La fiaba è sempre stata un potente mezzo per trasmettere … · 2015-01-16 · La fiaba è sempre...
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La fiaba è sempre stata un potente mezzo per trasmettere insegnamenti ai bambini.
La favola di Bufo descrive una iniziazione ai misteri della trasformazione spirituale tramite
il sentimento dell’amore. Parla anche delle qualità della femminilità e della mascolinità
che, se integrate nell’essere umano, arricchiscono la personalità di ognuno.
Un arricchimento simile io l’ho sperimentato in questi ultimi anni attraverso
l’insegnamento dell’archeomitologia che, con l’esperta Luisella Veroli, abbiamo adattato
alle esigenze di apprendimento della scuola primaria con un lungo percorso di DIDATTICA
DELLA PREISTORIA E DELLA STORIA LOCALE che è stato descritto nel capitolo “Il lago di Idro
visto dai bambini” del libro LO SPIRITO DEL TERRITORIO (Intermedia Edizioni ).
A proposito dei rospi e delle rane, l’approccio archeomitologico, svolto insieme alla classe
5^ della scuola primaria di Idro, è solo un piccolo esempio del piacere della ricerca e della
scoperta che i bambini realizzano quando l’insegnamento è in grado di farli accedere alla
parte più creativa di se stessi.
Mariella Scalisi
“I rospi in viaggio nel tempo”
La classe 5^ della Scuola Primaria di Idro, insieme all’insegnante Mariella Scalisi, ha svolto
(QUANDO?) un interessante lavoro di ricerca sulla simbologia del rospo nel corso della
storia.
Gli studenti, guidati dall’esperta Luisella Veroli, hanno realizzato - in collaborazione con la
ceramista Valeria Amigoni- sculture e rilievi in argilla, che riproducono oggetti e utensili
relativi alla mitologia del rospo in alcune civiltà, nel corso dei secoli.
Gli alunni hanno studiato come, nell’antichità, il rospo e la rana venissero considerati
simboli vitali di generazione e rigenerazione, perciò in tutte le loro rappresentazioni si può
ritrovare questa simbologia. Tale significato positivo si ricollega anche al tema della
rinascita della natura che si risveglia in primavera, proprio come il rospo esce dal suo
rifugio e si dirige verso il lago per la riproduzione: le femmine deporranno le uova, dando
così il via a una nuova generazione. Non a caso, immagini di rospi e rane venivano indossati
dalle donne come talismani, perché si riteneva proteggessero dalle malattie e favorissero
la fertilità.
Una delle rappresentazioni più antiche risale al VII millennio a.C.
È stata ritrovata in un tempio dell’Anatolia centrale, nell’antica città di Catal Huyuk: è
scolpita in rilievo sulla parete e rappresenta la figura della dea-rana dipinta in rosso, nero e
arancione. I cerchi concentrici intorno all’ombelico simboleggiano la rigenerazione.
Ad Achilleion, in Tessaglia, è stato rinvenuto un amuleto raffigurante un ibrido donna-
rospo, scolpito su pietra nera, risalente al 6300 a. C.. È dotato di due piccoli fori, che forse
originariamente venivano utilizzati per appendere l’amuleto alla parete, o per servirsene
come fosse una specie di grande bottone. Misura tre centimetri di altezza.
Ancora in Anatolia, è stata ritrovata una statuetta in ceramica, che raffigura uno strano
essere dalla testa umana e il corpo di rana, in posizione accucciata.
Questo reperto risale al V millennio a.C.
In Romania sono state reperite numerose rappresentazioni di rane in posizione eretta, ben
modellate, in pietra o in terracotta.
Non se ne conosce con certezza la loro funzione: forse si trattava di giocattoli o di statuette
rituali per propiziare la pioggia. Quest’ultima ipotesi sarebbe confermata dalla posizione
delle “braccia” rivolte verso l’alto, in preghiera.
Risalgono al 4500 a.C.
La tavoletta sottostante ricalca un reperto risalente al 3000 a.C., che rappresenta una
donna con la testa di rana: si tratta della dea creatrice egizia Haquit, che aveva il compito
di far rinascere la natura a ogni primavera e di proteggere le partorienti e la nuova vita.
Quest’anfora, risalente al II millennio, è stata ritrovata a Creta, nel palazzo minoico di
Festo. Vi è dipinto un rospo con le zampe rivolte verso l’alto in segno di preghiera; si pensa
perciò che il vaso contenesse acqua utilizzata per pratiche rituali, volte a ottenere la
guarigione dalle malattie.
Circa 8000 anni separano questi due rospi, le cui teste sono gigli in fiore, simbolo di
rigenerazione; il primo risale infatti alla fine del XIX secolo ed è stato ritrovato in Lituania, il
secondo è invece del 6000 a.C. ed è stato rinvenuto a Sesklo, in Tessaglia.
Si ringraziano Stefania, Luca A. Jacopo, Fabio, Stefano, Andrea D., Alex, Bea, Alessio,
Alessandro, Camilla, Luca G., Lorenzo, Giosuè, Andrea R., Acharaf e Ovidio, che hanno
realizzato questo interessante lavoro di studio, ricerca e anche divertimento, e l’insegnante
Mariella Scalisi che li ha seguiti e sostenuti.
CAPITOLO UNO
C’era una volta un tempo in cui il mondo era popolato da dame e cavalieri, draghi e
mostri marini, maghi e streghe dai poteri sconfinati. Un tempo in cui il coraggio, l’onore e
la lealtà erano valori imprescindibili per qualsiasi uomo. Un tempo in cui la vera ricchezza
era quella del cuore.
Ma quel tempo è ormai lontano e quei personaggi sono ormai scomparsi da tempo.
Si dà il caso, però, che noi abbiamo a disposizione, in via del tutto eccezionale, una speciale
macchina del tempo che ci permetterà di tornare indietro di secoli, fino a quell’epoca
leggendaria. Un fascio di luce fluorescente, un tuono improvviso ed eccoci trasportati
come per magia all’interno di un imponente maniero medievale. Avventuriamoci con
cautela nei corridoi debolmente illuminati dalla luce fioca di torce tremolanti: le pareti,
composte da regolari file di mattoni grigi e ben squadrati, sono fiancheggiate da armature
vuote, così lucide che è possibile addirittura specchiarvisi. Nella parte superiore, invece,
sono appesi bellissimi dipinti, raffiguranti ritratti di gentiluomini e gentildonne in abiti
eleganti. Si tratta dei membri di una dinastia onorata e molto importante, di cui fa parte il
protagonista della nostra storia, sir Bufo. Ma cominciamo dal principio.
Sir Bufo era nato per fare il cavaliere: ancora prima della sua venuta al mondo, le
stelle confermavano il suo destino. D’altra parte, lui stesso non aveva voluto fare altro
nella vita: a soli tre anni sapeva maneggiare perfettamente una spada, e a sette poteva
sconfiggere a duello chiunque della sua età osasse sfidarlo (e anche qualcuno più anziano).
