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1 I.I.S.. “ P. P. PASOLINI” Milano _____________________________________________ FILOSOFIA CLASSI TERZE - INDIRIZZO LINGUISTICO La filosofia antica introduzione, filosofia presocratica, sofisti Socrate, Aristotele cenni sul pensiero ellenistico questionari di ripasso appendice sull’ Apologia di Socrate (prof. Fabio Maria Pace) anno scolastico 2013-2014

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I.I.S.. “ P. P. PASOLINI” Milano

_____________________________________________

FILOSOFIA CLASSI TERZE - INDIRIZZO LINGUISTICO

La filosofia antica introduzione, fi losofia presocratica, sofisti

Socrate, Aristotele cenni sul pensiero ellenistico

questionari di r ipasso appendice sull’Apologia di Socrate

(prof. Fabio Maria Pace)

anno scolastico 2013-2014

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◊ PREMESSA La nascita della fi losofia e lo thàuma Nel primo libro della Metafisica Aristotele presenta un quadro storico della filosofia, fornendo

importanti notizie sui filosofi più antichi. Ma non fa solo questo: spiega anche come e perché

(cioè “da che cosa”) la filosofia sia nata (e precisa altresì quale sia la finalità, lo “scopo” della

filosofia). Scrive dunque Aristotele:

«Infatti gl i uomini hanno cominciato a fi losofare, ora come in origine, a causa della meraviglia (thàuma): … Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica» (Aristotele, Metafisica, I, 2,

982b, trad. Giovanni Reale).

Aristotele, quindi, afferma che: a) alla base della filosofia c’è la “meraviglia” (thàuma); b) gli

uomini hanno iniziato a filosofare al solo scopo di sapere, senza aspirare al conseguimento di

nessuna utilità pratica (è questo il carattere teoretico della filosofia, che è infatti un sapere

fine a se stesso1). Aggiunge più avanti che che la “meraviglia” non solo è ciò da cui la

filosofia nasce, ma anche ciò da cui essa, nascendo, si l ibera: sempre nel libro primo

della Metafisica, Aristotele precisa infatti che il possesso della filosofia permette all’uomo di

raggiungere “uno stato contrario a quello in cui egli era all’inizio della ricerca” (cioè allo stato

della “meraviglia”, da cui la filosofia nasce).

Quindi, riassumendo: la filosofia ha origine dal thauma, ma con il suo nascere e svilupparsi

permette all’uomo di liberarsi dal thauma e di raggiungere la condizione opposta al thauma.

Per comprendere adeguatamente quello che Aristotele vuole dire, è tuttavia essenziale fare

una precisazione lessicale: tradurre con “meraviglia” il termine greco thauma è improprio,

perché rende solo uno dei possibili significati di questa parola, che è invece molto più

complessa, come sottolinea Emanuele Severino: «(E’) improprio interpretare il thauma

aristotelico come “meraviglia”. Si perde completamente di vista la tragica grandezza della

nascita della filosofia. Thauma è infatti, innanzitutto, l'angosciato stupore, lo

stordimento e i l terrore dell' uomo dinanzi al divenire della vita, cioè dinanzi al

dolore e alla morte. Lo dice la stessa struttura etimologica di questa parola potente e

terribile. Solo scorgendone il significato autentico ci si spiega perché Aristotele affermi che il

1 Per questo punto, vedi più avanti la definizione di filosofia di G. Reale.

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possesso della filosofia conduce nello “stato contrario” a quello costituito da thauma; ossia

conduce alla felicità che sorge dal risolvimento dei problemi intorno al senso del mondo2.

Sempre Severino, nella sua opera La filosofia dai Greci al nostro tempo spiega più

ampiamente il significato di thauma e quello che Aristotele dice sulla nascita della filosofia «(Il

termine thauma) - scrive Severino - indica lo stupore attonito di fronte a ciò che è

strano, imprevedibile, orrendo, mostruoso. Se infatti non si conoscono le “cause” di

ciò che accade - se ciò che accade non rientra nella spiegazione del mondo della quale l'uomo

di volta in volta si trova in possesso -, allora l'accadimento delle cose … diventa la fonte di

ogni terrore e di ogni angoscia. E anche di ogni dolore, perché la sofferenza è insopportabile

quando non è spiegabile e si avventa sull'uomo, imprevedibile e senza ragioni. Affermando

che la filosofia nasce dalla meraviglia, Aristotele intende dire … che la filosofia nasce dal

terrore provocato dall'imprevedibilità del divenire della vita. Conoscendo le “cause” del

divenire, la filosofia rende prevedibile l'imprevedibile, lo inserisce nella spiegazione stabile del

senso del mondo, e quindi appronta il rimedio contro il terrore della vita. La filosofia greca

(…) è stata il primo formidabile strumento con il quale l'uomo dell'Occidente ha proceduto a

soddisfare il proprio fondamentale interesse: la liberazione dal terrore della vita»3.

Proviamo schematicamente a spiegare:

- la realtà è caratterizzata dal fatto di essere molteplice e mutevole: è molteplice

perché è costituita da una pluralità di oggetti e, di conseguenza, possiamo dire che

“manca di unità”;

- è mutevole - e questo ne è l’aspetto qui più sconcertante - perché tutto nasce, si

sviluppa e muore e, di conseguenza, possiamo dire che la realtà “manca di

permanenza”, nel senso che tutto prima o poi “scompare”. Quindi, la realtà, proprio

per la sua mutevolezza, sembra essere costantemente aggredita dal nulla, anzi

assorbita nel nulla: le cose non permangono, niente resta in eterno, niente sfugge alla

corruzione: tutti gli esseri appaiono, vivono e scompaiono. Il nulla li “risucchia”

inevitabilmente, li distrugge;

- da tutto questo deriva il thauma, lo sgomento dell’uomo di fronte al divenire delle

cose, al loro continuo “scomparire”, scivolando ineluttabilmente nel nulla;

- l’uomo sente perciò il bisogno, di fronte all’angosciante molteplicità e mutevolezza

della realtà, di trovare una spiegazione, di trasformare questo “caos” in un ordine,

cioè di dare un senso al mondo, di conferirgli un valore;

2 E. Severino, Mito e meraviglia crearono la filosofia, in “Corriere della sera”, 14.12.2000 3 E. Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo, vol 3. “La filosofia contemporanea”, cap. 1, ed. BUR, Milano 2004

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- questo è ciò che anche miti e religioni sempre hanno fatto: Aristotele stesso lo dice

proprio nel brano che abbiamo letto: i miti danno una spiegazione della realtà, le

danno un significato e un valore, mostrandoci innanzitutto che essa è frutto

dell’azione degli dèi, che impongono con le loro azioni un valore, un ordine e un

significato alla realtà4; - tuttavia i miti (e le religioni) non sono verità assolute, almeno non nel senso che il

concetto di verità ha per la filosofia: infatti essi vengono accettati e creduti da alcuni uomini, da altri no (infatti le mitologie e le religioni sono tante e differenti, cambiano

da una civiltà all’altra: popoli diversi hanno miti e religioni diversi). E vengono creduti

per rispetto della tradizione o delle sacre scritture, sono accettati “per fede”, non

sulla base di un ragionamento, di una dimostrazione. La filosofia, invece, aspira a

raggiungere una conoscenza che sia assolutamente vera, indiscutibile, innegabile, che

sia universale, valida per tutti: questa conoscenza non può che derivare dalla ragione.5

E’ qui la novità straordinaria della filosofia: la sua volontà di trovare con la ragione le

risposte che permettono all’uomo di liberarsi dal thauma, lo sgomento che lo assale di

fronte al divenire della realtà, alla sua apparente caoticità e mancanza di senso, al suo

continuo scomparire nel nulla. In questo modo, pur nascendo da thauma, la filosofia

col suo stesso nascere se ne libera e conduce alla condizione opposta a thauma. E

questa condizione consiste nella felicità, come Aristotele spiega in un’altra sua celebre

opera, l’Etica Nicomachea: l’uomo che si dedica alla filosofia è felice perché

contemplare la verità, che è quanto la filosofia consente di fare, porta gioia agli

uomini: la filosofia, quindi, nasce dallo sgomento ma conduce alla felicità.

4 «Aristotele - scrive sempre Severino - osserva che anche il philòmythos (alla lettera: "colui che ama il mito", ossia che costruisce i miti e crede e vive in essi) è in qualche modo filosofo, perché anche la costruzione dei miti scaturisce dalla "meraviglia", cioè dal terrore che il divenire della vita produce nell'uomo. Anche il mito, infatti, raccoglie gli eventi del mondo all'interno di una spiegazione unitaria: predispone un'interpretazione stabile dell'universo e attende, preparato da essa, l'irrompere degli eventi, i quali dunque perdono la loro imprevedibilità terrorizzante e si adeguano all'ordine cosmico enunciato dal mito. Anche la conoscenza mitica delle cause e degli eventi è un rimedio contro il terrore dell’imprevedibile». 5 Infatti uno dei termini che il pensiero filosofico greco utilizza per definire questa conoscenza indubitabile è epistéme, solitamente tradotto come “scienza”: etimologicamente esso significa “stare sopra”, indicando perciò un sapere che “stando sopra” la molteplicità delle opinioni (che sono tante e diverse), risulta “fermo”, certo, indiscutibile, si pone cioè al di là e “al di sopra” di ogni possibile dubbio. Anche lo stesso termine “filosofia” è interessante sul piano etimologico: esso significa letteralmente, come vedremo, “amore del sapere” (philo-sophia); tuttavia la parola sophìa si collega molto probabilmente alla radice di phàos, vocabolo che indica la luce: allora “filosofia” significa amare quel sapere che, proprio perché si trova “nella luce”, non può essere in alcun modo negato, messo in dubbio. Del resto, la parola greca aletheia, che significa “verità”, letteralmente indica “qualcosa che non è nascosto”: la sapienza della filosofia, è certezza assoluta e chiara come la luce: è propriamente un sapere “non nascosto”, un sapere che da nessuno e in nessun modo può essere negato.

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1 - NOTE INTRODUTTIVE ◊ Il vocabolo greco filosofia deriva dai termini greci philêin, “amare”, e sophía, “sapienza”: significa dunque “amore per la sapienza”. La tradizione attribuisce la creazione del termine a Pitagora (VI sec. a. C.): si tratta di un’attribuzione verosimile, perché il vocabolo è di certo stato coniato da una personalità profondamente religiosa “che presupponeva come possibile solo agli dèi una sophia come possesso certo e totale, mentre rilevava come all’uomo sia possibile solo un tendere alla sophia, un continuo avvicinarsi, un amore mai del tutto appagato di essa, donde appunto il nome filo-sophia, amore di sapienza” (G. Reale). Caratteristico quindi della filosofia è il ricercare, giacché si cerca quel che si ama (e non si podssiede). Poiché il filosofo “ama il sapere”, il suo compito è ricercarlo (cosa che non fanno né gli dèi, che non ne hanno bisogno perché possiedono già il pieno sapere, né gli animali, perché non ne sono in grado). ◊ Volendo dare una definizione generale della filosofia, che vada al di là della sola etimologia, possiamo riprendere quella formulata da Nicola Abbagnano: “indagine critica e razionale intorno agli interrogativi di fondo che l’uomo si pone circa se stesso e le realtà che lo circondano”;

- il termine “critico” indica un sapere che nulla dà per scontato, sottoponendo al giudizio della ragione (krìnein = distinguere, giudicare) ogni affermazione e principio; va sottolineato che questo esame riguarda anche gli stessi poteri della ragione, della quale la filosofia vuole definire al contempo i limiti e e le condizioni di validità;

- “di fondo” sta ad indicare problemi e domande che riguardano tutti gli esseri umani, non quindi una particolare categoria di persone, ma l’uomo in quanto tale;

- “razionale” ovviamente significa che il solo strumento di cui la filosofia si avvale è la ragione, rifiutando dogmi e imposizioni di qualsiasi genere (diversamente dalle religioni).

- ◊ Come abbiamo visto, sul piano dell’etimologia filosofare significa “ricercare la sapienza;” ma di quale sapienza si tratta, quali prerogative caratterizzano questo sapere rispetto agli altri? Possiamo schematicamente indicare tre caratteri distintivi della filosofia, precisati fin dal momento in cui nasce, così come li illustra nella sua definizione di filosofia Giovanni Reale. Riguardano: a) il contenuto, b) il metodo, c) lo scopo della filosofia. a) Quanto al contenuto: la filosofia si propone di spiegare tutta la realtà, senza escluderne nessuna parte o nessun momento, distinguendosi in tal modo dalle scienze particolari, che indagano specifici settori del reale, gruppi particolari di cose e di fenomeni. Già il primo dei filosofi, Talete, si propone di ricercare il principio di tutte le cose. Si noti che la realtà “totale” su cui indaga la filosofia non è la somma delle singole realtà, come se la filosofia non fosse altro che la somma di tutte le conoscenze sulla realtà. La filosofia non è la somma delle conoscenze acquisite dalle scienze particolari, come la fisica, la chimica, l’astronomia: si risolverebbe così in una sorta di mare magnum che si occupa di tutto e non approda mai a nulla. La realtà di cui il filosofo si occupa è la totalità delle cose come tale; la filosofia non tratta cioè di

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tutto, ma del tutto. Si tratta dunque non di una universalità di estensione, ma di una universalità di sguardo. b) Quanto al metodo: come abbiamo visto spiegando la definizione di Abbagnano, la filosofia vuol essere una spiegazione puramente razionale di quella totalità che costituisce il suo oggetto di indagine. In filosofia vale dunque soltanto l’argomento di ragione, la motivazione logica, il logos. Non le basta accertare dati di fatto, deve andare oltre il dato e l’esperienza per ricercare ragioni, cause, principi. In questo è uguale alle altre scienze, che - tutte - ricercano al di là del mero dato il piano dei significato e delle spiegazioni. Le differenzia però dalla filosofia - come detto - la settorialità del loro terreno di indagine: cercano sì cause e significati, ma di realtà particolari, mentre la filosofia indaga la globalità del reale. La filosofia è dunque, come si legge nella definizione di Abbagnano riportata più sopra, “indagine critica e razionale”, intendendo la criticità come rifiuto di qualsiasi pregiudizio o presupposto di qualsiasi tipo. Analisi critica significa analisi radicale che di tutto può servirsi ma che tutto, senza timori reverenziali, sottopone all’analisi e al controllo della ragione, compresi i poteri della ragione. c) Quanto allo scopo: la filosofia ha carattere puramente contemplativo, teoretico6, cone sottolinea Aristotele, mira cioè alla ricerca della verità per se stessa, prescindendo da tutte le utilizzazioni pratiche (tecniche ed economiche). La ricerca filosofica non tende a nessun vantaggio che sia ad essa estraneo: si risolve nella pura contemplazione della verità. Si spiega così - ci pare - il nome stesso della filosofia, come amore d’una sapienza ricercata in quanto tale, una sapienza del tutto fine a se stessa. Scrive Aristotele, che meglio di ogni altro ha definito questo carattere della filosofia: “…Se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica (…) E’ evidente dunque che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa”7. ◊ Può essere utile a questo punto confrontare la filosofia greca con le sapienze delle antiche civiltà orientali: si è spesso infatti sostenuto che i Greci non sarebbero stati i creatori della filosofia, ma che avrebbero invece recuperato e trasmesso all’Occidente un sapere più antico, originatosi nelle civiltà pre-elleniche dell’Oriente. E’ indubbio che, prima del nascere della filosofia in Grecia (VI secolo a. C.) si siano sviluppate in Oriente - India, Cina, Persia - esperienze di straordinaria ricchezza culturale e spirituale, ma la tesi che fa derivare da queste (in particolare da quelle indiane) la filosofia non regge, per diversi motivi:

6 “Il filosofare - scrive Di Napoli - è nobile azione dello spirito umano, che vuol comunque penetrare se stesso nella realtà, anche se non muove di un dito le cose della natura e non fornisce le comodità della vita … Carattere essenziale del filosofare è la teoreticità come puro e indipendente sguardo sulla realtà. In tal senso la filosofia è teoria (= concezione universale e critica) della realtà nei suoi princìpi supremi”. 7 Metafisica, A2, 982b 11 ss.

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a) il pensiero indiano appare concentrato soprattutto su problematiche di tipo esistenziale e religioso, mentre la filosofia greca, al suo primo apparire, ha come oggetto primario di ricerca la natura, il cosmo e i loro princìpi.

b) La conoscenza orientale è concepita non come sapere fine a se stesso (teoretico) ma in funzione della salvezza o della “liberazione” dell’uomo (per. es. dal ciclo delle rinascite); il filosofo orientale, se così vogliamo chiamarlo, è un “illuminato”, in “santo” che segue un itinerario di salvezza e non un disinteressato e “scientifico” ricercatore della realtà.

c) La tesi della derivazione orientale della filosofia greca non è affermata da nessun autore di età classica. Sono sì menzionate le conoscenze matematiche o astronomiche di Egizi e Babilonesi, ma nessuno mai sostiene che quelle civiltà abbiano influito in modo decisivo sulla nascita della filosofia greca.

d) E’ pressoché certo che i primi filosofi greci non abbiano avuto nessuna conoscenza delle dottrine orientali e nessun contatto con le civiltà che le hanno sviluppate; solo con la spedizione di Alessandro Magno l’Occidente si apre alle civiltà della Persia e dell’India. Prima di allora i greci hanno contatti soprattutto con le culture dell’Egitto e della Mesopotamia, le quali avevano tuttavia una tradizione di sapienza mitico-religiosa lontana dal pensiero filosofico.

e) Infine, il sapere orientale pre-ellenico, di carattere, come detto, essenzialmente religioso, si esprime attraverso un linguaggio mitico, facendo ampio uso di elementi fantastici e simbolici. Fin dal suo esordio, invece, la filosofia si struttura come sapere razionale fondato unicamente sulla forza del pensiero, come indagine critica e argomentata, libera da ogni vincolo di tradizione o sacralità e utilizza un linguaggio di tipo “scientifico”, assai diverso da quello del mito e della poesia.

Va peraltro segnalato che temi di natura mitica relativi all’origine del mondo sono sicuramente “transitati” dal mondo vicino-orientale a quello greco: se ne trovano chiare tracce, per esempio, nella Teogonia di Esiodo e nei poemi omerici. Peraltro, anche ammettendo che dall’Oriente la Grecia abbia tratto qualche dottrina o qualche tema mitico, questo non significa evidentemente che la filosofia greca abbia origine orientale. Al contrario, proprio il confronto con la sapienza orientale evidenzia le caratteristiche peculiari della filosofia greca: le dottrine orientali sono infatti di tipo religioso e tradizionalistico, sono privilegio di caste sacerdotali, sono ritenute sacre e di conseguenza immutabili. La filosofia invece, in quanto ricerca razionale, nasce e si sviluppa proprio da un essenziale atto di libertà di fronte alla tradizione e ad ogni credenza accettata come tale. ◊ Dunque la filosofia è una creazione originale della cultura greca, una peculiarità di quella civiltà e di quel popolo. Viene quindi spontaneo chiedersi quali condizioni storiche, politiche, culturali abbiano favorito il nascere della filosofia in Grecia. Va tuttavia premesso che non è corretto

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pensare che una serie di “cause”, per il fatto stesso di esistere, avrebbero necessariamente determinato la nascita della filosofia: si tratta piuttosto di condizioni, di elementi che hanno favorito e permesso (non determinato “automaticamente”) questo particolare evento. Possiamo schematicamente indicare due di queste condizioni: a) le civiltà pre-greche e orientali sono nella quasi totalità monarchie stataliste e accentratrici, con un carattere decisamente statico: tendono a conservare la cultura in modo immutabile, presentando la tradizione come sacra e perciò intoccabile. E’ chiaro che società di questo tipo non presentano un quadro favorevole per la nascita di una indagine libera, critica e razionale come è quella filosofica. Si tratta di regimi assoluti, dove il singolo è tenuto alla cieca obbedienza al potere politico e religioso. In Grecia la situazione è diversa: innanzitutto, manca uno stato accentratore: in sua vece si ha una molteplicità, estremamente diversificata, di città-stato. Inoltre, già in epoca omerica le monarchie antiche lasciano il posto a regimi aristocratici in uno sviluppo che prosegue (non uniformemente e senza travagli) verso forme di organizzazione democratica dello stato, che sono le più antiche nella storia. Ebbene, democrazia significa scambio di idee ed opinioni, dibattito, confronto: questo sviluppa progressivamente una mentalità libera, non disposta ad accettare passivamente il dettato della tradizione, ma propensa a ricercare attivamente idee e modelli di comportamento convincenti sul piano intellettuale, imparando a distinguere ciò che appare “ragionevole” da ciò che non lo è. In una situazione di questo tipo, dinamica, libera, aperta al futuro e capace di critica nei confronti del passato si verificano le condizioni più favorevoli per la nascita del pensiero filosofico. b) In Grecia manca una casta sacerdotale depositaria d’un sapere tradizionale dogmatico e immutabile. Il sacerdote è considerato in Grecia un servitore del proprio dio, collegato strutturalmente al tempio in cui officia, senza mai conseguire prerogative di sacerdozio universale, senza cioè acquisire una vera e propria condizione sacerdotale. Non gli viene nemmeno richiesta una formazione teologica o dottrinale specifica: è essenzialmente un esecutore degli atti di culto, non il depositario d’una dottrina codificata. Si tratta, se così si può dire, d’una sorta di “tecnico” della religione, al quale tanto lo stato quanto le famiglie si rivolgono quando devono offrire sacrifici o celebrare riti. Nulla di paragonabile alle potenti caste sacerdotali di molte civiltà pre-elleniche orientali e non. In Grecia mancano poi libri sacri: non c’è nessuna codificazione scritta (come non c’è orale) della religione, che definisca dogmi e credenze, che fissi una “ortodossia” assoluta e imprescindibile. Mancano cioè le formulazioni di carattere dottrinale, morale e rituale che caratterizzano le religioni fondate (per esempio il cristianesimo) ed anche religioni “etniche” (come, per esempio, quella dell’India antica)8. E’ ovvio che anche questo elemento configura condizioni favorevoli allo sviluppo della ricerca e alla libera espressione del pensiero.

8 La religione greca è caratterizzabile come “etnica” e non “fondata”, perché non deriva la sua origine da un fondatore storico, come, invece, accade per il cristianesimo o l’islamismo.

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◊ Appare opportuno a questo punto proporre qualche annotazione sulle forme religiose che caratterizzano la civiltà greca antica, perché molti temi della filosofia sono caratteristici anche del pensiero religioso e perché alcune dottrine religiose hanno certamente influenzato la filosofia. ◊ Nella religione greca, considerata come complesso di credenze, istituti, mentalità, atteggiamenti religiosi, si riscontrano “due tendenze fondamentali, storicamente non separate né separabili, anzi diversamente intrecciate, ma pur fornite ciascuna di un suo particolare timbro” (Ugo Bianchi). Queste due tendenze possono essere definite rispettivamente olimpica e misterica (o ”mistica”). Caratteristico della prima è il netto distacco che separa - pur nella somiglianza evidente delle forme esteriori9 - il mondo degli dèi da quello degli uomini: gli dèi sono immortali, felici, dotati di vita e potenza al massimo grado; gli uomini, al contrario, sono per definizione “i mortali” “soggetti alle pene della vita, estrema e più caratteristica delle quali è la morte, con il soggiorno tenebroso e vacuo nell’Ade” (ivi). Tra i due ambiti, quello umano e quello divino, separati da tanto netta differenziazione, non v’è possibilità di contatto intimo e permanente, per quanto gli dèi intervengano nelle vicende umane: anzi, l’uomo che in un modo o nell’altro pretenda di ridurre la distanza che lo separa dagli dèi si macchia della “colpa” peggiore, resa dal termine greco, hybris, difficilmente traducibile (“tracotanza”, “superbia”). A questa religiosità si affianca, spesso nei medesimi ambiti, una serie di forme religiose strutturalmente differenti, definibili come mistiche o misteriche, il cui carattere essenziale è proprio la possibilità per l’uomo di stabiire un contatto diretto con il divino. Per avere un’idea generale del primo tipo di religiosità si pensi alla poesia di Omero ed Esiodo, dove costantemente viene ribadita la precarietà della condizione umana e sottolineata la distanza che separa il mondo degli dèi da quello degli uomini. ◊ L’altra dimensione della religiosità greca, quella mistico-misterica, appare invece incentrata sull’idea che l’uomo possa accedere al contatto diretto con il divino, concezione questa del tutto estranea al mondo omerico. Un esempio può essere dato dai culti dionisiaci, nei quali veniva indotta dalla danza, dall’ebbrezza e dal delirio collettivo, una condizione di estasi, vale a dire un “essere fuori di-sè (ek-stasis), che significava proprio il superamento dei limiti “normali” della dimensione umana, in una comunione totale con il divino: l’uomo e il divino si congiungono. ◊ Tra le forme della religiosità mistica greca una riveste particolare rilievo in relazione alla storia della filosofia: l’orfismo. Orfeo è una figura molto nota del mito greco, che ne celebra la straordinaria capacità di ammaliare gli animali e perfino le pietre con la poesia e la musica: riesce ad ammansire le belve e perfino alberi e pietre si muovono per seguirlo, incantati dalla melodia. Si tratta dunque di un eroe assai diverso dagli altri, che sono quasi tutti guerrieri, protagonisti di

9 Come è noto, infatti, gli dèi greci sono in tutto e per tutto simili agli uomini, sia nell’aspetto fisico, sia nel carattere e nel comportamento.

