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JACQUES MARITAIN E ROMANO GUARDINI L’UOMO TRA FEDE E RAGIONE Mercoledì 19 marzo 2008 Sala Convegni della Gran Guardia, Verona

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JACQUES MARITAIN E ROMANO GUARDINI

L’UOMO TRA FEDE E RAGIONE

Mercoledì 19 marzo 2008

Sala Convegni della Gran Guardia, Verona

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Introduzione

Gian Paolo Marchi*

Fede e ragione: termini che definiscono realtà umane suscettibili di essere

sempre meglio definite, mediante indagini e riflessioni da parte di pensatori anche di

diverso sentire, ma che rinuncino a collocare pregiudizialmente questi termini in una

dimensione alternativa se non di esplicita opposizione. Maritain e Guardini hanno

segnato con la loro esistenza e con le loro opere una tappa fondamentale

nell’approfondimento di questo binomio, oggetto dei lavori del nostro incontro.

Jacques Maritain, nato a Parigi nel 1882, maturò nel 1905 la sua conversione (o il

suo ritorno) al cattolicesimo accanto alla moglie Raïssa. Se il cammino verso la fede fu

propiziato dall’incontro con filosofi come Péguy, Bergson e Bloy, Maritain pervenne ad

una sua originale concezione dell’umanesimo cristiano ancorato alla filosofia tomistica,

che

tende a raggiungere l’unità dell’uomo e a prepararlo così a quella pace che

oltrepassa ogni sentimento, accordando e riconciliando in lui la grazia e la natura, la

fede e la ragione, la teologia e la filosofia, le virtù soprannaturali e le virtù naturali,

l’ordine spirituale e l’ordine temporale, l’ordine speculativo e l’ordine pratico, la

contemplazione mistica e il sapere di modo umano, la fedeltà ai dati eterni e

l’intelligenza del tempo1.

All’impegno filosofico, culminato nel 1936 nell’opera sua più famosa e discussa,

Umanesimo integrale, Maritain associò un forte interesse per le vicende storiche

d’Europa, prendendo ferma posizione contro le guerre d’Etiopia e di Spagna, con cui la

dittatura fascista e quella nazista si andavano preparando all’immane conflitto. Fu

ambasciatore di Francia presso la Santa Sede dal 1944 al 1948, anno in cui passò a

Princeton come professore di filosofia morale, cattedra che tenne fino al 1960. Gli

ultimi anni furono segnati da un forte coinvolgimento nelle vicende che

* Ordinario di Letteratura Italiana presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Verona. 1 Da Bergson a Tommaso d’Aquino, a cura di R. Cantoni, Milano, Mondadori, 1947, p. 123.

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caratterizzarono il rinnovamento della Chiesa promosso dal Concilio Vaticano II. Fu

tenuto in altissima considerazione da papa Montini, che lo interpellò ripetutamente in

merito a diverse questioni, consegnandogli nel 1965 il Messaggio dei Padri conciliari

agli intellettuali. In questa temperie si colloca Il contadino della Garonna (1966),

opera in cui Maritain esprime una sensibilità fortemente critica nei confronti di alcune

interpretazioni del Concilio. Il libro suscitò una lunga polemica, che fu agitata mentre

il filosofo viveva i suoi ultimi anni presso la comunità di Tolosa dei Piccoli Fratelli di

Gesù, dove si era ritirato nel 1960 dopo la morte della moglie Raïssa, e dove si spense

nel 1973.

Più o meno nello stesso arco di tempo si colloca la vita di Romano Guardini, nato

a Verona il 17 febbraio 1885. L’anno seguente la famiglia si trasferì a Magonza, dove il

padre era console generale d’Italia. Nel 1903, Romano si iscrisse alla Facoltà di

chimica di Tübingen; l’anno successivo studiò economia politica a Monaco e a Berlino.

Anche per Guardini il 1905 rappresentò l’anno della svolta nella scelta di vita. Nel

1906 iniziò infatti gli studi di teologia a Friburgo e poi a Tubinga. Entrato in

seminario a Magonza, ricevette nel 1910 l’ordinazione sacerdotale. Pur impegnato

nell’attività pastorale, riprese il suo impegno di studio nel 1912 a Friburgo (Martin

Heidegger fu tra i suoi compagni di studio), laureandosi nel 1915 con una tesi su san

Bonaventura, oggetto anche della sua Habilitation, conseguita a Bonn nel 1922. Forte

fu il suo interesse per la liturgia, maturato anche attraverso la frequentazione dei

monasteri benedettini di Beuron e di Maria Laach, e testimoniato dal volume del 1918

Lo spirito della liturgia.