Sir Bufo non solo era bello e aveva un portamento elegante, ma era anche nobile di cuore
e di sangue, gentile, generoso e di modi piacevoli. Quando fu abbastanza grande, suo
padre lo presentò in società, dando un grande ballo nel castello, e tutte le giovani dame
dei dintorni se ne innamorarono, sperando ciascuna in cuor suo di essere la prescelta come
futura sposa e signora del castello. Ma a Bufo l’amore non interessava: ciò che gli
importava era sconfiggere il male e riparare alle ingiustizie. La sua principale occupazione
era proprio dare la caccia ai delinquenti, cavalcando il suo nobile destriero, un bianco
cavallo di nome Sansone, e sempre accompagnato dal suo fedele scudiero, Semola, che
conosceva da quando era in fasce.
Benché gli fosse capitato in diverse occasioni di dar prova del suo coraggio, sventando
rapine o salvando giovani damigelle in pericolo, tuttavia sir Bufo non aveva ancora avuto la
soddisfazione di imbattersi in un’impresa veramente eroica, che avrebbe assicurato fama
eterna a lui, al fedele scudiero e perfino al nobile destriero. Così decise che non si sarebbe
fermato finché non sarebbe riuscito nel suo proposito: una mattina, all’alba, salutò il padre
e, armato di tutto punto, lasciò il castello insieme a Sansone e a Semola, in cerca di
avventure.
CAPITOLO DUE
Sir Bufo viaggiò in lungo e in largo, visitò villaggi rurali e grandi città e ovunque
giungesse sapeva farsi benvolere, sventando piccole ingiustizie e aiutando chiunque ne
avesse bisogno. Accadde che una sera sir Bufo, mentre alloggiava in una locanda, si
trovasse a chiacchierare con alcuni avventori delle sue imprese.
«Tu sì che sei un cavaliere d’altri tempi!» esclamò un omone grande e grosso, dal gioviale
viso rubicondo.
«Se io fossi nei tuoi panni» continuò un altro «certamente non mi farei scappare
l’occasione di divertirmi con qualche bella fanciulla! Guardati intorno: possibile tu non ti
accorga che gli sguardi di tutte le donne presenti in sala sono fissi su di te? Sembra quasi
un incantesimo! Le conquisti tutte! Ma sei troppo nobile di cuore per approfittare delle
debolezze femminili, non ho ragione?»
«Hai ragione, sì» rispose sir Bufo.
«Devo confessarti, però» riprese il cavaliere dopo qualche istante di silenzio, «che in realtà
non faccio troppa fatica a resistere alle loro profferte, per quanto lusinghiere. A me
l’amore non interessa affatto. Anzi, credo sia una disgrazia per chiunque ne rimanga
sopraffatto. È un ostacolo agli obbiettivi che mi sono imposto.»
Caso o sfortuna volle che proprio in quel momento passava, svolazzando invisibile sopra di
loro, Cupido, il nume alato che con arco e frecce fa innamorare chiunque lui desideri.
Sentendo le parole di sir Bufo, Cupido decise fosse opportuno dare una lezione a quel
malfidato. Estrasse dunque una freccia dalla punta dorata e la preparò sull’arco, pronto al
lancio; ma dopo un attimo di esitazione, abbassò l’arma pensando che, dopotutto, era fin
troppo facile farlo innamorare di chicchessia! Ben più duro doveva essere il suo castigo. Si
recò allora più veloce che poté sul Monte Olimpo, da sua madre Venere, la dea dell’amore,
e le comunicò quanto aveva udito.
«Molto bene, molto bene» commentò la splendida dea con un sorrisetto malizioso, «è da
tanto che non mi diverto con uno sciocco mortale. Saprò bene come fargli rimangiare le
parole che ha osato pronunciare. Scoprirà ben presto che solo nell’amore si trova la vera
salvezza. Vieni, mio dolce Cupido, presto: ti dirò all’orecchio cosa dovrai fare perché il mio
piano si realizzi senza intoppi.»
Il mattino seguente, sir Bufo, Semola e Sansone lasciarono la locanda in cui avevano
pernottato e, dopo una lauta colazione, ripartirono, ignari di quanto era nel frattempo
accaduto sul monte Olimpo. Camminarono per diverse miglia, finché si trovarono davanti
un bosco così fitto che i raggi del sole mattutino penetravano a fatica tra le chiome scure
degli alberi.
«Forse sarebbe meglio aggirare il bosco e seguire la strada. Certo, allungheremmo il nostro
tragitto, ma saremo sicuri di non fare brutti incontri» sospirò Semola, che non era nato con
un cuor di leone.
«Ma che sciocchezze vai dicendo, Semola! Non è forse questo il motivo per cui siamo
partiti? Come possiamo vivere una grande avventura, se evitiamo rischi e pericoli?»
controbatté prontamente Bufo, accigliandosi.
«Forza, proseguiamo senza indugio!» lo incoraggiò.
Detto questo, entrò per primo in groppa a Sansone nell’intricato groviglio di rami e
fogliame umido di rugiada.
Nel bosco, tutto taceva: si sentiva solo lo scricchiolio dei rami sotto i loro passi e il fruscio
delle foglie mosse dal vento. Il sentiero era stretto e sterrato e a stento i nostri eroi
riuscivano a vedere dove mettevano i piedi, a causa della scarsa luce. Sopra di loro,
silenzioso e invisibile, volteggiava sorridendo Cupido, che li seguiva da quando erano partiti
dalla locanda quella mattina. D’un tratto, il groviglio verde smeraldo degli alberi si aprì
come per magia e sir Bufo fu il primo a scorgere poco più avanti un bel laghetto dalle
acque chiare e invitanti.
«Un luogo di rinfresco! Un’oasi di riposo, finalmente! Andiamo a ristorarci, presto!»
I tre si lanciarono verso l’ambita meta, desiderosi di abbeverarsi e riposarsi dopo la lunga
camminata. Cupido sogghignò: tutto procedeva secondo i piani.
Quel lago, infatti, non era un lago qualsiasi, ma era di proprietà di un malefico folletto che
si era insediato nel bosco, prendendone il comando. Il folletto, vendicativo per natura, non
si sarebbe certo risparmiato e avrebbe punito a dovere il cavaliere. Il dio alato corse
dunque al suo giaciglio e lo trovò che sonnecchiava.
«Tremotino! Tremotino, svegliati!» gridò scrollando il folletto per le spalle, «qualcuno sta
attentando al tuo lago!»
Tremotino, che era geloso di tutto ciò che reputava di sua proprietà (benché il bosco, in
effetti, non appartenesse ad altri che a se stesso), si gettò a capofitto nella macchia e in
men che non si dica raggiunse le sponde dello specchio d’acqua.
«Chi osa disturbare il mio riposo? Chi osa insidiare il mio regno?!»
Si dà il caso che, in quel momento, sir Bufo e Semola fossero sdraiati poco lontano,
all’ombra di un albero, e solo Sansone stesse ancora godendo della freschezza dell’acqua.
