LA FORMAZIONE DELLE COMPETENZE IN TOSCANA Scuola … · 5 1. PRESENTAZIONE ED EXECUTIVE SUMMARY La...

84
LA FORMAZIONE DELLE COMPETENZE IN TOSCANA Scuola tecnico-professionale e sistema economico Firenze, Luglio 2014

Transcript of LA FORMAZIONE DELLE COMPETENZE IN TOSCANA Scuola … · 5 1. PRESENTAZIONE ED EXECUTIVE SUMMARY La...

1

LA FORMAZIONE DELLE COMPETENZE IN TOSCANA Scuola tecnico-professionale e sistema economico

Firenze, Luglio 2014

2

RICONOSCIMENTI Il lavoro, svolto nell’ambito dell’Area di ricerca dell’Irpet "Lavoro istruzione e Welfare", è stato coordinato da Enrico Conti e Gabriele Ballarino. Il testo è a cura di Gabriele Ballarino. Hanno partecipato: Silvia Duranti (Irpet), Valentina Patacchini (Irpet), Davide Burgalassi (Irpet), Maria Luisa Maitino (Irpet), Annalisa Giachi (PromoPa), e Giovanni Maltinti (PromoPa). L'indagine alle scuole è stata realizzata da PromoPa e Simurg Ricerche. Si ringraziano i partecipanti al Focus Group: Anna Maria Addabbo, Roberto Curtolo, Filippo Gellormino, Valerio Vagnoli e, in particolare, Roberto Bandinelli per la qualità del suo apporto conoscitivo e per l'indispensabile aiuto nella realizzazione del Focus Group. Editing a cura di Elena Zangheri (Irpet).

3

Indice 1. PRESENTAZIONE ED EXECUTIVE SUMMARY 5 1.1 Executive summary: le principali evidenze emerse dalla ricerca 5 2. MODELLI E TENDENZE DELL’ISTRUZIONE E FORMAZIONE PROFESSIONALE 9 2.1 Un modello analitico 9 2.2 Il caso italiano: la situazione 15 2.3 Il caso italiano: le tendenze di mutamento 19 3. LE INIZIATIVE DELLE SCUOLE: RISULTATI DI UNA SURVEY 25 3.1 La rilevazione e la popolazione 25 3.2 Le attività delle scuole e i loro partner 28 3.3 L’alternanza scuola-lavoro 32 3.4 Gli stage 39 3.5 Aziende e scuole: un rapporto necessario ma non facile 48 3.6 Dentro le scuole: organizzazione e persone 55 3.7 Caratteristiche strutturali e attività delle scuole 61 3.8 La qualità dei rapporti tra scuola e lavoro: componenti e determinanti della dualità attraverso una analisi fattoriale 66 4. LA SCUOLA E LE AZIENDE: UNA PROSPETTIVA DALL’INTERNO 4.1 Introduzione 69 4.2 Il contesto macro: tendenze di lungo periodo e criticità del presente 69 4.3 Alla ricerca di una formazione duale 72 4.4 Le aziende: un mondo eterogeneo 75 4.5 Dal lato della scuola: insegnanti e dirigenti 76 4.6 Rigidità e sperimentazione dei percorsi 78 4.7 La riforma possibile 80 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 83

5

1. PRESENTAZIONE ED EXECUTIVE SUMMARY La debolezza del rapporto tra scuola e mondo produttivo e del lavoro rappresenta, come è noto, una delle più evidenti criticità dell’economia e della società italiane. La discussione in proposito procede ormai da tre decenni, e ha riempito non solo gli scaffali nelle biblioteche universitarie, ma anche le pagine, non solo economiche, dei quotidiani. Né si tratta di una mera discussione: non è improbabile che questa separazione, la cosiddetta liceizzazione della scuola tecnica e professionale, abbia in qualche modo a che fare con la bassa crescita della produttività osservata nel paese dagli anni 90 in avanti, molto prima che la crisi tuttora in corso facesse sentire il proprio effetto. Inoltre, per il quindicennio che va dal 1996 al 2010 la principale linea di iniziativa, più o meno riuscita, della politica scolastica italiana, è stata proprio la riforma della scuola secondaria di secondo grado, e uno dei temi centrali su cui varie ipotesi di riforma si sono contrapposte è stato proprio il rapporto tra scuole e aziende e quello tra formazione professionale e formazione accademico-generalista.

Non solo sui media, ma anche tra gli addetti ai lavori e i diretti interessati il tema è spesso affrontato in modo astratto e ideologico (Ballarino e Perotti 2011). Molti imprenditori e dirigenti d’azienda diffidano della scuola contemporanea, la trovano poco strutturata e poco strutturante, e ne lamentano le carenze sia dal punto di vista della formazione delle competenze professionali, che da quello della socializzazione alle organizzazioni e alle gerarchie. D’altra parte, non pochi professori, e la maggior parte dei loro rappresentanti sindacali, sembrano credere in una qualche forma di purezza della scuola, che deve essere sottratta alla pericolosa influenza del mercato e delle aziende, se non addirittura utilizzata contro l’uno e le altre. La contrapposizione si riflette anche nella discussione pubblica, con la stampa di centro-destra tipicamente schierata con la prima posizione e quella di centro-sinistra con la seconda, anche se non mancano forti differenziazioni anche all’interno dei due campi.

Questo lavoro contribuisce alla discussione presentando la situazione attuale della scuola tecnico-professionale nella regione Toscana. Dopo questa introduzione, a cui segue un breve executive summary, il lavoro comprende altri tre capitoli. Il secondo capitolo fornisce un inquadramento analitico, riprendendo la discussione internazionale sui diversi modelli di formazione delle competenze, e collocando il caso italiano nel quadro di questa discussione. I capitoli successivi sono empirici: il terzo presenta i risultati di una survey sulle attività delle scuole tecniche e professionali toscane rivolte all’occupabilità dei loro studenti, mentre nel quarto parlano una serie di dirigenti scolastici particolarmente attivi da questo punto di vista. 1.1 Executive summary: le principali evidenze emerse dalla ricerca Un mondo attivo e in trasformazione Nelle scuole secondarie tecnico-professionali toscane si svolge una grande quantità di attività extra-curriculari, in molti caso finalizzate al miglioramento dell’occupabilità dei diplomati. Questo segna un cambiamento importante rispetto al passato, quando nelle scuole si svolgevano quasi solo lezioni e altre attività curriculari. Più di due terzi delle scuole hanno contatti diretti con aziende, praticamente tutte sono accreditate presso la Regione come fornitori di servizi formativi (cioè non scolastici), quasi 3 su 4 hanno rapporti diretti con le aziende, circa 9 su 10

6

partecipano al programma ministeriale Alternanza scuola-lavoro e altrettante organizzano stage per i loro studenti.

Questo attivismo è cresciuto negli ultimi anni: solo in una scuola su cinque gli stage si svolgono da più di 20 anni. Le riforme legislative introdotte a partire dalla seconda metà degli anni 90 hanno quindi avuto un ruolo importante: stiamo parlando in particolare dell’introduzione dell’autonomia, della regolazione degli stage, dell’introduzione di un dispositivo come l’alternanza scuola-lavoro, e, più di recente, di iniziative quali l’integrazione tra formazione professionale regionale e scuola statale e l’introduzione degli Istituti tecnici superiori e dei Poli tecnico-professionali Attività diverse In questo panorama ricco e interessante si osserva però anche un alto grado di eterogeneità. Questo vale sia per le attività che per le scuole. Per le prime, si va da attività “leggere” (stage; orientamento; visite in azienda; incontri con personale aziendale) che si svolgono praticamente in tutte le scuole, ad attività più “pesanti” e impegnative (stage integrati con la didattica; coinvolgimento di personale aziendale nell’erogazione e nella progettazione della didattica; project work svolti dagli studenti per le aziende; ITS e IFTS, ecc…) che si svolgono solo in una minoranza di scuole. Guardando all’insieme a queste attività, le si può vedere come tappe di un percorso cumulativo, di crescente integrazione tra scuola e azienda, che può potenzialmente riprodurre le caratteristiche del sistema duale tedesco: da un lato una formazione tecnica, a scuola, condivisa dalle aziende; dall’altro l’attività lavorativa degli studenti in azienda, integrata con le lezioni teoriche tenute a scuola.

La gran parte di queste attività sono rivolte ai giovani, studenti e non studenti della scuola, mentre si osserva una bassa presenza di attività rivolte agli adulti, in particolare ai lavoratori, sia occupati che in difficoltà occupazionale. C’è un basso livello di integrazione, in altri termini, tra la formazione iniziale, che si svolge a scuola, e la formazione continua dei lavoratori e le attività di riqualificazione dei lavoratori in difficoltà, collegate alle politiche attive del lavoro, che invece non entrano in contatto, se non sporadicamente, con il mondo della scuola. Questo sembra un terreno su cui attirare l’attenzione dei policy-makers, anche in relazione alla congiuntura politica: l’abolizione delle province apre il problema del sistema dei Centri per l’impiego (eredi dei vecchi uffici di collocamento), che ne dipendevano. La riqualificazione del sistema del CPI potrebbe anche passare da una loro maggiore integrazione con il sistema scolastico e della formazione professionale: secondo i nostri dati, metà delle scuole sono in contatto con i CPI. Esistono quindi le basi per approfondire e sistematizzare questo rapporto.

Tra le diverse politiche, merita sicuramente attenzione l’Alternanza scuola-lavoro. Le iniziative dell’ASL sono diffuse in quasi tutte le scuole, e sono valutate complessivamente meglio delle analoghe iniziative svolte al di fuori del programma. L’ambizione del legislatore era di fare dell’ASL la metodologia principale della scuola tecnico-professionale, spostandone l’asse centrale verso il rapporto con le aziende e il mondo del lavoro. La scarsità di risorse, su cui torneremo tra breve, ha reso questo percorso più lento e difficile, ma esso sta senza dubbio progredendo. Scuole diverse Evidentemente, non tutte le scuole sono allo stesso punto di questo percorso. Questo non deve stupire, se si pensa alla situazione da cui si è partiti, di netta separazione tra scuola e mondo del lavoro, e al fatto che comunque l’autonomia delle scuole produce necessariamente eterogeneità, soprattutto nella misura in cui è mancato un significativo investimento di risorse a sostegno delle attività di cui stiamo parlando. In effetti, se è vero che in quasi tutte si trovano le attività

7

leggere, quelle in cui si trovano le attività più impegnative sono molte meno. Per esempio, solo in circa il 10% delle scuole studiate si può parlare di elementi di formazione duale, con insegnanti provenienti dalle aziende e studenti impegnati in attività retribuite dalle aziende.

D’altra parte, l’eterogeneità tra le scuole sembra essere quantitativa più che qualitativa. In altri termini, dalla nostra analisi non emergono modelli differenziati di rapporto con il mondo del lavoro, né scelte tra singole attività o “pacchetti” di attività tra loro alternativi. Emerge invece un’intensità differente nel grado di impegno: ci sono scuole che non vanno oltre le attività leggere e scuole che si impegnano in modo più approfondito. Il contesto ha sicuramente un peso non trascurabile: le scuole collocate in aree più urbanizzate sono nettamente più attive di quelle situate in contesti a bassa urbanizzazione. Lo stesso vale per la tradizione delle scuole: gli istituti professionali sono più attivi degli istituti tecnici, dove non solo si fa di meno, ma si valuta meno positivamente quello che viene fatto.

Non ci sono dubbi sul peso del fattore umano nello spingere le scuole verso l’integrazione con il mondo del lavoro: seguendo i dirigenti più impegnati e attivi, anche pubblicamente, in questo senso, si trovano le iniziative più avanzate e interessanti. Rimane meno chiaro, però, che cosa spinga i dirigenti in questa direzione, e più in generale quali percorsi formativi e di carriera dovrebbero seguire le persone che si occupano di queste attività. Attualmente si tratta prevalentemente di insegnanti senior, laureati in discipline tecniche e scientifiche, ma non è certo che la loro esperienza scolastica favorisca l’efficacia delle iniziative da loro coordinate. Da una parte, bisognerebbe considerare l’attenzione al rapporto con il mondo del lavoro una tra le competenze chiave di cui dovrebbero essere dotati i nuovi dirigenti scolastici, mentre dall’altra si potrebbe pensare a professionisti nuovi, qualcosa come dei mediatori, dei match-maker, tra scuole e aziende. Il coinvolgimento delle aziende Il modello tedesco rimane comunque molto lontano: esso è basato sull’integrazione tra azienda e scuola, mentre qui anche nei casi migliori l’integrazione è molto lontana. Se le aziende non sono coinvolte, la scuola tecnico-professionale diventa inevitabilmente un liceo.

Nel nostro caso gli stage, che dovrebbero rappresentare la seconda metà del modello duale, sono molto diversi da come dovrebbero essere per anche solo approssimare il modello. La durata è breve, al di sotto delle 3 settimane; le aziende sono poco coinvolte, e prevalentemente in paperwork burocratico che le disincentiva a partecipare; aula e lavoro sono separati, dato che nella gran parte dei casi si svolgono in periodi diversi, e anche quando sono collegati l’aula non sembra fare molto altro che introdurre allo stage; gli studenti ricevono raramente rimborsi spese; la valutazione è prevalentemente formale e non ha effetti sulla didattica o sugli stage successivi. Si apre così la possibilità dei noti comportamenti opportunistici da parte delle aziende, che utilizzano gli stagisti solo come manodopera a basso costo per attività dequalificate.

D’altra parte, osserviamo che una scuola su quattro è stata contattata da aziende di loro iniziativa, che circa due aziende su tre mantengono di anno in anno il rapporto con la scuola, e che non mancano casi in cui le aziende sono coinvolte non solo nell’erogazione, ma anche nella progettazione dei corsi, e partecipano formalmente alle attività della scuola tramite i Comitati tecnico-scientifici. Insomma, sembra ci siano ampi spazi per superare l’opportunismo da parte delle aziende. Queste, tuttavia, non sembrano avere risorse da mettere sul piatto, sia per la dimensione media relativamente bassa, sia per la situazione di crisi. Ci sono grandi aziende “illuminate”, che ovviamente rappresentano il partner ideale per le scuole, ma si tratta di una minoranza. Da questo punto di vista, quello che le politiche potrebbero fare è creare incentivi all’aggregazione delle PMI in iniziative di tipo consortile. Nuovi programmi come gli ITS e i PTP dovrebbero fornire l’ambiente idoneo per iniziative di questo genere, che realizzino le

8

economie di scala necessarie per coinvolgere stabilmente le PMI in percorsi formativi e scolastici condivisi tra scuole e aziende. Gli altri attori coinvolti L’attività delle scuole si traduce spesso, oltre che in contatti diretti con le aziende, nella partecipazione a reti e partnership che promuovono l’occupabilità dei giovani e lo sviluppo locale in generale. ITS e PTP sono una versione forte di queste reti, che oltre alle scuole e alle aziende in generale coinvolgono attori collettivi e istituzionali di vario tipo: in primo luogo le amministrazioni locali, poi i CPI, le associazioni imprenditoriali, le camere di commercio, le università e i CFP. Sono presenti in modo solo sporadico altri attori sociali ed economici importanti, come il mondo del non profit (fondazioni bancarie e associazioni), i sindacati e il mondo della bilateralità, le agenzie di lavoro interinale.

La scarsa presenza dei sindacati può essere letta insieme a un altro dato emerso dalla ricerca, cioè lo scarso impegno nelle attività che ci interessano del collegio docenti e del consiglio d’istituto, i due organismi di governo della scuola in cui le organizzazioni sindacali possono contare di più. E’ probabile che nel sindacato della scuola sia ancora viva la cultura di contrapposizione tra scuola e mondo del lavoro, o tra società e aziende, che caratterizzava gran parte del movimento sindacale italiano negli anni 70 e 80. Una cultura ancora influente, ma che non è più quella della maggior parte degli insegnanti, vista la valutazione positiva che viene data del contatto con le aziende dal punto di vista della formazione degli insegnanti stessi. Gli esiti Gli esiti dei contatti tra scuole e mondo del lavoro sono in complesso positivi, secondo la valutazione proveniente dalle scuole stesse. A quanto viene riferito, circa il 10% degli studenti in stage trova poi lavoro nell’azienda dove ha svolto lo stage: una performance probabilmente migliore di quella dei CPI, se quest’ultima potesse essere misurata in modo attendibile. Quasi una scuola su due trasmette alle aziende nominativi di diplomati, e in un caso su tre questo si traduce spesso in assunzioni. In sostanza, l’impegno produce risultati. Stiamo però parlando, è bene ricordarlo, di una minoranza attiva di scuole. Il problema, per i policy makers, è come generalizzare questo attivismo, che al momento si basa molto sul volontarismo e sulla motivazione individuale.

Da questo punto di vista un problema grave, forse il problema grave, sembra essere quello delle risorse. In tutti i casi in cui abbiamo chiesto di valutare da diversi punti di vista gli esiti delle attività che stiamo studiando, quello del reperimento delle risorse era sempre l’esito meno soddisfacente. Questo vale sia per l’ASL, che per altre di reti e partnership, che per i rapporti diretti con le aziende. Nell’ASL, le risorse sono quasi interamente pubbliche, solo il 3% delle scuole accede a finanziamenti di aziende e altrettante ad altri finanziamenti privati. Il problema del basso investimento privato nella scuola è uno dei grandi problemi del nostro sistema socio-economico, e le circostanze attuali non ne favoriscono la soluzione: sia le famiglie che le aziende sono fiaccate dalla crisi, e non sembra possibile forzarle a contribuire di più alle attività di cui stiamo parlando. Guardando al pubblico, lo stesso vale per gli enti locali. Forse si potrebbe chiedere un contributo maggiore a due gruppi di attori politico-economici, a cavallo tra pubblico e privato: da una parte c’è il mondo delle fondazioni bancarie, dall’altro quello degli enti bilaterali, in particolare i fondi interprofessionali. In entrambi i casi si tratta di attori tra i cui compiti istituzionali rientra lo sviluppo sociale ed economico, e da cui potrebbero venire più risorse per la scuola.

9

2. MODELLI E TENDENZE DELL’ISTRUZIONE E FORMAZIONE PROFESSIONALE Questo capitolo presenta il quadro contestuale in cui si inseriscono i successivi, dedicati all’approfondimento del caso toscano1. In primo luogo, nel prossimo paragrafo viene presentato un modello teorico che distingue quattro tipi di sistema di formazione delle competenze e di strutturazione della transizione tra scuola e lavoro. In quello successivo, il caso italiano viene letto alla luce di questo modello. 2.1 Un modello analitico Il volume comparativo di Busemeyer e Trampusch (2012, d’ora in avanti BT) tira le fila di tre decenni di ricerca comparata sui sistemi di formazione delle competenze e sulla transizione scuola-lavoro nelle economie di mercato avanzate contemporanee. Si tratta di una vasta letteratura economica, sociologica e politologica che da una parte ha sottolineato la grande importanza, tanto economica quanto sociale, dei sistemi di produzione delle competenze, e dall’altra ha messo in luce la complessità di questi sistemi, della loro evoluzione storica e del loro rapporto con il sistema economico (Finegold e Soskice 1988; Rosenbaum e Kariya 1989; Streeck 1994; Soskice 1994; Regini 1996; Crouch et al. 1999; Thelen 2004; Bosch e Charest 2010). L’insegnamento generale di questo filone di ricerca, detto molto in sintesi, è che non esistono ricette vincenti o soluzioni alla carta che si possono proporre in astratto, e che la formulazion di slogan sull’economia della conoscenza o la società dell’apprendimento, o ancora sui sicuri benefici dell’investimento in capitale umano, è cosa ben distinta dalla ricerca sui fenomeni e dalla formulazione di ipotesi di riforma basate sull’evidenza.

Uno schema analitico in grado di inquadrare in modo non riduttivo i diversi assetti dei sistemi di formazione dei diversi paesi, consentendo di leggerne l’evoluzione nel tempo e di formulare indicazioni di una qualche utilità e credibilità per i decisori politici deve basarsi sui principi della teoria dell’azione, e quindi prendere in considerazione gli attori collettivi direttamente coinvolti in queste attività, che sono lo stato, nelle sue varie articolazioni organizzative, e le aziende. Sia l’uno che le altre possono essere più o meno impegnati nella formazione delle competenze: dicotomizzando queste variabili e incrociandole si ottengono quattro celle, riprodotte in tabella 2.1, che corrispondono ad altrettanti tipi di sistemi di formazione delle competenze. Lo schema fornisce quindi una mappatura idealtipica in cui si possono non solo collocare i vari sistemi nazionali esistenti, ma anche studiarne le dinamiche e le criticità, tenendo presente che, come sempre accade con questo tipo di modelli analitici, empiricamente quello che si trova in tutti i paesi è un mix dei diversi tipi ideali individuati. Il vantaggio di questo schema, rispetto ad analoghi strumenti concettuali sviluppati per studiare la formazione delle competenze in comparazione internazionale (eg Regini 1996; xx 199*), sta nel fatto che esso non si basa sugli output del sistema, ma sui suoi input. Questo consente di dare meglio conto delle tendenze di mutamento e delle dinamiche, anche complesse e articolate, che stanno dietro agli assetti assunti dalla produzione di competenze in un dato luogo e in un dato momento storico. 1 Questa sezione riprende sinteticamente le sezioni 1 e 6 di Ballarino (2013), a cui si rimanda per maggiori riferimenti empirici e bibliografici.

10

Tabella 2.1 TIPOLOGIA BT DEI SISTEMI DI FORMAZIONE DELLE COMPETENZE Impegno delle aziende nella formazione professionale iniziale basso alto

Impegno dello stato nella formazione professionale

alto Sistemi statali (Francia, Svezia)

Sistemi collettivi

(Germania)

basso Sistemi liberali (USA)

Sistemi segmentati

(Giappone)

Fonte: Busemeyer e Trampusch (2012), Tab. 1

Sistemi statali La cella in alto a sinistra individua i sistemi definiti statali (in inglese statist), dove al centro della formazione delle competenze è l’attore pubblico. Essi sono caratterizzati dalla presenza di sistemi di formazione professionale finanziati e regolati dallo stato (anche se la gestione può anche essere affidata a soggetti privati, profit o non profit). Il caso francese è l’esempio più caratteristico, ma vi possono essere fatti rientrare anche la Svezia e gli altri paesi scandinavi, con l’esclusione della Danimarca. In questo tipo di sistema, la scuola secondaria superiore e post-secondaria presentano una serie di percorsi professionalizzanti, distinti da quelli accademici anche se di norma a questi collegati da quelle che in Italia gli addetti ai lavori chiamano “passerelle”, che rendono reversibili le scelte dei giovani, evitando che i percorsi professionali diventino un ghetto per gli studenti meno bravi accademicamente. Le aziende rimangono all’esterno della gestione del sistema, che può essere più o meno decentrata a livello territoriale, e vi contribuiscono nelle modalità consuete, fornendo stage e tirocinii (che rimangono però separati dai percorsi formativi) e utilizzando le qualifiche conseguite nel sistema per la selezione del personale. In entrambi i casi, si tratta per le aziende di un contributo poco costoso e fonte di forti benefici. Soprattutto, le aziende attingono ai qualificati della formazione professionale e risparmiano sui costi della formazione iniziale del personale, mentre dal punto di vista di chi esce dal sistema scolastico e universitario la transizione al lavoro è agevolata dalla struttura delle qualifiche e dai rapporti bottom-up esistenti tra scuole, università e attori economici.

Il punto forte dei sistemi di questo tipo è l’integrazione tra scuola e formazione professionale, che consente di creare sia competenze generaliste-accademiche che competenze specialistiche, di tipo professionale. L’adeguato bilanciamento dei due tipi di competenza è il loro punto più delicato. Le competenze tecnico-professionali (capitale umano specifico nel linguaggio degli economisti) sono importanti finché esistono aziende che le richiedono, e finché questa richiesta è tenuta presente nella progettazione e nella gestione dei corsi si crea un circolo virtuoso tra scuola e mercato del lavoro. Se, però, la domanda di competenze proveniente da quest’ultimo si sposta, per esempio per effetto della deindustrializzazione, senza un’adeguata ricalibratura dei curricula scolastici, c’è il rischio dell’obsolescenza e dell’inadeguatezza delle competenze. Un altro problema è il prestigio dell’istruzione universitaria, che ovunque, ma in alcuni paesi in misura maggiore, rimane un simbolo di status piuttosto cogente. L’aumento della partecipazione universitaria, che dagli anni 90 in avanti ha caratterizzato tutti i paesi europei, va insieme con l’aumento dell’attrazione dei licei, la scuola più adatta all’università. I due processi insieme possono produrre la liceizzazione della scuola secondaria, ovvero l’indebolimento della componente tecnico-professionale dei curricula e del rapporto tra la scuola e il mercato del

11

lavoro di destinazione. Un processo di questo tipo può essere facilitato, nel contesto attuale, dall’aumento della partecipazione universitaria, che rende più appetibili i percorsi di tipo liceale, direttamente finalizzati all’università. Come vedremo più avanti, qualcosa di simile è successo nel nostro paese a partire dagli anni 80. Sistemi liberali Scendendo verso il basso, la cella inferiore a sinistra individua i sistemi di tipo liberale, esemplificati classicamente dagli Stati Uniti e, in Europa, dall’Irlanda e, con qualche distinguo, dal Regno Unito. In questi sistemi la produzione delle competenze è affidata al sistema scolastico, ma, diversamente che nel modello statale, le scuole superiori non prevedono indirizzi tecnico-professionali a se stanti, in cui viene organizzata tutta la formazione dei ragazzi. Le scuole, invece, sono comprehensive e i curricula sono generalisti-accademici. La formazione di competenze professionalizzanti è parte solo di alcuni percorsi, che di solito sono nettamente subordinati a quelli accademici dal punto di vista del prestigio e quindi della selezione degli studenti e, soprattutto, dei professori.

Lo stato sostiene il sistema scolastico garantendone il finanziamento e regolando la presenza degli operatori privati (che nel caso americano molto più limitata di quanto non ritenga il senso comune), ma si ferma qui, senza intervenire sull’autonomia delle scuole nella definizione dei curricula. Le aziende, a loro volta, non sono stimolate all’investimento “ridondante” (Regini 1996) nella formazione iniziale delle competenze professionali dei lavoratori: esse attingono i diplomati e, soprattutto, i laureati, e formano on the job le competenze di cui hanno bisogno, seguendo il modello dell’“appropriatezza”. Questo processo può avere luogo in modo adattivo e flessibile, perché scuola e università danno ai futuri lavoratori, o almeno a una parte di questi, una base forte di competenze accademiche, trasversali (per esempio l’informatica) e sociali-relazionali, su cui si innesta in modo “leggero” l’intervento delle aziende. La transizione dalla scuola al lavoro e lo sviluppo aziendale delle risorse umane si basano quindi su meccanismi di mercato, caratterizzati proprio da adattività e flessibilità.

La flessibilità è, quindi, il punto forte dei sistemi di questo tipo, perché sulla base di competenze di tipo generale le aziende possono costruire le competenze più specifiche di cui hanno bisogno. In termini economici, questo è un capitale umano ancora più specifico di quello che si forma nella scuola tecnico-professionale. Il punto debole del sistema sta nella centralità delle aziende, le cui scelte di investimento in capitale umano non sono in alcun modo vincolate. Esse possono quindi seguire la linea di minore resistenza e scegliere di competere sui costi anziché sulla qualità, una strategia che sul medio periodo conduce alla deindustrializzazione, come mostrano i casi degli Stati Uniti e del Regno Unito. Contribuisce a questo la mancanza di qualifiche professionali tra i titoli di studio (o il loro scarso prestigio), che indebolisce la posizione di mercato dei lavoratori, in particolare manifatturieri, di livello intermedio. Questa dinamica non riguarda le aziende particolarmente innovative, che si situano sulla frontiera tecnologica di settori come l’informatica, le tecnologie militari, le biotecnologie: queste aziende, riconducibili al modello dell’innovazione radicale (radical innovation, Hall e Soskice 2001), che trovano le competenze di cui hanno bisogno nelle università e nei laboratori di ricerca pubblici.

Sia il tipo statale che quello liberale non prevedono dunque un alto investimento da parte delle aziende nella formazione professionale iniziale dei lavoratori. Nel primo supplisce lo stato, con la scuola tecnico-professionale, mentre nel secondo la formazione delle competenze è lasciata al mercato, con le conseguenze positive e negative del caso: le aziende che riescono a trovare le condizioni favorevoli sopravvivono e hanno successo, quelle che non le trovano

12

chiudono o delocalizzano in paesi dal costo del lavoro inferiore. Invece, nella colonna a destra della tabella 2.1 si trovano due tipi di sistema caratterizzati da un alto investimento aziendale. Sistemi collettivi In alto a sinistra si trovano i sistemi di tipo collettivo, esemplificati dal caso tedesco, ma che comprendono gran parte dei paesi dell’Europa centro-occidentale, come Austria, Svizzera, Paesi Bassi e Danimarca. Nell’economia di questi paesi ha un ruolo centrale la formazione delle competenze in un sistema la cui caratteristica principale è l’integrazione tra scuole tecniche e professionali e lavoro in azienda, e che per questo viene solitamente definito duale. Organizzativamente, l’elemento decisivo è che gli studenti sono assunti dalle aziende come apprendisti, con un salario nettamente inferiore a quello di un lavoratore equivalente, e che una parte sostanziale del loro tempo di lavoro è trascorsa a scuola, dove ricevono una formazione strettamente integrata alla qualifica professionale per cui si stanno formando. Questa integrazione è resa possibile ed efficace dalla partecipazione delle aziende e dei lavoratori alla gestione del sistema stesso, tramite le loro rappresentanze associative. In sistemi di questo tipo, dunque, l’investimento dello stato è rilevante, come in quelli di tipo statalista, ma è integrato con quello delle associazioni degli interessi, un attore pubblico ma non statale (Schmitter e Streeck 1985).

La forza dei sistemi collettivisti sta nella formazione duale, che garantisce un alto livello medio di qualificazione professionale dei lavoratori. Il sistema duale produce competenze professionali (od occupazionali), cioè specifiche ad un “mestiere”, che può essere sia di tipo manuale che di tipo intellettuale. Queste competenze sono certificate in diplomi professionali, senza dei quali è molto difficile accedere ai posti di lavoro. In termini di specificità, le competenze di questo tipo si collocano quindi a metà strada tra quelle accademiche e trasversali da un lato (che si formano a scuola), e quelle aziendali dall’altro. Esse possono quindi essere utilizzate in tutte le aziende dove è richiesta la figura professionale del caso, il che migliora la situazione di mercato dei lavoratori, che possono cambiare azienda più facilmente che nel caso in cui le loro competenze siano di tipo aziendale. Per questa ragione, gli studiosi del mercato del lavoro chiamano “occupazionale” il mercato del lavoro della Germania e degli altri paesi in cui è presente un sistema duale. L’alto livello medio di qualificazione dei lavoratori tedeschi consente alle aziende di competere sulla qualità, nei segmenti alti dei mercati dei prodotti, evitando la competizione sui costi che inevitabilmente sul lungo periodo porta alla compressione dei salari come unica alternativa alla delocalizzazione.

I punti deboli dei sistemi di questo tipo stanno nella loro stessa natura collettiva. Dato che essi coinvolgono numerosi attori, ciascuno dotato di potere di veto e oggetto di pressione partigiana da parte della propria base sociale, esso può essere rigido, e lento ad aggiornare i propri contenuti formativi alla rapida evoluzione della tecnologia e della sua applicazione ai processi produttivi (Bahnmüller 1996). Per esempio in Germania, tra la fine degli anni 70 e l’inizio del decennio successivo, la riforma delle qualifiche occupazionali nel settore metalmeccanico, che le riduceva da 45 a 6, suddivise in 16 specializzazioni, richiese 7 anni per essere gradualmente implementata (Bosch 2010).

Un sistema collettivo, inoltre, è esposto al rischio dell’exit degli attori che ne fanno parte. In particolare, nel sistema duale tedesco la partecipazione delle aziende è volontaria: non esiste alcuna legge che le obblighi ad accogliere apprendisti. Negli ultimi anni, ha avuto luogo un massiccio processo di uscita da parte delle aziende piccole e medie. Questo processo di exit, parte del più generale decentramento e indebolimento delle relazioni industriali tedesche (Streeck 2009), è causato dall’aumento della concorrenza globale, che colpisce particolarmente la piccola e media impresa manifatturiera, che storicamente rappresenta l’attore centrale, dal

13

lato della domanda, del sistema duale. Le PMI escono perché i costi di un apprendistato di buon livello non si ripagano se non c’è la certezza di potere assumere l’apprendista al termine della sua formazione, a causa della volatilità dei mercati, e dall’altro lato la riforma del mercato del lavoro dei primi anni 2000 ha messo a disposizione delle aziende nuovi strumenti di flessibilità del lavoro (Ballarino e Checchi 2013). Le conseguenze di questo ritiro sono due: in primo luogo, si crea una generale scarsità di posti di apprendista rispetto alla domanda (che rimane stabile perché l’espansione della partecipazione universitaria in Germania è meno forte che altrove per via del consenso sociale che continua a circondare il sistema duale). In secondo luogo, all’interno del sistema duale aumenta il peso delle grandi aziende, che a questo punto finiscono per offrire buona parte dei posti disponibili nel sistema duale (Thelen e Busemeyer 2008).

Il governo federale e quelli dei Länder hanno cercato di rispondere al primo di questi due problemi introducendo il cosiddetto Übergangssystem, alla lettera “sistema di passaggio” (dalla scuola all’apprendistato). Si tratta una serie di corsi scolastici e programmi di stage, di durata annuale, che coloro che non accedono all’apprendistato possono frequentare in attesa di trovarne uno (questi corsi non rilasciano qualifiche occupazionali spendibili nel mercato del lavoro). In questo modo si tengono bassi i tassi di disoccupazione giovanili, ma si corre il rischio di creare una scuola-ghetto, in particolare per i figli degli immigrati. Questi ultimi, infatti, sono rappresentati meno che proporzionalmente nel sistema duale e più che proporzionalmente nell’Übergangssystem (Schuller 2013).

Il fatto che l’apprendistato tenda a diventare un’istituzione delle grandi aziende, inoltre, indebolisce la natura collettiva del sistema. In effetti le aziende, soprattutto grandi, preferiscono percorsi brevi e immediatamente specialistici, che consentono loro di risparmiare tempo e costi indiretti, perché vi si formano direttamente più competenze specifiche all’azienda, e meno competenze generali e di mestiere. Sensibile a queste pressioni, il governo federale nel 2003 ha reintrodotto i programmi biennali precedentemente aboliti a vantaggio di quelli triennali, che negli anni successivi si sono diffusi e oggi rappresentano quasi il 10% del totale. Questi apprendistati brevi si rivolgono soprattutto a coloro che entrano nel sistema a 16 anni, con il solo diploma dell’obbligo, mentre gli apprendistati triennali riguardano più frequentemente coloro che entrano nel sistema con due ulteriori anni di scuola. Successivamente, la riforma del 2005 ha introdotto un modello “a stadi”, dove i primi due anni consentono di ottenere un primo titolo, e il terzo anno, con il conseguimento del titolo completo, è opzionale. Usando il linguaggio della sociologia dell’educazione, che definisce stratificazione la differenziazione interna dei percorsi formativi, si può osservare che il sistema duale, in precedenza relativamente omogeno, si sta stratificando al proprio interno.

La crescita della differenziazione del tipo di percorso consente un aumento della discrezionalità aziendale. Nel modello a stadi la scelta è del lavoratore, ma grazie ai nuovi programmi biennali di fatto le aziende possono decidere se avviare o meno un Geselle (diplomato del sistema duale) biennale al terzo anno, facendogli quindi conseguire la qualifica piena. Questa crescita dei margini di discrezionalità aziendale va contro uno dei pilastri del sistema duale, vale a dire l’imposizione alle aziende, nelle scelte di sviluppo del personale, dei vincoli associati alle certificazioni professionali, che sono esogeni rispetto alle singole aziende: queste partecipano alla gestione del sistema, ma in forma collettiva, attraverso la loro rappresentanza nelle Kammern, e non individualmente (Ballarino e Checchi 2013). Nel sistema riformato esse si possono trovare invece a disporre, come singole aziende, di un menu di possibili percorsi duali e possono scegliere su quali instradare i dipendenti. Alle richieste aziendali di maggiore discrezionalità nella gestione degli apprendisti e di una “customizzazione” dei percorsi duali alle loro esigenze individuali è collegata anche la

14

discussione in corso sugli esami che concludono l’apprendistato. Gli esami tradizionalmente si tengono nelle Kammern, gestiti da commissioni di esperti selezionati dalle associazioni imprenditoriali e dai sindacati. Le grandi aziende, che sostengono i costi di questa componente del sistema concedendo i propri dipendenti, che costituiscono la maggioranza degli esaminatori, vorrebbero gestire direttamente, in azienda, anche gli esami. A questa richiesta si oppongono le aziende piccole e medie, il cui peso nel sistema è però diminuito, come si è visto. Il confronto su questo è in corso: per il momento la formula tradizionale (esami nelle Kammern e non in azienda) resiste, ma in futuro potrebbe non essere più così.