Nel 1924 l’università di Berlino gli affidò la cattedra di Filosofia della religione e

Weltanschauung cattolica. Fondamentale appare ancor oggi la sua riflessione del 1929

su Das Wesen des Christentums (L’essenza del cristianesimo, opera edita dalla

Morcelliana nel 1989), la cui influenza è chiaramente avvertibile nel volume dedicato a

Gesù di Nazareth da papa Benedetto XVI:

Il cristianesimo non è una teoria della verità o un’interpretazione della vita.

Esso è anche questo, ma non in questo consiste il suo nucleo essenziale. Questo è

costituito da Gesù di Nazareth, dalla sua concreta esistenza, dalla sua opera, dal suo

destino.

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Nel 1939 la cattedra venne soppressa dal regime nazista. Guardini non solo

venne collocato in congedo forzato, ma ricevette anche l’ordine di non parlare in

pubblico. Dopo la guerra, venne reintegrato nell’insegnamento, dapprima a Tubinga e

poi, dal 1948 al 1962, a Monaco, dove si spense il 1° ottobre 1968, dopo aver ricevuto

prestigiosi riconoscimenti e importanti incarichi (come la nomina nella Commissione

liturgica preparatoria del Concilio Vaticano II; e si ricordi che del 1960 è il libro

Liturgia e contemplazione scritto da Maritain in collaborazione con la moglie Raïssa).

Credo non sia fuori luogo richiamare uno spunto importante della conferenza

tenuta a Verona da Guardini in Castelvecchio il 12 ottobre 1956 (il giorno successivo il

sindaco Giorgio Zanotto gli conferirà la cittadinanza onoraria; il 22 giugno 1963, sarà

ancora il sindaco Zanotto a consegnargli anche il premio San Zeno).

Nel campo scientifico — argomentava Guardini — la riflessione procede secondo

una linea di progresso, sia pure attraverso il continuo sorgere e tramontare delle idee,

mentre nell’indagine sull’uomo regna una grande confusione. La causa è da ricercarsi

nella posizione circa il problema religioso invalsa nell’epoca moderna. Una posizione

agnostica, secondo la quale credere o non credere nell’esistenza di Dio diventa per

l’uomo una questione privata, che non dovrebbe influire più di tanto sul suo

comportamento pratico e magari anche sul suo atteggiamento spirituale. Guardini

sottolineava il passo della Genesi in cui Dio disse di voler fare l’uomo «a sua immagine

e somiglianza»; l’espressione è ripetuta tre volte, a ribadire che somiglianza non

significa eguaglianza, come pretesero i nostri progenitori cacciati per questo dall’Eden.

In questa somiglianza sta l’essenza dell’uomo.

Queste poche notizie ho ritenuto di proporre al pubblico qui convenuto, toccando

(senza alcuna pretesa di fare sintesi) alcuni dei punti che saranno sviluppati

organicamente dagli illustri relatori.

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Romano Guardini e la Dottrina Sociale della Chiesa

Claudio Gentili*

Premessa

In occasione del centenario della nascita di Romano Guardini (17 febbraio

1885 – 1 ottobre 1968) l’Accademia Cattolica di Baviera, consapevole di essere

particolarmente debitrice all’opera di questo grande veronese che ha vissuto

per tutta la vita in Germania, filosofo della religione, teologo, critico letterario

e pedagogo, organizzò il 2 febbraio 1985 a Monaco un incontro celebrativo

concluso dall’allora cardinale Joseph Ratzinger.

Cosa stiamo facendo – disse Ratzinger – mentre festeggiamo il

centenario della nascita di Romano Guardini? Si tratta solo della nostalgia

di coloro per i quali l’incontro con Guardini divenne esperienza spirituale

determinante e che certamente vorrebbero poter comunicare anche alle

giovani generazioni di oggi ciò che per loro è stato prezioso, ma che nel farlo

dimenticano che una nuova epoca ha bisogno di nuove guide? Oppure quella

di Romano Guardini è anche una voce attuale, che dobbiamo solo rendere

nuovamente udibile?

Questo dilemma vale anche per noi: nostalgia o voce attuale? Anche noi,

ricordando oggi a Verona, sua città natale, per iniziativa della Fondazione

Giorgio Zanotto, questo grande personaggio, dobbiamo chiederci se stiamo

facendo solo una commemorazione o stiamo cercando di rendere nuovamente

udibile il suo messaggio.

