambiare mestiere. Allora bisogna essere molto lucidi nel costruire i nostri giudizi, e vedere come nei movimenti anti-global diffusi in Europa emergono posizioni evidentemente contraddittorie: quando il signor Bovè critica Mc Donald e la produzione di polpette standardizzata su base mondiale, trova la mia solidarietà sia perché non ho mai mangiato una polpetta al Mc Donald sia perché preferisco i cibi locali. Però a parte la solidarietà culturale, mi riesce difficile seguirlo nelle sue polemiche radicali perché lui, che è un agricoltore francese che gode delle tutele europee, ha paura del fatto che possano arrivare le bistecche e le polpette dagli altri paesi che non saranno buone come le sue (cosa che si può sempre discutere) ma sicuramente costano di meno. Proprio per questo motivo, negli Stati Uniti tra gli antiglobalizzatori ci sono i sindacati: perché, dato che una parte non irrilevante degli investimenti globali sono americani e consistono in dislocazioni delle produzioni a più basso valore aggiunto, in altri paesi, questo processo provoca in prima battuta perdita di posti di lavoro. La contraddizione è evidente e c'è sempre stata, ed è quella che crea più difficoltà. Oggi queste contraddizioni si manifestano molto più nei paesi sviluppati che non quelli verso cui la globalizzazione si orienta. Ma in realtà la globalizzazione in corso è un fenomeno fisiologico, che si può e si deve regolare, ma che nessuno può arrestare. Inoltre, si tratta di un fenomeno che, nel complesso va valutato positivamente. Non è un caso che ad esso si siano sempre opposte le culture reazionarie: il periodo degli anni '30 e seguenti è stato, infatti, un periodo di chiusura che ha prodotto disastri e lutti. Così come oggi le posizioni xenofobe e fondamentaliste sono anche esse contrarie alla globalizzazione (anche se ne sono uno dei frutti). L’affermazione corrente secondo cui la globalizzazione penalizza i paesi poveri ed è

responsabile della loro povertà, va dunque attentamente valutata sulla base dei dati di fatto. E i dati di fatto dicono due cose contraddittorie. La prima è che la disuguaglianza globale tra i paesi del mondo è sicuramente aumentata negli ultimi decenni: le statistiche lo dicono incontrovertibilmente. Ma – ed è il secondo dato – se prendiamo un'altra statistica, relativa ai paesi coinvolti nel processo di globalizzazione - cioè quelli dove c'è stata liberalizzazione, dove ci sono stati movimenti di capitali, investimenti ecc. - si scopre che in quei Paesi le disuguaglianze si sono ridotte. Questo significa una cosa molto precisa: chi è integrato nel processo di globalizzazione, salvo alcune eccezioni, ha tratto benefici importanti. Del resto, lo stato del mondo trenta, trentacinque anni fa era caratterizzato da intere aree come la Cina, l'India, l'Indonesia, le Filippine, la Malesia, la Thailandia ecc., nelle quali la situazione era disastrosa: erano economie primitive, arretrate, con tutto il peggio che si possa immaginare, tanto che il famoso economista svedese Gunnar Myrdal, che poi vinse il premio Nobel, scrisse un importante trattato in tre volumi intitolato “Il dramma dell'Asia", in cui la tesi di fondo era che nulla in quei Paesi si poteva fare e che quelle popolazioni sarebbero morte di fame, senza alcuna speranza. Invece, quei paesi hanno poi avuto uno sviluppo incredibile: da 15 o 20 anni l'India esporta riso, mentre prima bisognava mandargli gli aiuti umanitari; e alcuni di quei paesi sono diventati molto ricchi. Questo è chiaramente un fenomeno di globalizzazione inclusiva, positiva ed è il motivo per cui, mentre nei Paesi ricchi si diffondono gli attacchi contro l'organizzazione mondiale del commercio, gli altri Paesi fanno la fila per entrare a farne parte. Quindi è semplicemente non vero che la globalizzazione aumenta le disuguaglianze tra paesi: non c'è evidenza di ciò, al contrario l’evidenza è in senso opposto. Il problema vero è che sull’apertura degli scambi commerciali vi deve essere parità di trattamento tra i beni prodotti nei paesi poveri e quelli esportati dai paesi ricchi: non sempre questo equilibrio esiste. Gli altri paesi, invece, quelli rimasti fuori dal processo di globalizzazione, vivono situazioni tragiche. Bisogna chiedersi, allora, perché ne siano rimasti fuori. Normalmente ciò deriva anche da scelte consapevoli, ma non solo; si tratta molto spesso di Paesi che hanno classi dirigenti incapaci e/o corrotte, Paesi che hanno guerre civili, Paesi che non riescono ad avere assetti politici stabili perché sono in conflitto da lungo tempo. Il problema vero, dunque, riguarda la necessità di trovare il modo di integrare anche quei Paesi in questo processo, e ciò deve avvenire necessariamente in maniera pacifica. L’esclusione, peraltro, non riguarda solo paesi dell'Africa, riguarda anche i paesi arabi. Nei paesi arabi, infatti, dei benefici derivanti dagli scambi commerciali petroliferi, non hanno certo goduto le popolazioni locali. La famiglia reale dell'Arabia Saudita ha più dì diecimila membri, ognuno dei quali ha diritto ad essere multimiliardario in lire, comunque multimilionario in euro o in dollari. L'interesse ad investire questi quattrini a beneficio delle popolazioni, quindi, non c'è mai stato. Anche in questo trova spiegazione il diffondersi del fondamentalismo. Un buon esempio viene dall’Iran. L’Iran è un paese molto ricco, con una tradizione culturale per nulla disprezzabile, che aveva un governo corrotto: a un certo punto è saltato il tappo - anche per responsabilità ed errori in politica dei paesi occidentali – ed è arrivato un monaco fanatico che ha messo il velo alle donne però ha anche ricostruito

un'identità nazionale, e adesso l’Iran è in fase di rapida evoluzione verso un domani probabilmente migliore. Allora - e qui veniamo all'ultimo aspetto che ci interessa - dietro le polemiche, le discussioni legate al tema della globalizzazione, che cosa c'è? È chiaro che il processo in sé è un processo positivo: chiunque giochi con il computer e vada su Internet sa che quella è una forza irresistibile, che permette di dialogare con chiunque in qualsiasi parte del mondo, di comprare e vendere dovunque qualsiasi cosa, di ottenere informazioni dettagliate di qualsiasi genere in tempo reale. E questo è, ovviamente, un fattore di civiltà di progresso, di modernizzazione. Nessuno osa dire che questo non deve avvenire perché si isolerebbe immediatamente. Il problema è il come. Qui c'è effettivamente da ragionare. Dopo la seconda guerra mondiale, i Paesi occidentali hanno agito sistematicamente, nei confronti delle classi dirigenti di molti Paesi, nello stesso modo descritto per l’Iran. La cosa straordinaria è che mentre in Europa o in Italia la potenza che aveva vinto la guerra mondiale esportava dollari e democrazia, nei confronti di questi altri paesi non c'erano né dollari né democrazia: c'era estrazione del petrolio e dittatura. È questo che alla fine, non ha retto. E che è alla base anche di molte radicalizzazioni odierne. Troppi errori sono stati commessi nella gestione degli equilibri mondiali. Gli equilibri mondiali, per esempio, non possono reggersi sull’egemonia di un solo soggetto: è proprio il sistema globalizzato che richiede un assetto multipolare, cooperativo e non autoritario o solitario. Si tratta di questioni che non vanno ignorate ma che non devono, però, neppure accecare traendone conclusioni e giudizi sommari e schematici: si deve, al contrario, discutere e trovare le soluzioni. L'altro aspetto riguarda le organizzazioni internazionali. Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio, vengono dipinte spesso come organizzazioni criminali, terribili assembramenti di tecnocrati sadici che vogliono fare del male ai popoli poveri del mondo. Così non è, naturalmente, ma bisogna sapere che c’è un problema serio che riguarda il modo in cui queste organizzazioni funzionano o non funzionano. Dopo le crisi finanziarie che ci furono nella metà degli anni '90, e poi nel '97-'98 in Asia, Russia ecc., ci fu un'aspra critica delle metodologie applicate dal Fondo Monetario, da cui nacque una discussione approfondita: ne scaturì una riforma e adesso qualcosa sta cambiando. Il Fondo monetario e la Banca mondiale sono due banche che danno prestiti, consigli e consulenze a certi paesi; non è vero neanche che siano così poco democratiche nel loro funzionamento, perché, anche se i paesi più forti contano di più, proprio perché si tratta di banche e quindi è come se fossero società per azioni in cui gli azionisti con più capitale contano di più. Dentro questi organismi sono tuttavia presenti rappresentanti di paesi ricchi e di paesi poveri, ci sono discussioni, mediazioni ecc. Il problema è che non è da loro che deve provenire la guida del mondo: quelli sono organismi tecnici che possono esser di supporto alle scelte politiche; per di più, sono organismi tecnici che negli ultimi 10-20 anni hanno applicato una ortodossia economica assolutamente discutibile, perché va bene globalizzare, va bene ridurre i dazi e aprire l'economia, ma

questo non si fa necessariamente dall'oggi al domani accelerando in maniera irresponsabile il processo, perché bisogna vedere se poi il paese coinvolto è in grado di reggersi, se ha le strutture adatte, perché per reggere, quel paese deve avere il sistema bancario e finanziario che funziona, deve avere certi standard educativi in grado di rispondere alle nuove esigenze e così via. Quindi ogni intervento deve essere condotto senza brutalità, con sapienza, ed è a questo punto che emerge il problema delle classi dirigenti. In molti di questi paesi, chi va al potere ha l'unica preoccupazione di arricchire se stesso, la sua famiglia, la sua consorteria, non di fare gli interessi delle popolazioni. Ma poi, a chi spetta decidere se una classe dirigente è buona o cattiva? E chi è autorizzato ad intervenire? Abbiamo già scoperto negli anni passati che la guerra può essere una forma di ingerenza umanitaria: è una cosa discutibile, però tutto sommato non mi trova dissenziente. Tuttavia ciò non significa che si possa spingere l’ingerenza fino alla cacciata di tutte le classi dirigenti corrotte nei Paesi in cui sono al potere, e alla loro sostituzione con altri rappresentanti locali o non locali. Questo mi sembra un po' più audace perché significherebbe colonizzazione. In ogni caso, l’ inadeguatezza delle classi dirigenti in moltissimi dei paesi più poveri è un problema serio. I paesi che hanno avuto successo anche nei processi di globalizzazione sono quelli che hanno saputo esprimere classi dirigenti adeguate. Per esempio, confrontiamo fra loro la Malesia e l'Indonesia. La Malesia non si è fatta travolgere dalla crisi del '98, l'ha subita, ha resistito al Fondo monetario, che le voleva far fare interventi che avrebbero aggravato la crisi, e ha deciso di fare a meno dei suoi finanziamenti: in breve tempo si è ripresa subito e ora sta piuttosto bene. L'Indonesia, dove c'era al potere una casta militare e affarista pur avendo avuto un forte sviluppo, dopo quella crisi non si è più ripresa. L'Indonesia ricorda molto da vicino l'Argentina. In Argentina il problema è rappresentato, appunto, dalle classi dirigenti. L'Argentina negli anni '20 del secolo scorso era uno dei paesi potenzialmente più ricchi del mondo e del Sud America sicuramente, perché ha tutto: popolazione non eccessiva, buon livello di istruzione, materie prime, territorio. Ma i suoi dirigenti si sono rivelati irresponsabili, hanno rubato e portato più volte il paese alla crisi, quella di oggi non è certo la prima, il nostro protezionismo ha fatto il resto. Si dice che in Argentina il Fondo monetario e gli altri poteri stranieri hanno costretto a liberalizzare, e a privatizzare le imprese pubbliche e le imprese privatizzate funzionano male. In realtà la privatizzazione c’è stata ma la liberalizzazione no: le imprese pubbliche sono state vendute ai privati - un po' argentini e un po' americani – ma ad esse è rimasto il monopolio: perciò i cittadini, invece di avere un'impresa pubblica che prima era almeno attenta alle tariffe, adesso è alla mercé dei privati che spolpano la popolazione. Il problema, dunque, non è nel processo ma nell'attuazione del processo. Arriviamo alla conclusione: se le cose stanno così, dobbiamo creare le condizioni perché si possa discutere dei problemi e programmare gli interventi in maniera adeguata e per tempo. Questo è ciò che oggi manca completamente, perché noi abbiamo un'economia globale ma stati nazionali; e poi abbiamo una superpotenza che chiaramente non può fare da sola anche se aspirerebbe a farlo. Bisogna, dunque, creare degli assetti politici più evoluti. In questo senso, un buon

esempio di globalizzazione virtuosa è quello dell'Unione Europea. Ci sono sempre stati, in passato e anche oggi, posizioni di euro-scetticismo e di nazionalismo generalmente derivanti dalla paura del nuovo, del cambiamento, dalla tendenza repressiva all'immobilismo, ma è evidente che il processo di unificazione europea è positivo. Noi riusciamo a gestire meglio certi potenziali conflitti e le difficoltà del nostro continente proprio perché abbiamo creato questo organismo che funziona bene, qualche volta male, qualche volta con stasi ed accelerazioni successive. E’ difficile, però c'è e ci dà forza. E certe posizioni molto radicali, tipo quelle diffuse nell'arco alpino fra l'Italia e l'Austria - ma ce ne sono anche in Danimarca, in Belgio, in Olanda - posizioni xenofobe, nazionaliste assolutamente contrarie all'Europa, appaiono chiaramente in forte analogia con quelle fondamentaliste arabe, nonché con altre posizioni emerse in Europa negli anni ’20 del secolo scorso: posizioni che si diffusero e conquistarono il potere, con le conseguenze che conosciamo. Quindi i rischi ci sono; un tempo i processi di globalizzazione portavano guerre: le ultime due guerre mondiali avevano a che vedere più o meno con i conflitti tra le nazioni derivanti dall'allargamento dell'economia. Adesso la situazione è parzialmente diversa, però qualche guerra ogni tanto, grande o piccola, pure si verifica. A differenza di allora, però, ci sono molti più antidoti, ci sono i paesi dell'Occidente che sono organizzati in modo pluralistico, democratico, c'è gente che può sollevare tutti questi problemi, ed esiste una consapevolezza molto maggiore, anche di tipo tecnico, da parte dei governi. La situazione è mutata e tuttavia bisogna stare, secondo me, molto attenti a trovare le soluzioni giuste. Infatti le posizioni radicali di contrapposizione alla globalizzazione - che possono essere sia di destra che di sinistra - portano a soluzioni sicuramente peggiori. Noi vogliamo continuare ad essere sempre di più cittadini del mondo e saper accogliere la gente che viene da altri paesi e a nostra volta saper andare da loro e sapere governare questo processo. E' su questi aspetti che manca un governo globale, che mancano istituzioni globali e bisogna fare in modo di avviarne lo sviluppo: questo non può venire dall'ONU, deve essere qualcosa di più agile. Negli organismi internazionali, ad esempio, abbiamo una rappresentanza che non è corrispondente alla popolazione. Questo è un problema serio, anche in Europa. In Europa, quando si parla del voto all'unanimità o a maggioranza e ci si divide e i nazionalisti, gli antieuropeisti o i tiepidi dicono che le decisioni vanno prese all’unanimità perché dobbiamo difendere gli interessi nazionali, essi non si rendono conto di dire una sciocchezza, perché significa che, per esempio, il Lussemburgo può mettere il veto su tutte le cose che a lui interessano anche se sono in contrasto con gli interessi di paesi ben più popolosi ed importanti. Questo problema, trasferito a livello mondiale, significherebbe, però, che se gli Stati Uniti e l’Europa hanno rispettivamente 260 e 320 milioni di abitanti, l'India ne ha 800 milion, la Cina ne ha due miliardi: allora, se Usa ed Europa sono grandi potenze, quanto devono contare India e Cina in quei consessi? Una scelta equilibrata richiederebbe di tener conto sia del reddito, sia della ricchezza, sia della popolazione. Non va trascurato che le risorse sono in mano ai paesi più ricchi, e non è pensabile – anche se forse sarebbe bello – che essi le cedano ad altri solo perché le loro popolazioni sono più numerose. Tuttavia bisogna sapere in quale direzione si dovrà andare. Oggi l'Italia, la Germania, la Francia, sono Paesi fra i più ricchi del mondo e perciò ognuno di loro ha un ruolo importante nei consessi internazionali come il G7 - G8: ne facciamo parte ed è abbastanza gratificante che il Ministro del Tesoro vada lì, ci si trovi in 7 o 8, ed è molto

utile perché serve a capire i problemi in un club alquanto esclusivo. Ma se si va verso soluzioni razionali è chiaro che lì di europei, in prospettiva, ce ne dovrà essere uno solo, e magari ci deve essere un cinese, un russo, un indiano, ecc. Queste, però, sono sfide politiche. Ognuno si misura come crede; c'e anche molta gente che, a prescindere da tutto questo, ha una visione di breve periodo, dice che si devono fare scelte che siano nell'interesse del paese subito e basta, poi quel che viene viene. Questo è un approccio abbastanza diffuso e ovviamente discutibile. Discutibile almeno quanto l'approccio di chi, invece di ragionare, studiare, capire e trovare soluzioni adeguate, demonizza e criminalizza. Anche se è vero che un movimento che faccia leva sull'indignazione può essere utile per portare all’ordine del giorno i problemi reali, bisogna però evitare le correlazioni sbagliate fra i fenomeni contro i quali l’indignazione scatta e le loro cause. Come ho cercato di spiegare, le cause sono diverse. Provate a chiedere ad un globalizzato se vuole rinunciare ad esserlo. Si troveranno molti globalizzatori contrari alla globalizzazione. Ma difficilmente si troveranno proteste contro la globalizzazione nei paesi in cui la globalizzazione ha portato imprese straniere che hanno investito, creato posti di lavoro e dove si comincia a diffondere il benessere.

Pietro Rescigno GLI ASPETTI GIURIDICI Conferenza del 26 febbraio 2002 Oggi abbiamo qui con noi uno dei più grandi studiosi italiani di diritto civile, anzi sicuramente la massima autorità italiana. Il professor Rescigno è decano della facoltà di giurisprudenza nell’università di Roma “La Sapienza”, è accademico nei Lincei, è insignito di una serie di titoli che non posso qui elencare e io stessa non ho proprio titolo a presentare un così eminente studioso. Quando gli ho rivolto l’invito di venire qui a parlarci di globalizzazione egli si è schernito, ha detto “…ma non è il mio tema, non ne so un gran che!”. Io qui vorrei pubblicamente sconfessarlo perché il professor Rescigno ha studiato il diritto e continua a studiarlo non tanto, non solamente nei suoi elementi sovrastrutturali, non in una prospettiva dogmatica, in una prospettiva positivistica, ma studia il diritto calandolo nella storia, individuandone sempre i rapporti con la società. Già negli anni ’50 e ’60, i suoi numerosissimi saggi hanno sicuramente contribuito a modificare, anzi io oserei dire a rivoluzionare il modo di studiare il rapporto tra persona e comunità. Dunque l’attenzione dello studioso è stata rivolta alla storia del pensiero politico, al modo di intendere la democrazia all’interno della famiglia, all’interno dei partiti, all’interno delle organizzazioni sindacali, delle organizzazioni di impresa. La difesa della persona rispetto al gruppo, inteso come centro di potere, la difesa della stessa comunità statale nei confronti del gruppo, nei confronti del centro di potere che prende decisioni e le impone, tutti questi elementi bastano e avanzano per giustificare la presenza del professor Rescigno in un dibattito sulla globalizzazione. Un fenomeno questo che tra le altre cose è caratterizzato dall’affermarsi, direi proprio su scala mondiale, della sovranazionalità e in alcuni casi anche della ex-statualità del diritto; un fenomeno in cui noi vediamo nuovi centri di potere, nuovi gruppi organizzati imporsi e

incidere su quelli che sono gli interessi delle comunità molto spesso le più povere comunità della terra. Dunque è proprio sugli aspetti giuridici della globalizzazione che nessuno meglio del professor Rescigno potrà gettare qui oggi un fascio di luce. Cercherò di ricostruire il possibile cammino che il giurista e in particolare nell’ambito del diritto, lo studioso del diritto privato della mia materia, il contributo che può dare, il percorso che può compiere assieme ai cultori della scienza politica, dell’economia che certamente sono più direttamente chiamati e prima ancora coinvolti in un discorso che riguarda questo fenomeno della globalizzazione e quindi le possibili risposte che un fatto che già in larga misura è in via di compimento le risposte che questo fatto esige o può rendere possibili. Globalizzazione è un tema sul quale politica ed economia sono interlocutrici di un possibile dialogo a più voci; e poi ci sono tanti temi in cui si cerca di provocare e di sentire competenze diverse nel campo del diritto. È più frequente interpellare e interrogare un internazionalista e cioè lo studioso di quel ramo del diritto che almeno su un versante, (vi ricordo che per quanti si affacceranno agli studi del diritto conosceranno e studieranno le distinzioni tra il diritto internazionale pubblico e il diritto internazionale privato) probabilmente sfioreremo anche questo secondo settore ma il diritto internazionale pubblico significa il regolamento dei rapporti tra gli stati, significa la ricerca di soluzioni e nella maggior parte dei casi di soluzioni convenzionali, soluzioni pattizie, in pratica il ricorso a quello strumento elementare della convivenza fra gli uomini e quindi anche della convivenza fra le nazioni è costituito da un accordo e il diritto internazionale è quindi lo strumento che può apparire anche per questo tema come un passaggio utile o addirittura indispensabile per risolvere situazioni che più di altre possono apparire segnate da disparità, da di svantaggi, da inferiorità che occorre correggere e colmare. E’ un dato che la globalizzazione possa interessare e generalmente susciia o per lo meno abbia in concreto determinato l’attenzione dello studioso del diritto pubblico interno, cioè non già delle relazioni tra gli stati, ma lo studioso che si ferma ad osservare l’organizzazione politica di un paese e quindi lavora all’interno di un certo ordinamento. Perché questo fenomeno della globalizzazione certamente mette in discussione capisaldi della nozione di stato sulla quale il gius-pubblicista, cioè lo studioso del diritto pubblico interno si è formato, ma l’idea di stato, per lo meno quella dello stato moderno, è lo stato che in italiano è stato di diritto:con questa formula vorremmo dire uno stato il quale pone delle regole che esso stesso deve rispettare. Questa formula che trovate spesso usata anche in gergo giornalistico, politico, quotidiano vuol dire questo ed è un significato come vi renderete conto di grande peso: stato di diritto significa lo stato che pone regole, pone regole che si rivolgono ai sudditi, ma pone innanzitutto regole a se stesso ed è tenuto a rispettarle. Questo è il significato della formula coniata da meno di due secoli e con la quale contrassegniamo il modo di essere, il modo di organizzarsi, di funzionare degli stati moderni, di quegli stati nei quali viviamo e rispetto ai quali spesso rivendichiamo poi la necessità che essi si conservino o si atteggino, se hanno avuto deviazioni, e spesso queste deviazioni si sono verificate e perciò chiediamo che si riaffermi e che quindi ci convinca, in un certo senso, oltre che a reggere la nostra vita come stato che si sottopone ad essa. Ecco in questa nozione di stato determinanti e decisivi erano i tre elementi del territorio, del popolo e della sovranità, così si insegnava nei libri di diritto costituzionale correnti fino a qualche decina di anni fa. Ora non si tace di questi elementi nei libri di diritto pubblico, si avverte che questa indicazione è una indicazione che deve essere aggiornata, corretta, rispetto a tutta una

serie di fenomeni che verosimilmente quello della globalizzazione è certamente un fenomeno che sollecita a ripensare a questo discorso con una impostazione appunto in termini che muovevano da questi tre elementi come elementi al tempo stesso sufficienti ma anche necessari, indispensabili perché una certa comunità si possa considerare stato. Conoscete già e certamente troverete tra le prime nozioni se, ripeto, vi orienterete verso gli studi di diritto, un’altra distinzione che pure è importante ed è importante anche per questo tema che sia pure in maniera molto elementare, approssimativa cercherò di presentarvi dall’angolo di osservazione del giurista. Un’altra distinzione anche questa resa evidente in verità con gradi diversi di manifestazione dalla realtà moderna, dal mondo in cui viviamo: la distinzione tra lo stato che consta di una serie di apparati, come suol dirsi, e cioè di uno stato fatto di organizzazione, di uffici, di ministeri, parole queste del linguaggio comune, e uno stato invece visto come una comunità, che è una formula che parte dall’idea che lo stato non sia l’unica comunità, non è nemmeno la comunità che assorbe tutte le minori comunità,(minori comunità nel senso che generalmente hanno delle dimensioni più ristrette, si muovono cioè in ambiti più ridotti rispetto allo spazio che lo stato occupa). Anche da questo punto di vista però occorre intendersi e rettificare anche questa affermazione, perché nell’ambito dello stato, che è sempre il punto di vista che il giurista finisce con l’adottare, per abitudine, per semplificazione del suo discorso, perché egli ragiona su quella realtà, nell’ambito dello stato vi sono anche comunità che per loro natura trascendono i confini dello stato. Pensiamo alle confessioni religiose: molte chiese non sono un fatto nazionale, non vivono cioè in un ambito ristretto fra i confini dello stato ma superano la realtà di un singolo stato nazionale. Un discorso che almeno in passato e assai meno di un tempo riguardava i partiti politici quando vi erano dei movimenti che non erano localizzabili in un determinato stato, perché vivevano anche in una dimensione transnazionale attraverso dei legami che erano spesso anche legami formali. Ancora oggi in verità si parla per certi movimenti politici di una internazionale di un certo colore, di un certo tipo, ma non hanno lo stesso peso, la stessa importanza, la stessa valenza giuridica che avevano certe leggi internazionali degli anni durati fino a pochi decenni fa. Lo stesso discorso si poteva fare, forse questo conserva qualche residuo ancora oggi valido, per certe urbanizzazioni sindacali. I sindacati nascono da realtà locali, anzi spesso nascono in una dimensione che è più ridotta rispetto a quella dell’intera nazione, ma nel periodo di maggiore presenza e impegno del sindacato, i sindacati hanno spesso creato anche forme di collegamento che davano vita con esiti giuridici, cioè con conseguenze rilevanti anche dal punto di vista del diritto, a organizzazioni che superavano i confini nazionali. Quindi quando parliamo di comunità e diciamo, anche questa è una formula che il sociologo e talvolta il giurista usano, che lo stato è la comunità delle comunità, usiamo una formula che può essere anche accettata soprattutto nell’ambito di uno stato il quale sia rispettoso delle varie comunità; se con questa formula vogliamo dire che lo stato deve atteggiarsi poi, perché per molti stati possiamo dire che costituzionalmente si propongono di essere, dichiarano di essere spesso lo scrivono nelle loro costituzioni, se lo stato vuol essere uno stato pluralista che riconosce le varie comunità questo stato può anche atteggiarsi, presentarsi come uno stato che si definisca la comunità di tutte le comunità, ma è un’espressione retorica che forse può diventare addirittura pericolosa se qualcuno vuol vedervi l’idea di uno stato che ingloba in sè le varie comunità e quindi è portato anche a controllarle, è portato anche a favorirne alcune a scapito di altre, a sovvenzionarle. Il pericolo di uno stato pluralista può essere anche quello (soprattutto presente e che può gestirsi in quei paesi che sono arrivati tardi e non del tutto al pluralismo), di concepire il pluralismo come qualcosa che va promosso, incoraggiato e che