Mentre l’Übergangssystem, che aumenta il peso della componente scolastica dei percorsi duali, sposta il sistema verso il modello statale, l’aziendalizzazione degli esami lo sposterebbe, invece, verso il modello segmentato (cfr. Tab. 2.1), descritto di seguito. Secondo alcuni studiosi, è questa la tendenza di trasformazione più forte attualmente presente nel sistema duale (Thelen e Busemeyer 2008). Sistemi segmentati Nella cella inferiore a destra, infine, compaiono i sistemi di tipo segmentato, esemplificati dal Giappone. In contesti di questo tipo sono le aziende ad avere un ruolo centrale nella formazione delle competenze, grazie a un forte investimento nella formazione iniziale dei dipendenti. Come è noto, in Giappone i principali diritti dei lavoratori, in particolare relativi alla tutela contro il licenziamento, non sono garantiti dalla legge o dai contratti, come in Europa o in America del Nord, ma sono garantiti volontariamente dalle aziende, in base a norme sociali che le vincolano in modo relativamente rigido, anche in mancanza di sanzioni legali formalizzate: in questo quadro si inserisce anche la formazione iniziale, specifica all’azienda anche quando si avvale di scuole e centri di formazione specializzati. I curricula scolastici giapponesi, invece, sono molto accademici e tradizionalisti, ma il fatto che la selezione aziendale dia grande peso ai risultati scolastici (il sistema del Jisseki Kankei) stimola durante gli anni di scuola l’impegno e l’etica del lavoro, che si riproducono successivamente nel contesto aziendale. Il luogo centrale in cui si formano le competenze è quindi la scuola aziendale, o corporate university nel linguaggio dei consulenti.

Il modello segmentato è quindi in generale il modello delle grandi aziende, che in Giappone si inserisce sui tratti culturali caratteristici del paese: il suo punto di forza è la solidità del rapporto tra lavoratori e azienda, che prende le mosse dal sistema di assunzione (Jisseki Kankei significa “contratto” – ma si tratta evidentemente di un contratto non di tipo economico) e si sostanzia nella promessa di impiego a vita. La dedizione dei lavoratori giapponesi alla loro azienda è ampiamente studiata e presa come modello da ricercatori e consulenti aziendali europei e americani: in particolare, il fatto che il loro impegno abbia una forte componente di tipo comunitario, dove il lavoratore si identifica appieno nella comunità aziendale, è stato visto come uno dei principali fattori di successo dell’economia giapponese nel secondo dopoguerra e come la base del modello toyotista di gestione delle risorse umane (eg Dore 1990; Coriat 1991).

Dal punto di vista della formazione delle competenze, in effetti il sistema dello Jisseki Kankei produce non tanto una ridondanza di competenze tecniche e professionali, quanto di competenze sociali e relazionali (dedizione all’azienda e capacità di lavorare in gruppo), sulle quali si inserisce perfettamente la struttura motivazionale dell’organizzazione del lavoro toyotista, che punta al coinvolgimento degli operai per superare la separazione tra progettazione ed esecuzione che rende rigida l’organizzazione taylorista del lavoro. La formazione tecnica e professionale avviene in azienda, on the job, e si concentra su competenze firm-specific, ma la sua efficacia si basa sull’investimento motivazionale che lega il dipendente all’azienda.

15

La principale criticità del modello giapponese non è molto dissimile da quella del modello collettivo, di cui per certi versi rappresenta una versione micro e volontarista, in cui la cooperazione tra azienda e lavoratore è diretta, o mediata da sindacati aziendali, e manca la mediazione del sistema istituzionale e degli attori collettivi che lo compongono, che invece è cruciale in Germania e nei paesi simili. Come in Germania, così in Giappone il sistema è vulnerabile dal punto di vista delle aziende: qualora i vincoli del mercato diventino più cogenti delle norme sociali, le aziende possono abbandonare queste ultime, pur di sopravvivere, e quindi abbandonare unilateralmente il “contratto” stretto con i lavoratori. E’ quello che sembra essere successo a partire dagli anni 90, con la crisi più che decennale che ha colpito il sistema socioeconomico giapponese (Honda 2003). 2.2 Il caso italiano: la situazione Per quello che ne sappiamo, a tutt’oggi l’unico studio che si sia occupato dell’IFP italiana in prospettiva comparata rimane quello di Regini (1996), dove il nostro paese è inserito, con la Spagna, tra quelli “orientati all’appropriatezza”, e distinto da quelli “orientati alla ridondanza”, nel caso Germania e Francia. Nei termini della tipologia BT, questo significherebbe collocare il nostro paese nel tipo liberale (cella in basso a sinistra di tabella 2.1), con un basso investimento nella formazione sistematica di competenze professionali sia da parte del sistema scolastico che da parte delle aziende. Nei sistemi liberali, come si è visto, la scuola produce una ricca base di competenze generalistiche-accademiche. Anche se possono essere presenti percorsi tecnico-professionali, essi sono marginali e ristretti a segmenti occupazionali molto specifici e limitati. Le aziende attingono dalla scuola e formano on the job le competenze di cui hanno bisogno, senza però investire in programmi di formazione iniziale orientati al lungo periodo.

Due esercizi empirici confermano questa collocazione. Il primo proviene da un altro lavoro compreso nel già citato volume curato da Busemeyer e Trampusch, che propone misure empiriche per le due dimensioni che definiscono la tipologia (Busemeyer e Iversen 2012). L’investimento delle aziende è misurato dalla percentuale di studenti di secondaria superiore i cui curricula prevedono una componente di formazione in azienda, mentre l’investimento pubblico è misurato dalla spesa pubblica per la secondaria superiore in percentuale sul PIL, pesato per l’incidenza della formazione in azienda nella scuola (l’indicatore precedente). Nel primo indicatore l’Italia è con Svezia e Stati Uniti il paese con il valore più basso, visto che nel nostro paese non esistono programmi di questo tipo, mentre nel secondo si trova insieme a Spagna e Grecia nella parte bassa della graduatoria, precedendo solo Stati Uniti e Irlanda.2

Un secondo esercizio può venire effettuato con i dati OECD sull’istruzione (OECD 2012), dove sono disponibili informazioni sull’investimento delle aziende nella formazione non scolastica dei dipendenti: si tratta quindi di un indicatore diverso, e complementare, a quello utilizzato da Busemeyer e Iversen, che invece si concentrano sulla formazione scolastica. L’investimento in questione è misurato sia in termini di costi diretti, ovvero il costo sostenuto dai datori di lavoro per le spese associate all’intervento (docenti, aule, materiali ecc.), che in

2 Non si capisce bene, peraltro, come gli autori abbiano calcolato questo secondo valore. Si veda il dato originale in OECD 2012, Tab. C1.3 p. 332: nel caso dell’Italia l’indicatore non è utilizzabile (Busemeyer e Iversen, Tab. 8.A1, fanno riferimento alla Tab. C1.4, riferendosi probabilmente a OECD 2009 o a una versione precedente. Il dato è comunque lo stesso). Non è chiaro, quindi, come sia computato il secondo indicatore di Busemeyer e Iversen, che dovrebbe pesare l’investimento in scuola secondaria superiore per questo dato, che però manca.

16

termini di costi indiretti, ovvero il costo del lavoro che l’azienda perde quando il lavoratore è in aula a formarsi e non sul posto del lavoro (in termini economici, il costo-opportunità).

La figura 2.1 riporta entrambe le misure, che tra loro sono correlate debolmente e in modo non significativo (r = -0,22, p = 0,35). Anche in questo caso l’Italia si trova piuttosto in basso: per quanto riguarda i costi diretti è al fondo della graduatoria, con solo Grecia e Ungheria in posizione peggiore, mentre nel caso dei costi indiretti la posizione medio-bassa si spiega con il costo del lavoro relativamente elevato che caratterizza il nostro paese. Sembra dunque che in termini di statica comparata il sistema di formazione delle competenze italiano debba essere collocato tra i sistemi liberali.

Figura 2.1 SPESA DEI DATORI DI LAVORO PER LA FORMAZIONE DEI DIPENDENTI

Fonte: elaborazioni da OECD (2012), indicatori C6.1 e C6.3

Per molti versi, però, nell’epoca del boom economico e dello sviluppo industriale del Centro

e del Nord del paese il sistema di produzione di competenze italiano seguiva il modello statale, con una filiera tecnico-professionale della scuola superiore in grado di rifornire di operai specializzati, tecnici e quadri un sistema industriale in forte espansione. E’ noto da tempo che gli istituti tecnici e professionali sono stati una componente centrale del miracolo economico degli anni 50 e 60 (eg De Rita 2007). Uno studio recente ha mostrato anche che queste scuole, attirando figli e figlie della classe operaia, hanno dato un contributo importante alla diminuzione della diseguaglianza scolastica che si riscontra nel secondo dopoguerra. Questa riduzione, nota da tempo a livello nazionale, è in realtà in buona misura un effetto della diminuzione della disuguaglianza nell’accesso alla scuola media superiore che si è avuta al Centro-Nord con le coorti andate a scuola negli anni 50 (Ballarino, Panichella e Triventi 2014).

Questo sistema è andato in crisi per una serie di ragioni l’analisi approfondita delle quali richiederebbe molto più spazio di quello disponibile in questa sede: ci limitiamo quindi ad

Austria

Belgium

Canada

Czech Republic

Denmark

Estonia

Finland

Germany

Greece Hungary

Italy

Netherlands

New Zealand

Norway

Poland

Portugal

Slovak Republic

Spain

Sweden

United Kingdom

.1

.2

.3

.4

.5

.6

.5 1 1.5 Costi indiretti

Cos

ti D

iretti

17

alcuni cenni sommari, che andrebbero sviluppati con ricerche sistematiche. Data l’intensità della discussione, in particolare sugli istituti tecnici, che ha accompagnato il lungo processo di riforma della secondaria superiore (un processo più che decennale, dal 1997 al 2010) è abbastanza sorprendente che non ci siano, per quanto ne sappiamo, ricerche sistematiche sul tema.

Figura 2.2 ISCRIZIONI ALLE SCUOLE SECONDARIE SUPERIORI TECNICHE E PROFESSIONALI (% SUL TOTALE)

Note: la % riportata comprende istituti tecnici e istituti professionali (in cui fino all'anno 1967 sono comprese le scuole tecniche) ed esclude i licei, l'istruzione magistrale e l'istituto d'arte. Non entrano nel computo del totale le iscrizioni alla formazione professionale regionale. Fonte: elaborazione su dati Istat- Rilevazione sulle Scuole, anni 1945-2000; Miur- Rilevazione sulle Scuole, anni 2001-2009.

Ad ogni modo, tra le ragioni della liceizzazione della scuola tecnico-professionale italiana

alcune sono analoghe a quelle di cui si è detto a proposito di altri paesi, in primo luogo la tendenza degli studenti migliori e delle loro famiglie a preferire il liceo, visto come la porta più sicura verso l’università. La figura 2.2. mostra l’andamento nel tempo delle iscrizioni agli indirizzi tecnico-professionali, in percentuale rispetto al totale. Queste crescono dal secondo dopoguerra fino alla metà degli anni 80, quando arrivano a costituire quasi i 2/3 del totale, ma nel periodo successivo scendono fino a poco più della metà. La discesa, d’altra parte, sembra essersi stabilizzata negli ultimi anni del decennio 2000.

Tuttavia, come mostra la figura, queste scuole raccolgono tuttora una parte importante degli studenti italiani. Il problema è che negli istituti tecnici e professionali si è indebolito il rapporto tra scuole e mondo del lavoro, e questa è una dinamica specificamente italiana. Il passaggio legislativo decisivo in questo senso è stata l’abolizione, con il DRP 416/1974 (parte dei cosiddetti “decreti delegati”), dei consigli di amministrazione degli istituti, di cui facevano parte anche rappresentanti delle aziende (Torresani 2014). Le riforme degli anni 70, in effetti, enfatizzavano un’idea di partecipazione sociale alla vita della scuola che escludeva le aziende, viste non come parte della società ma come un pericolo da cui questa si deve difendere: non a caso, queste venivano escluse dalla scuola nello stesso momento storico in cui questa veniva aperta ai sindacati. L’indebolimento del rapporto con le aziende ha facilitato la liceizzazione degli istituti tecnici, che in parte è stata anche formale, con la ridenominazione di molti corsi in

0.0

10.0

20.0

30.0

40.0

50.0

60.0

70.0

1945/46

1948/49

1951/52

1954/55

1957/58

1960/61

1963/64

1966/67

1969/70

1972/73

1975/76

1978/79

1981/82

1984/85

1987/88

1990/91

1993/94

1996/97

1999/00

2002/03

2005/06

2008/09

18

“liceo”. Sia nei tecnici che nei professionali è gradualmente diminuito il numero di ore di laboratorio, fino alla riforma del 2010 che secondo molti osservatori ha gravemente indebolito la componente tecnico-professionale dei curricula.

Ovviamente la liceizzazione indebolisce il valore di mercato dei diplomi tecnico-professionali, che in effetti negli ultimi tre decenni è notevolmente diminuito: questo rende più desiderabile il conseguimento di una laurea, il cui valore rispetto al diploma è aumentato (Ballarino e Scherer 2013). Si mette quindi in moto il circolo vizioso di svalutazione della scuola tecnico-professionale, che diventa la scuola di quelli meno bravi. Questo ha a sua volta conseguenze rilevanti rispetto alla qualità degli insegnanti. Il meccanismo è legato alle modalità di carriera: dato che in Italia le carriere degli insegnanti non prevedono alcun tipo di riconoscimento o di incentivo selettivo, e che la progressione salariale è collegata esclusivamente all’anzianità e non ai risultati ottenuti, l’unico modo in cui un insegnante può migliorare la propria posizione è insegnare ad alunni più bravi, ottenendo il trasferimento verso i licei delle aree centrali città, dove gli studenti sono più selezionati e quindi più motivati all’apprendimento e più disciplinati. In altri termini, l’unico premio disponibile per gli insegnanti bravi è insegnare ad alunni bravi, il che significa, immediatamente, che gli alunni meno bravi si trovano di fronte insegnanti meno bravi (cfr. MPI-MEF 2007). Si tornerà più avanti, nel capitolo 4, sui problemi degli insegnanti come gruppo occupazionale.

Dunque negli ultimi decenni il sistema di formazione delle competenze italiano si è spostato dal modello statale verso quello liberale. Bisogna però sottolineare come, anche tralasciando la diversissima struttura del tessuto produttivo, nel nostro paese manchino due degli elementi fondamentali che caratterizzano il rapporto tra istruzione e mercato del lavoro nei principali paesi economicamente avanzati con sistemi di formazione delle competenze di tipo liberale, cioè gli USA e il Regno Unito: a) un sistema di formazione superiore (universitario) capace di attrarre studenti di alto livello dall’estero e di trasformarli in potenziali risorse umane di alto livello per il sistema economico3; b) un grado relativamente elevato di flessibilità del mercato del lavoro e del tessuto imprenditoriale, che consentano lo sviluppo di un vasto mercato del lavoro qualificato e un’ampia circolazione delle risorse umane di alto livello. Queste due caratteristiche sono tra loro complementari, nel senso che l’una rafforza l’altra, ed esse rendono possibile il modello produttivo dell’innovazione radicale (radical innovation) che caratterizza i due paesi in questione (Hall e Soskice 2001), basato come abbiamo visto sulla centralità di risorse umane con titoli di studio elevati in settori innovativi e ad alta tecnologia come l’ICT, il militare e le biotecnologie. E’ chiaro che si tratta di un assetto socio-economico diverso da quello italiano, dove il reclutamento di studenti stranieri da parte del sistema universitario è basso e la regolazione del mercato del lavoro e in generale delle attività economiche è attraversata da importanti rigidità e squilibri (i più importanti tra i quali sembrano oggi essere quello territoriale e quello generazionale).

Se, quindi, le politiche della IFP italiana accettassero il modello liberale come quello più adatto al nostro paese, si correrebbe il rischio di creare una versione del modello sbilanciata verso il basso, dove la competitività non verrebbe perseguita tramite la qualità del prodotto, determinata dai suoi contenuti in termini di tecnologia e di qualificazione dei lavoratori, ma cercando di comprimerne i costi. In questo modo, riprendendo i termini introdotti nella seconda sezione, ci si verrebbe a trovare sulla “scorciatoia” allo sviluppo industriale, una strategia rischiosa perché nella competizione sui costi i paesi di recente industrializzazione, quelli in via di sviluppo e i paesi ex comunisti hanno un vantaggio molto forte e con ogni probabilità non superabile, se non sul breve periodo. Peraltro, negli ultimi decenni i sistemi liberali non hanno 3 Gli studenti stranieri sono il 3,3% degli studenti universitari italiani, contro una media UE del 7,7% e OECD dell’8,7% (Treelle-Fondazione Rocca 2012, Tab. 107, fonte OECD).

19

solo sviluppato l’industria high-tech dell’innovazione radicale, ma hanno anche perso gran parte del loro tessuto manifatturiero, con un processo di massiccia deindustrializzazione che oggi viene messa in discussione, in particolare negli Stati Uniti.

Dunque, l’esigenza di investimenti rilevanti nella formazione tecnico-professionale del nostro paese non è eludibile, pena l’indebolimento della tradizione manifatturiera che ha prodotto il boom economico degli anni 50 e 60 e lo sviluppo dei distretti industriali nei decenni successivi. Come sostengono molti commentatori, è probabile che la debolezza del rapporto tra scuole e aziende sia uno dei fattori alla base della debole crescita conosciuta dal nostro paese negli ultimi decenni, a sua volta collegata con il ristagno della produttività e con l’alto livello di disuguaglianza di redditi che hanno caratterizzato il nostro paese negli ultimi decenni. Gran parte degli attori coinvolti nel sistema scolastico e di formazione professionale italiano sono concordi su questo punto, e in particolare da parte dell’associazionismo imprenditoriale sono arrivati forti segnali sulla necessità di rilanciare l’istruzione tecnica e professionale (Treellle 2008; Ballarino e Perotti 2011). 2.3 Il caso italiano: le tendenze di mutamento In che modo può evolvere questa situazione? La figura 2.3 mostra come queste tendenze possono essere inquadrate nella tipologia BT (Tab. 2.1), riportata nel con l’aggiunta di tre frecce corrispondenti ad altrettante direzioni di trasformazione possibile. Figura 2.3 TENDENZE DI MUTAMENTO DEL SISTEMA ITALIANO DI IFP Nota: cfr. Tab. 2.1 per la definizione delle celle Verso il modello segmentato? La tendenza al rafforzamento della formazione aziendale, secondo il modello della corporate university, spinge verso il modello segmentato, sull’esempio giapponese. Nella figura, questo è uno spostamento orizzontale, dalla cella inferiore sinistra verso la cella inferiore destra. Gli attori centrali del modello segmentato sono le aziende, in particolare grandi: esse sono direttamente in rapporto con le scuole del proprio territorio per il reclutamento e la selezione, e successivamente investono massicciamente nella formazione iniziale delle risorse umane, spesso mantenendo vaste strutture di formazione aziendale. Nell’Italia di oggi questo modello si scontra con la bassa dimensione media delle aziende, che rappresenta un limite per molti versi insuperabile alla sua diffusione: le piccole imprese spesso non hanno né le risorse né la motivazione per investire in rapporti stabili con il sistema scolastici. Le (non molte) grandi aziende presenti in Italia, da parte loro, oggi tendono a concentrarsi su un nucleo di

Sistemi statalisti

Sistemi collettivisti

Sistemi liberali

Sistemi segmentati

corporate universities

alternanza scuola-lavoro

integrazione scuola - FP

20

professionalità di alto livello in un quadro globale, esternalizzando le attività di supporto e, ormai, anche molte attività di backoffice e amministrazione, ad aziende specializzate. Per quanto riguarda il reclutamento delle risorse umane, questo significa un forte orientamento verso le università. In effetti nel nostro paese, come altrove, le facoltà di economia e di ingegneria, da sempre strettamente collegate con il mondo della grande azienda, hanno sfruttato la riforma dei corsi universitari introdotta con il “processo di Bologna” per rinforzare il proprio rapporto con le aziende, spesso coinvolgendole nella creazione e nella gestione di una serie di nuovi corsi con forte orientamento professionalizzante su tutti i tre livelli della nuova organizzazione degli studi universitari (Ballarino e Regini 2005).

Ma il problema è generale: oggi le aziende avvertono una pressione competitiva sempre maggiore, per cui anche nel paese dove questo modello è più diffuso, il Giappone, esse diminuiscono il proprio investimento nella scuola, indebolendo le reti che le collegano agli istituti secondari. Per quanto riguarda la Germania, come abbiamo visto si parla di una tendenza verso il modello segmentato, causata dall’indebolirsi dei vincoli che tengono le grandi aziende legate al sistema duale e al modello collettivista di formazione delle competenze. Ma il caso tedesco è totalmente diverso dal nostro: in Germania il modello collettivo si indebolisce a causa della minore disponibilità delle aziende a farsi carico dei vincoli istituzionali alla propria discrezionalità nella gestione delle risorse umane e delle competenze. Data la diversità dell’assetto istituzionale da cui si parte, un atteggiamento di questo tipo da parte delle aziende in Italia porta al mantenimento del modello liberale, non verso il modello segmentato.

D’altra parte, le (poche) ricerche disponibili mostrano che i rapporti tra aziende e scuole sul territorio non mancano (Ballarino 2008). Ai rapporti tradizionali, bottom up, creatisi localmente secondo logiche volontariste, si sono aggiunte le nuove relazioni create dalle politiche pubbliche dagli anni 90 in avanti: oggi le reti di scuole e varie forme di partnership istituzionali coinvolgono la grande maggioranza delle scuole tecnico-professionali di II grado. Nel corpo docente c’è ampia disponibilità in questo senso, e il rifiuto ideologico dei rapporti con le aziende riguarda ormai una piccola minoranza di insegnanti. Come si vedrà nel capitolo 4 di questo lavoro, questo vale anche per il caso toscano.

Esiste, insomma, una domanda espressa dalle aziende nei confronti del mondo della scuola, ed esiste una disponibilità degli operatori di questo modo a rispondere a questa domanda. Tuttavia, a causa delle caratteristiche del tessuto imprenditoriale italiano, questo incontro non può avvenire a livello di singola azienda e di singola scuola, come nel modello segmentato. O meglio, questo tipo di incontri possono sicuramente avere luogo e avere effetti benefici per le aziende e le scuole coinvolte, ma non è da questi che ci si può attendere l’aumento di investimento in formazione delle competenze necessario per il paese. Situazioni di questo tipo possono però giocare un ruolo importante come catalizzatori bottom up di processi più vasti. Per esempio, una parte notevole del rapido successo dell’“alternanza scuola-lavoro”, di cui si dirà tra breve, sta nella buona riuscita delle sperimentazioni iniziali, come quella svolta in Lombardia nella prima metà del decennio 2000 (Serio e Vinante 2005). Le sperimentazioni sono partite dalle scuole che già, per la loro storia, disponevano di buone reti di contatto con le aziende, e a partire da queste, grazie alle risorse investite dalle istituzioni, hanno saputo generalizzare i metodi e gli approcci di successo a tutte le scuole aderenti al progetto. Verso il modello collettivo? L’attrazione per il modello tedesco è naturale, visto il suo successo e vista la vicinanza geografica, storica ed economica tra la Germania e il nostro paese. Il legislatore italiano ha cercato di percorrere questa strada soprattutto nel decennio 2000, con due strumenti: l’alternanza scuola-lavoro e il rilancio della formazione professionale regionale.

21

L’alternanza scuola-lavoro (d’ora in avanti ASL) è stata introdotta con la legge delega 53/2003. La legge divideva in due la scuola secondaria superiore: da una parte la componente liceale, gestita dallo stato, in cui sarebbero dovuti confluire anche gran parte degli istituti tecnici, ribattezzati “licei tecnologici”, dall’altra una componente tecnico-professionale, gestita dalle regioni, in cui si sarebbero fusi gli istituti professionali e la formazione professionale regionale. Nei termini della tipologia BT (cfr. Tab. 2.1), si sarebbe spinto il sistema da una parte verso un modello di tipo liberale, con una scuola secondaria superiore generalista-accademica pienamente liceizzata, dall’altra verso il modello collettivo, con il sistema tedesco come ovvio punto di riferimento.

Il testo di legge non è chiarissimo per quanto riguarda il rapporto tra ASL e altri componenti del sistema, ma si intuisce che l’idea di fondo è creare un canale di tipo duale, alternativo al sistema scolastico ma con questo strettamente integrato. Il D.P.R. del 15/3/2010, che regolamenta gli istituti tecnici e professionali dopo la riforma c.d. Gelmini, è invece più modesto, e scrive (art. 5, comma 2), che “Stage, tirocini e alternanza scuola lavoro sono strumenti didattici per la realizzazione dei percorsi di studio”. Siamo quindi lontani dal sistema duale, come si dovrebbe capire dalla stessa terminologia: mentre molti avvicinano l’ASL al modello tedesco, in realtà in quest’ultimo non si tratta di alternanza quanto di integrazione tra scuola e lavoro.

L’ASL è un programma di successo, o quanto meno con un forte trend espansivo, ben visibile nella tabella 2.2. Oggi quasi la metà delle scuole secondarie di II grado vi prende parte, indice di una domanda che smentisce i luoghi comuni, ancora molto diffusi, in merito all’incapacità della scuola di rivolgersi al mondo del lavoro. Del resto, gli stage sono ormai da anni diffusi in modo praticamente universale, almeno nelle aree del paese in cui c’è un tessuto produttivo a cui fare riferimento: secondo una survey di qualche anno fa sulle scuole tecnico-professionali lombarde, in questa regione oltre il 92% delle scuole inserivano alunni in programmi di stage, per un totale di circa uno studente su cinque (Ballarino 2008, Tab. 4.6). Tabella 2.2 PARTECIPAZIONE ALL’ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO, 2007-2012 2006/07 2011/12 Variazione % Studenti 45.875 189.457 313Percorsi 10.665 65.447 514Aziende 1.513 9.791 547Scuole 824 2365 187Fonte: elaborazioni da INDIRE (2013).

L’ASL può essere ritenuta una storia di successo solo se si tralascia la retorica sul sistema

duale e si guarda con realismo a quello che è stato effettivamente realizzato sul campo: come vedremo meglio nei capitoli successivi, si è creata una buona mobilitazione nel mondo della scuola: sono state diffuse parole d’ordine importanti, sono state distribuite risorse, create relazioni, messe in comune esperienze di successo. Dall’altra parte, il mondo delle aziende non ha realmente modificato il proprio atteggiamento orientato al breve periodo: “le imprese investono nei progetti di alternanza solo se questi progetti corrispondono alle loro reali esigenze, non se rappresentano mere formalità proposte in modo poco convinto dagli istituti scolastici […] esiste un chiaro trade-off tra numero di studenti coinvolti nei percorsi in alternanza e tempo di permanenza in azienda: quanti più sono gli studenti che si intendono coinvolgere, tanto più ristretto sarà il tempo che ciascuno studente avrà a disposizione per formarsi” (Ballarino e Perotti 2011, pp. 21-22).

22

Per quanto riguarda l’istruzione e formazione professionale (IeFP) regionale, la distanza dal sistema tedesco è ancora più evidente (Ballarino 2013). In primo luogo in termini dimensionali: il sistema tedesco recluta circa 2/3 di ciascuna coorte di studenti, mentre in Lombardia, nell’a.s. 2010/11, la FP regionale (inclusi i corsi delle scuole) ospita circa il 17% degli studenti di secondaria di II grado (ARIFL 2011, p. 13). In secondo luogo in termini di selezione degli studenti. Mentre il sistema duale si sta adattando all’aumento della scolarità, aumentando la quantità di studenti che entrano nel sistema dopo aver conseguito la maturità, la FP regionale, senza reali differenze tra contesti, accoglie studenti provenienti da background sociali svantaggiati e da carriere scolastiche difficili. In terzo luogo, dal punto di vista dei giovani l’incentivo centrale del sistema duale è l’assunzione dell’apprendista da parte dell’azienda, un istituto così distante dalla realtà italiana che nessun progetto lo ha nemmeno nominato. Infine, dal punto di vista politico il cuore del sistema duale è la partecipazione delle parti sociali alla gestione del sistema, ma nel caso italiano la concertazione non ha dato buona prova di sé nelle politiche della formazione (Ballarino 2013). Verso il modello statale? Infine, la spinta verso l’integrazione tra scuola e formazione professionale spinge nella direzione del modello statalista, con un movimento verticale all’interno della figura, corrispondente a una crescita dell’investimento pubblico nella formazione delle competenze. In effetti, rispetto al caso italiano sia il modello segmentato che quello collettivo presentano la forte controindicazione della debolezza delle aziende. Come vedremo nel capitolo 4, sul campo esistono numerosi esempi di coinvolgimento delle aziende, ma il dato strutturale fa pensare che sia difficile generalizzare in tempi brevi tale coinvolgimento. D’altra parte, il modello statalista, in cui la formazione delle competenze si basa sulla presenza, all’interno della scuola pubblica, di una robusta filiera tecnico-professionale, non è mai stato popolare nel dibattito italiano.

Ad ogni modo, l’integrazione tra scuola e FP sembra oggi una direzione di mutamento a cui guardare con particolare interesse. Nei termini della tipologia BT, il modello statalista si distingue dal modello segmentato e da quello collettivista perché caratterizzato da un ruolo centrale dell’attore pubblico, che sostiene la maggior parte dell’investimento sociale nella produzione di competenze, sopperendo a bassi investimenti da parte del secondo attore centrale in gioco, le aziende. Un primo buon motivo per considerare seriamente un modello di questo tipo sta proprio nel fatto che le aziende italiane non sono in grado di aumentare il proprio livello di investimento nella formazione di competenze, sia strutturalmente, per il fattore dimensionale, che congiunturalmente, a causa della crisi. Lo stato, invece, anche in momenti di difficoltà come il presente dispone, potenzialmente, delle risorse necessarie per investire adeguatamente in questa direzione. In tempi di vincoli sul budget, questo potrebbe però richiedere uno spostamento di risorse da altri settori, come la sanità o il sistema pensionistico, spostamento che sembra giustificato dai ritorni molto maggiori che caratterizzano l’investimento in istruzione e competenze. La realizzabilità politica di uno spostamento di questo tipo è, però, tutta da verificare.

Un secondo buon motivo a favore dell’integrazione tra scuola e formazione professionale è suggerito dalla ricerca sulla domanda (Ballarino e Perotti 2011). Se si guarda al fabbisogno di competenze e alle strategie di reclutamento delle aziende, si osserva che solo una minoranza, sia pur consistente, è interessata prioritariamente alle competenze tecnico-professionali che si acquisiscono in un percorso formativo specializzato e finalizzato all’acquisizione di competenze specifiche all’occupazione, sul modello tedesco. Nella maggior parte dei casi quello che interessa alle aziende è, invece, un titolo di studio che certifichi da una parte il potenziale di apprendimento dei giovani, su cui si possa basare la formazione delle competenze specifiche

23

all’azienda, e dall’altra il possesso di una serie di competenze sociali e relazionali, indispensabili per potersi inserire al meglio nella gerarchia organizzativa, facendone propri i tempi e gli obiettivi. Queste due componenti della domanda di competenze non devono essere distinte e contrapposte, ma considerate nella loro compresenza, spesso all’interno della singola azienda. Dal lato dell’offerta, questo significa integrare scuola e formazione professionale, in una proporzione che può variare a seconda della professionalità specifica e delle caratteristiche della domanda locale. All’interno di un forte sistema integrato si possono sviluppare micro-sistemi duali, basati sui rapporti diretti tra scuole e aziende, che come sappiamo sono la migliore garanzia di una rapida transizione dalla scuola al lavoro.

Un terzo buon motivo, infine, è l’esperienza storica: se una scuola tecnico-professionale forte è stata tra i fattori alla base del grande sviluppo industriale conosciuto dal nostro paese negli anni 50 e 60, non si vede perché non prendere in considerazione la possibilità di un suo rilancio, ovviamente con forti cambiamenti istituzionali e organizzativi, come investimento verso una ripresa di quello sviluppo. D’altra parte, bisogna sottolineare che i nuovi investimenti nella scuola saranno produttivi solo se associati a una capacità degli istituti scolastici di essere soggetti attivi e protagonisti nella costruzione delle nuove strutture, e a una capacità di monitoraggio, valutazione e incentivazione dal centro che rimangono tutte da costruire, sia a livello nazionale che a livello regionale. Vale la pena di concludere questo capitolo con una breve descrizione di due progetti didattici creati negli ultimi anni, gli Istituti tecnici superiori e i Poli tecnico-professionale, che vanno nella direzione di un rafforzamento della scuola tecnico-professionale. Gli istituti tecnici superiori Gli ITS sono corsi post-diploma collegati a un istituto secondario di II grado: la legge che li istituisce (DL 40, 31/1/2007, art. 13, c. 2)4 prevede che nasca una Fondazione di partecipazione, che coinvolga, oltre all’istituto, anche un ente appartenente alla FP regionale, un’impresa, un dipartimento universitario o un istituto di ricerca, un ente locale, e la cui presidenza dovrebbe toccare a un rappresentante aziendale. I corsi devono avere durata almeno biennale, ma possono diventare triennali se collegati con corsi universitari. Inoltre, il finanziamento è compartecipato al 70% dal ministero, che ha stabilizzato questi fondi nella propria programmazione finanziaria. Questo dovrebbe rendere i corsi stabili, eliminando il meccanismo del bando regionale che ha indebolito precedenti esperienze di questo genere, in particolare l’IFTS (cfr. Ballarino 2013). Su questi programmi c’è un forte controllo ministeriale, con una serie di vincoli al numero di corsi che si possono aprire: al massimo uno per regione per ciascuna delle aree di contenuto che sono state definite. Al momento sono stati varati solo 62 corsi (www.isfol.it), per massimizzare la qualità di docenza e la selezione positiva degli studenti. Inoltre, è formalizzato il coinvolgimento degli enti locali e della FP regionale, ma in una posizione comunque subordinata, e soprattutto, almeno negli auspici, dovrebbe essere maggiore il ruolo delle aziende. Ci si pone inoltre il problema della competizione con i trienni universitari, prevedendo un sistema di crediti che possa condurre i corsisti alla laurea di primo livello. L’introduzione degli ITS può rinforzare notevolmente la scuola secondaria tecnico-professionale di II grado da due punti di vista: a) migliorare la selezione degli studenti, prefigurando un’alternativa interessante all’università, e quindi al liceo; b) favorire il rafforzamento complessivo degli

4 Si tratta del DL “Misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese”, promosso dal ministro dello sviluppo Bersani e definito dal suo promotore una “lenzuolata” di provvedimenti per lo sviluppo.

24

istituti, sia dal punto di vista economico, apportando risorse, che dal punto di vista del prestigio, aumentandone la visibilità per gli attori economici. I poli tecnico-professionali I PTP sono stati istituiti dalla stessa “lenzuolata” legislativa che ha prodotto gli ITS (nello stesso luogo: art. 13, c. 2), ma il testo di legge rinvia, in merito ai poli, al Dpr sull’autonomia scolastica (n. 275, 8/3/1999), art. 7, intitolato “reti di scuole”. Le reti di scuole sono consorzi “leggeri” tra scuole che hanno svolto un ruolo soprattutto di promozione degli stage e delle relazioni scuola-azienda, ma che non si sono dimostrate efficaci, da questo punto di vista, come i rapporti diretti esistenti tra singole scuole e aziende (Ballarino 2008). Ma il testo di legge del 2007 fa riferimento al comma 10 dello stesso art. 7, che prevede che le scuole “possono costituire o aderire a consorzi pubblici e privati per assolvere compiti istituzionali […] e per l'acquisizione di servizi e beni che facilitino lo svolgimento dei compiti di carattere formativo”: non si tratta di reti leggere, ma di istituzioni stabili.