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straordinarie lotte e drammatici combattimenti: il valore di Orfeo è diverso, risiede tutto nell’interiorità, nello “spirito” e trova espressione nell’arte10. A questo eroe fa riferimento, come al proprio fondatore, la corrente religiosa detta appunto “orfismo”, nella quale, come vedremo, il ruolo dell’interiorità e della “spiritualità” è decisivo. Il mito centrale dell’orfismo non ha tuttavia Orfeo come protagonista, ma il dio Dioniso: è un mito essenziale per gli orfici, perché definisce gli elementi di base della loro dottrina, fonda l’etica e le norme rituali che essi seguono. In questo mito, Dioniso , figlio illegittimo di Giove, è talmente amato dal padre da suscitare l’ira della moglie Hera, che lo fa uccidere dai Titani. Essi ne fanno a pezzi il corpo e poi lo divorano. Segue la rinascita del dio, le cui membra sono ricomposte da Rea (o da Demetra) e resuscitate. Con le ceneri dei Titani Zeus crea il genere umano: negli uomini si associano quindi una componente “dionisiaca”, divina e immortale, e una “titanica”, malvagia e negativa. Su questo mito si fondano le verità essenziali della “religione orfica”, al centro della quale sta certamente la promessa d’un destino beato dopo la morte, destino riservato però solo agli iniziati, ai membri della confraternita. ◊ Centrale nell’orfismo è quindi la sua antropologia dualistica11: l’uomo è composto di due parti antitetich, opposte: l’anima, di natura divina, e il corpo, fatto di materia e quindi malvagio. Pper via d’una colpa primordiale l’anima precipita nel corpo, dove giace imprigionata come in una tomba (sóma, “corpo”, séma, “tomba”). L’uomo deve quindi liberare la sua parte spirituale (il daimon, lo “spirito”) dal carcere del corpo. E questo il fondamentale concetto orfico della purificazione (kátharsis): l’anima deve purificarsi, se vuole essere liberata. Se non lo fa, la attende la reincarnazione in corpi inferiori (il cosiddetto “ciclo delle rinascite”, che gira inesorabile come una ruota, simbolo orfico per eccellenza). Qual è la strada che conduce invece alla salvezza, che opera la purificazione? La via da percorrere è quella della cosiddetta “vita orfica” (orphiké biós), caratterizzata dal rispetto di rigide norme di comportamento e divieti rituali. L’orfico non può uccidere animali né cibarsi della loro carne, perché nel “ciclo delle rinascite” essi possono essere anime reincarnate. E’ altresì proibito avere qualsiasi contatto con cadaveri e cimiteri e - più in

10 l più conosciuto mito di Orfeo è senza dubbio quello del suo amore per Euridice. La vicenda è notissima: nei pressi di Tempe, in Tracia, Euridice viene insidiata da Aristeo e, mentre fugge per evitarlo, inciampa ed è morsa da un serpente. Il morso si rivela mortale e la giovane viene condotta agli inferi. L’amore spinge Orfeo a tentare la più disperata delle imprese: strappare Euridice al suo destino di morte. E’ la sua arte a venirgli in soccorso: riesce infatti ad incantare il traghettatore Caronte, il cane Cerbero e i giudici dei morti; le torture dei dannati sono sospese e perfino il terribile Ade, signore dell’oltretomba, e la sua consorte Persefone sono mossi a commozione. Concedono così ad Orfeo di riavere la moglie, a condizione, che - sulla via del ritorno - non si volti a guardarla finché non siano giunti alla luce del sole. Quando però i due sposi sono prossimi a raggiungere la superficie della terra, Orfeo non sa resistere alla tentazione e, spinto dall’amore, si gira per accertarsi che Euridice lo segua. Questo gesto sciagurato produce subito il suo effetto ed Euridice di colpo piomba al suolo, ineluttabilmente prigioniera della morte. 11 Il termine antropologia significa “concezione dell’uomo”, indica cioè il particolare modo che una dottrina, religiosa o filosofica, ha di concepire la realtà umana; per dualismo si intende invece ogni concezione filosofica o religiosa che affermi l’esistenza, nel cosmo o nell’uomo, di due princìpi opposti, uno benefico e l’altro malvagio. Nel primo caso (cosmo) si parla di dualismo cosmologico, nel secondo (uomo) di dualismo antropologico. Nell’orfismo troviamo un chiaro dualismo antropologico.

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generale - con tutto ciò che attiene al mondo dei morti: così l’orfico non può mangiare legumi, che sono l’offerta specifica che si fa ai morti, e deve mantenersi lontano da tombe e sepolcri. Non è inoltre consentito indossare abiti di lana, perché essa è stata il mantello di un animale ed è prescritto di “fuggire la generazione di mortali”, cioè il parto, ritenuto fonte di impurità. Nelle sepolture sono collocate vicino al morto piccole laminette d’oro che servono da amuleto e lasciapassare per il viaggio nell’aldilà. L’iniziato che rispetta questo complesso insieme di norme, ottiene la completa purificazione (“puro fra i puri” è l’espressione caratteristica che si incontra sulle laminette) e vede dischiudersi un destino privilegiato dopo la morte. Fonti essenziali per la ricostruzione della dottrina orfica sono proprio le laminette d’oro ritrovate in varie zone di influenza greca: queste lamelle, lunghe pochi centimetri, contengono formule brevi che esprimono la fede e la speranza d’immortalità degli orfici in termini spesso oscuri e di difficile interpretazione. ◊ Schematizzando, le dottrine orfiche possono essere riassunte come segue: - nell’uomo ci sono un principio divino, lo spirito, e uno malefico, il corpo; lo spirito, preesistente al corpo, viene in esso rinchiuso come in un carcere per espiare una colpa primordiale (dualismo antropologico); - il fedele deve “purificarsi” per potere liberare lo spirito dal carcere corporeo; la purificazione è ottenuta attraverso il rispetto di rigide regole di vita e, verosimilmente, la partecipazione a riti e sacramenti; - se la “purificazione” è realizzata, l’orfico dopo la morte può liberare la sua componente divina e vivere la vita perfetta e beata degli dèi; - se questa purificazione non viene ottenuta, lo spirito è costretto a reincarnarsi, cioè ad essere nuovamente incarcerato in un corpo. ◊ Con l’orfismo viene capovolta la tradizionale concezione greca dell’uomo, per la quale il destino umano si gioca tutto nell’aldiqua: nella religione omerica l’aldilà è infatti un regno desolato di tenebra, dove ai morti, ridotti a misere ombre, tocca un triste destino di sofferenza e privazioni (si legga, per esempio, il celebre canto XI dell’Odissea). In una prospettiva di questo genere i valori primari non possono che essere quelli della vita presente: bellezza, valore, amore, piacere. Radicalmente diversa è, come abbiamo visto, la concezione dell’orfismo. 2 - LA FILOSOFIA JONICA ◊ Premessa: “presocratici” e “presofisti” - Si definiscono abitualmente “presocratici” i filosofi che - pur proponendo dottrine anche molto diverse tra loro - concordano nel soffermare l’attenzione sul problema della natura e della realtà fisica, diversamente da quanto farà in seguito Socrate, che concentrerà il suo pensiero sull’uomo

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e i suoi problemi12. A dire il vero, la più recente storiografia, preferisce parlare di “presofisti” piuttosto che di “presocratici”, perché i primi pensatori che hanno spostato l’interesse della filosofia dal cosmo all’uomo sono stati appunto i Sofisti. Si dovrebbero quindi definire gli autori di cui di seguito ci occuperemo “presofisti”, ma la tradizionale dicitura “presocratici” è talmente entrata nell’uso che la si più comunque mantenere. - I filosofi presocratici fioriscono dal sesto secolo avanti Cristo in avanti e non costituiscono un insieme compatto e omogeneo, ma si distinguono in numerose scuole e tendenze: a) la scuola jonica di Mileto, i cui principali esponenti sono Taléte, Anassimándro e Anassímene; b) la scuola pitagorica (Pitagora e seguaci); c) la scuola eraclitea (Eráclito e seguaci); d) la scuola eleatica, che ha come fondatore Parménide e come esponenti più significativi, oltre a lui, Senófane e Zenóne; e) i fisici “pluralisti”: Empédocle, Anasságora, Demócrito. - Questi autori - va sottolineato - operano in una primo periodo nelle colonie greche dell’Asia Minore (Jonia) e dell’Italia meridionale (Magna Grecia); solo con Anassagora la filosofia arriva ad Atene. I fisici pluralisti vivono più tardi, sono contemporanei dei Sofisti e di Socrate. ◊ La scuola di Mileto - Come detto, questa prima scuola filosofica si sviluppa nella zona costiera dell’Asia Minore colonizzata dagli Joni, dove fiorisce una civiltà ricca e raffinata, i cui centri principali sono Mileto, Efeso, Colofone, Clazomene, Samo e Chio. In queste città domina una intraprendente classe di mercanti che, alla ricerca di sbocchi commerciali e di materie prime, crea potenti flotte mercantili, il cui raggio d’azione si estende dal Mar Nero all’Egitto, dalla Magna Grecia alla Spagna. - Siamo di fronte a una civiltà molto dinamica, che offre condizioni estremamente favorevoli al nascere del pensiero filosofico, come sottolinea Nicola Abbagnano: «Infatti, il rapido sviluppo di forme politiche democratiche, il rigoglio delle tecniche, i contatti con le civiltà del Vicino Oriente, l’allargarsi della mentalità media delle popolazione, abituata all’estrema varietà delle usanze e delle credenze, sono tutti fattori che, sommandosi fra di loro, contribuiscono all’elaborazione di una nuova cultura, impegnata a liberarsi delle credenze magiche, mitiche e religiose, e tesa ad un’osservazione più attenta e razionale dei fenomeni naturali. Da ciò l’emergere, nella Jonia, di una figura di intellettuale che ha in sé i tratti del filosofo, dello scienziato e del tecnico»13.

12 Si parla a questo proposito di un passaggio dalla problematica “cosmologica” (cioè relativa al cosmo) a quella “antropologica” (cioè relativa all’uomo). Va detto, comunque, che anche questi primi autori manifestano interesse per ll mondo dell’uomo, pur privilegiando il tema cosmologico. 13 N. ABBAGNANO, G. FORNERO, Filosofi e filosofie nella storia, 1, Torino 19922, 34.

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- Questi autori, che la storia della filosofia tradizionalmente presenta come “i primi filosofi”, concentrano la loro attenzione sul problema della sostanza primordiale. Ai loro occhi il mondo in cui viviamo si presenta come una realtà che: A) cambia in continuazione (è mutevole); B) si compone di un’infinità di cose diverse (è molteplice). Questi due caratteri, la mutevolezza e la molteplicità, richiedono per questi filosofi una spiegazione (si ricordi quanto scritto nella premessa sul nascere della filosofia da thauma): deve dunque esistere una realtà che sia immutabile ed unica, di cui quanto vediamo nel mondo è la manifestazione esteriore e provvisoria. In altre parole: il mondo in cui viviamo e che i nostri sensi ci fanno percepire è mutevole e molteplice, quindi privo di stabilità e permanenza (cioè di senso) ma alla sua base c’è una sostanza prima che - al contrario - è immutabile e unica. Si tratta quindi di ricondurre ad un unico principio di spiegazione e d’ordine l’apparente caoticità del mondo. - Questa sostanza unica e immutabile che sta alla base della realtà è chiamata dai filosofi jonici arché , che in greco significa “principio”. Secondo Abbagnano esso è «la materia da cui tutte le cose derivano e la forza o legge che spiega la loro nascita e morte»14. Giovanni Reale ne propone la seguente definizione: (Il principio) è “una realtà che permane identica nel trasmutarsi delle sue affezioni”, cioè una realtà “che continua ad esistere immutata”, pur attraverso il processo generativo (cioè il mutare) di tutte le cose. Quindi l’arché è: a) fonte o scaturigine delle cose; b) foce o termine ultimo delle cose; c) permanente sostegno delle cose, ciò che le alimenta e le fa vivere. In breve, è ciò da cui le cose vengono, ciò per cui sono, ciò in cui “vanno a finire”15. ◊ TALETE di Mileto è il fondatore della scuola jonica; vive tra la fine del VII secolo a. C. e la metà del VI; è uomo politico, matematico, astronomo, fisico e viene solitamente considerato il primo filosofo della storia; di lui non ci restano scritti e la sua dottrina è menzionata da Aristotele, che scrive: «Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia, dice che quel principio è l’acqua (per questo afferma anche che la Terra galleggia sull’acqua), desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il caldo si genera dall’umido e vive nell’umido. Ora, ciò da cui tutte le cose si generano è, appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa convinzione da questo fatto e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno una natura umida e l’acqua è il principio della natura delle cose umide». Dunque Talete identifica l’arché, la sostanza primordiale, nell’acqua, forse perché vede che soltanto dove c’è acqua c’è vita. Si tratta, occorre sottolinearlo, di un’idea antichissima, che ricorre nei miti e nelle credenze di molti popoli. Anche i miti greci più antichi pongono l’acqua all’origine della realtà: Teti e Oceano - due divinità acquatiche – sono, per esempio, presentati da

14 Ivi. 15 Cfr. G. REALE, Storia della filosofia antica, 1, Milano 19762, 54-55.

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Omero come i “princìpi della generazione”16. Analoghe personificazioni “acquatiche” caratterizzano i miti delle origini di altri popoli dell’antichità: dalla Mesopotamia all’Egitto, dalle culture della costa siro-palestinese e quelle dell’Asia Minore il tema delle acque primordiali è costantemente attestato. Va rilevato, tuttavia, che Talete, pur proponendo un tema noto, abbandona il linguaggio simbolico del mito adottando termini e concetti razionali. ◊ ANASSIMANDRO è concittadino e contemporaneo di Talete e come lui si dedica non solo alla filosofia, ma anche all’astronomia e alla politica. E’ lui, stando alla tradizione, che adotta il termine arché per definire la sostanza primordiale. - Per Anassimandro l’arché non può consistere in una sostanza definita, come l’acqua, l’aria o il fuoco, perché, se così fosse, non si spiegherebbe come da essa derivi l’infinita complessità del reale. In altre parole, dato che l’arché è il principio di tutte le (diversissime) cose che esistono, non può essere qualcosa di specifico: come potrebbe, infatti, una realtà umida derivare dal fuoco o una secca dall’acqua? Per risolvere questa difficoltà, Anassimandro afferma che il principio, l’arché, è una sostanza indefinita, indeterminata: solo ciò che è indeterminato può infatti acquisire tutte le determinazioni. Con termine greco, essa si chiama ápeiron: che letteralmente significa “senza confine”, cioè indefinito. Da questo principio primo indeterminato traggono origine, secondo Anassimandro, tutte le cose; in esso tutte si dissolvono quando si conclude il tempo loro assegnato dalla legge suprema e immutabile che governa la realtà del cosmo. - Anassimandro si è anche posto il problema di come la realtà derivi dall’arché, cioè di come vada concepito il processo di generazione di tutte le cose dal principio primo. E’, secondo lui, un processo di “separazione di contrari”: dall’unica sostanza originaria, l’ápeiron, si distaccano coppie di contrari (caldo e freddo, secco e umido, ecc.) dalle quali trae progressivamente origine tutta la realtà. Si generano così mondi infiniti che si succedono in un ciclo eterno. Ogni mondo nasce, dura un certo tempo e quindi muore: tutto è definito da una legge cosmica immutabile. Anassimandro, in un suo celebre e misterioso frammento, parla di una “colpa” che tutti gli esseri devono espiare: «Tutti gli esseri devono, secondo l’ordine del tempo, pagare gli uni agli altri il fio (che significa “espiare la colpa”) della loro ingiustizia». Di quale “ingiustizia” e di quale “colpa” parla qui Anassimandro? Qual è l’ingiustizia che tutti gli esseri commettono e devono perciò espiare? E’ probabile che essa si colleghi alla nascita stessa degli esseri, che, come abbiamo visto, avviene per separazione di contrari dalla sostanza primordiale: «Evidentemente - scrive Abbagnano -

16 Omero chiama Oceano «origine degli dèi» (Iliade, 14, 201) (ovvero «che di tutti i numi fu origine», ivi, 246). Oceano era concepito come un fiume, che, situato agli estremi confini della terra, rifluisce su se stesso, in un cerchio ininterrotto, alimentando tutti i fiumi e tutti i mari. Ad Oceano Omero affianca Teti, che chiama «madre» (ivi, 201): è la sua compagna, madre dei suoi figli (i tremila fiumi e le tremila oceanine; cfr. ESIODO, Teogonia, 337; 367); cfr. K. KERENYI, Gli dèi e gli eroi dei Greci, 1, tr. it. Milano 1963; 19863, 21-2.

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questa separazione è la rottura dell’unità, che è propria dell’infinito; è il subentrare della diversità, quindi del contrasto, là dove erano l’omogenità e l’armonia».17 - Anassimandro propone anche alcune dottrine sulla natura del cosmo curiose ma interessanti: innanzitutto afferma l’infinità dei mondi, non solo nel tempo (infiniti mondi si susseguono in un ciclo eterno), ma anche nello spazio (essi sono infiniti anche contemporaneamente nello spazio); dice che la terra è di forma cilindrica e “sta sospesa” nel mezzo dell’universo senza nessun sostegno che la regga; pensa infine che gli uomini non siano gli esseri originari della natura, perché - diversamente dagli animali - quando nascono non sono autosufficienti: traggono quindi origine da altri animali, in particolare dai pesci (una sorta di anticipazione della dottrina dell’evoluzione delle specie …); si vedano a questo proposito i testi citati nell’appendice. ◊ ANASSIMENE di Mileto, forse discepolo di Anassimandro, vive verso la metà del VI secolo a. C. Secondo lui, come già per Talete, l’arché è una sostanza determinata e specifica: non si tratta però dell’acqua, ma dell’aria. Spiega Anassimene: «Come la nostra anima, che è aria, ci sostiene, così il soffio e l’aria circondano il mondo intero». Come l’ápeiron di Anassimandro, l’aria di Anassimene è infinita e in perenne movimento. Il mondo appare quindi come una sorta di “grande essere vivente”. Dall’aria traggono origine tutte le cose che esistono e questo avviene attraverso un duplice processo di rarefazione e condensazione: la prima dà luogo al fuoco, la seconda al vento, poi alle nuvole e quindi all’acqua, alla terra, alle pietre. Come Anassimandro, anche Anassimene ritiene che il mondo segua un processo ciclico di nascita, morte e rinascita: periodicamente esso si “discioglie” nel principio originario - l’aria - da cui ha tratto origine, dal quale poi nasce un altro mondo e così via in eterno. 3 – LA SCUOLA PITAGORICA - E’ difficile, per non dire impossibile, distinguere Pitagora dai pitagorici, cioè dalla sua scuola, innanzitutto perché egli non scrive nulla e di lui non sappiamo quasi niente di preciso; le notizie che abbiamo, infatti, sono in gran parte tarde e condizionate dal fatto che, dopo la sua morte (e forse già negli anni conclusivi della sua vita), viene venerato dai suoi seguaci quasi come un dio e questo fa fiorire intorno alla sua figura leggende, per esempio quelle dei suoi viaggi in paesi lontani (soprattutto in Egitto) presso i saggi di vari popoli18.

17 Cit. 36. E’ bene sottolineare che qui il concetto di “colpa” non ha nulla a che fare con l’uomo, come noi siamo abituati a ritenere quando lo utilizziamo (per esempio nel racconto biblico del paradiso con il peccato, quindi la colpa, di Adamo ed Eva): si dovrebbe piuttosto intendere questa “colpa” nel senso di “evento negativo”, dato che l’esistenza delle cose è possibile sono se si frantuma l’originaria unità dell’apeiron, che, come abbiamo detto, era concepita da Anassimandro (e dal pensiero greco antico in generale) come perfezione. In sostanza, il mondo esiste solo perché qualcosa di perfetto (il principio, l’apeiron) che esisteva, unico e completo, all’origine è venuto meno, si è “spezzato” nelle coppie di contrari, che, al contrario, non possiedono la caratteristica dell’unicità (e quindi della perfezione). 18 Scrive in proposito Diogene Laerzio: «Essendo giovane ed amante dello studio, emigrò dalla patria e fu iniziato in tutti i misteri greci e barbari. Fu in Egitto [...]. e poi presso i Caldei ed i Magi. Poi a Creta, con

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Pitagora nasce a Samo verso il 570 a. C. e l’apogeo della sua vita si ha verso il 530; emigra poi in Italia meridionale dove fonda (Crotone, Locri, Taranto, Metaponto) delle scuole che non hanno come scopo principale la ricerca filosofico-scientifica, ma l’insegnamento di una dottrina di salvezza, rispetto alla quale scienza e filosofia sono non il fine ma il mezzo; la scuola pitagorica appare dunque come una vera e propria confraternita di tipo religioso, obbligata al rispetto di precise regole di convivenza e di comportamento, simile quindi alle associazioni degli orfici; le dottrine che vi vengono insegnate sono segrete, fatto questo che ne impedisce la divulgazione e la conoscenza (diversamente da quanto accade per le altre scuole filosofiche). - Il principio che i filosofi ionici avevano identificato nell’acqua, nell’aria o nell’ápeiron viene identificato dai pitagorici nel numero e negli elementi che lo costituiscono: «Pensarono - scrive Aristotele - che gli elementi del numero fossero gli elementi di tutte le cose, e che tutto l’universo fosse armonia e numero»; questa affermazione si collega al fatto che i Pitagorici sono stati i primi cultori della matematica (possiamo dire gli inventori della matematica come scienza): ecco perché sono stati anche i primi a notare che un’amplissima serie di fenomeni e realtà naturali sono riconducibili a rapporti numerici e perciò esprimibili in linguaggio matematico. Notano in primo luogo come la musica sia traducibile in matematica (e la coltivano come strumento di purificazione) quindi evidenziano l’incidenza del numero in molti fatti naturali: l’anno, le stagioni, i giorni, i ritmi della natura, ecc. Ma ascoltiamo la testimonianza di Aristotele: «Poiché i numeri sono per natura primi nelle matematiche, e nei numeri essi credevano di trovare, più che nel fuoco e nella terra e nell’acqua, somiglianze con le cose che sono e che divengono, e poiché inoltre vedevano espresse dai numeri le proprietà e i rapporti degli accordi numerici, poiché insomma ogni cosa nella natura appariva loro simile ai numeri, ed i numeri apparivano primi tra tutto ciò che è in natura, così pensarono che gli elementi dei numeri fossero elementi di tutte le cose che sono e che il mondo intero fosse armonia e numero»19. Riassumendo, i pitagorici, cultori della matematica, poiché avevano notato che molti aspetti della realtà sono riconducibili al numero, ritengono che esso sia l’arché. - Va però precisato a questo punto, per comprendere appieno la dottrina pitagorica, che il numero veniva concepito diversamente da come lo concepiamo oggi: per noi esso è infatti un’astrazione mentale, frutto delle operazioni della nostra mente; per i pitagorici è invece qualcosa di reale, di concreto e proprio per questo può essere - come l’acqua di Talete - il principio di tutte le cose; - Tuttavia, per i Pitagorici, il numero non è il principio primo assoluto: deriva infatti da qualcosa di più primario, da princìpi più elementari: gli elementi costitutivi del numero. Secondo la testimonianza del pitagorico Filolao (V secolo a. C.), i principi supremi del numero sono l’illimitato (o indeterminato) e il limitante (o determinante); dato che, come detto, il numero è ritenuto dai

Epimenide [...] e in Egitto conobbe gl’impenetrabili (misteri) e fu istruito nei segreti circa gli Dei» (Vite dei filosofi, VIII, I, 1-3). 19 Citato in M. DAL PRA, Sommario di storia della filosofia, 1, Firenze 197514, 9.

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pitagorici il principio primo e della realtà, questi elementi, che stanno all’origine del numero, sono i princìpi supremi di tutte le cose. - Dunque il numero è generato dal combinarsi di una componente indeterminata e da una determinante; si tratta cioè, come dice Reale, di un «imbrigliamento dell’illimitato o indeterminato nei confini del limite e della determinazione»; I due elementi sono presenti in ogni numero, ma nei numeri pari prevale l’elemento illimitato, nei dispari il limitante; - Questa affermazione può essere compresa se si pensa al modo in cui venivano rappresentati i numeri, cioè come insieme di punti disposti in modo geometrico; se infatti rappresentiamo in questo modo un numero pari vediamo come il processo di divisione non incontra nessun limite: invece rappresentiamo i numeri dispari, la divisibilità incontra un “punto di arresto”. Si vedano in proposito i disegni riportati sul libro di testo a pag. 17. - Dunque illimitato e limitante sono i princìpi primi della realtà; da essi tra origine il numero che è proprio una sintesi dei due elementi, sintesi che vede prevalere nel pari l’elemento illimitato, nel dispari il limitante - La concezione pitagorica del numero come essenza delle cose conduce a concepire l’universo in un modo del tutto nuovo rispetto alla scuola di Mileto: si tratta infatti d’un universo in cui gli elementi contrastanti si pacificano in una superiore armonia; è infatti un universo costituito secondo armonie numeriche; in questo universo, interamente dominato dal numero, regna il più perfetto ordine (è un vero e proprio “cosmo”, secondo il significato greco del termine kosmos, che significa, appunto, “ordine”); il mondo non è dunque governato da forze oscure e misteriose, e nemmeno è il campo d’azione del cieco e indecifrabile destino: è un ordine razionale, che la mente umana, razionale anch’essa, può serenamente indagare; «l’ordine dice numero e numero dice razionalità, conoscibilità e permeabilità al pensiero» (Reale); qui vediamo uno degli aspetti storicamente più importanti del pitagorismo: molti secoli dopo, la scienza moderna riprenderà l’idea che l’universo sia nella sua struttura più profonda governato da leggi matematiche e che pertanto l’uomo possa, attraverso la matematica, comprenderlo. - Come si diceva, per i pitagorici, la scienza non è concepita come fine per l’uomo, ma come mezzo in vista di ulteriori fini; occorre ora spiegare quali fini. E’ opportuno a questo proposito ricordare che Pitagora insegnava - come gli orfici (dai quali la riprende) - la dottrina della metempsicosi: lo spirito deve, come punizione di una colpa originaria, incarnarsi più e più volte in differenti corpi, non solo umani, ma anche animali; lo spirito dunque esiste prima del corpo e continua a vivere dopo la morte di quest’ultimo (è cioè immortale); la sua unione al corpo non è però conforme alla sua natura, ma è, al contrario, è la punizione di una misteriosa colpa originaria. Bisogna perciò vivere non in funzione del corpo (come pensavano tradizionalmente i Greci) ma dello spirito: questo significa che, nel corso della vita, bisogna impegnarsi per “purificare” lo spirito, cioè per scioglierlo dal legame che lo incatena al corpo, in modo che, alla morte, esso possa liberarsi e vivere nella beatitudine senza più reincarnarsi.