inevitabilmente quindi porta a forme di discriminazione perché vi saranno gruppi, organizzazioni, che incontreranno il favore dello stato e riceveranno anche aiuti, non certo di carattere economico, per vivere oppure un trattamento giuridico di privilegio rispetto agli altri. Vi rendete conto quindi come questa formula possa essere accettata, ma debba essere intesa in un significato che non si traduca in una sorta di gerarchia per cui lo stato si pone in cima a tutte le comunità e quindi diventa il regolatore e anche l’ente che disegna questa specie di graduatoria di valori. Quindi stato apparato, stato comunità, un’altra distinzione ritornata classica nel discorso del giurista, soprattutto del giurista pubblicista, che è quello attento alla struttura dello stato, alla struttura e anche allo svolgimento dei compiti che poi tradizionalmente lo stato si è assunti.Questa seconda distinzione è una distinzione nella quale si ritrova e anzi può essere utile l’apporto anche dello studioso del diritto privato.Il diritto privato, per anticiparvi in termini molto semplici una contrapposizione, una differenziazione, che poi coglierete anche al di là dell’impegno negli studi di diritto col tempo, significa, per rifarsi ad una vecchia classificazione, quella parte del diritto che riguarda l’utilità dei privati, dove privato vuol dire non solo però i singoli, e questa è una prospettiva che si è aperta allo studio del diritto privato soprattutto negli ultimi tempi, perché l’avvento dello stato moderno determinò una concezione dello stato, quindi di riflesso dell’ordinamento giuridico in cui erano viste soltanto le due realtà contrapposte ed estreme dell’individuo e dello stato, nello stato di diritto poneva regole a se stesso, come cercavo di ricordarvi e spiegarvi, poneva regole a se stesso anche e soprattutto nel segno del rispetto di una serie di prerogative del diritto: le libertà individuali si traducono in spazi nei quali l’individuo può muoversi, deve essere messo in condizioni di muoversi senza che nessuno lo controlli, che verifichi ciò che fa e perché lo faccia. Quindi libertà significa soprattutto difesa da aggressioni esterne, libertà che poi nel tempo, soprattutto attraverso la formula dello stato sociale, significa altresì la libertà di fare alcune cose e quindi di avanzare anche delle pretese che non si riducano alla astensione, alla assenza dello stato nella sfera individuale, ma che importino anche una presenza attiva dello stato che consenta la soddisfazione di queste aspettative. Perché vi dicevo la prospettiva del diritto privato diventa importante quando ci fermiamo a considerare accanto, oltre e, in una certa misura, anche contro lo stato apparato quello che abbiamo chiamato secondo una terminologia corrente come lo stato-comunità, perché lo stato-comunità significa appunto l’esistenza nell’ambito dello stato di una serie di gruppi, di formazioni e di comunità, che è il termine poi caro soprattutto alla sociologia( i giuristi conoscono e usano più termini come associazione, come società che danno l’immediata idea del contratto alla base di questa realtà sociale). Il termine comunità è preferito dal sociologo perché riesce a coprire anche tutta una serie di comunità che hanno, dal punto di vista del sociologo, un carattere organico e talvolta hanno un carattere necessario almeno in certe forme storiche in cui si presentano. Pensiamo alla più elementare delle comunità che è la famiglia: nella famiglia si suol dire che ha un carattere di organicità, di naturalità e dicendo naturalità usiamo una formula che è usata anche nella nostra costituzione; la nostra costituzione dice che la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio. Ciò non esclude, è un discorso che come potete immaginare è assai aperto e dibattuto tra i giuristi, il riconoscimento e la garanzia anche a unioni non fondate sul matrimonio, ma parte però da questo dato positivo. Nella costituzione di oltre mezzo secolo fa si muove dall’idea della famiglia come una comunità definita in termini di società naturale. Quindi naturalità, organicità, necessarietà sono qualificazioni che sembrano meglio rispecchiarsi in un termine come comunità, che è anche più generico di quanto non siano i termini società, associazione, che hanno invece una loro maggiore precisione, rispondono a un linguaggio legislativo

più rigoroso. E’ importante per garantire una società che sia veramente pluralista, per garantire veramente il pluralismo nell’ambito della società generale, è necessario che queste particolari comunità siano considerate come forme giuridiche regolate e radicate nel diritto privato. Quando lo stato parte, si muove per il riconoscimento delle comunità ma poi cerca di riportarle alle proprie strutture, la società pluralista non esiste più, se mai è esistita. Quando in una organizzazione statale si dà riconoscimento e si inserisce anzi si attribuiscono addirittura delle funzioni pubbliche o quasi pubbliche ad un unico sindacato, come accadeva nel regime corporativo italiano dal 1926 al 1943 o si riconosce un solo partito politico e addirittura, in certi ordinamenti, di questo unico partito politico si fa un organo dello stato, vi rendete conto che il discorso in astratto viene ancora condotto in termini di pluralismo, ma nella sostanza questo pluralismo viene distrutto, e viene distrutto soprattutto perché queste aggregazioni sociali minori vengono ricondotte allo stato. Nel caso di regime corporativo, che anche sul piano giuridico è uno dei più interessanti, un solo sindacato era riconosciuto per ciascuna categoria professionale e quel sindacato era appuntato a sfigurare i contratti collettivi efficaci per tutta la categoria professionale che è un risultato pratico importante, interessante, e che ha condizionato la stessa nostra costituzione democratica. Ma vi rendete conto che è un dato, fu un dato positivo rilevante e lungo nella nostra storia politica, nella nostra storia costituzionale, un dato incompatibile con il pluralismo, perché significava la distruzione della pluralità e della concorrenza fra i sindacati e un solo sindacato diveniva sostanzialmente uno strumento dello stato. Ecco quindi nello stato-comunità è importante il ruolo del diritto privato che significa non solo il ruolo di chi studia con questa mentalità, con questa educazione privatista, ma significa una scelta che sul terreno politico l’ordinamento costituzionale fa in termini di rispetto del pluralismo collocando ciascuno di questi gruppi, ciascuna di queste formazioni sul terreno del diritto privato, senza pretendere di assorbirne nel campo delle funzioni, negli strumenti di cui lo stato come organizzazione, come società di tutti, se vogliamo usare una formula che anch’essa intesa correttamente può valere, lo stato rinuncia ad assorbire tutte queste formazioni. Ecco questi dati, sono dati dai quali il discorso si può muovere, il discorso poi si esaurirà rapidamente perché rappresentano un po’ punti di partenza nella riflessione del giurista. Il fenomeno della globalizzazione ha interessato in realtà per accenni, ho più volte sottolineato come il privatista abbia un ruolo minore nello studiare questo fenomeno, ma poi vi ho detto adesso con riguardo a questa distinzione stato-apparato, stato-comunità, come in realtà il diritto privato sia chiamato ad esercitare una notevole funzione soprattutto se si muove da questa premessa che è una premessa non solo ideologica, ma che è una premessa anche di costruzione, di interpretazione dell’ordinamento positivo, si parte dalla premessa che nello stato pluralista le comunità che vivono nell’ambito dello stato devono essere considerate come comunità di diritto privato. Diritto privato significa poi in breve che devono nascere dal consenso degli individui, non devono nascere da una imposizione esterna e devono vivere secondo la logica del diritto privato. La logica del diritto privato è, in primo luogo, o addirittura possiamo dire è esclusivamente la logica del contratto, cioè si entra in una formazione sociale per propria volontà, vi si rimane per propria volontà, anche questo un ordinamento pluralista deve rispettare e quindi non deve prevedere forme né di ingresso coattivo né di espulsione coattiva dalla formazione sociale. Qui mi limito a indicarvi alcuni punti soltanto di che cosa voglia dire concessione privatistica delle comunità e quindi dello stato pluralista. Il fenomeno della globalizzazione però cercavo di dire ha modi di manifestarsi che vanno al di là di questa dimensione nazionale, della dimensione dello stato pluralista, dello stato cioè fondato sulla esistenza, sul riconoscimento e sulla garanzia di una serie di comunità minori, dove

con la parola minore, vorrei cercare di chiarire, non si intende necessariamente una comunità che viva soltanto nell’ambito di una nazione. Toccato il tema della globalizzazione, un fenomeno molto importante anche a questo è stato più attento l’internazionalista di quanto non sia stato attento lo studioso del diritto interno, ma lo studioso del diritto interno pure è stato chiamato a pronunciarsi su certi principi di cui si è cercato di dare applicazione, alludo a uno dei temi ricorrenti nel discorso della globalizzazione che è il discorso del cosiddetto debito esterno. Il problema esiste ed è stato sollevato con particolare intensità per i paesi dell’america latina, paesi che sono stati travolti da un debito dello stato e anche organismi privati, che però si erano indebitati per ragioni che finivano col coinvolgere l’intera comunità statale. In verità in quell’occasione si è fatto ricorso, per cercare di venire incontro alle necessità di vita esistenziali di intere popolazioni, anche ad un principio che è iscritto, (ma è iscritto in maniera difficile da ricostruire nella sua esattezza, nella sua precisione tecnica), si è fatto ricorso ad un principio che i giuristi, gli storici del diritto esprimono con la formula latina “favor debitoris”. Non sempre le formule latine sono autentiche, spesso nascondono il tentativo di ancorare al passato escogitazioni e invenzioni del presente, comunque la formula “favor debitoris” viene spesso usata per dire che il sistema positivo è innanzitutto il sistema dei rapporti tra privati regolato dal diritto: il principio secondo il quale nei rapporti debito e credito sia nel momento in cui si costituiscono, sia nel momento in cui funzionano, si svolgono, sia nel momento in cui si arriva alla finale soddisfazione del creditore, questi rapporti sono regolati nel segno, ove vi siano situazioni dubbie, finché un rapporto obbligatorio trova naturale svolgimento, il debitore è in condizioni di pagare, il creditore riceve con soddisfazione la sua pretesa non si pongono problemi, ma non si pongono problemi né per il diritto né sul piano delle intenzioni sociali. Ove vi siano momenti di crisi del rapporto obbligatorio si può ritenere, si può cogliere nel sistema anche se si tratta uno dei cosiddetti principi generali che ha bisogno però di una verifica assai più attenta e approfondita di quello che con una semplice formula retorica si finisce col dire quando si pretende di legare al “favor debitoris” la risposta a tutti questi problemi tecnici. Anche perché il diritto neanche il diritto degli stati, giacché i rapporti fra stati oltre che il diritto privato, conosce sì questa regola del favore da accordare al debitore in certe situazioni e quindi della interpretazione della stessa obbligazione nel senso del minor carico, il carico tollerabile, sopportabile ma il diritto conosce ed è uno dei principi fondamentali anche nel diritto privato, come nei rapporti tra stati, un’altra regola che è importantissima che è il principio del rispetto degli impegni assunti. Ancora una volta una formuletta latina condensa questa verità, questa regola giuridica che è la regola che quando studierete, perché alcuni di voi studieranno diritto, scopriranno che addirittura questa regola è la norma fondamentale, è la norma cioè su cui è costruito l’intero diritto internazionale, poiché il diritto internazionale non procede, non proviene da nessuna autorità precostituita e questo spiega perché sia un diritto che spesso non riesce a trovare sanzione nei comportamenti degli stati che si ribellano alle regole comunemente accettate. Questa regola è la regola che si condensa in un’altra formuletta latina che è quella “pacta sunt servanda”, che significa che gli impegni assunti e innanzitutto quelli assunti consensualmente, cioè attraverso un libero scambio di volontà, devono essere rispettati. Ora questi debiti per tornare alla situazione dei paesi dell’America latina sono debiti che sono nati da convenzioni almeno sul piano formale liberamente stipulati, liberamente assunti, quindi vi rendete conto che forse il ricorrere duramente e semplicemente ad un principio che va controllato nelle sue espressioni specifiche nell’ambito degli

ordinamenti positivi, come il favor debitoris,la preferenza da accordare al debitore è principio che rischia, come del resto l’esperienza dimostra, di urtare almeno contro una regola altrettanto importante o addirittura secondo la comune opinione prevalente rispetto alla regola del favore del debitore, che è la regola del rispetto dei patti che significa poi rispetto della parola data se la trasferiamo ai rapporti tra gli uomini.Questo ancora una volta mette in luce i limiti del giurista, ridiventa un discorso politico con implicazioni morali. Può diventare un discorso politico se si accetta una impostazione, o per lo meno il diritto può sembrare in grado di fornire una risposta non minore di quella della morale, di quella della politica, se si muove da un’idea che fu formulata anche dai giuristi sia pure da movimenti un po’ marginali da un punto di vista quantitativo. Nel diritto esiste un’altra regola, questa è una regola positiva, il diritto si occupa anche delle situazioni in cui divenga impossibile per una persona adempiere alla propria obbligazione, cioè pagare il proprio debito. Se devo prestare una merce la quale va completamente distrutta in un terremoto, in un incendio, il diritto valuta questa impossibilità della prestazione per una causa che non è riferibile a me fino alla estrema soluzione della liberazione del debitore. Ma nel diritto vi è una regola che non è considerata contrastante con questa impossibilità della prestazione, una regola secondo la quale vi è un bene il quale invece non perisce mai e quindi non consente mai di nascondersi dietro l’impossibilità. Questo bene che per il diritto non perisce mai è il danaro, perché il danaro è un bene per sé fungibile da un lato e dall’altro è considerato come un bene non specificato perché viene definito interesse, appunto il danaro come mezzo di scambio non i singoli pezzi, le singole monete quelle possono essere in concreto distrutte, ma non incidono sul fatto che il genere danaro non perisce mai; il che significa tradotto in parole molto povere, che non ci si può liberare dal dovere di prestare accampando la impossibilità di pagare quella somma di danaro. Chi non ha danaro suo, deve procurarselo, altrimenti per il diritto non è giustificato come inadempiente. È un discorso riferibile anche ai popoli, alle nazioni che indebitate vedono crescere questo loro debito grazie a un gioco in virtù del quale, grazie anche a riferimenti a parametri di carattere sopranazionale, gli interessi su questi debiti finiscono col sopravanzare lo stesso ammontare del debito. Ancora una volta i legislatori, soprattutto quelli nazionali, come probabilmente sapete, certamente vi risulta anche dalla lettura di dati puramente informativi, intervengono contro le forme più gravi, le forme estreme di approfittamento dell’altrui bisogno, contro l’usura, ma l’interesse cioè questa specie di fruttificazione del danaro che produce a sua volta altro bene, sempre danaro, è un principio che una volta superate certe avversioni, certe condanne di carattere morale o addirittura di carattere teologico, contrassegna il diritto e l’economia.Il danaro è fruttifero, il danaro è produttivo di altri beni e quindi chi è debitore di una somma di danaro non solo non può invocare l’impossibilità di prestare quel bene che non finisce mai per definizione, ma è tenuto anche a pagare col ritardo nell’adempimento del debito, anche questi interessi. Ecco un discorso che fu tentato in una stagione della cultura giuridica, che si chiamò dell’uso alternativo del diritto,che voleva cioè sfruttare l’ordinamento giuridico, le regole di cui ogni ordinamento si compone, cercando senza rinnegarle, senza violarle, o per lo meno senza violarle in maniera palese, ma di impiegarle ove fosse possibile a significare anche cose che storicamente o positivamente per le regole non potevano valere e quindi ad introdurre per ciò che riguarda l’impossibilità della prestazione questo più generale concetto, per il quale quando un soggetto assume un debito, e qui si tratta come vi ricordavo di debiti che impegnavano, impegnano, (perché il fenomeno esiste tutt’ora), non il patrimonio di singoli, ma la condizione di povertà o di ricchezza di un intero paese a tener conto che nel momento

in cui sorge il debito il creditore non può non tenere presente l’intera situazione di vita del soggetto che si indebita e quindi deve tener conto nel momento in cui l’adempimento si rivela impossibile di una elementare graduatoria di interessi, grazie alla quale si considera insopprimibile la soddisfazione degli interessi vitali. In breve se il debitore per pagare il debito è costretto addirittura a rinunciare alla vita perché non è compatibile il pagamento del debito con la soddisfazione degli elementari interessi di vita, questa impossibilità diventerebbe un’impossibilità giuridicamente rilevante che esonererebbe dal pagamento. Vi rendete conto di come qui un discorso può essere presentato in termini tecnici per dare una risposta ad un interrogativo di carattere morale, di carattere giuridico e che su queste vie deve trovare la risposta. Il diritto non è soltanto il diritto chiuso nelle leggi e in tutte quelle altre fonti di norme giuridiche che spesso poi sono ancora più analitiche e più costrittive delle leggi. Un regolamento spesso pesa su di noi assai più di una legge nel senso formale del termine. Così come le leggi di maggiore dignità hanno un impatto su di noi, per lo meno le sentiamo come capaci di avere su di noi influenza assai meno della leggina che riguarda un singolo caso. Penso alla costituzione che è la legge fondamentale ma che non avvertiamo come una fonte regolatrice soprattutto dei quotidiani rapporti della vita sociale in cui ci troviamo coinvolti. Ecco, tornando a quello che vi dicevo in principio sulla concezione dello stato a questi elementi del popolo, del territorio, della sovranità. Oggi sono in crisi questi elementi da più punti di vista. Intanto si stanno realizzando delle forme di aggregazione che vanno al di là dei confini di uno stato, di una nazione; in verità più volte ho usato questi due termini quasi come sinonimi, ma sapete meglio di me, per condizioni storiche soprattutto, che non sono la stessa cosa. Ecco queste forme di organizzazioni sovranazionali come spesso vengono chiamate o di aggregazioni di stati possono essere messe in discussione e molti dubitano del futuro di queste formule, molte di esse sono già realizzate, pensiamo alla comunità europea, la quale però non si attua per il fatto che c’è una moneta unica, quella procura fastidi, problemi, è stata però poi largamente o totalmente accettata, ma ci rendiamo conto che l’unità non è legata soltanto a questi aspetti. Invece i dubbi maggiori rinascono e si torna allora a quella vecchia idea della entità statale contrassegnata da popolo, territorio e sovranità. Qui un popolo inteso nel senso di una cultura il che significa in primo luogo di una lingua, anche se oggi è sempre più diffusa l’idea di questa sorta di lingua franca, che sarebbe l’inglese, lingua in cui ci si incontrerebbe rinunciando almeno a parte delle nostre culture nazionali. Ecco, la mancanza di un popolo è certamente un fattore per un verso ritardante e per un altro verso forse un fattore da considerare in chiave critica sulla possibilità di arrivare tra l’altro a costruire quella costituzione europea della quale da più parti da tempo si parla e rispetto alla quale ci sono dei passi concreti che si stanno compiendo ma che probabilmente si rivelerà più difficile da realizzarsi se non vorrà essere una carta nella quale scrivere soltanto quei principi comunemente accettati, consacrati, ormai vissuti come principi comuni, o ancora peggio qualcosa che risulti da una sorta di incontro compromissorio di regole provenienti da una cultura e di regole provenienti da altra cultura destinati a convivere.Il discorso della globalizzazione non solo tocca il problema del popolo, e tocca quello della sovranità, ma forse quello della sovranità poiché la sovranità è carattere anzitutto formale dello stato, che non possiamo vedere, concepire come qualcosa destinato o capace di sbloccarsi anche in un, altrove, rispetto al modo in cui la concepiamo nello stato. Ci sono due momenti invece molto più importanti da segnalare legati al tema della globalizzazione, legati a questa prospettiva: la più vicina a noi è quella europea e, legati a questo fenomeno che vede trascendere i confini dello

stato, della nazione e vede addirittura sopprimere la dimensione territoriale non solo dello stato, ma la dimensione territoriale alla quale eravamo abituati a pensare anche nel costruire, nel capire i rapporti privati, perché il mondo globale nel quale già in larga misura viviamo che è materia di riflessione e per taluni di contestazione, per alcuni di accettazione qualche volta addirittura entusiastica, acritica, per altri invece di serio timore, questo è un mondo il quale abolisce anche sul piano dei rapporti privati quei confini nei quali i diritti statali, il diritto privato degli stati si muoveva. Perché il diritto del codice civile, diritto che è anche e soprattutto il diritto dei contratti è un diritto che vede ancora le condizioni tra privati nelle dimensioni, possiamo dire addirittura dimensioni storicamente superate, di un contratto che si svolge in uno spazio limitato, in un mercato nel quale si incontrano, per parlare delle figure contrattuali più diffuse, più note in una compravendita si incontrano soggetti che si conoscono, soggetti che scambiano merce sulle quali possano svolgere anche un minimo di controllo, di apprezzamento delle qualità, e se uno dei soggetti contesta la validità di questo accordo si può controllare se ci sono state situazioni che hanno pregiudicato la libera manifestazione, innanzitutto la libera formazione, poi la manifestazione di questo consenso che oggi, come sapete appartenendo a una generazione che conosce queste cose e le pratica assai meglio della generazione ormai passata a cui appartengo, oggi una dimensione di mercato è una dimensione tutta diversa, è una dimensione che ha consentito ad alcuni giuristi di parlare di una sorta di disumanizzazione del contratto. Il contratto del codice civile ha ancora una relazione umana, per usare ancora una volta un linguaggio semplificato; oggi invece è possibile contrattare, (in verità era un fenomeno che già prima dell’era della globalizzazione grazie agli strumenti di comunicazione cresciuti, tecnicamente sempre più sofisticati era un fenomeno già esistente ma oggi è dilagante), senza conoscersi attraverso strumenti meccanici che individuano beni che non si vedono di cui si possono accertare le qualità, l’idoneità ad un certo uso. E diventa quindi legge in questa situazione, una legge che essa stessa non ha più né bisogno né rispetto dei confini nazionali. Questo è il senso di un’altra formula, ancora una volta una formuletta latina che pure si trova largamente usata che è la “lex mercatoria”, che significa da un lato storicamente la legge dei mercanti, cioè degli operatori economici, quella legge che essi rispettano anche fuori dei confini di una nazione, anzi diventa legge destinata soprattutto a quei rapporti che non sono chiusi in un ambito nazionale: “lex mercatoria” oggi significa nell’uso che spesso se ne fa la legge del mercato. Ecco quale è il pericolo di questa legge mercatoria che non ha bisogno di codici, non ha bisogno di leggi statali, che spesso viene addirittura menzionata nei contratti internazionali e che viene affidata spesso nella sua attuazione nel controllo non già ai giudici di uno stato e nemmeno ai giudici internazionali, che poi forse sarebbero ancora meno capaci di applicarla, ma viene affidata a giudici privati, soprattutto ad arbitri nominati dalle parti, arbitri che devono conoscerla, e a cui le parti comunque si rimmettono perché la scoprono nella sua identità. Qual è il pericolo? Il pericolo è quello del ritorno ad una legge speciale che è inevitabilmente la legge dei più forti perché gli operatori economici certamente non sono i soggetti deboli del mercato, la legge mercatoria non la fanno i consumatori dispersi (anche se questi oggi si organizzano in forme di sindacalizzazione crescente), la legge mercatoria la fanno gli operatori economici e soprattutto quelli forti rispetto agli operatori economici deboli. Ma qual è l’ulteriore conseguenza alla quale deve essere attento lo studioso del diritto privato e anzi lo studioso del diritto civile nell’ambito del diritto privato? Ecco il grande progresso che il diritto privato moderno ha compiuto nello stato di diritto e stato appunto quello di costruire il diritto civile e i codici civili, dove la parola civile viene appunto dal termine cittadino, cioè aver creato un diritto privato,

che poi è stato chiamato il diritto privato comune, in cui gli uomini, anche gli uomini implicati nei rapporti commerciali non rilevano né per il ceto a cui appartengono né per la lingua che parlano e nemmeno, almeno in certi limiti, per la nazionalità che hanno o per una delle tante ragioni che di fatto ancora differenziano e discriminano gli uomini. Gli uomini rilevano invece nella loro comune qualità di cittadini. E la nozione di cittadino come sapete oggi è una nozione essa stessa in via di evoluzione e di allargamento. “Lex mercatoria” significa invece il ritorno in un settore che è condizionante in tutta la nostra vita, un diritto speciale, significa per usare ancora una volta dei termini estremamente semplificativi un ritorno al diritto commerciale speciale che prevale sulla legge comune dei diritti fin qui citati. Nel nostro paese, in Italia, non esiste più nemmeno un codice di commercio perché cinquant’anni fa fu emanato un codice del diritto privato, che si chiama codice civile che assorbì la materia del commercio. Un codice di commercio da solo non significa che il diritto è fatto dai mercanti, però è una spia, è un inizio non trascurabile. Nel nostro paese è quasi un fatto importante soprattutto se pensiamo al clima politico negli anni ’40, il superamento della contrapposizione diritto del codice civile, diritto del codice commerciale. La “lex mercatoria” è invece una sicura tentazione o inclinazione a distruggere il diritto privato comune dei cittadini, quello che è racchiuso ne codici civili per riaffermare l’autonomia, l’indipendenza, che è poi in concreto il primato del mercato e della sua legge.