I PTP diventano operativi con l’art. 52 (“Misure di semplificazione e promozione dell'istruzione tecnico-professionale e degli istituti tecnici superiori – ITS”) del DL n. 5, 9/2/2012, e in particolare con le linee guida cui la legge rinvia, sottoposte nei mesi successivi alle parti sociali e alle professioni, e approvate il 26/9 da un’intesa tra stato, regioni e autonomie locali. Per costituire un polo devono unirsi almeno due istituti tecnici o professionali, almeno due aziende, un ente della FP regionale e un ITS (quest’ultimo è facoltativo per il primo triennio). Tramite un “accordo di rete” questi attori definiscono sia gli obiettivi, triennali, del polo, che le strutture organizzative e i processi decisionali che saranno adottati per il conseguimento degli obiettivi.

L’idea è quindi quella di creare delle reti stabili che siano in grado di integrare tutte le istituzioni attive sul piano della formazione delle competenze: scuole tecniche e professionali, CFP, ITS e tramite questi ultimi anche l’università. Anche la gestione dell’alternanza scuola-lavoro, degli apprendistati e degli altri strumenti previsti dalla legge per agevolare la transizione scuola-lavoro e la formazione delle competenze rientrano esplicitamente tra gli obiettivi dei PTP. Gli obiettivi sono molto ambiziosi: le linee guida parlano (all. b) di “innovazione e innalzamento dei servizi formativi a sostegno dello sviluppo delle filiere produttive sul territorio e dell’occupazione dei giovani”. Quello che è interessante non è tanto l’ambizione degli obiettivi, ma le modalità con cui essi sono perseguiti: da quello che si evince dalle linee guida e da quanto accaduto nei mesi successivi, gli obiettivi per il momento sono perseguiti con una strategia molto prudente, che sembra puntare all’incentivazione di processi bottom up, che possono avere tempi e modalità differenti, piuttosto che all’imposizione top down di modelli organizzativi od obiettivi da perseguirsi.

Per questa ragione il progetto dei PTP potrebbe realmente essere un catalizzatore di molti altri progetti e processi già in atto: l’integrazione tra FP regionale e scuola statale definita dalla riforma della secondaria di II grado; la riqualificazione e sistematizzazione degli stage con l’alternanza scuola-lavoro (v. sopra); la creazione di una filiera di IFP post-secondaria di qualità con gli ITS; l’incentivazione dei contratti di apprendistato e della loro componente formativa; il coinvolgimento attivo del mondo delle aziende, sia individuali che come attori collettivi, nel complesso di queste attività.

Si tornerà nel capitolo 4 su questo punto.

25

3. LE INIZIATIVE DELLE SCUOLE: RISULTATI DI UNA SURVEY Abbiamo visto che se si guarda al modello italiano di formazione delle competenze in prospettiva comparata oggi lo si deve classificare nel modello liberale, basato sul mercato, che prevede un investimento relativamente basso nella formazione delle competenze tecnico-professionali sia da parte del sistema scolastico che da parte delle aziende. Come sempre, però, le comparazioni macro si basano sulle medie, che possono nascondere variazioni rilevanti: questo è particolarmente vero per il nostro oggetto, visto che le politiche scolastiche degli ultimi decenni da una parte hanno diminuito il grado di accentramento e standardizzazione del sistema, particolarmente elevato negli anni 70, aprendo maggiori spazi all’iniziativa degli attori locali, e dall’altra hanno cercato, anche se non sempre in modo lineare, di riorganizzare il sistema e i percorsi in modo da migliorare il rapporto tra scuola e mercato del lavoro e l’occupabilità dei giovani diplomati5.

Questo capitolo presenta i risultati di una survey delle scuole tecniche e professionali toscane, il cui obiettivo era rilevare direttamente e in modo sistematico quali siano le attività delle scuole finalizzate al miglioramento della transizione dei loro diplomati verso il lavoro. Il capitolo comprende 7 paragrafi. Nel primo si descrive la tecnica utilizzata per la rilevazione e la popolazione studiata. Il secondo si occupa delle attività delle scuole nel loro insieme, e dei soggetti che di queste sono partner. Nel terzo si parla dell’Alternanza scuola-lavoro, il programma ministeriale che da ormai un decennio funge da catalizzatore di queste attività, e nel quarto degli stage, la più diffusa tra queste. Il quinto paragrafo descrive le aziende con cui le scuole lavorano, il sesto le strutture interne e le persone con cui le scuole gestiscono questo insieme di attività. L’ultimo paragrafo conclude con una sintesi condotta tramite semplici modelli di analisi multivariata. 3.1 La rilevazione e la popolazione La ricerca si è rivolta all’intera popolazione delle scuole secondarie di secondo grado tecnico-professionali pubbliche toscane. Sono quindi stati esclusi i licei, dove il rapporto con il mercato del lavoro non è immediatamente rilevante, visto che la gran parte degli studenti e delle studentesse liceali successivamente si iscrivono all’università. Questo non significa che la questione del rapporto tra scuola e mercato del lavoro non sia importante nei licei, come dimostra la crescente partecipazione delle scuole di questo tipo alle iniziative dell’Alternanza scuola-lavoro (cfr. il capitolo 4), ma di certo la questione vi si pone in modo molto diverso: di qui la decisione di limitare, per il momento, la ricerca alle scuole tecniche e professionali. Un’estensione ai licei rientra tra i possibili sviluppi futuri di questo lavoro. Sono state anche escluse le scuole private, sia parificate che non parificate, per due ragioni: in primo luogo, per via della loro scarsa diffusione in Toscana; in secondo luogo, perché precedenti ricerche su

5 Qui e altrove nel rapporto si utilizza il maschile plurale per indicare entrambi i generi, come vuole la convenzione linguistica italiana. Seguire la convenzione non significa ignorare la differenza del genere femminile rispetto al maschile dominante, come invece fa la convenzione. Peraltro, i vari modi di abbandonare la convenzione per una scrittura gender-conscious danno luogo o a ripetizioni e/o perifrasi che appesantiscono il testo (“i diplomati e le diplomate”), o a veri aborti linguistici (per esempio: “una popolazione di diplomat*”) che per rispetto del lettore sembra il caso di evitare, in particolare in un lavoro sulla scuola, come questo.

26

questo tema hanno mostrato che le scuole private sono in generale sia meno attive sul fronte dei rapporti con il mercato del lavoro, che meno disponibili a diffondere informazioni in merito (Ballarino 2008). Come nel caso dei licei, quindi, si è preferito evitare di considerare nella stessa ricerca due popolazioni di scuole tra loro molto eterogenee, per non sviare il focus dello studio verso un confronto di tipo istituzionale. La popolazione La popolazione da studiare è definita come costituita dalle “scuole”, ovvero le tradizionali unità di base del sistema scolastico. Il linguaggio ufficiale del ministero oggi parla di “punti di erogazione” (cfr. Irpet 2012, p. 49). Come è noto, la scuola secondaria di secondo grado in Italia è “stratificata”, cioè suddivisa in indirizzi, e tradizionalmente in una scuola è presente un solo indirizzo, o una serie di sotto-indirizzi tra loro affini. Questo tipo di struttura non si trova in altri paesi, come per esempio negli Stati Uniti, dove le high schools sono tutte formalmente uguali e non divise per indirizzo, ma comprendono al proprio interno indirizzi (tracks) molto diversificati. Invece, in Italia gli alunni che frequentano la stessa scuola studiano più o meno le stesse materie, preparandosi per occupazioni tra loro affini: si può dunque supporre che le attività organizzate dalla scuola in vista dell’inserimento occupazionale di ragazzi e ragazze siano complessivamente omogenee, il che giustifica la scelta della singola scuola come unità di base della popolazione studiata.

Questo non si può invece dire per quelli che possiamo definire “istituti”, o “autonomie scolastiche” nel linguaggio ministeriale. Questi sono oggi le “scuole” dal punto di vista formale: hanno personalità giuridica e un dirigente scolastico, quello che un tempo veniva chiamato “preside”. Gli istituti sono aggregazioni di scuole, normalmente 2 o 3, create nel 2011 tramite un processo di accorpamento stabilito dalla legge di stabilità di quell’anno: la legge prevedeva che le scuole con meno di 600 alunni si unissero in un’unica struttura, con un unico dirigente scolastico, raddoppiando così il limite minimo precedente di 300 studenti.

Oggi in Toscana esistono 397 scuole statali, accorpate in 178 istituti: in media, ogni istituto comprende quindi 2,23 scuole. Di queste scuole, 121 sono licei, 116 istituti professionali, 15 scuole d’arte e 145 istituti tecnici (fonte: Regione Toscana). Escludendo licei, scuole d’arte, serali e carcerarie, rimane una popolazione di 193 scuole, 173 delle quali hanno accettato di essere intervistate, rispondendo alle domande di un questionario somministrato telefonicamente (metodo Cati). Il tasso di risposta è quindi molto alto, pari al 90%, anche se su alcune variabili il tasso di non risposta aumenta.

La tabella 3.1 presenta i tassi di risposta e le statistiche descrittive del campione per quanto riguarda le principali caratteristiche delle scuole, che verranno utilizzate nei prossimi paragrafi per presentare i risultati. Per quanto riguarda il territorio in cui le scuole sono collocate, poco meno di un quarto (24% circa) si trova in un contesto a bassa urbanizzazione, il 43% circa in un contesto a urbanizzazione intermedia, un terzo in un contesto molto urbanizzato6.

6 La variabile relativa al grado di urbanizzazione del comune, di fonte Istat, prevede tre livelli: Alto: zone densamente popolate, costruite per aggregazione di unità locali territoriali contigue, a densità superiore ai 500 abitanti

per km2 e con ammontare complessivo di popolazione di almeno 50 mila abitanti; Medio: zone ottenute per aggregazione di unità locali territoriali, non appartenenti al gruppo precedente, con una densità superiore

ai 100 abitanti per km2 che, in più, o presentano un ammontare complessivo di popolazione superiore ai 50 mila abitanti risultano adiacenti a zone del gruppo precedente;

Basso: aree rimanenti, che non sono state classificate nei precedenti due gruppi. La figura 3.1, in appendice al capitolo, riporta la carta della Toscana suddivisa con questo criterio.

27

Tabella 3.1 CARATTERISTICHE DELLE SCUOLE INTERVISTATE, TASSI DI RISPOSTA E CORRELAZIONI TRA LE CARATTERISTICHE N. Val. % Tasso di risposta Grado di urbanizzazione basso 41 23,7 91medio 74 42,8 85alto 58 33,5 95Istituto comprensivo si 151 88,8 89no 19 11,2 95Matching si 90 53,9 89no 77 46,1 90Tipo scuola Istituto professionale 74 42,8 87Istituto tecnico 99 57,2 92Dimensione scuola piccola 58 33,7 88media 58 33,7 87grande 56 32,6 95TOTALE 173 100,0 90

Correlazioni (rho di spearman) e significatività Urbanizzaz. Ist. Compr. Matching Tipo scuola Dimens. Urbanizzazione 1,00 Ist. Comprensivo -0,15 1,00 0,06 Matching 0,17 -0,07 1,00 0,03 0,39 Tipo scuola 0,06 -0,09 -0,04 1,00 0,43 0,26 0,61 Dimensione scuola 0,44 -0,39 0,38 0,14 1,00 0,00 0,00 0,00 0,07

La maggior parte delle scuole (89%) sono parte di “istituti superiori” (o comprensivi7), cioè

sono accorpate con altre. Abbiamo costruito inoltre un indicatore di “matching”, cioè di corrispondenza tra gli indirizzi presenti nella scuola e la struttura produttiva locale. L’indicatore è una variabile dicotomica che assume valore 1 se almeno uno degli indirizzi di studio presenti nella scuola è coerente con almeno una delle specializzazioni economiche del sistema economico locale in cui essa è situata, 0 se così non è. Ricade nella prima categoria quasi il 54% delle scuole. Per quanto riguarda il tipo di scuola, per il 57% si tratta di istituti tecnici e per il rimanente di istituti professionali. La dimensione della scuola, infine, per costruzione divide le scuole in terzili a seconda della quantità di studenti8. I tassi di risposta non presentano grandi variazioni rispetto a queste variabili, ma sono comunque leggermente inferiori nei contesti a urbanizzazione intermedia, negli istituti comprensivi, nei professionali e nelle scuole grandi.

La sezione inferiore della tabella riporta le correlazioni (rho di Spearman, trattandosi di variabili categoriali) tra le caratteristiche delle scuole, che possono essere utili per studiare gli effetti di composizione che possono stare sotto alle statistiche bivariate. Si nota che le scuole

7 Il termine utilizzato dal ministero per gli istituti di cui stiamo parlando è “istituto superiore”, mentre l’”istituto comprensivo” è un istituto che comprende scuole di livello diverso (elementari e medie, o medie e superiori). Tuttavia il termine “comprensivo” è quello semanticamente più preciso, per cui lo utilizzeremo. 8 Si considera piccola una scuola con 226 alunni o meno, media una scuola con un numero di alunni compreso tra 227 e 509 e grande una scuola con 510 alunni o più.

28

sono in media più grandi nei contesti più urbanizzati e, ovviamente, dove la scuola non fa parte di un istituto superiore (comprensivo). Le scuole sono più grandi quando i loro indirizzi corrispondono meglio alla specializzazione produttiva locale, e in media gli istituti tecnici sono più grandi dei professionali9. La distribuzione dei due tipi di scuola che consideriamo non è correlata con il grado di urbanizzazione del contesto, mentre gli istituti comprensivi sono meno frequenti nei contesti più urbanizzati, dove le scuole sono più grandi e quindi spesso non sono state accorpate. La strategia di rilevazione Dato che non esiste un elenco dei responsabili delle scuole, la rilevazione non poteva che partire dagli istituti e dal relativo dirigente. Il dirigente10 è stato contattato telefonicamente, e gli è stato chiesto di individuare per ciascuna scuola la persona più adatta a rispondere, comprendendo anche se stesso tra i possibili rispondenti. In effetti, l’organizzazione interna degli istituti non prevede regole precise per quanto riguarda la gestione delle singole scuole. Spesso il dirigente si occupa soprattutto di una scuola, di norma quella di cui era dirigente prima dell’accorpamento, e delega l’operatività dell’altra o delle altre che fanno capo all’istituto a un suo delegato. In ogni caso, in 23 casi il dirigente ha risposto personalmente, mentre nei rimanenti 150 casi ha delegato un professore alla risposta. Ai 90 dirigenti che non hanno risposto al questionario principale è comunque stato somministrato un breve questionario sulle proprie caratteristiche socio-demografiche e sul proprio lavoro, che ovviamente è stato somministrato anche ai dirigenti che avevano risposto al questionario principale. La rilevazione ha avuto luogo tra dicembre 2013 e gennaio 2014.

Il questionario era suddiviso in 12 sezioni, dedicate rispettivamente alle attività della scuola in generale; all’orientamento al lavoro; all’alternanza scuola-lavoro; agli stage; alle attività di simulazione d’impresa; alla valutazione dell’alternanza scuola-lavoro; agli stage dei corsi triennali; ai rapporti diretti con le aziende; alla reti e partnership istituzionali; al monitoraggio delle carriere dei diplomati; al rispondente; al dirigente scolastico. Per tutte le domande, veniva indicato come riferimento l’anno scolastico 2012/13. 3.2 Le attività delle scuole e i loro partner Dopo quasi 20 anni di autonomia, e nonostante i limiti dell’attuazione di questo principio (su cui si tornerà nel prossimo capitolo), le scuole italiane sono molto diverse da quelle frequentate da chi oggi ha più di 30 anni. Allora le scuole erano piene di ragazzi e ragazze la mattina, ma al pomeriggio tutto quello che succedeva nella maggior parte dei casi erano i consigli di classe e qualche sporadico corso sportivo organizzato da insegnanti di ginnastica volonterosi11. Oggi non è più così. Secondo la nostra rilevazione, oggi praticamente in tutte le scuole succede qualcosa di extra-curriculare e di extra-scolastico, che coinvolge una quantità di partner istituzionali. Vediamo di che si tratta, e quali sono i partner coinvolti.

9 La codifica è: istituto professionale 0, istituto tecnico 1. 10 Vedi la nota 1 qui sopra. 11 Questo è il ricordo personale dell’autore. Non ci sono, a nostra conoscenza, ricerche sistematiche sull’evoluzione nel tempo dell’utilizzo dei locali scolastici al di fuori delle ore di lezione.

29

Le attività Per prima cosa, il questionario chiedeva se la scuola ospitava una serie di attività extra-curriculari diverse da quelle su cui si focalizza questo lavoro perché non focalizzate direttamente allo sviluppo di competenze professionali e alla transizione scuola-lavoro. Oltre metà delle scuole ospitano esami di informatica ECDL (55%), poco meno di metà corsi di italiano per stranieri (46%) e di informatica per gli alunni della scuola (46%); oltre il 40% ospitano corsi di lingue straniere per gli alunni (43%) e la certificazione delle lingue straniere (42%). Molto inferiore la diffusione di corsi per adulti (12%) e per gli apprendisti (13%). Oltre a questi, le scuole hanno citato corsi tecnici (autocad), corsi d’arte (teatro, fotografia, fumetto, scultura), corsi di preparazione ai testi di ammissione all’università, corsi Haacp12. Delle 173 scuole rilevate, solo 30 (il 17%) non ospitano nessuna attività di questo tipo. Un buon livello di attività, quindi, anche se si deve notare che la grande maggioranza di queste sono rivolte agli alunni o agli stranieri: i corsi per la popolazione adulta, in una prospettiva di life-long learning, sono i meno diffusi. Le scuole non partecipano, in altri termini, alle politiche attive del lavoro.

Veniamo ora alle attività più rilevanti per il nostro studio. La tabella 3.2 descrive una serie di attività delle scuole, che hanno in comune il fatto di

essere a vario titolo finalizzate a migliorare il matching tra competenze richieste dalle aziende e competenze prodotte dalla scuola. La tabella riporta le percentuali bivariate, suddivise per le principali caratteristiche strutturali delle scuole. Le percentuali sono evidenziate in grassetto quando l’associazione tra caratteristica della scuola e presenza dell’attività è statisticamente significativa anche controllando per tutte le altre caratteristiche riportate in tabella, cioè al netto degli effetti di composizione. Utilizziamo cioè una significatività statistica di p < .10 (fino al 10%) come “soglia di attenzione” per segnalare quali associazioni tra le caratteristiche strutturali delle scuole e le attività oggetto dello studio rimangono robuste al controllo multivariato13. Ovviamente potrebbero esserci altre caratteristiche strutturali, o di altro genere, che fanno la differenza ma che non sono incluse in questa analisi.

In complesso, si osserva un buon livello di attività: solo in una scuola, delle 173 campionate, non se ne svolge nessuna. Quasi tutte le scuole (94%) hanno l’accreditamento regionale ai servizi di formazione, che consente di accedere ai finanziamenti della regione, e la grande maggioranza (91%) organizza attività di orientamento al lavoro per i propri alunni14. Il 90% delle scuole organizza attività nel quadro dell’alternanza scuola-lavoro (ASL), di cui si parla in dettaglio nel prossimo paragrafo. Poco meno di metà delle scuole fa parte di reti di scuole (42%) e di partnership istituzionali (44%). Al netto degli effetti di composizione, le reti di scuole sono più frequenti per gli istituti comprensivi e nei contesti più urbanizzati, le partnership istituzionali per gli istituti professionali e nei contesti a urbanizzazione intermedia. Probabilmente le scuole più grandi e situate nelle città sono più in grado di mettersi direttamente in rapporto con aziende e istituzioni, e quindi hanno più interesse a fare “massa critica” come rete di scuole, mentre le partnership istituzionali potrebbero funzionare meglio con obiettivi occupazionali e territoriali meglio definiti. L’ASL è invece così diffusa che non ci sono associazioni significative con le caratteristiche delle scuole.

12 Sono corsi per prepararsi a un esame necessario per lavorare in attività che prevedono la somministrazione di alimenti. 13 La significatività è stimata con una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella. Sono ritenute significative, e quindi evidenziate, le variabili indipendenti il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p > .10). Le stime non sono riportate per brevità ma sono disponibili presso l’autore. 14 In dettaglio, in circa tre quarti delle scuole l’orientamento consiste in attività d’aula con gli insegnanti (75%) o con esterni (70%), o in visite ad aziende (77%). Meno diffuse le visite a fiere e campus (47%), la presentazione di aziende in scuola (42%) e gli incontri con professionisti (38%). Solo in una scuola su 3 (34%) l’orientamento comprende anche consulenze individuali agli studenti.

30

Tabella 3.2 ATTIVITÀ ORGANIZZATE DALLA SCUOLE, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE % di scuole in cui si trova ciascuna attività Accreditamento

reg. Orientamento

Al lavoroAlternanza

Scuola-lavoroReti di

scuolePartnership

e reti ist.Corsi

triennali IEFPCorsi IFTS

Corsi ITS

Progetti PTP

Totale 94,2 91,0 90,0 42,2 43,9 44,9 24,3 20,2 11,6grado di urbanizzazione basso 90,2 92,3 85,0 31,7 26,8 32,5 9,8 17,1 4,9medio 95,9 90,4 91,8 43,2 52,7 54,9 25,7 24,3 12,2alto 94,8 90,7 91,2 48,3 44,8 41,1 32,8 17,2 15,5istituto comprensivo No 84,2 100,0 89,5 21,1 52,6 21,1 31,6 26,3 21,1Si 95,4 90,4 91,2 45,0 43,0 49,0 23,8 19,9 10,6matching No 92,2 88,9 93,3 40,3 42,9 44,6 20,8 14,3 6,5Si 95,6 94,3 89,9 44,4 45,6 48,3 27,8 25,6 15,6tipo scuola professionale 93,2 93,2 87,7 39,2 50,0 68,5 20,3 16,2 20,3tecnico 94,9 89,2 91,8 44,4 39,4 26,6 27,3 23,2 5,1dimensione scuola grande 94,6 92,6 90,9 41,1 55,4 37,7 33,9 28,6 16,1media 96,6 88,9 91,2 43,1 39,7 48,2 20,7 20,7 10,3piccola 91,4 91,2 89,5 43,1 37,9 49,1 19,0 12,1 8,6Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

Veniamo ora ai progetti didattici15. Poco meno di metà delle scuole (circa 45%) ospita corsi

triennali di Istruzione e formazione professionale. Si tratta dei corsi regionali che hanno sostituito, dalla riforma del 2010 in avanti, i vecchi diplomi triennali degli istituti professionali, e che oggi costituiscono quindi il primo gradino della formazione tecnica e professionale. Al netto degli effetti di composizione, questi corsi sono più frequenti negli istituti professionali (ovviamente), nei contesti più urbanizzati e nelle scuole più grandi. Ci sono evidentemente economie di scala che ne facilitano l’organizzazione.

Al livello più alto del sistema di formazione professionale si trovano invece gli IFTS e gli ITS (rispettivamente: Istruzione e formazione tecnica professionale e Istituti tecnici superiori). In entrambi i casi si tratta di corsi post-diploma, con caratteristiche diverse (Ballarino 2013). I primi coinvolgono circa una scuola su quattro (24,3%), e sono più diffusi nei contesti a urbanizzazione media e alta, mentre i secondi coinvolgono circa una scuola su cinque (20,2%), e sono più frequenti nelle scuole più grandi. Probabilmente gli IFTS sono più facili da organizzare nelle città perché, essendo organizzati su bandi annuali, richiedono ogni anno il rinnovo del network organizzativo, che deve comprendere anche le parti sociali, mentre nel caso degli ITS è decisivo il peso della scuola capofila, che vi ha un ruolo maggiore che negli IFTS. Gli ITS sono infatti dei corsi stabili, con un finanziamento ministeriale pluriennale, gestiti da fondazioni costruite attorno alla scuola capofila.

Infine, i Poli tecnico-professionali (PTP) sono presenti in meno di una scuola su 8 (11,6%). I PTP sono network di scuole, aziende e agenzie formative accreditate dalla regione (i vecchi Centri di formazione professionale e le nuove agenzie private che li hanno affiancate), che in Toscana vengono creati proprio quest’anno. I PTP coinvolgono una grande quantità di attori16, per cui l’unica associazione significativa è quella, prevedibilmente, con gli istituti professionali.

15 Cfr. il capitolo 2 di questo rapporto, e più approfonditamente Ballarino 2013 per i dettagli istituzionali e organizzativi dei vari progetti presi in considerazione. 16 Non sono ancora disponibili dati per la Toscana, ma sappiamo che in Lombardia ciascun PTP coinvolge in media 18 attori (Ballarino e Zardi 2013).

31

Anche gli istituti tecnici in effetti ne possono fare parte, e ne fanno parte, ma si tratta probabilmente di un tipo di progetto più attraente per i professionali, che in media sono più piccoli e in generale più occupazionalmente orientati.

Le attività svolte da reti e partnership sono quelle che ci si potrebbe attendere: orientamento al lavoro (67%), stage (42%), organizzazione di eventi (40%), visite in azienda (37%), stage e formazione per gli insegnanti (27%), studio dei fabbisogni formativi e/o occupazionali del territorio (27%), corsi non curriculari come quelli di cui si è detto sopra (26%), corsi post-diploma (24%), attività di project work su commessa per le aziende (5%). Prevalgono attività di tipo leggero e relativamente poco impegnative, come l’orientamento e gli stage, mentre sembrano meno frequenti attività più impegnative come la formazione degli insegnanti, l’analisi dei fabbisogni locali e il project work. Tuttavia bisogna tenere presente che, come si vedrà nel prossimo capitolo, le attività finalizzate alla transizione occupazionale degli studenti hanno una struttura cumulativa: quelle più impegnative non possono svilupparsi se non sulla base di rapporti sperimentati con quelle più leggere, a partire dagli stage.

Tabella 3.3 ATTORI CON CUI LE SCUOLE COLLABORANO STABILMENTE, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE % di scuole che collaborano con ciascun tipo di attore

Altre

scu

ole

Enti

loca

li

Cen

tri p

er

l’impi

ego

Ass.

Imp.

, ord

. Pr

of.

Cam

ere

com

m.

Uni

vers

ità

Cfp

Azie

nde

Ass.

Non

pro

fit

Sind

acat

i, en

ti bi

lat.

Fond

azio

ni

Banc

arie

Agen

zie

inte

rinal

e

Totale 74,0 51,0 50,0 42,7 41,7 33,3 31,3 30,2 17,7 9,4 9,4 3,1grado di urbanizzazione basso 63,2 26,3 42,1 21,1 26,3 15,8 5,3 10,5 21,1 0,0 5,3 0,0medio 76,7 58,1 60,5 34,9 46,5 39,5 41,9 32,6 11,6 7,0 11,6 4,7alto 76,5 55,9 41,2 64,7 44,1 35,3 32,4 38,2 23,5 17,6 8,8 2,9istituto comprensivo No 55,6 77,8 55,6 66,7 44,4 55,6 55,6 44,4 33,3 22,2 22,2 11,1Si 75,6 48,8 50,0 40,7 41,9 31,4 29,1 29,1 15,1 8,1 8,1 2,3matching No 72,7 47,7 52,3 36,4 43,2 27,3 25,0 25,0 13,6 6,8 13,6 0,0Si 76,0 54,0 50,0 48,0 42,0 38,0 36,0 34,0 20,0 12,0 4,0 6,0tipo scuola professionale 69,8 51,2 44,2 37,2 55,8 20,9 30,2 25,6 14,0 14,0 7,0 2,3tecnico 77,4 50,9 54,7 47,2 30,2 43,4 32,1 34,0 20,8 5,7 11,3 3,8dimensione scuola grande 75,0 65,6 50,0 53,1 43,8 50,0 34,4 31,3 15,6 9,4 9,4 9,4media 75,0 40,6 50,0 34,4 43,8 28,1 34,4 31,3 18,8 6,3 9,4 0,0piccola 71,9 46,9 50,0 40,6 37,5 21,9 25,0 28,1 18,8 12,5 9,4 0,0Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

I partner delle scuole Chi sono i partner delle scuole in queste attività? La tabella 3.3 li passa in rassegna: il dato riportato è, per ciascun tipo di attore e istituzione, la percentuale di scuole che dichiarano di collaborarci, nel quadro delle reti e nelle partnership di cui fanno parte. Del partner principale, le aziende, parleremo più avanti in modo più approfondito. In 3 casi su 4, le reti e partnership comprendono altre scuole (74%), in circa metà dei casi enti locali (51%) e centri per l’impiego pubblici (50%), in poco meno della metà comprendono associazioni datoriali e/o ordini professionali (43%), camere di commercio (42%), in circa un terzo dei casi università o altre scuole post-diploma (33%), centri di formazione professionale regionali (31%), aziende private e/o studi professionali (30%). Meno frequente la presenza di associazioni non profit, compresi

32

club come il Rotary o il Lions (18%), di fondazioni bancarie (9%), sindacati ed enti bilaterali (9%) e agenzie di lavoro interinale (3%).

Vale la pena di osservare che ci sono alcuni soggetti di grande importanza per il funzionamento del mercato del lavoro il cui coinvolgimento in queste attività è piuttosto scarso. In primo luogo, si tratta dei sindacati e delle agenzie di lavoro interinale, il che può essere compreso pensando che si tratta di attori privati vincolati dai rispettivi stakeholders, sia pur in modo totalmente diverso. Dal punto di vista dei sindacati, però, forse una maggiore attenzione per le attività delle scuole non sarebbe fuori luogo, anche in ragione dello scarso seguito che le organizzazioni dei lavoratori hanno oggi tra i lavoratori giovani (potrebbe anche darsi, però, che i sindacati abbiano altre vie per raggiungere gli studenti, in particolare l’associazionismo e i gruppi politici di base). Stupisce lo scarso coinvolgimento delle fondazioni bancarie, la cui missione dovrebbe essere il sostegno al territorio, anche se – anche in questo caso – non si può escludere che le fondazioni facciano arrivare il loro sostegno alle scuole con altri mezzi. Qualcosa di simile vale per i club privati come il Rotary o simili.

La tabella consente di individuare le associazioni significative tra le varie attività e le varie caratteristiche delle scuole. In complesso si osserva una maggiore frequenza di contatti, come si sarebbe potuto supporre, per le scuole collocate in contesti a urbanizzazione media e alta: banalmente, più è grande la città, o più grandi città sono vicine, maggiore è la facilità con cui si costruiscono e mantengono rapporti, sia diretti che istituzionali. Le scuole che si trovano in istituti comprensivi (che sono più piccole) fanno parte più spesso di reti, forse per creare economie di scala, mentre le grosse scuole non comprensive hanno più spesso rapporti con attori molto connotati occupazionalmente, come cfp e sindacati o enti bilaterali. Di meno immediata interpretazione l’associazione tra scuole che non corrispondono alla specializzazione produttiva del territorio e fondazioni bancarie. Molto interessante il fatto che gli istituti tecnici abbiano più facilmente rapporti con le università e i professionali con le camere di commercio: questo sembra alludere a una divisione del lavoro tra i due ordini scolastici, con i tecnici più vicini alla formazione accademica e i professionali più vicini ai fabbisogni del territorio. Infine, non si osservano associazioni significative con la dimensione della scuola. 3.3 L’alternanza scuola-lavoro Come abbiamo visto nel capitolo 2, l’Alternanza scuola-lavoro (ASL) è stata introdotta nel 2003, nel quadro della riforma della scuola secondaria superiore, come strumento di avvicinamento tra scuole e mercato del lavoro. La nostra rilevazione conferma la dinamica espansiva che l’ASL ha avuto negli ultimi anni a livello nazionale (Tab. 2.2): si trovano iniziative riconducibili all’ASL nella grande maggioranza delle scuole studiate, precisamente nel 90% (Tab. 3.2). Della ventina di scuole che non hanno organizzato iniziative di questo tipo, 9 hanno dichiarato di averne organizzate in passato. Di queste, 6 al momento sono ferme per ragioni contingenti e pensano di riprendere appena possibile, 2 dichiarano che mancano i docenti disponibili a occuparsene e solo 1 risponde che la mancata partecipazione dipende da un giudizio negativo sul programma. In buona sostanza, l’ASL oggi è dappertutto, tanto che non riesce semplice distinguere tra iniziative formalmente riconducibili al programma e iniziative da esso indipendenti. Per certi versi, si tratta infatti più di una metodologia che di un mero programma di finanziamento.

33

Le attività ASL e la loro organizzazione Cosa viene fatto, in concreto, nel quadro dell’ASL? Come si può vedere dalla tabella 3.4, le attività più diffuse sono attività “leggere”: in 4 scuole su 5 si svolgono stage lavorativi (88,9%), in circa 2 su 3 visite guidate ad aziende o simili (66%) e attività di orientamento (61%), in un po’ più di 1 su 3 stage osservativi, in cui lo studente non lavora ma si limita a fermarsi qualche giorno in azienda a vedere cosa succede (37%). Meno frequenti, ma comunque diffuse, le attività più impegnative e strutturate: una scuola su 5 circa partecipa all’Impresa formativa simulata (IFS, 19%)17, circa una su 7 ospita project work (16%) e poco più di una su 10 partecipa all’Impresa in azione18 (IA, 11%). Tabella 3.4 ATTIVITÀ ORGANIZZATE DALLA SCUOLA NEL QUADRO DELL’ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE % di scuole attive Stage

lavorativo Visite

guidateOrientamento Stage

osservativiImpresa formativa

simulataProject

workImpresa

in azione Totale 88,9 66,0 61,4 37,3 19,0 16,3 11,1grado di urbanizzazione basso 94,1 67,6 38,2 32,4 14,7 5,9 8,8medio 86,6 67,2 67,2 37,3 23,9 17,9 13,4alto 88,5 63,5 69,2 40,4 15,4 21,2 9,6istituto comprensivo No 94,1 58,8 47,1 17,6 5,9 23,5 11,8Si 88,9 66,7 63,0 39,3 20,7 15,6 11,1matching No 90,0 62,9 55,7 30,0 15,7 12,9 10,0Si 88,8 68,8 65,0 41,3 22,5 20,0 12,5tipo scuola professionale 93,8 64,1 62,5 40,6 20,3 18,8 7,8tecnico 85,4 67,4 60,7 34,8 18,0 14,6 13,5dimensione scuola grande 90,0 70,0 70,0 36,0 20,0 20,0 14,0media 88,5 57,7 55,8 34,6 17,3 13,5 13,5piccola 88,2 70,6 58,8 41,2 19,6 15,7 5,9Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella

17 IFS è un’iniziativa del ministero, da sempre posta a fianco dell’ASL. Questa la presentazione, dal website INDIRE: “La metodologia dell'Impresa Formativa Simulata (IFS) consente l'apprendimento di processi di lavoro reali attraverso la simulazione della costituzione e gestione di imprese virtuali che operano in rete, assistite da aziende reali. L'Agenzia Scuola [precedente nome dell’INDIRE, NdR] ha realizzato un ambiente di simulazione […] che offre agli studenti e agli insegnanti la possibilità di misurarsi con le problematiche legate alla costituzione e poi alla gestione di un’impresa, in tutto simile a quelle reali. Un modo nuovo e stimolante di approfondire contenuti ed avvicinarsi al mondo del lavoro in modo interattivo e divertente, attraverso un pratico ambiente di simulazione che riduce la distanza tra l'esperienza teorica e quella pratica.” 18 Dal website di Impresa in azione: “Incoraggiare lo spirito imprenditoriale nella scuola superiore, promuovendo la creatività, l’uso consapevole delle risorse, il coraggio e la responsabilità del rischio, proprio come i veri imprenditori sanno fare. Dal 2002, Impresa in azione offre ogni anno a più di 7.000 studenti tra i 16 e i 19 anni in tutta Italia l’opportunità di prendere parte a una stimolante esperienza di formazione imprenditoriale a scuola […] Per la metodologia didattica utilizzata è inseribile nei percorsi di Alternanza Scuola Lavoro previsti dalle scuole; per la sua interdisciplinarietà inoltre, si integra nelle aree educative economico-sociali, tecnico-scientifiche o umanistiche.”. In sostanza, si tratta della simulazione dell’avvio e della gestione di una mini-impresa.