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- Si tratta di dottrine che certamente il pitagorismo riprende dall’orfismo; la differenza sta nel fatto che per gli orfici la via che conduce alla purificazione (e liberazione) dello spirito è costituita da riti, pratiche religiose e norme rigorose di vita; i pitagorici invece, pur avendo anch’essi regole rigorose di condotta (il vegetarianismo, per esempio) ritengono che lo strumento primario di purificazione-liberazione sia la conoscenza: sono dunque la scienza e la filosofia la via principale che permette all’uomo di liberare il suo spirito, la strada primaria della purificazione; - Le pratiche pitagoriche di purificazione dello spirito pongono al primo gradino la musica, che (come detto) è l’espressione più immediata dell’armonia numerica che costituisce il cuore stesso della realtà; in sostanza, se la realtà è armonia di numeri, la musica è il modo più semplice, immediato ed efficace per percepire questa armonia, e quindi per avviarsi alla piena comprensione delle cose. Non è un caso che i novizi, appena ammessi nella scuola pitagorica, debbano tacere ed ascoltare, considerate come le cose più difficili da imparare; solo in un secondo tempo è loro concesso fare domande sulla musica, poi sull’aritmetica e la geometria, infine sul cosmo e le realtà naturali; il maestro parla loro nascosto dietro una tenda, per separare il più possibile il sapere, la verità, dalla persona che la comunica fisicamente; di qui la celebre formula autòs éfa (ipse dixit, “l’ha detto lui”): Pitagora è l’autorità assoluta, il depositario del sapere supremo. 4 - ERACLITO - Eraclito nasce ed Efeso, nella Jonia, intorno al 540 a. C., da una famiglia di nobili origini. Scrive un’opera composta di aforismi di tono misterioso e oracolare, che è difficile interpretare con certezza: di qui il soprannome “l’oscuro” che sin dall’antichità è associato aL suo nome20. Della sua vita si sa pochissimo: legato alle tradizioni aristocratiche della sua famiglia, entra in conflitto con la città, che non riconosce più il diritto dei re e dei nobili e sviluppa forme di organizzazione democratica. Contro i democratici e il popolo, Eraclito polemizza, con tono superbo e altezzoso: disprezza la gente comune, il démos e lo fa oggetto di ironia e scherno spesso assai aspri21. - A suo avviso, gli uomini comuni non sanno elevarsi fino alla verità: vagano nell’errore e, anche quando la verità viene loro indicata, si comportano come se non la conoscessero. La massa, “i più”, gli appare come composta di dormienti, cioè di uomini incapaci di andare oltre le apparenze e di capire le leggi autentiche del mondo. Solo ai filosofi, agli svegli, è concesso accedere al nucleo più profondo delle cose, alla verità che sta al di là della apparenze. - Il vero fi losofo sa superare le idee comuni, le false certezze e, scandagliando in solitudine la propria anima, riesce a scoprirne l’infinita complessità (“Tu non troverai i confini dell’anima - scrive Eraclito - per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione”). E proprio l’infinità dell’anima 20 Secondo la tradizione, Eraclito depositò il suo libro nel tempio di Artemide, chiedendo che non fosse reso pubblico prima della sua morte. 21 Si narra che, ammalatosi gravemente, Eraclito rifiutò le cure dei medici profani e, cosparsosi il corpo di sterco, si lasciò sbranare dai cani sulla piazza centrale.

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rende senza fine la ricerca del filosofo, che è ricerca della verità. Il vero filosofo sa giungere ad una visione globale della realtà, mentre i cultori delle discipline specialistiche e delle tecniche non sanno uscire da un’ottica settoriale e quindi parziale. Il vero filosofo sa definire e seguire un codice di comportamento e di vita indipendente, spesso divergente dai gusti e dalle inclinazioni della massa; disprezza per es., i piaceri del corpo, che giudica propri degli animali e non dell’uomo. - Nella storia della filosofia Eraclito è celebre come “il f i losofo del divenire”: per lui la realtà è infatti caratterizzata dal perenne fluire, dal continuo, incessante cambiamento, proprio come un fiume, le cui acque sono sempre diverse («Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume, né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato»). Dunque tutto cambia, (pánta réi, “tutto scorre”, è la celebre affermazione di Eraclito), tutto è in perenne mutamento, perché tutto è soggetto al tempo e al divenire; anche ciò che appare statico, fermo, è in realtà dinamico perché” immerso” nello scorrere del tempo. - Immagine per eccellenza del divenire universale è il fuoco, che di tutti gli elementi naturali è l’unico incessantemente in movimento. Ecco perché Eraclito afferma che proprio il fuoco è il principio di tutte le cose: vuole indicare con ciò che questo elemento, distruttore e trasformatore per eccellenza, rappresenta in modo esemplare la natura più profonda della realtà, caratterizzata prorio dal continuo mutamento, dalla perenne trasformazione. - Questo incessante cambiare delle cose, questo loro divenire, è, secondo Eraclito, frutto della contrapposizione dei contrari: tutta la realtà è infatti caratterizzata dalla presenza di elementi opposti, in conflitto permanente tra di loro. Ecco cosa intende Eraclito quando afferma, in un altro celebre frammento, che pólemos, la guerra, è padre di tutte le cose: «La contraddizione, il divenire, il mutamento universale - scrive F. Vegetti - vanno riconosciuti come caratteri essenziali e insopprimibili del mondo in cui viviamo. La realtà è in perpetuo fluire e trasformarsi, nel reciproco conflitto di tutte le cose; “la Guerra, dice Eraclito, è il padre del mondo”. C’è conflitto tra gli uomini, e c’è conflitto nella natura, i cui elementi - acqua, aria, terra, fuoco - lottano per la supremazia, si trasformano l’uno nell’altro, si sottomettono a vicenda (…) In ogni cosa, in ogni fase ed aspetto della realtà si cela la lotta implacabile degli opposti, che premono incessantemente verso la trasformazione degli equilibri raggiunti»22. Tutto quindi cambia, tutto diviene e questo è determinato dall’opposizione dei contrari, che è il cuore stesso della realtà. - I contrari, però, che sono il “motore” del divenire universale, sono sì opposti tra di loro, ma anche complementari, cioè incapaci di esistere l’uno senza l’altro: lottano quindi fra di loro, ma ognuno ha bisogno dell’altro, si completano e si integrano a vicenda. Emerge così un quadro armonico della realtà: essa può apparire caotica e disordinata, dato che è lotta di tutto contro tutto, ma, guardata in profondità, rivela un perfetto ordine interiore, in cui tutti gli elementi hanno la loro ragion d’essere, in cui ogni cosa non può esistere senza il suo contrario.

22 M. VEGETTI, Filosofia e sapere della città antica, in AA.VV., Filosofie e società, 1, Bologna 1975, 48.

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- Eraclito afferma quindi che c’è nel mondo, al di là del suo perenne e conflittuale divenire, una profonda razionalità, che determina la superiore armonia del tutto. Il fatto che ovunque nella realtà dominino lotta e scontro non significa perciò che il caos sia signore del mondo, anzi, è vero il contrario: in questa lotta ogni elemento è indispensabile, tutto segue un ordine definito in una superiore, perfetta armonia23. - In uno dei suoi più celebri (e discussi) frammenti Eraclito afferma: «Il tempo della vita (= la realtà) è un fanciullo che gioca, gioca con le tessere (della scacchiera): è il regno di un fanciullo». E’ possibile che il fiosofo voglia qui affermare che nella realtà, come nel gioco di un bambino, non c’è un fine, non c’è uno uno scopo. Il gioco del bambino è fine a se stesso e così è la realtà dell’universo, casuale e priva di finalismo. Il che, ovviamente (come si è spiegato sopra) non significa che la realtà sia caos, ma soltanto che essa non attua alcun piano, alcun progetto. 5 - PARMENIDE - Con la scuola eleatica, che deve il suo nome alla colonia greca di Elea, in Campania (presso Paestum), la filosofia intraprende un’indagine diversa da quella che caratterizza la scuola jonica di Mileto: gli Jonici, infatti, avevano ricercato la sostanza primordiale, il principio fisico (arché) capace di spiegare la complessità mutevole e molteplice della realtà naturale; gli Eleati, invece, incentrano la loro riflessione sulla ricerca dell’essere vero, della realtà perfetta che sta dietro quella - ingannevole - che ci mostrano i sensi24. Infatti, i sensi non ci presentano la realtà vera, ma un’apparenza falsa e ingannevole; solo la ragione è in grado di condurre alla verità. - Fondatore della scuola eleatica è Parmenide di Elea, vissuto tra il 550 e il 450 a. C. Illustrò la sua dottrina in un’opera in versi intitolata Intorno alla natura, il cui proemio (ne restano 154 versi) è certamente una delle più famose e discusse pagine dell’intera storia della filosofia. Esaminiamone brevemente I temi principali: - Parmenide immagina di trovarsi in compagnia di fanciulle divine, le “figlie del sole”, su un carro trainato da cavalle focose. Le ragazze indicano la via da seguire, una via che conduce alle “case della notte” e di qui “verso la luce”, fino a raggiungere una misteriosa porta, dalla quale si dipartono gli opposti sentieri “della notte” e “del giorno”. La porta, munita di architrave, ha una soglia di pietra ed è chiusa da grandi battenti: le chiavi che li aprono sono nelle mani della dea Giustizia (Dike), “che molto punisce”. A lei le “figlie del sole” rivolgono parole soavi, convincendola ad aprire la porta. Il carro può allora procedere e così Parmenide giunge al cospetto d’una

23 Eraclito esprime questo fondamentale concetto con un’altra celebre metafora: gli opposti che sono presenti nella realtà sono sì l’uno “contro” l’altro, ma il loro contrapporsi genera una sostanziale armonia, proprio come accade nell’arco e nella lira, strumenti in cui il contrasto degli elementi genera l’armonico funzionamento del tutto. 24 La domanda di fondo della filosofia jonica è: qual è il principio che permette di spegare la realtà naturale? La domanda dei filosofi di Elea è invece: come si caratterizza l’essere vero? Qual è il vero essere: quello che ci mostrano i sensi o quello che ci presenta la ragione?

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misteriosa Dea25, che gli rivolge queste parole: «O giovane, tu che, insieme a immortali guidatrici, con le cavalle che ti portano, giungi alla nostra dimora, rallegrati, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto a percorrere questo cammino – infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini –, ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto apprenda: sia il solido cuore della Verità ben rotonda sia le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è vera certezza». - Il proemio parmenideo è un testo molto complesso, ricco di simboli e allegorie che non è facile decifrare. Schematicamente, si può affermare quanto segue:

a) il viaggio che porta il filosofo al cospetto della Dea «è l’avventura di un essere umano che oltrepassa i confini dell’esperienza terrena abituale e che, proprio per questo, abbisogna dell’aiuto divino»; è un viaggio verso la verità, è «il cammino di ricerca del sapiente, guidato dalla rivelazione della dea così come gli antichi naviganti erano guidati dalla stella polare»26. E’ il viaggio che porta al sapere, a quello che la dea chiama il “solido cuore della Verità ben tonda”, un viaggio che Parmenide ha compiuto e che invita il suo lettore ad intraprendere.

b) Le figure e gli oggetti che compaiono nel testo hanno sicuramente un valore simbolico, che già gli antichi si sono sforzati di decifrare. Scrive in proposito Carlo Sini: «Tutto questo esordio o proemio del poema è stato interpretato sin dall’antichità (per es. da Sesto Empirico) in modo allegorico. Le cavalle simboleggerebbero gli impulsi e i desideri irrazionali dell’anima; la via delle Dee è la via del pensiero e della saggezza (filosofia); le fanculle sono le sensazioni (…) La giustizia e le sue chiavi che aprono e chiudono stanno per la ragione che giudica del vero, dicendo sì e no …»27.

c) La dea che rivela a Parmenide la verità dell’essere potrebbe essere la “grande dea-madre” caratteristica delle culture mediterranee e vicino-orientali; essa, diversamente dagli dèi olimpici, molteplici e diversi tra loro, è unica, come unico – lo vedremo – è l’essere parmenideo.

- A Parmenide la Dea dice che ci sono due strade per l’uomo che ricerca: quella della verità, alétheia, che si fonda sulla ragione e conduce alla conoscenza dell’essere vero; quella dell’opinione, doxa, che si fonda sui sensi e porta alla conoscenza dell’essere apparente. Solo la prima strada è veritiera; la seconda è inevitabilmente fallace e ingannevole. In altre parole: l’uomo

25 Il tono misterioso e oracolare dei versi di Parmenide fa pensare che egli appartenesse a una cerchia aristocratica nella quale si credeva che il sapere fosse riservato a pochi eletti. Non è un caso che, in questa celebre pagina, Parmenide presenti il suo messaggio filosofico come una rivelazione divina: «Il sapere ha per Parmenide un’origine divina ed una sanzione celeste, proprio come voleva la tradizione religiosa e sacrale; ma il suo contenuto è nuovo e razionale» (DAL PRA, cit., 19). 26 E. FAGIUOLI, in AA. VV., Dal senso comune alla filosofia, 1, Milano 2001, 475. 27 C. SINI, I filosofi e le opere, 1, Milano 1986, 48.

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deve decidere se affidarsi alla ragione o ai sensi: nel primo caso potrà raggiungere la verità, nel secondo rimarrà invece prigioniero delle opinioni ingannevoli e false. - Domandiamoci ora, finalmente, dove conduce la via della ragione, a quale verità assoluta porta

chi la segue. Ascoltiamo ancora le parole del filosofo, leggendo due frammenti del suo proemio: ◊ Fr. 2: «Orbene, io ti dirò – e tu ascolta e ricevi la mia parola - quali sono le vie di ricerca che sole si possono pensare: l’una che “è” e che non è possibile che non sia (è il sentiero della Persuasione, perché tien dietro alla Verità) l’altra che “non è” e che è necessario che non sia. E io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende. Infatti, non potresti conoscere ciò che non è, perché non è cosa fattibile, né potresti esprimerlo»; Fr. 6: «È necessario il dire e il pensare che l’essere sia: infatti l’essere è, il nulla non è: queste cose ti esorto a considerare». - Dunque la via della ragione mostra all’uomo in tutta la sua evidenza la verità fondamentale: “L’ESSERE E’ E NON PUO’ NON ESSERE, IL NON-ESSERE NON E’ E NON PUO’ IN ALCUN MODO ESSERE”. Questo significa che soltanto l’essere è vero, reale, pensabile, esprimibile, mentre il non-essere è falso, irreale, non-pensabile e non può in nessun modo essere espresso. - Spiega Giovanni Reale: «L’essere è la sola cosa pensabile ed esprimibile; qualsiasi pensare, per essere tale, è pensare l’essere, al punto che si può dire che pensare ed essere coincidono, nel senso che non c’è pensiero che non esprima l’essere; viceversa, il non essere è del tutto impensabile, inesprimibile, indicibile e quindi impossibile»28. Scrive Giovanni Di Napoli: «Parmenide dice che di tutto, nei nostri giudizi, si afferma che é; quindi in ogni giudizio c’è l’essere; l’essere è in tutto, è tutto, e tutto è l’essere. Chi pensa o parla, pensa e dice sempre l’essere, mai il nulla; solo l’essere è quindi pensabile ed esprimibile; il nulla o non-essere è impensabile e inesprimibile»29 - Dunque la verità suprema che la Dea rivela a Parmenide e che egli pone al centro del suo pensiero è che soltanto l’essere esiste, è pensabile, è esprimibile, mentre il non-essere (cioè il nulla) è impensabile, inesprimibile e quindi inesistente. - Da questa affermazione fondamentale Parmenide trae con estremo rigore logico importanti conseguenze: deduce infatti una serie di attributi dell’essere, di caratteri che lo qualificano e lo definiscono. In altri termini: partendo dalla certezza che solo l’essere esiste ed è pensabile, Parmenide deduce le caratteristiche o proprietà dell’essere. Queste caratteristiche devono escludere in modo categorico tutto quello che implica il non-essere30: a) l’essere è ingenerato: infatti, se fosse generato, dovrebbe derivare o dall’essere, e in tal caso esisterebbe già, o dal non-essere, il che è impossibile (visto che, come si è detto, il non essere “non esiste”);

28 Storia della filosofia antica, 1, cit., 122. 29 G. DI NAPOLI, Storia della filosofia, 1, Brescia 1967, 40. 30 In sostanza: dato che solo l’essere è pensabile e reale, tutto quello che, in un modo o nell’altro, implica, richiede, rende necessario il non-essere va scartato, va considerato inaccettabile.

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b) l’essere è imperituro e incorruttibile: perché se si corrompesse e morisse dovrebbe diventare non-essere, il che è , nuovamente, impossibile31; c) l’essere è immutabile, senza passato né futuro, fuori del tempo, eterno: infatti, se così non fosse, se cioè l’essere fosse sottoposto al tempo e avesse un passato e un futuro, significherebbe che non è più quello che era nel passato, e non è ancora quello che sarà in futuro; ma entrambe queste affermazioni implicano il non-essere e quindi sono false; d) è immobile, perché se si muovesse “non sarebbe” più dov’era prima; e) è unico: se infatti ce ne fosse un altro l’uno non sarebbe l’altro e di nuovo ci troveremmo di fronte ad un’affermazione che implica il non-essere; f) è finito, perché secondo da mentalità greca, solo ciò che è finito è perfetto: «La finitudine è sinonimo di compiutezza e perfezione» e Parmenide per esemplificare tale compiutezza usa l’immagine della sfera, intesa appunto come una sorta di pieno assoluto da cui risulta assente il non-essere»32. - Da tutto quanto precede derivano conseguenze rilevantissime e decisive per la storia della filosofia: il mondo in cui viviamo, infatti, così come ce lo mostrano i sensi, non corrisponde alle caratteristiche del vero essere definite dalla ragione (ed elencate da Parmenide). E’ infatti un mondo: a) in perenne cambiamento, b) nel quale si trova un’infinità quantità di cose diverse: in sostanza, mentre la ragione ci dice che l’essere vero è immutabile ed unico, i sensi ci testimoniano che la realtà è mutevole e molteplice. Si apre così un dissidio tra sensi e ragione, dissidio che Parmenide affronta e risolve con logica ferrea: il mondo che ci mostrano i sensi, dice, non è ”vero”, ma è solo un’illusione, una ingannevole apparenza; solo il perfetto essere definito dalla ragione (immutabile e unico) esiste ed è assolutamente vero33. La ragione, quindi, contraddice

31 Dice Parmenide: «L’essere è ingenerato e imperituro, infatti è un intero nel suo insieme, immobile e senza fine. Né una volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto, uno, continuo … né il nascere né il perire concesse a lui la Giustizia, sciogliendolo dalle catene, ma saldamente lo tiene». E più oltre: «E come l’essere potrebbe esistere nel futuro? E come potrebbe essere nato? Infatti, se nacque, non è; e neppure esso è, se mai dovrà essere in futuro». 32 ABBAGNANO, FORNERO, cit., 51. Scrive Parmenide: «E rimanendo identico e nell’identico, in sé medesimo giace, e in questo modo rimane là saldo. Infatti, Necessità inflessibile lo tiene nei legami del limite, che lo rinserra tutt’intorno, poiché è stabilito che l’essere non sia senza compimento: infatti non manca di nulla; se, invece, lo fosse, mancherebbe di tutto (…) Inoltre, poiché c’è un limite estremo, esso è compiuto da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera, a partire dal centro uguale in ogni parte: infatti, né in qualche modo piú grande né in qualche modo piú piccolo è necessario che sia, da una parte o da un’altra». 33 Parmenide è dunque “costretto” dalla sua riflessione filosofica a negare sia la molteplicità sia il divenire, due caratteri della realtà che invece i sensi ci testimoniano costantemente. Ricordo che: molteplicità significa che la realtà del mondo è composta da un gran numero di cose diverse tra loro, divenire che la realtà del mondo è in perenne mutamento. «Il mondo che ci sta dinnanzi – scrive Emanuele Severino – nella sua infinita varietà di aspetti (molteplice, ndr.) e nella sua incessante mutazione (mutevole, ndr.) non ha alcuna “Verità” (sunque non è): è soltanto una gigantesca apparenza illusoria in cui “I mortali” ripongono ogni fiducia – i “mortali”, che sono appunto coloro che non seguono il “sentiero” della “Verità”. Con Parmenide la filosofia si presenta come la sfida più radicale rivolta al comune modo di pensare degli uomini» (La filosofia dai Greci al nostro tempi, cit., p. 73).

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quello che noi percepiamo tramite i sensi: la realtà ci appare (come la mostrano I sensi) in un modo ma il vero essere è in un altro modo (come ci attesta la ragione). Percezione sensibile e conoscenza razionale divergono: è la cosiddetta “aporia34 eleatica”, che apre un vasto dibattito nella filosofia successiva e segna una linea di demarcazione fondamentale nella storia della filosofia antica (e di tutta la filosofia occidentale). - Completare lo studio di Parmenide leggendo il paragrafo “La problematica identificazione dell’essere parmenideo”, a pag. 34 del libro di testo. ◊ Tra i seguaci di Parmenide spicca la figura di Zenone di Elea, suo successore alla guida della scuola, di circa 25 anni più giovane del maestro e quindi nato probabilmente verso il 490 a. C. La tradizione ce lo descrive come uomo di grande coraggio: «Poiché volle abbattere il tiranno Nearco – scrive Diogene Laerzio – fu messo in prigione … Allora, sottoposto ad interrogatorio circa i suoi complici e intorno alle armi che aveva portate a Lipari, denunziò tutti gli amici del tiranno, poiché si era proposto di ridurlo all’isolamento; poi gli disse che intorno a certe persone aveva da comunicargli alcuni particolari nell’orecchio, glielo morsicò e non lasciò la presa finché non fu trafitto»35 - La dottrina parmenidea, con le sue conclusioni drastiche, suscita subito grandi discussioni, sembrando a molti assurda e paradossale perché contrastante con i dati dell’esperienza. Zenone si assume il compito di difendere l’insegnamento del suo maestro da questi attacchi e lo fa usando un metodo originale: cerca di sostenere le tesi di Parmenide confutando quelle dei suoi critici. «Nasce così – scrive Reale – quel metodo di dimostrazione che, invece di provare direttamente una tesi, partendo da determinati princípi, cerca di provarla riducendo all’assurdo la tesi contraddittoria»36. In questa difesa Zenone è abilissimo: i suoi ragionamenti stringenti, la sua logica ferrea, il rigore straordinario delle sue argomentazioni lo rendono celebre presso i contemporanei e più tardi Platone stesso dirà di lui che «parlava con un’arte da far sembrare agli uditori le medesime cose nello stesso tempo simili e dissimili, una e molte, immobili e mobili» - Come si è visto, la dottrina di Parmenide nega sia il movimento sia la molteplicità e proprio questa negazione è al centro delle obiezioni dei suoi avversari. Zenone cerca di dimostrare che ammettere movimento e molteplicità comporta più problemi e assurdità che non negarli; lo fa con i suoi celebri “paradossi”. I più interessanti sono senza dubbio i quattro che riguardano il

34 Il vocabolo greco aporÍa significa “difficoltà”, “incertezza”, da áporos, “luogo impervio”, luogo dal quale “non c’è via d’uscita”; nel suo significato filosofico il termine indica un problema per il quale è difficile trovare una soluzione razionale, poiché tutte le soluzioni appaiono possibili. E’ sinonimo di “dubbio razionale” e di “coscienza problematica”; cfr. F. P. FIRRAO, Dizionario dei termini e delle correnti filosofiche, Firenze 1995, 22. «Le aporie sono i dubbi della ragione», scrive L. MAIORCA, Dizionario di filosofia, Napoli 1999, 20. 35 Citato in REALE, 1, cit., 132. 36 Ivi, 133.

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movimento: con argomenti rigorosi, Zenone dimostra che il movimento è assurdo (e che quindi bene ha fatto Parmenide a negarne l’esistenza):

a) argomento “dello stadio”: «Per percorrere uno stadio è necessario percorrerne prima la metà; ma prima occorre percorrerne la metà della metà, e così di seguito fino all’infinito; e siccome l’infinita divisibilità dello spazio non può venir esaurita, il movimento sarà impossibile»37;

b) argomento “dell’Achille”, così illustrato da Aristotele: «Esso dice che il più lento non sarà mai raggiunto nella corsa dal più veloce. Infatti è necessario che chi insegue giunga prima al punto da cui è partito chi fugge, cosicché il più lento si troverà sempre necessariamente un po’ più avanti del più veloce»38. Quindi Achille, il più veloce degli uomini, non raggiungerà mai una tartaruga che si muova un passo davanti a lui, perché ad ogni avanzamento di Achille ne corrisponde uno della tartaruga;

c) argomento “della freccia”: quando vediamo una freccia scoccata dall’arco pensiamo che si stia muovendo, ma in realtà in ogni singolo momento occupa un punto nello spazio e in ogni punto la sua valocità è pari a zero39; ma la somma di stati di quiete non può produrre movimento (0+0=0), quindi esso è soltanto apparente;

d) argomento delle “masse nello stadio”: «In uno stadio un punto mobile va ad una certa velocità, e simultaneamente al doppio di essa, a seconda che sia rapportato ad un punto immobile oppure ad un punto moventesi in senso contrario alla stessa velocità, generando in tal modo l’assurdo logico che “la metà del tempo è uguale al doppio”»40.

- Con questi argomenti, destinati a conoscere un successo straordinario nella storia del pensiero, Zenone vuole fornire un sostegno indiretto alle tesi del suo maestro: vuole cioè dimostrare che Parmenide ha ragione nel negare la realtà del movimento, perché chi la ammette cade in contraddizioni logiche insormontabili. Si noti bene: Zenone non vuole negare il fatto che il movimento si veda, che si colga coi sensi (sarebbe un’assurdità): vuole invece dimostrare che esso è razionalmente inspiegabile, con questo concermando le tesi di Parmenide. ◊ La tradizione indica come fondatore della scuola eleatica non Parmenide, ma Senofane, nato a Colofone nella Jonia verso il 570 a. C., ma presto trasferitosi nell’Italia meridionale, dove, girando di città in città, vive molto a lungo, superando i cent’anni di età. Oggi questa teoria viene respinta sia perché il pensiero di Senofane affronta problematiche diverse da quelle degli Eleati sia perché non è documentato nessun rapporto tra questo autore e la città di Elea.

37 DI NAPOLI, cit., 41. 38 Citato in REALE, 1, cit., 135. 39 «La freccia – spiega Aristotele - … non si muove dal momento che nulla si muove nell’istante». 40 ABBAGNANO, FORNERO, 1, cit., 54.