Vittorio Agnoletto GLI ASPETTI POLITICO-SOCIALI Conferenza del 4 marzo 2002 Il Dottor Agnoletto lo conoscete tutti, egli è un personaggio pubblico, leader riconosciuto del movimento No-Global. Oggi il dottor Agnoletto ci proporrà una riflessione sugli aspetti politico-sociali della globalizzazione tenendo conto naturalmente che il fenomeno ha una natura essenzialmente economica. Il suo parere sulla new economy sarà particolarmente interessante per noi perché egli è il leader più rappresentativo di quella che si può definire l’ala italiana del grande movimento dei popoli di Seattle. Questo movimento che idealmente vorrebbe abbracciare il mondo, può dirsi un movimento globale proprio in quanto esso pretende di difendere tutti i popoli dai vecchi e nuovi nemici. Tutti i movimenti nel passato hanno sempre espresso istanze, problemi, rivendicazioni della società e molto spesso quando i partiti sono stati forti, essi hanno saputo tradurre nell’azione politica concreta quelle istanze che i movimenti di solito hanno posto anche con forza all’attenzione dei politici. Noi vorremmo sapere a che punto è lo stato della questione, dove stiamo andando, quali sono effettivamente in questo momento storico i rapporti tra il movimento di cui Agnoletto è il massimo esponente nel nostro paese e le forze politiche, e vorremmo anche sapere da Agnoletto, in quanto esperto conoscitore della materia, quale sia lo status attuale della questione mondiale soprattutto a partire dall’ultimo forum in Brasile, a Porto Alegre, al quale egli ha partecipato e dal quale è da poco tornato. Mi presento: io sono un medico con specializzazione in medicina del lavoro. Ho iniziato facendo il medico di fabbrica, poi dal 1987 ho fondato la LILA – lega italiana per la lotta

contro l’AIDS – di cui sono stato presidente fino a qualche mese fa. Ora io parlerò di questa mia esperienza, e voi ascoltandomi, pensate a quelli che lavorano per la pace, a quelli che lavorano per l’ambiente, la cui storia è più o meno simile. Quindici anni di lavoro sugli altri a difendere che cosa? I diritti delle persone sieropositive, a non essere emarginate, a non essere buttate fuori dalle scuole, dal lavoro, a non dover subire discriminazioni. Voi siete giovani però forse qualcuno dei più grandi si ricorda quell’evento che fu uno dei principali riti mediatici di questo paese, quando nel ‘96 davanti a 9 milioni di telespettatori in diretta su Rai1 io strappai il microfono alla presentatrice e quella sera, mentre si raccoglievano i soldi per la lotta all’AIDS, dissi “Qui si raccolgono i soldi ma c’è anche chi sta facendo affari con le aziende farmaceutiche, con le multinazionali”. Ebbene quell’intervento fece il giro del mondo, mi denunciarono, il processo durò quattro anni e si concluse con un’assoluzione perché tutto quello che avevo detto era vero. E questa è la mia storia come presidente di un’associazione di lotta all’AIDS. A un certo punto nel ‘96 accade una cosa importante: ci sono dei nuovi farmaci che si chiamano inibitori delle proteasi che permettono alla persona che entra in contatto col virus di sopravvivere in media dai sedici ai diciotto anni. Voi capite che tutta la situazione è cambiata: se uno che si infetta vive diciotto anni certamente non abbiamo risolto il problema, non abbiamo farmaci che distruggono il virus, però sedici-diciotto anni non sono pochi, e nel frattempo lo studio e la ricerca progrediscono, si possono trovare nuove terapie risolutive, i malati hanno una prospettiva di possibile guarigione ben diversa.. Purtroppo su 40 milioni di sieropositivi viventi, il 95 per cento non può accedere a questi farmaci, continuando a morire nel giro di pochissimi anni. Non parliamo di poche centinaia di migliaia o di due tre milioni di persone, ma di 38 milioni di uomini esclusi da questa nuova terapia. Io avevo dei progetti in giro per il mondo: in quel momento ero in Sudafrica, dove trovo questo dramma: 4 milioni di sieropositivi su una popolazione di 40 milioni di persone; se poi si escludono i bambini e gli anziani e parliamo delle donne dai 15 ai 40 anni, abbiamo una percentuale di infezione tra le donne che arriva al 20-25 per cento. Là non possono prendere farmaci. Perché? Perché un anno di terapia per un adulto costa circa 10-12 mila euro, quando la spesa sanitaria pro capite all’anno in Africa può andare dai 4-5 ai 10-12-13 euro. Allora dico “Cosa siamo di fronte ad una disgrazia divina, un destino tremendo che impedisce alle persone di prendere i farmaci?”. È così? No, non è cosi! Come mai il prezzo delle medicine è così alto? Allora cominciamo a fare calcoli economici, andiamo sui siti delle multinazionali, andiamo a vedere i costi, ecc. e scopriamo che i costi di vendita non hanno nessun rapporto con la ricerca e la produzione dei farmaci. Considerando tutti i costi di ricerca e di produzione i farmaci potrebbero costare 30-50 volte meno. Come mai allora hanno imposto questi prezzi? Perché agiscono in condizioni di monopolio. Come mai agiscono in condizioni di monopolio? Allora il contagio e la sua mortalità non rappresentano un castigo divino, piuttosto c’è qualche cosa nel mondo umano che non funziona. Io mi occupavo di medicina a quei tempi, di lotta all’AIDS, non ero uno sprovveduto, era quello il mio mestiere, non ero un economista; eppure insieme ad altri riusciamo a scoprire che c’è una cosa che si chiama WTO – Organizzazione Mondiale del Commercio –

formata dai grandi paesi, dalle grandi potenze, che in accordo con le multinazionali impartisce delle regole. Una di queste regole è la proprietà intellettuale sui farmaci, il brevetto; in un libro ho fatto i nomi delle industrie farmaceutiche e gli avvocati mi hanno detto che avrei passato il tempo in magistratura e in tribunale (invece non mi hanno fatto neanche una denuncia), perché le cose che dico sono pesanti. Sono riuscito a documentare che se tu, Glaxo Wellcome, (un’azienda multinazionale farmaceutica tra le più importanti che produce farmaci contro l’AIDS) scopri un farmaco, grazie al brevetto per 20 anni, prorogabili fino a 25, sei l’unica azienda che può vendere e produrre quel farmaco, quindi ovviamente stabilisci il prezzo che vuoi. Nel caso poi dell’AIDS, la cosa è ancora più semplice e più complicata: insieme: sono 4 o 5 le aziende che producono i farmaci contro l’AIDS. Siccome una persona deve prendere 3-4 farmaci diversi, prodotti in genere da aziende diverse, l’accordo è ovvio: tu produci l’AZT, tu produci il TDI, tu produci il 3TC e il malato deve prendere tutti e tre questi farmaci, ognuno di noi fissa il prezzo che vuole, non ci facciamo concorrenza e per vent’anni il costo di ogni medicina rimarrà immutato, permettendo tutti i profitti in un regime monopolistico. Scopriamo così che 38 milioni di persone muoiono perché i farmaci costano troppo per tutelare l’interesse delle multinazionali. Chi tutela l’interesse delle multinazionali è il WTO, cioè l’organizzazione mondiale del commercio. C’è un’eccezione sanitaria, prevista negli accordi Trips, che sono accordi del WTO, che dice in modo però molto generale: “Se una nazione è povera ed è in stato di epidemia può dichiarare l’emergenza sanitaria e solo in quel caso ha diritto a produrre direttamente i farmaci”. Questa eccezione si chiama “registrazione forzata”, e grazie ad essa il paese colpito da epidemia produce direttamente i farmaci; se invece una nazione, oltre ad essere povera e oltre ad essere in situazione di epidemia, non è in grado di fare nulla, non ha neanche i soldi e gli strumenti per produrre i farmaci, allora può comprare i farmaci da un’altra nazione povera in stato di epidemia che però è in grado di produrli. Questa si chiama “importazione parallela”. Abbiamo quindi la registrazione forzata e l’importazione parallela. Succede che nel ’97 Mandela, allora presidente del Sudafrica, dice che nel suo paese centinaia di migliaia di persone muoiono di AIDS ogni anno e che ciò è inaccettabile; perciò dichiara il Sudafrica in situazione di emergenza sanitaria: “Di conseguenza il mio paese è autorizzato a produrre i farmaci attraverso la registrazione forzata”, questo grazie all’eccezione sanitaria prevista negli accordi Trips del WTO. Mandela lo decide nel ’97. Pochi giorni dopo 39 multinazionali di aziende farmaceutiche impugnano la legge, dicono che la legge non è rispettosa dei brevetti, dicono che il Trips non permette questa possibilità, cioè ne danno un’interpretazione restrittiva e in Sudafrica la legge viene bloccata per due anni e mezzo. In questo modo ci sono stati tra il “97 e l’aprile scorso oltre 400 mila morti. Finalmente nell’aprile del 2001, grazie ad una mobilitazione mondiale delle associazioni di lotta all’AIDS, ma non solo, (poi vi spiegherò “non solo” perché è molto interessante sul piano della mobilitazione), le multinazionali sono obbligate a ritirare la denuncia. Ma si arriva al vertice del WTO di Dohain Qatar, quello recente del 10 novembre scorso, cioè l’incontro dei 144 Ministri del Commercio rappresentanti di altrettanti stati membri,

dove i giornali gestiti ovviamente da pochissime centrali informative, (voi sapete che le agenzie internazionali attingono tutte alle stesse fonti), mandano in giro notizie false dicendo che a Doha almeno si è vinto sull’accesso ai farmaci. Non è vero. A Doha è stato stabilito nel protocollo finale che una nazione povera in stato di epidemia può produrre il farmaco e invece la possibilità dell’importazione parallela, cioè dei poverissimi è stata bloccata per un anno. Se ne discuterà nel novembre di quest’anno. Io sono tornato in Sudafrica a dicembre perché ho un progetto di lavoro lì, lavoro per ridurre la trasmissione del virus HIV dalle donne sieropositive ai bambini, questo è il mio lavoro e sono pagato per far questo, e ho visto come il Sudafrica, non essendo ancora in grado di produrre i farmaci, non li ha perché non li può acquistare dal Brasile e dall’India che li producono: ciò dipende dal fatto che hanno bloccato l’importazione parallela. Il sottoscritto torna dal Sudafrica, riunisce l’assemblea della sua associazione e dice: “Io accetto di lavorare nella LILA solo ed esclusivamente se noi ci impegniamo per questi paesi, non possiamo più pensare a difendere i diritti dei sieropositivi del nord del mondo e fregarcene del disastro che c’è in Sudafrica. Ma è impensabile che la LILA insieme alle altre associazioni di lotta all’AIDS riesca a vincere qualcosa contro un organismo micidialmente forte come il WTO. Ecco allora che ci dobbiamo alleare”. E la mia associazione entra nel movimento contro questa globalizzazione; 600 associazioni italiane arrivano nel movimento in questo modo. Quelle che si occupano di ambiente ad un certo punto dicono: “Non possiamo occuparci solo della costa italiana perché se c’è una nazione come gli Stati Uniti che da soli producono il 20 per cento dell’inquinamento mondiale e non firmano gli accordi di Kyoto, la nuvoletta dell’inquinamento non rimane circoscritta sopra di loro”. Abbiamo trasformato l’Asia e l’Africa in due pattumiere del mondo, ma la cosa non rimane lì, i gas nocivi non si fermano lì, né l’effetto-serra riguarda solo loro ecc. Allora dobbiamo batterci contro questa globalizzazione e gli organismi che la dirigono. Chi si occupa della battaglia contro il commercio delle armi dice: “Non possiamo limitarci a bloccare il commercio delle armi solo in Italia, ormai sono le multinazionali che le producono”. Chi si batte per l’agricoltura, cioè per un equilibrio di autosufficienza alimentare, viene a scoprire che le regole del commercio dei prodotti agricoli le stabilisce il WTO, non le stabilisce l’ONU. È il WTO che impone per esempio ai paesi dell’America latina di togliere qualunque barriera protezionistica per permettere l’invasione del mercato da parte dei prodotti del nord, cioè dagli Stati Uniti e che invece permette che gli Stati Uniti mettano delle barriere protezionistiche rispetto all’importazione dell’acciaio dal Cile. Vige in una parola la legge del più forte. E allora anche i movimenti che lavorano sul tema dell’agricoltura e dell’importazione dicono “Dobbiamo entrare in questo movimento”. Ecco perché siamo il movimento dei movimenti: 600 associazioni di tutti i tipi che capiscono che la loro battaglia non può andare avanti se non dentro un discorso più ampio, ma ognuno continua a fare la sua battaglia, io continuo a occuparmi della mia associazione, non sono più il presidente per non sovrapporre i ruoli, adesso ho questo ruolo nel movimento, ma sono il responsabile scientifico, cioè io lavoro sui progetti di ricerca scientifica della mia associazione e continuo ad occuparmi di sanità. La Legambiente continua ad occuparsi di ambiente, “Un ponte per Baghdad” continua ad occuparsi contro l’embargo in Iraq e via dicendo, le associazione per la pace, della pace ecc. ecc. Abbiamo messo insieme questo movimento, questa è la caratteristica e la cosa che ha importanza è la competenza. Che cosa è avvenuto a Porto Alegre? A Porto Alegre è avvenuto che dalle 50 alle 60 mila persone provenienti da tutti i continenti si sono trovate per dire: un altro mondo non

solo è possibile ma è necessario. Ormai nel mondo oggi non ci sono vie di mezzo, non esistono vie di mezzo. Io quando devo fare una battuta dico che il tentativo di difendere la terza via, di difendere una gestione storica di questo neoliberismo, di questo modo di governare il mondo in termini mediatici si è conclusa con l’immagine di Blair col cappello militare che comanda le truppe occidentali in Afghanistan all’ordine di Bush. È finita lì l’ipotesi della terza via. A Porto Alegre si sono incontrati i movimenti di tutto il mondo e una gran quantità di intellettuali, di ricercatori. Questa intanto è stata la prima cosa interessante: 900 dibattiti dove gli intellettuali, i ricercatori proponevano delle riflessioni, ma insieme in sala c’erano i movimenti della radicalità sociale che cercavano di capire come quelle intuizioni potevano essere trasformate immediatamente in elementi di battaglia politica e di trasformazione sociale. Faccio degli esempi: in una serie di articoli usciti durante Porto Alegre, uno sul Corriere, firmato da un economista noto, Fabrizio Onida, si sostiene: non è vero che la globalizzazione rende ancora più poveri i paesi poveri, ma la globalizzazione, questa globalizzazione, al contrario li aiuta a crescere: lo proverebbe l’aumento del PIL, il prodotto interno lordo, di quei paesi. Ho avuto una discussione in un dibattito pubblico alla Bocconi con Onida e gli ho fatto un ragionamento molto semplice: facciamo che il prodotto economico complessivo di questa scuola sia un milione di euro. C’è una piccola differenza se, ipotizziamo di essere 400 persone, il milione di euro è diviso per tutti e 400 oppure se io mi ritrovo con tutto il milione di euro e voi con zero zerini. Ecco è un po’ diverso, non tanto per me, ma per voi è un po’ diverso: voi con zero zerini non ci fate niente, io con un milione di euro vi saluto e me ne vado. Cioè il PIL che è la ricchezza prodotta da una nazione, non indica come dice Galeano, grande intellettuale dell’America latina, il livello di vita della popolazione, non ci dice nulla sulla stratificazione sociale, non ci dice nulla sulla differenza sociale. Ecco perché a Porto Alegre, in questo caso per merito di Lilliput, sono stati proposti altri indicatori di qualità di vita: per dire se un paese sta meglio o sta peggio andiamo a misurare altre cose, andiamo a misurare la qualità dell’alimentazione, andiamo a misurare l’accesso ai servizi, andiamo a misurare la durata di vita, andiamo a misurare l’accesso ai farmaci della intera popolazione. Sono stati trovati degli indicatori, sistematizzati con calcoli complicatissimi, e adesso facciamo la battaglia per chiedere alle agenzie delle Nazioni Unite di prendere questi indicatori come elementi di valutazione di un paese e non il PIL, che ci dice solo il totale ma non ci dice come è distribuito. Oppure un’altra grande proposta del movimento é la seguente: “Noi siamo in una società dove l’economia ha il dominio totale della società mondiale, dove il capitale finanziario si sposta da una parte all’altra del mondo in assenza di qualsiasi regola. Voi sapete che una delle ragioni dell’origine degli stati moderni è di porre delle regole di convivenza sociale e civile e quindi anche di convivenza e di regole di funzionamento etico del mercato e al commercio. Ebbene, non c’è nessuna regola: tu chiudi un’azienda qui e la sposti nelle Filippine e anziché dare 2 milioni al mese o 1 milione e ottocentomila al mese all’operaio, dai un dollaro al giorno che sono 1800/2000 lire; puoi farlo. Dici che le donne se sono in gravidanza possono essere licenziate, puoi farlo: Vieti l’organizzazione sindacale se no licenzi la manodopera: Puoi farlo. Lo fai in Thailandia, fai lavorare i bambini di dieci anni a costruire i palloni che poi vengono venduti qui. In questo modo là sfrutti il lavoro pagando sostanzialmente nulla, non investi in termini di risorse finanziarie o di infrastrutture; qui vendi dei prodotti delle multinazionali che

ovviamente sono supereconomici rispetto alla produzione interna, quindi produci anche un disastro alla piccola e media industria e all’artigianato locale. Noi chiediamo dei diritti per i lavoratori uguali per tutti, non i salari uguali per tutti dal momento che è chiaro che c’è un potere d’acquisto diverso, ma diritti e tutela dei diritti e poi chiediamo una cosa semplice: la Tobin Tax, cioè una tassa sulle transazioni finanziarie speculative. Chiunque lavora paga il 30-40 per cento in più di tasse, possibile che qualcuno che sta dietro un computer e sposta cifre incredibili e quindi modifica i mercati e l’occupazione da un posto all’altro e guadagna moltissimo non debba pagare nulla? Ecco questa è una delle campagne che facciamo. A che cosa serve e per quale motivo? Vi fornisco qualche dato per capire: l’Unicef, il programma di sviluppo delle nazioni unite, dice che 80 milioni di dollari sono sufficienti per garantire a tutti gli esseri viventi accesso all’educazione di base, un cibo adeguato, acqua potabile e assistenza sanitaria e per le donne assistenze anche ostetriche e ginecologiche che è un grande problema per il sud del mondo. Ottanta milioni di dollari sembrano una cifra incredibile. Eppure sono un quarto delle spese militari annue degli Stati Uniti, il nove per cento delle spese annue militari di tutto il mondo, l’otto per cento delle spese per la pubblicità che vengono realizzate in tutto il mondo. Si tratta di scegliere. Per portare l’acqua potabile a oltre un miliardo di persone che non ne possono fruire é sufficiente il tre per cento delle spese previste per la costruzione dello scudo spaziale di Bush. Si tratta di scegliere! Perché vi dico questo? Perché una delle accuse che ci viene fatta è che siamo un movimento di idealisti, sognatori. Non mi fa schifo sognare, ma non siamo dei sognatori. Tomas Borg, che è uno dei comandanti della rivoluzione sandinista, ma anche uomo di grande cultura, di grande poesia, in una bellissima poesia afferma: siamo sognatori ma coi piedi piantati ben per terra, sappiamo distinguere i nemici e riconoscere gli amici. Siamo questa cosa, siamo in grado di avanzare proposte su qualunque argomento che riguarda il mondo, non siamo persone che sono illuse e quindi io dico dopo Porto Alegre la si smetta di chiamarci no-global! Capisco le esigenze della comunicazione mediatica veloce, ma noi non siamo no-global. Io sono per la globalizzazione, sono per un’altra globalizzazione che non è la globalizzazione unicamente del profitto, che è la globalizzazione dei diritti, che è una globalizzazione che abbia delle strutture politiche rappresentative di tutti i popoli, che possono decidere che ci sono ruoli diversi dall’ONU rispetto al ruolo di istituzioni che nessuno ha eletto, il WTO non l’ha eletto nessuno, il G8 non l’ha eletto nessuno. La banca mondiale e il fondo monetario, sapete come funzionano queste strutture che sono quelle che dominano il mondo? Non è che c’è lì una testa e un volto, funzionano come società per azioni. Sette nazioni, gli Stati Uniti sono la prima, l’Italia è la settima, da sole detengono più del 50 per cento di banca mondiale e fondo monetario. Quindi quando banca mondiale e fondo monetario fanno dei prestiti e degli interventi, lo fanno negli interessi di quelle sette nazioni. Allora questa è la globalizzazione che non vogliamo, non vogliamo un’ONU col diritto di veto, vogliamo estendere a tutti il diritto di voto ed eliminare il diritto di veto, quel diritto-privilegio riservato ai grandi che decidono in base ai loro interessi. L’esempio drammatico in questi giorni è l’Argentina. L’Argentina è stato il miglior scolaro, miglior studente della banca mondiale e del fondo monetario, ha accettato tutto quello che chiedevano, ma anziché essere promossa a pieni voti è scivolata in fondo alla graduatoria e da lì nella fame. I suoi governi hanno privatizzato tutto quello

che dovevano privatizzare, non c’è più nulla da privatizzare in Argentina. La conseguenza è stata che fare una telefonata da Buenos Aires a Buenos Aires dentro la città costa cinque volte tanto che telefonare da Roma a Roma, perché ci sono due compagnie telefoniche, una francese e una spagnola, poi c’è quella italiana che è in compartecipazione: si è creato un accordo monopolistico in base al quale stabiliscono il prezzo che vogliono. L’Argentina che non era il sud del mondo, ha dovuto dichiarare l’emergenza sanitaria e mandare gli aerei in Brasile per rifornirsi di insulina necessaria ai diabetici. La Sanità è stata privatizzata totalmente. E quando il nostro governo si fa bello dicendo: “Mandiamo i farmaci in Argentina” e il nostro presidente della camera onorevole Casini ci si reca in viaggio a tagliare un po’ di nastri e portare i farmaci, non dice che anche in quel caso ci sono discriminazioni: i farmaci vengono portati all’ospedale italiano di Buenos Aires, dove se sei italiano vai a farti curare senza pagare, se sei argentino devi pagare: Anche là, nella miseria più nera, si va a creare una solidarietà penosa. Qualche mese fa è stato approvato il diritto di voto degli italiani all’estero, questi sono i meccanismi con cui poi si raccolgono i voti all’estero: se sei italiano bene. Parlavamo l’altro giorno con don Ciotti, con il quale ho un rapporto di grande amicizia, a proposito dell’Argentina e gli dicevo: guardi, le banche che prestavano i soldi avevano un tasso di interesse del 17-18 per cento e lui mi rispondeva: in Italia sarebbe usura. Ma vi faccio un esempio per spiegare qual è il rapporto tra banca mondiale e fondo monetario internazionale senza rintronarvi con i numeri: il Brasile dall’’89 al ‘97 ha accumulato 212 miliardi di dollari di debito, che non sono proprio quattro lire; dall’’89 al ’97 ha pagato, ha restituito a banca mondiale e fondo monetario 216 miliardi di dollari. Il Brasile deve ancora pagare 212 miliardi di dollari. Non ho sbagliato i calcoli: ho frequentato il classico ma in matematica ero bravissimo. Il problema è che ha pagato solamente gli interessi. Quando tu hai un interesse annuo in questo caso che varia dal 10 al 14 per cento e tu hai restituito a quelli che ti hanno prestato i soldi, banca, fondo, multinazionali ecc. tutto quello che loro ti hanno dato, in realtà non hai ancora restituito niente e non lo salderai mai il debito, sarai legato ad esso per tutta la vita, ( e qui si parla non di un individuo ma di una nazione): per tutta l’esistenza si deve continuare a pagare un debito che continua ad aumentare, perché tu o riesci a pagare 212 miliardi per 10 per cento, 21 miliardi di dollari all’anno, ne aggiungi un po’ arriviamo a 27-28 miliardi da pagare all’anno e questo solo per non far aumentare il debito. Si tratta degli interessi. Avete in mente uno strozzino? Questa è la banca mondiale e questo è il fondo monetario. Quando sentite parlare di aggiustamenti strutturali, ebbene si tratta di questo: ti dicono anche come devi fare: “tu mi devi ripagare e non mi hai pagato niente, sai cosa devi fare? Te lo dico io! Devi distruggere tutte le spese sociali, quindi cominciamo a distruggere la sanità, ai poveri diamo una sanità da nulla, teniamo la sanità per i ricchi che pagano; cominciamo a far sì che le scuole superiori diventino a pagamento; i libri perché darli gratuitamente? ecc. ecc.” Queste sono le cure imposte dalla banca mondiale e dal fondo monetario. Ecco come funziona il mondo, ecco come viene dominato, con quale logica. Vi ho fatto l’esempio dell’acciaio, vi posso fare tantissimi altri esempi ma per ultimo vi offro questo per poi chiudere su alcune questioni italiane. Avrete sentito parlare molto dell’OGM, degli organismi geneticamente modificati. Noi diciamo: fermi lì! per un principio di precauzione. Non accettiamo che si mettano in commercio delle sostanze di cui non si sa