34

Tabella 3.5 FINANZIAMENTO DELL’ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE % di scuole che ricevono fondi, e provenienza dei fondi

% di scuole che ricevono finanziamenti

% di scuole che ricevono fondi da:

MIURUSR

Regione IstitutoCamera di comm. Altri pubblici AziendeAss. Impr

Altri privati

TOTALE 85,4 68,7 40,5 23,7 10,7 3,8 3,1 3,1

Grado di urbanizzazione Basso 94,1 75,0 40,6 15,6 9,4 6,3 3,1 0,0Medio 77,3 59,6 46,2 30,8 3,8 3,8 1,9 5,8Alto 90,2 74,5 34,0 21,3 19,1 2,1 4,3 2,1

Istituto comprensivo No 82,4 78,6 28,6 28,6 7,1 0,0 7,1 7,1Si 85,7 67,2 42,2 23,3 11,2 4,3 2,6 2,6

Matching No 87,0 60,7 41,0 23,0 16,4 6,6 1,6 3,3Si 83,5 76,1 40,3 23,9 6,0 1,5 3,0 3,0

Tipo scuola Professionale 90,6 75,9 44,8 20,7 15,5 3,4 0,0 3,4Tecnico 81,6 63,0 37,0 26,0 6,8 4,1 5,5 2,7

Dimensione scuola Grande 83,7 76,2 26,2 31,0 4,8 0,0 4,8 4,8Media 80,4 59,5 54,8 19,0 9,5 7,1 0,0 2,4Piccola 92,2 70,2 40,4 21,3 17,0 4,3 4,3 2,1Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

Al netto degli effetti di composizione si osserva che nelle scuole situate in istituti comprensivi si svolgono più frequentemente attività di orientamento, stage osservativi e IFS, e che nelle scuole collocate in contesti a urbanizzazione medio-alta sono più frequenti l’orientamento e i project work.

Per quanto riguarda lo stage lavorativo, cioè lo stage propriamente detto, si osserva una differenza tra istituti tecnici e professionali, a vantaggio dei secondi, che sembra degna di nota anche se non raggiunge il livello di significatività, 0,10, che abbiamo definito come “soglia di attenzione” (è significativa a 0,12).

Come viene finanziata l’ASL? La tabella 3.5 fornisce le informazioni rilevanti. Solo nell’85% delle scuole c’è un finanziamento vero e proprio. In effetti, attività “leggere” come gli stage o l’orientamento possono anche essere svolte a costo zero, anche se questo di fatto significa fare leva sul lavoro volontario degli insegnanti, o comunque delle persone che si occupano degli aspetti organizzativi delle attività stesse. Basare sul volontarismo attività che devono essere sistematiche, come quelle di contatto tra scuole e mondo del lavoro, è un errore duplice: in primo luogo perché non è detto che le persone disponibili a svolgere un lavoro, per esempio il responsabile per la scuola delle attività di cui stiamo parlando, siano le più adatte a svolgerlo; in secondo luogo perché il volontariato impedisce l’apprendimento, nascondendo le carenze organizzative e prolungandole nel tempo, con il rischio di un crollo nel momento in cui il volontario venisse meno.

In generale, il finanziamento dell’ASL viene dallo stato: in 2 casi su tre ci si avvale dei finanziamenti del ministero, nel 40% dei casi di finanziamenti regionali, in un caso su quattro di fondi della scuola, in uno su 10 di fondi provenienti da una Camera di commercio. I privati

35

giocano un ruolo residuale: solo nel 3% dei casi c’è un finanziamento da aziende, individuali o associate, e in un altro 3% sono altri privati a finanziare.

Questa struttura presenta qualche differenza da quella osservata a livello nazionale (INDIRE 2013): rispetto al dato nazionale, quello toscano presenta una maggiore diffusione dei contributi dei privati (3% contro 1%) e della Regione (40% contro 6%), e una minore diffusione dei contributi dello stato (68% contro 74%). Potrebbe però semplicemente trattarsi di diverse classificazioni, in particolare per quanto riguarda i contributi degli attori pubblici. Al netto degli effetti di composizione, gli istituti tecnici sembrano accedere meno facilmente ai finanziamenti, in particolare a quelli ministeriali. Lo stesso vale per le scuole collocate in contesti a urbanizzazione intermedia, mentre le scuole collocate in contesti ad alta urbanizzazione accedono più facilmente ai fondi delle Camere di commercio, che in effetti sono istituzioni tipicamente urbane. Lo stesso accade per le scuole piccole, mentre per il resto, le caratteristiche strutturali delle scuole non presentano associazioni significative con la provenienza dei fondi.

Com’è organizzata l’ASL nelle scuole? Nella stragrande maggioranza dei casi c’è un referente responsabile per l’attività. Solo nelle scuole così grandi da non fare parte di istituti comprensivi la figura del referente è meno frequente, probabilmente perché la complessità è decisamente inferiore e questa delega è unita ad altre. In quasi due terzi delle scuole il responsabile è un insegnante, in una scuola su 5 una commissione di insegnanti, nei casi rimanenti un non docente o il vice del dirigente. Solo in pochissime scuole il dirigente si occupa personalmente dell’ASL. Tabella 3.6 ORGANIZZAZIONE DELL’ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE

% di scuole in cui c’è un responsabile

per l’ASL

% di scuole in cui il responsabile è un/una…Il personale esterno

è utilizzato come tutor scolastico?

Le aziende contribuiscono

alla progettazione dell’ASL?*

Vice Dirigente Insegnante Non docente

Commissione di insegnanti

TOTALE 96,1 6,2 1,4 64,4 7,5 20,5 2,6 69,7

Grado di urbanizzazione Basso 91,2 0,0 0,0 77,4 9,7 12,9 2,9 67,6Medio 95,5 7,8 0,0 56,3 9,4 26,6 3,0 68,7Alto 100,0 7,8 3,9 66,7 3,9 17,6 2,0 72,5

Istituto comprensivo No 88,2 13,3 0,0 60,0 13,3 13,3 5,9 76,5Si 97,0 5,4 1,5 65,4 6,9 20,8 2,2 68,7

Matching No 97,1 1,5 1,5 65,7 10,4 20,9 2,9 65,2Si 95,0 10,5 1,3 64,5 3,9 19,7 2,5 72,5

Tipo scuola Professionale 95,3 3,3 1,6 67,2 6,6 21,3 3,1 60,0Tecnico 96,6 8,2 1,2 62,4 8,2 20,0 2,3 77,3

Dimensione scuola Grande 98,0 6,1 4,1 65,3 4,1 20,4 4,0 74,0Media 96,1 12,2 0,0 59,2 6,1 22,4 2,0 66,7Piccola 94,1 0,0 0,0 68,8 12,5 18,8 2,0 68,6*% di scuole che hanno risposto “molto” e “abbastanza” alla domanda. Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

36

Da questo punto di vista, la tabella mostra differenze significative, anche se da considerare con cautela per la scarsa numerosità dei casi rispetto al numero di celle: il vice dirigente è più diffuso nelle scuole con corrispondenza (matching) tra indirizzi e specializzazione produttiva territoriale, il dirigente nelle scuole grandi, mentre un insegnante è meno frequente nelle scuole che si trovano in contesti a media urbanizzazione.

La tabella riporta poi due dati che si possono considerare come indicatori di qualità dell’organizzazione dell’ASL: la partecipazione di personale esterno come tutor scolastici degli stage e il contributo delle aziende alla progettazione dei corsi. Nel primo caso, il ricorso a personale esterno dovrebbe indicare un maggiore investimento da parte della scuola, perché ovviamente non sempre gli insegnanti hanno il tempo o la disponibilità di seguire in modo adeguato gli stage dei ragazzi. Nel secondo caso, sappiamo sia dall’analisi comparata dei sistemi di formazione professionale che dalla ricerca su casi locali che il coinvolgimento delle aziende nella progettazione dei corsi è la migliore garanzia per la loro adeguatezza dal punto di vista delle possibilità occupazionali dei ragazzi. I due indicatori non vanno nella stessa direzione. Solo nel 2,6% delle scuole si ricorre a personale esterno, mentre in quasi il 70% delle scuole le aziende contribuiscono “molto” o “abbastanza” alla progettazione delle attività dell’ASL. Lo scarso ricorso a personale esterno riporta senz’altro al problema dei finanziamenti. Il coinvolgimento delle aziende invece non richiede finanziamento, ed è quindi relativamente diffuso. Bisognerebbe poi sapere quanto questo coinvolgimento è approfondito, ma una survey come questa difficilmente può fornire informazioni così dettagliate. Al netto degli effetti di composizione, il coinvolgimento delle aziende è più frequente negli istituti tecnici.

La valutazione delle attività ASL Le scuole sono soddisfatte dell’ASL? La tabella 3.7 riporta la valutazione dei nostri rispondenti su una serie di aspetti dei possibili esiti del programma, espressa con un voto da 1 a 10, più (nell’ultima colonna a destra) la semplice media di questi punteggi. Il commento può quindi cominciare da qui: con un punteggio medio complessivo di 6,2, l’ASL ottiene una sufficienza piena19, ma non molto di più. Le dimensioni che contribuiscono di più a questo risultato sono la formazione degli studenti (media 7,3) e i rapporti con le aziende (7): questi sono evidentemente gli aspetti dell’ASL di cui i nostri interlocutori sono più soddisfatti. Meno soddisfacente, ma comunque al di sopra della sufficienza, la valutazione di altre due dimensioni: i rapporti con altri partner (istituzioni e altre organizzazioni), con un voto medio di 6,5, e la formazione degli insegnanti (6,2). Al limite della sufficienza la valutazione in merito alle ricadute sulla didattica (5,9) e quella in merito all’inserimento occupazionale degli studenti (5,7). Nettamente insufficiente, invece, l’esito dell’ASL in merito al reperimento delle risorse, che viene valutato a 4,5 punti.

19 Il 6 è la sufficienza secondo la metrica tradizionale della scuola italiana, che i nostri ripondenti hanno bene in mente.

37

Tabella 3.7 VALUTAZIONE DELL’ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE. PUNTEGGIO MEDIO* RISPETTO A:

Inse

rimen

to

occu

pazi

onal

e de

gli

stud

enti

Form

azio

ne d

egli

stud

enti

Ric

adut

e su

lla

dida

ttica

Rap

porti

con

le

azie

nde

Rap

porti

con

altr

i pa

rtner

(ist

ituzi

oni

ecc.

)

Aggi

orna

men

to e

fo

rmaz

ione

deg

li in

segn

anti

Ris

orse

a

disp

osiz

ione

del

la

scuo

la

Punt

eggi

o m

edio

Totale 5,7 7,3 5,9 7,0 6,5 6,2 4,5 6.2grado di urbanizzazione basso 5,7 7,4 5,9 6,8 6,1 6,2 4,5 6.1medio 5,7 7,2 6,0 6,9 6,5 6,1 4,6 6.2alto 5,9 7,2 5,8 7,3 6,9 6,3 4,3 6.2istituto comprensivo No 6,2 6,8 5,5 6,7 6,0 5,8 4,7 5.9Si 5,7 7,3 6,0 7,1 6,6 6,3 4,5 6.2matching No 5,7 7,2 5,9 6,8 6,5 6,1 4,4 6.1Si 5,8 7,3 6,0 7,2 6,6 6,3 4,6 6.2tipo di scuola professionale 6,1 7,5 6,3 7,5 6,8 6,2 4,9 6.4tecnico 5,5 7,1 5,7 6,7 6,4 6,2 4,2 5.9dimensione scuola grande 5,8 7,3 5,7 7,4 7,0 6,6 4,4 6.3media 5,8 7,0 6,1 6,7 6,2 5,8 4,5 5.9piccola 5,7 7,4 6,1 7,0 6,5 6,3 4,5 6.2* scala 1 (per niente soddisfatto) -10 (molto soddisfatto) Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione OLS della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

L’impressione è che questo dato vada letto insieme con altri due dati già visti: quello sulle

attività svolte, prevalentemente di tipo leggero come stage o visite aziendali, e quello sul finanziamento, che proviene praticamente solo da fondi pubblici e quindi è esposto alle ristrettezze che hanno riguardato i bilanci di tutti gli enti pubblici italiani negli ultimi anni, in particolare dopo l’esplosione della crisi del debito.

L’unica caratteristica delle scuole associata significativamente, al netto degli effetti di composizione, con questo punteggio medio è il tipo: negli istituti tecnici il punteggio è di 5,3, nei professionali 6,4. Un dato di una certa importanza, su cui si tornerà. In effetti, se si guarda alle singole dimensioni, gli istituti tecnici hanno un punteggio significativamente inferiore su 4 dimensioni su 7: inserimento occupazionale, ricadute didattiche, rapporti con le aziende (6,7, contro un brillante 7,2 dei professionali) e reperimento risorse. Oltre a questo, c’è poco altro: gli istituti comprensivi sono più soddisfatti dei rapporti con altre istituzioni (potrebbe trattarsi dei rapporti con altre scuole, in cui sono più attivi, come abbiamo visto nella Tab. 3.3).

Dunque il bilancio complessivo dell’ASL sembra positivo, e questo viene confermato da un secondo esercizio empirico. La tabella 3.8 riporta gli analoghi giudizi formulati a proposito delle reti di scuole e delle partnership istituzionali di cui si è parlato nel paragrafo precedente (Tab. 3.2). Dato che queste reti a volte coincidono con l’ASL, a volte hanno luogo al di fuori, possiamo quindi considerare la differenza tra le due valutazioni come la stima di una sorta di “valore aggiunto” dell’ASL rispetto a una serie di attività che le scuole possono svolgere anche al di fuori del programma. La tabella mostra che questo valore aggiunto è positivo: il punteggio medio in questo caso è pari a 5,6, che sale a 5,7 se eliminiamo una delle dimensioni di valutazione delle reti (relativa ai finanziamenti), che non era presente nella batteria relativa

38

all’ASL. Una differenza di oltre l’8% a favore dell’ASL. La valutazione delle singole dimensioni non cambia molto rispetto a quella dell’ASL, e la differenza è sempre attorno a mezzo punto. Fanno eccezione i rapporti con le aziende, con una differenza maggiore a vantaggio dell’ASL (0,8), e il reperimento di risorse, su cui non c’è differenza. Dunque l’ASL ha un valore aggiunto maggiore sul lato del rapporto con le aziende, mentre sul reperimento delle risorse la situazione è comunque difficile, anche perché i fondi sono sempre gli stessi.

Il dettaglio della tabella 3.8 mostra un quadro non molto diverso da quello dell’ASL, ma con maggiore eterogeneità. In termini complessivi, e al netto degli effetti di composizione, la soddisfazione per gli esiti di reti e partnership è significativamente inferiore non solo negli istituti tecnici, come nel caso dell’ASL, ma anche nelle scuole situate in istituti comprensivi, in quelle con basso matching tra indirizzi scolastici e specializzazione produttiva del territorio, e in quelle di grande dimensione. Anche gli andamenti condizionati alle variabili strutturali sono simili, ma in questo caso sono più significativi: si osserva quindi una valutazione peggiore su tutte le dimensioni per quanto riguarda gli istituti tecnici, sulla maggioranza delle dimensioni per le scuole collocate in istituti comprensivi (qui gli andamenti presentano qualche differenza con quelli dell’ASL), su 3 dimensioni su 8 per le scuole grandi e per quelle che non corrispondono alla specializzazione produttiva territoriale.

Tabella 3.8 VALUTAZIONE DELLE PARTNERSHIP E DELLE RETI DI CUI LA SCUOLA FA PARTE, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE. PUNTEGGIO MEDIO* RISPETTO A:

Inserimento

occupaz. degli studenti

Formazione degli

studenti

Ricadute sulla

didattica

Rapporti con le

aziende

Rapporti con altri partner

(istituzioni ecc.)

Formazione degli

insegnanti

Risorse a disposizione

della scuola

Fondi adisposizionedella scuola

Punteggio medio

Totale 5,4 6,7 5,5 6,2 6,3 5,8 4,5 4,4 5,6

Grado di urbanizzazione Basso 5,3 7,3 6,2 5,9 6,3 5,7 4,7 4,8 5,8Medio 5,0 6,3 5,0 6,4 6,3 5,7 4,6 4,4 5,5Alto 5,9 6,8 5,6 6,2 6,2 5,9 4,4 4,1 5,6

Istituto comprensivo No 6,6 7,6 5,9 6,6 6,3 5,9 5,4 5,4 6,3Si 5,2 6,6 5,4 6,2 6,3 5,8 4,4 4,2 5,5

Matching No 5,1 6,6 5,4 5,7 6,0 5,7 4,2 4,1 5,3Si 5,5 6,8 5,6 6,6 6,4 5,8 4,9 4,6 5,7

Tipo scuola Professionale 5,8 7,0 6,0 6,7 6,8 6,3 5,2 5,1 6,1Tecnico 5,0 6,4 5,0 5,8 5,9 5,4 4,1 3,8 5,2

Dimensione scuola Grande 5,1 6,6 5,0 6,3 6,2 5,7 4,1 4,2 5,4Media 5,4 6,5 5,5 6,0 6,1 5,5 4,7 4,3 5,5Piccola 5,6 7,0 5,9 6,3 6,5 6,2 4,8 4,7 5,9* scala 1 (per niente soddisfatto) -10 (molto soddisfatto) Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione OLS della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

39

3.4 Gli stage Lo stage, o tirocinio, è la più diffusa tra le varie attività con cui le scuole possono migliorare la transizione al mercato del lavoro dei propri studenti: questa è una buona ragione per studiarlo in modo approfondito. Per lo studente, lo stage rappresenta spesso il primo contatto con il mondo del lavoro: può essere la premessa di un inserimento in azienda, o quanto meno il primo passo nella formazione di un curriculum. Per l’azienda, lo stage può essere uno strumento di selezione efficace e a buon mercato, o anche, spesso, un’occasione di disporre di manodopera a basso costo. Per la scuola, lo stage è un servizio importante offerto agli studenti, ma può anche essere qualcosa di più, ovvero l’occasione di raccogliere dalle aziende un feedback sulle competenze degli alunni e sulla loro appropriatezza rispetto alle esigenze aziendali. Lo stage esiste da sempre: esso trova le proprie radici storiche negli apprendistati medievali e più in generale nella formazione on the job, il modo in cui le competenze occupazionali sono state formate per secoli, prima della nascita della grande impresa e lo sviluppo della razionalizzazione del lavoro. In Italia lo stage è stato introdotto formalmente con la legge 196/1997 (il c.d. “pacchetto Treu”), è stato regolato dal successivo DM 192/1998, e negli anni successivi è stato massicciamente promosso dalle politiche scolastiche.

La diffusione degli stage è ampiamente confermata dalla nostra rilevazione: solo il 10% delle scuole non svolgono stage nel quadro dell’ASL, e metà di queste svolgono stage per proprio conto, senza inserirli nell’ASL: solo nel 5% delle scuole studiate in cui non ci sono stage. Per avere un termine di paragone, una ricerca simile a questa svolta sulle scuole tecnico-professionali lombarde nell’anno scolastico 2004/05 riportava una percentuale di scuole in cui non ci sono stage pari al 7,5% (Ballarino 2008). Vediamo ora nell’ordine: le caratteristiche generali degli stage e il loro rapporto con la didattica, la loro gestione operativa, la valutazione e infine il rapporto tra stage e altre iniziative didattiche. Le caratteristiche generali degli stage Le caratteristiche generali degli stage svolti nelle scuole toscane sono riportate nella tabella 3.9. La durata media è di circa 3 settimane, senza particolari variazioni se non una maggiore durata media nelle scuole più grandi. Quasi ovunque agli stage sono abbinate lezioni, solo nel 15% delle scuole questo non ha luogo. Da questo punto di vista, le scuole situate in istituti comprensivi sono nettamente più attive di quelle “sole”. La tabella consente di valutare il processo di diffusione degli stage: solo 1 scuola su 5 dichiara di effettuare stage da oltre 20 anni, mentre oltre la metà li ha iniziati tra 20 e 10 anni fa, il periodo della loro regolamentazione (1996) e dell’introduzione dell’ASL (2003). In questo processo, le prime sono state le scuole in contesti a urbanizzazione media e alta, dove è disponibile un numero maggiore di aziende, e quelle con un alto livello di matching tra indirizzi della scuola e specializzazione produttiva del territorio, dove il rapporto tra scuola e azienda è evidentemente più agevole.

40

Tabella 3.9 CARATTERISTICHE DEGLI STAGE, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE

Durata media degli stage (settimane)

% di scuole in cui gli stage esistono da: % scuole in cui allo stage sono abbinate lezioni

5 anni o meno

5/10 anni Oltre 10 anni

Oltre 20 anni

TOTALE 2,9 2,1 26,2 51,8 19,9 84,7

Grado di urbanizzazione Basso 2,5 3,3 36,7 53,3 6,7 84,8Medio 3,4 1,6 27,4 51,6 19,4 87,1Alto 2,6 2,0 18,4 51,0 28,6 81,6

Istituto comprensivo No 2,8 0,0 31,3 50,0 18,8 50,0Si 2,9 2,4 25,8 52,4 19,4 89,0

Matching No 2,9 3,0 28,8 54,5 13,6 83,8Si 2,9 1,4 23,6 50,0 25,0 84,9

Tipo scuola Professionale 3,2 1,7 22,4 55,2 20,7 81,7Tecnico 2,7 2,4 28,9 49,4 19,3 86,9

Dimensione scuola Grande 3,4 0,0 23,4 55,3 21,3 78,7Media 2,7 2,1 29,8 51,1 17,0 85,4Piccola 2,7 4,3 25,5 48,9 21,3 89,8Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare (OLS nel caso della durata dello stage) della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

Un indicatore di qualità degli stage può essere la loro localizzazione, che misura l’estensione

delle reti che la scuola può attivare in quel senso (Tab. 3.10, colonne a destra). La grande maggioranza delle scuole è in grado di attivare reti brevi, sul territorio del comune (66,5%) o della provincia (70,5%) in cui la scuola è localizzata. Fuori provincia, ma all’interno della regione arriva poco meno di una scuola su 5 (18,5%). Le caratteristiche delle scuole non fanno differenza da questi punti di vista, una volta che si sia controllato per gli effetti di composizione. Emergono differenze, invece, rispetto agli stage fuori regione: meno di una scuola su 10 (9,2%) organizza stage in Italia, e una percentuale leggermente inferiore ne organizza all’estero (8,1%). Le scuole grandi sono più attive in questo senso, ma la differenza è significativa, controllando per le altre caratteristiche, solo per gli stage all’estero. Un’altra differenza è significativa: le scuole collocate in contesti urbani hanno meno stage fuori regione, perché evidentemente trovano quello di cui hanno bisogno in città, mentre quelle collocate in contesti a urbanizzazione intermedia sono più attive sull’estero Stage e didattica: alla ricerca del sistema duale La tabella 3.10 fornisce una serie di informazioni sul rapporto tra stage e lezioni. Il grado di integrazione tra i due può essere utilizzato come indicatore per individuare forme di didattica “duale”, in cui lezioni in aula e lavoro in azienda sono strettamente collegate. In realtà la didattica duale è ancora da venire: solo in una minoranza di scuole, meno di una su quattro (23,3%), le lezioni di sostegno agli stage si svolgono nello stesso periodo in cui i ragazzi sono in azienda. Al netto degli effetti di composizione, l’integrazione è più frequente nelle scuole di media dimensione. Che siamo lontani da un sistema duale si nota anche dal dato relativo al peso rispettivo dello stage propriamente detto e delle lezioni abbinate, che hanno lo stesso peso solo in 1 scuola, mentre nell’8% circa delle scuole pesano almeno la metà. In metà delle scuole il

41

peso delle lezioni è tra il 10 e il 50%, e nel 42% rimanente al di sotto del 10%. In sostanza, il punto sembra essere che nella maggioranza dei casi le lezioni abbinate allo stage rappresentano semplicemente un’introduzione allo stage, o, come vedremo tra breve, una sua valutazione. Da questo punto di vista non ci sono variazioni significative legate alle caratteristiche delle scuole.

Dalla tabella 3.11 ricaviamo l’informazione su chi insegna nelle lezioni abbinate agli stage: prevalgono gli insegnanti della stessa scuola, che svolgono questo compito in 4 scuole su 5. In particolare questo accade nelle scuole situate negli istituti comprensivi, dove evidentemente c’è una maggiore varietà di competenze a disposizione tra gli insegnanti. Gli insegnanti di altre scuole sono presenti solo in 3 casi su 100, con una particolare frequenza nelle scuole di dimensione intermedia. Un indicatore di “dualità” effettiva degli stage potrebbe essere la presenza come docenti di imprenditori o comunque dipendenti di aziende: i primi sono presenti in oltre metà delle scuole (53,3%), i secondi in circa un terzo (33,6%), senza variazioni significative per tipo di scuola. In un altro terzo delle scuole intervistate troviamo come docenti nelle lezioni abbinate agli stage esperti del settore (33%) o esperti “generalisti”, presumibilmente accademici, di formazione e lavoro (31%). Il tipo di scuola fa la differenza solo per il maggiore ricorso a esperti nelle scuole di media dimensione. Tabella 3.10 CARATTERISTICHE DEGLI STAGE E DELLE LEZIONI ABBINATE, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE Le lezioni si

svolgono nello stesso periodo

degli stage?

Quanto durano le lezioni in %rispetto agli stage?

Dove si svolgono gli stage?

<10% Tra il 10 e il 50%

Dal 50% in su

Lo stesso Sul territorio del comune

In provincia, fuori dal comune

In regione, in un’altra provincia

Fuori regione, in Italia

All’estero

TOTALE 23,3 42,0 49,6 7,6 0,8 66,5 70,5 18,5 9,2 8,1

Grado di urbanizzazioneBasso 29,6 37,0 59,3 3,7 0,0 68,3 73,2 19,5 14,6 2,4Medio 28,3 40,4 50,0 9,6 0,0 64,9 66,2 18,9 9,5 14,9Alto 12,5 47,5 42,5 7,5 2,5 67,2 74,1 17,2 5,2 3,4

Istituto comprensivoNo 12,5 75,0 25,0 0,0 0,0 73,7 73,7 31,6 10,5 10,5Si 24,3 39,1 51,8 8,2 0,9 66,9 70,9 17,2 9,3 7,9

MatchingNo 27,3 43,6 50,9 5,5 0,0 68,8 76,6 20,8 7,8 6,5Si 19,4 41,0 47,5 9,8 1,6 66,7 66,7 17,8 11,1 10,0

Tipo di scuolaProfessionale 23,4 38,3 46,8 12,8 2,1 67,6 64,9 17,6 8,1 6,8Tecnico 23,3 44,4 51,4 4,2 0,0 65,7 74,7 19,2 10,1 9,1

Dimensione scuolaGrande 16,2 58,3 36,1 5,6 0,0 66,1 73,2 25,0 10,7 14,3Media 34,1 31,7 53,7 12,2 2,4 72,4 65,5 13,8 8,6 6,9Piccola 19,0 38,1 57,1 4,8 0,0 62,1 74,1 17,2 8,6 3,4Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

42

Tabella 3.11 CHI INSEGNA NELLE LEZIONI ABBINATE AGLI STAGE?, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE

Insegnanti della scuola

Insegnanti di altre scuole

Imprenditori, dirigenti di

aziende

Tecnici, lavoratori

di aziende

Esperti del settore

Esperti di formazione

e lavoro

Funzionari, dirigenti pubblici

Totale 79,5 3,3 53,3 33,6 32,8 31,1 17,2

Grado di urbanizzazione Basso 71,4 0,0 53,6 32,1 25,0 39,3 7,1Medio 77,8 3,7 48,1 27,8 38,9 29,6 14,8Alto 87,5 5,0 60,0 42,5 30,0 27,5 27,5

Istituto comprensivo No 62,5 0,0 75,0 25,0 37,5 50,0 12,5Si 80,5 3,5 52,2 33,6 32,7 29,2 17,7

Matching No 71,9 1,8 54,4 35,1 28,1 26,3 15,8Si 85,5 4,8 51,6 32,3 38,7 35,5 17,7

Tipo scuola Professionale 81,6 6,1 51,0 34,7 36,7 24,5 16,3Tecnico 78,1 1,4 54,8 32,9 30,1 35,6 17,8

Dimensione scuola Grande 83,8 0,0 59,5 35,1 32,4 37,8 16,2Media 82,9 9,8 41,5 31,7 51,2 24,4 19,5Piccola 72,7 0,0 59,1 34,1 15,9 31,8 15,9Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella. Tabella 3.12 SELEZIONE E RETRIBUZIONE DEGLI STAGISTI, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE Chi seleziona gli stagisti? Lo stagista incontra l’azienda prima

dell’inizio dello stage? Gli stagisti hanno

un rimborso spese? Azienda

e scuolaLa scuola Non c’è

selezioneDipende dai casi

No, solitamente

no

Sì, solitamente

Mai Di rado Spesso

TOTALE 6,4 66,7 27,0 42,7 40,6 16,8 82,3 13,5 4,3

Grado di urbanizzazioneBasso 6,5 74,2 19,4 33,3 51,5 15,2 78,1 12,5 9,4Medio 3,3 62,3 34,4 40,3 40,3 19,4 83,6 13,1 3,3Alto 10,2 67,3 22,4 52,1 33,3 14,6 83,3 14,6 2,1

Istituto comprensivoNo 12,5 62,5 25,0 50,0 43,8 6,3 73,3 13,3 13,3Si 5,6 66,9 27,4 42,1 40,5 17,5 83,2 13,6 3,2

MatchingNo 6,1 68,2 25,8 38,2 45,6 16,2 83,3 10,6 6,1Si 5,6 65,3 29,2 47,2 36,1 16,7 80,6 16,7 2,8

Tipo scuolaProfessionale 6,9 63,8 29,3 52,5 39,0 8,5 77,6 19,0 3,4Tecnico 6,0 68,7 25,3 35,7 41,7 22,6 85,5 9,6 4,8

Dimensione scuolaGrande 8,5 59,6 31,9 39,1 37,0 23,9 80,4 13,0 6,5Media 2,1 68,8 29,2 45,8 41,7 12,5 79,2 18,8 2,1Piccola 8,7 71,7 19,6 42,9 42,9 14,3 87,2 8,5 4,3Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

43

Tabella 3.13 PROCEDURE DI VALUTAZIONE DEGLI STAGE, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE % di scuole in cui

ha luogo una valutazione dello stage

% di scuole in cui lo stage viene valutato tramite:

Relazione dello studente

Questionario compilato

dallo studente

Questionario compilato

dall’azienda

Relazione dell’azienda

Discussione a lezione

Discussione nel consiglio

di classe

Discussione informale

TOTALE 95,1 21,9 52,6 68,6 40,9 31,4 29,2 13,9

Grado di urbanizzazione Basso 97,0 21,9 53,1 65,6 21,9 28,1 18,8 21,9Medio 93,5 25,9 48,3 56,9 55,2 29,3 27,6 5,2Alto 95,9 17,0 57,4 85,1 36,2 36,2 38,3 19,1

Istituto comprensivo No 93,8 26,7 73,3 80,0 20,0 6,7 6,7 13,3Si 95,3 21,5 49,6 67,8 43,0 34,7 31,4 14,0

Matching No 95,6 24,6 46,2 56,9 47,7 29,2 29,2 15,4Si 94,5 18,8 58,0 79,7 33,3 34,8 29,0 13,0

Tipo scuola Professionale 96,7 17,2 37,9 69,0 41,4 34,5 31,0 12,1Tecnico 94,0 25,3 63,3 68,4 40,5 29,1 27,8 15,2

Dimensione scuola Grande 95,7 20,0 64,4 77,8 37,8 24,4 26,7 8,9Media 93,8 26,7 42,2 64,4 40,0 37,8 22,2 20,0Piccola 95,9 19,1 51,1 63,8 44,7 31,9 38,3 12,8Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

Il pubblico impiego non è particolarmente attivo sul fronte della didattica duale, visto che

solo nel 17% delle scuole funzionari o dirigenti pubblici fungono da docenti nelle lezioni abbinate agli stage. Ovviamente questo accade molto più frequentemente nelle scuole dei contesti altamente urbanizzati, dove sono presenti in più di una scuola su 4 (27,5%). Tra le altre figure coinvolte in questa forma di didattica sono stati citati docenti universitari, esponenti di associazioni, psicologi e funzionari delle aziende sanitarie locali. La gestione degli stage Nella tabella 3.12 troviamo informazioni su quella che si può definire la “gestione delle risorse umane” degli stage: selezione, avviamento e retribuzione degli alunni in azienda. Per quanto riguarda la selezione, in nessuna scuola essa è affidata alle aziende20, e in solo 9 scuole, pari al 6,4% del totale, l’azienda è coinvolta nella selezione. In due scuole su tre la selezione viene effettuata dalla scuola, e in più di un caso su 4 non viene effettuata selezione alcuna. Questo è un dato preoccupante, perché fa pensare ad alunni avviati allo stage in modo seriale, senza molta attenzione alle particolarità individuali. Nessuna delle caratteristiche strutturali delle scuole è associata significativamente con le procedure di selezione, per via dei numeri bassi, ma il coinvolgimento delle aziende risulta più frequente nei contesti cittadini e in quelle non inserite in istituti comprensivi. Si tratta evidentemente di scuole grandi, con rapporti stabili e forti con singole aziende, in cui si approssima il modello segmentale di tipo giapponese (v. sopra, cap. 2).

Un altro indicatore di qualità dello stage può essere visto nell’uso di un incontro tra stagista e azienda, precedente all’avvio dello stage. Un incontro di questo tipo ha luogo in modo

20 La domanda prevedeva 4 modalità di risposta, e la modalità “l’azienda” non è mai stata scelta: per questo la tabella ne riporta solo 3.

44

sistematico solo in una scuola su 6 circa (16,8%), mentre in oltre il 40% delle scuole non ha mai luogo. Nelle scuole rimanenti “dipende dai casi”. Di nuovo, troviamo un’associazione con la dimensione della scuola: in quasi una scuola grande su 4 (23,9%) questi incontri sono sistematici. Una maggiore attenzione a questo aspetto risulta presente anche negli istituti tecnici, e nelle scuole inserite in istituti comprensivi.

Infine, guardiamo alla retribuzione dello stagista. Qui sta la differenza più profonda tra lo stage italiano e il modello duale tedesco, perché la legge che regola gli stage in Italia prevede espressamente che lo stage non possa essere un rapporto di lavoro21, mentre in Germania si entra nel sistema duale non iscrivendosi a scuola, ma venendo assunti in azienda (sia pur con un salario inferiore). Ad ogni modo, in Italia la formula del rimborso spese assicura alle aziende che vogliono investire sugli stagisti la possibilità di retribuirli. Questa possibilità, però, è colta solo da una minoranza di aziende: nel nostro campione, solo 6 scuole, pari a poco più del 4% sul totale, riescono a fare avere un rimborso spese ai loro studenti in stage22. Questo succede più spesso nei contesti poco urbanizzati, dove probabilmente esistono rapporti personali solidi tra scuole e aziende. Un altro 13,5% di scuole riesce occasionalmente a retribuire lo stagista, ma in definitiva il dato importante è che in oltre quattro scuole su cinque gli studenti in stage non ricevono rimborso alcuno. Qualità e valutazione degli stage: procedure e autovalutazione A parte una serie di eccezioni, il modello di stage prevalente nelle scuole osservate sembra dunque molto lontano dal modello duale tedesco: osserviamo durata breve, basso coinvolgimento delle aziende, netta separazione sia temporale che di contenuti tra didattica d’aula ed esperienza in azienda. D’altra parte, è anche vero -come abbiamo visto nel capitolo 2 di questo lavoro- che in Italia mancano una serie di fattori fondamentali del modello duale, a cominciare dal coinvolgimento istituzionale delle aziende. Proprio per questo, è comunque utile cercare di valutare gli stage nelle scuole italiane senza farsi condizionare troppo dal benchmark tedesco.

Dalla tabella 3.13 apprendiamo che da una parte solo in meno del 5% delle scuole in cui si svolgono stage non esiste alcuna procedura di valutazione, ma dall’altra prevalgono procedure di valutazione rapide e standardizzate. Si tratta dei questionari, compilati dallo studente in più di metà dei casi, dall’azienda in oltre 2 casi su 3. Allo studente è richiesta una relazione in oltre un caso su 5 (21,9%), mentre più di frequente (oltre il 40%) la relazione è richiesta all’azienda. Si noti che le aziende tipicamente lamentano la burocratizzazione delle procedure, che in effetti sembrano ricadere più sulle loro spalle che su quelle della scuola23.

Procedure di valutazione più approfondita si trovano in una quota minoritaria ma non trascurabile delle scuole. In poco meno di una scuola su 3 se ne discute a lezione (31,4), o in consiglio di classe (29,2), mentre in oltre una scuola su 8 (14%) hanno luogo discussioni informali in merito.

21 Il testo di legge (DM 142, 15/3/1998), al comma 1 recita “al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro nell'ambito dei processi formativi e di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro, sono promossi tirocini formativi e di orientamento […]”, e al comma 2 precisa che i rapporti istituiti a questo fine “non costituiscono rapporti di lavoro.” 22 Una di queste sostiene di farlo “nella maggior parte dei casi”. La domanda prevedeva 4 modalità di risposta, ma quest’ultima è stata aggregata a “spesso ma non sempre”. 23 Sono state segnalate altre procedure di valutazione: in diversi casi, è il tutor scolastico a compilare un questionario o una relazione, mentre in qualche caso si segnala lo strumento del “diario di bordo” dello studente.