Dunque Tremotino se la prese con lui soltanto.
«Ti farò pentire della tua insolenza!» tuonò contro l’ignaro cavallo.
Sir Bufo, osservata la scena, si alzò senza timore e avanzò a passo sicuro verso quello
strano personaggio –un ometto poco più alto di un metro, con un bizzarro cappello a
punta-, senza nemmeno preoccuparsi di sguainare la spada. Non vedeva alcun pericolo nel
nuovo venuto, ma lo aveva indispettito il fatto che si azzardasse a disturbare il suo cavallo
mentre si rifocillava.
«Cosa volete, signore?» lo apostrofò Bufo, senza nascondere un sorrisetto ironico, «forse
che il bosco è suo? Non mi sembra di aver letto alcun cartello!»
«È tuo, questo sciocco animale?» domandò impertinente il folletto, non prestando la
benché minima attenzione alle parole che gli erano state rivolte.
Sir Bufo assentì.
«Il tuo cavallo ha osato bere la mia acqua senza il mio permesso. Senza contare che voi
tutti siete entrati nel mio bosco senza nemmeno prendervi la briga di bussare. Qualcuno
deve pagare per questa insolenza. Ma sarò magnanimo e punirò uno soltanto fra voi.
Quindi scegli tu, cavaliere: o il cavallo o te.»
Sir Bufo non rispose: rise sonoramente e sguainò la spada.
Tremotino alzò le sopracciglia con fare annoiato e pronunciò sottovoce alcune parole
incomprensibili: dalle sue dita lunghe e nodose sgorgarono raggi color violetto acceso, che
avvolsero sir Bufo, accecandolo per un istante.
Il cavaliere si risvegliò pochi minuti dopo, steso supino sull’erba. Si sentiva intontito, come
se avesse preso un brutto colpo in testa, e la vista era un poco appannata. Sbatté la
palpebre e, riuscendo finalmente a mettere a fuoco, vide Semola che lo guardava con aria
preoccupata.
«Sir. . . sir Bufo?» mormorò lo scudiero, chinandosi verso di lui.
«Sto bene, Semola. Quel folletto impertinente me la pagherà! Se pensa che basti un
trucchetto da prestigiatore per fermare un cavaliere senza macchia e senza paura, si
sbaglia di grosso!»
«Temo che non sia possibile, signore» rispose desolato Semola.
«E perché mai? È fuggito, il marrano?»
«Il folletto? Sì, se ne è andato. Ma credo che non sia questo, ora, il problema più urgente.»
Accortosi che il suo padrone non riusciva a comprendere il senso delle sue parole e non
trovando l’ardire di esprimersi più chiaramente, Semola fece cenno a sir Bufo di seguirlo e
lo condusse a passi lenti verso le sponde lucenti del lago. Senza dire nulla, lo invitò con la
mano a specchiarsi sulla superficie. Sir Bufo si sporse, non sapendo che cosa aspettarsi.
Non riusciva a capire la preoccupazione del suo scudiero: tutt’al più, poteva essergli
spuntato un grosso bernoccolo in mezzo alla fronte. Dunque, sbeffeggiando dentro di sé la
codardia e l’apprensione del suo compagno, che giudicava esagerata e fuori luogo, osservò
la sua immagina riflessa nell’acqua.
Quello che vide, tuttavia, non fu il riflesso di un cavaliere: ma quello di un viscido,
verrucoso e minuscolo rospo.
CAPITOLO TRE
Sir Bufo impiegò qualche minuto prima di comprendere che cosa era accaduto: quel
folletto dispettoso lo aveva trasformato in un orrendo rospo! Si allontanò indietreggiando
dalla sua immagine riflessa dalle acque limpide del lago e, sedendosi su quelle sue nuove
zampette lunghe e sottili, si coprì il musetto con le mani –o meglio con quelle che una volta
erano state mani. Non riuscì a trattenersi oltre e scoppiò in un pianto rumoroso e affranto:
«Povero me! Povero me! Me tapino e disgraziato! La mia vita è rovinata! Rovinata! Come
farò adesso? Sono perduto! Perduto! Chi mai potrà riconoscere in un rospo il cavaliere che
sono stato in passato? Oh, Semola, avevi ragione tu! Perché siamo partiti? Dovevamo
starcene in pace al castello! Avrei trovato una brava fanciulla da sposare e avrei trascorso
una tranquilla esistenza fino alla fine dei miei giorni. E invece questa sciocca smania di
avventure. . . Guarda dove mi ha portato! Cosa farò adesso? Cosa farò?»
Semola, il fedele scudiero, non sapeva come consolare il suo povero padrone: cercò di dire
qualche parola incoraggiante, ma gli uscirono solo suoni disarticolati. In effetti, si sentiva
piuttosto ridicolo a parlare con un rospo, trattandolo con deferenza e rispetto. Ne aveva
cacciati tanti, di quegli animaletti, da bambino! E ora, ecco che si ritrovava, per uno strano
scherzo del destino, a sottostare a uno di essi.
I due erano talmente presi dai loro pensieri –l’uno a lamentarsi, l’altro a tentare di
consolare- che non si accorsero del rumore alle loro spalle.
Chi era apparso all’improvviso dietro di loro dovette parlare perché ranocchio e scudiero
gli prestassero attenzione. Bufo e Semola si voltarono allora all’unisono, al suono di quella
voce cristallina e soave.
«Mi dispiace disturbarvi in un momento tanto delicato» disse dolcemente una cerva dal
pelo candido come neve, «ma ho assistito a tutta la penosa scena e penso di potervi
aiutare. Anch’io, come tutti gli abitanti di questo bosco, condivido la tua sorte infelice,
prode cavaliere. Tremotino, il malefico folletto, si è impadronito ormai diversi anni fa della
nostra foresta e ha trasformato tutte noi creature dei boschi in animali. Io, per esempio, un
tempo ero una bellissima fata. A causa del legame che abbiamo con questo bosco, che ci
ha dato la vita, noi non possiamo allontanarci dalla nostra dimora. Ma tu, cavaliere, puoi
salvare te stesso e tutti noi, rompendo il maleficio!»
«Che cosa devo fare? Dimmi presto!» la esortò sir Bufo, che nonostante la sventura non
aveva perso il suo ardore.
«Devi recarti a ovest, oltre le montagne innevate che vedi, superare il villaggio dei Giganti
e arrivare fino al paese delle Streghe. Lì troverai una potente maga, Drusilla: solo lei
conosce la formula per spezzare l’incantesimo di Tremotino.»
«Dolce fata, non temere: salverò il vostro bosco e riprenderò le mie antiche sembianze!
Non è ancora nato chi può fermare sir Bufo!»
Detto questo, fece un bizzarro inchino sulle zampette palmate e con un fischio richiamò il
suo cavallo che, obbediente, gli si avvicinò.
La cerva fece un breve cenno di ringraziamento col capo e sparì, così come era apparsa,
nella macchia.