esattamente cosa producano nel corpo umano e non accettiamo la logica che il neoliberismo vorrebbe e cioè che, fino a quando non sappiamo che non producono disastri, li lasciamo in commercio. No! La regola deve essere quella contraria: non si mettono in commercio fino a quando non si è sicuri che non producono disastri. Nel nord del mondo ci battiamo contro l’OGM in base al principio della precauzione, ma nel sud del mondo il principio di precauzione non è solo questo ma è un altro. Lì dobbiamo tutelare le cooperative, che in tutto il mondo latinoamericano hanno sviluppato una economia di sopravvivenza autonoma; ora arriva Monsanto, la grande multinazionale che produce i semi geneticamente modificati, ed offre un seme: questo seme ti fa comodo al momento, nel senso che io te lo do, tu produci 2-3 volte tanto di più perché il seme è geneticamente modificato. Però, se lo produco io, faccio in modo tale che tu il seme non lo possa usare nel futuro: cosi’ dovrai tornare a comprarlo da me e comprarlo modificato in modo diverso ogni volta, in una catena senza termine che strangola l’economia autonoma; con questo sistema sicrea una dipendenza: tu dipendi totalmente da me, io stabilisco l’assoluto monopolio della produzione agricola. Non solo! Io il seme te lo do unicamente per qualche prodotto, così tu produci monocoltura, finalizzata all’esportazione e tu stesso per sopravvivere, siccome non hai altri prodotti perché fai monocoltura finalizzata all’esportazione, sei obbligato ad acquistare da altri mercati che controllo io gli altri prodotti. In questo modo si distrugge totalmente quello che si è costruito in decenni di faticose lotte di leberazione economica e sociale dal neocolonialismo, cioè un’autonomia politica e di organizzazione ecc. dell’agricoltura dei paesi del sud del mondo. Se poi tutte le regole del commercio le controlla il WTO, guardate semplicemente le posizioni protezionistiche delle colture nell’Europa. A Porto Alegre ci siamo trovati per dire: “Questo tipo di mondo non ci sta bene, ci porta alla distruzione: con le armi che girano nessuno ci venga a dire che siamo tranquilli, per il solo fatto che c’è l’omino con la valigetta che controlla il bottone, perché poi, visto qual è l’omino che controlla il bottone, tranquilli non stiamo assolutamente per nulla. E non è solo questione dell’omino, è questione di tante altre armi che girano, ma quello che può accadere l’11 settembre l’ha dimostrato. Sull’inquinamento non stiamo tranquilli per niente e allora diciamo: “E’ necessario un altro mondo”. Quest’altro mondo può venire con alcune delle proposte di cui si può parlare a lungo che facciamo. Il movimento a livello globale è un grande movimento internazionale, ha la capacità di intervenire, di avanzare delle proposte da porre al centro della battaglia politica. Pensate alla vicenda della Tobin Tax che prima nessuno voleva e oggi tutti i più grandi paesi sono obbligati a discutere. Chiuderei con un dato. Il primo dato statistico: la differenza negli ultimi 40 anni tra le 20 nazioni più ricche e le 20 nazioni più povere è passata da 1 a 18 a 1 a 36, ma, come se non bastasse, la differenza tra il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale, (quindi non è il 20 per cento più ricco delle nazioni, ma il 20 per cento della popolazione più ricca sul globo) e il 20 per cento più povero è arrivato ad un rapporto di 1 a 80. C’è quindi evidentemente una forte ingiustizia ed una inesorabile divaricazione tra ricchi e poveri a livello planetario che si accentua. Allora chiudo con una riflessione che è oggetto di discussione nel movimento: io ricordo la posizione del movimento italiano, noi non siamo d’accordo con Susan George, che è una grande esperta rispetto a questo tema, su un solo punto: non è vero che questo movimento è il primo movimento che agisce solo in termini di solidarietà e che non chiede nulla per se stesso. È molto romantica come definizione ma non è vera, sul piano

politico è importante saperlo. Noi siamo un movimento, io lo dico senza vergogna, che è animato anche da un sano egoismo, che è l’egoismo della sopravvivenza. Solo un ignorante può pensare che se il mondo va così sono fatti dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina e il resto del mondo se ne può disinteressare! Ve lo dico come medico che lavora da 15 anni sull’AIDS: quando il virus distruggeva centinaia di migliaia di persone in Tanzania, in Kenya, si ragionava cosi’: “Ma chi se ne frega, tanto là muoiono lo stesso”; poi ha cominciato a uccidere le persone delle periferie di San Francisco e New York, e si diceva: “ Chi se ne frega, sono tossicodipendenti, immigrati”; poi ha cominciato a uccidere qualcuno della lobby gay di San Francisco, “ah le checche, diamo loro quattro lire e si organizzano per conto proprio”; poi quando ha cominciato ad ammazzare migliaia di persone eterosessuali in tutto il mondo senza che fossero neri, tossicodipendenti o gay, allora corriamo ai ripari! Ma ormai il virus era in diffuso in tutto il mondo. Non essere intervenuti in Africa ha permesso un disastro mondiale. Voi pensate che negli altri campi non funzioni allo stesso modo? Voi pensate che se gli altri paesi vanno verso la fame, la distruzione, non hanno i farmaci per le malattie, pensate che la gente rimane lì a morire? Ma altro che l’emigrazione di oggi! Arriveranno in milioni per cercare di salvarsi perché quando non c’è nulla si aggrappano all’unica scialuppa che ci può essere! o ci arriveranno con le buone o ci arriveranno con le cattive, perché di fronte alla morte si cerca di tutto per sopravvivere. Voi pensate che se andiamo avanti con l’inquinamento, esso rimane circoscritto sulla testa di chi lo produce, sulla testa degli africani che tanto sono ammalati e invece noi non saremo coinvolti? E sulla questione delle armi pensate che possiamo fare il cow boy che si autodifende? E perché pensate che se il mondo va avanti così non ci saranno milioni di persone che nella piena disperazione si affideranno al terrorismo nell’illusione di poter cambiare qualche cosa? C’è o non c’è la possibilità di salvare il nostro pezzettino di mondo oggi che tutto è globalizzato costruendo una specie di diga in cui rinserrarsi per stare sicuri? Certo, è vero, morranno prima in Africa, prima in Asia, ma poi saremo tutti trascinati verso quello stesso destino. E questo è il motivo per cui noi diciamo che ci battiamo perché un altro mondo possibile è necessario. La mia è una riflessione che scaturisce dalle parole d’ordine dei movimenti dei lavoratori che dicevano: Lottiamo per lasciare ai nostri figli un futuro migliore. Io non credo che sia più questo oggi il problema. È più grave. Noi oggi non ci battiamo per lasciare ai nostri figli un futuro migliore, noi ci battiamo per lasciare ai nostri figli un futuro, sapendo che l’unico futuro possibile è quello che modifica l’ingiusta e drammatica situazione che vi ho descritto. Perché se andiamo avanti in questo modo, io non dico nel giro di qualche anno, ma nel giro di qualche decennio tutta l’umanità è complessivamente a rischio. Le domande e le risposte più significative nel dibattito Domanda: …in ogni movimento c’è sempre una vena di anarchismo, che può essere un’espressione forte di libertà anche fuori dai contesti istituzionalizzati. Io vorrei sapere all’interno del nostro paese la vostra proposta politica come viene portata avanti in Parlamento, cioè da chi e come vi sentite rappresentati all’interno del Parlamento italiano? A livello internazionale esiste una proposta politica del movimento globale di cui lei è esponente? Chi vi rappresenta? Come pensate di agire poi concretamente? Oppure vi fate rappresentare da determinate forze politiche alle quali vi legate o da persone che fuori dagli schieramenti portino avanti a livello di azione concreta quello che è frutto delle vostre analisi e delle vostre denunce?

Domanda: …vorrei chiedere al dott. Agnoletto che facesse una rapida rassegna sulle opposizioni che oggi emergono da parte di coloro che si contrappongono a questo movimento dei no-global, i vostri avversari con quali argomenti replicano e si oppongono alle vostre posizioni? Domanda: …lei ci ha fornito dati concreti sulle sperequazioni che esistono nel mondo e sulle spese che si affrontano in vari settori, per esempio si spendono ottomila miliardi per le ricerche sullo scudo spaziale, ma non ci si cura di garantire il minimo di sopravvivenza alle popolazioni africane: come mai i responsabili della politica non vedono queste assurdità? E i mass-media che cosa pubblicizzano se, di fronte ai problemi dibattuti a Porto Alegre, presentano quel consesso come la riunione dei fricchettoni del 2000? In questa situazione il movimento deve rimanere solo movimento? Dott. Agnoletto: Io ho fatto una introduzione sulle questioni del mondo per un motivo nobile e uno banale che vi dico. Quello nobile perché noi abbiamo come movimento un bisogno enorme di riuscire a spiegare che non siamo solo un movimento contro, noi abbiamo proprio un bisogno enorme di riuscire a spiegare che siamo un movimento in grado di proporre. In secondo luogo perché ogni volta che mi si pongono delle domande mi becco una polemica che non finisce più. L’ultima volta è successo a Lecco, dove vogliono addirittura chiudere la scuola che mi ha invitato. Era una scuola elementare dove gli insegnanti hanno preparato per sei mesi tutto un lavoro sulla globalizzazione e poi hanno fatto degli incontri con degli esperti per parlarne. Io naturalmente con i bambini non parlo come con voi. Ho detto loro dove venivano prodotte e come, da dove venivano quelle scarpe Adidas che portavano ai piedi. Ho fatto questo esempio. C’è stata una reazione abnorme: tutta la città da una parte, la sinistra in difesa dall’altra parte, mentre la Moratti deve decidere se chiudere la scuola; sono stato pure accusato in Parlamento con interrogazioni in cui si chiedeva se si poteva aprire la porta anche ai pedofili: nel senso che qualcuno mi ha accusato di “pedofilia politica”. Voi ridete ma io me le ritrovo scritte sui giornale queste cose. Quello che penso io è quello che pensa su questi punti il 90 per cento del movimento. Noi non diventeremo un partito politico. Fino a quando io avrò questo ruolo noi non diventeremo una organizzazione. Siamo un mare dove gli immissari sono molto maggiori degli emissari, continuiamo a crescere. La cosa più stupida che possiamo fare è di mettere delle barriere e degli argini in modo da impedire l’arrivo di altri. Chi vuol venire deve però accettare certe discriminanti nette precise: contro il neoliberismo e contro la guerra Chi è d’accordo con queste discriminanti è ben accetto, chi non è dentro queste discriminanti vada per un’altra strada, c’è spazio per tutti. Lo dico perché siamo stati durissimi quando alcuni parlamentari venivano a Porto Alegre a fare un po’ di casino dicendo: abbiamo votato in Italia per la guerra adesso veniamo qua e votiamo un documento contro la guerra, poi torniamo in Italia e continuiamo a dire che siamo favorevoli alla guerra; su questo caso noi siamo stati inflessibili e non per un problema di sigla, anche perché dentro le sigle i parlamentari votano in modo diverso tra di loro. Siamo stati netti perché esigiamo un minimo di coerenza: se un parlamentare in Italia vota a favore della guerra non venga poi in Brasile a firmare un documento che condanna la guerra, oppure a fare figure tremende come quando per tre giorni viene a Porto Alegre, a parlare di tutto e quando si deve votare il documento contro la guerra due o tre parlamentari alle sette prendono l’aereo per tornare in Italia per avere un alibi: così diranno che non c’erano e che non hanno votato. Questi sono comportamenti meschini ed incoerenti Ciò non significa che siamo indifferenti alla politica, ma la politica non è solo quella dei

partiti, né si esprime solo nelle Camere. Sui grandi temi che ho spiegato noi siamo circa 300 mila militanti, in Italia abbiamo con noi milioni di persone; il parlamento ha votato con il 93 per cento dei suoi esponenti a favore della guerra, tutti i sondaggi dicono però che il 50 per cento degli italiani è contrario alla guerra. Sulla Tobin tax il sottoscritto, come portavoce del Genoa Social Forum, a metà luglio mandò un telegramma a due persone che si chiamano Rutelli e Fassino per avvertire: “Riunione con il movimento cancellata” perché a metà luglio avevano presentato la mozione sul G8 togliendo la questione della Tobin tax, per trovare un accordo con il governo: ognuno ha approvato la mozione dell’altro. Abbiamo detto che non eravamo interessati a parlare con loro se non aprivano sulla Tobin-tax. Adesso che abbiamo lanciato la campagna sulla Tobin-tax venti giorni fa, avete visto tutti andare ai banchetti, firmare, e anche i giovani diessini raccolgono le firme a favore. Abbiamo modificato su un punto importante il loro modo di pensare. Ieri a Bologna eravamo 15 mila persone per manifestare contro un centro di detenzione per immigrati. Ma noi non ci limitiamo a dire che la legge Bossi-Fini tratta gli immigrati peggio di merci: infatti se io ho una merce a cui tengo, cerco di far sì che non si rovini. Invece l’immigrato lo prendo, lo spremo, lo faccio lavorare, quando non ha più il contratto viene rimandato indietro, ne arriva un altro. Zero potere contrattuale e attenzione perché quando c’è zero potere contrattuale per alcune migliaia di persone che se dicono una sillaba possono essere licenziate e perdono il posto di lavoro, diminuisce il potere contrattuale di tutti. Subentra il ricatto se gli operai o i lavoratori protestano o scioperano: tutti zitti perché ci sono gli immigrati da chiamare i quali sono più comodi di voi perché hanno zero potere contrattuale. Quando abbiamo organizzato la manifestazione non abbiamo detto solo no alla Bossi-Fini, abbiamo detto che andava chiuso il centro di detenzione per immigrati che sono carceri dentro cui stanno persone che non hanno commesso reati: una vera vergogna dovuta ad una legge del vecchio governo, il governo del centro-sinistra. Quindi sconti non ne facciamo a nessuno. Dopodiché però questo argomento sta facendo maturare posizioni diverse nel centro-sinistra su questo problema dei centri di detenzione Allora noi colloquiamo con la politica ponendo degli argomenti al centro e ci confrontiamo con le forze politiche, o con i pezzi di forze politiche su questi stessi temi. Ogni forza politica sceglie e allora abbiamo comportamenti diversi: abbiamo Rifondazione Comunista che è stato dentro il movimento dall’inizio, anche la maggioranza dei Verdi è stata dentro fin dall’inizio, un’altra si è avvicinata dopo, abbiamo pezzi di DS che hanno aderito al movimento, l’area Salvi e Tortorella hanno ufficialmente aderito al Social Forum, ieri è arrivato un documento di adesione al percorso a nome di tutto il correntone dei DS, per altri continuiamo ad essere degli avversari che non hanno capito nulla, Violante continua a identificarci con la violenza, quando noi continuiamo a dire che a Genova siamo stati le vittime e poi abbiamo manifestazioni come “Roma per gli immigrati”, “Roma per gli studenti”, Perugia Assisi, lo sciopero dei metalmeccanici e non è mai successo nulla perché c’eravamo solo noi senza i Black-Block, senza le forze dell’ordine. Quindi noi poniamo dei contenuti, chi li accetta si confronta con noi sui contenuti. Io ci credo molto a questa posizione, perché il movimento deve essere autonomo e non avere nessun cappello di nessun partito, dopodiché non facciamo le barricate, chi vuol venire a lavorare lavori con noi, ma senza tentare nessuna opera di egemonia. Per la questione Italia-mondo, no! noi dobbiamo ragionare, noi siamo un movimento globale, non pensiamo di poter cambiare l’Italia da soli. Il nostro movimento è un movimento che cerca di cambiare la dinamica mondiale. Adesso promuoveremo una campagna banale semplice sui mondiali di calcio: noi non vogliamo che ci siamo aziende sponsor dei mondiali di calcio che non rispettano i diritti sul lavoro in giro per il mondo. È una campagna mondiale. Campagna mondiale perché?

Ma possibile che le nazioni più potenti si sono messe d’accordo di dare lo 0,7 del prodotto interno lordo alla cooperazione mentre l’Italia é solo penultima perché all’ultimo posto ci sono gli Stati Uniti, offre solo lo 0,13 e gli unici che rispettano l’accordo internazionale sono Norvegia, Svezia cioè le nazioni del nord Europa? Il problema della democrazia che poniamo dopo Porto Alegre è l’intreccio interessantissimo tra democrazia derivata e democrazia diretta. Se l’amministrazione comunale destina il 20 per cento del bilancio a investimenti deve consultare i cittadini, magari divisi per municipi, i quali dicano quali siano le priorità: vengono fatte le assemblee, vengono eletti dei delegati. Porto Alegre non è proprio una città piccolissima, sì è più piccola di Roma, però è grande come Milano, ha più di due milioni di abitanti: ebbene lì da settembre a dicembre c’è la consultazione popolare, poi si fa una grande assemblea coi delegati della scuola, del quartiere ecc. che decidono di quel 20 per cento qual è la priorità.. Noi pensiamo che questo modello sia esportabile. Il nostro é un movimento molto forte a livello mondiale, io credo che molte cose sono cambiate, ma siamo anche obbligati. Quale altro soggetto di speranza c’è nel mondo? Ma mi spiegate perché dobbiamo andare a dire ai pakistani, agli afgani, ad una gran fetta del mondo arabo che non devono puntare sul terrorismo? Noi lo possiamo dire con forza e siamo credibili solo se diciamo “Alla vostra miseria c’è un’alternativa che non è quella del terrorismo demagogico che cerca di usare la vostra miseria e che invece vi porta da tutt’altra parte, in mezzo a tragedie cosmiche”. L’unica alternativa è un movimento mondiale quando dimostra di essere in grado di vincere. Noi abbiamo bisogno di vincere, dobbiamo toglierci dalla testa il fatto che siamo solo un movimento di opposizione che perde. Noi dobbiamo vincere la battaglia sui farmaci, dobbiamo vincere alla FAO, dicendo che non è pensabile che la FAO dichiari che ci vogliono 60 anni non per risolvere, per dimezzare il numero di coloro che rischiano di morire di fame, da 814 milioni a 400 milioni di persone. Non è accettabile questa prospettiva perché a quel punto non c’é speranza per i paesi poveri. Guardate che il dramma vero di ogni persona e di ogni popolo non è essere malati, non è non avere da mangiare, è essere malati, non avere cibo e non avere la speranza di poter cambiare la propria esistenza nel futuro. Questo è il dramma. Allora se il movimento vince dà un segno di speranza sulle singole battaglie importantissimo, quindi non è l’Italia in quanto tale a interessarci per la nostra strategia. In questo discorso entra direttamente tutta la questione dei media. Certo qui in Italia la situazione è disperata, c’è il controllo totale sui media da parte dell’attuale governo, però attenzione perché noi abbiamo anche avuto la capacità a Genova di ribaltare la situazione: tutto il mondo ha visto i filmati di Genova, tutto il mondo ha visto le fotografie eppure la televisione è in mano a Berlusconi e Scaiola. Le grandi testate che hanno fatto tutti gli editoriali che hanno scritto da Milano e da Roma erano schierate contro il movimento, poi voi aprivate quelle pagine e trovavate gli articoli dei cronisti che a Genova erano presenti e loro scrivevano quello che succedeva e leggendo la gente capiva. Il ruolo delle radio alternative, dei fogli, dei giornaletti nostri ha avuto un impatto in tutto il mondo, io giravo il mondo e in tutte le parti sanno cosa è successo a Genova e la popolazione italiana non è rimasta disinformata e manipolata neppure lei. Se io sono qui a parlare con voi oggi è grazie a questo. Voi sapete, l’ho già dichiarato più volte, c’è stata una riunione lunedì 23 luglio dove il Ministro degli Interni con i più alti esponenti dei carabinieri e della polizia hanno deciso che tutta Genova doveva essere gestita in questo modo e cioè che era tutta violenza fatta dai manifestanti e Vittorio Agnoletto come portavoce doveva essere il responsabile di un reato associativo sovversivo. Io dovevo essere arrestato il 25 pomeriggio, non prima per non creare tensione nel paese. Mi hanno salvato due cose: la grande mobilitazione di massa di

martedì 24 luglio di mezzo milione di persone che è andato in piazza in tutta Italia senza che sia successo nulla e lì hanno capito che se mi arrestavano il giorno dopo ce ne erano milioni in piazza, e in secondo luogo il fatto che martedì tutte le televisioni hanno cominciato a trasmettere questi video, questi filmati ecc. che erano stati girati da registi o privati e dovevano rimanere riservati e in questi filmati vedevi che cosa era successo a Genova, vedevi i pestaggi e le violenze contro persone inermi. Nessun magistrato mercoledì pomeriggio ha avuto il coraggio di firmare il mio arresto e quindi è fallita quella ipotesi abilmente costruita che il movimento era responsabile delle violenze e che il suo portavoce poteva essere incriminato come responsabile di un’associazione sovversiva. Allora non siamo così impreparati anche se facciamo fatica. Relativamente alla questione dei nostri avversari, io preferisco la definizione di avversari a quella di nemici. Di avversari ne abbiamo tanti sicuramente, ma gli avversari principali chi sono in Italia e nel mondo? E qui rispondo solo con una domanda: ma perché se le cose stanno così non vengono cambiate? Ne trovate uno su mille di miliardario che decide di mettere in gioco la propria ricchezza per gli altri! I nostri principali avversari sono quelli che vogliono difendere i loro interessi. Io sono convinto che l’Agip sarebbe molto contenta se questo movimento non esistesse se noi pensiamo di lanciare una grande campagna contro l’Agip perché non rispetta i territori dei contadini, se ne frega totalmente dell’inquinamento, perché in Africa va in giro con le guardie armate, ha sparato e ammazzato contadini, per tutelare i propri interessi petroliferi. Ed ha rapporti politici, ha rapporti nel mondo dell’industria, nel governo. Abbiamo avversari che vogliono mantenere la situazione così come è, per non mettere in discussione i propri guadagni, i propri vantaggi. Poi abbiamo un grosso problema con quelli che stanno nella sinistra moderata che ha scelto di non venire a Genova, sbagliando e trovando una smentita nella propria base, perché la gente a Genova è venuta altrimenti non capisco da dove sono venuti 300 mila manifestanti quel 21 luglio. Questa sinistra moderata ha continuato a perseguire logiche di accordo con il governo e con essa abbiamo un problema prima che politico, culturale soprattutto sulla politica estera perché se c’è qualcosa oggi che deve dividere giustamente è la politica estera, cioè l’orizzonte del mondo che vogliamo è qualcosa su cui non si può non essere d’accordo, o si sta con le multinazionali, con il neoliberismo e con lo sfruttamento o si sta con le masse povere di tutti i continenti. Dopo Genova noi abbiamo approvato un patto di lavoro, quindi un documento che dice cosa siamo e dice come lavoreremo per tutto il 2002, non è un atto costitutivo di un partito, ma un patto di lavoro a termine di un anno che fissa la nostra identità i nostri ideali, i nostri contenuti: è il collante che ci tienen uniti, e poi ognuno faccia qualcosa di specifico nelle proprie associazioni ma questi programmi che vi ho in parte esposti sono i nostri e quelli cercheremo di realizzare insieme. Abbiamo deciso un minimo di organizzazione perché l’anarchia non va bene per andare avanti e cioè c’è un’assemblea ogni tre mesi, un gruppo di contatto costituito da uno per Social Forum e uno per le associazioni che hanno firmato il patto di lavoro, non abbiamo più portavoce nazionali perché non vogliamo fare i tuttologi che parlano di tutto e abbiamo fatto sei gruppi di lavoro: quello che lavora sulla FAO , quello che sul Forum Sociale Europeo che si terrà in Italia il prossimo autunno, quello che lavora sulle tematiche dell’immigrazione, quello sulla pace e ogni gruppo si dà tre o quattro portavoce per parlare nel movimento Poi è stata confermata la mia rappresentanza all’interno del Consiglio Internazionale del Forum Sociale Mondiale, dove siamo 70 in tutto il mondo in rappresentanza dei movimenti più forti nel mondo e il sottoscritto rappresenta l’insieme, la sintesi del movimento italiano in questo scenario internazionale. Io lascerei perdere sulla battuta che la contestazione di Nanni Moretti e quel che è

seguito rappresenta il funerale dell’Ulivo. Io credo un’altra cosa: senza la nostra azione che ha acquistato risonanza incredibile dopo Genova non sarebbe rimasto uno spazio aperto di democrazia., di opposizione al governo, che in tutti questi mesi è stato merito nostro alimentare e rappresentare; senza di noi forse non ci sarebbe stata la manifestazione dei professori di Firenze con cui discuterò lunedì prossimo, né le manifestazioni del Palavobis di Milano, la decisione della Cgil di arrivare allo sciopero generale del 5 aprile anche da sola, la manifestazione del 23 marzo, ecc.. Per sette mesi abbiamo tenuto aperta una porta ed è importante che anche altri siano passati da questa porta a fare delle battaglie per il lavoro, per la legalità, per la libertà di informazione, ma se non ci fosse stata Genova forse non ci sarebbero stati i professori al Palavobis o forse sarebbero stati meno numerosi Abbiamo tenuto aperto uno spazio e questo spazio viene occupato e va bene che venga occupato perché tutto quello che si muove con le tematiche sociali, in difesa della legalità, per un pluralismo di informazione é una cosa importante. Io voglio discutere, voglio contaminare ed accettare di essere contaminato. Così mi batterò per l’indipendenza della magistratura e perché la legge sia uguale per tutti, anche se deve essere giudicato Previti o Berlusconi, ma questo non mi basta; che cosa dico ai 15 mila tossicodipendenti che sono in carcere? Non ve ne frega niente di tutta questa gente? Li lasciamo lì e li consegniamo al circuito privatizzato gestito da San Patrignano come logica di recupero? Io vi dico che anche quello è un problema di legalità. Vi occupate della legalità di Berlusconi? È giusto, siamo d’accordo, vogliamo occuparci anche dei diritti degli immigrati? Vi battete per il pluralismo dell’informazione? Sono d’accordo, ma non riduciamo il pluralismo di informazione alla lottizzazione della Rai perché la Rai l’avete sempre lottizzata tutti. Diamo lo spazio per le redazioni tipo Avvenimenti, tipo Carta, tipo le radio autonome che possano vivere oppure le strozziamo se non dipendono totalmente dall’informazione e diamo unicamente i soldi ai giornali di partito perché possano continuare a esistere. Perché questo è quello che succede. Guai se il nostro che è il movimento dei movimenti decide di chiudersi a riccio. Noi vogliamo che i nostri contenuti facciano il loro percorso, non importa con quali sigle, lavoriamo obiettivo per obiettivo con qulli che li condividono totalmente o in parte, anche perché è solo così che possiamo modificare le posizioni di Fassino, Rutelli e D’Alema: se si accorgono che la loro gente non li segue più, dovranno cambiare tattica e strategia. Dopo la grande manifestazione di marzo penso che sarà molto più difficile tornare a fare accordi coi partiti al governo, come credo che dopo lo sciopero generale della Cgil per Cofferati sarà molto più difficile pensare di tornare alla concertazione che ha gestito per cinque anni. Non è che su tutto la penso come Cofferati, ma penso che quello sia un grande momento di opposizione nel paese sui temi sociali e lui dice difendiamo l’articolo 18 e noi diciamo difendiamo l’articolo 18 ma cerchiamo di estendere lo statuto dei lavoratori a tutti i lavoratori, anche a quelli che lavorano nelle piccole imprese sotto i 15 dipendenti, smettiamo con il lavoro interinale soprattutto per i giovani. E’ questa l’attuale posizione del sindacato? No, però per esempio la Fiom che fa parte del movimento è d’accordo su questi contenuti e il 23/3 cerchiamo di spostare la gente su questi contenuti. Infatti abbiamo già detto che se dovesse accadere, io penso proprio di no ma una parte del movimento lo vede come un rischio quindi l’abbiamo detto, se dovesse accadere che la Cgil revoca lo sciopero del 5 di aprile, siccome i motivi esistono ancora tutti, noi andremo avanti a far del 5 aprile una giornata comunque di lotta, siamo noi che indiciamo lo sciopero. Io i rapporti li vedo in questo modo, dialettici ma molto chiari sulle posizioni politiche.