Così Ratzinger rispondeva a questo dilemma: «Forse l’alternativa non è

affatto così netta come si presenta a un primo sguardo. Poiché quando

qualcuno non solo ha scritto libri, ma è stato in grado di plasmare attivamente

un’intera generazione, già questo è qualcosa che può essere duraturo».

* Direttore del Nucleo Education di Confindustria a Roma, insegna Formazione e Gestione delle Risorse Umane all’Università di Siena ed è direttore della rivista «La Società».

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Naufragio con spettatore

Ci può aiutare a collocare oggi l’attualità della lezione di Guardini la

metafora del “naufragio”, scelta da Hans Blumenberg nella sua opera

Naufragio con spettatore come chiave di comprensione della condizione attuale

dell’Occidente. Punto di partenza è il De rerum natura, in cui Lucrezio

presenta lo spettatore che dalla riva assiste solidamente fermo sulla terra a un

naufragio: la contrapposizione tra la sicurezza della terraferma e il mare in

tempesta esprime la condizione “classica” dell’esistenza, certa di un punto di

appoggio da cui poter guardare la scena del mondo. È questa solidità della base

valoriale su cui ci appoggiamo che si perde nel tempo che Baumann ha definito

della “modernità liquida”. Il naufrago è ormai lo stesso spettatore: non c’è più

lo stabile punto di vista a partire dal quale ci si possa porre come spettatori

distaccati. L’onda, sulla quale andiamo alla deriva nell’oceano, siamo noi

stessi. La condizione post-moderna, cui è approdato il viaggio dell’Occidente,

consiste insomma nel nuotare da naufraghi in mezzo al mare della vita,

cercando di costruire una zattera su cui rifugiarci.

Guardare il mondo dal solido punto di vista della Rivelazione cristiana. È

questa l’attualità di Guardini per noi naufraghi della modernità.

Personalmente ho incontrato il pensiero Guardini tardivamente. Nessuno dei

miei educatori me lo ha offerto come base per un discernimento cristiano sul

mondo. Nel post-68 – in cui nella mia adolescenza mi sono formato – altri

erano gli autori di moda. Ma da quando ho iniziato a leggere i libri di Guardini,

il suo pensiero è diventato per me, insieme a quello di Maritain, di De Lubac e

di Balthasar, un elemento decisivo di chiarezza e di stabilità. Soprattutto

Guardini è venuto a riconciliarmi con le radici cristiane di un mondo in

turbolento mutamento.

L’eredità di Guardini non è solo una eredità speculativa, la sua è una

eredità vitale. E nasce proprio dall’esperienza del “Quickborn”, il movimento

giovanile cattolico di cui per oltre 15 anni dal 1923 al 1939 Guardini diventa

leader e animatore fino alla chiusura ordinata dalla Gestapo. È questo il

Guardini che prediligo. L’educatore, il professore capace di farsi apprezzare dai

giovani, il leader che trasmette i fondamenti della vita cristiana nell’esistenza

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quotidiana dei giovani. E soprattutto il maestro che è capace di farsi ascoltare

e sa rendere significativo e “performante” per i giovani il suo magistero.

Né si può dimenticare che Guardini è uno dei più significativi

rappresentanti della filosofia e teologia cattolica del XX secolo. Le sue

interpretazioni letterarie di filosofi e poeti come Rilke, Raabe e Dostoevskij

furono e sono tuttora apprezzate al di là del mondo cattolico stesso.

La profondità e la chiarezza delle sue esposizioni del pensiero e della vita

di Socrate, Platone, Agostino, Dante, Pascal, Kierkegaard o Nietzsche restano

esempi convincenti della sua capacità di evidenziare il legame fra la vita del

pensatore e la sua filosofia, riuscendo nel contempo a metterlo alla portata del

lettore. Guardini era un maestro che ti sapeva far incontrare altri maestri di

vita e di saggezza.

La filosofia di Romano Guardini è essenzialmente una “antropologia

polare”, ossia una antropologia basata sulla dialettica fra le polarità opposte e

complementari dell’immanenza e della trascendenza.

La riflessione filosofica di Guardini ha il suo centro nella teoria

dell’opposizione polare. Il ‘concreto vivente’, che è l’uomo, risulta modulato da

una dialettica ‘polare’, da un movimento di opposti polarmente orientati, la cui

tensione, non risolubile, è il segreto della vita. Per Guardini nella realtà

vivente dell’uomo «struttura e atto, durata e flusso, stato e mutamento stanno

in tal modo l’uno all’altro che ognuno secondo il significato suo primo si stacca

dall’altro, esclude l’altro, e urta tuttavia nell’assurdo se non riconosce in se

stesso l’esistenza di quell’altro e non lo fa emergere; la realtà di questa

vicendevole esclusione e inclusione è l’opposizione polare».