45

Tabella 3.14 VALUTAZIONE DEGLI STAGE, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE. PUNTEGGIO MEDIO* RISPETTO A:

Inse

rimen

to

occ

upaz

. de

gli s

tude

nti

Form

azio

ne

degl

i stu

dent

i

Ric

adut

e su

lla

dida

ttica

Rap

porti

con

le

azi

ende

Rap

porti

con

al

tri p

artn

er

(istit

uzio

ni e

cc.)

Form

azio

ne

deg

li in

segn

anti

Form

azio

ne

dei t

utor

inte

rni

Form

azio

ne

dei t

utor

est

erni

Ris

orse

di

spon

ibili

pe

r la

scuo

la

Punt

eggi

o

med

io

TOTALE 4,8 6,9 5,8 6,9 6,4 6,0 6,3 7,1 4,2 6,1

Grado di urbanizzazione Basso 4,8 7,1 6,3 6,9 5,5 6,4 6,3 7,1 4,2 6,0Medio 5,0 6,8 5,7 6,9 6,4 5,7 6,1 7,0 3,7 5,9Alto 4,8 7,0 5,7 7,2 6,9 6,0 6,4 7,2 4,7 6,2

Istituto comprensivo No 4,4 6,1 4,4 6,6 6,1 5,3 5,6 6,5 4,3 5,5Si 4,9 7,0 6,0 6,9 6,4 6,1 6,4 7,2 4,2 6,1

Matching No 4,7 6,9 5,8 6,7 6,1 5,9 6,2 7,0 4,0 6,0Si 5 7,0 5,8 7,0 6,5 6,0 6,4 7,1 4,4 6,1

Tipo di scuola Professionale 5,3 7.0 6,0 6,8 6,2 6,7 6,4 7,1 4,6 6,2Tecnico 4,5 6,9 5,7 6,9 6,5 5,8 6,2 7,1 3,9 6,0

Dimensione scuola Grande 4,9 7,0 5,4 7,4 7,0 6,1 6,6 7,4 4,2 6,2Media 4,4 6,8 5,8 6,3 6,0 5,4 5,8 6,8 3,8 5,7Piccola 5,1 7,0 6,3 6,9 6,1 6,4 6,3 7,1 4,4 6,2* scala 1 (per niente soddisfatto) -10 (molto soddisfatto) Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione OLS del punteggio di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

Dal punto di vista delle variabili strutturali c’è qualche associazione significativa: negli

istituti tecnici sono più frequenti i questionari compilati dagli studenti, nelle scuole con buon matching indirizzo-specializzazione produttiva del territorio invece sono più frequenti i questionari compilati dalle aziende, nei contesti ad alta urbanizzazione alle aziende sono più spesso richieste relazioni, nelle scuole situate nei comprensivi si discute di più, così come nei contesti a urbanizzazione media e alta.

Veniamo ora alla valutazione vera e propria degli stage. In primo luogo vediamo la valutazione espressa dai nostri rispondenti (Tab. 3.14), mentre nel prossimo paragrafo (Tab. 3.15) consideriamo gli esiti degli stage secondo una serie di indicatori più fattuali (anche se sempre, ovviamente, forniti dai rispondenti stessi). In media, lo stage riceve una sufficienza sicura: il punteggio complessivo è pari a 6,1. Si va sotto la sufficienza, al netto degli effetti di composizione, solo nelle scuole al di fuori degli istituti comprensivi e in quelle di media dimensione. Secondo la valutazione dei nostri intervistati, gli esiti degli stage sono decisamente insufficienti per quanto riguarda l’inserimento occupazionale dei ragazzi (punteggio medio 4,8) e per quanto riguarda le risorse disponibili per la scuola (4,2). Vale la pena di notare che su entrambi questi indicatori gli stage ricevono una valutazione peggiore di quella ricevuta dall’ASL e dalle reti e partnership (tabelle 3.7 e 3.8). Anche le ricadute degli stage sulla didattica non raggiungono la sufficienza (media 5,8) . Molto migliore, invece, la valutazione degli esiti formativi degli stage: 6,8 il punteggio medio per quanto riguarda gli studenti, 7,1 per i tutor aziendali, 6,3 per i tutor interni, ma solo 6 per gli insegnanti. Buoni gli esiti anche per quanto riguarda i rapporti con le aziende (6,9).

46

Per quanto riguarda le caratteristiche delle scuole, al netto degli effetti di composizione si osserva una situazione sistematicamente peggiore delle grandi scuole non situate in istituti comprensivi e delle scuole di media dimensione, mentre il tipo di scuola, il territorio e il rapporto tra indirizzi scolastici e specializzazione produttiva territoriale non sembrano fare la differenza. Gli esiti degli stage Vediamo ora gli indicatori oggettivi (Tab. 3.15). Il primo si riferisce agli effetti della valutazione degli stage sulla didattica: in circa metà delle scuole, la valutazione degli stage ha avuto effettivamente l’effetto di feedback sulla didattica di cui si parlava in apertura di questa sezione, un dato positivo anche se è da considerare insieme al 5,8 con cui, come abbiamo visto, è valutato l’esito degli stage da questo punto di vista. In ogni caso, questo accade più spesso nelle scuole situate in contesti ad alta urbanizzazione, e meno spesso in quelle di media dimensione. Tabella 3.15 ESITI DEGLI STAGE, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE

% di scuole in cui… % di studenti che hanno trovato lavoro nell’azienda in cui hanno fatto lo stage

La valutazione degli stageha avuto effetti sulla didattica*

Ci sono state rimostranze degli stagisti sulle aziende

Ci sono state rimostranze delle aziende sugli stagisti

TOTALE 47,4 40,8 39,7 8,7

Grado di urbanizzazione Basso 34,4 28,1 28,1 7,7Medio 46,6 44,3 49,2 9,5Alto 57,4 44,9 35,4 8,4

Istituto comprensivo No 53,3 68,8 62,5 8,7Si 46,3 37,6 37,1 8,7

Matching No 43,1 36,4 32,3 9,1Si 50,7 45,2 47,9 8,5

Tipo scuola Professionale 41,4 41,4 48,3 9,5Tecnico 51,9 40,5 33,7 8,2

Dimensione scuola Grande 53,3 59,6 53,2 7,9Media 35,6 33,3 33,3 8,7Piccola 53,2 29,8 32,6 9,5* % di risposte “in diversi casi” e “molto spesso”. Le altre modalità sono “occasionalmente” e “mai”. ** % di risposte “spesso”, “abbastanza spesso” e “di rado”. L’altra modalità è “mai o quasi”. Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

Il secondo e il terzo indicatore derivano da domande che chiedevano se alla scuola fossero

giunte rimostranze a proposito degli stage, provenienti rispettivamente da studenti e aziende. In entrambi i casi, sono arrivate rimostranze in circa il 40% delle scuole intervistate. Al netto degli effetti di composizione, le rimostranze degli stagisti sono più frequenti nelle scuole grandi, quelle delle aziende nelle scuole dove c’è buona corrispondenza tra offerta formativa e domanda territoriale. Nelle scuole grandi gli stagisti sembrano essere più seguiti (cfr. Tab. 3.12), mentre nelle scuole con buona corrispondenza le aziende potrebbero avere aspettative più elevate, o

47

migliori rapporti con le scuole, entrambi fattori che le possono spingere a intervenire anziché limitarsi a disinvestire negli stage.

Il quarto indicatore è il più importante: abbiamo chiesto ai rispondenti di quantificare la percentuale di stagisti che in seguito allo stage trovano un lavoro, anche a tempo determinato, nell’azienda che li ha ospitati. La percentuale complessiva è di quasi il 9%, un dato interessante. Altre evidenze di survey danno risultati simili: per esempio, la ricerca condotta di SWG-Iard per Isfol nel 2010 in merito agli esiti occupazionali dei diplomati della formazione professionale triennale regionale fornisce una percentuale di assunzioni post-stage pari a circa il 10% (Ballarino 2011b). La già ricordata ricerca sulle scuole tecnico-professionali lombarde fornisce invece per l’anno scolastico 2004/05 una percentuale molto più alta, pari al 20% (Ballarino 2008), così come le varie ricerche istituzionali sugli stage, le cui rilevazioni presentano però gravi problemi di selezione (Piccinini 2008).

Alla luce di questi confronti, il dato rilevato ci sembra ragionevolmente affidabile, e meritevole di essere sottolineato: che lo stage rappresenti un’occasione di inserimento occupazionale per quasi uno studente stagista su 10 è un risultato non da poco, soprattutto in un mercato del lavoro difficile come quello attuale. Al netto degli effetti di composizione, osserviamo una percentuale di assunti più alta nelle scuole situate in contesti a media urbanizzazione, e una percentuale inferiore nelle scuole di grandi dimensioni. Stage e simulazioni d’impresa Come abbiamo visto sopra, molte scuole nel quadro dell’Alternanza scuola lavoro partecipano a due programmi di “impresa simulata”: l’Impresa Formativa Simulata (IFS), finanziato e gestito dal ministero, e Impresa in Azione (IA), gestito da un’azienda privata non profit, Junior Achievement24, con finanziamenti ministeriali. Il primo si basa su una piattaforma web, mentre il secondo utilizza anche altre metodologie di apprendimento in situazione. Questi programmi sono nati nello stesso periodo dell’Alternanza scuola lavoro, e si basano su assunzioni pedagogiche analoghe: learning by doing, apprendimento situato e così via. Quello che ci si chiede, è se e quanto queste metodologie siano complementari o sostitutive rispetto allo stage: nel primo caso, possono probabilmente essere utili, mentre nel secondo esse sembrano accettabili solo in situazioni di emergenza, in cui non è possibile svolgere stage, perché nessuna simulazione potrà mai essere ricca di insegnamenti come la realtà effettuale.

La risposta è che prevalentemente sono complementari: delle 39 scuole dove si svolgono le simulazioni, solo 9, circa il 23%, le utilizzano in sostituzione degli stage, 16 scuole (41%) utilizzano entrambi gli strumenti, mentre 14 (36%) usano sia le simulazioni che gli stage. La valutazione che di queste attività hanno dato i nostri intervistati è decisamente positiva: il punteggio medio attribuito all’IFS è pari al 7,6%, quello dell’IA pari al 7,9%. Non è il caso di confrontare questo punteggio con quello ottenuto da altre attività più diffuse (ASL, stage ecc.), perché ovviamente le scuole che usano le simulazioni sono più selezionate, ed è quindi ovvio che ottengano risultati migliori. Gli stage del triennio Come abbiamo visto nel capitolo 2, la riforma della scuola secondaria superiore del 2010 ha abolito i diplomi professionali triennali rilasciati dagli istituti professionali, sostituendoli con i diplomi triennali regionali. Nel nostro campione (Tab. 3.2) circa due terzi degli istituti professionali e un terzo dei tecnici organizzano corsi di questo genere. La nostra ricerca è

24 Dal website dell’azienda: “Junior Achievement è un’organizzazione non profit internazionale impegnata a trasferire ai giovani e alla scuola le competenze e conoscenze fondamentali per un futuro professionale di successo.”

48

focalizzata sui corsi quinquennali e quindi non se ne occupa da vicino, ma sembrava interessante, in tema di stage, verificare se ci sono differenze tra gli stage dei corsi quinquennali e quelli di questi corsi triennali, che secondo alcuni osservatori e policy-makers potrebbero rappresentare l’inizio di un equivalente italiano del sistema duale (Lauro e Ragazzi 2011).

In complesso, in circa metà delle scuole (51%) non ci sono differenze tra gli stage dei trienni e quelli dei quinquenni, in solo una scuola su 10 ci sono grosse differenze, mentre nel rimanente 40% dipende dalle situazioni: a volte sono simili, a volte diversi. Andiamo brevemente a vedere le varie dimensioni degli stage. Per quanto riguarda la durata, gli stage dei corsi triennali sono nell'80% dei casi più lunghi, nell'8% dei casi più brevi, nei rimanenti simili a quelli dei quinquenni. Il coinvolgimento delle aziende è maggiore nei triennali nel 50% circa dei casi, nell'8% è inferiore e nei rimanenti è lo stesso. E' simile l'andamento della motivazione dei ragazzi, che nei trienni è superiore ai quinquenni nel 46% dei casi, simile nel 51% e inferiore solo nel 3% delle scuole. L'assunzione dei ragazzi dopo lo stage è più frequente nel 20% dei casi, meno frequente nel 9% e la stessa in oltre il 70% dei casi. Degno di nota il fatto che ne risulta un dato praticamente identico a quello già citato della survey SWG-Iard sui diplomati nei medesimi corsi triennali: il totale degli inseriti dopo lo stage salirebbe infatti a oltre il 10%. Gli esiti formativi sono migliori nel 40% dei casi, analoghi nel 60%, mai peggiori.

In sostanza, lo stage dei trienni sembra un po’ meglio di quello dei quinquenni sotto tutti i profili: in particolare sembrano importanti la maggiore motivazione dei ragazzi e il maggiore coinvolgimento delle aziende. I ragazzi sono più motivati perché spesso non amano la didattica scolastica tradizionale, rispetto a cui lo stage può quindi rappresentare un passo in avanti molto importante. Il maggior coinvolgimento delle aziende potrebbe derivare a monte da un maggiore attivismo dei responsabili di questi corsi, oppure, a valle, dalla maggiore motivazione dei ragazzi. In ogni caso, vale la pena di aggiungere che si tratta di differenze non sostanziali, che non giustificano l’enfasi che a volte si pone sui corsi triennali come esperienze potenzialmente duali. 3.5 Aziende e scuole: un rapporto necessario ma non facile Come sappiamo, le aziende sono il partner decisivo per qualsiasi corso, scolastico o di formazione professionale, che si ponga l’obiettivo, prevalente o accessorio, di aiutare l’inserimento occupazionale dei propri diplomati. Nei termini della tipologia Busemeyer-Trampusch (cfr. Tab. 2.1), il coinvolgimento delle aziende è la principale caratteristica dei modelli di formazione delle competenze di tipo collettivo e di tipo segmentato, e questa è la ragione per cui i paesi classificabili nei due modelli, per esempio Germania, Svizzera e Giappone, sono quelli in cui il tasso di disoccupazione giovanile è più basso (ILO 2013). Vediamo quindi per prima cosa quanto frequenti sono i contatti e con che tipo di aziende lavorano le scuole, per poi osservare i contenuti di questi rapporti. Quante scuole e quali aziende Complessivamente, circa il 71% delle scuole del nostro campione oggi “ha in corso rapporti diretti di collaborazione con aziende” (Tab. 3.16). Delle rimanenti, il 10% non ne ha mai avuti, mentre il 18% circa ne ha avuti ma non ne ha più, almeno in questo momento.

Questo è un dato preoccupante: quasi una scuola su 5 ha abbandonato questi rapporti, evidentemente perché poco utili o troppo costosi in termini di tempo e risorse umane. Come ci si potrebbe aspettare, la dimensione fa la differenza: nelle scuole grandi, la percentuale di scuole

49

attive su questo fronte sale oltre l’83%. In media, ogni scuola è in contatto con 46 aziende, e anche in questo caso la media sale per le scuole grandi e, anche, per quelle che si trovano in contesti ad alta urbanizzazione. Anche questo dato non sorprende. I rapporti di cui stiamo parlando sono relativamente stabili nel tempo: approssimativamente, il 63% delle aziende con cui la scuola ha contatti diretti mantiene il contatto su base pluriennale. Il “tasso di mantenimento” dei rapporti è correlato in modo positivo e significativo con il numero dei rapporti stessi (r=0,39, p=0,000): alle scuole non si pone, almeno in generale, un’alternativa tra quantità e qualità dei rapporti con le aziende.

Tabella 3.16 CONTATTI CON LE AZIENDE, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE

% s

cuol

e in

rapp

orto

co

n az

iend

e

N. M

edio

azi

ende

in

rapp

orto

% m

edia

di a

zien

de

con

cui i

l rap

porto

pr

oseg

ue

% s

cuol

e* in

rapp

orto

co

n az

. priv

ate

% s

cuol

e* in

rapp

orto

co

n en

ti pu

bblic

i

% s

cuol

e* in

rapp

orto

co

n st

udi p

rofe

ss.

% d

i scu

ole

cont

atta

te

spes

so d

alle

azi

ende

**

% s

cuol

e# in

cui i

trie

nni

IeFP

han

no a

umen

tato

co

ntat

ti co

n le

az.

TOTALE 70,7 46,1 63,0 94,1 70,3 59,3 25,4 41,1

Grado di urbanizzazione Basso 62,5 25,1 51,1 96,0 44,0 40,0 12,0 69,2Medio 75,0 38,4 61,7 90,7 74,1 57,4 24,1 34,2Alto 70,9 70,4 72,5 97,4 82,1 74,4 35,9 36,4

Istituto comprensivo No 73,7 43,6 65,4 100,0 71,4 35,7 42,9 50,0Si 70,5 46,7 62,5 93,2 69,9 63,1 23,3 40,6

Matching No 71,6 40,1 61,6 90,6 64,2 60,4 13,2 38,7Si 71,6 51,1 63,7 96,8 74,6 58,7 36,5 42,9

Tipo scuola Professionale 74,0 50,2 62,5 92,6 64,8 46,3 27,8 42,9Tecnico 68,1 42,9 63,4 95,3 75,0 70,3 23,4 37,5

Dimensione scuola Grande 83,3 62,2 64,1 97,8 73,3 62,2 35,6 35,0Media 64,3 43,8 62,4 88,9 75,0 63,9 27,8 40,0Piccola 66,1 29,7 62,3 94,6 62,2 51,4 10,8 46,4* % sul totale delle scuole che hanno rapporti con aziende. ** % di risposte “spesso” e “abbastanza spesso” alla domanda: “Con quale frequenza è successo che le aziende, o gli altri attori economici di cui stiamo parlando, abbiano contattato la scuola per avviare collaborazioni di propria iniziativa, senza un primo approccio da parte vostra o da un terzo? “ # % sul totale delle scuole che organizzano corsi triennali IeFP, che ha risposto “abbastanza” o “molto” alla domanda. Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

Di che tipo di aziende stiamo parlando? Nella quasi totalità dei casi (94%) le scuole sono in

contatto con aziende private, in oltre due terzi (70%) con enti pubblici, in qualcosa di meno (59%) con studi professionali. Il fattore dimensionale facilita i rapporti con enti pubblici e studi professionali, e nel caso di questi ultimi si nota anche una maggiore frequenza di rapporti nel caso delle scuole situate in istituti comprensivi. I rispondenti potevano aggiungere altre tipologie di aziende: tra quelle citate figurano anche le cooperative di servizi e della grande distribuzione (COOP, CONAD), le ONLUS e il terzo settore più in generale, gli ordini

50

professionali e le associazioni di categoria e le fondazioni. La tabella 3.17 divide le aziende con cui le scuole sono in rapporto per settori di attività economica. Il settore più frequentato risulta essere quello degli studi professionali, seguito dagli enti pubblici locali e da alberghi e ristoranti e da manifattura e artigianato. Si dovrebbe trattare di un dato meramente demografico, perché stiamo parlando di settori popolati da molte aziende, spesso di piccole dimensioni. Alcuni settori sono meno frequentati di quanto ci si potrebbe attendere: è questo il caso delle banche, dei servizi sociali (istruzione, sanità e sport), dei trasporti e dell’agricoltura.

Questo potrebbe dipendere da un maggiore orientamento delle aziende di questi settori verso i laureati triennali, ma per confermare questa ipotesi occorrerebbe un approfondimento dell’indagine dal lato delle aziende. Anche in questo caso i rispondenti potevano aggiungere altri settori: tra i sub-settori citati, i più frequenti sono il metalmeccanico, l’elettronico, il nautico, il chimico, il turismo e i centri benessere. Tabella 3. 17 SCUOLE IN CONTATTO CON AZIENDE, PER SETTORE ECONOMICO DELLE AZIENDE Settore % scuole in contatto con aziende del settore Agricoltura 10,2Manifattura, artigianato 40,7Costruzioni 20,3Commercio all’ingrosso e al dettaglio 23,7Alberghi e ristoranti 41,5Trasporti e comunicazioni 11,0Banche e assicurazioni 21,4Studi professionali 67,8Associazioni di categoria (sindacati, ass. Datoriali) 28,8Informatica e ricerca (scientifica e di mercato) 20,3Sanità 17,8Istruzione 19,5Enti pubblici territoriali (regione, provincia, comune) 55,1Altra pubblica amministrazione 12,7ONLUS 13,6Altri servizi sociali (comprese attività sportive) 13,6

Dove sono collocate le aziende con cui le scuole sono in contatto? La tabella 3.18 ci dice che

quasi tutte le scuole sono in contatto con aziende locali, del comune (88%) o della provincia (80%), mentre i contatti diretti con aziende fuori provincia riguardano meno di un terzo delle scuole, e solo il 7% ha contatti con aziende fuori regione o fuori dal paese. Al netto degli effetti di composizione si osserva un vantaggio per le aziende di media dimensione per i contatti in regione e per quelle di grande dimensione per quelli fuori regione (significativo a 0,13, quindi al di sopra della nostra “soglia di attenzione”) e all’estero. In complesso, questa tabella non è ovviamente molto diversa dalla tabella 3.10 vista sopra, relativa alla collocazione geografica degli stage: la maggior parte delle scuole dispone di reti territoriali brevi, ma non sono poche quelle le cui reti arrivano più lontano. Come è ovvio, il fattore dimensionale gioca un ruolo importante nell’“allungamento” delle reti.

51

Tabella 3. 18 COLLOCAZIONE GEOGRAFICA DELLE AZIENDE CON CUI LE SCUOLE SONO IN CONTATTO, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE

Sul territorio del comune

In provincia, fuori dal comune

In regione, in un’altra provincia

Fuori regione, in Italia

All’estero

TOTALE 88,7 79,8 29,0 7,3 7,3

Grado di urbanizzazione Basso 80,8 84,6 19,2 7,7 3,8Medio 96,4 73,2 30,4 5,4 10,7Alto 83,3 85,7 33,3 9,5 4,8

Comprensorio No 85,7 92,9 35,7 21,4 14,3Si 89,8 78,7 28,7 5,6 6,5

Matching No 87,5 75,0 26,8 7,1 7,1Si 90,8 84,6 30,8 7,7 7,7

Tipo scuola Professionale 92,7 81,8 34,5 9,1 9,1Tecnico 85,5 78,3 24,6 5,8 5,8

Dimensione scuola Grande 89,4 85,1 31,9 12,8 14,9Media 86,8 78,9 36,8 5,3 5,3Piccola 89,7 74,4 17,9 2,6 0,0Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

Modalità e attività del rapporto tra scuole e aziende Vediamo ora le principali caratteristiche di questi contatti tra scuole e aziende. Torniamo alla tabella 3.16, le cui ultime due colonne a destra forniscono due informazioni importanti. In primo luogo, è interessante sapere in che misura sono le aziende ad attivarsi per entrare in contatto con le scuole: l’attivazione da parte delle aziende è un sicuro indice di interesse e quindi di potenziale coinvolgimento, con quello che, come sappiamo, ne consegue. Secondo i nostri rispondenti, una scuola su 4 (25%) è stata contattata direttamente dalle aziende, di loro iniziativa (cfr. la formulazione della domanda nella nota alla tabella): si tratta di una percentuale interessante, che testimonia di un sicuro interesse delle aziende per le scuole e i diplomati. Un altro dato interessante è relativo al matching: nel caso delle scuole la cui offerta formativa corrisponde alla specializzazione produttiva del territorio, la percentuale di scuole contattate dalle aziende di loro iniziativa sale oltre il 36%, più di una scuola su tre. Il fattore territoriale conferma quindi la propria importanza.

In secondo luogo, ci interessa sapere se l’introduzione dei corsi IeFP regionali nelle scuole, avvenuta come sappiamo a partire dalla riforma del 2010 (cap. 2), ha aumentato la frequenza di questi contatti. Ovviamente, la domanda è stata posta solo alle scuole che organizzano questi corsi, circa il 45% del totale (vedi Tab. 3.2): la risposta è affermativa in oltre il 40% dei casi, con un effetto significativo del grado di urbanizzazione: nei contesti meno urbanizzati, la percentuale sale a oltre due terzi (69%). Dunque l’integrazione tra scuole statali e formazione professionale regionale, avviata con la riforma, sembra poter dare buoni risultati, almeno da questo punto di vista. Come abbiamo visto anche a proposito degli stage, l’orientamento occupazionale forte dei corsi triennali favorisce il contatto con il mercato del lavoro: l’integrazione potrebbe dare occasione alle scuole di estendere questi contatti ai corsi quinquennali.

52

I comitati tecnico-scientifici e il project work Nella tabella 3.19 si trova una serie di informazioni importanti sul modo in cui sono strutturate le relazioni tra scuole e aziende. Cominciamo con i Comitati Tecnico-Scientifici (CTS): si tratta di organismi che secondo la legge 53/2010 le scuole hanno facoltà (ma non obbligo) di creare, “con funzioni consultive e di proposta per l’organizzazione delle aree di indirizzo e l’utilizzazione degli spazi di autonomia e flessibilità”25. Come abbiamo visto sopra (cap. 2, par. 2.2) l’istituzione di questi organismi si prefigge di colmare il vuoto creato negli anni 70 dall’abolizione dei consigli di amministrazione degli istituti, di cui facevano parte anche le aziende, garantendo la possibilità di un coinvolgimento formale delle aziende nella gestione delle iniziative comuni con la scuola. Il CTS esiste in oltre metà delle scuole studiate (55,7%), ma solo in poco meno di metà di queste (46,8%) comprende rappresentanti delle aziende. In sostanza, solo in una scuola su 4 circa la possibilità offerta dalla legge è stata sfruttata fino in fondo. Ma potrebbe anche trattarsi di un dato positivo, da leggere in prospettiva, nella misura in cui l’introduzione dei CTS è recente e non è stata incentivata in alcun modo dal ministero. Al netto degli effetti di composizione, i CTS sono più frequenti nelle scuole situate in contesti a urbanizzazione media e alta, negli istituti comprensivi, nelle scuole con buona corrispondenza tra offerta formativa e struttura produttiva locale, negli istituti professionali e nelle scuole grandi. La partecipazione delle aziende, in particolare, è più frequente nei contesti più urbanizzati e negli istituti professionali.

Quando il CTS esiste, esso sembra essere discretamente attivo: si riunisce “molto di rado” nel 14% dei casi, “almeno una volta all’anno” nel 25% dei casi, “tra le 2 e le 4 volte all’anno” nel 54% dei casi, e da 5 volte all’anno in su nel 6% dei casi. Per una valutazione più accurata di questo dato sarebbero comunque necessarie informazioni più dettagliate, in particolare sul ruolo delle aziende. Senza aziende, i CTS rischiano infatti di non essere altro che un ennesimo organismo amministrativo scolastico, la frequenza delle riunioni del quale finisce per non essere in alcun modo collegata con la sua attivià o efficacia.

Un’attività di grande interesse dal punto di vista della ricerca di un modello di formazione duale è il project work: si tratta di lavori svolti dagli studenti della scuola su commissione da parte di aziende. Come nel caso degli stage con rimborso, nel caso del project work ci si trova nella situazione più vicina possibile al modello duale: gli studenti lavorano per l’azienda e vengono retribuiti per questo. Abbiamo già visto (vedi Tab. 3.4) che in una percentuale non trascurabile di scuole si svolgono forme di project work (PW) nel quadro dell’ASL, ma la domanda è stata posta con preciso riferimento alla retribuzione, per evitare di contare come PW forme di collaborazione simili, ma senza compenso, che potrebbero avere lo stesso nome. Inteso in questo senso restrittivo, il PW risulta in effetti piuttosto raro, con una presenza in solo 9 scuole, pari a circa l’8% del campione (al netto delle risposte mancanti). Il dato sale al 13% negli istituti comprensivi, l’unica differenza associata alle caratteristiche strutturali delle scuole. Le attività finalizzate all’inserimento: tracce di un modello segmentato Veniamo ora alle attività direttamente finalizzate all’inserimento occupazionale degli studenti. Come abbiamo visto nel capitolo 2, il rapporto diretto tra scuola e azienda è una delle principali caratteristiche del modello “segmentato” di formazione delle competenze, che ha nel Giappone l’esempio più noto e nell’investimento aziendale il principale fattore di produzione delle competenze. Nel nostro paese il modello segmentato è in generale debole, a causa della ridotta

25 Regolamento degli Istituti tecnici, DPR 88, 15/3/2010, art. 6. Il punto è identico nel regolamento gemello degli istituti professionali.

53

dimensione media delle aziende, ma le ricerche mostrano che i casi di rapporto diretto non mancano, sia a livello di grandi imprese che a livello di sistemi di tipo distrettuale, anche se nel caso delle prime i rapporti tendono a indirizzarsi verso le università piuttosto che verso le scuole secondarie (Ballarino e Regini 2005; Ballarino 2008).

Come sappiamo, il nucleo del modello giapponese è il Jisseki Kankei (alla lettera “contratto”) l’allocazione diretta degli studenti in azienda, su richiesta di questa e in base a criteri definiti dalla scuola. Il primo elemento è quindi la segnalazione alla scuola, da parte dell’azienda, di un determinato fabbisogno di risorse umane. Secondo i nostri intervistati, questo “non è mai successo” nel 10% circa dei casi, “è successo raramente” nella metà dei casi, “succede in modo sistematico” in oltre una scuola su 3 (34%) e “succede in modo sistematico” solo nel 5% dei casi (stiamo parlando di 6 scuole, al netto dei casi mancanti su questa domanda). Questo tipo di rapporto è più frequente nelle scuole che si trovano nelle aree urbane e in quelle grandi, ma al netto degli effetti di composizione la differenza è significativa solo nelle scuole grandi. Diversi indicatori ci stanno del resto mostrando che le economie di scala possono giocare un ruolo importante in questo tipo di attività.

Il secondo elemento dell’allocazione diretta è la segnalazione dei diplomati alle aziende da parte delle scuole, decisamente più diffuso del rapporto inverso. Infatti, la segnalazione dalla scuola “succede regolarmente” in poco meno di metà delle scuole (46%), “occasionalmente” in oltre un terzo (37%), “raramente” nel 13% e non succede “mai” solo nel 4% circa delle scuole. In questo caso si trova, al netto delle altre caratteristiche, un’associazione positiva con il grado di urbanizzazione del contesto.

Il terzo elemento è, infine, il vero e proprio matching, cioè l’assunzione. Nelle scuole in cui ha luogo la trasmissione dei nomi dei diplomati alle aziende, “succede regolarmente” che “la segnalazione si traduca in assunzioni, anche a tempo determinato” in oltre una scuola su 4 (26%), succede “occasionalmente” in quasi metà delle scuole (44%), succede raramente in meno di un terzo delle scuole (28%), e non succede “mai” solo in una scuola (1%). Dunque circa una scuola su 10, secondo una stima prudente, svolge regolarmente una funzione di allocazione occupazionale, e una percentuale maggiore, una su cinque, la svolge occasionalmente. Anche in questo caso la densità urbana, e quindi produttiva, ha un effetto positivo sulla probabilità di allocazione diretta. La valutazione dei rapporti con le aziende Per concludere il nostro percorso nei rapporti diretti scuole-aziende, la tabella 3.20 riporta la valutazione in merito dei nostri intervistati. Il dato non è molto positivo: il punteggio medio che si guadagnano i rapporti diretti, pari a 5,5, è nettamente al di sotto della sufficienza. Questo è il dato medio, che quindi come tale non è in contrasto con le interessanti tracce di sistema segmentato che abbiamo visto esistere nel paragrafo precedente. E’ un dato che va preso sul serio, come indice di una difficoltà di fondo nel rapporto tra scuole e aziende. Le tracce di modello segmentato che abbiamo osservato sono incoraggianti, ma il dato medio ci ricorda che il problema è come diffonderle, soprattutto in una situazione, come l’attuale, di generale difficoltà da parte delle aziende.

54

Tabella 3. 19 MODALITÀ E ATTIVITÀ DEL CONTATTO TRA SCUOLA E AZIENDE, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE. % DI SCUOLE* IN CUI:

Esiste un CTS o un organismo

analogo

Il CTS comprendeaziende**

Il CTS si riuniscealmeno 2 volte

l’anno**

Si svolge project work

L'azienda segnala alla scuola

i fabbisogni***

Scuola trasmette elenco diplomati#

I segnalativengono

assunti##

TOTALE 55,7 46,8 60,3 7,8 39,3 46,6 70.9

Grado di urbanizzazione Basso 33,3 14,3 42,9 4,0 24,0 36,0 43,5Medio 57,4 36,7 61,3 7,5 35,8 45,3 80,0Alto 67,6 68,0 64,0 10,8 53,8 55,3 75,7

Istituto comprensivo No 69,2 55,6 44,4 15,4 35,7 50,0 83,3Si 54,5 45,3 63,0 6,9 39,2 46,5 69,1

Matching No 43,1 47,6 59,1 2,0 28,8 42,3 62,7Si 66,1 47,5 60,0 12,9 46,0 50,8 77,6

Tipo scuola Professionale 67,3 57,6 58,8 7,7 37,7 41,5 70,8Tecnico 46,0 34,5 62,1 7,9 40,6 50,8 71,0

Dimensione scuola Grande 60,5 46,2 53,8 14,0 53,3 44,4 78.6Media 52,8 55,6 63,2 5,7 31,4 51,4 75.8Piccola 52,8 38,9 66,7 2,7 29,7 44,4 57.1* % sul totale delle scuole che hanno rapporti con aziende. ** % sul totale delle scuole in cui esiste il CTS. *** % risposte “succede abbastanza spesso” e “succede in modo sistematico”. Le altre alternative erano “non è mai successo” e “succede raramente”. #% risposte “regolarmente” e “occasionalmente”. Le altre alternative erano “raramente” e “mai”. ##% sul totale di scuole che hanno risposto “regolarmente”, “occasionalmente” e “raramente” alla domanda sulla trasmissione dell’elenco dei diplomati. Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella. Tabella 3.20 VALUTAZIONE DEI RAPPORTI STABILI CON LE AZIENDE, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE. PUNTEGGIO MEDIO* RISPETTO A:

Inserimento occupaz. degli studenti

Formazionedegli studenti

Ricadutesulla didattica

Formazione degli insegnanti

Risorse disponibiliper la scuola

Fondi a disposizione della scuola

Punteggio medio

TOTALE 5,7 7,1 5,8 6,0 5,4 5,2 5,5

Grado di urbanizzazione Basso 5,6 7,2 6,0 6,2 5,5 5,5 5,8Medio 5,5 7,1 5,7 5,7 5,0 4,9 5,4Alto 5,7 7,2 5,8 6,3 5,2 5,4 5,6

Istituto comprensivo No 6,2 7,5 5,6 5,7 5,1 5,2 5,8Si 5,5 7,1 5,7 5,9 4,6 4,2 5,5

Matching No 5,4 7,0 5,5 5,5 4,6 4,2 5,3Si 5,7 7,3 5,8 6,3 4,8 4,4 5,7

Tipo scuola Professionale 5,9 7,3 6,1 6,1 5,3 4,9 5,9Tecnico 5,3 7,0 5,3 5,7 4,1 3,8 5,2

Dimensione scuola Grande 5,7 7,3 5,7 6,2 4,3 4,0 5,4Media 5,6 6,9 5,5 5,3 4,8 4,4 5,4Piccola 5,4 7,3 5,8 6,1 5,0 4,5 5,7Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione OLS della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

55

Ovviamente non è questa la sede per approfondire il problema: si tornerà sul punto nel prossimo capitolo. Controllando per gli effetti di composizione, si osserva una valutazione media migliore negli istituti professionali e nei contesti in cui gli indirizzi della scuola coincidono con la specializzazione produttiva del territorio. Questi potrebbero essere i contesti più adatti al coinvolgimento delle aziende nelle attività delle scuole.