Domanda: …io credo che il vostro nome “no-global” possa creare dei fraintendimenti, tanto è vero che lei stesso auspicherebbe per una “buona globalizzazione”. Non crede che si dovrebbe dare una maggiore identità al vostro movimento? E in che cosa consiste veramente la “buona globalizzazione”? Domanda: …lei ha parlato di sano egoismo e mi sembra un’espresione giusta perché credo che il buonismo sacrificale sia perdente. Come diceva Visco, qui si tratta di trovare delle convenienze reciproche, cioè se al mondo si sta un po’ meglio tutti ci saranno meno pericoli rispetto ad attentati, a migrazioni selvagge, a tensioni di ogni tipo. Vorrei che lei puntasse la riflessione proprio su questo aspetto delle convenienze reciproche. Domanda: …lei ha usato l’espressione “un imprenditore che va in Argentina fa le speculazioni”. Mi è sembrato di capire in questa sua affermazione una sorta di demonizzazione del profitto. L’idea che ci sia un interesse legittimo a guadagnare, che sicuramente deve essere incanalato da regole condivise e controllabili, non deve essere contrapposto al sociale o alla solidarietà. Poi vorrei ricordare che quando si parla di multinazionali come mostri assetati di sangue, si ricordi anche che dietro queste grosse società non ci sono solo quattro oligarchi nell’ombra, ma ci sono anche milioni di lavoratori e di famiglie. Quindi penso che il vostro movimento possa avere una ancora maggiore incisività se oltre ad essere in grado di parlare al pakistano, al nigeriano, al coreano, sarete capaci di parlare anche ai lavoratori che stanno all’interno di questi gruppi. Domanda: …l’America ha votato a destra e dopo l’11 settembre si è compattata a destra. Anche in Europa molte nazioni compresa l’Italia si sono orientate in questo senso. Nel momento storico attuale c’è quale necessità c’è di globalizzazione quando ci si chiude nei confini nazionali, addirittura nel comune? Io ritengo questo periodo storico schizofrenico e vedo che molta gente è d’accordo nella chiusura, nella difesa degli interessi particolari. Cosa pensa di fare il movimento verso questa parte del mondo che è notevole, bisogna venire a patti? Come pensa il movimento di fronteggiare questa situazione per essere credibile? Domanda: …le associazioni che fanno parte del vostro movimento esistono solo nel nord del mondo oppure anche nel sud del mondo c’è un movimento forte a livello di opinione pubblica? E questo movimento è organizzato e sa incidere autonomamente sulle decisioni? Dott. Agnoletto: Quando io dico che il nostro è un movimento globale è così, dico che sono in totale disaccordo con chi ci definisce no-global, è veramente un movimento globale, nel consiglio internazionale vi sono rappresentati dei movimenti del sud, nati nel sud non solo le ONG, cioè le organizzazioni non governative del nord che sviluppano e lavorano su progetti in quell’area del mondo. Per esempio il Forum Sociale Mondiale ha deciso che ci organizzeremo attraverso Forum Sociali continentali e regionali in tutto il mondo; quello europeo si farà a novembre in Italia e sarà di tutta l’Europa, compresi i Balcani e tutto l’est europeo. Vogliamo coinvolgere la sponda sud del mediterraneo, fare delle sessioni speciali sul mediterraneo; in Africa il 15 di gennaio c’è stata la costituzione del Forum Sociale Africano che a Dakar aveva rappresentanze di oltre 30 nazioni; c’è la difficoltà di riuscire a dare spazio a movimenti sociali laici non segnati dall’integralismo religioso in grado di lavorare a delle prospettive per il loro continente; adesso ci sarà con una nuova riunione a Katmandu il Forum asiatico, a Bangkok il Forum del sud-est asiatico, quindi con diverse regioni del mondo stiamo costruendo la rete del

Social Forum. A proposito dei Balcani, vogliamo aiutare quei popoli a superare attraverso il Social Forum quel disastro che sono le nazioni uscite dalla tragedia della ex Iugoslavia, così caratterizzate nazionalisticamente ed etnicamente: un’impresa difficilissima per la quale contiamo sull’aiuto delle associazioni che per anni hanno lavorato in quella zona. Quando si parla di povertà africana ci dimentichiamo di parlare del colonialismo vecchio e di quello nuovo. Quando io parlo di 4 milioni di sieropositivi Sudafricani che rischiano di morire perché non possono acquistare i farmaci, potrei parlare anche delle miniere di diamanti che sono in tutta la parte ovest del Sudafrica e sono controllate completamente da De Clerk, cioè da un avanzo di economia coloniale olandese o inglese e lì hanno problemi in questo caso di nazionalizzazione. Quindi c’è una grossa attenzione a dare spazio ai movimenti del sud del mondo che stanno crescendo in una logica di laicità. Quando la FAO si incontrerà a Roma noi andremo con delle proposte complete, ma noi intendo il movimento a livello mondiale. Via Campesina è la maggiore organizzazione del movimento dei contadini latinoamericani e la sua base è nel sud del mondo e verranno loro a parlare. Noi dobbiamo organizzare per loro gli spazi, trattare con il governo e creare gli spazi per i dibattiti, il diritto a manifestare e queste cose, l’avrà Stedile che è il leader del Sem Terra brasiliano, leader di molti milioni di persone. Verranno i contadini rappresentanti delle associazioni africane denunciare il problema che se l’Europa continua con la logica del protezionismo sui prodotti agricoli, perché questo è, loro non avranno mercato. E potranno rispondere chiudendo i propri mercati ai nostri prodotti.Su questo discorso c’è grande attenzione. È evidente che non pensiamo di fare la rivoluzione con le armi: ormai un giorno sì e l’altro pure sono obbligato a ribadire che siamo un movimento non violento, pacifico. Questo è l’asse del movimento, c’era nel patto per Genova, ieri l’abbiamo riconfermato anche accogliendo l’appello che Rutelli ha lanciato, ma era già nel patto di lavoro che abbiamo approvato, quindi lungi da noi nell’uso delle armi e della violenza. Io non sono così pessimista, ho una certa età per sapere però che i risultati dei movimenti sociali producono delle ricadute sul piano politico molti anni più avanti e anche sul piano culturale. I grandi movimenti degli anni ’70, che riuscirete a studiare a scuola se si studiano, quelli degli anni ’60 e ’70 hanno avuto una ricaduta sul piano politico nel ’76 in Italia con la grande avanzata della sinistra, ma il movimento era del ’68, ’69, e nel ’76 il movimento era già in declino e ripiegava in associazioni di altro tipo, educative. Io ad esempio ho fatto più di 20 anni nello scoutismo cattolico. La destra ha vinto le elezioni negli Stati Uniti, non le ha vinte con una risicata maggioranza, l’ha vinta con una grande minoranza, perché Bush ha perso le elezioni, ma ha vinto grazie a tutto quello che è successo, il sistema elettorale ecc. ma indipendentemente da questo, che sono problemi degli Stati Uniti, io credo che anche lì oggi si stia muovendo qualche cosa. Io sono andato a settembre con una delegazione del movimento a portare solidarietà alla popolazione degli Stati Uniti dopo l’11 settembre e ne sono tornato molto depresso perché in quel momento il grande movimento che c’è negli Stati Uniti contro Banca Mondiale e Fondo Monetario non era un movimento anche per la pace perché non erano in grado di parlarne: erano scioccati da quello che era avvenuto e perché anche il movimento della pace che gli Stati Uniti ha in sé è subalterno ad un certo tipo di cultura Voglio dire che il movimento della pace statunitense non ha mai parlato di ONU, non ha una storia sul tribunale internazionale, non ha una storia che si rifà alle istituzioni internazionali, oggi il loro problema è spostare gli Stati Uniti su un’altra posizione. Allora lì nasce tutto un percorso. Abbiamo fatto un collegamento Porto Alegre-New York tra movimenti che loro contestavano l’assetto economico che

c’era e abbiamo proprio discusso come adesso c’è una contaminazione tra movimento contro la Banca Mondiale e pacifismo che sta crescendo; le cose dunque stanno evolvendo fortemente. Quello che avviene in Europa credo che sia significativo, ovviamente io do una nostra interpretazione. In Europa è fallita l’ipotesi moderata di sinistra, l’ipotesi della sinistra liberale, neoliberista e il paese si sta riconsegnando alla destra, ma oggi che cosa succede in Europa? Che c’è una destra forte che sta crescendo e c’è una risposta dei movimenti in tutta Europa che sta crescendo forte e la sinistra moderata cerca di barcamenarsi soprattutto in termini di strategie. Faccio un esempio, giuro che non lo faccio con cattiveria, lo faccio con animo sereno riguardo al nuovo sindaco di Roma. Veltroni è andato a Porto Alegre al Forum Sociale degli enti locali e ha fatto un intervento che i giornali hanno preso come un intervento molto aperto di sinistra, però poi l’hanno chiamato per commentarlo e lui, animato da buone intenzioni, ha fatto uno scivolone, ha detto che non ci sarà mai più un G8 come è stato fatto in Italia, dato che d’ora in poi al G8 bisogna invitare anche delle nazioni africane. Questa formulazione del problema non la possiamo accettare: non è accettabile che si aggiunga al tavolo degli otto che decidono delle sorti di tutto il mondo qualche posto per tre o quattro stati africani, quelli più affidabili a cui dare le briciole. Ed ecco che senza avvedersene Veltroni ha fatto uno scivolone. Noi contestiamo che otto paesi o tredici o quindici possano decidere per il mondo. Noi diciamo c’è una sede che è l’ONU che va riformata, che va modificata, che è stata eletta da tutti gli stati. Di democratico il WTO, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario non hanno nulla e neanche di controllo politico. Come abbiamo vinto la battaglia sul processo sudafricano con le multinazionali? Siccome è tutto globalizzato allora di fronte alle multinazionali che bloccavano il processo in Sudafrica e impedivano i farmaci, tutte le associazioni di lotta all’AIDS si sono mosse, ma erano sempre poche. In Inghilterra c’è una legge sulla trasparenza delle pensioni e delle assicurazioni, cioè chi deposita in fondi assicurativi l’assicurazione ha l’obbligo di dire in quali settori investe affinchè il cittadino sappia a chi sta affidando i suoi risparmi. È successo che le più grandi assicurazioni inglesi erano azioniste della Glaxo Wellcome, capofila della causa contro il governo sudafricano. Le assicurazioni inglesi sono andate dalla multinazionale farmaceutica e hanno detto: no così non ci siamo proprio, noi abbiamo dovuto dire che investiamo in voi perché c’è la legge sulla trasparenza e abbiamo gli inglesi che continuano a disdire le assicurazioni con noi perché noi investiamo in voi che state vietando le medicine e condannando a morte gli africani. Questa è stata una delle ragioni principali per cui la Glaxo Wellcome ha dovuto fare marcia indietro rispetto al processo sull’Africa e quindi smettere di bloccare la legge “Mandela Act”. La campagna organizzata dai francesi contro la Danone quando voleva licenziare non perché era in negativo ma perché il profitto era minore di altri settori ha fatto precipitare la Danone al penultimo posto di vendite per tre mesi. Sul piano governativo queste ricadute di queste campagne mondiali non le abbiamo dopodomani, se mi volete chiedere se noi mandiamo all’opposizione Berlusconi io dico di no, non vengo a vendere illusioni. Berlusconi governerà e non sono neanche sicuro che non governerà anche dopo il 2006 ma noi non ci stiamo battendo per cose che cambiano dopodomani, quello che c’è da ricostruire in Italia e in gran parte del mondo è un punto di vista alternativo. La critica di fondo che il movimento fa al governo precedente è di aver assunto il punto di vista dell’avversario cercando di modificarlo un po’. Il problema invece è che c’è la possibilità di vedere il mondo da un altro punto di vista, porsi fuori da quella logica liberista e

quindi le alleanze che dobbiamo costruire sono su tempi medi non è oggi che riusciamo a cambiare, oggi la battaglia è culturale. Devo convincere la gente che non ci stiamo battendo per una pura logica di solidarietà.

Pierluigi Ciocca GLI ASPETTI ECONOMICI: UNA PROSPETTIVA DI LUNGO PERIODO Conferenza del 8 aprile 2002 Il dottor Pierluigi Ciocca è qui oggi non solo per il ruolo che egli ricopre all’interno della nostra Banca Centrale di cui è vicedirettore generale, per cui potete immaginare quali siano le sue responsabilità decisionali all’interno di questo istituto, ma anche a livello internazionale perché egli continuamente ci rappresenta in Europa e nel resto del mondo. Egli è qui oggi non solo come tecnico, come addetto ai lavori per le sue eccezionali competenze, è qui anche perché può vantare una formazione assolutamente classica, umanistica. È nota la sua passione e l’impegno negli studi che lo hanno sempre portato a guardare l’economia e i problemi monetari all’interno di quello che è il contesto storico-sociale. Di ciò sono prova i numerosi studi pubblicati nel corso degli anni e rinnovati da una responsabile conoscenza e un’attenzione sempre vigile ai mutamenti della situazione interna e internazionale. Dunque per la tensione etica che egli ha profuso nella sua vita di studioso e nell’azione concreta, ma anche perché abbiamo sperimentato in altre occasioni la sua eccezionale capacità di rapportarsi agli studenti, noi lo consideriamo la persona più idonea a concludere questo ciclo di approfondimento culturale sicuri che il suo contributo ci fornirà una chiave di lettura completa e unificata del fenomeno in questione. Il mio discorso verterà, più che sulla globalizzazione, sull’economia mondiale nel tempo lungo, cioè nell’ultimo secolo - il ‘900 - o addirittura iniziando dalla rivoluzione industriale inglese (scorcio del ‘700 e primi decenni dell’800). Muoverò da quando nelle principali economie, a cominciare appunto da quella inglese, l’organizzazione economica delle società ha assunto la forma che definiamo economia di mercato capitalistica. Il mio tentativo consisterà nel fornirvi elementi, dati, criteri, perché voi, riflettendovi, possiate autonomamente farvi un opinione sugli aspetti positivi e su quelli negativi, sulle contraddizioni e sulle prospettive che questo modo di organizzare l’economia configura. Questi aspetti si raccordano a quelli sociali, e anche a quelli politici, dei quali non parlerò. Come si può giudicare la performance, i risultati, di una economia? Ho ridotto a quattro i criteri di giudizio da aver presenti, come se fossero quattro materie di studio e di esame su cui dare un "voto". Il primo criterio è quello della capacità di una economia di produrre reddito, risparmio e quindi ricchezza. Dal punto di vista concettuale e da quello statistico lo si può complicare in molti modi. Semplificando al massimo lo chiameremo criterio del reddito. Un’economia produce ogni anno beni e servizi, aggiungendo al fondo di risorse ereditato dalla storia. A parità di altre condizioni si può ritenere che più l'economia produce meglio è, naturalmente tenendo conto di certi limiti, come l’inquinamento e altri

equilibri da rispettare, oltre all'aspetto distributivo, di cui parleremo. Veniamo al secondo criterio. Oltre a produrre molto, così da soddisfare le esigenze più diffuse, vorremmo che l'attività economica si svolgesse senza oscillazioni, con regolarità, evitando fenomeni come quello dell’inflazione o, all'opposto, quello della disoccupazione. Chiamiamo questo secondo criterio il criterio della stabilità di una economia. Il terzo criterio, che suscita tante discussioni da più di due secoli, è quello della distribuzione del reddito e della ricchezza. Idealmente, la distribuzione del reddito e della ricchezza non dev'essere sperequata ma ben distribuita, salvo poi chiarire cosa questo significhi. Un quarto e ultimo criterio consiste nel vedere se quel “cavallo brado” che è per sua natura un’economia di mercato capitalistica sia in qualche modo governabile, "domabile". Chiamiamolo criterio della governabilità di una economia di mercato, a fini sia macroeconomici sia strutturali. Questi sono i quattro criteri in base ai quali proverò a far maturare una vostra opinione sull’andamento dell'economia di mercato. Come è andata nell’ultimo secolo? Come è andata negli ultimi duecento o negli ultimi cinquant’anni? Come sta andando ora? Rispetto a che cosa? Il termine di confronto primario è la storia plurisecolare precedente, quando l’umanità organizzava l'economia in modi diversi, che sono stati variamente etichettati. Avrete sentito certamente parlare e forse letto nei vostri libri di storia dei sistemi feudali o di forme quasi schiavistiche di organizzazione della produzione. Affinché il confronto possa farsi con la moderna organizzazione dell’economia come economia di mercato capitalistica, resta tuttavia da chiarire il punto fondamentale. Che cos'è un’economia di mercato capitalistica? Economia di mercato e economia capitalistica sono due termini che vengono spesso usati come sinonimi, indicanti concetti coincidenti. In realtà non è così. Una sezione di economia di mercato esisteva al tempo dei Greci, dei Fenici, dei Romani. Firenze, nel ‘400, ci viene spesso raccontata come una florida economia di mercato. L’Aquila, la mia città, seppure fondata, pare per ordine dell’imperatore nel 1250 circa - tra i monti d'Abruzzo - divenne presto florida in termini di commerci. Si può quindi dire che un elemento di scambio, di mercato, c’è sempre stato nella storia lunghissima dell’umanità, ma solo in una parte dell'economia. In un'economia capitalistica moderna l’organizzazione basata sul mercato è estesa all'intera economia. Oggi c’è un mercato quasi per qualunque bene, per qualunque servizio. Si tende a far mercato, per dire una battuta facile, di qualunque cosa. L’economia capitalistica moderna è in notevole misura caratterizzata dalla presenza, dall’importanza della pervasività del mercato. L’elemento più caratterizzante e interessante, molto discutibile, è che vi è anche un mercato del lavoro. Lo stesso lavoro umano diventa di necessità oggetto di scambio, con un prezzo che si chiama salario o stipendio. Tale elemento differenzia profondamente l’economia di mercato capitalistica dall’economia di mercato che precedeva questa fase

storica. Il terzo elemento caratterizzante è l’organizzazione della produzione incentrata su imprese: imprese soprattutto agricole una volta; imprese anche industriali, manifatturiere, successivamente; imprese in prevalenza terziarie, che offrono servizi, oggi. Queste imprese producono "merci" - cioè beni e servizi per il mercato - motivate dalla finalità del profitto. Nell’economia degli Stati Uniti, che resta la più grande economia del mondo poiché esprime da sola circa un quinto di quanto l’intera economia mondiale produce ogni anno, i servizi - da quelli forniti dal barbiere, dal medico, dall’avvocato fino all’istruzione, alle banche - rappresentano l’85 per cento della produzione complessiva. Delineato l’oggetto della nostra indagine - ricordando ancora che l’affermarsi di questo sistema, del modo di produzione attuale, si è distribuito nel tempo ma nella forma moderna si configura dopo il ‘700 e si è esteso progressivamente - esaminiamo i quattro criteri. Per ciascuno di essi proverò a fornire qualche dato. Il primo criterio da considerare è quello del volume della produzione e della sua crescita. Il tasso di crescita della produzione, riferito al mondo intero, nell’ultimo secolo e ancor più nell’ultimo mezzo secolo è stato formidabilmente alto. Mai l’umanità aveva sviluppato, in termini di offerta di beni e sevizi, la propria attività con la velocità sperimentata nell’ultima fase, nella quale oggi viviamo. All’inizio dell’800, la popolazione mondiale era di un miliardo di persone. Il reddito medio dei cittadini del mondo era corrispondente a circa 600 dollari odierni: valore della produzione fisica di beni e servizi del mondo intero, divisa per il numero della popolazione mondiale. Oggi la popolazione mondiale è di circa sei miliardi di persone e il reddito medio supera i cinquemila dollari. In duecento anni si è avuta una crescita del reddito di circa dieci volte e il reddito pro-capite del mondo intero si è decuplicato. Poiché la popolazione mondiale si è moltiplicata per cinque e il rapporto fra il reddito e la popolazione si è moltiplicato per dieci, si capisce bene che il numeratore, cioè il prodotto, è cresciuto in misura ancor superiore al reddito pro-capite. Il risultato colpisce ancor di più se lo confrontiamo con quanto era accaduto prima. Nei secoli che immediatamente precedono quelli di cui stiamo parlando, la crescita era stata pressoché nulla. Per quei secoli, le statistiche sul reddito e sulla produzione sono molto incerte. Esse però esistono e danno l’impressione generale di un ristagno, di una stasi nel ‘500, nel ‘600, nel ‘700. Dal punto di vista materiale gli italiani del 1800 non vivevano meglio, in termini di reddito e di consumi, degli italiani del 1400. Dobbiamo quindi immaginare una prima lunga fase plurisecolare, che arriva all’800 circa, in cui il reddito pro-capite non cresce, è fondamentalmente invariato. Dall’800 comincia una crescita che accelera via via, seppure tra oscillazioni, e porta a un prodotto pro-capite molto alto, oggi su livelli mai raggiunti prima. Esaminiamo il secondo criterio, quello che ho definito della stabilità. C’è stata inflazione, c’è stata disoccupazione? Si, in molti momenti e in diversi paesi. I prezzi non sono stati stabili. Si pensi all’inflazione molto forte nei paesi belligeranti

durante la prima guerra mondiale, molto forte quasi ovunque durante la seconda guerra mondiale. L’inflazione è un fenomeno negativo perché avvantaggia alcuni e svantaggia altri: alcuni grazie ad essa si arricchiscono, a spese di altri che perdono reddito e ricchezza. Se i prezzi aumentano chi vive di redditi fissi, di un salario stabilito in una cifra annua per contratto, vede il valore reale di questo salario decrescere con l’aumento dei prezzi: con lo stesso reddito riesce a comperare solo una minor quantità di beni e di servizi. Allo stesso modo, quando si verifica il contrario dell’inflazione, e cioè la deflazione, i prezzi che cadono determinano effetti analoghi, anche se di segno diverso: con la deflazione si avvantaggiano i debitori, sono svantaggiati i creditori. Gli ultimi due secoli hanno visto anche fasi di deflazione: è accaduto nella seconda metà dell'’800, negli anni Trenta del ‘900. Nei due secoli del capitalismo si è avuta nel complesso una instabilità dei prezzi molto maggiore di quella sperimentata nei secoli precedenti. Per quanto riguarda il problema della disoccupazione, abbiamo assistito a una crescita tendenziale dell’occupazione. Più persone hanno lavorato nel mondo. Questo è un dato positivo, perché sono state offerte in maggior misura occasioni svariate di lavoro consentendo a ciascuno, più che in precedenza, di esprimersi professionalmente. Eppure vi sono state anche fasi, non lunghissime ma nemmeno brevi, di disoccupazione molto alta. Il momento peggiore è stato il periodo tra le due guerre mondiali, in particolare gli anni Trenta. Allora il tasso di disoccupazione in Germania - la percentuale dei disoccupati sul totale dei lavoratori - arrivò a sfiorare il cinquanta per cento: un lavoratore su due, tragedia immane che generò il nazismo. Negli Stati Uniti, nello stesso periodo, il tasso di disoccupazione arrivò al trenta per cento: un lavoratore su tre se era giovane non trovava lavoro, se l’aveva perduto non lo trovava più. Sotto entrambi i profili, dei prezzi e dell'occupazione, le società agrarie non capitalistiche erano connotate da maggiore stabilità. Al tempo stesso, in questi due secoli ci sono anche state lunghe fasi in cui le economie di mercato capitalistiche hanno assicurato prezzi stabili e pieno impiego, come nel 1950-70. In Italia oggi c’è un tasso di disoccupazione del 9 per cento, pieno impiego in Alto Adige e alta disoccupazione - più del 20 per cento - in Calabria. I prezzi sono stabili. Il terzo criterio è quello della distribuzione del reddito. Mi riferisco alla distribuzione del reddito - e del consumo - fra le singole persone, non alla distribuzione del reddito tra profitti e salari, questione diversa. L’eguaglianza si ha quando il reddito prodotto ogni anno è uniformemente distribuito: ciascun cittadino, se si produce 100 di reddito e i cittadini sono 10, ha un reddito di 10. A questa situazione, che rappresenta un termine di riferimento estremo ma utile, diamo in una scala da 0 a 100 valore zero. Prendiamo il caso polare opposto, quello in cui tutto il reddito va nelle tasche di un solo cittadino e gli altri 9 cittadini non percepiscono una "lira" del prodotto nazionale del paese: a questo caso opposto diamo nella scala valore uno. Abbiamo ora una scala all’interno della quale graduare la distribuzione personale del reddito. Alcuni audaci statistici hanno tentato di misurare l’andamento della distribuzione personale del reddito sia nella storia - gli ultimi due secoli - sia con riferimento agli anni più recenti, avendo a disposizione dati più attendibili. Parliamo sempre del mondo intero e, così facendo, ci avviciniamo un po' al concetto - che a me non piace - di "globalizzazione". La distribuzione è divenuta sempre più sperequata. In termini numerici siamo passati da una situazione, all’inizio dell’800, in cui la misura della

distribuzione era più vicina allo zero – ci sono varie stime: 10, 20 - a un oggi, cioè agli ultimi anni, in cui questa misura è intorno a 60. Il peggioramento nella distribuzione personale del reddito fra i cittadini del mondo, il fatto cioè che essa sia divenuta meno perequata, è stato continuo, senza soluzione di continuità nel corso di duecento anni. Non ci sono stati momenti, nemmeno brevi, in cui, per il mondo nel suo complesso, la distribuzione del reddito sia diventata più equa. Ci sono stati periodi in cui il fenomeno ha rallentato, altre fasi in cui è stato più rapido, ma la distribuzione del reddito è sempre peggiorata. Ciò è avvenuto perfino quando in Unione Sovietica e nella Cina comunista sono stati effettuati i due principali tentativi, discutibili quanto si vuole ma organici e su vasta scala, per evitare che la distribuzione del reddito peggiorasse. Allora, la cosiddetta globalizzazione non c'era, o era solo agli inizi ... La distribuzione del reddito fra i cittadini del mondo è scomponibile in due componenti. È chiaro che se io ho la sfortuna di nascere nel Botswana e non a New York, fra me e il mio coetaneo newyorkese dalla nascita si apre uno iato terrificante. Questa componente è legata al diverso livello di sviluppo delle nazioni. L’altra componente è la sperequazione esistente nella distribuzione del reddito all’interno di ciascun paese, quindi nella distribuzione del reddito fra i cittadini degli Stati Uniti e fra i cittadini del Botswana. Le due componenti sono statisticamente distinguibili. Come forse è intuitivo, la più gran parte della sperequazione è ascrivibile al primo fattore, cioè al fatto che alcuni paesi - il "Botswana" - sono sottosviluppati mentre altri - gli "Stati Uniti" - sono sviluppati. Per tre quarti le differenze nel reddito sono legate al primo fattore, per un quarto soltanto al secondo. I dati di oggi, letti al valore facciale, sono piuttosto impressionanti. Il cinque per cento più ricco della popolazione mondiale - quindi il cinque per cento di sei miliardi di persone e cioè 300 milioni di persone circa - ha oggi un reddito che è 114 volte quello del cinque per cento più povero della popolazione mondiale. Se il reddito del cinque per cento più povero è di mille dollari l’anno, o forse anche meno - diciamo mille dollari l’anno per semplicità - il cinque per cento più ricco ha in media un reddito di centoquattordicimila dollari. La domanda a questo punto diventa: come si evita la sperequazione nello sviluppo economico tra le nazioni? Ovviamente, e idealmente, portando le nazioni povere al livello di sviluppo di quelle ricche. In Italia, perché la Calabria non si è sviluppata e la Lombardia sì? Perché questo sistema economico ha funzionato in certi luoghi e non funziona in altri? La domanda vera è quindi relativa alle ragioni del successo del modo di organizzare l’economia in alcune parti del mondo e del suo insuccesso in altre parti. Più che la questione della differenza di reddito all’interno dei singoli paesi, che pure è importante, il problema vero è rappresentato dal differente grado di successo di questa formula di organizzazione dell’economia nel promuovere la ricchezza delle nazioni, il loro progresso materiale. Arriviamo così al quarto criterio, quello della governabilità dei processi che abbiamo descritto. I dati esaminati sono da un lato splendidi, perché questo sistema produttivo ha tolto dalla fame miliardi di persone. Sono dall’altro lato pessimi, non solo perché ci sono punte di disoccupazione e punte di instabilità nei prezzi, ma anche perché uno scarto di 114 volte tra i redditi degli esseri umani urta anche i più insensibili.