La ‘polarità’ è intesa come esigenza di ‘integralità’, di accordo tra le

istanze che la cultura e la prassi tendono ad assolutizzare e a dividere:

affezione e coscienza, libertà e ordine, individuo e comunità. Un’esigenza mai

pienamente soddisfatta che, conformemente al pensiero di Scheler (non si

dimentichi che la fenomenologia di Scheler ha influenzato il pensiero di

Giovanni Paolo II) e alla lezione agostiniana, rimanda a un ‘oltre’.

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L’antropologia di Guardini

Senza negare la propria inclinazione agostiniana e platonica, Romano

Guardini ha saputo sottolineare sempre anche l’importanza dell’altro polo,

quello tomistico (in sintonia con i riferimenti intellettuali di Giovanni Paolo II)

e ha indicato, già nella sua dissertazione, Bonaventura (in singolare sintonia

con Papa Ratzinger che alla teologia della storia di Bonaventura e ai suoi

rapporti con Gioacchino Da Fiore ha dedicato uno dei suoi primi studi) e, in

seguito, John Henry Newman come pensatori che potevano fungere da ponte

fra le due filosofie agostiniana e tomista. Ciò si rispecchiava pure nel concetto

di verità che egli stesso definiva polifonico. Lo stesso può dirsi per la sua

predilezione per il Medioevo, che mai ha avuto carattere restaurativo, anche se

alcuni autori interpretarono in tal senso il suo libro Das Ende der Neuzeit (La

fine dell’epoca moderna). Un testo di straordinaria chiarezza, che nella mia

personale esperienza – in barba a molte semplificazioni sui “secoli bui” – ha

gettato uno squarcio di luce sui secoli dell’età di mezzo.

Nella teologia politica Romano Guardini mediò tra le posizioni dei

cattolici socialisti e di quelli più tradizionalisti, ciò che gli fu rimproverato da

ambo le parti, e che invece nell’attuale bipolarismo italiano acquista una

particolare attualità. Nel 1946 Guardini si definì come un cattolico

democratico, dove l’accezione non va intesa in senso politico, ma filosofico.

In pedagogia Guardini evidenziò nelle sue Lettere sull’autoformazione la

necessità dell’autocontrollo e dell’equilibrio fra autorità e libertà in una

creativa obbedienza della coscienza.

Gli scritti di Romano Guardini non mostrano i segni del tempo, sono letti

ancora, restano attuali l’acutezza e la suggestione che li distinguevano, e

prosegue, così, la geniale opera di educatore che, per decenni e in varie forme,

Guardini svolse con un successo unico, da una cattedra creata per lui, dedicata

alla Weltanschauung, in pratica con lui conclusa.

Il tempo non ha cancellato la sua originale lettura del mistero cristiano o

del dogma; non ha cancellato le sue penetranti interpretazioni dei grandi

pensatori antichi e moderni, né esaurito le sue riflessioni. Anzi ci sono tutte le

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condizioni per dare avvio a una “Guardini renaissance” rivolta soprattutto ai

giovani che dal suo pensiero non possono che trarre beneficio.

La base di questo auspicato “ritorno a Guardini” è senza dubbio il suo

insegnamento di Weltanschauung cristiana che costituisce un riferimento

culturale preziosissimo per l’oggi. Nell’Università di Berlino il suo

insegnamento era quasi tollerato di fronte al predominio dello scientismo. Lo

stesso programma del suo insegnamento, alla definizione del quale contribuirà

Max Scheler, è una provocazione per la cultura laica dominante e anche per il

protestantesimo maggioritario in Germania. Eppure Guardini fa breccia tra gli

studenti, per la solidità del suo pensiero e per la chiarezza di vedute.

Si pronuncia esitando – così spiega Guardini il senso del suo corso –

la parola Weltanschauung cristiana, perché se ne usa e se ne abusa, ma ha

un senso genuino e indispensabile per la coscienza cristiana. Essa designa

l’incontro che si verifica tra la fede nella rivelazione e il diretto sapere

circa il mondo. Weltanschauung cristiana è l’immagine del mondo come si

mostra se si guarda dal punto di vista della Rivelazione, cioè quella

chiarificazione che i problemi immediati del mondo ricevono dalla

Rivelazione.