«Caro Semola» fece il rospo, «avrai l’onore di cavalcare Sansone. Certo ti renderai conto
che io sono impossibilitato, al momento: lo condurrai tu, al mio posto, mentre io starò
posizionato al sicuro in una delle tue tasche. Inizia per noi un lungo e faticoso viaggio, più
duro di quanto avremmo mai osato immaginare. Per quanto coraggioso e indomito, ho
perso gran parte della mia forza e se mai incontreremo lungo il percorso dei nemici, sarai
tu a dover difendere il nostro onore. Te la senti, Semola?»
Sir Bufo aveva parlato con tanta solennità che lo scudiero non fu davvero in grado di
rifiutare. Acconsentì silenziosamente e si inginocchiò davanti al suo padrone che, postagli
una delle zampe anteriori sulla scarpa infangata –perché era quello l’unico punto che
riusciva a toccare- lo nominò ufficialmente vassallo, alzandolo di grado. Al culmine della
gioia, Semola lo guardò con gli occhi umidi di gratitudine:
«Ricoprirò con onore questa carica, signore. Non ve ne pentirete!»
Alla fine, dunque, anche Semola scoprì di avere nel cuore un po’ di coraggio e, salito a
cavallo, spronò Sansone verso il sole, che lentamente tramontava dietro le montagne
innevate.
CAPITOLO QUATTRO
Dopo molte ore di cammino, i tre arrivarono finalmente alle porte di un villaggio.
«Deve essere il villaggio dei Giganti, di cui ci ha parlato la cerva» sentenziò Bufo,
sporgendo la verde testolina dalla tasca della giacca di Semola.
«Speriamo non siano poi tanto grossi» balbettò lo scudiero dal canto suo, guardandosi
intorno con circospezione.
Sansone si limitò a sbuffare, battendo gli zoccoli sul terreno secco e sassoso.
Avanzarono lentamente, prestando molta attenzione alle grandi buche che costellavano
tutto il sentiero.
«Che cosa avrà causato queste voragini?» mormorò pensieroso sir Bufo. La sua
preoccupazione trovò ben presto una risposta: all’improvviso, un tonfo agghiacciante li
fece sobbalzare. Svelti, si nascosero dietro un cespuglio, giusto in tempo per vedere
avanzare a larghi passi un uomo dall’altezza colossale: un Gigante. Era proprio lui,
camminando pesantemente, a lasciare sul suolo quelle enormi buche: non erano altro che
le impronte dei suoi piedi.
«Oh cielo!» farfugliò terrorizzato Semola, «e noi dovremmo attraversare un villaggio
abitato da quei. . . Quei cosi enormi?» continuò, non trovando termine più adatto, nelle
sua mente sconvolta dalla paura, per definire la loro nuova conoscenza.
«Avanti, Semola!» lo esortò sir Bufo che, nonostante le tragiche condizioni in cui versava,
non aveva perso un briciolo del suo antico coraggio, «la nostra piccolezza non può che
essere un vantaggio! Non ci vedranno nemmeno e noi riusciremo a sgattaiolare fuori dal
villaggio con facilità, vedrai!»
Lo scudiero deglutì un paio di volte e, battendo sui fianchi di Sansone con le staffe, lo
spronò a proseguire; nemmeno il cavallo, comunque, pareva troppo entusiasta e
camminava lentamente.
L’ottimismo del rospo non si rivelò, ahimè, di buon auspicio: non avevano fatto che pochi
passi quando una mano gigantesca li avvolse fra le dita, portandoli a un’altezza da
capogiro: Semola si ritrovò davanti a un volto enorme, mentre due occhi altrettanto grandi
lo fissavano con curiosità.
«Che bizzarri giocattoli!» disse il Gigante con voce cavernosa, ma gentile.
Sansone cercò di liberarsi dalla stretta, dimenandosi con tutte le sue forze, mentre Semola
tentava inutilmente di calmarlo.
«Oh, che buffo!» continuò il Gigante ridendo «questi strani esserini sono vivi! Sono sicuro
che Margherita ne sarà felicissima!», detto ciò aprì il borsello che teneva appeso al collo e
vi depositò con delicatezza il suo tesoro.
In tutto quel trambusto, però, sir Bufo era riuscito a sgusciare fuori dalla tasca di Semola e
dalla possente presa del Gigante: era talmente piccolo che gli occhi di quell’uomo enorme
non potevano quasi vederlo. Nascostosi dunque in un lembo del borsello, attese con
pazienza che il Gigante entrasse in casa, per poi rifugiarsi in un angolo buio della stanza, in
attesa di agire.
«Papà, papà! Che mi hai portato oggi? Un fiore? Un frutto? Un dolcetto? Che cosa,
che cosa?!» strillò una bambina dai boccoli dorati, che non doveva avere più di cinque anni
ma che già era alta quanto una casa a tre piani.
Il Gigante rise di gusto ed estrasse con gesto da prestigiatore dal borsello Semola e
Sansone, nascondendoli nel pugno chiuso alla vista della bambina.
Poi, le offrì entrambe le mani invitandola a sceglierne una.
La bambina si portò un dito alla bocca, studiò con attenzione i pugni serrati e poi indicò
con decisione quello destro.
«Hai indovinato di nuovo!» sorrise dolcemente il Gigante, aprendo piano il palmo e
mostrando con fierezza un Semola e un Sansone tremanti e paralizzati dalla paura.
«Che cosa sono?»
«Giocattoli viventi, piccola mia! Li ho trovati e posso assicurarti che sarai l’unica in tutto il
villaggio a possedere una cosa simile! Tienili con cura e non far loro del male.»
Margherita afferrò con delicatezza i suoi nuovi ninnoli e li chiuse in una gabbietta. Poi
depositò accanto a loro una bacinella d’acqua e un vaso pieno di semi.
«Papà!» domandò la bambina, «credi che vada bene il mangime che davo agli uccellini?»
Ma il padre non rispose, si era già profondamente addormentato sulla sua poltrona.
Margherita rimase a osservare curiosa i due strani esserini per una buona mezz’ora ma,
visto che i due sembravano intenzionati a non muovere un muscolo, decise di uscire in
strada a giocare.
«Di voi mi occuperò più tardi» annunciò con voce dolce anche se, alle orecchie di Semola,
quelle parole erano ben più simili a una minaccia.
«Oh padrone!» si lamentò fra le lacrime lo scudiero, non appena la bambina fu uscita, «in
che guaio ci siamo cacciati! Non usciremo mai più da questa gabbia! Trascorreremo il resto
della nostra esistenza come fossimo dei criceti, chiusi fra quattro sbarre, a mangiare
insipidi semi per uccelli! Oh poveri noi!»
Fu solo a questo punto, quando non venne alcuna risposta dalla tasca della giacca, che
Semola si accorse che sir Bufo non era con loro. Il ranocchio lo salutò dall’altra parte della
gabbia, con un sorriso furbo.