Di fronte a questi risultati è possibile assumere varie posizioni culturali, politiche, morali. A un estremo, si può dire che oggi si vive meglio che nel ‘700, quando chi zappava dalla mattina alla sera a malapena aveva le patate alla fine della giornata per evitare di morire entro i venti anni d'età, perché fino al ‘700 la speranza di vita alla nascita era questa. Nei primi decenni dell’800 si arriva a una attesa di vita di trenta anni. Anche questo è un dato bassissimo rispetto a oggi: in media, per il mondo intero, sessantacinque anni, con punte di ottanta in Italia e in Giappone. Secondo questa prima posizione, che può definirsi neoliberista - o "imperfettista", del tipo “non sappiamo, a tavolino e in pratica, inventare nulla di meglio” - accettiamo ciò che è emerso nella storia, per alcuni versi certamente positivo. La seconda posizione, radicale, è quella di chi vuole cambiare il mondo, non accettando, nella filosofia di fondo e nei risultati, l’organizzazione della società come economia di mercato capitalistica. Non ci si pensa solo da oggi … in questo liceo. Molti tentativi in passato sono stati fatti, sia dal punto di vista teorico sia con esperienze concrete; alcuni non hanno avuto successo, altri sono riusciti solo in piccola parte, altri ancora sono finiti in tragedia. La posizione utopistica o, se vogliamo, rivoluzionaria tuttavia può trovare riscontro in alcuni degli elementi fattuali della storia che ho brevemente descritto. La terza posizione è quella riformista, di chi ritiene che questo sistema abbia aspetti positivi, come per esempio l’allungamento della vita media, e altri pesantemente negativi, per cui si dovrebbe intervenire per correggere i secondi e valorizzare, se possibile, i primi. Concludo con due battute sulla posizione riformista. Essa assume che un'economia di mercato capitalistica sia governabile, il "cavallo brado" domabile. Implica una teoria relativa al funzionamento del sistema economico che abbiamo creato, una comprensione profonda dei suoi meccanismi per poter su di essi intervenire. Questa teoria c’è e non c’è. Se conosciamo molto di più - oggi rispetto a ieri - circa il funzionamento di un’economia di mercato, non ne sappiamo ancora a sufficienza. Inoltre, ci sono nodi della governabilità dell'economia più facili, altri molto più difficili da sciogliere. Quando si interviene con la politica economica, nell'interesse generale, per correggere certe distorsioni, si urtano interessi particolari, che oppongono una reazione. Per questo motivo il problema economico diventa alla fine, come è sempre stato nella storia dell’umanità, anche politico. Un’ultima battuta sulla "globalizzazione". Non l’ho molto evocata nel mio discorso perché non è l’aspetto determinante. Faccio un solo esempio. Il peggioramento nella distribuzione personale dei redditi del mondo intero negli ultimi anni, che è stato molto forte, è tutto concentrato in Cina e in India. Se si escludono questi due paesi la distribuzione personale del reddito del mondo negli ultimi dieci-quindici anni è fondamentalmente rimasta invariata. Che cosa è accaduto in Cina e in India? È accaduto che finalmente si è messo in moto un processo di sviluppo economico. In Cina, la cui situazione conosco un po’ meglio, si sono sviluppate, a un ritmo mai visto prima nella storia dell’umanità, soprattutto le regioni meridionali e costiere - diciamo Shanghai - mentre le regioni del nord-ovest sono praticamente rimaste al livello di sottosviluppo nel quale versavano. È chiaro che quando all’interno di un paese, grande e popolato quanto la Cina, le forze dello sviluppo e della dinamica dell’economia si scatenano, si apre almeno inizialmente un ventaglio molto largo nella distribuzione del reddito, che pesa su quella del mondo intero. I cinesi

del sud sono potuti diventare ricchi, mentre i cinesi del nord, ancorché meno poveri di ieri in assoluto, lo sono di più in termini relativi. La globalizzazione non c’entra nulla con questo accadimento. La vicenda distributiva del reddito in Cina è legata a fenomeni interni. Analogamente, crescita, instabilità, limiti di governabilità avevano caratterizzato le economie di mercato capitalistiche anche quando di globalizzazione non si parlava.

Le domande e le risposte più significative nel dibattito Domanda:…ma questo suo discorso generale non tiene conto dell’equilibrio del sistema–terra, delle sperequazioni che avvengono in larghissima scala… Dott. Ciocca: Il dato che ho fornito sulla distribuzione del reddito, frutto di ricerche recenti i cui risultati non sono ancora stati pubblicati, è un dato importantissimo che riguarda il ventaglio delle posizioni di reddito dei singoli esseri umani. Che cosa aggiungere? Tutti i paesi del mondo sono cresciuti in termini di reddito negli ultimi cento anni, segnatamente negli ultimi cinquanta. I paesi dell’Africa, che sono quelli mediamente più poveri - non posso che parlare per medie, poiché i paesi al mondo sono circa duecento - financo quei paesi hanno avuto una crescita, ancorché bassa, del prodotto pro-capite. Si deve anche tener presente che non tutte le economie africane sono capitalistiche o di mercato nel senso in cui ho usato questo termine. Il fatto è che la crescita è stata molto più rapida altrove che nei paesi più poveri. Ma in punto di dati effettuali non c’è stato un decremento, un impoverimento assoluto, di singoli paesi per lunghi periodi di tempo. Un secondo aspetto da riconsiderare riguarda la speranza di vita alla nascita, o speranza di vita. L’innalzamento è stato negli ultimi cinquant’anni spettacolare ed è stato generale, ha riguardato anche i paesi più poveri. Il terzo elemento, oltre al reddito e alla salute, è l’istruzione. Essa è difficile da misurare, ma esiste una possibilità di farlo, fondamentalmente imperniata sul concetto di alfabetismo, analfabetismo e derivati. Anche in questo ambito c’è stato un progresso fenomenale, ovunque, negli ultimi decenni. Alcuni economisti hanno combinato i tre elementi - lo sviluppo del reddito pro-capite, la speranza di vita, il grado d’istruzione - in un solo indice. Lo hanno chiamato Human Development Index, indice dello sviluppo umano, per tener conto non solo di quanto si produce ma anche degli aspetti più sociali e culturali di ciò che è accaduto nel mondo negli ultimi cinquanta-cento anni. Questo indice è molto meno sperequato tra i paesi di quanto non lo sia solo il reddito pro-capite. In altre parole, un ragazzo che nasce oggi in "Mozambico" nasce con un reddito che è 1/114esimo del reddito vostro, ma nasce con una probabilità di vita solo di poco inferiore alla vostra e con una prospettiva di istruzione non molto differente, se vuole veramente studiare e ne ha la capacità. Ciò da un lato semplifica, dall'altro complica le vicende del mondo. Chi ha un reddito basso rispetto ad altri, ma ha anche la ragionevole aspettativa di rimanere in quella situazione per settant’anni e gli strumenti culturali per confrontarsi, leggere la sua condizione come sfortunata e fare le ipotesi più terribili circa l’origine di questa stessa condizione terrà comportamenti che arricchiscono, ma anche complicano, il panorama complessivo della situazione mondiale.

Domanda: …lo sviluppo di alcuni paesi non è legato alla subordinazione coloniale del sud da parte del nord del mondo? E quindi la globalizzazione non equivale a sfruttamento? Dott. Ciocca: Le parole vanno usate con misura, nel loro significato proprio. Globalizzazione è termine di uso recente, che non ha dignità di presenza nella storia alta dell’analisi economica. Il termine che ha dignità analitica nella storia alta dell’analisi economica (Smith, Ricardo, Marx, Walras, Schumpeter, Keynes, Sraffa) è quello di commercio con l’estero. Il commercio internazionale è cresciuto in questi duecento anni molto più rapidamente dello stesso reddito, che pure è salito, come già detto, velocissimamente. Duecento anni fa il rapporto commercio-reddito mondiale era del tre per cento, oggi è del venti per cento. Il processo sommariamente descritto di sviluppo, sia pure con caratteri di instabilità e contraddizioni sperequative, si è tendenzialmente correlato con una crescente apertura dei singoli paesi ai traffici internazionali. L’opinione dei grandi economisti, del passato e del presente, è che essa ha addirittura rappresentato una condizione necessaria, ancorché non sufficiente, di progresso economico. Si prenda il caso italiano. Noi abbiamo avuto la fortuna-sfortuna di nascere in una penisola che è completamente priva di risorse naturali. Questa penisola è fatta di montagne, ha una piccola pianura che chiamiamo Padana, è priva di miniere produttive. E' una penisola che senza commercio internazionale non vive, non sarebbe vissuta. Anche quando l’Italia era poverissima, una delle più povere nazioni d’Europa, il reddito e il consumo degli italiani si sono sempre fondati sul commercio estero, sull'apertura agli scambi internazionali. Dobbiamo di necessità importare beni e servizi che non siamo in grado di produrre a prezzi convenienti, ovviamente producendo e scambiando beni e servizi che ci siamo resi in grado di produrre efficientemente. Questo è un punto sul quale, sotto il profilo analitico e intellettuale, non posso essere per nulla tollerante con i critici della cosiddetta globalizzazione. Senza commercio non c’è sviluppo economico. Non c’è né in un’economia capitalistica né in un’economia non capitalistica. Se esiste un paese che lo dimostra questo è proprio il nostro, nella sua storia plurisecolare. Se c’è un paese che non può dire “commercio con l’estero equivale a sottosviluppo, subalternità”, questo è il nostro paese. Abbiamo fatto esperienze di autarchia, anche recenti, con risultati economici, sociali, politici disastrosi. La parola globalizzazione è molto imprecisa. Tende a superare il concetto di commercio mondiale, di interscambio di beni e servizi, del quale non si può dire che bene dal punto di vista strettamente economico, per riferirsi ad aspetti più generali e più vaghi dei rapporti fra le nazioni sui quali non ho molto da dire. Un aspetto importante che potremmo discutere è l’interscambio di capitali, cosa diversa dall’interscambio di beni e servizi. Economisti importanti nel passato e altri nel presente ritengono che purché circolino internazionalmente le merci, i prodotti, le persone, non è essenziale - dal punto di vista economico, per lo sviluppo, per il benessere collettivo - che fra i paesi si muovano anche i capitali. Indubbiamente, ai movimenti dei capitali sono legati alcuni aspetti negativi della storia economica, gloriosa e dolorosa, di cui stiamo discutendo. Prendiamo il caso dell’Argentina. Essa quest’anno avrà un crollo di reddito del quindici-venti per cento, un calo terrificante, mai avvenuto in un anno di pace in nessun paese prima. Vi sono due letture della crisi argentina. La prima: gli argentini non sanno produrre cose che piacciano al mondo, quindi non sono in grado di esportare beni e servizi, quindi non sono in grado di importare ciò che consumano, quindi non sono in grado di onorare i debiti che in modo superficiale contraggono verso il resto del mondo. La colpa è, in sostanza, degli argentini. Seconda lettura: l’economia argentina è stata troppo allegramente finanziata dal sistema bancario e finanziario

internazionale, negli ultimi anni troppi danari sono stati prestati all’Argentina e poi improvvisamente ritirati quando la finanza internazionale si è preoccupata per certi andamenti, non solo economici ma anche politico istituzionali, all’interno di questa economia. La questione è aperta. Quanto meno, distinguerei l’elemento commercio, senza il quale non c’è chance nella stragrande maggioranza dei paesi del mondo, da altri aspetti che attengono ai rapporti tra le nazioni. Domanda: …vorrei sapere la sua opinione riguardo ad organismi definiti già dal prof. Visco come tecnici, quali Fondo Monetario e Banca Mondiale. Dott. Ciocca: Questi organismi esistono dagli anni Quaranta. Il Fondo Monetario e la Banca Mondiale sono una creazione della conferenza di Bretton Woods, che si tenne ancor prima che la guerra mondiale terminasse. Certamente vi è una componente tecnica importantissima nel lavoro di queste istituzioni. I dati che citavo prima sulla distribuzione del reddito nel mondo sono costruiti anche da economisti appartenenti a queste istituzioni. La difficoltà analitica, di rilevazione statistica non vi sfugge. Costruire i dati sul reddito è un lavoro difficile e importantissimo, cruciale per sapere come funzionano le economie. Senza di esso, senza quei dati, la nostra discussione di oggi non avrebbe potuto avere luogo. L’elemento tecnico si estende all’analisi delle cause delle difficoltà e dei successi che le economie dei paesi partecipanti a queste istituzioni registrano. C’è poi un passaggio delicatissimo ai suggerimenti che queste stesse istituzioni danno circa le politiche economiche da attuare. Quali sono i criteri? Sono i criteri che le nazioni partecipanti al Fondo Monetario Internazionale, poco meno di 200, hanno concordemente, insieme, definito. Di questi criteri si può discutere. Se però non vi piace la "ricetta" del Fondo, prima di prendervela con il Fondo dovete prendervela con i rappresentanti del vostro paese presso il Fondo. Domanda:... che il Fondo Monetario ha prestato soldi ai più grandi criminali degli ultimi cinquanta anni, non è una cosa che dovrebbe essere nascosta, eppure lo è. Allora mi chiedo con che criteri etici il fondo presta i soldi a chicchessia senza alcuna differenza? Perché continuare a prestare i soldi ad uno sfruttatore, che uccide, senza guardare le atrocità che fa? Questo vuol dire solo sfruttare il mercato, uno dei tanti mercati. Ma d’altra parte non bisogna meravigliarsi, perché se un medio imprenditore, nel suo piccolo, sfrutta il mercato del lavoro, per trarre proprio profitto, una multinazionale lo fa su scala mondiale e un paese lo fa su scala continentale. Lei che ne dice? Dott. Ciocca: Il giudizio politico e morale del Fondo Monetario Internazionale sui governanti dei paesi che al Fondo si rivolgono per ottenere prestiti è problema molto interessante. Vale anche per altre forme di finanziamento, per altre istituzioni sul piano internazionale e, perché no, anche sul quello nazionale, perché i paesi che si indebitano ottengono credito anche da banche private. Il giudizio entra nelle valutazioni quando gli aspetti politici e morali del governo di un paese si ripercuotono sull’economia di quel paese, quando esso ricorre al sostegno del FMI. L’idea secondo la quale un paese governato da un tiranno ha molto probabilmente, alla lunga, minore successo in termini economici è parte della valutazione complessiva. Prendiamo il caso italiano. Il nostro paese è stato sostenuto dalla finanza internazionale nel dopoguerra. Un paese arretrato economicamente, culturalmente, istituzionalmente, quale era il nostro, è stato sostenuto dalla finanza internazionale negli anni ’40, negli anni ’50. Il nostro giudizio di oggi sui finanziamenti che l’Italia ottenne allora è connesso con il giudizio politico che

possiamo dare dei governanti italiani di allora. In termini economici, il reddito di cui oggi godiamo non ci sarebbe senza quei finanziamenti (di cui l’Italia fece un uso parco - largamente li restituì - e intelligente, perché molto dipende poi da come si usano questi soldi). Posso dire anche che i mercati finanziari annettono un’importanza crescente al profilo politico e morale a cui ti riferisci. Naturalmente è una valutazione delicatissima, affidata anche ai giudizi di valore, alla sensibilità di ciascuno.

PARTE SECONDA

Le relazioni degli studenti Relazioni sulla conferenza del prof. Vincenzo Visco

Se è vero che è la struttura economica di una società a determinare il suo assetto istituzionale,la sua situazione culturale, le scelte politiche della sua classe dirigente, allora l'indagine svolta dal professor Vincenzo Visco costituisce un punto di partenza imprescindibile per non rimanere smarriti in quei veri e propri meandri che sono i mille risvolti della questione chiamata “globalizzazione”. Nell'affrontare un fenomeno come quello della globalizzazione, non si può non parlare in termini di struttura e sovrastruttura, poiché, se le scelte di politica estera,spesso cieche e autoritarie, delle potenze trainanti, possono generare crisi e tensioni tali da modificare il volto stesso del pianeta, esse sono “giustificate” o comunque spiegate dalle vantaggiose prospettive economiche che nascondono. La globalizzazione economica,resa inevitabile dalla caduta del muro di Berlino,dal trionfo e dal progressivo irradiarsi in tutto il mondo occidentale di un'economia di matrice capitalistica, ha consentito l'abbattimento di ogni barriera fra gli Stati più ricchi, dando un colpo decisivo a quel protezionismo che, come Visco ha ben precisato, si accompagna storicamente a periodi di involuzione economica, di preponderanza di ceti parassitari, oppure regimi politici autoritari (il ventennio compreso fra le due guerre ne è un esempio eclatante). Tuttavia siamo ben lontani dal considerare un fenomeno in grado di produrre un effettivo bilanciamento delle ricchezze, di annullare le distanze fra Paesi più evoluti e Paesi più arretrati; talvolta, in nome di un sogno forse irrealizzabile di vita comunitaria e di convivenza e aggregazione fra i popoli, assistiamo a interventi quantomeno avventati,da parte delle grandi potenze, all'interno degli stati più vulnerabili, e la globalizzazione degli stati più ricchi si riduce, dopo il colonialismo e l'imperialismo storici,ad un ulteriore esempio di prevaricazione dell'uomo sull'uomo. L'analisi di Visco voleva far luce sulle tantissime contraddizioni della questione, evidenziando, con la lezione storica, la genesi del mondo globalizzato e valorizzandone, con la lezione di economia contemporanea, gli aspetti più positivi.

Visco definisce la globalizzazione come un'integrazione e compenetrazione delle economie dei vari stati, assimilabile, sotto alcuni punti di vista, ad altri processi di fusione che utilizzano come strumento l'egemonia di alcuni stati su altri. Per quanto affermatasi pienamente solo negli ultimi anni,le sue radici sono da ricercarsi nella storia. Non può considerarsi un esempio di globalizzazione ante-litteram l'imperialismo romano, per il suo accentuato carattere di non spontaneità e affermazione violenta. Non senza un leggero accento epico, Visco cita Marco Polo e Cristoforo Colombo come pionieri del processo di globalizzazione, il primo per aver aperto nuove vie commerciali, il secondo come simbolo dell'abbattimento di ogni barriera e del superamento delle distanze. La prima globalizzazione può farsi risalire agli inizi del XIX secolo, con l'affermazione del capitalismo moderno e lo smantellamento del mercantilismo precedente. Questa fase dura fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Il periodo compreso tra le due guerre costituisce al contrario uno stadio di regresso, in quanto l'affermazione delle ideologie nazionaliste accentua anacronisticamente il carattere autarchico e protezionista delle economie dei singoli paesi. Dagli anni '50 in poi, il processo, che ormai non incontra più ostacoli, subisce un'accelerazione ininterrotta, soprattutto negli anni '80 e '90, grazie alla diffusione di nuove e sempre più evolute tecnologie. Visco si sofferma dunque sull'analisi delle cause e degli effetti della globalizzazione. Prima causa può essere riconosciuta l'emigrazione, o lo spostamento della forza-lavoro. Particolarmente intensa agli albori del XX secolo, soprattutto quella che dai paesi europei si rivolge verso gli Stati Uniti d'America, e indotta dalle pessime condizioni economiche dei lavoratori, produce due effetti ben differenti e spesso opposti, nei Paesi in cui il flusso si origina e in quelli destinati a riceverlo: nel luogo di partenza la manodopera diminuisce bruscamente e con questa la concorrenza,di conseguenza aumentano i salari e migliorano le condizioni generali di chi resta;nel luogo di arrivo, al contrario, con la manodopera aumenta la concorrenza, risultando necessaria l'imposizione di un calmiere sull'eccessivo aumento dei salari:le disuguaglianze economiche risultano accentuate. L'economia statunitense è stata, anche ultimamente, influenzata dall'afflusso di manodopera (Melting Pot), con effetti positivi sull'inflazione. Visco individua nella liberalizzazione degli scambi, con il relativo abbattimento delle barriere doganali, un altro dei motivi fondanti della globalizzazione, per quanto essa risulti sfavorevole ai paesi in via di sviluppo che esportano materie prime a basso prezzo in cambio di manufatti. Per garantire a questi paesi uno sviluppo accettabile bisognerebbe accentuare gli scambi dei prodotti agricoli; d'altra parte il ruolo di egemoni è assicurato ai paesi più ricchi da un'economia fondata sullo sfruttamento delle risorse petrolifere, economia che essi tentano in ogni modo di conservare. Secondo il professore la globalizzazione non è un processo che tende ad accentuare le differenze fra gli Stati. Molti Paesi arretrati ne hanno tratto le mosse per intraprendere una crescita economica non indifferente, come ad esempio l'India, divenuta grande esportatrice di riso. Il problema maggiore è quello relativo all'integrazione di questi stati all'interno dell'economia mondiale. Non si può dubitare, secondo Visco, che la globalizzazione sia un processo positivo. Sono le modalità della sua attuazione a generare contraddizioni e incomprensioni fra gli stati. In realtà, punto di partenza deve essere la consapevolezza che l'economia mondiale ha un equilibrio multipolare, che per essere mantenuto ha bisogno di una politica lungimirante da parte delle classi dirigenti. Spesso queste, in seno alle grandi organizzazioni economiche internazionali, hanno accelerato in modo irresponsabile il processo, facendo apparire le stesse organizzazioni in una falsa luce negativa. Grazie all'efficienza della sua classe dirigente, la Malesia è

riuscita a superare brillantemente la crisi finanziaria del '98, legata al Fondo Monetario, diversamente da quanto è avvenuto in Indonesia. L'Unione Europea costituisce, a detta di Visco, un esempio di globalizzazione virtuosa, e una delle poche risposte all'esigenza di trovare sedi adeguate in cui discutere il problema. La globalizzazione, responsabile, durante il secolo appena trascorso, dei due conflitti mondiali (in quanto indirettamente legata alla questione dell'apertura dell'economia), è oggi sospinta dall'evoluzione in senso positivo delle forme politiche occidentali, nonostante queste non lascino altra possibilità alle minoranze, come spesso avviene in Medio Oriente, se non quella di coltivare le proprie tendenze xenofobe, tramutandole in forme di fondamentalismo, condannabili quanto pericolose. La conferenza di Visco si conclude con l'”auspicio” che tutti possano sentirsi cittadini del mondo, scongiurando gli effetti negativi di qualsiasi posizione chiusa e autarchica (come era avvenuto nel periodo 1914-1950), e facendo in modo che, all'interno dei congressi, la rappresentanza di ogni singolo Stato corrisponda alla sua popolazione. In questo modo gli Stati economicamente più forti potranno consapevolmente assumersi maggiori responsabilità nel garantire la diffusione omogenea della globalizzazione e farvi fronte energicamente. Il professor Vincenzo Visco è apparso davvero molto brillante nell'affrontare la spinosa questione facendo risultare la sua spiegazione incisiva e di semplice comprensione. Ci ha colpiti il suo atteggiamento: quello dello studioso che ricerca le cause e indaga gli effetti, che imposta la propria lezione sul confronto dialettico dei punti di vista, anche di quelli apparentemente più distanti, garantendoci più di una chiave di lettura della questione e fornendoci una visione d'insieme senza dubbio molto più utile delle interpretazioni rigide o univoche che società e mass-media ci propongono. Non ha voluto assicurarci alcuna verità sull'argomento. Semplicemente spronarci all'analisi consapevole di un tema così attuale e di un termine così male utilizzato: globalizzazione. Spesso se ne fa un abuso: da un paio d'anni a questa parte, con il primo vertice del WTO, e ancor più di recente, con l'eco vastissima dei fatti di Genova e i tragici accadimenti di New York, questa parola ci rincorre e ci incalza. Eppure non esprime altro che l'esigenza di comprendere una tappa necessaria del progressivo evolversi della storia, un fenomeno di compenetrazione di sfera economica, politica, culturale, ecc. altrimenti difficilmente interpretabile. La globalizzazione non è un evento degli ultimi due anni. La sua piena affermazione risale forse a prima del crollo del Muro di Berlino. E lo studio, approfondito e flessibile, compiuto da Visco, è l'unico modo per pronunciare “globalizzazione” senza svuotare la parola del suo significato di evoluzione dell'economia in un contesto di rapporti sempre più fitti tra gli Stati. Elio B. Globalizzazione è un termine di origine anglosassone, che indica il processo di unificazione economica, culturale e politica, in atto a livello planetario. La globalizzazione è un fenomeno anzitutto economico, proiettato alla realizzazione di un mercato mondiale dei capitali, che dà adito a decisioni strategiche delle imprese, svincolate da una base territoriale, e giustificate da una strategia produttiva in funzione dei costi di produzione relativi nei diversi paesi ( massimizzazione dei profitti ) e in vista di un prodotto da vendere nel maggior numero possibile di paesi.