Per quanto riguarda le singole voci, sono nettamente al di sopra della sufficienza solo gli esiti in termini di formazione degli studenti (punteggio medio pari a 7,1): questo fa pensare che non sia più vero che uno dei problemi principali per lo sviluppo di questi rapporti siano le resistenze culturali del mondo della scuola nei confronti del mondo dell’impresa, come a lungo si è detto, in particolare da parte delle aziende. Oggi le scuole vedono le aziende come un’opportunità, non più come una minaccia, come invece succedeva fino a una ventina di anni fa. Gli unici altri esiti che ricevono una valutazione sufficiente, in effetti, sono quelli in termini di aggiornamento e formazione degli insegnanti (punteggio medio pari a 6). Sono vicini alla sufficienza anche gli esiti in termini di ricadute sulla didattica (media 5,8) e di inserimento occupazionale degli studenti (5,7). In realtà, quindi, l’insufficienza deriva, ancora una volta, dalle risorse: i rispondenti valutano insufficienti gli esiti dei rapporti diretti con le aziende sia in termini di risorse in generale (media 5,4), che in termini di risorse finanziarie (media 5,2). Guardando alle caratteristiche istituzionali, quella più rilevante al netto degli effetti di composizione riguarda il tipo di scuola: anche in questo caso, la situazione degli istituti professionali è migliore di quella degli istituti tecnici. 3.6 Dentro le scuole: organizzazione e persone Per completare il nostro percorso nelle attività delle scuole volte a favorire l’occupabilità degli studenti, rimane da osservare come queste attività sono organizzate, sia dal lato istituzionale che da quello soggettivo. Molte informazioni in merito sono già emerse nei paragrafi precedenti: questo completa il quadro descrivendo in primo luogo come le scuole organizzano queste attività e come ne osservano gli esiti, e poi le caratteristiche e le opinioni delle persone a cui tocca la responsabilità di gestirle, cioè il responsabile delle attività rivolte al mercato del lavoro e il dirigente scolastico. Sul lato soggettivo della questione si tornerà nel prossimo capitolo. Il monitoraggio degli esiti Se l’obiettivo della scuola tecnico-professionale è formare le competenze di cui le aziende hanno bisogno, il monitoraggio degli esiti occupazionali degli studenti diventa molto importante, perché fornisce alle scuole un feedback immediato sull’adeguatezza delle competenze degli studenti.

56

Tabella 3.21 MONITORAGGIO DEGLI ESITI OCCUPAZIONALI, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE. % DI SCUOLE CHE:

Svolge attività

di monitoraggioHa fattoricerche

con questionari?*Raccoglie informazioni

dalle aziende*Raccoglie informazioni tramite gli insegnanti*

Raccoglie informazionidagli studenti*

Partecipa alla rete almadiploma*

TOTALE 29,3 27,6 15,2 31,3 81,8 18,2

Grado di urbanizzazione Basso 30,0 14,3 4,8 33,3 100,0 9,5Medio 21,4 24,4 9,5 28,6 81,0 23,8Alto 38,9 38,9 27,8 33,3 72,2 16,7

Istituto comprensivo No 31,6 46,2 23,1 46,2 84,6 23,1Si 29,4 25,0 14,1 28,2 81,2 17,6

Matching No 23,9 16,2 15,8 36,8 94,7 10,5Si 34,1 33,9 13,6 27,1 72,9 23,7

Tipo scuola Professionale 31,0 31,0 16,7 23,8 85,7 14,3Tecnico 28,0 25,0 14,0 36,8 78,9 21,1

Dimensione scuola Grande 32,7 36,8 13,2 31,6 76,3 26,3Media 26,8 24,1 13,3 20,0 73,3 20,0Piccola 29,1 19,4 19,4 41,9 96,8 6,5* % delle scuole che svolgono o hanno svolto attività di monitoraggio (60,4% delle scuole in totale). Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

Da questo punto di vista, la situazione media delle scuole comprese nel nostro campione non

è entusiasmante (Tab. 3.21): svolge regolare attività di monitoraggio poco meno di un terzo delle scuole (29,3%), un dato che potrebbe essere anche accettabile, ma c’è un altro 30% di scuole (dato non riportato in tabella per brevità) che lo ha fatto in passato ma ora non lo fa più. Si vorrebbe sapere come mai: forse per scarsa efficacia delle rilevazioni già svolte, o forse, più facilmente, per problemi di costo. Gli incroci con le caratteristiche strutturali delle scuole non ci aiutano: il monitoraggio è più frequente nelle zone più urbanizzate e nelle scuole più grandi, ma non ci sono associazioni significative al netto degli effetti di composizione, né per la presenza attuale né per quella passata di queste attività.

Il quadro non migliora se andiamo a vedere in che modo viene (o veniva) effettuato il monitoraggio: solo poco più di un terzo delle scuole (27,6%) hanno utilizzato la tecnica più sistematica, il questionario, e meno di una scuola su sei (15,2%) si è rivolta direttamente alle aziende. La gran parte delle scuole (81,8%) si sono limitate alla raccolta di informazioni dagli studenti, con cui (probabilmente) si intende una raccolta di informazioni casuale, non sistematica e quindi inevitabilmente approssimativa. Poco meno di un terzo delle scuole (31,3%) raccoglie informazioni tramite gli insegnanti, forse nelle riunioni degli organismi collegiali della scuola, e meno di una scuola su 5 (18,2) partecipa alla rete Almadiploma26. Al netto degli effetti di composizione, nei contesti più urbanizzati le scuole fanno più spesso uso di questionari, mentre in quelli meno urbanizzati si affidano di più ai contatti con gli studenti: una differenza non sorprendente, se si considera la diversa estensione delle reti sociali in funzione del grado di urbanizzazione. 26 Si tratta di una rete nazionale, creata dal consorzio Almalaurea (www.almalaurea.it; www.almadiploma.it) con l’obiettivo di mettere in contatto scuole e aziende con la creazione di database online contenenti informazioni sui diplomati. Le aziende possono registrarsi, dietro pagamento di una piccola quota, e ottengono accesso al database.

57

La gestione Come sono gestite le attività orientate al mercato del lavoro? Nella tabella 3.22 troviamo le risposte essenziali. La prima colonna da sinistra della tabella fornisce un’altra informazione importante, riguardo l’esistenza dei dipartimenti, un organismo scolastico che, similmente agli omonimi organismi universitari, raccoglie i professori di una disciplina o di una serie di discipline affini. I dipartimenti sono stati introdotti dalla riforma del 2008-2010, ma non sono obbligatori: nel nostro caso, essi sono comunque presenti in quasi tutte le scuole, precisamente in quasi il 93% dei casi. Sul tema si tornerà nel prossimo capitolo.

Per quanto riguarda la gestione delle attività, essa sembra essere incentrata sul dirigente e sul suo delegato, il cui ruolo secondo i nostri dati è “molto importante” in poco meno di 9 scuole su 10 (rispettivamente 87% e 88%). Il consiglio di classe e il comitato tecnico-scientifico (di cui abbiamo detto sopra) hanno un ruolo molto importante in poco meno della metà delle scuole (47% in entrambi i casi), mentre sono mediamente meno importanti il collegio docenti (“molto importante” in circa il 32% delle scuole) e, soprattutto, il consiglio d’istituto, che è molto importante solo nell’11% circa delle scuole che hanno risposto. Entrambi questi organismi sono significativamente più importanti nelle scuole indipendenti, che non fanno parte di un istituto comprensivo, e il collegio docenti risulta essere più importante nelle scuole situate in contesti con una buona corrispondenza tra offerta didattica e specializzazione produttiva locale.

Solo un approfondimento potrebbe dirci se lo scarso peso del consiglio d’istituto e del collegio docenti in queste attività derivi da un loro scarso interesse per le medesime, o se dipende invece da decisioni accentratrici del dirigente. Intuitivamente, chi scrive propenderebbe per la prima ipotesi, in particolare pensando al peso che il sindacato, tipicamente contrario ai rapporti con le aziende, ha in questi organismi, ma si tratta solo di un’ipotesi speculativa. Tabella 3.22 GESTIONE DELLE ATTIVITÀ RIVOLTE AL MERCATO DEL LAVORO, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE

Nella scuola esistono

i dipartimenti?

Quanto è importante, per le attività rivolte al mercato del lavoro, ciascuno di questi organismi di governo della scuola? (% di scuole in cui è molto importante)

DirigenteDelegato/a

del dirigenteConsiglio d’istituto

Collegio docenti

Consigliodi classe

Comitato tecnico-scientifico

TOTALE 92,8 86,9 88,0 11,2 31,7 47,0 46,6

Grado di urbanizzazioneBasso 90,0 91,2 90,9 14,7 36,4 38,2 50,0Medio 94,6 81,0 85,7 9,5 25,8 52,4 52,2Alto 92,5 91,1 88,9 10,9 35,9 46,3 38,5

Istituto comprensivoNo 100,0 93,3 100,0 33,3 53,3 66,7 45,5Si 92,7 85,9 86,4 9,0 29,0 45,1 45,6

MatchingNo 93,8 81,2 86,4 8,7 21,2 47,8 42,6Si 93,0 91,0 88,5 14,3 40,3 47,4 48,1

Tipo scuolaProfessionale 93,4 88,1 87,9 13,4 30,3 43,9 44,9Tecnico 92,3 86,1 88,1 9,4 32,9 49,4 48,2

Dimensione scuolaGrande 95,7 85,4 91,7 14,6 36,2 54,2 35,3Media 90,0 88,0 85,4 10,2 33,3 47,9 56,3Piccola 92,3 87,0 86,8 9,3 25,0 40,7 47,2Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

58

Tabella 3.23 CARATTERISTICHE DEL RESPONSABILE DELLE ATTIVITÀ RIVOLTE AL MERCATO DEL LAVORO, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE

% maschi

Anni di esperienza

Lavora al di fuoridella scuola?

In che tipo di materia è laureato?

Ha incontri frequenti con imprenditori o

dirigenti di azienda?*

Valutaz. media

prepar. studenti**Nella

scuola In questa

scuola Sì No, ma

lo ha fatto Tecnico-

scientificaUmanistica Altro Non è

laureatoPer ragioni

prof. Per ragioni

non prof. TOTALE 56,0 22,9 14,5 39,7 20,7 48,8 13,8 13 24,4 39,3 37,4 5,6

Grado di urbanizzazioneBasso 56,8 19,3 13,8 50,0 17,9 48,3 10,3 6,9 34,5 12,0 16,0 5,3 Medio 50,0 23,9 18,3 40,0 18,2 44,6 12,5 17,9 25,0 40,7 42,3 5,6 Alto 63,8 24,0 14,8 31,6 26,3 55,3 18,4 10,5 15,8 55,3 44,7 5,9

Istituto comprensivoNo 70,6 24,2 16,8 26,7 46,7 50,0 12,5 6,3 31,3 61,5 53,9 6,0 Si 55,4 22,7 14,0 41,3 17,3 48,1 14,4 14,4 23,1 36,9 35,6 5,6

MatchingNo 53,6 22,0 13,3 40,0 21,8 41,8 18,2 16,4 23,6 37,7 37,7 5,4 Si 58,7 23,8 15,6 38,7 19,4 54,0 11,1 11,1 23,8 40,3 36,7 5,8

Tipo scuolaProfessionale 62,5 22,5 13,3 46,0 16,0 50,0 13,5 7,7 28,9 35,9 34,6 5,6 Tecnico 51,2 23,1 15,6 35,2 23,9 47,9 14,1 16,9 21,1 42,2 39,7 5,7

Dimensione scuolaGrande 59,2 24,4 16,5 34,1 25,0 55,6 11,1 11,1 22,2 45,5 47,6 5,9 Media 61,2 22,0 13,3 43,2 21,6 44,7 18,4 18,4 18,4 33,3 30,6 5,6 Piccola 49,0 22,2 13,6 42,5 15,0 43,6 12,8 10,3 33,3 37,8 32,4 5,4 * % di risposte “circa una volta al mese” e “più che una volta al mese”. Le altre due risposte possibili erano “non più di una, due volte l’anno” e “meno di una volta al mese”. ** media dei punteggi assegnati alla domanda:”In base alla sua esperienza, come valuterebbe, su una scala da 1 a 10, il livello di adeguatezza della preparazione fornita dalla scuola rispetto alla domanda proveniente dalle aziende? 1 significa che non è per niente adeguata, 10 che è perfettamente adeguata.” Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare od OLS della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

Il responsabile delle attività rivolte al mercato del lavoro Proseguiamo il percorso nella gestione delle attività finalizzate all’inserimento occupazionale dei diplomati occupandoci del delegato del dirigente, la persona che lo affianca nella gestione di queste attività. Nel prossimo paragrafo guarderemo al dirigente stesso, e faremo i debiti confronti. Ricordiamo che in 23 delle 173 scuole del campione una figura di questo tipo non è presente, e quindi è stato il dirigente stesso a rispondere al questionario: le informazioni contenute nella tabella 3.22 escludono quindi queste scuole.

Dalla tabella apprendiamo che nel 56% dei casi si tratta di un maschio, con variazioni interessanti (più maschi nel professionale), ma non robuste agli effetti di composizione. Stiamo parlando di professori senior e che conoscono il territorio, com’è giusto che sia: la loro esperienza media come insegnanti è di circa 23 anni, mentre la loro anzianità nella scuola in cui lavorano oggi è in media di 14,5 anni. D’altra parte, non si può non pensare che energie giovani potrebbero dare un impulso maggiore ad attività che nella media delle scuole non sembrano particolarmente dinamiche. Ad ogni modo, controllando per gli effetti di composizione, l’esperienza media è inferiore nei contesti a bassa urbanizzazione, mentre l’esperienza nella scuola attuale presenta variazioni non robuste all’analisi multivariata.

E’ importante che la persona che si occupa del rapporto tra scuola e aziende abbia una conoscenza quanto più possibile diretta del mondo del lavoro, delle aziende e delle professioni. Nel nostro campione, il quadro da questo punto di vista è a prima vista confortante: circa il 40% dei responsabili lavorano anche al di fuori della scuola, e un altro 21% lo ha fatto in passato. Questo però ci lascia con un 40% scarso di docenti che devono mettere la scuola in rapporto con un mondo di cui non hanno esperienza diretta: un dato problematico. La metà dei responsabili

59

ha una laurea tecnico-scientifica27, meno del 14% una laurea umanistica28, uno su 10 un’altra laurea29, e quasi uno su 4 (24,4%) non è laureato. La percentuale di laureati nelle materie umanistiche cresce e quella di non laureati decresce in funzione del grado di urbanizzazione: un effetto puramente demografico.

Un elemento importante perché i rapporti tra scuola e aziende siano intensi, con tutte le conseguenze positive che ne derivano, è la presenza di contatti diretti tra professori e imprenditori e/o dirigenti d’azienda. Nel caso dei contatti per scopi professionali, si tratta banalmente del grado di attivismo dei professori, mentre nel caso dei contatti extra-professionali si tratta, nei termini della teoria sociologica, di una componente importante del capitale sociale (Coleman 1988) delle scuole stesse. Nel nostro caso, i contatti tra il responsabile delle attività rivolte al mercato del lavoro e persone del mondo delle aziende sono frequenti solo in poco meno del 40% delle scuole per ragioni professionali, e in poco più del 37% per ragioni non professionali. Di nuovo, un dato non entusiasmante ma che non sorprende. In entrambi i casi, i contatti sono più frequenti nei contesti a urbanizzazione media e alta, e per quanto riguarda i contatti professionali, nelle scuole che non fanno parte di istituti comprensivi.

Insomma, i nostri responsabili sembrano solo in parte corrispondere a quello che dovrebbe essere il profilo di una professionalità di questo tipo: una persona che conosce bene la scuola, ma che ha un’esperienza lavorativa ed è ben radicato nel contesto produttivo locale. In effetti, anche la loro valutazione dell’adeguatezza della preparazione degli studenti rispetto alla domanda delle aziende non è particolarmente ottimista, come vediamo nell’ultima colonna a destra della tabella: il punteggio medio è inferiore alla sufficienza. Possiamo prenderla anche come una valutazione, inconsapevolmente sincera, della propria performance? Il dirigente scolastico Il nostro percorso si conclude con il dirigente scolastico, il “preside” di un tempo. Nella scuola dell’autonomia il suo ruolo è potenzialmente decisivo, e questo vale ovviamente anche per le attività che ci interessano. Del dirigente scolastico osserviamo le caratteristiche principali (Tab. 3.24), rilevate in modo analogo a quelle del responsabile, e poi le opinioni sulla scuola tecnico-professionale in generale (3.25) e sul proprio ruolo in particolare (3.26).

Poco meno della metà delle scuole del nostro campione (49%) ha un dirigente maschio30: in complesso, questo è quindi un ruolo meno maschile di quello del responsabile delle attività rivolte al mercato del lavoro. Un dirigente maschio è più frequente nelle scuole con bassa corrispondenza con la specializzazione produttiva del territorio. In media, il dirigente ha un’anzianità nel suo ruolo di circa 15 anni, ed è dirigente nella sua scuola attuale da circa 7 anni. L’anzianità in ruolo è significativamente maggiore, al netto degli effetti di composizione, nelle scuole situate in contesti a urbanizzazione intermedia e negli istituti comprensivi (dove è naturale che vadano dirigenti più esperti, trattandosi di un impegno più difficile), mentre l’anzianità nella scuola attuale è maggiore, di nuovo, nei contesti a urbanizzazione intermedia, e poi nelle scuole di grandi dimensioni (di nuovo il fattore esperienza come criterio di selezione nelle nomine dei dirigenti).

Sono ovviamente pochissime le scuole il cui dirigente dichiara di svolgere un’attività lavorativa extra-scolastica (6 scuole in tutto), ma un’esperienza lavorativa extrascolastica passata si trova in oltre il 40% dei casi. 27 La categoria comprende scienze MFN, agraria, veterinaria, medicina, economia, ingegneria, architettura e statistica. 28 Giurisprudenza è inclusa in questa categoria, insieme a lettere, scienze politiche e sociali, scienze dell’educazione e magistero. 29 Si tratta di errori di classificazione degli intervistatori CATI, che non sono stati in grado di inserire la laurea specifica nella classificazione proposta dal questionario e in diversi casi non hanno raccolto l’informazione dettagliata, non consentendo quindi una ricodifica ex post. 30 L’unità di analisi rimane comunque la scuola: ricordiamo che negli istituti comprensivi un dirigente dirige più scuole.

60

Tabella 3.24 CARATTERISTICHE DEL DIRIGENTE, PER CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE SCUOLE

% maschi

Anni di esperienzaCome dirigente

Lavora al di fuori della scuola?

In che tipo di materia è laureato?

Ha incontri frequenticon imprenditori o

dirigenti di azienda?* Nella

scuola In questa

scuola No, ma

lo ha fattoSì Tecnico-

scientificaUmanistica Altro Per ragioni

prof. Per ragioni

non prof.

TOTALE 49,0 14,4 7,4 43,6 4,0 27,9 54,5 17,6 73,9 79,1Grado di urbanizzazione

Basso 47,1 13,6 5,6 36,4 0,0 17,7 67,7 14,7 79,4 76,5Medio 52,4 15,4 8,2 50,0 1,7 34,4 51,6 14,1 77,8 92,1Alto 46,4 13,7 7,7 41,1 8,9 26,8 50,0 23,2 66,1 66,1

ComprensivoNo 66,7 10,9 8,2 40,0 6,7 33,3 33,3 33,3 86,7 93,3Si 47,4 14,8 7,3 44,3 3,8 27,2 56,6 16,2 71,9 77,0

MatchingNo 55,1 14,6 7,6 38,8 4,5 26,1 56,5 17,4 68,1 78,3Si 42,3 14,4 7,3 46,8 3,9 29,1 53,2 17,7 78,2 78,2

Tipo scuolaProfessionale 47,8 13,9 7,5 38,8 6,0 23,9 58,2 17,9 70,2 74,6Tecnico 50,0 14,8 7,4 47,6 2,4 31,0 51,7 17,2 76,7 82,6

Dimensione scuolaGrande 54,2 13,8 7,6 43,8 4,2 39,6 39,6 20,8 77,1 79,2Media 44,0 15,8 7,3 44,7 4,3 35,3 45,1 19,6 76,0 80,0Piccola 50,0 13,5 7,5 43,4 3,8 9,3 77,8 13,0 68,5 77,8* % di risposte “circa una volta al mese” e “più che una volta al mese”. Le altre due risposte possibili erano “non più di una, due volte l’anno” e “meno di una volta al mese”. Nota: in grassetto sono riportate le associazioni il cui coefficiente è significativo entro il 10% (p < .10) in una regressione di probabilità lineare od OLS della variabile di interesse sulle caratteristiche strutturali delle scuole presenti in tabella.

Le poche scuole il cui dirigente ha attività esterne sono quasi tutte in contesti ad alta

urbanizzazione: ritroviamo un “effetto città”, più volte osservato nei nostri dati: la città in generale favorisce le relazioni sociali, nel nostro caso quelle tra scuola e aziende. In oltre metà delle scuole il dirigente ha una laurea umanistica31.

Al netto degli effetti di composizione, le scuole grandi e medie hanno una percentuale significativamente maggiore di dirigenti laureati in materie tecnico-scientifiche, mentre nelle piccole questa è corrispondentemente inferiore. In una sola scuola, il dirigente non è laureato.

La tabella 3.25 riporta le opinioni del dirigente su quali debbano essere gli obiettivi formativi di una scuola tecnico-professionale. Per brevità la tabella, come la successiva, non incrocia il dato con le consuete caratteristiche delle scuole, perché tra il primo e queste ultime non ci sono associazioni significative al netto degli effetti di composizione, tranne in un caso, come vedremo. Questo è un risultato di ricerca interessante: le opinioni del dirigente sulla propria attività sono indipendenti dal tipo di scuola che la persona dirige. Probabilmente dipende dal fatto che le carriere dei dirigenti sono comunque centralizzate, e quindi non emergono profili di dirigenti specializzati in scuole di uno o di un altro tipo. Che questo sia un bene o un male è una domanda che non può trovare risposta in questa sede, ovviamente.

31 Scomponendo i tipi di laurea, il 33% ha una laurea in lettere o magistero/scienze dell’educazione, il 17% in storia o filosofia, i rimanenti in giurisprudenza o scienze politiche.

61

Tabella 3.25 IMPORTANZA DI DIVERSI OBIETTIVI FORMATIVI NELLA DEFINIZIONE DELLA STRATEGIA DI UNA SCUOLA TECNICO-PROFESSIONALE, SECONDO IL DIRIGENTE % di risposte “molto importante”* La formazione di una cultura e di competenze generali 60,1La formazione di senso civico e di responsabilità sociale 62,4La formazione di competenze professionali specifiche 73,4Lo sviluppo della personalità di ciascuno 59,0La diffusione di una cultura del lavoro 73,4* le altre possibilità di risposta erano le consuete: “per nulla”, “poco”, “abbastanza” importante.

Secondo i dirigenti delle scuole del nostro campione, gli obiettivi più importanti della scuola

tecnico-professionale sono la formazione di competenze professionali specifiche e la diffusione di una cultura del lavoro, che sono “molto importanti” per quasi tre intervistati su quattro (73,4%). Dunque nella grande maggioranza delle scuole, il dirigente è convinto della specificità della scuola tecnico-professionale: gli obiettivi più tipicamente scolastici, come la formazione del senso civico, di una cultura generale e lo sviluppo della personalità, pur ricevendo valutazioni elevate (rispettivamente 62%, 60% e 59%) sono in media ritenute meno importanti degli obiettivi tipici della scuola professionale. Vale la pena di notare che “la diffusione di una cultura del lavoro” è ritenuta relativamente meno importante, con un’associazione significativa al netto dei consueti effetti di composizione, dai dirigenti delle scuole che si trovano in contesti più urbanizzati, e da quelli delle scuole più grandi. Questa è l’unica associazione significativa tra le caratteristiche delle scuole e le opinioni del loro dirigente, compresa anche quella sul proprio ruolo riportata nella tabella 3.26.

Qual è quindi il ruolo del dirigente scolastico? Per oltre metà dei nostri rispondenti (55%) è “un coordinatore di attività”, per un po’ meno della metà (40%) è “un manager”, mentre solo per il 3% è “un pubblico ufficiale” e per l’1% un insegnante o un formatore. Una concezione in complesso adeguata alle responsabilità del dirigente, compatibile con la visione della scuola se non come un’azienda, quanto meno come un’organizzazione complessa e con vincoli di efficienza stringenti.

Tabella 3.26 COME DEFINIRE L’ATTIVITÀ DI UN DIRIGENTE SCOLASTICO, SECONDO IL DIRIGENTE % di risposte “molto importante” Un coordinatore di attività 54,9Un insegnante, un formatore 1,3Un manager 40,5Un pubblico ufficiale 3,3

3.7 Caratteristiche strutturali e attività delle scuole Quali sono le caratteristiche delle scuole più frequentemente associate con la loro attivazione in favore dell’occupabilità degli studenti? Per rispondere a questa domanda, sulla base dei molti indicatori che abbiamo visto finora sono stati calcolati diversi indici sintetici, i più interessanti dei quali sono presentati e descritti nella tabella 3.27.

62

Tabella 3.27 INDICI SINTETICI DELLE ATTIVITÀ RIVOLTE AL MERCATO DEL LAVORO DELLE SCUOLE Indice Modalità di calcolo

Dualismo

Indice additivo = somma delle seguenti variabili dummy (0/1): - esiste un comitato tecnico-scientifico, di cui fanno parte aziende - agli stage sono collegate lezioni, in cui insegna personale aziendale - in scuola si svolgono attività di project work - le lezioni collegate allo stage si svolgono contemporaneamente allo stage

Attivismo

Indice additivo = somma delle seguenti variabili dummy (0/1): - la scuola è accreditata presso la regione - la scuola ospita corsi its - la scuola ospita corsi ifts - la scuola ospita progetti ptp - la scuola è parte di reti di scuole - la scuola è parte di partnership e reti istituzionali - la scuola organizza percorsi asl - la scuola organizza corsi iefp - la scuola organizza attività di orientamento

Qualità stage

Indice additivo = somma delle seguenti variabili dummy (0/1):- la scuola organizza stage da oltre 20 anni - allo stage sono abbinate lezioni d’aula - l’azienda partecipa alla selezione degli stagisti - gli stagisti ricevono rimborsi (almeno in qualche caso) - lo stagista solitamente incontra l’azienda prima di iniziare

Inserimento via stage

Scala standardizzata (media = 0, dev. Standard =1) derivante dalla risposta alla domanda: “in percentuale approssimativa, quanti degli studenti che sono stati in stage in un’azienda trovano poi lavoro, anche non a tempo indeterminato, presso la stessa azienda?”

Inserimento via contatti

Scala standardizzata (media = 0, dev. Standard =1) derivante dalla risposta alla domanda: “succede che questa segnalazione sitraduca in assunzioni, anche a tempo determinato?” (scala 0-3: mai/raramente/occasionalmente/spesso). La domanda è stata posta solo alle scuole che non avevano risposto “mai” alla domanda: “la scuola trasmette a qualcuna delle aziende di cui stiamo parlando l’elenco dei propri diplomati, o comunque segnala i propri diplomati alle aziende?”

Indice di valutazione

Indice = alla media (standardizzata, con media = 0 e ds = 1) delle medie delle tre batterie di valutazione dell’asl, degli stage e del rapporto con le aziende (cfr. Rispettivamente tabelle 3.7; 3.14 e 3.10)

Correlazioni bivariate tra gli indici Dualismo Attivismo Qualità stage Ins. Stage Ins. Contatti Indice di val.Dualismo 1

Attivismo 0.3864 1 0.0004

Qualità stage 0.0948 0.2173 10.3969 0.013

Inserimento via stage

0.2576 0.094 0.0485 10.0237 0.3051 0.5988

Inserimento via contatti

0.2009 0.3335 0.0216 0.1156 10.0721 0.0005 0.8339 0.2754

Indice di valutazione

0.3355 0.3272 0.3079 0.1045 0.2741 10.0019 0.0001 0.0005 0.256 0.0039

La sezione inferiore della tabella riporta le correlazioni bivariate semplici tra gli indicatori

utilizzati. Non ci sono correlazioni negative, e la maggior parte dei coefficienti sono positivi e significativi. In particolare, c’è una correlazione relativamente elevata tra l’indice di dualismo, che misura quanto le attività di una scuola si avvicinano al modello duale, e l’indice di attivismo, che misura quanto la scuola è in complesso attiva rispetto al mercato del lavoro. La correlazione rimarrebbe simile se all’indice di attivismo venissero sostituiti indici costruiti allo stesso modo, che misurano quanto le scuole ospitano altre attività non curriculari, ma non collegate con l’occupabilità degli studenti (cfr. par. 3.2 qui sopra), e quanto le scuole si impegnano in progetti di alternanza scuola-lavoro (ricavato dagli indicatori riportati nella tabella 3.4. In altri termini, non emergono diversi modelli di attività: non ci sono scuole più orientate verso un dato tipo di azioni, e altre orientate verso un tipo di azioni diverse.

63

I due indicatori (dualismo e attivismo) correlano positivamente e significativamente anche con l’indice di valutazione, che è costruito come media di altri tre indici, che valutano rispettivamente l’alternanza scuola-lavoro, gli stage e i rapporti diretti con le aziende32, e anche con l’indice che misura la frequenza con cui gli studenti trovano lavoro nelle aziende con cui la scuola è in contatto, grazie alla mediazione della scuola stessa.

Sono invece attenuate e non significative molte correlazioni con i due indici riferiti agli stage, e anche la valutazione riferita agli stage presenta una correlazione con gli altri indici di valutazione relativamente bassa, dell’ordine dello 0,3 contro 0,7. Questo potrebbe dipendere dal fatto che gli stage sono diffusi in tutte le scuole, perché si tratta di un’attività che può essere “leggera” e a costo quasi zero, diversamente dalle attività più impegnative e costose, in termini di risorse umane e non, in riferimento alle quali sono costruiti gli altri indici, e che i nostri indicatori non colgono appieno quello che qualifica gli stage.

Per ognuno degli indici riportati è stato stimato un semplice modello di regressione multivariata, dove i regressori sono le consuete misure delle caratteristiche strutturali delle scuole, a cui ne è stata aggiunta una riferita all’indirizzo della scuola, che distingue agricoltura, industria e commercio come settore di attività economica di riferimento. La tabella 3.26 riporta i risultati di questo esercizio. La varianza spiegata, che va dal 7% al 20% a seconda del modello, non è molto alta: questo significa che le caratteristiche strutturali comprese nel modello spiegano solo in parte quello che succede nelle scuole. E’ probabile che abbiano un peso importante fattori che non osserviamo relativi al contesto, per esempio la disponibilità delle aziende presenti nel territorio della scuola, o fattori soggettivi relativi al personale della scuola, presente o passato33.

Che la scuola sia in un istituto comprensivo o meno fa una certa differenza: farne parte favorisce le attività orientate al mercato del lavoro in generale, e favorisce la presenza di stage di qualità. La spiegazione potrebbe essere semplicemente che negli istituti comprensivi ci sono molte scuole, e questo aumenta la possibilità che ci siano attività, comprese quelle che innalzano il livello degli stage. Ma questo significa anche che riunire diverse scuole in un unico istituto, con la medesima direzione, può favorire la circolazione di idee e proposte, migliorando quindi la situazione delle singole scuole. L’istituto comprensivo (“superiore” secondo la definizione ministeriale) fungerebbe quindi come una sorta di rete di scuole, con un effetto potenzialmente positivo di diffusione di modelli di intervento e di motivazione all’attività.

Il tasso di urbanizzazione è correlato positivamente con tutti i nostri indici, e ha un effetto significativo sugli indici di dualismo, di attivismo, di inserimento via stage e di inserimento via contatti. In diversi casi, però, la relazione non è lineare: l’indice di attivismo e i due indici relativi all’inserimento in azienda sono più alti nei contesti a urbanizzazione intermedia piuttosto che in quelli ad alta urbanizzazione (dove comunque sono molto più alti che nei contesti a urbanizzazione bassa). Questa non linearità non sorprende, perché è stata già rilevata a proposito dell’associazione tra grado di urbanizzazione e molti degli indicatori riportati nei paragrafi precedenti. Come spiegarla? Osservando la mappa (figura 3.1 in appendice), si nota che le zone ad alta densità sono sostanzialmente i capoluoghi di provincia dell’area settentrionale, più qualcosa sulla costa limitrofa (Viareggio), mentre le zone a densità intermedia sono l’insieme della valle dell’Arno, la costa settentrionale e i capoluoghi di

32 La valutazione delle reti e delle partnership non è stata utilizzata perché presenta molti casi mancanti, ma anche in questo caso la correlazione è elevata (rho tra questo indice e quello sintetico = 0,74). 33 In questo caso la nostra rilevazione fornisce qualche informazione, con cui sono state costruite delle variabili aggiunte ai modelli discussi sopra. In nessun caso c’erano effetti significativi, tranne in quello dell’esperienza del rispondente (anni di insegnamento). Tuttavia abbiamo preferito non inserire questa misura nei modelli presentati, in primo luogo perché non cambiava molto nelle associazioni che ci interessano, e poi perché la stima è affetta da endogeneità: i professori senior potrebbero preferire scuole più attive e cercare di farsi trasferire lì.

64

provincia dell’area meridionale. Le zone a bassa densità urbana sono quelle rimanenti, e qui le scuole si scontrano con i limiti imposti dal territorio, che fornisce poche risorse, in primo luogo poche attività economiche, con cui avviare rapporti. Nelle scuole che si trovano nei contesti ad alta urbanizzazione, al contrario, le risorse non mancano, mentre in quelle a urbanizzazione intermedia ci sono risorse, ma occorre attivarsi di più per renderle utili alla scuola.

Il tasso di matching (corrispondenza tra indirizzi presenti nella scuola e specializzazione produttiva del territorio) è correlato positivamente con tutti gli indici, ma l’associazione è significativa solo per l’attivismo. Anche in questo caso, la spiegazione si può basare sulle risorse presenti sul territorio: se la scuola ha indirizzi che corrispondono a quello che le aziende fanno, è ovvio che ci saranno maggiori (e migliori) occasioni di contatto e di azione cooperativa.

Per quanto riguarda il tipo di scuola, c’è un netto vantaggio per gli istituti professionali: le associazioni tra istituto tecnico e indici sono sempre negative, e sono significative per gli indici di dualismo e di valutazione. Questo andamento è stato trovato, con poche eccezioni, con tutti gli indicatori considerati nel capitolo: possiamo trarre la conclusione che in media gli istituti tecnici sono meno attivi degli istituti professionali per quanto riguarda l’occupabilità dei loro studenti. Nulla di strano, d’altra parte, se si considerano i tassi di prosecuzione verso l’università, che negli istituti tecnici sono molto più alti. Però il fatto che anche la valutazione sia meno buona suggerisce che il problema sia più ampio, e degno di approfondimento. Potrebbe darsi che in molti casi l’istituto tecnico oggi sia una scuola ibrida, a metà tra liceo e scuola professionale, con il rischio di scontentare sia chi vuole andare all’università sia chi vuole prepararsi per un lavoro.

Al netto delle variabili incluse nel modello, la dimensione della scuola non sembra contare molto. Diversi dei coefficienti sono negativi, e nel caso dell’inserimento via stage il coefficiente è negativo e significativo. Potrebbe trattarsi di un banale effetto dimensionale: la misura si basa sul numero di studenti, e se gli studenti sono meno è più facile inserirne molti.

Per quanto riguarda il settore, i coefficienti sono quasi sempre positivi, indicando un vantaggio delle scuole rivolte all’industria e al terziario rispetto a quelle rivolte all’agricoltura. Fa eccezione la qualità degli stage, che sembra migliore negli istituti agrari, anche se non si raggiungono le soglie di significatività consuete. L’unico coefficiente significativo, comunque, è quello per l’industria sull’indice di attivismo generale.

In sintesi, osserviamo che: a) non emergono modelli alternativi di attivismo delle scuole: quello che varia è la quantità,

non la qualità, delle attività presenti. O meglio, la qualità è funzione della quantità. Ci sono attività “leggere” (stage; orientamento; visite in azienda; incontri con personale aziendale) che si svolgono ovunque, e poi attività più “pesanti” e impegnative (stage integrati con la didattica; coinvolgimento di personale aziendale nella didattica; project work svolti dagli studenti per le aziende; ITS e IFTS, ecc…) che però si svolgono solo nelle scuole dove hanno luogo le prime;

b) emerge un effetto positivo del contesto urbano. In città ci sono più aziende e più istituzioni, e quindi più risorse disponibili: dato che il contesto lo favorisce, è più facile che le scuole si attivino per favorire l’occupazione dei propri studenti. Quando il contesto è molto urbano, però, questo effetto è un po’ indebolito, forse perché la sovrabbondanza di risorse diminuisce la spinta delle scuole ad attivarsi;

c) l’istituto tecnico è in generale meno attivo dell’istituto professionale. Si tratta in effetti di una scuola intermedia, che si sta muovendo lentamente, da decenni, nel senso della liceizzazione, ma con un percorso ancora non concluso. E’ frequentata sia da studenti che andranno

65

all’università sia da studenti che andranno a lavorare: potrebbe darsi che l’attenzione che va ai primi tolga qualcosa ai secondi.