«Padrone!» esclamò sorpreso «come avete fatto a uscire?!»
«Non sono mai entrato, mio caro Semola. In fondo, in questa circostanza, la maledizione di
Tremotino si è rivelata utile: sono talmente piccolo che i Giganti non potranno mai
accorgersi di me! Ora ascoltami: questa sera, quando la bambina tornerà, dovrai essere
accondiscendente e prestarti ai suoi giochi. Lei andrà a dormire felice e, a notte fonda, io
potrò liberarvi. Al buio, mentre tutto il villaggio giacerà addormentato, fuggiremo! È un
piano perfetto, non può fallire!»
Semola se lo augurò, sperando che questa volta l’ottimismo del suo padrone si sarebbe
rivelato vincente.
Sul far del tramonto, Margherita tornò a casa e, dopo aver cenato, ottenne dalla madre il
permesso di giocare un poco con le sue nuove bambole viventi prima di andare a letto.
«Domani vi mostrerò a tutti i miei amici!» annunciò con orgoglio la bambina.
«Per questo dobbiamo prepararci al grande evento» continuò, battendo le mani, «tu, vieni
qui!» Margherita afferrò il povero Sansone e, in quattro e quattr’otto, decorò la sua fulgida
criniera di mollettine, fiocchetti e nastrini colorati.
«Ora sì che sei presentabile!» esclamò con aria soddisfatta.
Fu poi la volta di Semola che, in mancanza di altri vestiti della sua misura, fu costretto a
indossare un elegante abito da bambola, corredato di scarpine col tacco e coroncina.
Margherita li depose dunque di nuovo nella gabbia, richiudendo la porta a doppia mandata
con una piccola chiave che depositò sul comodino, di fianco al letto. Osservò sbadigliando
il suo lavoro e, con un sorriso, si mise a letto, pregustando in sogno il successo che avrebbe
ottenuto il mattino dopo.
Sir Bufo saltò con agilità sul comodino e afferrò la chiave.
“Non pensavo fosse tanto pesante!” sbuffò, cercando di trascinarla sulla superficie di legno
senza fare rumore.
Con fatica la trasportò fino alla gabbia, riuscì a sollevarla e a infilarla nella serratura, e
liberò così i suoi due compagni di viaggio.
«Ce l’abbiamo fatta!» esclamò vittorioso, «nemmeno un branco di Giganti ci può fermare!
Andiamo, prima che sia troppo tardi!»
«Ma. . . Ma padrone!» protestò Semola affranto, «io non posso venire conciato così!»
«Suvvia, non farai i capricci proprio adesso? Non c’è tempo per queste sciocchezze,
dobbiamo darci una mossa!»
«Facile, per lui. Sono io che faccio la figura dello scemo» brontolò lo scudiero, montando a
cavallo. Bufo si posizionò sulla coroncina che adornava i capelli scarmigliati di Semola: da lì,
pensò, avrebbe avuto una visuale di gran lunga migliore.
Fortunatamente, la gabbia era stata messa vicino alla finestra aperta e i tre riuscirono così
a uscire con facilità dalla casa. Sir Bufo aveva avuto ragione: il villaggio era immerso nel
sonno e niente pareva turbare il silenzio della notte. La luce argentea di una grande luna
piena illuminava il sentiero, accompagnando i loro passi fino al termine del villaggio dei
Giganti. Il primo ostacolo era stato superato. Mancava ormai poco alla meta: il paese delle
Streghe era sempre più vicino.
CAPITOLO CINQUE
Il paese delle Streghe era costituito da un gruppo di casette ordinate, dal tetto
appuntito, simile a un cappello. Al centro, vi era una stradina lastricata di ciottoli, su cui si
affacciavano i balconi delle case, pieni zeppi di vasi contenenti strane piante che sir Bufo
non aveva mai visto prima.
Era ancora mattina presto e il villaggio pareva addormentato. A un tratto, come per un
ordine misterioso e invisibile, le persiane vennero aperte, le finestre spalancate e un brusio
di voci femminili aleggiò nell’aria.
«Si stanno svegliando» mormorò Semola.
«Credo che dovremmo chiedere informazioni a una di queste streghe, se vogliamo trovare
al più presto Drusilla» consigliò Bufo.
«Ma bada, Semola» precisò, «bada di essere gentile. Non vorrei trasformassero anche te in
un rospo. Allora, sì, che saremmo nei guai sul serio!»
Semola procedette con circospezione, finché non scorse poco lontano un gruppo di
streghe riunite attorno a una fonte e intente a raccogliere l’acqua cristallina in grosse
brocche di terracotta.
«Chiedo perdono, dolci signore» azzardò lo scudiero con voce flebile.
Le donne si voltarono all’unisono e, alla vista di quell’ometto impaurito e tremolante
vestito in abiti femminili, esplosero in una risata di scherno.
«Che cosa ci fa un uomo al nostro villaggio? E per di più addobbato di tutto punto! Dove
hai lasciato il tuo principe, tesoro? Forse credeva di poterci prendere in giro!» si dicevano
l’un l’altra, senza smettere di sghignazzare. Semola non sapeva come reagire e se ne stava
immobile e zitto, nonostante le esortazioni di sir Bufo a esplicitare la sua richiesta.
«Non lo sai che è vietato agli uomini entrare al nostro paese?» sbottò a un certo punto una
strega, dai capelli rossi come una fiamma vivace.
«Io. . . Io non sapevo» balbettò lui, «mi è stato detto di venire qui. . . Sto cercando aiuto. .
.»
«Un uomo che chiede aiuto a noi?» esclamò indispettita un’altra, «non lo sai come
veniamo trattate, da voi altri uomini?! Come ti permetti? Meriteresti di essere trasformato
in un rospo!»
A questo punto sir Bufo, ritenendo ormai disperata la situazione, decise di fare un
tentativo. Balzò sulla testa di Sansone, ergendosi in tutta la sua minuscola statura e,
gonfiato il petto verdastro, esclamò con tutta l’aria che aveva nei polmoni:
«Streghe! Già un’ingiustizia è stata commessa: non vogliate essere responsabili della
prossima. Se aveste la pazienza di ascoltare per un minuto la nostra storia, capirete che noi
non siamo dei nemici e da voi chiediamo solo un po’ di aiuto e comprensione. Vi prego,
concedeteci una possibilità.»
Le streghe, sorprese e incuriosite da quella strana creatura che sembrava magica quanto
loro, ammutolirono e, fatto un cenno con la testa, accondiscesero alla richiesta del rospo.
Sir Bufo raccontò fin dall’inizio la loro avventura, soffermandosi sul triste episodio che lo
aveva ridotto a innocuo anfibio.
«Per liberare me e tutti gli altri esseri magici del bosco dal malvagio incantesimo di
Tremotino, dobbiamo trovare Drusilla. Così ci ha detto la cerva bianca.»
La strega dai capelli rosso fuoco, che aveva parlato per prima, disse loro di seguirli e li
condusse davanti a una catapecchia in fondo alla strada, dal cui interno si udivano rumori
poco rassicuranti.