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- Senofane è poeta, autore di elegie e satire, ma anche filosofo, forse autore d’un trattato intitolato Della natura. Il tema di fondo che sviluppa nei suoi carmi è la critica della concezione tradizionale degli dèi, codificata nei poemi di Omero ed Esiodo. A Senofane questa concezione appare inaccettabile per via del suo antropomorfismo, cioè della convinzione che gli dèi abbiano aspetto, forma e sentimenti uguali a quelli degli uomini. Scrive:

- «Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto quanto è oggetto di onta e di biasimo: rubare, fare adulterio e ingannarsi reciprocamente …»

- «Ma i mortali credono che gli dèi siano nati e che abbiano abito, linguaggio e aspetto come loro. Ma se i se i buoi, i cavalli e i leoni avessero mani e potessero con le loro mani disegnare e fare ciò appunto che fanno gli uomini, i cavalli disegnerebbero figure di dèi simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiati così come ciascuno di loro è foggiato»

- «Gli Etiopi dicono che I loro dèi sono neri e camusi, i Traci dicono invece che hanno occhi azzurri e capelli rossi».

- La critica di Senofane prende dunque di mira la tradizionale concezione greca del divino e i poeti che l’hanno avallata e incoraggiata. Secondo lui, Dio non assomiglia in nulla agli uomini, né nell’aspetto esteriore né nel pensiero; questo Dio si identifica all’universo, è un di Dio-tutto, eterno, immutabile, che non nasce e non muore41, sempre uguale a se stesso. Così Senofane lo descrive: «Uno, dio, tra gli dèi e tra gli uomini il più grande, né per aspetto simile ai mortali, né per intelligenza. Tutto intiero vede, tutto intiero pensa, tutto intiero ode. Ma senza fatica con la forza del pensiero tutto scuote. Sempre nell’identico luogo permane senza muoversi per nulla, né gli si addice recarsi or qui or là»42. - Alcuni hanno ritenuto di poter qualificare la dottrina di Senofane come monoteistica, ma, come ben sottolinea Reale, è un’interpretazione antistorica: «Infatti, in primo luogo, essa è contraria allo spirito di tutta le grecità, al quale è rimasto sempre del tutto estraneo il problema se Dio sia uno o sia molti, perché non ha affatto colto la contraddittorietà fra l’affermazione che Dio è uno e Dio è molti, ma ha ritenuto del tutto naturale che il divino, per la sua stessa natura, avesse molteplici affermazioni o manifestazioni di varia specie (…) In secondo luogo, il verso di Senofane, nell’istante stesso in cui parla di “Dio” al singolare, lo compara e lo pone al di sopra degli Dèi al plurale. Inoltre egli parla di Dio al singolare e di Dèi al plurale alternativamente senza discriminazione in tutti I frammenti (…) Dunque il Dio uno di cui parla Senofane è il Dio-cosmo che non esclude ma ammette altri Dèi o enti divini (siano essi parti del cosmo o forze del cosmo o altre cose che dagli scarsi frammenti non si riesce a determinare»43

41 Ricordo che gli dèi greci, compreso Zeus, sono immortali ma non eterni. 42 SINI, 1, cit. 47. 43 Cit., 113- 114.

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6 – PLURALISTI: Empédocle e Anasságora - «I filosofi che vengono dopo l’Elatismo – scrive Abbagnano - tornano ad interessarsi del problema della natura. Tuttavia, anche per essi, Parmenide non è passato invano. Anzi, la loro filosofia rappresenta un primo tentativo di sintesi fra l’Eraclitismo e l’Eleatismo (come vedremo, il secondo tentativo sarà fatto da Platone). Da Eraclito e dalla scuola ionica essi accettano l’idea del divenire incessante delle cose. Da Parmenide accolgono invece il concetto dell’eternità ed immutabilità dell’essere. Ma come conciliare le opposte affermazioni del divenire delle cose e dell’eternità e immutabilità del vero essere? Questi filosofi risolvono il problema distinguendo nella realtà i composti (mutevoli) e gli elementi (immutabili). Essi ritengono, infatti, che le cose del mondo siano costituite di elementi eterni, ad esempio gli atomi (Democrito), che unendosi tra di loro danno origine a ciò che noi chiamiamo “nascita” e disunendosi provocano ciò che noi chiamiamo “morte”. In tal modo essi finiscono per giungere al principio secondo cui, in natura, nulla si crea e nulla si distrugge veramente, ma tutto si trasforma soltanto. Tali filosofi vengono anche detti Fisici pluralisti, in quanto ritengono che i princìpi della natura siano molteplici»44 - Dunque dopo Eraclito e Parmenide la filosofia torna ad occuparsi, come nella scuola jonica, del problema cosmologico, cioè della realtà fisica, ma deve comunque “fare I conti” con il pensiero dei due grandi filosofi. Deve cioè cercare di conciliare la dottrina eraclitea del divenire con quella parmenidea dell’essere: Parmenide dice che l’essere è immutabile ed eterno, Eraclito che la realtà è in perenne cambiamento. Come mettere d’accordo queste due tesi opposte? E, d’altro canto, come conciliare quello che ci dice la ragione (l’essere è e non può non essere, come afferma Parmenide) con quello che attestano i sensi (la realtà cambia di continuo, come dice Eraclito)? La soluzione adottata dai filosofi pluralisti è semplice e geniale: la realtà è composta da elementi che sono, come l’essere di Parmenide, eterni e immutabili; cambia invece il loro modo di combinarsi, che dà origine a tutte le cose sensibili45. E’ un po’ quello che accade in un caleidoscopio: le perline che esso contiene non cambiano mai, a cambiare sono invece le loro combinazioni, che danno origine a figure sempre diverse. Alla base della realtà, secondo i pluralisti, ci sono alcuni elementi (non uno solo come pensavano gli ionici) che non mutano mai; essi, combinandosi tra loro, originano tutte le cose. Queste combinazioni sono variabili, di qui la mutevolezza della realtà. ◊ EMPEDOCLE: nasce verso il 492 ad Agrigento e vive circa sessant’anni; oltre che filosofo è medico, guaritore, scienziato, mago, mistico. Uomo dalla fortissima personalità, partecipa anche alla vita politica nel partito democratico. Sulla sua morte circolano molte leggende, la più celebre delle quali afferma che sia caduto nel cratere dell’Etna. Scrive due opere, Sulla natura e Carme lustrale, delle quali restano numerosi frammenti. 44 ABBAGNANO, FORNERO, 1, cit., 57. 45 “Pluralismo2 la concezione per la quale il principio delle cose non è unico, ma molteplice; diversamente da Talete, Anassimandro e Anassimene, che avevano identificato un solo arché, i pluralisti pensano infatti che i princìpi siano molteplici (quattro per Empedocle, infiniti per Anassagora e Democrito).

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- «E’ – scrive Reale – il primo pensatore che cerca di risolvere l’aporia eleatica, tentando di salvare, da un lato, il principio che nulla nasce e nulla perisce e che l’essere sempre permane e, dall’altro, i fenomeni che l’esperienza ci attesta»46. Empedocle ritiene, accogliendo la dottrina di Parmenide, che “nascere” e “perire” intesi come venire dal nulla o andare al nulla siano impossibili47: essi devono perciò venire interpretati come un mescolarsi e un dissolversi di elementi eterni. Se una cosa nasce è perché gli elementi che la compongono si associano, se muore è perché si dissociano: «Un’altra cosa dirò –scrive -: non v’è nascita d’alcuna delle cose mortali, né termine di morte funesta; ma solo il mescersi e dissolversi di sostanze commiste v’è fra gli uomini e ha nome nascita»48. Dunque il nascere e il morire delle cose sono in realtà il mescolarsi e il disgiungersi degli elementi che le compongono. - Gli elementi che compongono la realtà sono secondo Empedocle quattro: fuoco, aria, terra, acqua49. Tutte le cose esistenti, dunque, derivano dal mescolarsi e dal disgiungersi di questi quattro elementi che sono dunque le “radici” (rizómata) della realtà; cambia il loro modo di combinarsi, e di conseguenza cambia la realtà sensibile, ma essi sono eterni, indistruttibili e immutabili. - I quattro elementi si uniscono e si disgiungono continuamente, dando così luogo a tutte le manifestazioni della vita, ma cosa li spinge a congiungersi e separarsi? Unione e divisione sono determinate, secondo Empedocle, da due forze cosmiche opposte, una che unisce e l’altra che disgiunge: le chiama, antropomorficamente, Amore e Odio. Esse sono eterne, come gli elementi e prevalgono ora l’una ora l’altra secondo cicli costanti determinati dal Destino. - C’è una fase in cui prevale completamente Amore e gli elementi sono tutti congiunti e raccolti insieme in un’unità indifferenziata, senza potersi distinguere l’uno dall’altro e quindi senza che possa esistere il mondo in cui viviamo. Empedocle chiama questa unità Sfero: ricorda molto la sfera di Parmenide. Quando prevale l’Odio gli elementi invece si disgiungono, senza nessuna possibilità di “incontrarsi”: ovviamente anche in questo caso non esiste la realtà del mondo. Perché essa possa costruirsi dev’esserci alternanza di Amore e Odio: il primo determina il nascere del cosmo, il secondo il suo distruggersi per dar vita a un altro cosmo. Ovviamente la perfezione è data dall’immobile, originaria unità dello Sfero.

46 REALE, 1, cit., 151. 47 «Fanciulli! Breve volo hanno i loro pensieri, essi credono che possa nascere ciò che prima non era, o che alcuna cosa perisca e si distrugga del tutto. Poiché non v’è mezzo che nulla sorga da ciò che prima non era, e che ciò che è perisca vana cosa sarebbe senza termine alcuno; infatti (l’essere) sempre sarà là ovunque ci si debba sempre arrestare»; ivi, 151-152. 48 Citato ivi, 152. 49 Perché Empedocle abbia creduto che gli elementi di base della realtà siano proprio quattro non si sa con esattezza: «Da un lato – spiega Reale – egli poté essere suggestionato dalla tetrade pitagorica, cioè dalla convinzione della natura privilegiata del numero quattro: ma fu certamente determinante la costatazione dell’esperienza, che sembra appunto attestare che tutto deriva da aria, acqua, terra e fuoco» (cit., 153).

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- Di grande interesse sono le riflessioni di Empedocle sul problema della conoscenza, uno dei più importanti della filosofia50. Secondo lui, dalle cose che ci circondano si sprigionano “effluvi” che colpiscono i nostri organi di senso, i quali li “riconoscono” in base al principio per cui “il simile conosce il simile”. Infatti tutta la realtà, come sappiamo, è fatta di acqua aria terra e fuoco, e anche l’uomo si compone di questi elementi: orbene il fuoco che è in noi conosce quello che viene (per “effluvio”) dalle realtà esterne e lo stesso accade con gli altri tre elementi: onde «con la terra scorgiamo la terra, con l’acqua l’acqua, con l’etere l’etere divino, con il fuoco il fuoco struggitore con l’Amore l’Amore, con la Contesa la Contesa dogliosa»51. - Quanto all’uomo e al suo destino, Empedocle riprende le dottrine orfico-pitagoriche: l’anima dell’uomo è uno spirito divino cacciato per una misteriosa colpa dal mondo beato degli dèi e “incarcerato” nel corpo e nel ciclo delle rinascite. Solo chi si sa purificare durante la vita può aspirare ad una nascita migliore nella vita futura e, infine, alla totale liberazione che porta al ricongiungimento con gli dèi. ◊ ANASSÁGORA: nasce a Clazomene, nella Jonia, verso il 500 a. C. e muore forse nel 428. E’ lui che introduce la filosofia ad Atene, città in cui vive per circa trent’anni. Uomo di grandissima sapienza ed erudizione, è autore di un’opera in prosa intitolata Della natura, della quale ci sono giunti alcuni frammenti. La sua libertà di pensiero, le sue tesi innovative, il suo metodo indipendente e moderno di ricerca, il suo nitido razionalismo suscitano la diffidenza degli ateniesi conservatori, che lo giudicano un pericoloso rivoluzionario e riescono a promuovere contro di lui un processo, accusandolo di “empietà”, per aver negato gli dèi e diffuso teorie empie sulla natura dei corpi celesti. Condannato, Anassagora fugge a Lampsaco dove poco dopo muore. - Anassagora vuole, come Empedocle, conciliare la dottrina parmenidea dell’immutabilità dell’essere con quanto ci testimoniano i sensi (cioè che la realtà è in perenne cambiamento). La soluzione che propone è analoga a quella di Empedocle: «Nessuna cosa – scrive - nasce e muore, ma a partire dalle cose che sono si produce un processo di composizione e divisione; così dunque dovrebbero correttamente chiamare il nascere comporsi e il morire dividersi»52. Dunque, anche per Anassagora la realtà è composta di elementi immutabili ed eterni, che danno vita a combinazioni sempre diverse, dalle quali deriva il mutare continuo della realtà. Diversamente da Empedocle, però, ritiene che questi elementi “di base” della realtà non siano solo quattro, ma “infiniti in quantità e numero”. Li chiama “semi” (spérmata)53 e afferma che sono infiniti perché

50 Il problema della conoscenza riguarda il modo in cui l’uomo arriva a conoscere la realtà che lo circonda e raggiunge il possesso della verità. E’ detto anche, con termine greco, gnoseologico, da cui il termine gnoseologia, che indica la branca della filosofia che se ne occupa e che può essere definita come segue: branca della filosofia che si occupa della conoscenza, di come l’uomo la acquisice e del valore che ha. 51 REALE, 1, cit., 157. 52 Ivi, 161. 53 Infatti da essi sono generate tutte le cose che esistono, come dal seme è generata la pianta.

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infinite sono le qualità delle cose che esistono. Si tratta quindi di piccolissime particelle di materia, invisibili, illimitate quantitativamente e qualitativamente diverse tra loro: I semi sono dunque infiniti e ci sono “semi” di ogni sostanza che esiste (oro, pietra, carne, osso, ecc.). I “semi” sono infinitamente divisibili perché la materia, secondo Anassagora, può essere divisa in parti sempre più piccole senza che si arrivi mai al nulla54. - I “semi” di Anassagora sono stati chiamati da Aristotele omeomeríe, che significa “parti simili”, «perché hanno gli stessi caratteri del tutto che entrano a costituire. L’oro, per esempio, è costituito in prevalenza da semi di oro; in esso però ci sono anche, in minore quantità, semi di tutte le altre sostanze»55. Ogni realtà che esiste è quindi costituita da una mescolanza di omeomerie: la sua qualità (che noi percepiamo) è determinata dal prevalere di questo o quel tipo di omeomeria: se ci sono più omemerie “di oro” avremo un oggetto d’oro, se ce ne sono più “di legno” avremo un oggetto di legno. In ogni cosa ci sono però, anche se in quantità piccolissima, tutti i tipi di seme; di qui la nota affermazione di Anassagora «Tutto è in tutto». - Questa presenza in ogni cosa degli elementi costitutivi di tutte le cose permette ad Anassagora di spiegare come sia possibile il nascere, il crescere e lo svilupparsi della realtà: dato che “tutto è in tutto” è possibile che tutto nasca da tutto. E’ una risposta precisa alla dottrina eleatica che negava il mutamento della realtà sostenendo che esso implica il non-essere (perché una cosa che cambia “non è più” quella che era prima). - In origine le omeomerie sono tutte mescolate insieme e nessuna cosa è perciò distinguibile dalle altre; da questa mescolanza caotica e confusa si generano poi tutte le realtà del mondo a causa del movimento. Questo movimento, turbinoso e potente, è impresso alla indifferenziata materia originaria da una divina intelligenza (Nous): «L’intelligenza, secondo Anassagora, ha prodotto nel caos primordiale dei semi un movimento turbinoso che per la sua rapidità ha fatto dividere le sostanze secondo l’opposizione del caldo e del freddo, della luce e dell’oscurità. Lo stesso movimento turbinoso ha fatto staccare, dalla terra, masse che si sono infiammate e, divenute così luminose, hanno formato gli astri e lo stesso sole»56 - Anassagora, come già Empedocle, affronta anche il problema della conoscenza, arrivando però a conclusioni opposte a quelle del suo predecessore: ritiene infatti che a produrre la sensazione non siano le cose simili, ma quelle dissimili: noi conosciamo dunque il caldo con la nostra componente “fredda”, il secco con la nostra componente “umida”, il dolce con l’amaro, ecc.

54 Anassagora dice espressamente, riprendendo la dottrina parmenidea, che ciò che è non può mai non essere. 55 ABBAGNANO, FORNERO, 1, cit., 59. 56 Ivi, 60. Il fatto che a muovere I semi sia l’azione di un intelletto divino fa ritenere che Anassagora ammettesse l’esistenza di un finalismo nella realtà (cfr. più avanti)

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7 - DEMOCRITO - La filosofia atomistica di Demócrito è certamente una delle più importanti nella storia del pensiero greco e ha un ruolo assai rilevante sia per la storia della filosofia sia per quella della scienza. Per questo, pur trattandosi di un sistema pluralistico, merita una trattazione separata - Democrito nasce ad Abdéra, in Tracia, verso il 460 a. C., dove succede a Leucippo nella direzione della locale scuola filosofica. Ha una vita molto lunga: muore infatti verso il 370, dopo avere – stando a quanto dicono le fonti antiche – viaggiato moltissimo, dall’Egitto alla Persia, dall’Etiopia all’India. Soggiorna anche ad Atene, dove però non riceve particolare considerazione; egli stesso afferma che lì «nessuno lo riconobbe». Democrito incarna in modo perfetto la figura del sapiente: stando a quanto affermano gli autori antichi, vive completamente assorto nelle sue ricerche, al punto, ironizza Orazio, da non badare al fatto che il bestiame entri nelle sue terre e danneggi le contivazioni. - Anche Democrito propone la distinzione cara a Parmenide tra realtà vera e apparenza: pensa infatti (come anche Eraclito) che sia compito del filosofo andare al di là di quanto mostra l’esperienza comune, cercando la più profonda (e inevitabilmente “nascosta”) verità dell’essere. Non afferma però, come gli Eleati, una divergenza inconciliabile tra sensi e ragione; pensa, al contrario, che esperienza e ragionamento si integrino e si completino vicendevolmente. La conoscenza parte infatti dai sensi, che forniscono i dati essenziali, e si perfeziona con la ragione, che rielabora quei dati approdando a una teoria capace di spiegare ciò che i sensi si limitano a mostrare. «Di conseguenza – spiega Abbagnano -, diversamente dal razionalismo estremo degli Eleati, secondo cui la ragione, senza tenere conto dei dati forniti dai sensi, anzi programmaticamente ignorandoli, può arrivare a conoscere la verità, l’atomismo ritiene che il compito dell’intelletto consista nel “dar ragione” di ciò che I sensi si limitano ad attestare»57. - Come Empedocle e Anassagora, Democrito ritiene che i princìpi della realtà siano molteplici, ma, diversamente dagli altri due filosofi, afferma che sono qualitativamente uguali: sono dunque tutti fatti della stessa materia, tutti della medesima qualità. Non esistono cioè elementi “di carne” o “di osso” come riteneva Anassagora, né acqua, aria, terra e fuoco come pensava Empedocle: alla base della realtà stanno elementi qualitativamente tutti identici. Questi princípi sono chiamati da Democrito atomi, che significa “indivisibili” (a-tomos, lett. “senza parti”); secondo lui è infatti assurdo pensare che la materia possa essere divisa all’infinito, come invece riteneva Zenone. - E’ opportuno sottolineare che Democrito arriva a formulare questa teoria non su base sperimentale, come accade per la moderna scienza dell’atomo: non disponeva infatti degli strumenti scientifici necessari per osservare la struttura profonda della realtà. La sua affermazione ha dunque una base puramente razionale, “filosofica”: nasce infatti dalla critica, a cui si accennava poc’anzi, della dottrina zenoniana dell’infinita divisibilità della materia. Secondo Democrito e i suoi seguaci, dividere la materia all’infinito significherebbe, alla fine, dissolverla nel 57 ABBAGNANO, FORNERO, cit., 64.

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nulla, il che è assurdo. Devono quindi esistere degli elementi di base assolutamente indivisibili, delle particelle minime che non possano essere ulteriormente scomposte (e che costituiscono il fondamento ultimo di tutta la realtà). - Oltre ad essere tutti uguali sul piano qualitativo gli atomi hanno, secondo Democrito, altre importanti caratteristiche: sono pieni, immutabili, eterni e ingenerati. - Dato dunque che gli atomi sono fatti tutti della stessa materia, le differenze qualitative che noi riscontriamo nella realtà58 derivano da differenze di forma, grandezza e disposizione degli atomi. In altre parole, se abbiamo “oro” e “acqua” non è perché esistano atomi d’oro o di acqua (sono infatti tutti uguali per qualità), ma perché la forma, la grandezza e la disposizione degli atomi (cioè i loro elementi quantitativi) ci fanno percepire in un caso l’acqua e in un altro l’oro. Le differenze qualitative della realtà sono così ricondotte a differenze quantitative59. - Proviamo a confrontare le concezioni di Anassagora e Democrito su questo punto. Ammettiamo di avere davanti agli occhi due oggetti, uno di legno e uno di metallo: per Anassagora in entrambi sono presenti tutti i tipi di seme, ma nel primo prevalgono i semi di legno, nel secondo quelli di metallo e questo spiega la loro diversa natura. Per Democrito, invece, gli atomi che compongono I due oggetti sono uguali, dato che non esistono, come abbiamo visto, atomi di legno, di metallo, di pietra. La differenza tra i due oggetti dipende dalle caratteristiche geometrico-matematiche degli atomi che li compongono: potremmo dire, per esempio, che gli atomi che compongono l’oggetto di legno hanno peso “x” e quelli che compongono l’oggetto di metallo hanno peso “y”. La differenza (qualitativa) tra l’oggetto di legno e quello di metallo non dipende dunque dal fatto che essi siano composti da elementi anch’essi qualitativamente diversi (di legno o di metallo), ma dal fatto che siano composti da elementi (qualitativamente identici) con caratteristiche geometrico-matematiche differenti: diverso peso, o volume, o spessore, o disposizione, ecc. - Gli atomi sono eterni, increati ed eterno e increato è, secondo Democrito, anche il loro movimento: è un movimento caotico in tutte le direzioni60, grazie al quale le particelle si uniscono e si disgiungono originando i molteplici oggetti che costituiscono la realtà. Dato che gli atomi

58 Cioè, per esempio, il fatto che una cosa sia “oro” e un’altra sia “acqua” o “ferro”, che una sia rossa e l’altra gialla, che una profumi e l’altra no, ecc. 59 Prende qui corpo una distinzione che avrà grande importanza nella storia della filosofia, quella tra qualità primarie e qualità secondarie. Le prime sono le proprietà effettive (realmente esistenti) della realtà, che si riconducono agli aspetti “quantitativi” (e quindi misurabili) di essa: estensione, forma, peso, superficie, disposizione, ecc.; le seconde sono invece gli aspetti “qualitativi” (e quindi non misurabili) della realtà: colore, odore, sapore. Ebbene, secondo D., le qualità che noi percepiamo nei corpi - le “secondarie” – nella realtà non esistono, esistono solo le primarie. Se noi percepiamo nelle cose colori, sapori ecc. differenti è perché in esse esistono differenze nelle qualità primarie. In altre parole, il fatto che noi vediamo un corpo come rosso o giallo non deriva dal fatto che esso sia realmente rosso o giallo, ma dalla diversa forma, misura, disposizione ecc. degli atomi che lo compongono (essi sono del resto tutti uguali sul piano qualitativo: non esistono atomi rossi o gialli, esistono solo atomi di diversa forma, misura o disposizione). Questa concezione è di grande importanza perché implica che la realtà può essere interamente ricondotta a dati misurabili (come detto, la qualità viene ricondotta alla quantità). 60 Le fonti antiche assimilano questo movimento degli atomi a quello del pulviscolo atmosferico che vediamo volteggiare, per esempio, quando i raggi solari filtrano da una finestra.

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sono infiniti, infinite sono anche le loro possibilità di aggregazione e combinazione: ecco perché, secondo Democrito, esistono infiniti mondi, che continuamente nascono, si sviluppano, muoiono e rinascono: pensare che esista un unico mondo è come credere che in una pianura ci sia un’unica spiga, afferma Metrodoro di Chio, discepolo di Democrito. Anche l’universo è infinito, secondo Democrito, perché è impossibile immaginare un limite oltre il quale non si possa procedere61. - Il movimento degli atomi, secondo Democrito, non obbedisce a nessun disegno razionale: questo significa che nella vita e nel divenire continuo del mondo non c’è una logica, non c’è un progetto razionale, non c’è ness un finalismo o piano provvidenziale: ogni fenomeno ha una causa, ma non uno scopo. Tutto è determinato dal fortuito associarsi degli atomi62. - Secondo Democrito gli dèi non hanno nessun ruolo nell’origine del’universo; da quanto si sa, pare anzi che egli pensasse che gli dèi sono solo la personificazione dei più impressionanti fenomeni naturali. - Questa particolare concezione del mondo e del divenire universale fa dell’atomismo la prima dottrina materialistica e meccanicistica della storia. Leggiamo in proposito quanto scrive Nicola Abbagnano: « (Il materialismo è) la concezione secondo cui la materia (insieme con il vuoto) costituisce l’unica sostanza e l’unica causa delle cose. Connesso a tale materialismo è l’ateismo. Pur ammettendo in qualche modo gli dèi, Democrito ritiene che alla base del mondo non vi sia alcuna Intelligenza … Parte integrante di tale materialismo ed ateismo è il meccanicismo. In generale, si dice finalistico o teleologico il metodo che consiste nello spiegare la realtà mediante la nozione di “fine”, “scopo”, “progetto divino”, ecc. Si dice invece meccanicistico o naturalistico il metodo che consiste nello spiegare le cose in virtù delle “cause” efficienti naturali che le producono, indipendentemente dal concetto di scopo. Per il finalismo comprendere un oggetto significa dunque chiedersi: “per quale scopo o progetto esiste o funziona in quel modo?” Per il meccanicismo spiegare un oggetto significa invece chiedersi: “in virtù di quale causa o legge di natura esiste o funziona in quel modo?” Ritenendo che le uniche realtà del mondo siano la materia, il movimento e le loro leggi, gli atomisti sono stati i primi a voler interpretare la natura con la sola natura, contrapponendo il concetto filosofico di “necessità meccanica” alle nozioni

61 E’ bene precisare che l’idea di un universo infinito e quella di infiniti mondi simili alla terra sono in ambito greco decisamente rivoluzionarie (anche se già presenti in Anassimandro). Per i Greci, infatti solo ciò che è finito è perfetto. Un altro aspetto decisamente rivoluzionario dell’atomismo democriteo è l’affermazione del moto originario degli atomi: essi sono in movimento per loro stessa natura, cioè il movimento è parte della struttura stessa della materia, non occorre ipotizzare cause specifiche per spiegarlo. 62 Ecco perché Dante definisce Democrito colui che “il mondo a caso pone” (cosa peraltro falsa perché escludere il finalismo non significa affatto affermare che le cose accadano “a caso”: per Democrito tutto ha una causa, anche se non ha un fine, e quindi la realtà non è certo dominata dalla casualità); è evidente la differenza con Anassagora, che sembra affermare l’esistenza di un finalismo nella realtà.