In campo culturale, tale processo è caratterizzato dalla diffusione di una mentalità ultra-individualista sradicata dall'ambito territoriale, che rompe la struttura usuale delle società del XX secolo. In ambito politico sono state create organizzazioni internazionali, quali il World Trade Organization (WTO), Fondo Monetario Internazionale ( FMI), il G8. I cambiamenti della struttura economica, operati dalla globalizzazione, modificano i rapporti reali tra gli uomini: si originano così nuove visioni del mondo e sono necessari ordinamenti politico-giuridici, in grado di supportare il nuovo sistema economico. Gli aspetti economici legati alla globalizzazione sono stati oggetto della relazione tenuta dal professore Vincenzo Visco, Docente di Economia ed ex Ministro delle Finanze, e svoltasi il 17 gennaio 2002, presso l’aula Magna del Liceo “Orazio”. L’analisi del fenomeno “ globalizzazione “ si è articolata in una ricostruzione storica ed in un esame degli effetti sul sistema economico moderno. La globalizzazione è stata definita dal professor Visco come un processo di integrazione delle economie dei diversi paesi, reso possibile dallo sviluppo dei mezzi di trasporto, dal libero scambio e dalle moderne tecnologie. Le radici del fenomeno non sono da ricercarsi né nella politica espansionistica propria degli imperi, come quello Romano, né nella economia protocapitalistica europea del XV° secolo, che con i viaggi prima di Marco Polo e poi di Cristoforo Colombo si apriva a nuovi mercati. Infatti il processo di globalizzazione proprio degli imperi mancava di ogni carattere di spontaneità e nell’epoche di Marco Polo e Cristoforo Colombo gli scambi commerciali erano limitati a poche merci. Gli albori della globalizzazione risalgono al periodo successivo alle guerre napoleoniche, allorché si verifica una convergenza dei prezzi, aumenta il flusso delle migrazioni e si afferma il moderno capitalismo a danno del modello protezionistico. Questa è la fase più intensa del processo sia in termini quantitativi, che qualitativi, destinata a durare fino allo scoppio del primo conflitto mondiale. L’integrazione dei mercati era a quel tempo superiore a quella, che si osserva nei nostri giorni. Nel periodo compreso tra il 1915 e gli anni ’50, il fenomeno subisce un rallentamento e talvolta persino un arretramento, a causa delle ideologie autarchiche e nazionalistiche, che si affermarono in tutto il mondo. Dagli anni ’50 fino agli anni ’80 il processo di globalizzazione riprende il suo cammino e si afferma definitivamente, grazie alle nuove tecnologie, che svolgono il ruolo di traino dei mercati. Il professore Visco, terminata la ricostruzione storica, ha preso in esame gli effetti della globalizzazione, che riguardano l’essenza stessa del processo: lo scambio e la localizzazione di uomini, risorse e capitali al di là delle nazioni. A partire dalla seconda metà dell’ottocento si intensificarono i flussi migratori da paesi quali l’Italia, la Norvegia, l’Irlanda, la Svezia verso regioni più ricche, in primo luogo gli USA. A muoversi dai paesi di origine sono i ceti poveri, motivati da necessità di sopravvivenza; il processo è traumatico soprattutto per la prima generazione di emigranti. La libertà di movimento consente lo spostamento di manodopera da zone povere verso aree più ricche: nei luoghi di partenza la condizione di sovrappopolamento rispetto alle risorse viene meno e si rende possibile un innalzamento dei salari; nei paesi di arrivo si presenta una situazione diametralmente opposta, i salari diminuiscono, sulla base del principio che l’offerta supera la domanda. Gli USA hanno dimostrato grande abilità nello sfruttare i flussi migratori, importando manodopera a basso prezzo; le disuguaglianze però aumentano, si creano contraddizioni e ingiustizie sociali e ricompaiono le rivendicazioni sindacali. Un secondo aspetto della globalizzazione coinvolge il sistema degli scambi commerciali

in una economia, che tende ad abolire le barriere doganali: l’export dei paesi in via di sviluppo (PVS) si basa essenzialmente su prodotti primari, mentre quello dei paesi ricchi su manufatti industriali.Un assetto economico di tale tipo, fondato sul libero scambio, avvantaggia naturalmente i paesi industrializzati, mentre mantiene in uno stato di arretratezza l’industria delle zone più povere, impossibilitate a servirsi delle proprie risorse, esportate continuamente a basso prezzo. Gli unici vantaggi, che derivano indirettamente ai PVS, risiedono nel potenziamento delle infrastrutture e della rete di trasporto. Il processo di globalizzazione, come prosegue il professore Visco, è contestato dal movimento “No Global”, caratterizzato da posizioni contrastanti al suo interno. La protesta, seppure utile nella critica agli aspetti negativi del fenomeno, si esprime talvolta con posizioni reazionarie: il signor Bovè, agricoltore francese, che sferra attacchi su attacchi alla multinazionale “Mc Donald”, non propone altro che un sistema economico protetto e rivela unicamente paura per l’introduzione sul mercato di prodotti stranieri concorrenziali. La globalizzazione è invece un fenomeno di natura positiva, di progresso e crescita economica per tutti i paesi coinvolti: le disuguaglianze tra i paesi, che aderiscono alla globalizzazione, tendono salvo rari casi a diminuire. I paesi, integrati nel processo, traggono grandi benefici, come l’India, che contrariamente alle previsioni del premio nobel Myrdall, autore del libro “Il dramma dell’Asia”, non solo non ha più bisogno degli aiuti umanitari, ma ora è in grado di sfamare la sua popolazione ed esporta riso da quindici anni. Durante la crisi dei mercati asiatici del ’98, la Malesia e l’Indonesia hanno reagito in maniera opposta alla recessione economica: la Malesia l’ha pienamente superata, grazie al supporto del FMI, mentre l’Indonesia, esclusa dai meccanismi della globalizzazione, è stata travolta dalla depressione economica. I paesi, esclusi dalla globalizzazione, sono quelli afflitti da guerre civili, quelli in cui si registra una mancanza di investimenti degli Stati ricchi, quelli governati da classi dirigenti corrotte o inette. I governanti dei paesi arabi si preoccupano di destinare i proventi della vendita del petrolio ad una cerchia ristretta di ricchi uomini di affari; l’Argentina è stata condotta nel baratro di una grave crisi economica, da una classe dirigente incapace di sfruttare le capacità e le risorse, di cui disponeva il paese: tutto è stato privatizzato, ma non si è affermato un sistema economico liberista e le imprese sono finite nelle mani dei monopolisti americani. Quindi la globalizzazione non è un fenomeno di per sé negativo, ma la modalità applicativa può presentare rischi e pericoli. I risultati dannosi si sono registrati soprattutto nei paesi coinvolti nel processo, ma non ancora pronti a sostenerne le conseguenze. Gli effetti negativi si possono ridurre, creando un assetto politico stabile, in grado di assicurare che il processo di integrazione delle economie avvenga in modo non traumatico e vantaggioso per tutti gli Stati. E’ necessaria la creazione di un organismo centrale, in cui la rappresentanza sia in funzione non solo del prodotto interno lordo, ma anche della popolazione; un esempio virtuoso in questo senso è l’Unione Europea. Le attuali organizzazioni, come il WTO, infatti favoriscono unicamente i paesi ricchi e non si curano, del fatto che talvolta in un paese, che si apre al processo di globalizzazione, l’importazione è molto favorita, mentre le condizioni di esportazione sono inaccettabili. Il professore affronta in conclusione il problema della sfruttamento minorile e della retribuzione nei PVS: i capitali, perseguendo sempre il profitto, cercano nuovi mercati e manodopera a costi più bassi. I salari, percepiti dai lavoratori nei PVS, è indubbio che siano inferiori a quelli dei lavoratori degli stati ricchi. Tuttavia tali salari sono più che sufficienti per gli standard di vita degli Stati poveri. Senza negare l’importanza e la necessità di maggiori tutele per prevenire lo sfruttamento minorile, il professore Visco sostiene che nei PVS, anche in

assenza delle multinazionali, i bambini comunque lavorerebbero, in quanto in tali paesi l’organizzazione familiare necessita del contributo economico di tutti i soggetti, in grado di lavorare. Il professor Visco si è dimostrato strenuo difensore della globalizzazione, cosiddetta buona, che avvantaggia sia gli Stati ricchi che quelli poveri, elimina le disuguaglianze e conduce verso il progresso. Il processo, come sostiene il professore, è inarrestabile: risultano anacronistiche le posizioni di chi propone un’economia protezionistica, in cui si creino aree omogenee di scambio ed i movimenti dei capitali siano limitati dall’introduzione di nuove tasse, come la Tobin Tax.Un assetto di tal genere otterrebbe il risultato di isolare le aree più povere, che potrebbero commerciare quasi unicamente con zone altrettanto povere. Lo sviluppo dell’industria, nonostante la disponibilità di materie prime, sarebbe frenato dalla mancanza di un necessario capitale di investimento iniziale; neppure l’industria dei paesi ricchi ne trarrebbe benefici, ma si troverebbe senza prodotti primari da lavorare. Ovviamente disuguaglianze e contrasti bellici non diminuirebbero. Piuttosto, come sostiene il professor Visco, si rende sempre più urgente e necessaria la presenza di una sovrastruttura politico-giuridica, che regoli la globalizzazione e strappi il ruolo di gestori unici dell’economia mondiale ad alcuni particolari gruppi d’interesse, ed in particolare a quello che Joseph E. Stiglitz, ex Senior Vice President della Banca Mondiale e professore di Economia a Princeton, chiama nel suo libro “In un mondo imperfetto” G1, ossia gli USA. Il nuovo ordinamento dovrà tener conto delle diversità culturali e sociali dei vari paesi e le dovrà valorizzare, anziché sopprimere. Giudicare le differenze come fattore positivo di crescita ed arricchimento per tutti non può tradursi, però, in un giustificazionismo dell’opera delle multinazionali nei PVS. I lavoratori devono essere garantiti in modo uguale in tutto il mondo: diritti e retribuzioni sono da regolarsi approssimativamente in base ad un unico metro di misura. I redditi costituiscono infatti il mezzo più rapido ed efficace per diffondere maggiore benessere tra quel 45% della popolazione mondiale, che controlla però solo il 10% delle spese e il 17,3% della ricchezza del globo. Solo in questo modo si darebbe a tutte le nazioni la possibilità di acquistare beni, per ora alla sola portata dei paesi ricchi, e di costituire, tramite il risparmio, propri capitali da investire. Lo sfruttamento minorile non si può giustificare, è inaccettabile in ogni sua forma. Nei paesi poveri, sembra sostenere il professor Visco, le multinazionali distruggono culture, impongono nuovi valori, quali il libero scambio, la sfrenata concorrenza ed un individualismo esasperato, e rispettano solo le usanze locali in fatto di impiego di manodopera minorile, a cui si piegano di malavoglia. La globalizzazione deve essere rispettosa verso idee diverse, ma il suo primo compito è diffondere progresso e civiltà. Clodomiro C. Negli ultimi anni si è verificata una progressiva presa di coscienza da parte dell'opinione pubblica di tutti i Paesi occidentali riguardo alle problematiche sollevate dal processo di globalizzazione. La prima e più evidente espressione delle preoccupazioni suscitate dagli aspetti negativi di questo processo è avvenuta durante lo svolgimento del terzo vertice del WTO, tenutosi a Seattle nel 1999. In tale occasione si radunarono inaspettatamente migliaia di

manifestanti, organizzati tramite internet, per protestare contro i nuovi accordi sul commercio mondiale. Le manifestazioni causarono il parziale fallimento dl vertice. Si è così aperto un acceso confronto tra i contestatori della globalizzazione ed i politici ed economisti che pongono invece l'accento sugli aspetti positivi del fenomeno. Poichè la globalizzazione comporta mutamenti in numerosi ambiti (economico, politico, sociale), si è cominciato ad analizzarli con il professor Visco dal punto di vista economico, poichè esso rappresenta il motore principale del processo. La globalizzazione è un processo di integrazione e compenetrazione delle economie di vari Paesi per mezzo di scambi commerciali, spostamenti di uomini, investimenti e con l'uso delle tecnologie che rendono possibile tutto ciò. Essa è un processo vitale di crescita, non nuovo nella storia dell'umanità. Ne sono già esempio, se pure parziale, l'Impero Romano (dove il processo però non era spontaneo) e l'apertura di nuove vie commerciali all'inizio dell'era moderna (limitata al solo commercio di pochi prodotti). La vera globalizzazione avviene dall'Ottocento, con lo sviluppo del capitalismo moderno e lo smantellamento del sistema mercantilistico e protezionistico. Fino alla prima guerra mondiale si verifica la fase più intensa del processo, dal punto di vista qualitativo e quantitativo. Da allora fino agli anni Cinquanta si entra in una fase protezionistica, autarchica, con una stasi o addirittura regresso del processo economico, a causa soprattutto delle scelte nazionalistiche da parte dei vari Paesi. Dagli anni Cinquanta in poi (con il culmine negli ultimi decenni) le nuove tecnologie hanno trainato l'accelerazione del processo, con un conseguente enorme progresso economico. Tra gli effetti principali della globalizzazione ci sono l'emigrazione e la liberalizzazione degli scambi. Lo spostamento di masse umane, spinte dalla fame e soggette ad affrontare un trauma anche culturale, porta benefici nel Paese di partenza, dove l'iniziale eccesso di manodopera si riduce, con un conseguente aumento dei salari e una diminuzione delle disuguaglianze. Nel Paese di arrivo, invece, i salari diminuiscono e la disuguaglianza sociale aumenta. Ad esempio gli U.S.A. hanno basato il progresso economico degli ultimi decenni sul forte aumento della popolazione e l'uso, quindi, di manodopera a basso costo. Ciò ha causato però la nascita di contrasti sociali, espressi nel rafforzamento dei sindacati, che attualmente si trovano su posizioni antiglobal. L'abbattimento delle barriere doganali danneggia invece i Paesi poveri (che esportano materie prime) a vantaggio dei Paesi ricchi (che esportano prodotti ad alta tecnologia). Se non esistessero interessi contrastanti la liberalizzazione dei commerci e la diminuzione del costo dei trasporti beneficerebbe tutti. In realtà non è così. Ad esempio per aiutare l'Africa bisognerebbe liberalizzare gli scambi agricoli, ma è forte l'opposizione degli agricoltori europei, che ora godono degli effetti della politica protezionistica praticata dall'Unione Europea. Per questo gran parte del movimento antiglobal europeo è costituito dagli agricoltori francesi (capeggiati da Bovè). La globalizzazione provoca una diminuzione delle disuguaglianze tra i Paesi integrati nel processo, mentre causa un sempre maggiore distacco tra questi e i Paesi che restano isolati.

Esempio di una globalizzazione positiva è l'India, che ha superato la situazione disastrosa in cui si trovava trent'anni fa grazie all'esportazione del riso. La globalizzazione non è di per sè discriminante, l'esclusione di alcuni Paesi è dovuta a loro problemi interni (guerre civili, classi dirigenti incapaci). Ad esempio i Paesi Arabi non traggono benefici dall'esportazione di petrolio perchè i suoi proventi vanno a vantaggio esclusivo delle classi dirigenti e non della popolazione. Il processo di globalizzazione è in sè positivo (porta maggior progresso, più civiltà). Il problema è come esso debba essere attuato. Sono necessarie classi dirigenti adeguate. In Argentina i problemi economici sono stati causati dall'incapacità delle classi dirigenti di sfruttare le risorse locali. Esse hanno privatizzato, ma non liberalizzato l'economia, così che le imprese si trovano in mano a monopolisti stranieri. Sono necessari assetti politici più evoluti, come in Europa, dove i regimi democratici hanno proceduto sulla strada della condivisione delle risorse (nonostante l'opposizione di alcuni fondamentalismi localistici, simili al fondamentalismo arabo). E' necessaria una maggiore consapevolezza, per evitare posizioni radicali che porterebbero a soluzioni peggiori di quelle attuali. la globalizzazione è attuata attraverso gli strumenti degli organi internazionali, che sono spesso accusati di non democraticità. In realtà, poichè essi (in particolare il FMI) sono costituti da banche e società, devono necessariamente tenenre in maggiore considerazione i Paesi più ricchi. Per quanto riguarda la rappresentanza dei vari Paesi, essa dovrebbe essere basata sia sulla ricchezza (con un vantaggio dei paesi occidentali) sia sulla popolazione 8con vantaggi per i Paesi ad alto sviluppo demografico). Giulia G. Globalizzazione è una realtà concretizzatasi sotto i nostri occhi, in un processo incalzante e, a detta dei più, inarrestabile, durante gli ultimi decenni del „secolo breve“. Tuttavia questo magnifico gigante economico-politico è, per così dire, entrato a far parte del nostro quotidiano soltanto da pochi anni, cioè l'argomento globalizzazione è oggetto prediletto di dibattiti ad ogni livello culturale approssimativamente dalla prima riunione del WTO, a Seattle, quasi tre anni fa. In realtà non si parla d'altro da qualche mese a questa parte, in seguito alla riunione a Genova dei “Grandi Otto”, e, soprattutto all'attentato dell'11 settembre, di cui numerosi opinionisti e politici considerano la globalizzazione una fra le maggiori cause. Il fenomeno è in questi tempi di massima attualità, ma gli addetti ai lavori - e non solo - lo conoscono almeno dalla metà degli anni Ottanta, con la fortunata ascesa delle multinazionali e lo sviluppo della tanto declamata “New Economy”. Già l'enciclica del '91 “Centesimus annus” ne parla, e il processo economico legato alla globalizzazione diventa evidente negli anni '90: l'impresa internazionale è il cardine di questo nuovo sistema.

Ma cos'è in realtà la globalizzazione? Quali sono le sue basi storiche? Quali le sue prospettive? A queste domande ha risposto il prof. Visco, già ministro del tesoro nel passato governo, ospite nel nostro Liceo in data 17 gennaio 2002. Questi in primis ci offre la sua definizione di globalizzazione: essa non è altro che un processo di integrazione e compenetrazione dei Paesi prima separati. Ciò grazie alle vie sempre più aperte degli scambi commerciali, alla possibilità di investimenti in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi momento, e all'alto livello della tecnologia moderna. A suo avviso esso non è sicuramente un processo nuovo, avendo già la globalizzazione le primitive radici in una sua forma non spontanea, l'imperialismo, il quale causa infatti per definizione l'egemonia di uno o pochi Stati sul mondo. Il prodromo di un cambiamento successivo - l'opportunità di lavoro in altri Stati per gli emigrati - risale già all'epoca di Marco Polo e Colombo. Le vere radici dell'attuale sistema economico appartengono a una fase fra il periodo successivo a Napoleone e la Prima Guerra. Fra i due conflitti poi c'è un forte arretramento in senso globale, dovuto al protezionismo,all'autarchia, per cui anche l'innovazione tecnologica sembra statica e non adeguatamente sfruttata. Fra i problemi legati alla globalizzazione c'è quello della forza-lavoro. Ad esempio nell''800, permesso da mancanza d'impedimenti doganali, si verifica un fenomeno di emigrazione di Europei verso l'America. Queste genti, mosse dalla fame vivono drammaticamente la globalizzazione, a causa di problemi di adattamento, essendo tuttavia spinti a cercarla. Questo comporta che nelle regioni di partenza viene a mancare la manodopera con conseguente aumento di salari per chi rimane in patria, mentre nei Paesi di arrivo avviene il contrario: gli immigrati si accontentano di basse paghe e i salari, a causa della grande richiesta di lavoro, scendono. Sicché se nei primi Paesi vi è una riduzione di disuguaglianze a livello sociale, nei secondi il fenomeno - ancora ai primordi - della globalizzazione accentua il divario economico. Negli USA durante gli ultimi anni la popolazione è aumentata del 15%, tuttavia grazie alle grandi capacità di accoglienza proprie del popolo americano ( e tipiche di una società “melting pot”) e alla mentalità globale, lo sviluppo in senso civile ed economico ha portato a condizione di piena occupazione, manodopera a basso prezzo e dinamismo imprenditoriale, con la ricomparsa dei sindacati. La globalizzazione è fortemente legata naturalmente alla liberalizzazione dello scambio delle merci, a sua volta determinata dalla diminuzione di dogane e blocchi. Per questo la globalizzazione è sfavorevole per i Paesi in via di sviluppo, che necessitano di un potenziamento dell'economia interna, quando invece sono proprio i Paesi poveri a offrire le materie prime alle industrie occidentali. È la questione della liberalizzazione del petrolio, i cui produttori si organizzano nell'OPEC legittimando i loro interessi liberali ai danni dei Pesi arabi da cui proviene l'oro nero. È interessante considerare che in America fra i No global si schierano anche i sindacati, avversi al modo di produzione di multinazionali che - come ad esempio Mc Donald's - offrono a basso prezzo screditando la concorrenza e sottopagando i lavoratori. In un quadro generale la globalizzazione risulta comunque un sistema positivo, ad avviso di Visco, sebbene egli noti una fondamentale contraddizione nei suoi effetti: oggi esso ha portato ad un livellamento socio-economico nei Paesi sviluppati (elemento positivo), ma ha causato un aumento della diseguaglianza economica tra le varie nazioni

(elemento negativo). Tuttavia vi sono alcuni Paesi in corsa verso la globalizzazione, ad esempio Cina, India, i quali fino agli anni '30 soffrivano di gravi crisi economiche, ma ora sono i più grandi esportatori di riso nel mondo. Vi sono invece altre realtà, come quelle arabe, che sono fuori dal processo, a causa delle guerre civili e della corruzione dei potenti: in Medio Oriente (ed anche in molte zone dell'Africa) le caste nobili al potere sono ricchissime, mentre la popolazione muore di fame. La globalizzazione, frutto di civiltà e progresso, non deve conformarsi come il dominio di poche potenze, ma come un equilibrio dato dalla partecipazione di tutti. È sbagliato considerare a prescindere le organizzazioni internazionali la riunione di tiranni che indirizzano a proprio favore le sorti del mondo intero. Certo, nota Visco, oggi manca il luogo dove discutere e affrontare i problemi delle nazioni più povere, solo l'UE sembra sensibile alle questioni di equilibrio e ben sviluppata in senso globale. Al fine di una globalizzazione buona si dovrebbero ricreare le condizioni, nei Paesi arretrati, per degli assetti politici più evoluti. In realtà, anche per motivi culturali e tradizionali, alcuni Paesi rifiutano la globalizzazione in virtù di ragioni di identità etnica, religiosa e ideologica (un esempio c'è anche in ambito europeo, si veda il Norditalia e il Centro-Austria, zone conservatrici e anti-progresso per tradizione). Il prof. Visco confida nei tempi, poiché oggi vi sono tutti quegli antidoti contro i conflitti economici che dilaniarono il mondo delle due guerre: oggi trionfano la democrazia e la consapevolezza. Considerando come le disuguaglianze globali siano aumentate fra il '14 e il '50, il professore augura una sempre più grande consapevolezza di essere cittadini del mondo, ora più che mai. Ad esempio, bisogna sicuramente superare questa fase di inadeguata rappresentanza nei vertici economici mondiali. Infatti è sconveniente che un Paese come il Lussemburgo a livello di rappresentanza (che non corrisponde alla popolazione) valga quanto l'Italia. Ancora più sconcertante appare la situazione quando si considera la Cina, superiore in quanto a densità all'intera Europa, la quale però ha il maggior ruolo all'interno dei congressi, insieme agli USA. Un vertice di otto persone è sicuramente utile, ma troppo esclusivo: bisogna abbattere la mentalità che porta a considerare solo i propri interessi, e vuole ignorare le catastrofiche condizioni altrui (o piuttosto sfruttarle a proprio vantaggio!). Da come il prof. Visco risponde alle domande degli studenti, si evince che egli confida nella “buona globalizzazione”, e che comunque riconosce al movimento No global perlomeno la capacità di sensibilizzare l'opinione pubblica agli effetti collaterali della globalizzazione, o agli aspetti negativi di essa, che devono essere coerentemente corretti in nome di una quanto più possibile equilibrata distribuzione economica mondiale. La globalizzazione, oltre ad essere segno di progresso, è anche inevitabile - un dato di fatto - e costituisce la più efficiente forma di economia di mercato; però questo sistema non deve cadere nelle mani di chi lo voglia sfruttare a vantaggio dei pochi: la migliore espressione della globalizzazione confida nelle sue fondamentali componenti di evoluzione tecnologica e di portata planetaria. Francesco S. Relazioni sulla conferenza del prof. Pietro Rescigno