«Drusilla abita qui» annunciò, «ma è dalla scorsa settimana che non la vediamo. Non si sa
mai che cosa combina, quella strega. Le manca qualche rotella. Ma su, su entrate!»
Semola e Bufo si guardarono, perplessi: sarebbe stata in grado di aiutarli, quella strega
matta?
Forse intuendo i loro pensieri, la strega che li aveva accompagnati fin lì si affrettò a
rassicurarli:
«Non preoccupatevi, però: è la più potente ed esperta di tutte noi!»
Un poco rincuorati, i due si avviarono lungo il vialetto e socchiusero la porta: vennero
accolti da un boato fragoroso e una nuvola di fumo grigiastro e denso li avvolse, facendoli
lacrimare.
«Coff, coff!» tossì una voce, «scusate! L’incantesimo non è riuscito come doveva. Ma dove
ho sbagliato? Ho seguito tutti i passaggi alla perfezione. . . Almeno credo!»
Quando la nube di fumo si fu diradata, Bufo e il suo scudiero si ritrovarono davanti una
ragazza dai capelli color carota e il viso paffuto cosparso di lentiggini. Sul nasino all’insù
portava un paio di occhiali tondi, che la facevano sembrare ancora più imbranata di quanto
già non apparisse in quel momento, con le guance tutte sporche di fuliggine e il cappello a
punta che le penzolava storto sulla testa.
«D-Drusilla?» domandò Semola.
«Oh, no! Non sono Drusilla!»
Bufo e lo scudiero emisero involontariamente un sospiro di sollievo.
«Io sono sua nipote. Sono ancora un’apprendista strega, ma la zia dice che imparo in fretta
e che ho davanti un futuro promettente. L’ha letto nei tarocchi, dunque perché
preoccuparsi se faccio ancora un po’ di fatica con le formule?»
Sorrise, mostrando una fila di denti bianchi e diritti; una leggera fessura tra gli incisivi
rendeva il suo volto ancora più simpatico, ma certo non attraente.
«Mi chiamo Lucilla» aggiunse subito dopo, «cosa posso fare per voi?»
Sir Bufo e Semola si scambiarono uno sguardo sconsolato, intuendo ciascuno i pensieri
dell’altro: avrebbero potuto affidarsi a quella streghetta sconclusionata e confusionaria?
Alzarono le spalle quasi all’unisono: non avevano altra scelta.
Sir Bufo raccontò per l’ennesima volta l’avventura in cui loro malgrado erano stati coinvolti
e spiegò come la cerva bianca li avesse indirizzati da Drusilla, a quanto pare l’unica che
avrebbe potuto aiutarli a sconfiggere il terribile maleficio.
«Mi dispiace molto» rispose Lucilla, dopo aver ascoltato con attenzione tutto il racconto,
«ma mia zia è partita per una missione segretissima e non ho idea di quando farà ritorno.
Però ha lasciato qui il suo libro degli incantesimi.»
«Il libro degli incantesimo?» ripeté Bufo incerto.
«Esattamente. Il libro degli incantesimi è il più potente strumento magico che una strega
possieda. Esso contiene tutte le magie che la strega ha appreso durante la sua vita. Il mio,
l’ho appena cominciato e non ha che qualche pagina. Ma il libro della zia è un enorme
volume di oltre mille pagine. Sono sicura che non si arrabbierà, se lo prenderemo in
prestito per una causa tanto nobile.»
Così Lucilla estrasse da una libreria in legno massiccio un pesante librone impolverato,
dalla copertina verde scuro. Dalle pagine ingiallite e consunte, penzolava un segnalibro di
velluto rosso. Lucilla sollevò piano la copertina e cominciò a esaminare con attenzione
l’indice, scorrendo velocemente con gli occhi le centinaia di incantesimi che vi erano
annotati.
«Ecco qui!» esclamò a un certo punto, sfoderando un irresistibile sorriso, «pagina
duecentoventisette: Come spezzare un maleficio.»
Alzò delicatamente le pagine, cercando il numero.
«Oh, maledizione!» borbottò a un certo punto.
“Non ho mai udito linguaggio più volgare in bocca a una dama!” non poté fare a meno di
pensare sir Bufo con disappunto.
«Che succede?» si affrettò a domandare preoccupato Semola.
«Le pagine sono rovinate! Però credo di essere riuscita a individuare l’incantesimo che ci
occorre. Ecco qui: corri ai piedi dell’arcobaleno: lì troverai il magico paiolo traboccante di
monete d’oro e, con esso, la fine di tutti i tuoi guai. Sembra facile!»
«Facile?!» borbottò lo scudiero «ti sembra facile arrivare ai piedi dell’arcobaleno?
Ammesso che un posto del genere esista!»
«Ma certo che esiste!» ribatté spazientita Lucilla, «ci andremo sulla mia scopa volante. Poi
consegneremo il paiolo a Tremotino e lui sarà costretto a dimorare ai piedi dell’arcobaleno
finché qualcun altro non ruberà il paiolo.»
La streghetta si diresse con decisone verso una piccola porticina, la aprì e, da quello che
sembrava essere un piccolo ripostiglio, estrasse una scopa sgangherata.
«Ecco il mio bolide!» annunciò trionfante.
«Quel coso. . . vola?» domandò Bufo con tono sprezzante.
Da quando era stato trasformato in rospo, sembrava che tutte le buone qualità che lo
avevano accompagnato fin da bambino lo avessero abbandonato. Nella disgrazia, erano
emersi tutti quei difetti di carattere che da essere umano era sempre riuscito a controllare:
pur essendo piccolo e indifeso, mostrava una superbia di gran lunga maggiore di quando
era un nobile cavaliere. Tutto intorno a lui gli appariva sciocco e misero e rispetto ai suoi, i
problemi degli altri erano insignificanti. A causa della sfortuna che gli era capitata, credeva
che tutto il resto del mondo avesse un debito nei suoi confronti. Lucilla, che pure si era
dimostrata tanto disponibile e gentile verso di loro –in fondo, per lei non erano altro che
perfetti sconosciuti- gli sembrava sciocca e imbranata, oltre a essere sgraziata e bruttina.
Era la fanciulla meno attraente che avesse mai incontrato e lo imbarazzava doversi
mostrare in pubblico insieme a lei. Proprio lui, che non era altro che un viscido e minuscolo
rospo! Eppure, sir Bufo non teneva conto del suo aspetto e, nonostante tutto, si credeva il
miglior cavaliere che il mondo avesse mai conosciuto. Inoltre, lo infastidiva il fatto che
Lucilla non badasse minimamente né al suo essere rospo né al suo rango di cavaliere, e che
trattasse lui e Semola esattamente allo stesso modo. Ecco qual era il vero maleficio di
Tremotino: essere riuscito a trasformare, attraverso l’aspetto esteriore, anche il suo cuore,
rendendolo piccolo e arido.