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popolari di “volontà degli dèi” o alle nozioni empedoclee e anassagoree, giudicate semi-mitiche, di “Amore e Discordia” e di Nous»63. - Come si diceva poc’anzi, la concezione democritea esclude che il divenire dell’universo obbedisca ad un disegno razionale, sia cioè lo svolgimento di un progetto tendente a un fine specifico. In questo senso si giustifica l’accusa di Dante dianzi ricordata. Tuttavia, va ribadito che Democrito non ritiene che gli eventi siano privi di causa, anzi, ognuno di essi è rigorosamente determinato da una causa. Insomma, tutto ciò che accade ha una precisa causa, ma non tende al conseguimento di alcun fine programmato o predeterminato. - Anche l’uomo, come tutte le cose che esistono, è per Democrito formato di atomi; lo stesso vale per l’anima, anche se gli atomi che la compongono sono particolari (di natura “ignea” e di forma “sferica”); tutto ciò che esiste è quindi materia; l’anima è materiale, come il corpo, e alla morte si dissolve (è quindi mortale anch’essa). - Sulla teoria degli atomi Democrito imposta anche il problema della conoscenza: le sensazioni dipendono a suo avviso dall’azione esercitata sull’uomo da “effluvi di atomi”: dai corpi di distaccano questi effluvi, composti di particelle simili ai corpi che le “rilasciano”, colpiscono i nostri organi di senso e di qui deriva la nostra conoscenza della realtà64. 8 - NASCITA DELLA FILOSOFIA MORALE - Come abbiamo visto, dal suo nascere fino alla prima parte del V sec. la filosofia è dominata dal problema cosmologico: da Talete a Democrito essa si incentra sulla ricerca di un principio che permetta di spiegare la realtà del cosmo. Solo il pensiero di Parmenide e della sua scuola fa eccezione, perché pone al centro del suo interesse una riflessione sulla natura dell’essere, sul problema dunque “ontologico” (e non su quello propriamente “cosmologico”) Resta comunque in ombra in questo primo periodo della filosofia greca la realtà dell’uomo: tutti i problemi che riguardano specificamente l’uomo (la virtù, le leggi, le norme dell’agire umano) sono sostanzialmente assenti65. Non è quindi ancora nata una vera e propria etica filosofica (o filosofia morale)66.

63 Cit., 67. Il termine “meccanicismo” deriva dal greco mechané, che significa “macchina”; esso designa dunque ogni concezione che fa del cosmo una macchina in cui ogni evento deriva da un altro (come negli ingranaggi degli orologi meccanici) . 64 Facciamo un esempio: se io vedo (cioè “conosco”) un pezzo di legno è perché un “effluvio di atomi” del legno colpisce l’organo del mio senso visivo. Lo stesso accade per gli altri quattro sensi. 65 Ovviamente queste problematiche non sono del tutto ignorate, come testimoniano ad esempio le dottrine pitagoriche sull’anima, il destino ultramondano dell’uomo, la metempsicosi (condivise da altri filosofi, come Eraclito o Empedocle). Si adottano tuttavia spesso soluzioni legate al pensiero religioso (orfico): il tema “uomo” non viene ancora posto al centro della riflessione più specificamente filosofica. 66 «L’etica o morale è quella parte della filosofia che studia il nostro comportamento e le norme cui esso obbedisce, sia descrivendo come di fatto agiamo sia prescrivendo come dovremmo agire» (ABBAGNANO, FORNERO, Le basi del pensiero, vol I, cit., 9). Dunque l’etica da un lato descrive il comportamento umano, cercando di spiegare perché l’uomo agisce in un certo modo, dall’altro definisce un codice di comportamento che deve gudare le azioni umane (“come dovremmo comportarci”).

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◊ E’ ovvio che tutti i popolli e le culture hanno convinzioni morali, norme di comportamento, regole di convivenza. Tuttavia, di filosofia morale in senso vero e proprio si può parlare solo quando si esce dall’analisi dei casi particolari per cercare “nessi e collegamenti universali e necessari” (Reale). In altre parole, non basta definire delle regole che stabiliscano cosa si può e cosa non si può fare in una specifica circostanza o in un determinato contesto perché si possa parlare di filosofia morale: occorre che si individuino dei criteri di valore universali (validi cioè sempre, ovunque, per ogni uomo) e necessari (cioè sicuri perché argomentati, derivanti da dimostrazioni e ragionamenti) dei quali le regole e i codici di comportamento siano la conseguenza logica e argomentata. Però, per stabilire criteri di questo tipo è indispensabile sviluppare prima una riflessione sulla natura dell’uomo, sulla sua essenza. Infatti, per stabilire che cosa sia la virtù (e cosa, al contrario, sia il vizio) bisogna prima analizzare l’uomo in quanto tale e definirne l’essenza. Si intende per essenza ciò che rende una realtà quella che è, differenziandola da ogni altra (l’essenza dell’uomo è ciò che fa sì che l’uomo sia uomo, differenziandolo da ogni altro essere; lo stesso vale per qualsiasi altra realtà: l’essenza è ciò che la definisce, ciò per cui essa è quella che è e non un’altra). La virtù dell’uomo è la realizzazione dell’essenza dell’uomo. Per definire la virtù dell’uomo occorre quindi definirne preliminarmente l’essenza. In sintesi: a) filosofia morale = determinazione della virtù; b) virtù = realizzazione da parte dell’uomo della sua essenza; c) filosofia morale = deve definire l’essenza dell’uomo e sulla base di questa definizione può determinare cosa per l’uomo sia bene e cosa sia male (stabilendo così delle norme di comportamento). - Assai prima che nasca la filosofia, in Grecia è presente una profonda “riflessione morale”: i poemi di Omero, per es., presentano un preciso ideale dell’uomo e delle sue virtù (eroismo, coraggio, saggezza, audacia,…); Esiodo nelle Opere e giorni, propone un’analoga riflessione, ponendo al centro tuttavia valori diversi, come la benevolenza, la mitezza, la disponibilità al sacrificio. Tutto questo però differisce radicalmente dalla filosofia morale: si tratta infatti di riflessioni di carattere intuitivo, basate sul buon senso, sulla tradizione, in altri casi sul vincolo della religione (si pensi alle norme della “vita orfica”). Non c’è un discorso organico, non c’è una fondazione razionale di quanto si afferma. La filosofia morale nasce solo quando al centro della riflessione filosofica viene posto l’uomo e razionalmente si cerca di derivare dall’analisi dell’uomo (cioè dalla definizione della sua “essenza”) il concetto di virtù e la conseguente tavola di valori. Con la sofistica l’uomo si pone al centro della riflessione filosofica e nasce la filosofia morale67. 9 - SOFISTI - Il termine “sofista” significa letteralmente “sapiente”; oggi, invece, ha assunto un valore negativo e indica chi, con ragionamenti capziosi, cerca di offuscare la verità e, allo stesso tempo, di dare valore a ciò che è falso, facendolo artificiosamente apparire vero. In sostanza, il sofista è 67 In altri termini si può dire che la questione antropologica prende il posto di quella cosmologica.

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una persona che usa abilmente il ragionamento per imbrogliare gli altri. In realtà, i sofisti hanno grandissimi meriti dal punto di vista storico, perché hanno per primi posto il problema-uomo al centro della riflessione filosofica, sostituendolo al problema-cosmo. Quali sono i motivi di questo spostamento dell’interesse? Innanzitutto la filosofia “cosmologica” era giunta ad un punto morto: era in pratica stato detto tutto e il contrario di tutto (monismo, pluralismo, essere, divenire, meccanicismo, finalismo, ecc.) Inoltre, nel V sec. a. C., maturano nuove condizioni sul piano storico, sociale e politico: l’aristocrazia è in crisi, cresce il potere del popolo, entrano in crisi i valori tradizionali (insieme alla classe che ne è portatrice, appunto l’aristocrazia). E’ soprattutto rilevante la possibilità, che si apre a cerchie più ampie della popolazione, di accedere al potere: emerge di conseguenza l’idea che la virtù non sia per forza legata alla “nascita” (alla nobiltà) ma che possa essere imparata (e quindi anche insegnata). Il sofista è proprio il maestro di coloro che vogliono emergere nella vita politica, nella nuova realtà politica in cui ciò che conta non è più la nobiltà della nascita, ma sapere efficacemente esprimere (e far valere) per proprie opinioni. Il sofista, quindi, non è più un “ricercatore solitario”: è un pedagogo, un maestro, un educatore, che viaggia di città in città per offrire (e vendere) i suoi servigi. - Come si diceva, nel linguaggio corrente, “sofista” ha un valore negativo, mentre in origine il significato era assai positivo poiché indicava un uomo sapiente. L’accezione negativa diventa popolare forse già a partire da Socrate, certo con il suo discepolo Platone (al quale più tardi si aggiunge nella condanna Aristotele). Di che cosa sono accusati i sofisti? a) Di proporre un sapere apparente, non vero; b) di lucrare, professando la loro filosofia per amore di denaro e non di verità. Anche l’opinione pubblica non li vede molto bene, perché li giudica un pericolo per la religione e valori morali tradizionali. Oggi la storia della filosofia li ha ampiamente rivalutati e, anzi, considera il loro contributo essenziale per la storia del sapere. - I sofisti operano dunque una vera rivoluzione nella filosofia greca; la filosofia “naturalistica”, quella dei “fisici” era ormai bloccata nelle sue contraddizioni: ai sofisti va il merito di avere spostato il discorso dal cosmo all’uomo. Nasce quindi con loro il periodo “umanistico” della filosofia greca: in primo piano vengono poste infatti le scienze dell’uomo: etica (morale), politica, retorica, arte, educazione (pedagogia). Non cercano più l’arché, il principio della vita cosmica, ma concentrano la loro attenzione sui problemi della virtù, dello Stato, delle leggi, della religione, dell’educazione. Sono, sotto ogni punto di vista, figli del loro tempo, dell’Atene del V secolo, una città che, uscita trionfalmente dalle guerre persiane, avvia la straordinaria esperienza della costruzione (unica nel mondo antico) di uno stato democratico. E’ l’Atene in cui emerge la borghesia, mentre perde potere l’aristocrazia, un’Atene aperta ai traffici ai commerci, dinamica e orgogliosa di se stessa. La democrazia è il presupposto imprescindibile della sofistica e l’ambiente entro il quale essa ha modo di nascere ed esprimersi. Democrazia vuol dire innanzitutto esprimere le proprie opinioni: in assemblea: è ovvio che essere capaci di farsi valere nel dibattito, di argomentare efficacemente, diventano doti essenziali e ricercatissime per emergere. Soprattutto i

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giovani delle famiglie piú in vista cercano qualcuno che insegni come fare carriera nel mondo della politica, che insegni cioè la politikè téchne, la “tecnica (o meglio l’arte) della politica”, che in democrazia consiste nella capacità di dibattere (dialettica) e nell’arte oratoria (retorica). A questo provvedono i sofisti, che sono in primo luogo quindi degli insegnanti: per questo devono farsi pagare, non avendo altre possibilità di guadagno. - Apparentemente lo studio nelle scuole sofistiche si riduce alle tecniche per far prevalere la propria opinione su quella degli avversari. Ma fin dall’inizio è chiaro che l’insegnamento della politikè téchne comporta una serie di problemi di grande importanza filosofica. Le tecniche di convincimento, che vengono elaborate, mettono in crisi il concetto stesso di verità oggettiva; si scopre il potere persuasivo della parola nei rapporti umani, mentre la radicalizzazione delle posizioni e del dibattito porta alcuni fino al pessimismo gnoseologico (non è possibile conoscere nulla) e al nichilismo ontologico (nulla esiste). Ecco che la sofistica diviene qualcosa di più del semplice insegnamento della dialettica e della retorica: diviene riflessione sulla natura stessa della verità, sulla conoscibilità del reale, sull’esistenza stessa delle cose. Il più importante dei sofisti è Protagora (V sec. a. C.) ◊ PROTAGORA afferma che “L’uomo è misura di tutte le cose, delle cose che sono in quanto sono, delle cose che non sono in quanto non sono”. Il significato di questa celebre massima è molto discusso: alla lettera sembra voler dire che l’uomo è l’unico giudice di ciò che è reale e di ciò che non lo è, del vero e del falso; per questo Protagora è ritenuto il “fondatore” del relativismo occidentale68. Egli sembra dunque affermare che non esiste un criterio assoluto per distinguere il vero dal falso e il bene dal male, per discriminare cioè i valori: il criterio è solo l’uomo, il singolo uomo. P. ha anche affermato che “intorno ad ogni cosa ci sono due ragionamenti che si contrappongono fra loro”: questo significa nuovamente che la verità non esiste perché su qualsiasi cosa è possibile dire e contraddire. Probabilmente si tratta di uno strumento “tecnico” che P. usava nel suo insegnamento: addestrava gli allievi a produrre argomenti favorevoli e contrari su uno stesso argomento, “allenandoli” soprattutto a sostenere le tesi più deboli. Insomma, cercava di rendere i suoi allievi capaci di far prevalere nella discussione anche l’argomento meno fondato. Non dobbiamo però concludere da quanto precede che P. sia arrivato ad una filosofia che, perché relativistica, giustificasse tutto, ammettendo qualsiasi comportamento. P. credeva infatti in un criterio di scelta, quello dell’utilità, intesa come il bene del singolo e della società. “Buono” sarà dunque quello che giova alla comunità, “cattivo” ciò che le nuoce. Ciò che, nel corso del tempo, si è dimostrato utile per gli uomini è il bene: alla

68 Il termine relativismo ha ambiti di applicazione differenti: in senso generale esso significa negare che esista una verità assoluta, o meglio che esistano criteri assoluti per definire cosa sia vero e cosa no, cosa sia bene e cosa male. In senso etico, relativismo significa affermare che non ci sono valori assoluti sul piano morale, cose assolutamente buone o cattive: tutto è relativo a chi giudica e quindi condizionato a un certa situazione, a una certa cultura, educazione, ecc.

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concezione tradizionale del bene come una realtà assoluta, data e definita una volta per sempre, P. oppone dunque la concezione del bene come qualcosa che va verificato nel concreto della storia e della vita dei gruppi umani. E’ chiaro che questa concezione presenta un limite: può valere solo per ciò che nel passato si è già verificato, non per qualcosa di completamente nuovo. 10 - SOCRATE (470-399 a. C.) ◊ S. non scrisse nulla69. Ciò che di lui si sa proviene da testimonianze di autori contemporanei o che dai contemporanei le traggono (è questa la cosiddetta “questione socratica”). Le testimonianze sono però assai contraddittorie. Questo pone gravi problemi interpretativi. Testimoni principali (e loro limiti): - Aristofane, Le Nuvole: accusa violentemente S. di avere un influsso nefasto sui giovani - Platone: S. è il protagonista della maggior parte dei suoi dialoghi ma occorre cautela perché:

a) Platone “mitizza” S. facendone il perfetto ideale di umanità (spesso sembra più un simbolo che un uomo reale); b) Platone fa esprimere a S. la sua dottrina, della quale buona parte non va invece riferita a S. ma alla personale riflessione platonica.

- Senofonte: manca di spessore speculativo. Il suo S. è assai “ridotto”. - Aristotele: non è contemporaneo Occorre dunque tenere criticamente conto di tutte le fonti e, soprattutto, porre in rilievo quelle dottrine che prima di S. non sono attestate e dopo sì. Ci sono infatti novità di enorme portata nella filosofia post-socratica ◊ Socrate si oppone al relativismo sofistico, ponendo la domanda “che cosa è?”, che implica l’esistenza di una verità oggettiva al “che cosa è per te?” dei sofisti, che presuppone invece il relativismo. Con questa domanda Socrate dà un significato nuovo alla dialettica: se per i sofisti essa era uno strumento per far prevalere un’opinione sull’altra, con Socrate diventa strumento di ricerca e fonte di conoscenza della verità. S. condivide tuttavia l’atteggiamento critico dei Sofisti nei confronti della filosofia cosmologica della scuola ionica. I risultati contrastanti ai quali ha portato la speculazione dei “fisici” dimostrano, secondo lui, che quella filosofia è al di fuori delle possibilità umane. Il vero problema al quale la filosofia deve dedicarsi è, per S. come per i Sofisti, l’uomo. ◊ I Sofisti sono caduti in grosse contraddizioni, secondo S., perché hanno voluto parlare dell’uomo senza definirne l’essenza. S. si pone quindi alla ricerca di questa essenza e alla domanda “cos’è l’uomo?” risponde: “l’uomo e’ la sua anima”. Infatti è l’anima che distingue l’uomo dagli altri viventi. Anche prima di S. in Grecia si era parlato di “anima” (psyché), tuttavia nessuno intendeva

69 “Rifiutava la scrittura perché fossilizza la ricchezza e la dinamicità del pensiero umano e sottrae all’uomo la possibilità del dialogo e della trasformazione” (Ardiccioni).

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con questo termine ciò che S. e, dopo di lui, tutto il pensiero occidentale hanno inteso. Qualche esempio: per Omero l’anima è solo un “fantasma”, una larva che vaga inconsapevole e desolata nell’Ade; per l’Orfismo è sì il dáimon, principio divino imprigionato nel corpo, ma non si identifica con la coscienza, anzi è reale e “libera” solo se si allontana da essa, se si distacca completamente dall’individuo; per i filosofi “fisici” è solo un impersonale frammento dell’arché, una sua “parte”. La novità assoluta del concetto socratico dell’anima è che essa coincide con la nostra coscienza, col nostro io pensante (intelletto) ed operante (volontà-azione). ◊ I Sofisti, come s’è detto, non avevano saputo indicare quale fosse l’essenza dell’uomo, quindi non avevano neanche saputo identificare il fine dell’uomo, la sua virtù (areté)70 Socrate invece, definendo l’essenza dell’uomo, è in grado di precisarne anche la virtù. Se l’essenza dell’uomo è l’anima, la virtù è ciò che permette all’anima di realizzarsi, di svolgere al meglio la sua attività propria. Abbiamo visto che per Socrate l’anima coincide con l’io cosciente, pertanto risulta ovvio che la virtù è la conoscenza ed i l vizio è la non-conoscenza, cioè l’ ignoranza. Riassumendo: a) essenza dell’uomo = anima; b) anima = coscienza; c) virtù = realizzazione della natura propria di una cosa (che nel caso dell’uomo è l’anima); d) virtù dell’uomo = conoscenza. Dunque la conoscenza è ciò che permette all’anima, essenza dell’uomo, di realizzarsi, dato che anima = coscienza. Con queste affermazioni, S. ribalta la tradizionale tavola dei valori greca: veri valori non sono quelli del corpo (bellezza, forza, piacere) o quelli comunque esteriori ( ricchezza, potere), ma quelli dell’anima. Non c’è però ancora la contrapposizione radicale tra anima e corpo che troveremo in Platone (e che è già presente nell’orfismo). ◊ Dunque per S. virtù è conoscenza e vizio è ignoranza; ciò implica che chi fa il male lo fa perché non sa cosa fa, non perché vuole fare il male pur sapendo che è tale. In altre parole, nessuno è malvagio volontariamente. S. disconosce quindi il ruolo che nell’azione morale ha la volontà (bisogna infatti voler fare il bene, non basta sapere che cosa è il bene per farlo; esistono componenti irrazionali che possono farci agire in modo diverso da quello indicatoci dalla ragione). Che conoscere il bene sia condizione necessaria per farlo è vero, ma non è, come ritiene S., condizione sufficiente: nell’azione morale la volontà ha lo stesso peso della conoscenza. La volontà è anzi la cosa più importante (come, per es., il cristianesimo chiaramente afferma). Tutta l’etica greca è intellettualistica, sopravvaluta cioè l’importanza e il potere della ragione. Si parla dunque per l’etica socratica di “Intellettualismo etico” (che ne costituisce il limite maggiore).

70 Il termine greco areté è solo impropriamente tradotto dall’italiano “virtù”, esso indica infatti ciò per cui ogni cosa “disimpegna nel modo migliore l’attività che le è peculiare”: ogni cosa ha una sua attività specifica (p. es. coltello = tagliare) l’areté di una cosa è il miglior modo che quella cosa ha per esplicare la sua attività specifica: l’areté del coltello è “tagliare bene” (Reale)

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◊ Nonostante questa difficoltà di fondo, l’etica di S. propone alcuni concetti che poi resteranno fondamentali nello sviluppo del pensiero morale: - concetto di autodominio (enkráteia); indica il dominio di sé, vale a dire il saper rendere la

ragione padrona degli istinti, degli impulsi più bassi e materiali, legati al corpo. - solo l’uomo che possiede l’enkráteia è l ibero; nuovo concetto della libertà (eleuthería): non

più intesa in senso giuridico e politico, ma in senso morale. Libertà come dominio sulle passioni.

- S. mette in rilievo anche il concetto di autarchia (autárchia). Lo uomo virtuoso è “autarchico” perché non dipende dai suoi bisogni fisici, che controlla con la ragione. Chi si abbandona alle passioni non è autosufficiente, dipende dagli altri, dall’oggetto dei suoi desideri. Solo il saggio ha il completo totale controllo di sé. L’ideale dell’eroe che con le sole sue forze riesce in grandi imprese, proprio della tradizione greca (come Ercole) viene così interiorizzato.

◊ Il concetto socratico di felicità (eudaimonía) deriva da tutto ciò che s’è detto: felice è solo il saggio, colui cioè che, obbedendo solo alla ragione, consegue il pieno dominio delle passioni. Non in ricchezze e onori sta la felicità, ma nel possesso di un patrimonio tutto interiore. ◊ Di fondamentale importanza nella storia del pensiero occidentale è il METODO socratico: S. vuole contrapporre un nuovo metodo di ricerca filosofica a quello dei sofisti, i quali insegnavano come si potesse convincere l’ascoltatore praticamente di qualsiasi cosa, aggirandolo con discorsi gonfi di retorica (con citazioni di poeti e saggi del passato) e con ragionamenti capziosi e ingannevoli. Secondo S. il compito del filosofo è ben diverso: non deve “arringare” l’ascoltatore per convincerlo di presunte verità “prefabbricate”: deve invece aiutarlo a giungere da sé alla verità, favorendone in tal modo lo sviluppo spirituale. Questo obiettivo non si raggiunge con grandi discorsi, ma con un ricerca comune, nella quale sono coinvolti sia il maestro che l’allievo: essa si basa quindi sul dialogo, un procedere per domande e risposte alla ricerca della verità, che non è un dato a-priori (cioè “già pronto”), ma il risultato di un lungo e faticoso cammino. E’ questa la dialettica socratica. ◊ Alla base della dialettica di S. si pone l’affermazione di non-sapere. Da essa S. prende sempre le mosse: non vuole infatti (come si è detto) essere un maestro che si ritiene già in possesso della verità e la fa perciò discendere dall’alto sull’allievo che si deve limitare ad accoglierla (come fanno i sofisti); S. premette ad ogni suo discorso di “non sapere”, di essere solo una “guida” per chi vuole intraprendere il cammino che porta alla verità e non il depositario della verità stessa. E’ chiara qui la polemica con i sofisti che si ritenevano depositari del vero assoluto71.

71 La consapevolezza di non sapere è la premessa di qualsiasi ricerca della verità: solo chi “sa di non sapere” ricerca il sapere; chi è convinto di possederlo non ha motivo di ricercarlo.