Tabella 3.28 REGRESSIONI SUGLI INDICATORI DI QUALITÀ DELLA RELAZIONE SCUOLA-MERCATO DEL LAVORO

Dualismo Attivismo Qualità

stageInserimento

via stageInserimento via contatti

Indice di valutazione

Istituto comprensivo -0.525 0.727* 0.442* -0.183 -0.124 0.186 (0.431) (0.434) (0.26) (0.304) (0.342) (0.291)Urbanizzazione media 0.297 1.099*** 0.139 0.510* 0.564** -0.037 (0.27) (0.341) (0.213) (0.26) (0.268) (0.239)Urbanizzazione alta 0.737** 0.739** 0.223 0.425 0.541* 0.0865 (0.291) (0.373) (0.227) (0.288) (0.285) (0.257)Matching 0.19 0.449* 0.091 0.0424 0.274 0.237 (0.216) (0.27) (0.162) (0.201) (0.214) (0.188)Istituto tecnico -0.467** -0.35 -0.00517 -0.206 0.118 -0.299* (0.196) (0.245) (0.154) (0.191) (0.193) (0.176)Dimensione media -0.0692 -0.126 -0.186 -0.348 0.085 -0.293 (0.273) (0.341) (0.206) (0.265) (0.282) (0.245)Dimensione grande -0.214 0.196 0.0653 -0.584* 0.0129 0.00407 (0.293) (0.402) (0.237) (0.308) (0.306) (0.275)Indirizzo: industria 0.155 1.583** -0.5 -0.464 0.7 0.307 (0.456) (0.609) (0.379) (0.489) (0.515) (0.474)Indirizzo: terziario 0.104 0.822 -0.185 0.423 0.0983 0.187 (0.446) (0.599) (0.371) (0.477) (0.508) (0.471)Costante 1.722** 2.213*** 1.201** 0.643 -0.891 -0.269 (0.704) (0.753) (0.469) (0.583) (0.664) (0.567) N 83 155 133 123 109 140R2 0.21 0.184 0.077 0.066 0.16 0.066Nota: le categorie di riferimento sono: scuola non in istituto comprensivo; urbanizzazione bassa; scuola dove non c’è matching; istituto tecnico; dimensione bassa; indirizzo agricoltura. Errori standard tra parentesi. *** p<0.01, ** p<0.05, * p<0.1

Figura 3.1 LA TOSCANA, PER GRADO DI URBANIZZAZIONE

66

3.8 La qualità dei rapporti tra scuola e lavoro: componenti e determinanti della dualità attraverso una analisi fattoriale A conclusione della nostra analisi sui rapporti tra la scuola e il mondo del lavoro abbiamo tentato di condurre una analisi fattoriale che ci aiutasse a individuare una variabile sintetica, proxy della qualità del rapporto tra scuola e mondo del lavoro, rispetto alla quale ordinare le scuole analizzate e operare una analisi statistica delle variabili esogene significativamente associate a tale proprietà.

Scopo dell’analisi fattoriale è quello di identificare alcune variabili latenti, i fattori, in grado di spiegare i legami, le interrelazioni e interdipendenze tra le variabili statistiche osservate. Abbiamo quindi cercato di individuare un fattore proxy della “qualità dei rapporti scuola-lavoro” che chiamiamo sinteticamente “dualità”, e per far questo ci siamo serviti di alcune delle variabili presenti nel dataset che a nostro avviso potessero ben costruire questo indicatore.

Per ovviare a problemi di scala, abbiamo standardizzato le 17 variabili. Il primo fattore estratto dalla matrice di correlazione è in grado di spiegare oltre la metà delle relazioni tra le variabili osservate (0.525), pertanto riteniamo di aver individuato in tale fattore la variabile latente “dualità”.

Dalla tabella successiva è possibile identificare quali sono le variabili che più contribuiscono alla costruzione della “dualità”. Tabella 3.29 LA VARIABILI COMPONENTI LA “DUALITÀ” E IL LORO PESO FATTORIALE Variabile Dualità Descrizione V15 0.591 Organizzazione percorsi alternanza scuola/lavoroV16 0.359 Attivazione nell’anno 2012/13 corsi triennali iefp di primo livelloV17 0.345 Svolgimento attività finalizzate a fornire agli studenti informazioni mirate a migliorare il loro orientamento al lavoro V29 0.185 Impresa formativa simulata (IFS)V30 0.178 Impresa in azione (IA)V31 0.469 Project work

V32 0.460 Stage con inserimento nel processo lavorativo (stage o tirocini propriamente detti, in cui lo studente lavora presso l’azienda ospitante)

Insocasl 0.360 Valutazione positiva (>7 su scala 1-10) dell'alternanza scuola lavoro dal punto di vista dell'inserimento occupazionale degli studenti

Risoasl 0.454 Valutazione positiva (>6 su scala 1-10) dell'alternanza scuola lavoro dal punto di vista delle risorse reperite per la scuola

Estins 0.586 Indicatore di qualità degli stage: nelle lezioni collegate agli stage insegnano persone delle aziende in cui si svolgono gli stage

Retrstage 0.327 Indicatore di qualità degli stage: gli studenti in stage ricevono rimborsi speseInsocstag 0.274 Valutazione positiva (>7 su scala 1-10) degli stage dal punto di vista dell'inserimento occupazionale degli studentiRisostag 0.304 Valutazione positiva (>6 su scala 1-10) degli stage dal punto di vista del reperimento di risorse per la scuola

Insocaz 0.497 Valutazione positiva (>7 su scala 1-10) dei rapporti con le aziende dal punto di vista dell'inserimento occupazionale degli studenti

Risoaz 0.489 Valutazione positiva (>6 su scala 1-10) dei rapporti con le aziende dal punto di vista delle risorse reperite per la scuola

Variabile additiva che considera l'attivazione di

0.474

Corsi ITS (Istituti Tecnici Superiori)Corsi IFTS (Istruzione e Formazione Tecnica Superiore)Progetti PTP (Poli Tecnico Professionali)Reti di scuole (associazioni tra scuole finalizzate a collaborare per migliorare l’inserimento occupazionale dei diplomati o comunque migliorare il rapporto con il mondo del lavoro ) Partnership e reti istituzionali, promosse da istituzioni locali, camere di commercio, imprese ecc., orientate a favorire il collegamento tra scuola e mercato del lavoro

Variabile additiva che considera la tipologia del docente del tirocinio tra le seguenti

0.663

Imprenditori e/o dirigenti di aziende o altri enti economiciTecnici e/o lavoratori di aziende o altri enti economici

Funzionari e/o dirigenti degli enti pubblici e delle associazioni coinvolte

67

Il peso maggiore nell’andare a costituire il fattore latente dualità è rappresentato dalla presenza di insegnanti che appartengono al mondo del lavoro, seguito dall’attivazione di corsi che favoriscono l’alternanza didattica scuola-lavoro e ancora dalla presenza nelle lezioni collegate agli stage di persone provenienti dalle aziende in cui si svolgono. Sembrano avere scarsa importanza, invece, iniziative come l’impresa formativa simulata e l’impresa in azione.

Ci siamo chiesti quindi se e quali potessero essere i fattori determinanti, le variabili esogene, in grado di influenzare la qualità “duale” del rapporto tra scuola e mondo del lavoro. Tra le variabili a nostra disposizione ci aspettiamo che assumano una particolare rilevanza il contesto territoriale, l’esperienza del dirigente, la tipologia dell’istituto. Per verificare la significatività delle variabili esogene nel determinare tale fattore dualità abbiamo condotto una semplice analisi di regressione. Il modello utilizzato -che risulta significativo e restituisce un buon adattamento con un R-quadro di 0,43- considera nell’intercetta gli istituti ad indirizzo commerciale diretti da dirigenti che interpretano il proprio ruolo come quello di coordinatori di attività, laureati in una facoltà umanistica con zero anni di esperienza. I risultati appaiono interessanti e confermano alcune delle risultanze emerse dall’analisi di regressione condotta nel paragrafo precedente su una variabile additiva “dualità”. Tabella 3.30 I DETERMINANTI DELLA DUALITÀ ATTRAVERSO UNA ANALISI DI REGRESSIONE Source SS df MS Number of obs = 151 Model 55.251 48 1.151 F(48, 103) = 1.68 Residual 70.532 103 0.685 Prob > F = 0.0146 Total 125.783 151 0.833 R-squared = 0.4393

Adj R-squared = 0.1779 Root MSE = .82751

Dualità Coef. Std. Err t P>t [95% Conf. Interval]

Indirizzo istituto

Indirizzo turistico/alberghiero 0.734 0.242 3.030 0.003 0.253 1.215Indirizzo nautico 0.273 0.195 1.400 0.165 -0.114 0.661Indirizzo sociale -0.078 0.430 -0.180 0.856 -0.932 0.775Agrario 0.153 0.450 0.340 0.734 -0.739 1.045

Tipo laurea per anni di dirigenza

Umanistica 13 1.387 0.345 4.010 0.000 0.702 2.071Umanistica 14 0.548 0.268 2.050 0.043 0.017 1.078Umanistica 21 -0.865 0.422 -2.050 0.043 -1.702 -0.029Umanistica 27 -0.719 0.469 -1.530 0.128 -1.649 0.211Tecnico/scientifica 1 1.156 0.644 1.790 0.076 -0.121 2.433Tecnico/scientifica 5 -0.939 0.616 -1.520 0.131 -2.161 0.283Tecnico/scientifica 19 -0.570 0.368 -1.550 0.125 -1.300 0.160Tecnico/scientifica 25 -0.855 0.396 -2.160 0.033 -1.640 -0.069

Definizione del dirigente Manager -0.473 0.210 -2.250 0.027 -0.890 -0.056Altro 0.087 0.479 0.180 0.857 -0.864 1.037

Gli istituti tecnici e professionali ad indirizzo turistico/alberghiero e industriale promuovono

la dualità, molto di più dei commerciali, in maniera meno evidente anche i nautici e gli agrari. I dirigenti che più si adoperano per la dualità sono coloro che si vedono come coordinatori di attività piuttosto che auto-rappresentare il proprio ruolo come quello di manager. Per i dirigenti laureati nelle materie umanistiche l’esperienza ha un rendimento campanulare che vede il suo massimo intorno ai 13/14 anni, mentre per quelli laureati in materie tecniche e scientifiche il coefficiente è sempre negativo sin dagli inizi della loro attività. Una possibile spiegazione di questo risultato apparentemente contro-intuitivo può essere costituita dal fatto che mentre per i laureati in discipline umanistiche l’insegnamento e la dirigenza nella scuola costituisce una carriera attrattiva, nel caso degli ingegneri e più in generale dei laureati in materie tecnico-scientifiche la professione insegnate costituisce spesso un ripiego rispetto ad altre professioni

68

più remunerate e prestigiose. È dunque possibile che vi sia una selezione al contrario nel caso dei laureati in discipline tecnico-scientifiche. Nessuna delle variabili territoriali a disposizione né la dimensione dell’istituto sono invece risultate significative. E’ stato possibile infine stilare una graduatoria degli istituti sulla base del loro grado di “dualità” attraverso il ranking dei punteggi fattoriali. Nella cartina seguente sono geo-riferite le scuole cui è stato attribuito un grado di dualità alto, medio e basso, dividendo in terzili la distribuzione del punteggio fattoriale.

Figura 3.2 ISTITUTI TECNICI E PROFESSIONALI PER GRADO DI “DUALITÀ (PUNTEGGIO FATTORIALE)

Fonte: Irpet

L’osservazione della cartina non mostra particolari regolarità anche se è chiaro che nei centri

urbani maggiori vi è sempre almeno un istituto con un elevato grado di dualità, mentre nelle aree caratterizzate dalla rarefazione della popolazione e dell’attività economica, in particolare nel sud-est della regione e in alcune aree appenniniche, un rapporto stretto tra scuola e mondo del lavoro e della produzione appare più difficile da stabilire. Ma l’aspetto più interessante, al di là delle possibili regolarità ed interpretazioni, è rappresentato dalle potenzialità dello strumento in termini di policy, conseguenti alla possibilità di attribuire un grado di dualità alle istituzioni scolastiche e di ordinarle facendo emergere le migliori pratiche e i casi più critici cui indirizzare una particolare attenzione.

69

4. LA SCUOLA E LE AZIENDE: UNA PROSPETTIVA DALL’INTERNO 4.1 Introduzione Questo capitolo approfondisce il quadro presentato nel capitolo precedente con il contributo di una serie di testimoni privilegiati, dirigenti di scuole secondarie superiori toscane. Il fatto è che le rilevazioni quantitative cross-section, come quella su cui si basa il capitolo precedente, possono fornire un quadro generale dettagliato, ma spesso non sono in grado di approfondirne i particolari. Per questa ragione, si è organizzato un focus group a cui hanno partecipato un dirigente dell’Ufficio scolastico regionale e quattro dirigenti scolastici da molti anni impegnati nel tentativo di riavvicinare la scuola secondaria toscana e il sistema produttivo. Il campione non è rappresentativo: i dirigenti scolastici sono stati scelti dal dirigente dell’USR su richiesta dei membri del gruppo di ricerca, il cui fine era individuare una serie di contesti in cui tra scuole e aziende esistono rapporti cooperativi solidi, da osservare attentamente come “buone pratiche”. In termini più tecnici, il campione non è rappresentativo perché è selezionato sulla variabile dipendente (la qualità del rapporto scuola-aziende), ma proprio per questo consente di mettere in luce i meccanismi socio-economici e le interazioni operative su cui si possono basare politiche scolastiche volte all’integrazione tra scuola e mercato del lavoro e alla produzione di competenze adeguate alla richiesta della componente più dinamica del sistema produttivo.

Il focus group (d’ora in avanti FG) è stato preferito all’intervista individuale perché la sua forma collettiva e dialogica sembrava più appropriata all’obiettivo che ci si era dati: non un’analisi sistematica, ma l’individuazione di nodi critici e di buone pratiche. Il testo che segue deriva dall’elaborazione della trascrizione dell’incontro: l’intervento dell’autore si è limitato al raccordo tra i diversi argomenti (viene mantenuto l’ordine in cui sono stati affrontati nell’incontro) e tra i diversi interventi individuali. Sono state aggiunte una serie di considerazioni stimolate dagli interventi, che sviluppano e chiariscono quanto detto durante l’incontro. Il testo cerca di rendere quanto più chiara possibile la distinzione tra quanto osservato dai partecipanti all’incontro e il commento. Tabella 4.1 I PARTECIPANTI AL FOCUS GROUP Nome Qualifica Roberto Bandinelli dirigente Ufficio regionale scolastico della ToscanaAnna Maria Addabbo dirigente Liceo artistico (già Istituto d’arte) di P.ta Romana, FirenzeRoberto Curtolo dirigente Istituto Russell Newton, Scandicci (tecnico e liceo)Filippo Gellormino dirigente Istituto Giotto Ulivi, Borgo Fiorentino (agrario e liceo)Valerio Vagnoli dirigente Istituto alberghiero Saffi, Firenze

4.2 Il contesto macro: tendenze di lungo periodo e criticità del presente Con qualche sfumatura e differenza personale, i partecipanti al FG hanno storie simili: si tratta di persone con una lunga esperienza di insegnamento, quindi passate a funzioni direttive in scuole di vario genere, e che in diversi casi hanno partecipato alla definizione delle politiche

70

dell’istruzione secondaria superiore in quanto membri di commissioni ministeriali o regionali. Essi collocano se stessi all’interno della storia di un movimento volto a rinnovare la scuola tecnico-professionale migliorandone l’integrazione con il mondo del lavoro e delle aziende34. Dal punto di vista delle loro biografie, l’origine di questo movimento risale alle sperimentazioni degli anni 80, ma ampliando la prospettiva storica esso fa parte di una dinamica più lunga, di cui nella discussione sono emerse varie testimonianze: per esempio, nell’Istituto alberghiero Saffi “da sempre, dagli anni ’50, c’è stato l’obbligo della formazione degli studenti presso le aziende, tanto che […] per 3 mesi si andava a lavorare in Italia e all’estero, d’estate, soprattutto in Francia e Svizzera”.

Sappiamo, in effetti, che dalla fine dell’800 in avanti la scuola tecnica e professionale italiana si sviluppa “dal basso”, con iniziative locali che vedono spesso un attivo contributo da parte di aziende e imprenditori attenti e previdenti (Lacaita e Poggio 2011; Torresani 2014). Successivamente il fascismo, ostile a ogni forma di organizzazione sociale ed economica non direttamente controllata dal partito/stato, ha reciso questi legami, ma essi si sono di nuovo ricreati nel dopoguerra, sotto la spinta dello sviluppo che ha prodotto il “miracolo economico”. Le mobilitazioni collettive dei tardi anni 60 e degli anni 70 hanno, di nuovo, limitato i rapporti formali tra aziende e scuole con la legislazione sui decreti delegati, che aboliva i consigli d’amministrazione degli istituti tecnici e professionali, partecipati dalle aziende.

Il pendolo si sposta di nuovo negli anni 80, quando l’indebolirsi della mobilitazione collettiva e il peggioramento delle prospettive dei giovani nel mercato del lavoro mettono il rapporto tra questo e la scuola al centro dell’attenzione di studiosi e policy-makers. E’ qui che inizia il percorso professionale dei nostri testimoni, quando a partire dall’inizio del decennio sotto la guida del ministero si sviluppa in tutto il paese una serie di sperimentazioni volte a riavvicinare scuole e aziende, non solo rivedendo e aggiornando i programmi, ma soprattutto innovando la didattica, con l’introduzione di forme di apprendimento situato (problem posing, problem solving, simulazioni, studi di casi e così via) che ci si aspetta possano ridurre il gap tra formazione d’aula e attività lavorative.

E’ stato fatto notare, nella discussione, che rispetto a questo “movimento per la scuola professionale” si colloca in controtendenza la riforma progettata dal ministro Berlinguer nella seconda parte degli anni 90, che avrebbe completamente rivoluzionato la struttura della scuola secondaria superiore italiana creando un biennio unico per tutti gli indirizzi. In questo modo si spingeva la scuola verso il modello liceale, lasciando la formazione professionale e il rapporto con il mercato del lavoro nella sfera delle competenze delle regioni35. Una volta caduto il progetto di Berlinguer, i risultati delle sperimentazioni sono riemersi nel progetto di riforma del successivo ministro Moratti, realizzato solo in parte, e finiscono per avere un impatto non trascurabile sugli esiti della riforma effettivamente realizzata dal ministro Gelmini.

Questa, quindi, la storia da cui provengono i nostri testimoni privilegiati. Nel presente, secondo i nostri intervistati oggi due grandi problemi sistemici si contrappongono al movimento per la formazione professionale: il privilegio dei percorsi accademico-generalisti nel quadro del sistema scolastico italiano, e la complessità del governo della scuola tecnica e professionale.

34 Questo movimento si è anche dato strutture associative. Alcuni dei nostri testimoni aderiscono, per esempio, al “Gruppo di Firenze”, un’associazione di insegnanti e dirigenti che “si sta battendo per la riqualificazione della formazione professionale”. Cfr. http://gruppodifirenze.blogspot.it/. 35 La riforma Berlinguer era ispirata dalla pedagogia progressista degli anni 70, secondo la quale la separazione tra istruzione liceale e formazione professionale non ha senso, nella misura in cui le scuole oggi devono creare le competenze “di base”, tanto cognitive quanto motivazionali, richieste dalle società contemporanee. La scuola dell’obbligo, che arriva fino ai 18 anni, non deve porsi obiettivi di tipo occupazionale e/o economico (cfr. Monasta 2003). Per citare uno dei nostri testimoni: “c’è un muro ideologico che ci stiamo portando dietro…negli anni passati abbiamo alzato un muro ideologico tra scuola e mondo del lavoro, dove la scuola è il centro della cultura e il mondo del lavoro era la contaminazione perfida del liberismo, del capitalismo.”

71

Il primo problema è noto a tutti, ed è radicato nella storia della cultura delle classi dirigenti italiane36. Vale la pena di citare il modo in cui uno dei nostri interlocutori legge questa cultura: “Nel momento in cui ho ho demonizzato l’impresa […] sul piano ideologico e quindi sul piano culturale, ho traslato quella demonizzazione all’interno dei sistemi formativi. Escludendo l’impresa ho escluso il lavoro, escludendo il lavoro, ho fatto del lavoro, in particolare il lavoro manuale, una procedura di serie B. E quindi ho spostato l’insuccesso nell’attività manuale e ho rivalorizzato l’aspetto teorico e teoretico del lavoro […] il lavoro è quello in cui uno non si sporca le mani”.

Il privilegio della cultura teorica rispetto a quella pratica incomincia nelle scuole medie, rispetto alle quali è stato fatto notare che “l’educazione tecnica è una materia astratta. Invece alle medie ci dovrebbe essere tanta didattica laboratoriale, perché deve avere un carattere altamente orientativo. Oggi la scuola media è solo un mini-liceo, che non ha tra i suoi obiettivi quello di orientare i ragazzini37”.

Per via di questa cultura, in Italia dopo la scuola secondaria mancano percorsi tecnico-professionali di pari dignità e prestigio rispetto a quelli universitari38. Questo contribuisce a deprimere l’immagine della scuola secondaria tecnico-professionale, che pure dà accesso all’università: se si vuole andare all’università, tanto vale fare direttamente il liceo, che è fatto apposta. La scuola tecnico-professionale diventa quindi la scuola dei meno bravi: come ricorda un partecipante al FG, “io alle scuole medie ho sentito in più occasioni discorsi ormai standard, dove i ragazzi che non capiscono niente devono andare al professionale”. Lo stesso vale per handicappati e stranieri, che vengono orientati verso l’istituto professionale inteso come scuola di serie B.

Il secondo problema è più direttamente istituzionale e organizzativo. Oggi nel governo della scuola e della formazione professionale italiane le competenze e le attività dello stato e delle regioni si sovrappongono ampiamente e disordinatamente, senza che la legge sia in grado di chiarire dilemmi e controversie. Questa complessità (in nuce nella Costituzione e ribadita con la reale nascita delle regioni negli anni 70) è esplosa quando la frettolosa riforma federalista dello stato approvata nel 2001 aggiunse alle competenze delle regioni, di cui faceva già parte la “potestà esclusiva” sulla formazione professionale, anche la “potestà concorrente” sulla scuola. Da allora, ogni intervento legislativo e amministrativo sulla scuola, in particolare sul segmento tecnico-professionale, è a rischio di ricorsi, in nome delle competenze dell’una o dell’altra istituzione coinvolta.

La sovrapposizione di governo, cui si aggiunge la sovrapposizione funzionale di tre ordini di scuole tecnico-professionali39, non solo complica la gestione del sistema, ma rende difficile l’innovazione istituzionale, perché raddoppia le rigidità normative contro cui spesso, come vedremo, si scontrano i tentativi di creare percorsi di formazione professionale condivisi tra scuole e aziende. Questo vale per la gestione degli insegnanti, così come per la progettazione dei corsi e dei loro programmi. Si tornerà più avanti su questi due problemi.

36 Il successo della pedagogia progressista degli anni 70, di cui alla nota precedente, potrebbe essere un aspetto dell’egemonia di lunga durata che la cultura idealistica ha esercitato nell’Italia del 900. 37 Un altro testimone ha detto la stessa cosa affermando che nelle medie “nessuno si è mai posto il problema di andare a fare orientamento nelle scuole portandosi dietro il mondo del lavoro.” 38 Che invece esistono in quasi tutti i paesi europei (Ballarino 2011a). Si torna su questo nel paragrafo 6. 39 Istituti tecnici, istituti professionali e il sistema regionale di istruzione e formazione professionale (IeFP).

72

4.3 Alla ricerca di una formazione duale Con qualche semplificazione delle sfumature personali, non è difficile individuare negli intervistati una visione condivisa di come dovrebbe essere il rapporto tra scuola e lavoro. Il punto centrale è stato espresso dicendo che “la formazione non deve essere scuola-centrica”: essa deve, invece, coinvolgere le aziende come partner di pari livello. Questo coinvolgimento è decisivo perché solo in questo modo, si sostiene, è possibile aumentare il contenuto di competenza e quindi di qualità del prodotto, posizionandolo nella fascia alta del mercato in modo da evitare la concorrenza dei prodotti dei paesi di nuova industrializzazione, che sono più a buon mercato per il compratore ma non sono in grado di raggiungere determinati livelli di qualità. Nel caso della filiera tessile-moda, per esempio, si crede che questo possa essere il modo di evitare la forte deindustrializzazione che ha avuto luogo in altri contesti, come quello lombardo.

Anche se non esplicitato, il punto di riferimento è evidentemente il sistema duale tedesco, di cui si è parlato al capitolo precedente. Il sistema duale si chiama così perché al suo interno apprendimento scolastico e formazione on the job in azienda hanno lo stesso peso. Il coinvolgimento delle aziende, o meglio dei datori di lavoro, è quindi la condizione cruciale per costruire percorsi di formazione professionale efficaci. Questo coinvolgimento si manifesta in diverse forme di collaborazione tra scuola e azienda, ciascuna delle quali costituisce un’attività a sé stante e autonoma: a. il classico stage, dove è essenziale la durata (troppo breve non serve a molto), e che perde

gran parte della propria valenza formativa se lo stagista non è seguito sia a livello aziendale che a livello scolastico.

b. le docenze di dirigenti e personale delle aziende del territorio, che si inseriscono nei curricula tecnici non come semplici testimonianze dal mondo del lavoro, ma come momenti formativi a tutti gli effetti, anzi centrali proprio nella misura in cui trasmettono le competenze tecniche che qualificano i percorsi.

c. la collaborazione tra dirigenti e professori nella definizione delle competenze di cui il diplomato deve essere dotato, da cui dovrebbe derivare un costante aggiornamento dei corsi, il cui contenuto deve sempre avere presente quale sarà l’attività lavorativa verso cui lo studente si dirige.

d. la creazione di vere e proprie opportunità lavorative per gli studenti, che può aver luogo in diverse forme, di cui le principali sono il project work (lavoro retribuito degli studenti per le aziende, di cui si è detto nel capitolo precedente) e l’“incubatore” (o junior enterprise), cioè la creazione di un’azienda da parte della scuola e degli studenti.

Box 4.1 Buone pratiche nelle scuole: "Giovani idee d'impresa" Dove? All’istituto di istruzione superiore Giotto Ulivi Cosa? Si sviluppano "Giovani idee d'impresa" Perché? Per favorire una crescita formativa in un percorso extrascolastico attraverso un primo approccio all'imprenditorialità e per far acquisire agli studenti la consapevolezza della realtà economica locale e delle opportunità che essa può offrire. Come? L’istituto, insieme all'Unione Montana dei Comuni del Mugello e con il partenariato della Banca del Mugello, ha promosso per le classi quinte una serie di attività e progetti d’impresa, realizzati con il coordinamento dell'Incubatore di Imprese di Pianvallico (di proprietà dell'Unione e gestito dalla società Pianvallico spa). In particolare, gli studenti, avvalendosi del supporto dei loro insegnanti e del coordinamento e dell'indirizzo del direttore dell'Incubatore hanno individuato attraverso un percorso partecipativo 4 idee imprenditoriali su cui hanno svolto un lavoro a gruppi, fino ad arrivare all'elaborazione di altrettanti business plan. I progetti sono stati esaminati e valutati da un'apposita commissione che ha assegnato ai gruppi primi e secondi classificati un premio in denaro messo a disposizione dagli sponsor (Banca del Mugello e Assicurazioni Boni).

73

Guardando all’insieme a queste attività, le si può vedere come tappe di un percorso cumulativo, di crescente integrazione tra scuola e azienda, che può potenzialmente riprodurre le caratteristiche del sistema duale tedesco: da un lato una formazione tecnica, a scuola, condivisa dalle aziende; dall’altro l’attività lavorativa degli studenti in azienda, integrata con le lezioni teoriche tenute a scuola40.

Box 4.2 Buone pratiche nelle scuole: le imprese entrano nella scuola Dove? All’Istituto di istruzione tecnica e liceale Russel Newton Cosa? Le imprese entrano nella scuola Perché? Innanzitutto per abbattere il divide culturale tra manager e docenti, superando il pregiudizio nei confronti dell’azienda vista come elemento antagonista e distruttivo della corretta didattica e adottando una visione più laica e positiva che la vede quale indispensabile soggetto con cui collaborare. Il rapporto con le imprese e la conseguente curvatura dei curricoli ha così una funzione orientativa della scelta universitaria, e una funzione di orientamento per la scelta del settore lavorativo laddove i ragazzi non proseguono gli (per questa ragione il servizio è offerto sia agli studenti dell’istituto tecnico che a quelli del liceo). Come? Si sono contattate le principali imprese del territorio di Scandicci e Firenze e si è strutturato un percorso collegato a momenti specifici di alcuni focus del curriculum, specialmente nelle materie tecniche, portando le imprese a sviluppare con i loro manager gli argomenti del curriculum specifico. Ad esempio, il manager responsabile delle risorse umane dell’impresa “Savino del Bene” sta tenendo un ciclo di lezioni sulla globalizzazione del sistema di trasporto e logistica nel settore moda. La peculiarità della “buona pratica” risiede in questo caso nel passaggio di saperi dall’impresa alla scuola attraverso un percorso strutturato.

Tra le esperienze più riuscite di cui si è parlato nel FG, diverse si presentano come una sorta

di micro-sistema duale, creato a livello locale dalla cooperazione tra singole scuole e aziende o gruppi di aziende. Per certi versi non si tratta di niente di nuovo. Si è già osservato che molte scuole tecniche e professionali nacquero dall’iniziativa di singole aziende, e nonostante le circostanze storiche siano state spesso avverse il legame non è mai stato reciso del tutto. Per esempio, la maggior parte degli istituti agrari da sempre ha al proprio interno un’azienda nella quale gli studenti imparano il mestiere, e quando questa non esiste vengono creati rapporti stabili con aziende agricole locali. Lo stesso vale per i “vecchi” corsi professionalizzanti biennali post-diploma, di cui si dirà oltre, che prevedevano lunghi stage al secondo anno.

Box 4.3 Buone pratiche nelle scuole: specializzazioni biennali post-diploma Dove? Al liceo artistico di Porta Romana Cosa? Specializzazioni biennali post-diploma Perché? Per fornire ai diplomati adeguate competenze professionali specifiche non ottenibili attraverso percorsi di laurea triennale, tendenzialmente a carattere molto meno professionalizzante. Come? Attraverso percorsi progettuali e laboratoriali che si basano su un costante rapporto con le aziende di diversi settori, in particolare con quelle del territorio, per la realizzazione di stages aziendali e esperienze di alternanza scuola-lavoro che riguardano gran parte del secondo anno.

40 Rimane una differenza decisiva: nel sistema duale tedesco l’apprendista (Auszubildende) è assunto dall’azienda, cosa impossibile per la legge che regola gli stage (Dm 142/1997). L’apprendistato come rapporto di lavoro, invece, esclude gli studenti, anche se il Dl 167/2011 (il c.d. “Testo unico dell’apprendistato”) cerca di cambiare questa situazione, con successo per il momento modesto. Dunque per il momento in Italia è solo possibile l’alternanza tra scuola e lavoro, mentre la loro integrazione, come nel modello tedesco, è resa molto difficile dal quadro normativo.

74

Nei contesti e nei settori in cui il rapporto con le aziende è difficile a causa dell’opportunismo di queste ultime (v. prossimo paragrafo) il modello del micro-sistema duale può essere approssimato anche da un’iniziativa unilaterale della scuola: per esempio, l’istituto alberghiero Saffi ha creato un proprio ristorante, gestito da un gruppo di diplomati, che funziona sia come esercizio commerciale che come luogo di formazione per gli studenti.

Box 4.4 Buone pratiche nelle scuole: una fondazione per realizzare l’alternanza scuola-lavoro Dove? All’istituto Alberghiero SAFFI di Firenze Cosa? Una fondazione per realizzare l’alternanza scuola-lavoro e per favorire il passaggio al mondo del lavoro Perché? Per creare un ambiente ideale per l’alternanza scuola-lavoro, in cui gli studenti possano valorizzare le proprie capacità e mettere effettivamente in pratica le competenze acquisite in aula. Questo appare necessario perchè spesso l’attività dello stage appare poco incisiva, prevedendo un monte ore troppo risicato e lo svolgimento di mansioni di basso livello. Ciò è vero in particolare per gli studenti degli istituti alberghieri che si trovano spesso ad essere sfruttati nel contesto lavorativo con mansioni di basso livello e scarso know how. Inoltre, lo stage rischia talvolta di rappresentare per loro una sorta di trappola: i più bravi vengono infatti intercettati dalle imprese, proponendo loro un contratto di lavoro post stage che spesso non li valorizza e li demotiva alla prosecuzione degli studi o addirittura al conseguimento del diploma. Si tratta spesso dei migliori studenti, ai quali il contratto impedisce di iscriversi alle scuole di alta specializzazione, ad esempio Marchesi, Pollenzo (Vicenza), Slow food, che del resto sono private ed hanno costi assurdi, nell’ordine delle decine di migliaia di euro. Come? Si è aperto un ristorante dell’Istituto, proprietà di una fondazione nella quale la scuola è il socio maggioritario. Il ristorante è gestito da 9 ex studenti tra i 21 e i 29 anni, assunti a tempo indeterminato tra i migliori ex studenti (molti dei quali lavoravano a tempo parziale o con contratti non regolari). Il compenso per gli ex allievi è costituito da una borsa di studio annuale di 400 euro mensili sostenuta dagli introiti. I ragazzi sono impegnati per un anno e conducono attività di alta formazione sul campo, che alterneranno ad attività di aula, quali ad esempio l’inglese per la ristorazione, corsi sulle norme e le certificazioni relative all’igiene delle preparazioni alimentari, contabilità e tenuta dei registri, etc. La sfida è fare uscire dopo un anno 9 giovani in grado di gestire da soli un ristorante nei tre settori di sala, bar e cucina. Insieme a loro vanno a fare stage gli attuali studenti delle classi quarte, che vengono così monitorati seriamente, e non lasciati a loro stessi o sfruttati.

Un altro caso è quello dell’Educandato di Poggio Imperiale, un liceo artistico di grande

tradizione, i cui studenti stanno creando un proprio museo interno, di prossima apertura al pubblico, grazie al recupero di opere d’arte immagazzinate in vari depositi cittadini.

Box 4.5 Buone pratiche nelle scuole: attività di alternanza scuola-lavoro al museo di Poggio Imperiale Dove? All’educandato statale S.S. Annunziata di Poggio Imperiale Cosa? Attività di alternanza scuola-lavoro al museo di Poggio Imperiale Perché? Per facilitare lo svolgimento dell’alternanza gestendola all’interno dell’istituto Come? Si sta procedendo alla costituzione di un museo che possano gestire i ragazzi durante le attività di alternanza scuola-lavoro, svolgendo il ruolo di guide per l'accoglienza dei visitatori al percorso museale della Villa del Poggio Imperiale. A tal proposito si sono raccolte centinaia di opere d’arte disperse tra i vari uffici fiorentini o nascoste in soffitta nell’Istituto e si sono poi organizzati dei corsi per la formazione specifica dei ragazzi. Si tratta di corsi di 15 ore di lezione, svolte in aula e negli ambienti museali della Villa, con i quali ottenere il patentino di “guida storico-artistica” al percorso museale della Villa del Poggio Imperiale. La scuola ha previsto come compenso delle prestazioni dei buoni per l’acquisto di libri.

Il problema è, ovviamente, quello delle molte risorse da investire in questo tipo di progetti.

Si parlerà più avanti delle risorse umane, mentre per quanto riguarda quelle finanziarie hanno un ruolo importante in molti dei progetti di cui si è parlato nel FG i fondi dell’Alternanza scuola-lavoro (ASL), il programma ministeriale di sostegno all’integrazione tra scuola e mondo economico creato nel 2003 nel quadro della legge delega 53/2003 (vedi il capitolo precedente

75

per un’analisi sistematica della diffusione e degli esiti di questo programma nelle scuole toscane).

Fondi dell’ASL vengono utilizzati anche per progetti di sostegno ai corsi condivisi, come la formazione dei tutor dell’alternanza: per esempio, in provincia di Firenze una partnership tra un gruppo di scuole e associazioni di piccole imprese (CNA, Confartigianato) ha dato vita a un progetto di formazione rivolto tanto ai tutor scolastici (insegnanti) quanto ai tutor aziendali (imprenditori e dirigenti).