«Riuscirà a trasportarci tutti e tre?» domandò sir Bufo, con il consueto tono spazientito e
dubbioso.
«Oh, certo che no!» si affrettò a rispondere la streghetta, «questa scopa è fatta per un solo
passeggero! Ma tu sei talmente piccino che potrai venire con me. Insieme recupereremo il
paiolo e salveremo il bosco.»
Sir Bufo non disse nulla, ma dubitava che quella mocciosa avrebbe potuto essergli d’aiuto.
“Come al solito mi toccherà fare tutto da solo!” pensò stizzito.
«Partiremo domattina all’alba. Fortunatamente, l’incantesimo della pioggia- che è quel che
ci serve per far comparire un bell’arcobaleno- è l’unico che mi riesca con facilità» ammise
arrossendo Lucilla.
«Domattina farò cadere dal cielo una pioggerellina sottile e delicata e, allo spuntare dei
primi raggi del sole, ci dirigeremo verso la nostra meta. Vedrete, sarà un gioco da ragazzi!»
CAPITOLO SEI
La mattina successiva, dopo una bella dormita e una colazione abbondante, Lucilla
fece quel che aveva promesso: pronunciò a voce bassa qualche misteriosa formula e,
all’improvviso, il cielo limpido si coprì di nubi grigiastre e una pioggia sottile e delicata
cominciò a scendere piano dal cielo.
«Proprio come avevo annunciato!» disse lei tutta soddisfatta.
Sir Bufo e Semola guardavano esterrefatti il cielo, senza riuscire a proferire parola: dunque
era vero, quella streghetta aveva realmente dei poteri magici!
Purtroppo, però, ben presto avrebbero dovuto ricredersi sull’abilità di Lucilla: nel giro di
pochi minuti, la pioggerellina sottile e delicata si tramutò in un violento temporale, con
tuoni e fulmini al seguito.
«Oh, cavolo!» mormorò la strega, arrossendo di vergogna fin sulla punta del cappello, «mi
sa che ho esagerato!»
«Complimenti!» borbottò Bufo che, man mano passavano i giorni, si faceva sempre più
irritabile e scontroso, «e ora cosa facciamo? Non possiamo attendere ancora! Partiremo lo
stesso! Forza, prendi la tua scopa, sempre che tu sia davvero in grado di farla volare.»
«Certo che so farla volare!» rispose offesa Lucilla.
I due montarono in sella e Lucilla si lanciò a tutta velocità in mezzo al temporale, senza
timore dei fulmini che esplodevano come scariche elettriche da ogni angolo del cielo.
In realtà, la streghetta aveva un po’ di paura, ma cercava di non darlo a vedere: il
ranocchio seduto accanto a lei sembrava così tranquillo! Non aveva creduto sul serio alla
storia del folletto e del suo maleficio fino a quel momento: Bufo doveva essere proprio un
cavaliere senza macchia e senza paura, se in mezzo a quel putiferio non faceva una piega,
pur essendo tanto piccolo e indifeso. Cominciò a vederlo sotto una luce diversa e ad
ammirarlo per il suo coraggio. Certo, non poteva dire fosse un tipo socievole o simpatico,
ma d’altronde chi mai lo sarebbe stato, una volta tramutato in un rospo? Aveva tutte le
ragioni per essere infuriato con il mondo intero.
Il temporale si fece così feroce che i due furono costretti a ripararsi in una caverna:
«Non siamo troppo distanti dal bosco di Tremotino! Ci conviene fermarci finché non avrà
smesso di piovere!» urlò Lucilla, cercando di sovrastare il boato della tempesta.
Bufo annuì e Lucilla deviò in un piccolo antro buio.
Dopo molti tentativi andati a vuoto, Lucilla riuscì ad accendere con la sua bacchetta magica
un misero fuocherello per scaldarsi almeno un poco.
Sir Bufo l’aveva osservata per tutto il tempo, scuotendo la testolina, e si era domandato
come potesse insistere imperterrita in qualcosa che pure continuava a sbagliare.
Ma, in fondo, non era quello che aveva fatto anche lui per tutta la vita? Non aveva seguito
inutilmente il sogno di compiere un’impresa grandiosa per anni e anni? Dopotutto, lui e
Lucilla non erano poi così diversi.
«Sai» disse all’improvviso la streghetta, distogliendolo dai suoi pensieri «zia Drusilla mi ha
accolta quando non ero che una bambina. È stata lei a crescermi. È la strega più potente
del mondo e i miei genitori desideravano con tutto il cuore che io seguissi le sue orme. Così
mi hanno mandato da lei, perché mi educasse e mi insegnasse i segreti del mestiere.
Purtroppo, non ho mai mostrato una grande abilità, in fatto di incantesimi e pozioni. Sono
piuttosto imbranata e, se devo ammetterlo, la magia non mi interessa granché. Ma non
l’ho mai detto a nessuno, perché non voglio deludere la mia famiglia. Così, giorno dopo
giorno, mi esercito con costanza e sono sicura che alla fine riuscirò a diventare una grande
strega!»
La luce del fuoco che scoppiettava illuminò per un attimo il volto di Lucilla: il naso a patata,
le lentiggini, i capelli scarmigliati color carota e quel sorriso sbilenco non potevano che
infondere un’immediata simpatia.
“Certo, l’aspetto di una strega ce l’ha!” pensò invece Bufo fra sé e sé.
Non riusciva a vedere altro, in quella fanciulla che lo stava aiutando mettendo a
repentaglio la sua stessa vita, benché lo conoscesse appena da un giorno; non riusciva ad
andare oltre il suo aspetto esteriore e non riusciva a scorgere in lei tutto il coraggio, la
forza di volontà e la bontà che animavano il suo cuore.
Gli occhi di Bufo erano diventati ciechi e tutta la grandezza e la nobiltà d’animo che lo
avevano contraddistinto si stavano via via rimpicciolendo nel corpicino da rospo.
«Io una volta ero un grande cavaliere, amato e apprezzato. Compivo gesta eroiche,
catturavo i malfattori e salvavo dame in difficoltà. Ma quel malefico folletto ha distrutto
tutto ciò che ho fatto e ora non sono altro che un minuscolo e orribile animaletto viscido!»
si lamentò lui di rimando. Voleva far capire a Lucilla che, fra i due, chi aveva il diritto di
lamentarsi della propria esistenza non era certo lei.
«Per me sei carino ugualmente» mormorò Lucilla con un sorriso dolce, «e in te non vedo
un rospo, ma un eroe che affronta le sventure senza lasciarsi perdere d’animo.»
Ancora una volta, però, Bufo non riuscì a leggere fra le parole della strega e pensò lo stesse
soltanto prendendo in giro. Si voltò dall’altra parte e, dandole la schiena, finse di dormire
finché il sonno non lo colse davvero.
CAPITOLO SETTE
Quando Bufo si svegliò, il temporale era cessato e un luminoso arcobaleno
attraversava il cielo di nuovo limpido. L’erba fuori dalla caverna era bagnata di pioggia e di
rugiada e l’aria era fresca e frizzante. Lucilla era già in piedi e osservava il panorama,
stringendo fra le mani la sua scopa volante.