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◊ Dunque S. si professa “ignorante”, ma si tratta, evidentemente, di uno stratagemma grazie al quale vuole in qualche modo disorientare il suo interlocutore. Infatti, per costruire un vero sapere, bisogna prima di tutto sgomberare il campo da ogni falsa conoscenza e da ogni pregiudizio: è proprio questo che S. si propone di fare con la prima parte del suo metodo, l’ironia. Possiamo chiamare questa prima parte del metodo socratico pars destruens, ovvero “parte distruttiva”, perché con l’ironia S. vuole appunto distruggere le pretese conoscenze dell’ascoltatore, dimostrandone la falsità. Va sottolineato che in greco eironéia (da cui deriva “ironia”) vuol dire, “dissimulazione”, “finzione”, “scaltrezza”, con un significato quindi diverso dall’italiano corrente: il termine indica pertanto la finzione messa in atto da S.: facendo finta di “non sapere” e di essere interessato alle tesi del suo interlocutore, con una lunga e “mirata” serie di domande il filosofo ne scardina le convinzioni, conducendolo a riconoscere la propria ignoranza. ◊ Ovviamente, alla pars destruens deve fare seguito una pars costruens: dopo avere distrutto il falso sapere bisogna cioè costruire quello vero. Purificata da ogni falso sapere, l’anima è pronta per raggiungere la verità, ma questa verità non può essere qualcosa che il maestro comunica al discepolo: spetta a lui trovarla dentro di sé. La dialettica di S. quindi propone un nuovo approccio alla ricerca: all’ironia (distruttiva) deve fare seguito la maieutica (costruttiva). Il verbo greco maiéuomai, da cui deriva questo termine, indica l’opera della levatrice, dell’ostetrica che aiuta la donna a partorire. Orbene, proprio come una levatrice aiuta la donna a partorire (ma non partorisce al suo posto) così S. si propone di aiutare il discepolo a “partorire” la verità da solo, ritrovandola dentro di sé. Eliminate grazie all’ironia le false credenze, la verità è pronta per venire a galla: il maestro si limita quindi a stimolare l’allievo con domande a ripetizione finché egli, da solo, non raggiunge la verità. S. appare così come un vero e proprio “ostetrico dell’anima”. Tutto ciò implica, ovviamente, che ogni uomo sia “gravido” di verità e che quindi la verità esista e sia universale ed unica, contrariamente a quanto affermavano I sofisti. 11 - ARISTOTELE (384-322 a. C.) ◊ Dalle prime posizioni ancora platoniche A. si distacca progressivamente; la critica che egli muove al suo maestro concerne soprattutto la dottrina delle idee. Platone concepiva le idee come essenze delle cose SEPARATE dalla realtà sensibile, viventi cioè in un mondo distinto (il “Mondo delle idee” o “Iperuranio”) A. dice che queste essenze “separate” non possono spiegare l’esistenza delle cose di cui sono in realtà solo un inutile “doppione”. Quindi A. concorda con Platone sul fatto che esistono essenze eterne ed immutabili delle cose (e che non c’è conoscenza se non di ciò che è eterno ed immutabile), ma questo elemento universale, questa essenza delle cose deve esser posta nelle cose stesse non al di fuori di esse. Il

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principio che fa sì che una cosa sia ciò che è (cioè la sua “essenza”) deve essere nella cosa, non al di fuori di essa; di più: se non è unita alla cosa, tale essenza non ha senso. Perciò: no alla separazione tra cose ed essenze: le essenze sono dentro le cose, non fuori di esse. ◊ A. chiama l’essenza non “idea” come Platone, ma “FORMA” e dice che tutta la realtà è costituita da forma + materia. Ogni oggetto reale (con la sola eccezione di DIo, come si vedrà) è dunque l’unione (sinolo) di forma e materia. Questa concezione è detta “i lemorfismo”, dai termini greci hyle (= materia) e morhpé (forma). La forma è dunque l’essenza, la materia il substrato costitutivo della realtà: la forma è “ciò per cui una cosa è quella che è” (l’essenza), la materia è invece “ciò di cui” una cosa è composta. ◊ Centrale è in A. la classificazione delle scienze. Egli distingue SCIENZE TEORETICHE, SCIENZE PRATICHE e SCIENZE POIETICHE: - Le scienze teoretiche sono le conoscenze puramente contemplative, quelle cioè fini a se stesse: sono il “sapere per sapere”. - Le scienze pratiche sono invece quelle conoscenze finalizzate a guidare le nostre azioni, volte cioè ad indicarci cosa è bene e cosa è male: sono il “sapere per agire”. Scienze pratiche sono l’etica e la politica. - Le scienze poietiche riguardano anch’esse l’azione, ma l’azione volta alla produzione di qualcosa di concreto (mentre le scienze pratiche concernono l’azione in se stessa): si tratta delle ARTI e delle TECNICHE (A. analizza una sola arte, la POETICA). La forma suprema del sapere è la teoretica, perché è pura, disinteressata contemplazione del vero, conoscenza ricercata in quanto tale, prescindendo da qualsiasi (eventuale) applicazione pratica. E’, cioè, la conoscenza che l’uomo ricerca per il puro piacere di conoscere, di contemplare la verità. ◊ Scienze teoretiche sono: - la METAFISICA (o FILOSOFIA PRIMA) - la FISICA - la MATEMATICA La metafisica ha come oggetto le cause prime, ciò senza di cui le cose non sarebbero, ciò che resta immutabile nel mutare continuo della realtà (è studio dell’essere immutabile). E’ quindi lo studio della realtà che sta al di là del mondo fisico, la realtà sovrasensibile. Essa si pone al vertice delle scienze perché non ha un oggetto particolare ma ha per oggetto l’essere in quanto essere. La fisica studia invece la realtà mutevole, cioè quella sensibile, caratterizzata in primo luogo proprio dal movimento: il suo oggetto è dunque l’essere come movimento.

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La matematica è scienza di ciò che è, come la realtà metafisica, immutabile ma che non ha esistenza propria, poiché è un’astrazione della mente. Il suo oggetto è infatti l’essere come quantità. Dunque solo la metafisica si occupa dell’essere in quanto essere: tutte le altre scienze analizzano aspetti particolari dell’essere. ◊ Nello schema appena visto, in base a quale A. classifica le scienze, manca la LOGICA: essa infatti non ha come oggetto qualcosa di particolare, di diverso dalle altre scienze: suo oggetto è il discorso, il ragionamento, più precisdamente la forma che un ragionamento deve avere, a prescindere dal suo contenuto, per essere corretto (e quindi dimostrare qualcosa). Più che una scienza a sé stante, dunque, la logica è lo strumento di cui si servono tutte le scienze. Ecco perché Alessandro di Afrodisia “ORGANON” (cioè strumento)l’insieme degli scritti logici di A: essa infatti studia la struttura del ragionare in quanto tale e perciò è alla base di qualsiasi scienza, di qualsiasi discorso scientifico: senza logica nessuna scienza è possibile. ◊ La logica definisce innanzitutto i principi fondamentali del ragionamento, comuni a tutte le scienze. Si tratta di quei principi di base che ogni ragionamento, qualsiasi argomento tratti, deve rispettare per essere corretto, per “funzionare”. A. ne individua tre: principio di IDENTITA’, principio di NON CONTRADDIZIONE, principio del TERZO ESCLUSO. Identità: A≡A (ogni concetto equivale a se stesso). Non-contraddizione: non è possibile affermare e negare somultaneamente la medesima cosa (A≠NON A). Terzo escluso: di due giudizi (vedi più sotto la definizione di giudizio) contraddittori, uno è per forza vero, non c’è una terza possibilità. Questi principi primi sono condizioni fondamentali di ogni ragionamento: sono quindi indimostrabili, perché ogni possibile dimostrazione li presuppone. ◊ In secondo luogo la logica definisce gli elementi da cui il ragionamento è formato: il ragionamento si basa innanzitutto sui concetti, ai quali corrispondono nel discorso i termini. Perché ci sia ragionamento, però, i termini-concetti devono essere posti in relazione tra loro: termini isolati non costituiscono ragionamento. La connessione dei termini costituisce il giudizio: in esso si predica qualcosa (predicato) di qualche altra cosa (soggetto) tramite un verbo che nega o afferma. Esempio: cane – animale = termini staccati; “Il cane è un animale” = giudizio72

72 Si definisce giudizio, quindi, ogni proposizione nellaquale vi siano un soggetto e un predicato, nella quale si assegni (o si neghi) un predicato ad un soggetto. Non sono pertanto giudizi gli ordini, le imprecazioni, le preghiere, ecc. (ovvero tutte le proposizioni in cui non vi sono soggetto e predicato).

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◊ Secondo A., ogni termine del giudizio è riconducibile a dei “generi supremi”, che chiama CATEGORIE: ogni termine infatti indica o la sostanza o una delle altre categorie: qualità, quantità, relazione, dove, quando, essere in una posizione, avere, fare, partire. Prima categoria è la SOSTANZA perché di ogni cosa sulla quale esprimiamo un giudizio diciamo innanzitutto che essa è, che essa è una realtà. La predicazione poi comporta che alla sostanza si attribuiscano ulteriori determinazioni (= attributi) riconducibili alle altre categorie: es: il cane è: nero (qualità) grosso (quantità) più veloce di una lumaca (relazione) qui a casa mia (luogo), ecc. Gli accidenti quindi sono tutti i predicati attribuibili ad un certo qual soggetto (che è invece la sostanza). Questo sul piano logico, sul piano cioè del pensiero. ◊ Molto importante è però ricordare che per A. la distinzione tra sostanza e accidente (quindi le categorie) non ha valore solo sul piano del pensiero, ma anche sul piano della realtà, dell’essere (cioè cul piano ontologico); le categorie, sostanza e accidente, non sono infatti soltanto le classi a cui sono riconducibili i termini del discorso: esse SONO ANCHE I MODI GENERALI DELL’ESSERE, DELLA REALTA’. Hanno cioè un valore non solo logico, ma anche ontologico. In altre parole, non sono solo il modo in cui noi pensiamo la realtà, ma modi di esistere della realtà stessa. La sostanza è ciò che esiste autonomamente, ciò che non necessita di altro per esistere; l’accidente è invece ciò che esiste solo in funzione di altro, cioè della sostanza- Per esempio, l’ “essere cane” è sostanza, esiste autonomamente, l’essere nero, invece, è accidente perché esiste soltanto in funzione di una sostanza a cui si “appoggia” (l’essere nero del cane, di un muro, di un oggetto, ecc.; si tratta di una qualità e la qualità è sempre qualità di qualche cosa, cioè della sostanza). - Riassumendo: alla distinzione sul piano logico, per cui in un giudizio individuiamo il soggetto (sostanza) e il predicato (accidenti) corrisponde sul piano ontologico analoga distinzione tra sostanza (l’essere autonomo) e accidente (l’essere che esiste solo in funzione di altro, cioè della sostanza). SOSTANZA è quindi ciò che ha una propria sussistenza, ciò che è in sé e per sé, che è autonomo, che esiste senza bisogno di nient’altro; ACCIDENTE è invece ciò che esiste solo in riferimento a qualcos’altro, che non è autonomo, essendo una determinazione di qualcos’altro <il “qualcos’altro” è la sostanza>. Sono questi I primi due due modi fondamentali dell’essere: SOSTANZA e ACCIDENTE. Sostanza è ciò che sussiste da sé, accidente è ciò che inerisce alla sostanza. Un altro esempio: sostanza è l’oro, accidenti sono tutte le sue proprietà: colore, sapore (se ne ha uno ...), temperatura, posizione, forma dell’oggetto, peso, ecc. Posso dunque avere un anello d’oro, posso averlo in tasca o sul comodino, può essere freddo o caldo, ecc. E’ evidente che gli accidenti sono proprietà che possono esserci o no (sono, “casuali”, accidentali, some dice il nome), mentre la sostanza è l’essenziale ciò che “non può non esserci”. Tornando all’esempio, l’oro è la sostanza perché è ciò che fa da “base” a tutte le altre proprietà. L’essere oro ha una

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sussistenza autonoma, l’essere giallo, freddo, caldo, sul comodino, in tasca, ecc. Sussiste solo in relazione ad una sostanza che sia gialla, fredda, calda e così via. ◊ Se noi ci limitiamo a formulare giudizi, a negare cioè o affermare qualcosa di qualcos’altro non ragioniamo ancora (né del resto ragioniamo quando formuliamo un elenco di giudizi sconnessi tra loro, non collegati). Ragionare è passare di giudizio in giudizio seguendo un nesso logico, collegando cioè tra di loro le proposizioni in modo tale che le une siano premesse delle altre. Il si l logismo è il ragionamento perfetto, quello in cui la conclusione scaturisce necessariamente dalle premesse. Nella sua forma più elementare, il sillogismo è formato da tre giudizi, dei quali I primi due sono le premesse (note) il terzo la conclusione (non nota): dati i primi due giudizi, il terzo scaturisce “automaticamente”, senza bisogno di ulteriori passaggi. Nella conclusione vengono collegati tra di loro quelli che A. chiama gli “estremi”; sono i due termini presenti nelle premesse separatamente ed uniti nella conclusione. Tale “unione” degli estremi nella conclusione è resa possibile dalla presenza in entrambe le premesse di un termine comune, detto “medio”. Un esempio: “tutti gli uomini sono mortali”= premessa 1 (premessa maggiore) “Socrate è uomo” = premessa 2 (premessa minore) “Socrate è mortale” = conclusione “termini estremi” = “mortale” e “Socrate” “termine medio” = “uomo” ******************************************************* ◊ S’è detto che A. contesta la dottrina platonica delle idee perché essa pone le essenze come realtà staccate delle cose: A. nega che le essenze (forme) abbiano un’esistenza separata dalla materia; nega anche che la materia possa esistere senza forma. Tutto ciò che esiste è quindi sinolo (cioè “unione”) di materia e forma. Ne deriva che la realtà non è né sola forma né sola materia ma l’unione delle due, il sinolo (tranne Dio, che è pura forma, priva di materia). ◊ La materia, in quanto è sostrato indefinito, capace di ricevere una forma può anche essere definita “ENTE IN POTENZA”: la forma che interviene a determinare la materia costituendo così il sinolo è invece “ENTE IN ATTO”. Ecco la coppia POTENZA/ATTO a fianco di quella materia/forma. E’ questa una delle più importanti dottrine di A.: abbiamo quindi due ulteriori modi dell’essere (prima avevamo menzionato l’essere come sostanza e l’essere come accidente): l’essere in potenza e l’essere in atto. Essere in potenza è “ciò che una cosa può diventare”, essere in atto è “ciò che una cosa effettivamente è”. Per esempio, un pezzo di legno è in atto

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quello che è, in potenza un tavolo o una sedia. Un seme è in atto un seme, in potenza un germoglio; un bambino in atto è un bambino, in potenza un uomo adulto. ◊ Abbiamo detto più volte che tutto ciò che esiste è unione di materia e forma. E’ dunque anche unione di potenza e atto, dato che Aristotele collega la materia alla potenza e la forma all’atto: ciò significa che tutto ciò che esiste per un verso è già qualcosa di definito (in atto), ma per un altro tende a diventare qualcosa di diverso (in potenza). Quindi in ogni realtà c’è un potenzialità da realizzare (tranne che in Dio, puro atto privo di potenza; essendo la perfezione suprema, Dio non ha alcuna potenzialità da attualizzare; del resto, Dio è forma priva di materia, come abbiamo detto più sopra e, essendo la materia collegata alla potenza, si comprende come Dio sia privo di potenza e quindi atto puro). Nell’intero universo si evidenzia così una tensione finalistica73: tutto ciò che esiste, tranne DIo, tende ad attuare la sua potenzialità a realizzare un fine. ◊ La dottrina della potenza e dell’atto è alla base della spiegazione aristotelica del divenire: il divenire non è passaggio dal non essere all’essere o viceversa (come dichiara Parmenide, che in quanto tale lo nega)74 ma dell’essere in potenza all’essere in atto, dal poter-essere all’essere. Viene così superata l’“aporia eleatica”75. Potenza (materia) e atto (forma) sono dunque il presupposto di base del divenire, del movimento, del cambiamento della realtà. Per questo A. li pone come prime due CAUSE DEL DIVENIRE: a) causa materiale (= ciò di cui è fatta una cosa) b) causa formale (= essenza di una cosa) In altre parole: perché una cosa possa mutare, deve prima di tutto esistere; tutto ciò che esiste è però composto di materia e forma. Ecco perché, secondo A., le prime due cause del divenire sono materia e forma. ◊ Per spiegare il divenire, però, A. ricorre ad altre due cause, che affianca alla causa materiale e a quella formale c) causa efficiente (= ciò che determina il mutamento, che lo provoca) d) causa finale (= ciò a cui tende il mutamento, lo scopo). Quindi perché vi sia il divenire occorrono quattro cause: materiale, formale, efficiente, finale. La dottrina delle quattro cause del divenire è uno dei fondamenti del sistema aristotelico.

73 Finalismo: concezione per cui “il mondo è organizzato in vista di un fine ed ogni evento si spiega in base al fine a cui esso è diretto” (Firrao). 74 Parmenide, come si ricorderà, nega la possibilità del divenire perché ritiene che esso implichi il non-essere (una cosa che cambia “non-è-più ciò che era”). Quindi, la certezza che “l’essere è e non può non essere”, rende impossibile ammettere il divenire. 75 Chiamiamo “aporia eleatica” la conseguenza del pensiero di Parmenide, che, negando il divenire, aveva condotto la filosofia a una drammatica crisi: la verità attestataci dalla ragione, infatti, si pone in contrasto con l’evidenza (apparente) di quanto mostrano i sensi.

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◊ Va sottolineato che nel pensiero di A. ogni divenire, ogni passare cioè dalla potenza all’atto è possibile solo in virtu’ di qualcosa che è già in atto. Tornando all’esempio fatto più sopra, si può capire che cosa intenda A. con questa affermazione: perché il legno possa diventare tavolo (cioè perché la sua potenza di diventare tavolo si possa attualizzare) occorre una realtà già in atto che determini questo passaggio (possiamo vederla nel falegname). Potenza più potenza, infatti, non determina nessun cambiamento: perché il cambiamento avvenga occorre che la potenza di un oggetto incontri l’atto di un altro. ◊ Questo comporta, nell’ottica aristotelica, che tutto il divenire, il mutare, il muoversi della realtà (cioè il suo passare dalla potenza all’atto) richiede una causa prima incausata, un atto assoluto privo di potenzialità. Infatti, A. ritiene che non sia possibile procedere all’infinito nella catena delle cause: dev’esserci una causa prima, altrimenti nulla sarebbe spiegato. In altre parole: tutto ciò che muta passa dalla potenza all’atto, ma questo passaggio richiede qualcosa di già in atto che lo determini. Ma tutto ciò che esiste è fatto di forma e materia, quindi di atto e potenza. E quindi c’è sempre una potenzialità da realizzare, un passaggio dalla potenza all’atto. Ebbene, A. ritiene che questo processo non possa andare all’infinito: bisogna arrivare per forza a qualcosa che sia atto puro privo di qualsiasi potenzialità, forma pura priva di materialità, causa prima del divenire di tutto l’universo ma estranea al divenire. ◊ La stessa dottrina può essere espressa partendo dal concetto di causa: ogni movimento (o mutamento) ha una causa; ma nella realtà del mondo tutto è in perenne movimento (e mutamento). Quindi se A è causa del mutare di B, a sua volta richiede una causa per il proprio mutamento e via di seguito. Si deve allora giungere ad un “motore” di tutto il movimento dell’universo, che non sia però esso stesso soggetto al movimento, al divenire: è dunque un “Motore immobile”. Così Aristotele definisce Dio. ◊ Ogni divenire è mosso da questo atto puro, nel senso che tutta la realtà tende ad esso come suo fine supremo (carattere finalistico della concezione aristotelica della realtà). Va sottolineato che la causalità del “Motore immobile” non è di tipo efficiente ma di tipo finale: esso infatti muove il mondo “come l’oggetto d’amore muove l’amante”. Qualsiasi altra forma di causalità implica infatti movimento (e allora non si tratterebbe più d’un motore immobile). Si noti che in questa concezione Dio è causa finale, non è causa efficiente, cioè non è creatore. Il concetto di creazione è estraneo al pensiero greco: è un concetto invece presente nella Bibbia, quindi nel pensiero ebraico (e poi cristiano). Forma pura, il “Motore immobile” è pensiero puro che pensa se stesso (se pensasse altro ne verrebbe condizionato e ciò implica imperfezione): è dunque PENSIERO DI PENSIERO. E’ un Dio che non crea, non ama, non provvede al mondo: è solo il fine cui

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tutto tende, la suprema perfezione che attrae a sé tutto l’universo, senza però prendersene in alcun modo cura. Non ha un rapporto con gli uomini, non pensa altro che se stesso. E’ “oggetto d’amore”, ma non soggetto, cioè non ama (non crea infatti il mondo). Ignora gli uomini. E’ anche definito privo di volontà: volere significa infatti mancare di qualcosa (si vuole ciò di cui si è privi): non mancando di nulla, Dio non possiede volontà. Si tratta, ripetiamo, di una concezione del divino molto diversa da quella biblica: nella Bibbia Dio è dotarto di volonrà ed essa si esprime innanzitutto nella creazione del mondo, frutto appunto di un libero atto della volontà di Dio.

◊ La metafisica è dunque la disciplina che analizza la realtà sovra-sensibile, caratterizzata dall’assenza di movimento (realtà immutabile, come abbiamo già detto); la FISICA ha invece come oggetto la realtà sensibile, la cui caratteristica principale è proprio il movimento. La fisica è dunque la scienza che studia il movimento che caratterizza la realtà sensibile, cioè il suo divenire. ◊ La fisica aristotelica avrà importanza enorme nella storia della cultura occidentale, restando in auge fino alla “rivoluzione scientifica” dei secoli XVI-XVII. Essa ha due caratteristiche generali: a) è una fisica delle apparenze, perché vuole spiegare la realtà per come appare; b) è una fisica qualitativa, perché non è fondata su calcolo e misura matematici, come la fisica moderna. Ne riassumiamo di seguito schematicamente le dottrine fondamentali. a) DOTTRINA DEI QUATTRO ELEMENTI: la realtà del mondo terrestre è costituita da quattro elementi, acqua, aria, terra e fuoco (si ricordi Empedocle). Esiste però un quinto elemento chiamato étere, che costituisce i cieli, cioè tutta la realtà fisica che sta “sopra” la terra (pianeti, astri, luna, sole, ecc.) Dunque per Aristotele ci sono nel mondo fisico due livelli di realtà: quella terrestre (“sublunare”, cioè posta “sotto la luna”), composta dai quattro elementi, e quella celeste (“sopralunare”), composta dall’étere. Il carattere dualistico di questa concezione si coglie appieno se si pensa che i quattro elementi “terreni” sono considerati imperfetti (opachi, ruvidi, mutevoli), mentre l’etere è una sostanza perfetta, per quanto perfetta possa essere la materia (luminoso, liscio, immutabile). Per il mondo sopralunare valgono quindi leggi diverse da quelle che governano il mondo sublunare: ci sono dunque due fisiche, una per la terra e una per il cielo, con leggi diverse (diversamente da quanto afferma la fisica moderna). b) DOTTRINA DEI LUOGHI NATURALI: ad ogni elemento compete un luogo naturale, cioè un luogo in cui quell’elemento tende a stare (o ad andare se si trova altrove): gli elementi che Aritotele definisce “leggeri” (cioè aria e fuoco) hanno come luogo naturale “l’alto” (cielo), quelli definiti “pesanti” (terra e acqua) hanno come luogo naturale il “basso” (terra). L’étere ha come luogo naturale il mondo sopralunare, dove già si trova.

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c) DOTTRINA DEL MOTO NATURALE E DEL MOTO VIOLENTO: Il moto naturale è quello con il quale un corpo si muove verso il suo luogo naturale; esso è rettilineo per i quattro elementi “terrestri” (dall’alto al basso per acqua e terra, dal basso all’alto per fuoco e aria), circolare invece per l’etere (questo perché: a: il moto circolare è il più perfetto perché “non ha un inizio e una fine”; b: l’etere non può che muoversi circolarmente perché si trova già nel suo luogo naturale). Il moto violento è quello per cui un corpo si muove in una direzione diversa da quella del luogo naturale (es.: un corpo pesante, come un sasso, tirato in alto o in avanti). Il moto violento, secondo A., richiede sempre una causa e questa causa (“motore”) può agire solo per contatto, deve essere cioè in contatto con il corpo che fa muovere. Si noti che il moto violento richiede una spiegazione (una causa), il moto naturale no. d) DOTTRINA DEI CIELI (COSMOLOGIA ARISTOTELICO-TOLEMAICA): il moto naturale proprio dei cieli è, come abbiamo già detto, quello circolare. Va specificato che cieli non sono per A. tracciati geometrici, ma sfere solide fatte di étere cristallino, in cui sono inseriti i corpi celesti. Le sfere “trascinano” I corpo celesti, determinandone il movimento. A. pensa che le sfere siano 55 (molte di più dei corpi celesti76). L’ultimo dei cieli è detto “delle stelle fisse”, perché esse si muovono (di moto apparente: come sappiamo, in realtà è la terra a muoversi) “tutte insieme”, cioè senza modificare la posizione dell’una rispetto all’altra. Al centro dell’universo sta la terra, che, essendo composta di materia “pesante”, non potrebbe mai stare altrove, ed è immobile. Attorno ad essa ruotano il sole, la luna e i pianeti (sistema geocentrico). Il mondo è unico, contrariamente a quanto credeva Democrito (mondi infiniti) ed è finito (l’infinito, infatti, è imperfetto, secondo A.). Dato che ogni moto richiede un motore, anche i cieli hanno un motore: ciascuno ha un suo motore, ma non potendosi andare all’infinito nella “catena dei motori”, ci deve essere un motore primo che non sia a sua volta in movimento, che sia cioè immobile. La fisica di A. si fonde con la metafisica. 12 - INTRODUZIONE ALL’ELLENISMO ◊ Esiste una vera e propria cesura tra la cultura greca dell’epoca “classica” e quella successiva, solitamente - e convenzionalmente - indicata come “ellenismo”77, una cesura che

76 Gli astronomi aristotelici dell’antichità dovettero moltiplicare il nunero delle sfere per poter spiegare tutti i moti, anche quelli “anomali”, dei corpi celesti. 77 Il termine risale ai fondamentali studi di J. G Droysen, in primo luogo alla sua Geschichte des Hellenismus del 1877-8. In realtà Droysen riprende un termine - ellenismòs - che i greci utilizzavano genericamente per indicare la lingua e la cultura greca in contrapposizione alle altre e gli conferisce un diverso significato. Volendo essere fedeli all’accezione che i Greci davano al termine nel I sec. d. C., bisogna intendere per “ellenismo” il periodo in cui «la storia del popolo greco diviene gradatamente la storia di tutti coloro che parlavano e pensavano in greco, qualunque fosse la loro origine, di qualunque popolo essi si ritenessero figli» (Pasquali, citato in G. GIANNELLI, Trattato di storia greca, Bologna 19837, 488). Resta peraltro corretto «designare con questa parola la grecità un quello stadio in cui essa va via via assumendo certi nuovi caratteri peculiari che la distinguono dalla grecità classica; fra questi è da porre in prima linea il superamento del pensiero politico particolaristico e la sua subordinazione al senso della comune civiltà greca» (GIANNELLI, ivi, che cita Laqueur).

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caratterizza ovviamente anche la religione. Siamo di fronte ad una svolta decisiva nella storia della civiltà greca, al punto che si può parlare della nascita d’una “nuova civiltà”. Per quanto più direttamente concerne la religione, le forme che essa assume in Grecia all’inizio dell’epoca ellenistica di fatto rimangono immutate fino alla definitiva crisi della religione greca che, tra il IV e il V sec. d. C., deve cedere il passo al cristianesimo trionfante. Elemento determinante in questo radicale mutamento è la nuova situazione politica venutasi a creare con l’ascesa al potere di Alessandro il Macedone. Questi riesce ad imporre il suo dominio su tutta la Grecia e quindi conduce le sue armate (che vedono per la prima volta tutti i Greci uniti) verso Oriente, arrivando di conquista in conquista fino in India. ◊ Considerati globalmente, questi fatti risultano con evidenza tanto grandiosi da giustificare ampiamente una rivoluzione culturale senza precedenti: di essa è però opportuno segnalare alcuni aspetti specifici: a) In primo luogo (e con grande rilievo per la religione) va sottolineato che il nuovo quadro politico determina per le città-stato la perdita totale di ogni autonomia: il nuovo organismo statale unitario assorbe la polis, che tramonta definitivamente e con essa tramonta anche il substrato essenziale della religione greca più antica. b) Altro evento decisivo è l’espansione greca verso Oriente e il conseguente incontro con civiltà diverse. Non che in precedenza i Greci ignorassero le culture orientali, anzi, i contatti commerciali e culturali erano da sempre vivacissimi; tuttavia, a partire da questo momento, popolazioni greche e orientali si trovano sempre più spesso a convivere insieme, in una situazione del tutto nuova, nella quale i processi di interscambio e interpenetrazione culturale appaiono più rapidi e profondi78. c) Un ulteriore elemento di grande rilievo che caratterizza l’età ellenistica è costituito dalla costante instabilità delle condizioni di vita, come sottolinea Mircea Eliade: «Sin dal periodo dell’inutile resistenza alla potenza macedone, attraverso le lotte, su scala ecumenica, tra le dinastie discendenti dai successori immediati di Alessandro, attraverso le lotte con la nascente potenza romana, fino alla perdita totale dell’indipendenza, i Greci non hanno più conosciuto un sufficientemente lungo periodo di stabilità e sicurezza politica».