Un punto importante, sottolineato da molti partecipanti, è che la presenza del sistema economico nella scuola non deve limitarsi ai soli istituti tecnici e professionali: è giusto che anche gli studenti dei licei tradizionali (classico e scientifico in primo luogo) facciano esperienza del mondo dell’azienda, anche se il loro percorso prosegue verso l’università. Se intesi in questo senso, i percorsi duali possono anche integrare al proprio interno l’orientamento alla scelta universitaria. 4.4 Le aziende: un mondo eterogeneo Ogni progetto di formazione professionale si deve quindi misurare in primo luogo con il coinvolgimento delle aziende. Come sappiamo dalla teoria socio-economica (v. capitolo 1), questo non è per niente scontato: in assenza di vincoli istituzionali, le aziende tendono a non investire in modo ottimale nella formazione di competenze, perché preferiscono acquistarle già pronte sul mercato. La situazione riscontrata dai nostri testimoni privilegiati non si discosta da questa previsione teorica: molto spesso, “le aziende sono orbe […] Il ragazzo è spesso visto come una perdita di tempo, in quanto occorre affiancarvi un tutor. Allora finiscono a fare mansioni banali in cui non devono essere seguiti, come le fotocopie […] di solito il ragazzo è visto come un tempo morto”.

A comportamenti di sostanziale disinteresse si possono aggiungere comportamenti di tipo opportunistico, orientati all’interesse di breve periodo dell’azienda e solo a quello. Per esempio, nel settore alberghiero lo stage, quando non viene strutturato all’interno di un percorso di tipo duale, può avere effetti negativi per la crescita professionale dei ragazzi. “I più bravi agli stage vengono intercettati e viene proposto loro un contratto di lavoro alla fine dello stage […] ma in realtà è una fregatura enorme, non tanto o non solo perché talvolta non finiscono gli studi, ma soprattutto perché vengono intercettati per essere sfruttati nel contesto lavorativo, e non per essere valorizzati. Si tratta spesso dei migliori studenti, nei migliori anni […] spesso finivano per fare altro rispetto a quello che avrebbero dovuto fare […] per 15 giorni sbucciavano patate”41.

Questa situazione non è uniforme: come è noto, la dimensione aziendale fa una grande differenza, a favore delle imprese medio-grandi. “Non è vero, però, che le imprese sono tutte miopi, non è che non si rendono conto del valore aggiunto dei giovani. E’ che l’organizzazione interna del lavoro in azienda impedisce di dedicare risorse. C’è differenza in base alla struttura: le PMI e artigiane hanno il problema che la loro organizzazione interna è tale da non consentire un approccio dedicato al soggetto che fa l’esperienza in impresa. […] Invece con aziende grandi […] l’attenzione nei confronti delle risorse giovani è molto alta. Il problema per loro è capire come i percorsi che loro usano come formazione interna ed inserimento possono essere tarati sulla loro esperienza. Negli attuali progetti le imprese hanno la possibilità di rendersi conto che

41 E’ per evitare casi di questo tipo che la scelta migliore può essere quella della creazione di un micro-sistema duale come quello del Saffi di cui si è detto. Il problema è che questo comporta un investimento notevole, le risorse per il quale devono essere reperite dal dirigente-imprenditore.

76

la scuola ha migliori informazioni sulle metodiche di apprendimento, mentre loro hanno più esperienze di formazione sui livelli più alti”.

Quindi ci sono anche casi di successo: “Proprio in questi giorni [abbiamo concluso un] accordo con un’azienda di cui non dico il nome... L’AD dice che siamo una azienda della comunicazione e dunque dobbiamo capire come si comunicherà nel futuro, e per questo abbiamo bisogno che i giovani stiano con noi in azienda. Si capisce dunque che l’azienda non solo dà ma anche, e soprattutto, riceve dai ragazzi. Si è quindi fatto un accordo per l’inserimento di 12 ragazzi provenienti da tutti gli indirizzi, che lavoreranno in alternanza con un progetto formativo tra scuola azienda e genitori, con tanto di orari di partecipazione curriculare e extracurriculare”.

A vantaggio della formazione duale può andare il fatto che le aziende medio-grandi spesso non sono più in grado di gestire la propria formazione interna in proprio, come facevano fino a qualche tempo fa: “oggi l’alleanza formativa è anche un vantaggio per le aziende. Le aziende dagli anni 70 hanno sempre detto: dateci i diplomati e poi li formiamo noi, anzi li addestriamo noi. Oggi le aziende non hanno più risorse per formazione interna di questo tipo, e soprattutto le filiere produttive sono diversificate, spezzettate e flessibili e quindi l’”addestramento” non va più bene nemmeno alle imprese.”. E anche: “l’ho visto nell’ITS: ci sono aziende [seguono nomi NDR] che sono disponibili a lavorare sulla costruzione dei curricula e mettono a disposizione le competenze, perché interessa loro capire e vedere”.

Come sappiamo, la differenziazione tra grandi e piccole imprese in merito alla formazione è generale, come mostra anche il caso tedesco (v. sopra). Nel nostro paese, però, essa pesa di più a causa della ridotta dimensione media delle aziende. Come dice, molto efficacemente, un testimone: “in molte piccole aziende non gli passa nemmeno per la testa di accogliere gli studenti”. La direzione in cui lavorare per coinvolgere le PMI nella formazione professionale non può quindi essere che quella delle reti e delle partnership scuola-azienda, dove il rapporto diretto tra scuole e aziende viene sostituito da un rapporto indiretto, che ha luogo con la mediazione del progetto collettivo42. In questo hanno un ruolo decisivo da una parte le associazioni imprenditoriali, e dall’altra i finanziamenti pubblici, in particolare quelli per l’ASL di cui si è già parlato.

Particolarmente difficile, a causa dei vincoli e delle rigidità istituzionali, sembra essere la situazione negli enti pubblici, che pure spesso potrebbero rappresentare uno sbocco occupazionale43, e potrebbero avvalersi utilmente degli stagisti. Invece, le rigidità regolative rendono particolarmente difficile il rapporto tra formazione professionale e pubblica amministrazione, a tutti i livelli: “per mandare 15 ragazzi in Consiglio regionale mi è toccato pregare”. 4.5 Dal lato della scuola: insegnanti e dirigenti Veniamo ora all’altro lato del rapporto, quello della scuola. Qui l’attore chiave sono in primo luogo gli insegnanti. L’analisi fornita da uno dei testimoni ne descrive con precisione la situazione: “Purtroppo c’è una minoranza, netta minoranza, di insegnanti incapaci, anche per

42 Il sistema duale tedesco è stato sviluppato dal governo proprio per consentire all’artigianato di reggere la competizione della grande industria, di cui si temeva un’eccessiva espansione, che avrebbe portato con sé anche un rafforzamento dei sindacati (cfr. Ballarino 2013). 43 Come esempio è stato citato il caso dei diplomati dei vecchi IT per geometri, ora ridenominati indirizzo “costruzione, ambiente e territorio”.

77

scelta ideologica (la quantificherei sul 10%), che fanno danni irreversibili, anche perché pur avendo competenze magari non sanno insegnare, non hanno tecnica di comunicazione”. Accanto a questi, “c’è una minoranza di docenti motivati che però ha forti difficoltà perché si trovano a sopperire alla distruzione che qualche loro collega fa quotidianamente. Basta un insegnante che non funziona in una classe: ciò è vero soprattutto nei professionali, dove i ragazzi hanno solo quella carta lì da giocarsi; non c’è possibilità che la famiglia intervenga per sopperire con lezioni private o per far loro cambiare percorso…”. Infine, “c’è un ceto medio di insegnanti, quella palude, che è la maggioranza (un 50-60%), che è stata talmente bistrattata, umiliata da tutti i governi e dai loro sindacati di riferimento, che ora è lì in attesa che accada qualcosa, forse la pensione…”.

Sulla motivazione degli insegnanti gioca un ruolo importante lo stipendio. Come sappiamo, oggi nella scuola italiana non sono previste forme di incentivazione di un qualche peso: a tutti i docenti sono retribuite 80 ore all’anno addizionali rispetto all’orario di insegnamento, in cui sono compresi anche i consigli di classe. Si tratta, viene osservato, di un numero di ore insufficiente per seguire, per esempio, un serio esperimento di tipo duale. Un tempo esistevano i fondi del “salario accessorio”, ma questi non esistono più e quindi oggi gran parte del lavoro extra-orario degli insegnanti è volontario, con tutti i limiti del volontarismo. Problemi ulteriori vengono dalle rigidità dell’orario di lavoro, pensato per un modello di scuola molto diverso dal modello duale: “c’è un orario di lavoro che è incompatibile con la scuola come la stiamo immaginando”, dice un testimone.

Il problema non è solo di motivazione, ma anche di professionalità. Anche quando insegnano nel modo tradizionale, con didattica frontale, gli insegnanti “entrano in un sistema nel quale la relazione e la comunicazione sono l’elemento fondamentale attraverso i quali passa la loro azione, e non hanno nessuna competenza di tipo comunicativo relazionale se non quella che si sono autocostruiti. E questo è un limite gravissimo”. Gli insegnanti conoscono la propria materia, ma non sanno gestire una classe, perché nessuno lo ha insegnato loro.

Si può aggiungere che questa scarsa preparazione all’interazione con gli allievi e, quindi, alla gestione dei gruppi è alle origini della frequente lamentela dei datori di lavoro italiani, che ripetono da decenni che il limite grave della scuola oggi è che non vi si formano le competenze sociali e relazionali necessarie per inserirsi in azienda. I neo-diplomati faticano ad accettare la disciplina aziendale (Ballarino e Perotti 2011). In effetti, in Italia il modello di formazione degli insegnanti sembra essere ancora quello della scuola d’élite: in un contesto di questo tipo, si può assumere che gli alunni siano già disciplinati e motivati, per cui la formazione continua degli insegnanti si concentrerà sulla specializzazione disciplinare, e non sulle tecniche di insegnamento. Così, nella scuola italiana l’insegnante non viene formato a gestire la disciplina e a creare la motivazione. E’ per questo che i corsi di formazione per insegnanti, di cui si è già parlato, sono di grande importanza.

Il fatto è che una scuola duale è impegnativa per gli insegnanti. Secondo i nostri testimoni privilegiati, essa deve saper affiancare alla lezione tradizionale altre metodologie didattiche, e soprattutto deve essere in grado di diversificare i percorsi, iniettando una dose massiccia di flessibilità nelle vene di un’organizzazione curriculare ancora molto rigida (si veda il prossimo paragrafo). Si dovrebbe ragionare, quindi, “di orari strutturati in modo flessibile, di classi aperte, di spazi didattici organizzati per spazi funzionali […] che non hanno una struttura rigida di curricolo. Il ragazzo che odia la matematica può ridurre al minimo quella materia e fare altre cose […] Da noi no: deve fare la matematica e non viene valorizzata al massimo l’altra competenza che ha, che magari compensa e che può essere sviluppata meglio”.

E’ evidente che il problema della competenza e della motivazione degli insegnanti non è individuale (anche se le motivazioni individuali hanno un grande peso), ma sta

78

nell’organizzazione della scuola e del lavoro al suo interno. Pesa molto l’eredità di stagioni trascorse, in cui la rigidità del lavoro era un valore: anche se la normativa oggi è diversa, molte cose nella scuola funzionano ancora secondo quel modello. Come nota uno dei nostri testimoni, “c’è una legge dello stato che prevede che il personale deve essere gestito dal dirigente scolastico. Però c’è un fronte sindacale che rende impossibile e stressante la contrattazione. Che poi finisce con la rottura finale, con la mancata firma di almeno un paio di sindacati… con una perdita di tempo bestiale”.

Quella del dirigente è una figura chiave, cui la legge apre ampi spazi di iniziativa, non sempre sfruttati come si potrebbe. Questo è un punto importante, su cui le opinioni dei nostri testimoni non sono del tutto uniformi. Alcuni sostengono che l’autonomia scolastica è poco più di un flatus vocis: “quando si parla di autonomia, si parla di tre cose fondamentali: gestione delle risorse, gestione finanziaria e gestione del personale. Le strutture non le gestiamo perché sono delle province, dei comuni ecc…Le risorse finanziarie non le abbiamo. Le risorse umane non le gestiamo.” Altri, invece, sostengono che ci sono più spazi di iniziativa di quelli normalmente utilizzati: “Le ore possono essere gestite dagli istituti. In un’attenta programmazione da parte del docente si potrebbe andare a calare il percorso di alternanza scuola-lavoro. Se non si fa questo, rimane tutto sulla carta. Ben vengano le buone pratiche di cui si è parlato oggi, ma sono pochi che si inventano queste buone pratiche. Molti altri si limitano a fare lo stage, programmato al di fuori dell’anno scolastico… occorre una logica diversa, di programmazione”.

In ogni caso, i dirigenti motivati e intraprendenti sono in grado di sperimentare e innovare, e possono venire aiutati dalle più recenti innovazioni istituzionali. Per esempio, la creazione di un ITS passa attraverso la costituzione di una fondazione, cui partecipano insieme le scuole e le aziende coinvolte nel progetto, ma lo strumento istituzionale della fondazione può essere usato anche al di fuori degli ITS, con il medesimo obiettivo di creare condivisione e coprogettazione. “È l’uso della fondazione come elemento strutturale esterno (che però è interno) che consente una interazione strutturale formalizzata ma flessibile tra i due mondi di formazione e lavoro, che io ho sperimentato attraverso l’ITS. Consente un’interazione forte tra mondo del lavoro e sistema della formazione attraverso modalità più semplici e immediate che arrivano a recepire più direttamente le esigenze produttive […]. Ho pensato anch’io a questa idea, e ho cercato di costruire una fondazione indirizzata alla formazione e all’alternanza e ho contattato 4 imprese. Ho trovato non attenzione, ma interesse e volontà immediata da parte loro. Ma non perché loro siano interessati ad assumerli; io sforno 300 ragazzi all’anno, non è che loro possono. Ma la rotazione delle competenze, i giovani che entrano nell’impresa, il partecipare al sistema formativo, hanno per loro un valore aggiunto enorme”. 4.6 Rigidità e sperimentazione dei percorsi Le rigidità che segnano l’organizzazione del lavoro e la gestione delle risorse umane nelle scuole si riproducono nelle rigidità della micro-organizzazione dei percorsi di studio, e le due rigidità si rinforzano reciprocamente: “Ho strutture curriculari rigide perché su quelle strutture curriculari fondo la mia struttura del personale: su quella baso le immissioni in ruolo”. Invece, “l’alternanza scuola lavoro può essere fatta solo se si riesce ad aggirare queste rigidità. Noi riusciamo a fare alternanza nella misura in cui riusciamo a aggirare e a compensare le rigidità del sistema con altri strumenti”.

79

Alle rigidità micro si aggiungono le rigidità macro, relative all’organizzazione dei corsi e alla loro collocazione nella struttura del sistema di istruzione e formazione professionale. Non sempre i corsi esistenti nel menu definito dal ministero e dalle regioni corrispondono alla domanda di competenze proveniente dal territorio, né c’è la possibilità di adattare (almeno in parte) il programma alla domanda stessa. Il problema si pone a tutti i livelli del sistema: sia nel suo segmento basso, i corsi triennali regionali (IeFP, che dal 2010 sostituiscono i vecchi corsi triennali regionali e il primo triennio degli istituti professionali statali, eliminando così una sovrapposizione del sistema), che nel suo segmento alto, i corsi post-diploma.

Per quanto riguarda i corsi triennali, è valutata criticamente la scelta della regione Toscana, che ha privilegiato i “percorsi integrati in sussidiarietà”, i cui programmi hanno scarsa flessibilità rispetto al curriculum definito centralmente, piuttosto che i “percorsi complementari”, che invece sono molto più flessibili e consentono una quota maggiore di materie professionalizzanti. Quest’ultima forma istituzionale consente una maggiore condivisione della progettazione del corso con gli attori produttivi, e un migliore adattamento delle competenze prodotte al fabbisogno dell’economia locale. Inoltre, essa favorisce la didattica applicata e i laboratori, più adatti agli studenti, che spesso scelgono questi percorsi proprio perché soffrono la didattica scolastica standard. Di recente, due istituti alberghieri (il Saffi di Firenze e il Vasari di Figline Valdarno) hanno ottenuto la possibilità di avviare corsi di tipo complementare, il che ha consentito di aumentare le ore di laboratorio e di creare una didattica più differente da quella scolastica e quindi più motivante per i ragazzi.

Quando però si parla di competenze di livello più elevato, quelle necessarie per avviare il sistema produttivo sulla via della competizione sulla qualità, i diplomi triennali risultano limitanti: in sintesi, “le figure professionali definite dalla regione prevedono un numero di ore insufficiente per formare artigiani di alto livello”. E’ questo il caso del settore della pelletteria, dove “noi oggi abbiamo come figure nazionali di riferimento l’”operatore dell’abbigliamento” e l’”operatore della calzatura” [si tratta di qualifiche professionali triennali, NDR], che col ciclo produttivo dell’accessorio pellettiero non c’entrano nulla. Figure di riferimento assolutamente scentrate rispetto ai nostri fabbisogni. In più, un percorso di 200 o 300 ore non è in grado di dare la formazione specifica di un artigiano che deve fare un prodotto che sul mercato va a 7.000 euro come i bauletti della Tom Ford. Le competenze richieste per formare un artigiano che a mano riesce a fare questi oggetti artigianali in serie richiedono 4 o 5 anni. Invece oggi le figure nazionali e regionali sui profili non combaciano […] I corsi non sono in grado di formare competenze specifiche per i settori puntando all’alta qualità. Si tratta di competenze che richiedono, nella moda, anni di formazione”.

Anche nel settore della ristorazione manca un diploma post-secondario che possa raccogliere una domanda complessivamente in crescita: da una parte ci sono i tradizionali corsi universitari delle facoltà di Agraria, dall’altra “le scuole di alta specializzazione, ad esempio quella di Slow Food e Marchesi a Pollenzo, o quella di Vicenza [l’Università del gusto, NDR] che del resto sono private ed hanno costi assurdi, nell’ordine delle decine di migliaia di euro”. I trienni universitari di primo livello, introdotti dalla riforma del 1999, secondo i nostri interlocutori non sono in grado di risolvere il problema della prosecuzione post-diploma della formazione professionale, perché l’università non è in grado di creare percorsi duali. Per esempio, l’Istituto d’arte di Porta Romana ospita da molti anni corsi biennali post-diploma, i cui studenti passano parte del secondo anno in azienda. Questi percorsi sono “più antichi dei trienni universitari e non in concorrenza con essi, perché l’università non dà la stessa professionalizzazione. Anzi l’Università spesso viene a chiedere a noi competenze, risorse strumentali e laboratori di analisi […] Adesso stiamo facendo una convenzione con l’Accademia delle Belle arti perché ci chiede dei moduli di insegnamento di tipo laboratoriale. L’Istituto è parte di un ITS…”.

80

La maggior parte dei nostri testimoni privilegiati fanno parte di progetti ITS, che almeno potenzialmente sembrano poter diventare quel segmento alto della formazione professionale, che a tutt’oggi manca nel nostro paese, dove il sistema di istruzione terziario è tutto costruito attorno alle università44. Tuttavia, c’è anche consapevolezza del fatto che nessuna formula organizzativa può di per sé risolvere le criticità strutturali del sistema. 4.7 La riforma possibile In che modo il legislatore e la politica potrebbero cambiare la situazione, favorendo la creazione di percorsi di formazione professionale tali da coinvolgere le aziende, garantendo quindi una migliore corrispondenza tra domanda e offerta di competenze e in questo modo una maggiore occupabilità dei diplomati, a tutti i livelli? Le indicazioni raccolte nel FG possono essere raggruppate in 4 punti.

Un primo punto è creare strutture organizzative flessibili: le strutture in cui i percorsi duali hanno luogo devono essere regolate in modo leggero, non solo per risparmiare tempo ed energie (soprattutto dal lato delle aziende, poco disposte a farsi carico di adempimenti amministrativi ulteriori per la formazione) e soprattutto per potersi adattare alla variabilità dei contesti socio-economici locali e della domanda che ne proviene. “Creando strutture molto burocratizzate, in cui si creano rapporti per i legami burocratici ma non si crea l’alleanza formativa necessaria, crolla tutto […] sto parlando della rigidità di gestione del sistema, nonostante la normativa gli dia flessibilità”. Questo vale a fortiori per le strutture nuove, come gli ITS o i poli tecnico-professionali (PTP, vedi sopra). Questi ultimi sono in questo momento in fase di progettazione, e dovrebbero partire il prossimo anno scolastico. Secondo i nostri testimoni si tratta di un’occasione importante, ma il suo esito “dipende, ora così com’è è interessante, è un’occasione da non perdere ma bisogna vedere come lo si concretizza [il PTP]. Più lo si irrigidisce in forme strutturate, vincolate, paludate, burocratizzate… lo possiamo chiudere. È il rischio che si corre ora.”

Lo stesso discorso vale per l’organizzazione interna delle scuole. La riforma del 2010 ha aperto alle scuole la possibilità di creare i Comitati tecnico-scientifici e i Dipartimenti. I primi sono organismi di cui possono fare parte anche le aziende, riportandole nella struttura di governo delle scuole, da cui sono state eliminate dalle riforme degli anni 70. I secondi sono analoghi agli omonimi organismi universitari: come questi, dovrebbero organizzare i docenti secondo la loro area disciplinare, in particolare stimolandone la formazione continua e l’aggiornamento. Secondo i nostri testimoni, si tratta di organismi potenzialmente molto utili, ma organismi funzionanti “non si fanno nascere per decreto. Ci sono scuole che hanno i comitati tecnici scientifici, che sono organi pletorici, che non funzionano. Ci sono scuole che non hanno un comitato tecnico scientifico strutturato, formalizzato, che però in realtà ce l’hanno che lavora per problemi e quindi funziona in modo diverso”.

Un secondo punto è ridefinire il mestiere dei professori. “Una cosa importante, che vorrei non restasse solo un sogno, è che l’autonomia e la riforma degli ordinamento fosse accompagnata da una riforma dello status dei docenti. Abbiamo una scuola che non può reggere

44 Sugli ITS, cfr. Ballarino (2013). La riforma dell’università del 1999 ha integrato solo alcuni corsi professionali post-diploma nel sistema universitario, trasformandoli in trienni di primo livello, come nel caso delle semi-professioni medico-sanitarie, come ostetricia, radiologia, infermeria ecc.(cfr. Ballarino e Regini 2005). I corsi post-diploma non integrati nell’università sono stati messi in difficoltà dalla competizione con i nuovi trienni, perché si sono venuti a trovare in una “terra di nessuno” istituzionale, che comprende anche gli sfortunati IFTS.

81

in termini di impegno dei docenti questo tipo di attività. I docenti non hanno l’obbligo di aggiornarsi”.

E’ necessario adeguare gli stipendi, ma il punto è definire un sistema di incentivi che selezioni e motivi gli insegnanti. Una proposta ripetuta da più testimoni è quella di “svincolare l’idea dell’orario di servizio dall’orario di lezione; il lavoro del docente è un lavoro a 360 gradi di cui fa parte l’ora di insegnamento. Questo è un passo culturale non di poco conto”. E ancora: “Bisognerebbe obbligare i docenti a stare un pomeriggio insieme a parlare della propria scuola…. Quando c’è il consiglio di classe sono sempre lì con l’orologio in mano…” Rivedere l’orario, introducendo l’”orario onnicomprensivo”, significa anche “rivedere il sistema di selezione e di validazione del percorso del docente e quindi l’introduzione della valutazione del docente”.

In questo modo sarebbe anche possibile cambiare il modo in cui la società vede la scuola. “La scuola deve essere un luogo di attività, in modo che il loro lavoro [degli insegnanti, NDR] sia misurabile, e attraverso questa evidenza e misurabilità ottenga consenso sociale. Perché oggi la scuola non ha consenso sociale e nemmeno gli insegnanti.”

Un’altra idea interessante è l’incentivazione negativa, cioè il sanzionamento dei docenti incapaci: “Io farei una riforma a costo zero, che rivoluzionerebbe la scuola. Colpirei il demerito. […] Il docente bravo è bravo a prescindere, non ha bisogno di incentivi. È quella percentuale molto alta, che vivacchia, che forse troverebbe un incentivo molto maggiore se vedesse che quella minoranza che è incapace venisse licenziata o orientata a fare altre cose. Questo cambierebbe la scuola. E non ci sono nemmeno difficoltà a individuarli, questi docenti: mentre il merito è difficile da individuare, il demerito è di una banalità totale.”

Il terzo punto, direttamente collegato ai primi due, è rinforzare l’autonomia delle scuole e il coordinamento del sistema tramite la valutazione. Abbastanza paradossalmente, in un sistema a due teste nessuna delle due, né lo stato né la regione, sembrano in questo momento avere la capacità di “fare la regia del sistema”. Una soluzione possibile alla debolezza dei decisori politici potrebbe essere la creazione di agenzie, a livello regionale, a cui delegare l’implementazione delle decisioni prese in sede politica. Ma il rischio è quello di una serie di deleghe a cascata, che finiscono per deresponsabilizzare tutti gli attori istituzionali coinvolti. Per questa ragione non convince il decentramento alle province, tradizionale caratteristica delle politiche della formazione professionale degli anni 90, prima delle riforme. In Toscana, oggi le province gestiscono le politiche dell’orientamento sono gestite dalle province, con i risultati deludenti, a detta dei nostri testimoni.

Molto meglio, di dice, una maggiore autonomia delle scuole. Questa però richiede un reale empowerment dei dirigenti. “Per realizzare l’autonomia devi essere davvero dirigente, cosa che non tutti sanno fare. E poi io ti do gli strumenti, ma se non funziona ti butto fuori. L’autonomia vuol dire controllo, valutazione […] Se tu vuoi l’autonomia e poi aspetti che sia tutto centralizzato non si va da nessuna parte.” Sulla valutazione, i nostri testimoni fanno una precisazione importante: non c’è bisogno di tecniche sofisticate, e la valutazione non deve diventare un modo per spendere soldi in attività burocratiche autoreferenziali. In particolare, rispetto agli insegnanti “il merito e il demerito sono le assenze non giustificate da motivi di salute, i ritardi… non servono indicatori complessi. È una finzione per dare lavoro ad altri enti, che servono sistemi di validazione complessi. Noi abbiamo speso soldi per fare la valutazione dei docenti e dei dirigenti e non c’è invece un sistema di valutazione delle scuole”.

Questo ci porta al quarto punto: investire selettivamente nelle strutture. Un primo problema sono le strutture edilizie, spesso problematiche. Il ministero sembra a volte non rendersi conto della situazione reale e perseguire politiche che poco hanno a che fare con quello che succede nelle scuole. Un esempio viene dall’informatizzazione delle strutture: “L’implementazione

82

dell’obbligo formale di introdurre il registro elettronico è costato alla mia scuola 80.000 euro, contro 8.000 euro dati dal ministero per la wireless.” Introdurre il registro elettronico in scuole prive di wi-fi, per non dire in scuole con problemi di struttura edilizia, non ha alcun senso.

L’innovazione tecnologica, in altri termini, non deve essere fine a se stessa45, ma deve essere parte di un generale investimento nella scuola. C’è consenso generale sul fatto che l’investimento debba essere fatto in modo selettivo, e collegato con la valutazione. Tuttavia, investire dove le cose vanno bene rischia di aumentare l’eterogeneità interna al sistema, in particolare lasciando indietro chi è in difficoltà. Questo è quello che di fatto succede oggi: dato che gli investimenti vanno dove qualcuno si mobilita per attrarli, dove questa mobilitazione non ha luogo si rischia la desertificazione, come sta già accadendo in molti istituti professionali, ridotti a contenitori di giovani disagiati e per vari motivi incapaci di proseguire la scuola.

Occorre quindi trovare un modo di intervenire radicalmente sulle situazioni di disagio: “il merito serve ad andare a colpire quelle aree dove non c’è stata la capacità e introdurre invece soggetti che siano in grado di sviluppare le competenze per far crescere quel tipo di scuola.” In altri termini, occorre rimuovere coloro che hanno lasciato che la situazione degenerasse, e sostituirli con altri soggetti, tanto individuali quanto collettivi.

In conclusione, una citazione di un testimone, che ci ricorda quale sia la reale posta in gioco, sociale e politica prima che economica e produttiva: “Oggi pare un miracolo che la scuola vada avanti. Vediamo percorsi di giovani che non hanno nessun punto di riferimento che trovano nella scuola l’unica ancora di salvezza, l’unica guida, e quindi acquisiscono capacità relazionali, di comportamento, e competenze professionali, e si inseriscono poco per volta in un percorso di cittadinanza. In questo la scuola ha un ruolo fondamentale.”

45 O finalizzata alla crescita del fatturato di consulenti e fornitori del ministero.

83

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ARIFL (2011), Il sistema di istruzione e formazione professionale in Lombardia, Milano: Regione

Lombardia. Bahnmüller, R. (1996), Baden-Württemberg: il sistema duale di fronte alla crisi, in M. Regini, a cura di,

La formazione delle risorse umane. Una sfida per le “regioni-motore” d’Europa, Bologna, il Mulino 1996, pp. 101-148

Ballarino, G. (2008), La scuola tecnico-professionale lombarda e il mercato del lavoro: le iniziative delle scuole, Milano: rapporto di ricerca per la Camera di Commercio (http://www.mi.camcom.it).

Ballarino, G. (2011a), Redesigning curricula: the involvement of economic actors, in M. Regini, a cura di, European Universities and the Challenge of the Market, Edward Elgar, Cheltenham, pp. 11-27.

Ballarino, G. (2011b), Lo stage nella formazione professionale, in SWG-Iard, Gli esiti formativi ed occupazionali dei giovani qualificati nei percorsi triennali di istruzione e formazione professionale, Milano: Iard-SWG, pp. 52-69.

Ballarino, G. (2013), Istruzione e formazione professionale e transizione scuola-lavoro. Modelli di analisi ed esperienze operative, Firenze: Irpet (www.irpet.it).

Ballarino, G., Zardi, S. (2013), Le reti territoriali tra sistemi educativi, formativi e produttivi, in Eupolis-Regione Lombardia, Rapporto 2013 dell’Osservatorio sul mercato del lavoro e la formazione, Milano: Eupolis-Regione Lombardia, capitolo 7.

Ballarino, G., Checchi, D. (2013), La Germania può essere un termine di paragone per l’Italia? Istruzione e formazione in un’economia di mercato coordinata, Rivista di Politica Economica, 1-3, pp. 39-72.

Ballarino, G., Panichella, N., Triventi, M. (2014), School expansion and uneven modernization. Comparing educational inequality in Northern and Southern Italy, Research in Social Stratification and Mobility, 36, 2014, pp. 69–86.

Ballarino, G., Perotti, L., a cura di, (2011), Aziende lombarde e diplomati tecnico-professionali: criticità, punti di forza, strumenti, rapporto di ricerca per la Cciaa Milano (http://www.mi.camcom.it/ricerche1).

Ballarino, G., Regini, M. (2005), Formazione e professionalità per l’economia della conoscenza. Strategie di mutamento delle università milanesi, Milano: Franco Angeli.

Ballarino, G., Regini, M. (2005), Formazione e professionalità per l’economia della conoscenza. Strategie di mutamento delle università milanesi, Milano: Angeli.

Ballarino, G., Scherer, S. (2013), More investment – but less returns? Changing returns to education in Italy across three decades, Stato e mercato, 99, 2013, pp. 359-388.

Bosch, G., Charest, J. (2010, a cura di), Vocational Training: International Perspectives, London: Routledge.

Busemeyer, M. R., Iversen, T. (2012), Collective Skill Systems, Wage Bargaining, and Labour Market Stratification, in Busemeyer, Trampusch, a cura di, The Comparative Political Economy of Collective Skill Formation, Oxford: Oxford UP, pp. 205-233.

Coleman, J. S. (1988), Social Capital in the Creation of Human Capital, American Journal of Sociology, pp. S95-S120.

Coriat, B. (1991), Ripensare l’organizzazione del lavoro. Concetti e prassi nel modello giapponese, Bari: Dedalo.

Crouch, C., Finegold, D., Sako, M. (1999, a cura di), Are Skills the Answer? The Political Economy of Skill Creation in Advanced Industrial Countries, Oxford: Oxford UP.

De Rita, G. (2007), Il ruolo dell’istruzione tecnica e professionale nello sviluppo del paese, relazione presentata al “Laboratorio istruzione tecnica e professionale”, Roma: Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca.

Dore, R. (1990), Bisogna prendere il Giappone sul serio. Saggio sulla varietà dei capitalismi, Bologna: il Mulino.

Finegold, D., Soskice, D. (1988), The Failure of Training in Britain: Analysis and Prescription, Oxford Review of Economic Policy, 4, 3, pp. 21-53.

84

Hall, P. A., Soskice, D. (eds.), Varieties of Capitalism. The Institutional Foundations of Comparative Advantage. Oxford: Oxford University Press, 2001.

Honda, Y. (2003), The Reality of the Japanese School-to-Work Transition System at the Turn of the Century: Necessary Disillusionment, Social Science Japan, 2/03, pp. 8-12.

ILO (2013), Global Employment Trends for Youth. A Generation at Risk, Geneva: ILO. INDIRE (2013), Alternanza scuola-lavoro: lo stato dell’arte. Rapporto di monitoraggio 2012, Firenze:

INDIRE (www.indire.it/scuolalavoro/). Irpet (2012, a cura di), Rapporto sulla scuola e il territorio in Toscana, Firenze: Irpet. Lacaita, C. G., Poggio, P. P. (2011, a cura), Scienza tecnica e industria nei 150 anni di unità d’Italia,

Milano: Jaca Book. Lauro, C., Ragazzi, E., a cura di (2011), Sussidiarietà e… Istruzione e Formazione Professionale.

Rapporto sulla sussidiarietà 2010, Milano: Mondadori. Monasta, A. (2003), La scuola di tutti, Testimonianze, 430/1/2 (www.testimonianzeonline.com). MPI (Ministero della pubblica istruzione)-MEF (Ministero dell’economia e delle finanze) (2007),

Quaderno bianco sulla scuola, Roma: MPI-MEF. OECD (2012), Education at a Glance 2012: OECD Indicators, OECD Publishing. Regini, M. (1996, a cura di), La formazione delle risorse umane. Una sfida per le “regioni-motore”

d’Europa, Bologna: il Mulino. Rosenbaum, J. E., Kariya, T. (1989), From High School to Work: Market and Institutional Mechanisms in

Japan, American Journal of Sociology, 94, 6, pp. 1334-65. Schüller, K. (2013), Ethnic Inequality in Vocational Education. The German Federal States Compared,

paper presentato alla Spring School on the Analysis of Educational Inequalities, Collegio Carlo Alberto, Moncalieri, marzo.

Serio, L. e Vinante, M., a cura di (2005), Viaggio nell’alternanza scuola-lavoro. Territori di integrazione tra il mondo della scuola e il mondo delle imprese, Milano, Istud – Il Sole 24ore.

Soskice, D. (1994), Reconciling Markets and Institutions: The German Apprenticeship System, in L. Lynch, a cura di, Training and the Private Sector. International Comparisons, Chicago: Chicago UP, pp. 25-60.

Streeck, W. (1994), Vincoli benefici: sui limiti economici dell’attore razionale, Stato e mercato, 41, pp. 185-213.

Streeck, W. (2009), Re-Forming Capitalism. Institutional Change in the German Political Economy, Oxford: Oxford UP.

Streeck, W., Schmitter, P. (1985), Comunità, mercato, stato e associazioni? Il possibile contributo dei governi privati all’ordine sociale, Stato e mercato, 13, pp. 47-86.

Thelen, K. (2004), How Institutions Evolve. The Political Economy of Skills in Germany, Britain, the United States, and Japan, Cambridge: Cambridge UP.

Thelen, K., Busemeyer, M. R. (2008), From Collectivism towards Segmentalism. Institutional Change in German Vocational Training, Colonia: Max Planck Institut, MPIfG Discussion Paper 08/13.

Torresani, I. (2014), I rapporti tra scuola e aziende nell’istruzione tecnica e professionale italiana: il caso dei Comitati Tecnico-Scientifici in Lombardia, tesi di laurea magistrale, Dipartimento di scienze sociali e politiche, Università di Milano.

Vittadini, G. (2011), Introduzione, in Lauro, C., Ragazzi, E., a cura di, Sussidiarietà e… Istruzione e Formazione Professionale. Rapporto sulla sussidiarietà 2010, Milano: Mondadori, pp. 9-17.