«Buongiorno!» disse, accogliendolo con un sorriso, «forza, è ora di andare prima che
l’arcobaleno svanisca!»
I due montarono in sella alla scopa che, veloce e leggera, raggiunse senza intoppi i piedi
dell’arcobaleno. Lì, appoggiato al suolo, stava un paiolo d’ottone ricolmo di lucenti monete
d’oro.
«Dunque è vero!» esclamò sir Bufo, credendo per la prima volta alle parole della
streghetta, «non è soltanto una leggenda! Esiste davvero un tesoro!»
«Certo che esiste!» rispose indispettita Lucilla, «sbrighiamoci a portarlo a Tremotino!»
Lucilla sollevò il paiolo e si stupì che non pesasse quasi nulla. Lo assicurò alla scopa e,
compiendo un leggero salto, si librò nuovamente nell’aria, mentre Bufo si teneva
saldamente stretto a lei.
Raggiunsero il laghetto sulle cui sponde sir Bufo, Semola e Sansone avevano incontrato per
la prima volta il malefico folletto e lo trovarono disteso pacificamente all’ombra di un
albero.
«Tremotino!» gridò sir Bufo, sfoderando il tono più minaccioso che riuscì ad assumere,
«sono tornato per sconfiggerti e rompere il tuo incantesimo. Prendi questo paiolo e
vattene per sempre!»
Tremotino sollevò il cappello a punta che gli ricadeva stancamente sugli occhi e si limitò a
lanciare un’occhiata infastidita a quelli che considerava fastidiosi ma innocui seccatori.
«Pensate che sia così semplice battermi? Non ne hai ancora avuto abbastanza dei miei
poteri magici, stupido rospo?»
Detto ciò, il folletto si alzò in piedi, agitò le dita e all’improvviso il cielo si rannuvolò. Pochi
istanti dopo, riprese a piovere: l’arcobaleno che Lucilla aveva fatto apparire scomparve nel
nulla e, con esso, anche il paiolo magico.
«Quelle monete d’oro non sono altro che un’illusione!» spiegò Tremotino, «proprio come
l’arcobaleno.»
«Ma com’è possibile?» protestò Lucilla, «ho letto io stessa l’incantesimo dal libro di magie
di mia zia Drusilla!»
Si fermò a riflettere un istante e poi tutto le fu chiaro: le pagine rovinate l’avevano tratta in
inganno! Aveva letto la formula sbagliata!
«È tutta colpa tua!» tuonò sir Bufo, «e ora io sarò costretto a rimanere rospo per tutta la
mia vita! La mia esistenza è finita! Dovrò rifugiarmi per il resto dei miei giorni in uno stagno
puzzolente, nascondendomi alla vista di quelli che un tempo furono miei amici. Che ne sarà
del grande cavaliere che sono stato un tempo? Tutto è perduto! Sono solo uno stupido,
sciocco, minuscolo rospo!»
Bufo singhiozzava, nascondendo il musetto fra le zampe palmate: ora sì, che sembrava un
animaletto indifeso; tutto il suo coraggio era svanito insieme al paiolo magico.
«Non rimarrai senza amici» tentò di consolarlo Lucilla, «Semola e Sansone ti sono fedeli,
sono rimasti al tuo fianco per tutto questo tempo. E poi, nemmeno io intendo
abbandonarti: per me non sei solo un rospo. Io vedo in te un grande cavaliere, nonostante
tutto.»
Detto questo, la streghetta si voltò ritta e fiera verso Tremotino e con voce ferma
annunciò:
«Hai fatto soffrire fin troppe persone, folletto! Sir Bufo deve tornare un essere umano,
perché senza di lui il mondo perde un vero eroe! Prendi me, al suo posto! Trasforma me in
un rospo! Questo è il migliore contributo che posso offrire!»
A quelle parole, Bufo alzò la testolina ancora singhiozzante e guardò stupefatto la giovane
strega che si immolava al suo posto, senza che lui nemmeno gliel’avesse chiesto e dopo
che l’aveva trattata per tutto il tempo con sufficienza e superiorità. Lei sì, che aveva
coraggio da vendere! Lei sì che dimostrava eroismo, fierezza e nobiltà d’animo. . . non
certo lui. Lui, che si vantava di essere un grande cavaliere, si era dimostrato codardo e
senza cuore, incapace di apprezzare l’aiuto di quanti lo avevano sostenuto pur senza
condividere la sua stessa sventura.
Fu in quel momento che, guardando Lucilla, si accorse per la prima volta di quanto fosse
bella: la sua pelle era luminosa come la luce dell’alba e i suoi occhi splendevano come
stelle nella notte.
Senza lasciargli il tempo di replicare alcunché, Lucilla si inginocchiò davanti al ranocchio, lo
prese delicatamente fra le mani e gli schioccò un bacio sulla testolina.
Una luce dorata li avvolse entrambi, coprendoli alla vista del malvagio Tremotino e di tutti
gli abitanti del bosco che erano accorsi sulle sponde del lago: quando la nebbia sfavillante
si diradò, Lucilla e sir Bufo erano ancora stretti l’uno all’altra, ma al posto del rospo vi era
ora un affascinante giovanotto.
«Ce l’avete fatta!» esclamò la cerva candida, mentre la stessa luce dorata avvolgeva tutti
gli altri esseri magici, ritrasformandoli in quel che erano stati prima dell’arrivo di
Tremotino.
«Il bacio del vero amore! Ecco l’unica cosa che poteva sconfiggermi! L’unica cosa che, a
questo mondo, non è un’illusione!» borbottò il folletto, rabbuiandosi.
«Ora che ho perso i miei poteri, non mi resta altro da fare che ritirarmi! Sarebbe stato
meglio fare il guardiano dell’arcobaleno!» brontolò allontanandosi a capo chino.
Nessuno lo rivide mai più.
CAPITOLO OTTO
Lucilla e sir Bufo, insieme a Semola e al fedele Sansone, fecero ritorno al castello,
dove fu celebrato il loro grandioso matrimonio. Ora che aveva trovato il vero amore, Bufo
non voleva certo farselo scappare! Furono organizzati giochi, spettacoli e banchetti per un
mese intero, per festeggiare a dovere il lieto evento. E nessuno, al villaggio, pensò che la
streghetta non fosse abbastanza attraente, perché la sua bellezza interiore non poteva che
trasparire anche all’esterno, rendendola una delle dame più affascinanti che si fossero mai
viste a palazzo.
Sir Bufo e Lucilla vissero felici e contenti per molti, molti, molti anni; ma il cavaliere non
dimenticò la brutta avventura che gli era capitata e decise di adottare, come simbolo della
sua casata e monito per le generazioni future, l’immagine di un rospo: perché tutti, nei
secoli a venire, ricordassero che la vera bellezza si trova nel cuore.