78 In un primo momento, dopo l’epoca di Alessandro, si assiste ad una massiccia emigrazione di Greci verso Oriente, con la conseguente diffusione della lingua e della cultura greche. Il greco comune (koiné) viene correntemente parlato e scritto dall’Egitto all’India, l’educazione greca viene adottata dai ricchi di ogni paese, ovunque si edificano templi, teatri e ginnasi, le filosofie dominanti (stoica, epicurea, cinica) si impongono nelle città di tutto l’oikoumnené. In un secondo momento è invece l’Oriente ad esercitare il suo influsso potente, soprattutto in ambito religioso. Si diffondono così culti e credenze orientali e l’Oriente viene sempre più esaltato come patria di sapienti, maghi e iniziati, depositari di millenarie tradizioni esoteriche e di segrete dottrine. Ecco perché - per esempio- si narra che Alessandro abbia a lungo conversato con sacerdoti ed asceti indiani, alimentando la leggenda della “sapienza” indiana che fiorirà per lungo tempo, fino in epoca cristiana.

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◊ Da questi fatti discendono importanti conseguenze: 1) in primo luogo, i Greci si aprono a un più significativo confronto con le culture orientali, che per la prima volta rivelano tutto il loro splendore, il prestigio della loro antichità (superiore in molti casi a quella della civiltà greca), la ricchezza delle loro tradizioni, la solidità delle loro istituzioni. Ormai genti greche vivono sempre più spesso a diretto contatto con quelli che in passato erano stati brutalmente qualificati come “barbari”, iniziano ad apprezzarne la cultura e a comprenderne la mentalità. Non è per loro più possibile considerare tutto ciò che non è greco come primitivo e incivile79: le lingue, le istituzioni, le filosofie e - non ultime - le credenze religiose dei popoli d’Oriente li attirano e li affascinano sempre di più. ◊ I sovrani greci di epoca ellenistica (e gà Alessandro) accettano la qualifica di divinità, proprio come i monarchi orientalix. E’ questo un esempio rilevante del decisivo interscambio culturale tra Grecia e Oriente che caratterizza l’ellenismo: la progressiva adozione in Grecia delle forme e delle concezioni caratteristiche delle monarchie orientali. Alessandro - e più ampiamente i posteriori sovrani ellenistici - fanno propria senza eccessive difficoltà l’ideologia della regalità sacra, un’ideologia che rapidamente prende piede in tutto il mondo greco. NB) Occorre qui ricordare che, nella prospettiva greca tradizionale, rendere onori divini a un mortale è una pura assurdità: “divini” sono solo coloro che dagli dèi ricevono ispirazione, come poeti, sapienti, indovini. Certi uomini possono ricevere un vero e proprio culto come eroi, ma solo dopo la morte: è così che poeti, atleti, fondatori di colonie, combattenti per la patria, diventano talora oggetto di culto, esattamente come gli antichi eroi del mito. Peraltro alcuni personaggi acquisiscono meriti straordinari che li pongono - già in questa vita - su un piano decisamente superiore a quello degli altri esseri umani: capita così, per esempio, che i vincitori degli agoni sportivi e alcuni capi militari (come lo spartano Lisandro all’inizio del IV sec. a. C.) ricevano onori prossimi al culto. Ciò nondimeno il netto confine tra la condizione umana e quella divina rimane per secoli uno dei tratti più significativi e caratterizzanti del pensiero religioso greco, quindi l’ideologia ellenistica della monarchia sacra appare senza 79 I Greci avevano sempre ritenuto se stessi superiori a tutti gli stranieri, che con disprezzo chiamavano barbari, cioè “balbuzienti”, deridendone con ciò il modo di esprimersi. Di più, essi consideravano solo il Greco come uomo “per natura” libero, mentre il barbaro era - sempre “per natura” - schiavo, perché costituzionalmente incapace di produrre cultura, libera attività, valori. Questa concezione trova piena espressione, per esempio, nel pensiero di Aristotele, secondo il quale gli schiavi sono tali per natura e i barbari sono “naturalmente” schiavi (cfr. fr. 658; Rose). La parificazione tra Greci e barbari, anzi la loro assimilazione, viene avviata (e non senza successo) già da Alessandro, che pure di Aristotele è discepolo: nel 331 egli ordina che migliaia di stranieri siano istruiti nella cultura greca e addestrati militarmente così da entrare a pieno titolo nell’esercito. Tre anni dopo, in Siria, vuole che diecimila soldati macedoni e un gruppo di ufficiali sposino con rito persiano donne persiane. Egli stesso sposa a Susa due principesse achemenidi. Con la fine del pregiudizio razzistico nessun uomo può più essere considerato schiavo “per natura”: cadono dunque i presupposti teorici del sistema schiavistico, come confermano anche le filosofie del tempo. Epicuro tratta gli schiavi con familiarità e apre a loro le porte della sua scuola; per gli Stoici vera schiavitù è solo quella dell’ignoranza e la conoscenza è accessibile tanto allo schiavo che al suo padrone. Non a caso i due ultimi grandi filosofi stoici sono uno schiavo, Epitteto, e un imperatore, Marco Aurelio. Cfr. G. REALE, Storia della filosofia antica, 3, Milano 19772, 10 ss.

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dubbio come un rilevante elemento di novità. Alessandro, capace di portare i Greci dal caos delle lotte intestine alla conquista d’un impero immenso, non può non apparire alle masse come un vero e proprio “salvatore”; la sua divinizzazione, che egli stesso promuove, incontra così il pieno favore del popolo. Del resto, il culto degli dei tradizionali è da tempo decaduto: la fine delle città-stato significa, come detto, anche la crisi del politeismo antico che a quella specifica struttura socio-politica è intimamente legato. Si sente inoltre il bisogno di divinità più vicine all’uomo, capaci di dare risposte soddisfacenti ai suoi problemi esistenziali, pronte cioè ad agire da “salvatrici”, intervenendo direttamente nella vita dei singoli. 2) Una seconda conseguenza determinante della nuova situazione politica e sociale maturatasi con l’Ellenismo è lo sviluppo di istanze al tempo stesso individualistiche e cosmopolitiche. α: L’individuo si sente staccato dagli organismi sociali e dalle strutture politiche che ne avevano inquadrato la vita in epoca classica: si spezza la secolare identificazione tra uomo e cittadino, un intero sistema di valori di fatto viene meno80 e l’uomo si trova a fronteggiare i problemi essenziali della sua esistenza da solo. L’anelito alla salvezza individuale, la ricerca della saggezza che fa vivere meglio, l’ideale del sapiente che - conseguito il suo interiore equilibrio - assiste con distacco alle vicende del mondo (atarassia), sono aspetti caratterizzanti delle religioni e filosofie del tempo. “Vivi nascosto”, proclamano i seguaci di Epicuro, immaginando il saggio come colui che sta accuratamente lontano dal consorzio umano e dalla vita pubblica. β) Solo apparentemente contraddittorio con questo ideale individualistico è il cosmopolitismo ellenistico: anch’esso deriva infatti direttamente dai radicali mutamenti politici dell’epoca. Il singolo infatti non ha più modo di partecipare alla vita dello stato, le decisioni politiche vengono prese senza interpellarlo, in nessun modo può sentirsi coinvolto nella gestione della cosa pubblica; non è più un cittadino, è un suddito che sente il potere come qualcosa di lontano e di estraneo: ad amministrare la cosa pubblica sono i funzionari, a difendere lo stato i mercenari. L’organismo statale della polis non esiste più e l’uomo, svincolato dal legame con esso, si sente sempre più cittadino del mondo (cosmopolita), parte di un tutto che travalica i limiti della patria e della tradizione. Questo ideale trova compiuta e nobile espressione soprattutto nello stoicismo81.

80 Reale sottolinea che l’Ellenismo separa per la prima volta in Grecia l’etica dalla politica: “L’etica classica, che conosciamo, era sostanzialmente basata sul presupposto dell’identità dell’uomo col cittadino e, perciò, essa era impiantata sulla politica, o, addirittura, subordinata alla politica. Per Platone e per Aristotele sono impensabili sia una etica non politicamente finalizzata, sia una politica non eticamente fondata. Ebbene, per la prima volta nella storia, la filosofia morale, nell’età ellenistica, grazie alla scoperta dell’individuo, si struttura in modo assolutamente autonomo, basandosi sull’uomo come tale, considerato nella sua singolarità”; ivi, 9 s. 81 Scrive W. W. TARN, parlando del fondatore dello stoicismo, Zenone: “Nel suo stato ideale, Zenone presentava una speranza abbagliante che, dopo di allora, non ha più lasciato l’uomo; egli sognava un mondo non più diviso in stati separati, che formerà una sola grande città, sotto una sola legge divina,

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TESTI 1 - Talete, i l primo fi losofo Aristotele, dopo essersi soffermato sulle caratteristiche della filosofia delle origini, accenna al pensiero di Talete, l’“iniziatore di questo tipo di filosofia”. Naturalmente il far iniziare la filosofia con Talete e con gli altri “fisici” della Ionia risponde a specifiche esigenze di Aristotele, il quale si pone il problema della “causa” di tutte le cose. Platone, invece, interessato alla “definizione” dell’Essere, era convinto che la filosofia avesse inizio con Parmenide e con Eraclito. (Aristotele, Metafisica, 983b) 1 La maggior parte di coloro che primi filosofarono pensarono che princípi di tutte le cose

fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento ed è principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per questa ragione, essi credono che nulla si generi e che nulla si distrugga, dal momento che una tale realtà si conserva sempre. E come non diciamo che Socrate si genera in senso assoluto quando diviene bello o musico, né diciamo che perisce quando perde questi modi di essere, per il fatto che il sostrato – ossia Socrate stesso – continua ad esistere, cosí dobbiamo dire che non si corrompe, in senso assoluto, nessuna delle altre cose: infatti deve esserci qualche realtà naturale (o una sola o piú di una) dalla quale derivano tutte le altre cose, mentre essa continua ad esistere immutata.

2 Tuttavia, questi filosofi non sono tutti d’accordo circa il numero e la specie di un tale principio. Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia, dice che quel principio è l’acqua (per questo afferma anche che la Terra galleggia sull’acqua), desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il caldo si genera dall’umido e vive nell’umido. Ora, ciò da cui tutte le cose si generano è, appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa convinzione da questo fatto e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno una natura umida e l’acqua è il principio della natura delle cose umide.

2 - Anassimandro e l’apeiron Simplicio di Cilicia, studioso del VI secolo d.C., sintetizza gli elementi essenziali del pensiero di Anassimandro, rifacendosi alla testimonianza di Teofrasto, scolarca del Liceo, successore di Aristotele. Si noti che se il problema rimane sempre quello della ricerca dell’arché, la soluzione

dove tutti i cittadini saranno riuniti non da leggi umane, ma dal loro consenso volontario o, come dice Zenone, dall’Amore”; Hellenistic Civilization, London 19523, 79.

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prospettata da Anassimandro mette in evidenza le “capacità di astrazione” della ragione, che emergeranno in modo ancora piú netto nei filosofi successivi, con importanti conseguenze. (SIMPLICIO, Fisica, 24, 13)

Tra quanti affermano che [il principio] è uno, in movimento e infinito, Anassimandro, figlio di Prassiade, milesio, successore e discepolo di Talete, ha detto che principio ed elemento degli esseri è l’infinito, avendo introdotto per primo questo nome di principio. E dice che il principio non è né l’acqua né un altro dei cosiddetti elementi, ma un’altra natura infinita, dalla quale tutti i cieli provengono e i mondi che in essi esistono. [...] 3 - Anassimene e Anassimandro Ancora Simplicio, riportando un brano di Teofrasto, ci pone dinanzi a un interessante confronto fra Anassimandro e Anassimene. È bene ricordare che questa fonte è tardiva di circa mille anni, con tutti i problemi, soprattutto interpretativi, che una tale distanza nel tempo comporta. (Simplicio, Fisica, 24, 26; 22, 9,ed. cit., 109)

a. Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, fu amico di Anassimandro. Anch’egli dice che una è la sostanza che fa da sostrato e infinita, come l’altro, ma non indeterminata come quello, bensí determinata – la chiama aria. L’aria differisce nelle sostanze per rarefazione e condensazione. Attenuandosi diventa fuoco, condensandosi vento, e poi nuvola, e, crescendo la condensazione, acqua e poi terra e poi pietre e il resto, poi, da queste. Anch’egli suppone eterno il movimento mediante il quale si ha la trasformazione.

b. Bisogna sapere che altro è l’infinito e il limitato quanto al numero, il che è proprio di coloro che ammettono molteplicità di princípi, altro l’infinito e il limitato quanto a grandezza, il che <...> conviene ad Anassimandro e ad Anassimene, i quali ammettono sí un unico elemento, ma infinito per grandezza. [...]

4 - Pitagora: una vita fra varie culture Diogene Laerzio fornisce interessanti notizie su Pitagora, capostipite della filosofia “italica”. Egli, originario dell’isola di Samo, vicino alle coste dell’Asia Minore, aveva viaggiato molto, recandosi anche in Egitto, paese in cui era conservata una sapienza antica, profonda e misteriosa, prima di approdare definitivamente nella Magna Grecia, dove fondò la sua scuola a Crotone e in seguito la trasferí a Metaponto. La sua filosofia è arricchita da influssi provenienti da varie culture. Con lui la Magna Grecia giungerà a detenere per un certo tempo il primato di creatività e vivacità intellettuale nel campo della filosofia. Ferecide di Siro, ricordato in questo brano, fu un mitografo e cosmografo del VI secolo a.C. Parliamo ora della filosofia italica che fu iniziata da Pitagora figlio di Mnesarco incisore di anelli, come dice Ermippo, nato a Samo o, secondo Aristosseno, tirrenio, di una delle isole che gli

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Ateniesi occuparono avendone scacciato i Tirreni [...]. Si procurò tre coppe d’argento ed in Egitto le diede in dono a ciascuno dei sacerdoti [...]. Fu uditore di Ferecide Siro e, dopo la morte di lui, tornò a Samo [...]. Essendo giovane ed amante dello studio, emigrò dalla patria e fu iniziato in tutti i misteri greci e barbari. Fu in Egitto [...]. e poi presso i Caldei ed i Magi. Poi a Creta, con Epimenide [...] e in Egitto conobbe gl’impenetrabili (misteri) e fu istruito nei segreti circa gli Dei. Tornato a Samo, ed avendo trovato la patria sotto la tirannide di Policrate, partí per Crotone in Italia ed ivi, dando leggi agli Italici, salí in alta fama con i suoi discepoli ed in trecento amministravano egregiamente le cose pubbliche, in certo modo con regime aristocratico.

(DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, VIII, I, 1-3)

5 – Eraclito: frammenti ◊ Gli svegli e i dormienti - Avendo senza comprendere ascoltato a sordi assomigliano; lo attesta loro il detto che “presenti sono assenti” - Perché, qual è la mente o il senno loro? Credono ai cantori popolari e si valgono per maestra della folla, non sapendo che “cattivi sono i più, pochi i buoni”

◊ La vera nobiltà dell’uomo - Se la felicità fosse nei diletti del corpo, dovremmo dire felici i buoi, quando trovano foraggio da mangiare. - Perché una sola cosa preferiscono contro tutte quante gli ottimi, fama perenne contro mortali cose; ma i molti se ne stan satolli come bestie. - A tutti gli uomini spetta dei conoscere se stessi ed essere assennati ◊ Il divenire - Tutto scorre (pánta reî) e nulla permane (oudèn ménei). - Nello stesso fiume non è possibile scendere due volte né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato. ◊ I contrari - Pólemos [la guerra] è padre di tutte le cose, di tutte è re; e gli uni li mostra come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi. - E dentro di noi è presente un’identica cosa: vivente e morto, e lo sveglio e il dormiente, e giovane e vecchio: di fatti queste cose, una volta rovesciate, sono quelle, e quelle dal canto loro, una volta rovesciate, sono queste.

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◊ L’ordine del mondo e il caso - Non comprendono come quanto diverge è concorde con se stesso: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira. - Quest’ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dèi o tra gli uomini, ma sempre era è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giusta misura. - Il tempo della vita (= la realtà) è un fanciullo che gioca, gioca con le tessere (della scacchiera): è il regno di un fanciullo

QUESTIONARI Origini della fi losofia - mito - rel igione greca 1. Qual è l’origine etimologica del termine “filosofia”? 2. Chi, secondo la tradizione, lo avrebbe coniato e con quale intento? 3. Dai una definizione di filosofia (Abbagnano – Reale) e spiegane il significato. 4. Cosa si intende per analisi “critica”? 5. Come si caratterizza la filosofia dal punto di vista del contenuto, del metodo e delle finalità (definizione di Reale)? 6. In che cosa consiste il carattere teoretico della filosofia? 7. E’ possibile che la filosofia derivi dalle dottrine orientali? Quali argomenti vi sono a favore e quali contrari rispetto a questa tesi? 8. Quali condizioni favoriscono il nascere della filosofia in Grecia? 9. Cosa si intende, nell’ambito della religione greca, per “religioni mistiche (o misteriche”)? 10. Cos’è l’orfismo e quali sono le sue dottrine principali? Scuola jonica, Pitagora, Eraclito, eleati, pluralisti SCUOLA IONICA - quale problema è al centro della filosofia ionica? che cosa ricercano i filosofi della scuola di Mileto? qual è il tema di fondo della loro filosofia? - come si può definire l’arché? qual è la “necessità logica” della sua esistenza? - come caratterizza Talete l’arché? perché lo identifica nell’acqua? - come caratterizza Anassimandro l’arché? perché lo identifica nell’apeiron (ovvero: perché deve trattarsi di una sostanza indefinita?) come deriva la realtà dall’apeiron?

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- commenta il suo frammento che dice: «Tutti gli esseri devono, secondo l’ordine del tempo, pagare gli uni agli altri il fio (“espiare la colpa”) della loro ingiustizia» - come immagina Anassimandro la forma della terra? e come a suo avviso hanno avuto origine gli esseri umani? - come caratterizza l’arché Anassimene? in quale modo dal principio derivano gli elementi della realtà? PITAGORA - in che cosa identificano i pitagorici l’arché? come si motiva questa loro concezione? (ovvero: perché pensano che il numero sia il principio della realtà?) - come concepiscono il numero i pitagorici? quali ne sono, secondo loro, gli elementi costitutivi? - quali rilevanti conseguenze ha l’identificazione pitagorica dell’arché nel numero? (ovvero: che immagine dell’universo discende dalla concezione pitagorica del numero come arché e perché è di grandissima importanza nella storia della cultura occidentale?) - come concepiscono i pitagorici il ruolo della filosofia e della scienza? ERACLITO - che cosa intende Eraclito distinguendo gli “svegli” dai “dormienti”? quali sono, secondo Eraclito, le caratteristiche del “vero filosofo”? - spiega i fondamenti del pensiero eracliteo partendo dalla massima “panta rei” - che cosa afferma la dottrina eraclitea dei contrari? - cosa intende Eraclito con la sua concezione dell’“armonia”? ** preparare anche un commento ai frammenti distribuiti in fotocopia SCUOLA ELEATICA - PARMENIDE - come cambia la filosofia con la scuola eleatica? quale nuova problematica emerge? (ovvero: quali sono i caratteri essenziali della scuola eleatica?) - come sviluppa Senofane la sua critica dell’antropomorfismo religioso? - quali sono e come si caratterizzano le “due vie” che, secondo Parmenide, si aprono di fronte all’uomo? che cosa afferma la “via della verità”? - commenta l’affermazione parmenidea: «L’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere» - quali sono gli attributi dell’essere che Parmenide deduce dalla sua affermazione fondamentale? - in base a quale criterio Parmenide deduce gli attributi del vero essere?

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- che cos’è l’aporia eleatica? - a che cosa mirano gli argomenti di Zenone (i “paradossi”)? che cosa si propone cioè di dimostrare con questi argomenti “paradossali”? PLURALISTI - perché i filosofi di questa corrente sono definiti “pluralisti”? - come cercano i pluralisti di risolvere l’”aporia eleatica”? - quali sono gli elementi secondo Empedocle? - come spiega Empedocle il movimento degli elementi? - come spiega Empedocle la conoscenza? - quali dottrine sono attribuite a Empedocle a proposito dell’uomo e del suo destino? che origine hanno? - come caratterizza Anassagora gli elementi? - come spiega il moto dei semi? - è corretto affermare che il pensiero di Anassagora prevede il finalismo? - come si carattwerizzano gli atomi di Democrito? - cosa significano i termini materialismo e neccanicismo? - analogi e differenze tra il pensiero di Anassagora e quello di Democrito Sofisti/Socrate 1) come cambia la filosofia con il V secolo? verso quali problemi orienta il suo interesse? quali sono i motivi di questo cambiamento? 2) come si caratterizza la filosofia morale (rispetto alle concezioni morali di carattere non filosofico, per es. tradizionali o religiose)? 3) prima che nasca la filosofia morale vera e propria è presente in Grecia una riflessione morale? come e dove si esprime? sapresti fare qualche esempio? in che cosa si differenzia questa riflessione da quella della filosofia morale? 4) che cosa indica nel linguaggio corrente il termine “sofista”? a che cosa è dovuta l’accezione negativa corrente del termine? quali accuse vengono mosse ai sofisti (e da chi)? 5) come considera la moderna storiografia filosofica la sofistica? conferma o smentisce il giudizio negativo della tradizione? 6) qual è il maggior merito dei sofisti (ovvero quale rivoluzione operano nella storia della filosofia greca)? quali problematiche vengono poste in primo piano dalla scuola sofistica? come si spiega l’emergere di queste problematiche (ovvero in che contesto politico e sociale si inquadra lo sviluppo della scuola sofistica)? quali sono le discipline che i sofisti privilegiano nel loro insegnamento?

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7) che cosa significa l’affermazione protagorea per cui l’uomo è “misura di tutte le cose”? che cosa significa l’altra affermazione “intorno ad ogni cosa ci sono due ragionamenti che si contrappongono fra loro”? in che cosa identificheresti il “cuore” della dottrina di Protagora? che cosa si intende per “relativismo”? la filosofia di P. è davvero del tutto relativistica? P. non ha indicato proprio nessun criterio per distinguere il bene dal male? 8) perché Socrate non ha scritto nulla? che problemi comporta per la storiografia filosofica questo fatto? come si può accedere al pensiero socratico in mancanza di scritti? quali cautele impongono le fonti disponibili (e come le si deve utilizzare)? 9) che cosa critica S. dei sofisti e in che cosa concorda con loro? quali sono le critiche di fondo che S. rivolge alla sofistica? 10) in che cosa identifica S. l’essenza dell’uomo? perché è essenziale questa identificazione per lo sviluppo della sua filosofia? che cosa intende S; per “anima”? 11) in che cosa identifica S. la virtù? cose si deve intendere esattamente per virtù (anche in relazione al significato del termine greco areté)? come motiva S. la sua dottrina della virtù come conoscenza? come si pone questa dottrina nei confronti del pensiero greco tradizionale? 12) che cosa implica la dottrina socratica della virtù come conoscenza (ovvero in che cosa consiste l’intellettualismo dell’etica socratica)? 13) quali concetti essenziali articolano l’etica socratica (e divengono patrimonio del pensiero morale successivo)? che cosa si intende per “autodominio”, “libertà”, “autarchia”? 14) illustra il metodo socratico (che cosa intende S; per “dialettica”? quale compito assegna S. alla filosofia? perché S. pone alla base del suo filosofare l’affermazione del non-sapere? che cos’è l’ironia socratica? che cos’è la maieutica?) 15) perché S. è stato condannato a morte? quale accusa gli è stata rivolta? cosa si celava in realtà dietro l’accusa? quali sono le cause storiche e politiche del processo? quali sono i rapporti di S. con la rinata democrazia ateniese? Platone - in quale situazione politica matura la riflessione di P.? che analisi fa P. della decadenza che caratterizza la sua epoca? come ritiene debba essere affrontata? - perché la maggior parte delle opere do P. è scritta in forma di dialogo? - quali sono gli interessi e le motivazioni fondamentali del pensiero platonico? - che cosa rappresenta per P. la morte di Socrate? quali conseguenze ha per il suo impegno filosofico e politico? - che cosa sono le idee? in che cosa differisce la concezione platonica dell’idea dalla nostra abituale maniera di intendere il termine?

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- che cosa significa “dualismo”? Perché la dottrina platonica è definibile come dualistica (sia sul piano antropologico sia su quello ontologico)? - quali gradi della conoscenza distingue P. e a quali ambiti della realtà fanno riferimento? - in che modo la filosofia platonica riesce a conciliare la dottrina eleatica dell’essere (Parmenide) con quella eraclitea del divenire? - quale rapporto esiste tra le idee e le cose? Come cerca P. di spiegare tale rapporto? - come va intesa l’affermazione platonica che pone le idee nell’”Iperuranio” (ovvero “come” e “dove” esistono le Idee)? - come può l’uomo conoscere le idee? come si caratterizza la dottrina platonica della conoscenza? come fonda, argomenta ed articola P. la sua gnoseologia? che cosa intende P. per “reminiscenza”? - perché la dottrina platonica è definibile come “innatistica”? - come fonda P. l’affermazione dell’immortalità dell’anima? in quale dialogo viene affrontato il tema e con quali argomenti? come si collega la dottrina dell’anima immortale con la teoria platonica della conoscenza? - perché (come) la dottrina platonica delle idee confuta il relativismo sofistico? (in che cosa consiste l’ “assolutismo” della dottrina platonica delle idee? A che cosa mira?) - qual è la finalità politica della dottrina delle idee? - su quale principio fondamentale si incentra il modello platonico dello Stato? (cosa intende P. per “giustizia”?) - quali parti dell’anima (e quali virtù) corrispondono alle diverse classi sociali? - Come viene determinata l’appartenenza dei singoli individui alle classi? Perché lo stato platonico è diverso da quelli “orientali” basati su un sistema chiuso di caste? - che cosa è e come viene motivato il “comunismo” platonico? - come è concepita la vita delle classi superiori della società? - perché “guardiani” (governanti) sono felici, secondo P.? - come può essere classificato il modello politico platonico in rapporto alla democrazia? - qual è il ruolo dell’educazione nello Stato platonico? Come risponderebbe Platone alla domanda: “Chi controllerà i custodi”? - Come si articola l’educazione dei governanti? - Cosa narra il “mito della caverna”? Quale ne è il significato? - Perché Platone condanna l’arte? Aristotele 1: quale critica muove A. a Platone? (perché A. critica la dottrina platonica delle idee?) Su che cosa invece concorda con il suo maestro? 2: spiega i concetti di “forma” “materia” e “sinolo” (che cosa significa “ilemorfismo”?)