La seconda conferenza tenutasi al liceo Orazio sul tema della globalizzazione ha come ospite il professor Pietro Rescigno, Decano della facoltà di Giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma e insignito del titolo di "Accademico dei Lincei" nonché personalità di fama internazionale; le sue opere sono conosciute e tradotte in tutta Europa. Apre la conferenza la professoressa Licia Fierro, organizzatrice degli incontri, che introduce la figura dell'eminente ospite sottolineando l'influenza che i saggi del professore hanno avuto nello studio del complesso rapporto tra "cittadino e collettività". Infatti il prof. Rescigno ha studiato il Diritto non nei suoi aspetti sovrastrutturali secondo una metodologia positivista, bensì inserendoli in un contesto sociale, e ciò giustifica la sua presenza nel dibattito sulla globalizzazione Dopo la premessa introduttiva il professor Rescigno prende la parola ed illustra il percorso della sua conferenza: come primo punto si soffermerà sul concetto di Stato, inteso nella concezione classica di Stato/Nazione, ed il rapporto tra questi e le comunità minoritarie e quelle sovranazionali; successivamente affronterà il rapporto tra Stato e cittadino e tra Stato e Stato; infine, entrando sul terreno strettamente giuridico, illustrerà le difficoltà nel conciliare leggi nazionali con leggi comunitarie e sovranazionali. Il professor Rescigno entra nel vivo del discorso: per prima cosa bisogna rendersi conto che il fenomeno della globalizzazione è molto complesso ed è l'esempio lampante dell'interazione tra politica ed economia delle varie nazioni. Questa interazione spesso influenza la stessa legislazione dei singoli Stati: ciò si esplica, a livello legislativo, nel cosiddetto "Diritto Internazionale Privato" che, applicato ad ogni Stato di diritto, definisce le fondamentali libertà del cittadino (occidentale). Invece il "Diritto Internazionale Pubblico" è l'insieme di accordi tra le Nazioni e costituisce il simbolo di una evoluzione nei rapporti tra grandi potenze e paesi più deboli. La globalizzazione, ossia quel processo di integrazione dell'economia dei diversi paesi che si realizza nell'interscambio commerciale, ma anche culturale, sta cambiando il modo di vedere lo Stato: alla vecchia concezione di "Stato apparato", come organizzazione perlopiù amministrativa, va sostituendosi l'idea di Nazione come insieme di comunità etniche, religiose, regionali, ecc. L'affermazione di un tale cambiamento porterebbe ad una società/stato realmente pluralista dove la diversità dovrebbe essere accettata e rispettata. In un contesto molto differenziato è fondamentale che nessuna parte prevalga su un'altra (ad esempio una singola comunità etnica che eserciti il dominio politico sulle altre) e che lo Stato sia governato in maniera realmente democratica. Questa forma di democrazia, a cui i paesi moderni ambiscono, è basata sull'idea di un "contratto" tra il singolo e la comunità: il cittadino si uniforma alle regole che lo Stato impone e lo Stato si impegna a garantire al cittadino libertà e tutela di alcuni basilari diritti. In altre parole, il cittadino è tutelato dai soprusi (dello Stato e del privato) ed è libero di agire entro i limiti previsti dalle leggi. E' difficile che le leggi nazionali possano operare in un contesto economico/sociale che vede la progressiva scomparsa delle realtà territoriali a favore di un mondo telematico in cui, sempre più spesso, si intrattengono rapporti commerciali tra persone di diverse

nazionalità. Il mondo di Internet, massimo esempio di commercio telematico, non può essere sottoposto alle leggi nazionali perché ogni provvedimento legislativo preso da un singolo stato andrebbe ad interferire con le leggi cui è sottoposto il cittadino di un altro Stato. L'unica legge che può vigere nella new economy è, quindi, la "Lex Mercatoria", la legge di mercato, che non è applicata da alcun codice sovranazionale ma è conosciuta ed amministrata da giudici al servizio di enti privati. La Lex Mercatoria, "gestita" da compagnie private, rischia, perciò, di divenire un mezzo per la promulgazione di norme a favore dei potenti. "Ciò non significa che la legge verrà fatta dai mercanti" chiarisce il professor Rescigno "ma questa potrebbe costituire una tentazione per distruggere le leggi civili, in favore della legge delle multinazionali". L'ingerenza delle grandi compagnie commerciali in campo politico è già evidente nei paesi del terzo mondo che "sottoposti a una sorta di usura" sono costretti ad indebitarsi verso le multinazionali e gli stati occidentali in maniera così ingiusta che in alcuni casi la somma dell'interesse è arrivata a superare quella del debito. Alcune di queste nazioni si trovano nell'assoluta impossibilità di fronteggiare il passivo che si autoalimenta nel circolo vizioso dell'interesse e questo dovrebbe legittimarne l'annullamento secondo la "regola della liberazione del debito o della riduzione del carico". In conclusione il professore spiega che a suo parere "i diritti internazionali non devono essere né un compromesso tra i vari diritti nazionali, né un'unione di principi antichi consolidati in ogni nazione", ma un insieme di leggi democratiche che possano avere una reale utilità nell'amministrazione della complessa realtà politica, economica e sociale che la globalizzazione ha determinato. Al termine della conferenza è seguito un breve dibattito (la prospettiva giuridica con cui è stato affrontato il tema ha un po’ frenato le domande degli studenti) dove il professor Rescigno ha avuto modo di chiarire autorevolmente alcuni aspetti delle leggi che codificano i rapporti socio-economici tra le nazioni. Alessandro S. Relazioni sulla conferenza del dottor Vittorio Agnoletto

Dopo la conferenza del prof. Visco, che ha analizzato il fenomeno della globalizzazione sotto l'aspetto economico, ed il successivo intervento del prof. Rescigno che ha approfondito l'argomento alla luce delle complesse tematiche del diritto, il Liceo Orazio ospita il dott. Agnoletto che affronta il tema della globalizzazione dal punto di vista politico-sociale. Come nelle precedenti occasioni la prof,ssa Fierro apre la conferenza con un discorso introduttivo in cui presenta l'ospite, accennando anche a come sia stato difficile riuscire a contattare il dott. Agnoletto, attuale leader del movimento italiano NO GLOBAL, che è

impegnato a tempo pieno nelle attività di coordinamento. La prof.ssa Fierro propone alcune domande che saranno un po’ la chiave del dibattito: i No Global hanno saputo tradurre a livello politico le proprie istanze? e quali sono i rapporti tra il movimento e le forze politiche? Il dr. Agnoletto inizia il suo intervento spiegando che il movimento No Global italiano è prevalentemente costituito da un insieme di organizzazioni sociali e umanitarie che nel loro operare sono venute a scontrarsi con organizzazioni di commercio internazionale che ne ostacolavano la attività. La sua storia personale è paradigma di come si sia formato il movimento in Italia: dopo essere stato medico del lavoro, Agnoletto fonda la L.I.L.A. (associazione in difesa dei diritti dei sieropositivi) e svolge per 15 anni un lavoro di ricerca sociale sul problema dell'AIDS nei paesi del terzo mondo. In questa nuova realtà scopre che su 40 milioni di malati nel mondo solo il 5% ha la possibilità economica di acquistare i farmaci necessari perché il W.T.O. (world trade organization) impone il rispetto delle leggi sul brevetto vietandone la produzione nazionale. Si determina, dunque, una condizione di monopolio che consente alle case farmaceutiche di mantenere il prezzo dei farmaci superiore di 30 - 50 volte rispetto al costo di produzione; questo regime di monopolio, dove il prezzo di alcuni medicinali vitali (come gli inibitori di protease) viene fissato arbitrariamente, è legalizzato dal WTO. Il WTO non è un organo elettivo, né tantomeno una struttura formata da un comune accordo tra nazioni, sul tipo dell'ONU, ma una sorta di società per azioni creata dai grandi trust (quindi un ente privato) che ha il potere di legiferare in campo internazionale in materia economica. Il dr. Agnoletto chiarisce che proprio a seguito di queste considerazioni fu deciso di aderire, con la L.I.L.A., al movimento No Global. Pare incredibile che la vita "biologica" di milioni di individui dipenda da un ente internazionale, ma è così: nel 1997 Mandela, facendo appello agli accordi TRIPS (secondo cui una nazione povera in stato di epidemia può produrre autonomamente farmaci) chiese per il Sud Africa la possibilità di avviare localmente una produzione di farmaci anti AIDS, ma 37 multinazionali farmaceutiche bloccarono per 2 anni e mezzo la richiesta di Mandela, che poi fu imposta dall'ONU, provocando nel frattempo la morte di milioni di persone. E' evidente, quindi, che un tipo di legiferazione mercantilista come quella del WTO non è atta ad amministrare i problemi di tipo sociale perché l'unico fine di tale organo è quello di garantire un saggio di profitto alto e costante alle multinazionali, a qualsiasi costo. "Un nuovo tipo di "amministrazione" dei problemi mondiali, dunque, non è semplicemente auspicabile, ma necessaria per la sopravvivenza del mondo (e non si esagera; si pensi soltanto a cosa succederebbe in caso di un'epidemia mondiale). Alcuni economisti pretendono di dimostrare che una globalizzazione di questo tipo

favorisce tutti i paesi che ne fanno parte, non solo i paesi ricchi; evidenziano come il PIL dei paesi globalizzati aumenti costantemente. Tuttavia, spiega Agnoletto, il PIL non indica in alcun modo la distribuzione dei redditi (che diviene, invece, di anno in anno più disparitaria), ma soltanto il "guadagno" totale della nazione. Inoltre il divario economico tra stati è troppo ampio (si pensi che un quarto delle spese militari annue degli USA garantirebbero servizi sanitari, cibo ed un'abitazione per ogni abitante del pianeta). Non sembra che gli stati più potenti siano interessati a colmare questo gap economico nei confronti degli stati più poveri, alla luce di normative che ne svantaggiano lo sviluppo produttivo. E' lampante il caso dell'Argentina per capire come i "consigli" del WTO possano essere devastanti: infatti la politica economica del paese è stata determinata dalla totale adesione del governo al piano di risanamento economico preparato dal WTO che prevedeva un'apertura totale delle importazioni Argentine all'estero e, guarda caso, la chiusura delle esportazioni verso gli USA e la CEE, nonché la cessione di monopoli a multinazionali americane ed europee. Risultato: tracollo economico inarrestabile. E' inaccettabile, quindi, che gli stati più ricchi si chiudano in una sorta di torre d'avorio e che, per mantenere una posizione di supremazia, si adoperino addirittura per bloccare lo sviluppo del terzo mondo. E' Infatti ovvio che prima o poi l'eco, o il rombo, dei problemi di quest'ultimo giungeranno fino a noi (com'è purtroppo accaduto l'11 settembre). Dunque ciò che i No Global vogliono, chiarisce Agnoletto, non è l'arrestarsi del processo di globalizzazione né "l'instaurarsi di una logica di solidarietà, ma l'affermarsi di una reale giustizia, perché se non c'è giustizia, le opere di bene servono solo a mascherare le ingiustizie". Il dr. Agnoletto conclude il suo intervento ribadendo che il movimento si batte fondamentalmente per distruggere le ingiustizie sociali e non per abbattere in toto il sistema capitalistico. Ciò che va fermato, infatti, è il capitalismo sfrontato, senza regole nè limiti, in nome del quale un'oligarchia di multinazionali controlla il mondo senza farsi scrupolo delle conseguenze che alcune scelte possono avere sulle persone. Alessandro S.

Relazioni sulla conferenza del prof. Pierluigi Ciocca

La conferenza di chiusura di questo ciclo sulla globalizzazione, iniziato da Visco, viene tenuta nell’aula magna del liceo classico Orazio da P. Ciocca, il quale, nel discorso di apertura della professoressa Fierro, viene presentato come un ospite davvero importante non solo per l’incarico prestigioso che egli ricopre come vicedirettore generale della banca d’Italia, ma anche perché la sua cultura e la sua formazione umanistica ne fanno un tecnico sui generis.

I temi della globalizzazione saranno perciò affrontati in una dimensione storico-istituzionale con la competenza di chi decide per noi a livello internazionale. Nell’ incipit della sua relazione il dottor Ciocca analizza l’andamento dell’economia mondiale prendendo in esame un arco di tempo che va dalla rivoluzione industriale, cioè da quando, con la teoria del lavoro inteso come oggetto di scambio già enunciata da Smith, fondatore della scuola economica classica, si sancisce il passaggio da economia di mercato a economia capitalistica, fino ai giorni nostri. I criteri di giudizio per valutare il risultato di tale forma di economia si possono ridurre a quattro. Il primo criterio chiamato “del reddito” si basa sulla capacità di produrre ricchezza: solo a partire dall’ottocento il reddito pro-capite, fino a quel momento statico, comincia una crescita che accelera fino a valori molto alti. Nell’ottocento la popolazione mondiale era di circa un miliardo di persone e il reddito medio dei cittadini corrispondeva a 600 dollari di oggi. Negli ultimi anni, mentre la popolazione mondiale è cresciuta arrivando a sei miliardi di persone, il reddito medio è salito a cinquemila dollari. E’ chiaro che questi dati numerici dimostrano che la ricchezza, seppur con qualche oscillazione è aumentata notevolmente. Il secondo criterio che viene definito “della stabilità” tiene in considerazione i due fenomeni che daneggiano l’economia: quello dell’inflazione e quello della disoccupazione. Il primo, pur avvantaggiando qualcuno -i più ricchi- svantaggia chi vive di reddito fisso, mentre il secondo crea vaste aree di povertà. Nell’ultimo secolo ci sono stati lunghi periodi di crisi, soprattutto tra le due guerre mondiali quando in uno stato come la Germania era disoccupato un lavoratore su due e l’instabilità dei prezzi causava la diminuzione del reddito. Oggi invece, in un paese come l’ Italia, i prezzi sono sostanzialmente stabili e c’è pieno impiego, anche se, occorre precisare, limitato ad alcune regioni come l’Alto Adige. Una cattiva distribuzione di questo tipo all’interno di una nazione ci porta ad esaminare il terzo criterio che è quello detto della “distribuzione del reddito” il cui caso limite è quando il reddito di un’intera nazione è nelle mani di un unico individuo. Purtroppo questa tendenza si è verificata spesso negli ultimi duecento anni quando –il riferimento è chiaramente alla globalizzazione- la distribuzione è diventata sempre più sperequata, anche in Cina e in Unione Sovietica dove i tentativi adottati per evitare che la distribuzione del reddito peggiorasse sono stati vani. Per evitare che ci siano troppe differenziazioni tra una regione economica e l’altra, occorre analizzare le ragioni di successo di alcune e di insuccesso di altre. E’ nell’ analizzare tali ragioni per cercare di stabilizzare l’economia che consiste il quarto criterio o “della governabilità” che consiste nel nel tentativo di regolare, di “domare” un sistema economico complesso come quello capitalistico. Certamente tale sistema ha migliorato le condizioni di vita di molte persone ma ha lasciato ugualmente delle punte di disoccupazione e di instabilità nei prezzi. Di fronte a questi risultati è possibili assumere tre posizioni diverse.

La prima posizione “neoliberista” è decisamente ottimistica e tende ad accettare l’evoluzione naturale del sistema economico capitalista. La seconda, fermamente opposta alla prima, “rivoluzionaria”, è propria di chi non accetta molti degli aspetti di tale sistema e intende cambiarli. La terza posizione è di tipo “riformista” e si prefigge di correggere quegli aspetti considerati negativi e di valorizzare quelli invece positivi. Nella seconda corrente di pensiero individuata da Ciocca possiamo ritrovare il tentativo di Agnoletto, leader del movimento no-global e anch’egli ospite del liceo Orazio per la terza delle conferenze sulla globalizzazione, di rivoluzionare tutto il sistema economico in modo da ottenere una maggiore e più equiparata distribuzione della ricchezza: anche se in un paese il PIL aumenta grazie agli effetti della globalizzazione, in realtà chi si arricchisce non è l’intera popolazione ma un gruppo ristretto. Più moderato e quindi riconducibile alla terza corrente è il pensiero di Visco il quale, pur riconoscendo che la globalizazione peggiora la distribuzione dei redditi, non la ritiene direttamente responsabile delle disuguaglianze economiche. Queste ultime infatti derivano dall’economia degli stati che cambia in seguito alla globalizzazione, non direttamente da essa. Anche il Dott. Ciocca ravvisa, più che nella globalizzazione, nelle politiche economiche interne, dovute essenzialmente a fenomeni culturali propri di ciascun paese, la ragione del peggioramento della distribuzione personale dei redditi. Con il suo discorso Ciocca ha analizzato con estrema chiarezza i fenomeni economici riuscendo a dare una visione completa e schematica dell’andamento economico negli ultimi due secoli. Tuttavia, durante il dibattito aperto dopo la sua relazione, gli è stato obiettato di aver preso in esame soltanto il mondo economico capitalistico, non tenendo conto delle sperequazioni su larga scala, del fenomeno della globalizzazione e quindi dello sfruttamento del sud da parte del nord del mondo. In realtà, spiega Ciocca, senza rapporti fra le nazioni, quindi commercio con l’estero –perché solo di commercio si può parlare, visto che Globalizzazione è termine che non ha dignità analitica nella storia dell’economia- , non c’è sviluppo, ovvero nessun tipo di economia, capitalistica e non. Quello che si può discutere è il fenomeno, ben diverso dallo scambio di beni e servizi, dell’interscambio di capitale: è questo che danneggia l’economia, non il commercio al quale tutti gli stati devono la propria sopravvivenza. Chiara C. Il giorno 8 Aprile 2002, nell’aula magna del Liceo Classico Orazio si è tenuta una quarta ed ultima conferenza sul tema della globalizzazione e delle sue implicazioni economiche, sociali, giuridiche e politiche a livello nazionale e internazionale. Relatore è stato il dott. P.Ciocca, vicedirettore generale della banca d’Italia. La sua analisi è stata incentrata, in particolar modo, sull’andamento del sistema

economico capitalista, dall’Ottocento fino ai nostri giorni, alla luce di quattro criteri guida fondamentali: il reddito pro-capite, la stabilità di crescita, la distribuzione del reddito e della ricchezza ed infine la governabilità del sistema economico stesso. Il primo criterio esprime la capacità di un’economia di produrre ricchezza: a parità di condizioni e nel rispetto di fattori, come l’inquinamento, un’economia risulterà tanto più florida, quanti più beni e servizi produrrà in un’unità temporale. Il secondo termine di giudizio di un sistema produttivo è la sua tendenza a svilupparsi senza forti effetti oscillatori, quali la disoccupazione o l’inflazione. Il terzo criterio-guida costituisce un indice della distribuzione dei beni e dei servizi tra la popolazione tutta. Il quarto elemento di valutazione di un’economia è rappresentato dalla possibilità di apportarvi modifiche corretive. L’oggetto dell’esame critico, fondato su questi quattro criteri, è l’economia capitalista, a torto indicata con il termine di economia di mercato; se infatti il sistemo capitalistico nella forma moderna si configura nel ‘700, economie di mercato esistevano già all’epoca degli antichi Greci e Romani o durante il Quattrocento, all’interno delle realtà comunali italiane. Il capitalismo si contraddistingue per un’organizzazione preminentemente fondata sulle grandi imprese e sul ruolo del mercato, tanto che, persino il lavoro umano si trasforma in una merce di scambio, con un prezzo che si chiama salario o stipendio. Sulla base del primo criterio, l’economia capitalista è stata caratterizzata da un alto tasso di crescita. Duranta il periodo compreso tra il Quattrocento e l’Ottocento, la produzione mondiale appare sottoposta ad una fase di sviluppo molto lenta, quasi di ristagno e stasi, sebbene tuttavia i dati a disposizione degli studiosi siano incerti. A partire dal secolo XIX, invece il volume della crescita e della produzione è formidabile: agli inizi dell’Ottocento per una popolazione mondiale di un miliardo di persone il reddito medio pro-capite era paragonabile a seicento dollari di oggi, alla fine del millenio per una popolazione quintuplicata il reddito medio pro-capite è di circa cinquemila dollari. Per quanto riguarda il criterio della stabilità, il giudizio sul sistema capitalistico non può risultare totalmente positivo: fenomeni quali, l’inflazione, la deflazione e la disoccupazione hanno interessato vari Paesi e in molti momenti, nel corso della storia. Durante la prima guerra mondiale, ed in particolare durante la seconda, i mercati internazionali hanno registrato tendenze inflattive: aumento dei prezzi e calo del potere di acquisto di chi possedeva un salario fisso. Nella seconda metà dell’Ottocento e negli anni trenta si verificava un evento opposto, la deflazione: calo dei prezzi e arrichimento, questa volta, dei debitori. Un ulteriore elemento di instabilità, la disoccupazione, ha interessato le economie capitalistiche, con punte del 50% in Germania e del 30% negli Stati Uniti durante gli anni Venti; tuttavia, non si deve dimenticare che il capitalismo ha assicurato altrettante fasi di crescita, di prezzi stabili e di pieno impiego. Le economie capitalistiche si sono invece dimostrate fallimentari alla luce del terzo criterio, la distribuzione del reddito tra la popolazione. Per gidicare la capacità di un sistema produttivo di ripartire in modo equo la ricchezza sarà utile costruire una scala di riferimento: la situazione ideale consiste in quella, in cui il reddito che si produce ogni anno sia egualmente distribuito, cioè che ciascun cittadino, se si produca 100 di reddito e i cittadini siano 10, abbia un reddito di 10; attribuiamo a questa condizione il valore zero; naturalmente il caso opposto è quello in cui ad un solo cittadino vada tutto il reddito prodotto e gli altri 99 non percepiscano neanche un euro; a tale caso corrisponda il valore uno. La misura della disribuzione del reddito è passata da una

condizione vicina allo zero ai primi dell’Ottocento (anche se i dati statistici di riferimento siano molto dubbi), ad un valore intorno a 60 ai nostri giorni: alle soglie del XXI secolo il 5% della popolazione mondiale detiene un reddito pari a 114 volte quello del resto dell’umanità. Questo peggioramento è avvenuto in modo continuo e senza soluzione di continuità; neanche i sistemi socialisti in Russia ed in Cina sono stati in grado di arrestare tale processo. La sperequazione della ricchezza è dovuta a due fattori: il primo è legato al diverso grado di sviluppo tra le varie nazioni, il secondo alla disuguaglianza dei redditi tra i cittadini di uno stesso Stato. Infine per quanto riguarda il quarto ed ultimo criterio, quello della governabilità di un’economia, il capitalismo da un lato ha migliorato notevolmente le condizioni di vita dell’umanità, eliminando per miliardi di persone il problema della fame ed innalzando l’aspettativa media di vita, dall’altro lato ha comportato periodi di instabilità dei prezzi, disoccupazione ed un’inaccetabile sperequazione della ricchezza. Di fronti a simili risultati si possono assumere tre posizioni fondamentali: la prima di stampo liberista consiste nella difesa del sistema capitalista come la migliore forma economico-politica , mai realizzata fino ad ora dall’uomo; la seconda tende ad accentuare, invece, gli aspetti negativi del capitalismo e a proporre teorie utopistiche o rivoluzionarie; la terza posizione è di carattere riformistico, ed è propria di chi sappia valutare dell’attuale economia i lati negativi e quelli positivi e ritenga che si debbano corregerne i primi e valorizzarne i secondi. L’analisi del dott.Ciocca non si è soffermata sul problema della globalizzazione, in quanto esso non rappresenta, a suo giudizio, il nodo fondamentale dell’attuale economia: ad esempio, il peggioramento della distribuzione dei redditi è stato pesantemente influenzato, negli anni recenti, da eventi economici interni alle sole Cina ed India. In Cina infatti, le regioni meriidionali e costiere sono state protagoniste di uno grande sviluppo, mentre le regioni del Nord rimanevano in una condizione di arretratezza; tra i redditi dei Cinesi del Sud e i redditi dei Cinesi del Nord si è così aperto un abisso. Infine l’ultimo tema trattato è stato il ruolo fondamentale e necessario per lo sviluppo, che il commercio di beni e di servizi riveste in ogni economia; i tentativi di autarchia si sono sempre dimostrati fallimentari e lo stesso progresso economico dell’Italia si è fondato sull’importazione di materie prime, di cui la nostra penisola risulta carente, ed esportazione di manufatti e servizi. Dal commercio occorre distinguere poi i rapporti tra le nazioni. La parola globalizzazione, che peraltro non ha dignità storica in economia, tende, al contrario, a confondere il commercio ed i rapporti di subalternità di alcuni Paesi nei confronti di altri. La relazione del dott. Ciocca è stata inappuntabile nell’esame dell’economia capitalistica, per quantità di dati portati a conferma della sua tesi, per il rigore e la chiarezza nell’argomentazione. Del capitalismo egli ha saputo con estrema obiettività evidenziare gli aspetti positivi ed altrettanto quelli negativi, senza né esaltare i primi, né demonizzare i secondi. Il dott. Ciocca è un chiaro esponente di una posizione moderata- riformista nei confronti dell’attuale economia: è improrogabile, giustamente sostiene, la necessità di apportare riforme al sistema capitalistico, in modo da consentire una più equa distribuzione delle ricchezze tra la popolazione mondiale; tuttavia gli scambi commerciali, in sé e per sé, non devono essere additati come il reale problema della povertà del Terzo Mondo, né

risulta proponibile una loro soppressione: il protezionismo e l’autarchia danneggerebbero sia il Primo Mondo, che si ritroverebbe senza materie prime da lavorare, sia i Paesi in via di sviluppo, che, privi di capitali di investimento, rimarrebbero in una condizione di arretratezza. E’ indispensabile, invece, intervenire per quanto riguarda i rapporti tra i vari Paesi, con la creazione di un’adeguata sovrastruttura politico-economica, in grado di regolare lo sviluppo economico mondiale: è la stessa posizione assunta dal professor Visco e dal premio nobel Joseph E. Stiglitz. La relazione del dott.Ciocca si è dimostrata poco convincente unicamente in due punti: il termine globalizzazione è ovvio che non abbia una grande tradizione storica alle sue spalle, in quanto il fenomeno di unificazione economica, politica e culturale tra le varie nazioni è avvenuto, come sostiene il prof. Visco nel corso dei secoli e solo ai nostri giorni si presenta in forma compiuta;perché non si può utilizzare un un nuovo termine per indicare una nuova situazione storica? Infine il dott. Ciocca ha fato riferimento allo Young Development Index, una misura del reddito pro-capite, del livello di istruzione e dell’aspettativa di vita; questo indice si presenta molto meno sperequato tra i vari Paesi, di quanto sia il solo reddito. Pertanto, secondo il dott.Ciocca, le popolazioni del Monzambico avrebbero misteriosamente prospettive di istruzione 0e speranze di vita, poco inferiori a quelle degli abitanti del Primo Mondo (ma i bambini, sfruttati nelle imprese occidentali, trovano pure il tempo di studiare? E nel Terzo Mondo non si muore per malattie che da noi sono facilmente guaribili?). Per fortuna esistono gli indici, che rendono il mondo uguale e risolvono a tavolino tutti i problemi dell’uomo. Clodomiro C.