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3: illustra la classificazione aristotelica delle scienze 4: perché, secondo A., le scienze teoretiche sono le più eccellenti? 5: quali sono e che oggetto hanno le scienze teoretiche? 6: perché la logica non rientra nella classificazione aristotelica delle scienze? 7: quali sono i principi logici fondamentali? Illustra iI principio di non-contraddizione (piano logico e piano ontologico) 8: che cosa è un giudizio? 9: che cosa intende A. per “categorie”? 10: che cos’è la sostanza? illustra la differenza tra sostanza e accidente (piano logico – piano ontologico) 11: che cosa è un sillogismo? come è articolato il sillogismo? 12: illustra la dottrina aristotelica della potenza e dell’atto 13: come spiega A. il divenire? in che modo supera l’“aporia eleatica”? 14: illustra la dottrina aristotelica delle quattro cause del divenire 15: come dimostra A. l’esistenza di Dio (cioè del Motore Immobile)? 16: illustra la dottrina aristotelica del Motore Immobile (quali sono gli attributi di DIo, quale rapporto ha con il cosmo, cosa lo differenzia dal Dio biblico) 17: di che cosa si occupa la fisica aristotelica? 18: quali sono le dottrine fondamentali della fisica aristotelica? 19: illustra la dottrina aristotelica dei quattro elementi 20: spiega che cosa intende A. per “moto naturale” e “moto violento” (e cosa li differenzia) 21: che cos’è, nella fisica aristotelica, il “luogo naturale”? 22: illustra la dottrina aristotelica dei cieli (cosmologia) 23: perché la fisica di A. è dualistica? 24: confronta la dottrina aristotelica dell’arte con quella platonica ******************************************************************** Appendice - NOTE SULLA “APOLOGIA DI SOCRATE”

(PLATONE, APOLOGIA DI SOCRATE, Introduzione DI Giovanni Reale, Milano 200082)

- Apologia di Socrate (da ora AS) e Fedone sono forse le opere più lette e note di Platone;

in entrambe il protagonista è Socrate (da ora S), ma viene presentato in modo diverso: nel

Fedone rappresenta l’immagine del “filosofo” per eccellenza e Platone gli fa esprimere

dottrine non sue, “usando” la figura del maestro per illustrare temi essenziali del proprio

pensiero (che certo traggono spunto da istanze socratiche, ma sviluppandole molto oltre le

prospettive di S). Nell’AS, invece, Platone presenta un S reale e non una ”maschera 82 Dove non specificato, le citazioni sono tratte dall’introduzione a questa edizione dell’Apologia.

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teatrale”. Lo conferma anche il fatto che Platone stesso espressamente affermi di non

essere stato presente alla morte di S (narrata nel Fedone), ma di avere invece presenziato

al processo (narrato nell’AS). L’AS si pone quindi sul piano della pura oggettività, sul piano

della verità storica. Del resto, il processo ebbe molti giudici e molti testimoni: nessuna

falsificazione o manipolazione dei fatti sarebbe stata possibile.

- Il processo, intentato contro S nel 399 a. C., aveva un preciso atto d’accusa, così

illustrato da Platone: «Socrate è colpevole di corrompere i giovani e di non credere in

quegli dèi in cui crede la città e di introdurre nuove divinità». Senofonte conferma

l’accusa, praticamente con le stesse parole.

E’ un’accusa non di carattere privato, ma pubblico, un’accusa di Stato: per le leggi allora

vigenti ad Atene, accuse del genere portavano a un processo di Stato, perché questioni

riguardanti gli dèi e il culto competevano alla città. Offendere gli dèi della città voleva

dire offendere la città stessa; ecco perché accusa e processo erano in questi casi una

“questione di Stato”.

- Ma in quali dèi S “non credeva”? Negli dèi della tradizione mitologica. Essi, infatti: a) gli

sembravano incompatibili col concetto del divino per i comportamenti che i miti

attribuivano loro (contese tra divinità, lotte tra padri e figli, adultéri, spergiuri,

favoritismi, vendette, invidie, lussuria e molte altre “immoralità”83); la natura del divino,

secondo S, va concepita in tutt’altro modo, cioè in stretta relazione con la giustizia e il

bene. b) La religione tradizionale rendeva impossibile fondare una morale ordinata e

“santa”: qualsiasi malefatta umana, qualsiasi vizio, infatti, poteva essere giustificato dal

comportamento degli dèi. Non c’era “colpa” per l’uomo, se ogni sua azione, anche la

peggiore, trovava conferma nell’operato degli dèi.

- S viene anche accusato di “introdurre nuove divinità”: a che cosa fa riferimento questa

imputazione? Molto probabilmente non alla critica socratica degli dèi tradizionali, ma alla

“voce divina” (daimon) che S affermava di sentire dentro di sé fin da quando era bambino:

«... In me si manifesta qualcosa di divino e di demonico, proprio quello che Meleto,

facendo beffe, ha scritto nell’atto di accusa. Ciò che si manifesta in me è come una voce,

che, allorché si manifesta, mi dissuade sempre dal fare quello che sono sul punto di fare, e

invece non mi incita mai a fare qualcosa» (AS, 31 c-d)84. «E’ chiaro - scrive Reale - che il

83 Dice Socrate nell’Eutifrone di Platone: «E’ proprio questa la ragione per cui sono accusato: perché quando uno mi narra cose simili intorno agli dèi, io non me la sento di accettarle» (6a) 84 Il termine greco daimon ha vari significati: dio, potenza divina, sorte, destino, genio (buono o cattivo), spirito tutelare o tormentatore (F. P. FIRRAO, Dizionario dei termini e delle correnti filosofiche, Firenze 1995, 85.

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daimonion era giudicato da Socrate una sorta di divina rivelazione a lui concessa, un

privilegio elargitogli dalla Divinità del tutto eccezionale, e, insomma, un’esperienza che,

in qualche modo, trascendeva i limiti dell’umano»85.

Occorre precisare che il termine solitamente utilizzato da S, daimònion, è un neutro e

quindi non sembra possibile che indichi uno spirito-persona (qualcosa di simile a un angelo,

per intenderci), ma piuttosto un “evento”, un “fenomeno” divino non meglio specificato.

E’ «un fatto fuori dell’ordinario e di natura sovrumana»86, un segno divino, una voce

interiore ammonitrice che guida la coscienza di S, impedendogli di fare determinate azioni

(scelta che in seguito sempre si rivela vantaggiosa). Non abbiamo dunque a che fare con

una “nuova divinità”, come sostenevano gli accusatori di S, ma con un rapporto speciale di

S con il divino: la voce che S sentiva era sì nella sua interiorità, ma a lui appariva come

proveniente da qualcosa di superiore, di trascendente la sua stessa coscienza. «Insomma,

quel daimonion socratico esprimeva il punto di incontro dell’umano col divino, in una

dimensione del religioso del tutto straordinaria nel mondo ellenico. Nella misura in cui S

comunicava ai suoi discepoli tutto questo, che non rientrava in alcun modo nel credo

religioso della città, gli si imputava di corrompere i giovani e coloro che lo

frequentavano».

- E’ tuttavia legittimo chiedersi se furono davvero questi motivi religiosi a muovere gli

accusatori di S; appare evidente che le cose non stanno così e che le accuse religiose erano

solo una copertura per mascherare i veri motivi dell’ostilità contro il filosofo, di natura

sostanzialmente politica. Occorre dunque inquadrare il processo nel contesto storico-

politico del tempo, come sottolinea Abbagnano: «Dopo la sconfitta subita nella guerra del

Peloponneso, ad Atene si affermò, nel 404, il regime oligarchico e filospartano dei Trenta

Tiranni (capeggiato da Crizia). Sembra che Socrate non si compromettesse con il governo,

nonostante la sua opposizione a talune scelte extralegali del nuovo corso politico. Il regime

oligarchico fu rovesciato dalla reazione popolare, e fu proprio la restaurata democrazia

che volle, nel 399, il processo del filosofo. L’accusa ufficiale che il nuovo governo

rivolgeva a Socrate, quella di corrompere i giovani insegnando dottrine contrarie alla

religione di stato, va posta in relazione alla fisionomia conservatrice assunta dalla rinata

democrazia. Dopo la sconfitta subita ad opera degli Spartani, Atene, pur recuperando dopo

i Trenta Tiranni le istituzioni assembleari, guardava al passato glorioso come a un

patrimonio da conservare e perciò tendeva a chiudersi alle novità rivoluzionarie di ogni

tipo, facendo inoltre dell’antica religione un baluardo di coesione sociale e ideale. Di

conseguenza, un uomo come Socrate, indipendente in fatto di religione, e “spregiudicato”

85 Storia della filosofia antica, 1, Milano 1976, 347. 86 Ivi, 349.

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in filosofia, poteva apparire un elemento politicamente pericoloso»87. C’era comunque

ostilità nei confronti di S da parte della fazione democratica anche per motivi più

profondi: pare infatti che S sostenesse una concezione aristocratica della politica,

ritenendo che il governo dovesse venire affidato a poche persone solidamente preparate e

competenti (al contrario di quanto pensavano gli ideologi della democrazia, come

Protagora). Inoltre, S era in rapporti di amicizia con alcuni esponenti della corrente

aristocratica che aveva ordito il colpo di stato dei trenta Tiranni88.

Comunque Meleto, che presentò la formale accusa contro S, era soltanto una pedina nelle

mani dei veri nemici del filosofo. Poeta fallito, pensò, denunciando S, di farsi pubblicità e

raggiungere il successo e la fama che aveva cercato inutilmente. Veri ideatori

dell’operazione furono in realtà Anito e Licone, esponenti politici della nuova fazione

democratica, avversa, come si è visto, a S.

- Un breve accenno alla dinamica del processo: secondo le leggi di Atene, esso doveva

svolgersi in un solo giorno quando prevedeva la pena di morte; i giudici erano cinquecento.

87 N. ABBAGNANO, G. FORNERO, Filosofi e filosofie nella storia, 1, Torino 1992(2), 112 88 «È un fatto che per molto tempo si è ritenuta inspiegabile la morte di Socrate. Come mai in un regime di restaurata democrazia, nella quale per di più si era affermata più volte la volontà di non esacerbare gli animi, di conciliare le fazioni e i partiti opposti all'interno di una città che usciva abbastanza provata da un lungo periodo di guerre e di agitazioni interne si poté mandare a morte un cittadino cosí esemplare e dotato di tutte le virtù come Socrate? Questa inspiegabilità, però, era dovuta principalmente alle versioni che della sua morte ci hanno tramandato Platone e gli altri esaltatori di Socrate, e specialmente aI fatto che gli uni e gli altri ci dicono anche che gli Ateniesi subito si pentirono di questa loro decisione. In realtà oggi la critica piú attenta ha dimostrato che il processo e la morte di Socrate non furono affatto degli eventi “strani” ed in indecifrabili, ma che si inscrivevano pienamente proprio nella logica di regime democratico che voleva ricostruire un'unità politica e spirituale all'interno della città. Uno studioso inglese scrive che fu principalmente "la diffidenza suscitata dai rapporti di Socrate con i "traditori" che spinse i capi della restaurata democrazia a sottoporlo a processo nel 400-399. Alcibiade e Crizia erano morti entrambi, ma i democratici non si sentivano aI sicuro finché l'uomo che s'immaginava avesse ispirato i loro tradimenti esercitava ancora influenza sulla vita pubblica" (Taylor). Certo è che Socrate non fu affatto quell'uomo "al di sopra delle parti, dedito unicamente alla ricerca della verità, come suoi difensori tentarono poi di descriverlo ... Possiamo essere certi che la critica radicale alla democrazia, all'incompetenza dell'assemblea, ai principali esponenti della politica ateniese (Milziade, Temistocle Cimone, Pericle, ecc) fosse già propria di Socrate" (Giannantoni). Un Socrate dunque che, se non era un capo politico in senso stretto, era tuttavia strettamente legato al partito oligarchico, ai suoi capi più importanti, come Alcibiade e Crizia ... Si può supporre, comunque, ragionevolmente, che né gli accusatori né il tribunale volessero la morte di Socrate. In base alle stesse notizie che ci offre Platone ed alle norme che conosciamo del diritto attico, Socrate avrebbe potuto avere salva la vita se avesse riconosciuto la sua colpa, avesse pagato un'ammenda simbolica e fosse andato in esilio da Atene. Ma questo Socrate non volle: anche se la sua difesa non fu una deliberata provocazione del tribunale, come vorrebbe Senofonte, il suo discorso (una riaffermazione dei principi ispiratori della sua vita) ed il suo atteggiamento (rifiuto di usufruire della difesa di un "avvocato" e di ricorrere ad espedienti per commuovere i giudici, come non solo era consueto, ma era ammesso dalla stessa procedura penale) furono oggettivamente una sfida ai giudici. Se coerente fu Socrate, lo fu infatti anche in questo suo non riconoscere alle istituzioni democratiche alcun diritto di giudicare; probabilmente, egli volle anche "consegnare il suo cadavere sulle braccia dei democratici che lo avevano condannato» (Storia delle Filosofie a cura di G. Casertano, A. Montano, G. Tortora, disponibile nel sito internet: http://www.filosofia.unina.it/sdf/ant/capV/par3.htm)

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La procedura prevedeva che innanzitutto si illustrasse l’accusa, poi l’imputato parlava per

difendersi; seguiva una prima votazione: se i giudici decidevano di condannare (a morte),

la legge voleva che il condannato proponesse una pena alternativa. A tal fine faceva un

secondo discorso, al quale seguiva una seconda e definitiva votazione. Nel caso di S, nella

prima votazione i voti a favore furono 220 contro 280, nella seconda 140 contro 360.

Questo perché S non solo non chiese nessuna pena alternativa, ma pretese addirittura un

premio, come si vedrà. Dopo il verdetto definitivo, il condannato di solito non poteva più

parlare, ma S lo fece, tenendo un ultimo discorso di commiato.

Platone, nell’ AS ha sorvolato su tutti i particolari, concentrando l’attenzione sui tre

discorsi di S, che, anzi, ha praticamente unito insieme, tanto che si potrebbe pensare, non

sapendo come andarono in realtà le cose, a un discorso unico.

- Nel primo discorso, il più ampio e complesso, S espone la sua difesa. Possiamo

individuarne quattro momenti: a) innanzitutto chiama in causa i suoi primi accusatori, non

coloro che hanno promosso il processo, ma coloro che hanno creato i presupposti da cui

esso è nato; sono persone che hanno a lungo diffamato S, diffondendo di lui tra la gente

un’immagine negativa. b) In secondo luogo, chiama in causa coloro che lo hanno portato in

tribunale, primo tra tutti Meleto, e ne confuta le accuse. c) In terzo luogo illustra gli

elementi centrali della sua dottrina, spiegando il senso della sua “missione” di filosofo. d)

Infine mostra le conseguenze del suo operato e delle sue dottrine sul piano sociale e su

quello educativo. Il discorso si chiude con una richiesta ai giudici non di pietà (come si

usava), ma di giustizia.

a) I “primi accusatori” dicevano che S. con la sua “sapienza” confondeva le comuni

opinioni degli uomini a proposito dell’universo (come fosse stato un filosofo naturalista, sul

tipo di quelli jonici di Mileto) e, ancor peggio, che insegnava a formulare abili discorsi per

dimostrare valide le opinioni peggiori e viceversa (come un sofista). In realtà, la

“sapienza” di S è di tutt’altra natura, ben cosciente dei propri limiti e della propria

fragilità: l’unica cosa che S ritiene di sapere è infatti di non sapere! Allora, stando così le

cose, perché S è giudicato un sapiente? Perché l’oracolo di Delfi, interpellato da

Cherefonte, lo ha definito “il più sapiente di tutti gli uomini”? S, parlando ai suoi giudici,

cerca di rispondere a questa domanda, prendendo in considerazione le tre categorie di

persone che comunemente sono ritenute sapienti: i politici, i poeti e i tecnici. Con la sua

analisi stringente, S dimostra che nessuna delle tre categorie possiede la vera sapienza e

che quindi, rispetto a quegli uomini, lui è certo più sapiente: «Si dava il caso, infatti -

sostiene S a proposito di un celebre uomo politico - che né l’uno né l’altro di noi due

sapesse niente di buono né di bello, ma costui era convinto di sapere mentre non sapeva, e

invece io, come non sapevo, neppure credevo di sapere. In ogni caso, mi parve di essere

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più sapiente di quest’uomo, almeno in questa piccola cosa, ossia per il fatto che ciò che io

non so, neppure ritengo di saperlo» (21d). Analogo ragionamento viene fatto per i poeti e

per i tecnici. E allora l’oracolo che cosa voleva dire affermando la sapienza di S? Che

l’unica vera sapienza è possesso degli dèi, mentre quella umana ha poco o nessun valore:

quindi il vero sapiente è solo colui che, come S, si rende conto della limitatezza e della

fragilità del sapere umano.

b) Contro i “secondi accusatori”, S replica alle accuse di corruzione dei giovani ed empietà

(con le quali lo avevano portato in tribunale). Circa la prima questione, S dice che per

accusare qualcuno di corrompere i giovani, occorre conoscere benissimo la natura umana e

sapere che cosa veramente educhi l’uomo e cosa invece lo “corrompa”. Invita allora

Meleto a rispondere a queste domande, ma quello si rivela subito incapace di farlo. Cade

così la sua accusa

Quanto all’accusa di empietà (cioè di non credere negli dèi della città e di volerne

introdurre di nuovi), S per ovvi motivi non esprime fino in fondo il suo pensiero (che, come

abbiamo visto, contesta la concezione tradizionale della divinità), ma chiede a Meleto se

lo accusi di ateismo. Meleto risponde di sì e allora S ha buon gioco nel dimostrare che si

contraddice: accusa S di essere ateo e allo stesso tempo di voler introdurre nuovi dèi!

c-d) L’intero pensiero di S affonda le sue radici nella fondamentale “scoperta” dell’anima

come essenza dell’uomo e nella conseguente fondazione della filosofia morale. L’obiettivo

che S si prefigge con la sua filosofia, con il suo insegnamento è «dimostrare che l’essenza

dell’uomo sta nella sua anima (nella sua (psyché), ossia nella sua intelligenza, vale a dire

nella sua capacità di intendere e di volere ...». L’uomo troppo spesso preferisce occuparsi

di ciò che ha piuttosto che di ciò che è, ma «per essere veramente se medesimo l’uomo

non deve occuparsi in prevalenza del suo corpo, dei suoi possessi e del suo potere, ma

appunto della sua anima, al fine di renderla migliore il più possibile, perché da essa

dipende tutto ciò che nella vita vale. Il concetto di anima e quello della cura dell’anima

costituiscono il cardine del socratismo». Nell’AS questi concetti sono chiaramente

affermati da S davanti ai giudici: «Infatti io vado intorno facendo nient’altro se non

cercando di persuadere voi, e più giovani e più vecchi, che non dei corpi dovete prendervi

cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e con maggiore impegno che

dell’anima, in modo che diventi buona il più possibile, sostenendo che la virtù non nasce

dalle ricchezze, ma che dalla virtù stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli

uomini, e in privato e in pubblico» (29b-30b). Come preciseremo più avanti, S intende per

“anima” (per la prima volta nella storia della civiltà occidentale) l’io cosciente dell’uomo,

l’io “che ragiona”, che è quindi in grado “di intendere e di volere” (cioè di conoscere il

vero e di guidare le scelte dell’agire).

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Il primo discorso di S si conclude non con una supplica ai giudici perché abbiano pietà

(come si usava allora, portando in tribunale anche moglie e figli), ma con la richiesta di

giustizia89.

- Nel secondo discorso, come detto, l’imputato solitamente proponeva una pena

alternativa a quella di morte che era stata decisa dai giudici nella prima votazione. S si

comporta in modo molto diverso: chiedere una pena alternativa significava ammettere di

essere colpevoli, ma S non si ritiene tale, anzi è convinto di avere svolto un’opera

meritoria, seguendo le indicazioni della divinità che in lui fa sentire la sua misteriosa

“voce”. Merita quindi un premio e non una pena, un premio, sottolinea, che sia adatto alla

sua persona: «Che cosa conviene a un uomo che è povero, che è un vostro benefattore, e

che chiede solo di avere tempo libero per potervi esortare? Non c’è nulla che si addica di

più o cittadini ateniesi, se non che un uomo come questo venga nutrito a pubbliche

spese...».

Il discorso provocatorio di S ha un effetto negativo sui giudici, che votano nuovamente, e

stavolta a grande maggioranza, di condannarlo a morte. Sperano probabilmente che egli

chieda come pena alternativa l’esilio, in modo da soddisfare i politici che volevano solo

farlo tacere. Ma S rifiuta questa prospettiva e preferisce andare incontro alla morte.

- Nel terzo, breve discorso (successivo alla votazione definitiva dei giudici), S si rivolge sia

a chi ha votato contro di lui sia a chi ha votato a favore. Ai primi dice che sfuggire alla

morte è meno difficile che sfuggire alla malvagità, perché essa corre molto più veloce

della morte: gli accusatori sono giovani e veloci, eppure la malvagità li ha raggiunti, la

morte ha invece raggiunto S, ch’è vecchio e lento; chi stia meglio però è evidente: «Io me

ne vado, condannato alla pena di morte; mentre questi se ne vanno condannati dalla verità

per iniquità e ingiustizia. Io sto alla mia punizione, e questi alla loro» (39b). Uccidendo un

uomo, dice S, non si uccidono le sue idee: anzi, se quelle idee toccano la verità più

profonda, la morte di chi le ha sostenute le rafforza, non le vanifica.

A coloro che lo hanno assolto S propone una riflessione sulla morte e il suo significato: la

nostra ragione ci dice che la morte o è andare nell’assoluto nulla o è passare a un’altra

vita, una vita in cui, divenuti immortali, si trovano tutti gli uomini che sono già morti, una

vita serena e felice. In entrambi i casi la morte rappresenta dunque un vantaggio: nel

primo caso cessa ogni cosa, quindi anche ogni sofferenza, nel secondo caso si aprono le

porte di una vera e piena beatitudine. In questo senso vanno lette le ultime, celebri parole

89 «Cittadini, non credo sia giusto supplicare il giudice e schivare la condanna con suppliche, ma mi sembra giusto fornirgli spiegazioni e persuaderlo. Infatti il giudice ha la funzione non di fare regalo della giustizia, ma di giudicare secondo giustizia. Ha giurato non già di fare grazia a chi sembri a lui opportuno, ma di fare giustizia secondo le leggi» (35 b-c).

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dell’Apologia: «E’ ormai venuta l’ora di andare: io a morire, e voi, invece, a vivere. Ma chi

di noi vada verso ciò che è meglio, è oscuro a tutti, tranne che al dio». Poco prima, però, S

esprime con parole profetiche il suo più intimo convincimento: «... a un uomo buono non

può capitare nessun male, né in vita né in morte. Le cose che lo riguardano non vengono

trascurate dagli dèi» (41d).

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Annotazioni sulla concezione greca dell’anima:

Nella storia della cultura greca, in primo luogo di quella filosofica, il termine psyché

riveste un ruolo e un’importanza fondamentali. Come per altri termini greci (arché, physis,

per esempio), è difficile trovare un esatto corrispondente moderno, anche se solitamente

si fa riferimento al concetto (e al termine ) anima. Scrive Reale: «Anima resta il termine

moderno meno inadeguato, in quanto mantiene le valenze fondamentali dell’originale, ma

perde tutta una sere di risonanze che il termine ha via via assunto nella cultura greca e,

per giunta, rischia di richiamare alla mente dell’uomo moderno una problematica

prevalentemente religiosa, mentre nella cultura greca la psyché gioca un ruolo essenziale

praticamente a tutti i livelli: dalla metafisica alla filosofia della natura, dalla cosmologia

alla antropologia, dalla morale alla politica, dalla gnoseologia alla morale»90.

Possiamo ricostruire schematicamente le tappe della concezione greca dell’anima fino a

Socrate come segue:

- per Omero essa è o il “soffio vitale” che lascia l’uomo al momento della morte, o, più

profondamente, una sorta di “fantasma”, che sopravvive alla morte, triste e desolato,

vagando nell’Ade macerato dal rimpianto della vita perduta, privo di coscienza e

conoscenza (una concezione dunque del tutto negativa). In questa prospettiva il “vero

uomo” è solo quello vivente “di carne ed ossa”.

- l’orfismo ha una concezione opposta a quella omerica: l’anima è un principio divino,

perfetto e immortale, incarcerato nel corpo e ad esso vincolato a meno che la “vita orfica”

non operi la purificazione necessaria ad evitare una nuova nascita (dualismo, dottrina della

metempsicosi; cfr. la dispensa). Va detto però che nemmeno gli orfici riferiscono

all’anima-daimon conoscenza e coscienza.

- per i “fisici” presocratici l’anima si collega all’arché; in qualche autore questo conduce a

stabilire un legame tra anima e intelligenza-coscienza (Eraclito, Anassagora)

- solo con Socrate si afferma la concezione che identifica l’anima all’io intellettuale e

morale ed alla personalità dell’uomo. L’anima diviene così la sede dell’intelligenza, della

conoscenza e dei valori morali; di conseguenza in essa viene identificata l’essenza

dell’uomo, la sua più profonda e vera natura. 90 Storia della filosofia antica, 5, cit, 226.