Weltanschauung cristiana e Dottrina Sociale

Nel corso della sua storia, e in particolare negli ultimi cento anni, la

Chiesa non ha mai rinunciato a esprimersi su quella che De Lubac ha definito

«la dimensione sociale del dogma». Nel 1891 la Rerum Novarum di Leone XIII

ha fatto tremare il mondo. Cento anni dopo, la Centesimus Annus di Giovanni

Paolo II ha registrato un nuovo cambiamento epocale, il crollo dell’illusione

comunista e dell’impero sovietico avvenuto senza spargimento di sangue ma

per la forza di quel sotterraneo movimento che pone in relazione la persona

umana e la società con la luce del Vangelo.

Se non si possono identificare tout court Weltanschauung cristiana e

Dottrina Sociale, è del tutto evidente che la Chiesa, esperta in umanità, in

un’attesa fiduciosa e al tempo stesso operosa, continua a guardare verso i

“nuovi cieli” e “terra nuova” (2 Pt 3,13) e a indicarli a ciascun uomo, per

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aiutarlo a vivere la sua vita nella dimensione del senso autentico. L’opera di

Guardini costituisce uno dei fondamenti della riscoperta della Dottrina Sociale,

di cui la Rivista «La Società» della Fondazione Toniolo di Verona costituisce

uno dei luoghi di divulgazione scientifica e di riflessione critica.

Il filosofo e teologo francese Jean-Yves Calvez, acuto studioso della

dimensione sociale del dogma, ha scritto un libro dal titolo inquietante: Les

silences de la doctrine sociale catholique.

Uscito nel 1999 in Francia e non ancora tradotto in italiano, prende le

mosse dal Pontificato di Giovanni Paolo II.

Come molti ricorderanno nel 1979, anche a seguito delle contestazioni del

’68, il teologo domenicano Marie-Dominique Chenu aveva scritto il de

profundis della Dottrina Sociale della Chiesa in un volume dal titolo La

doctrine sociale de l’Eglise comme idéologie (Seuil).

Giovanni Paolo II reagisce a questa scelta di rinuncia alla Dottrina

Sociale della Chiesa e di riduzione dell’insegnamento sociale alla “ideologia

della terza via” tra capitalismo e socialismo, nel mirabile discorso svolto

proprio nello stesso anno, il 1979, all’Assemblea dei vescovi latino-americani a

Puebla:

Appoggiarsi in modo responsabile sulla dottrina sociale – afferma il

papa polacco – anche se qualcuno cerca di seminare il dubbio e la sfiducia

nei suoi confronti, studiarla seriamente, cercare di applicarla, insegnarla,

essere a lei fedeli, è per un figlio della Chiesa una garanzia dell’autenticità

del suo impegno sociale e del suo sforzo a favore della liberazione e della

promozione umana. Permettete dunque che io vi raccomandi una speciale

attenzione pastorale nei confronti dell’urgenza di sensibilizzare i fedeli

alla dottrina sociale della Chiesa. Quando le ingiustizie aumentano,

quando si accresce la distanza tra ricchi e poveri, la dottrina sociale in una

maniera creativa e aperta ai vasti settori della presenza della Chiesa deve

essere uno strumento prezioso di formazione e di azione.

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In quegli anni, in molti settori ecclesiali, sia in America Latina che in

Europa, la teologia della liberazione e le varie scelte preferenziali verso

l’ideologia marxista avevano preso il posto della Dottrina Sociale della Chiesa.

Una esperienza personale

Ne ho una esperienza diretta perché anch’io nell’adolescenza sono stato

affascinato dal pensiero di Sobrino, Boff, Girardi, Balducci e dalla loro

proposta di un cristianesimo rivoluzionario. E uno dei motivi di questa

fascinazione stava proprio nella scarsa presa sui giovani e nella scarsa

diffusione del pensiero sociale cristiano, di cui Guardini resta con Maritain,

Mounier e De Lubac tra i pilastri decisivi. Nella mia personale esperienza,

essendo stato dal 1977 al 1983 Segretario Nazionale dei Giovani delle ACLI (le

Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani) e dal 1995 al 2001 Presidente

del Movimento degli Scout Cattolici Adulti, ho potuto vivere la gracilità della

formazione cristiana delle classi dirigenti dell’associazionismo cattolico post-

68.

Una gracilità che ha dato luogo talora, nei decenni ’70 e ’80, a corti

circuiti ideologici e che negli ultimi anni ha dato luogo al fenomeno che mi sono

permesso di definire in modo irriverente dei “cattoconfusi”, con questa

espressione alludendo ai credenti che ritengono l’orizzonte epistemologico

obbligatorio quello del relativismo e ritengono espressione di scarsa laicità i

cosiddetti valori “non disponibili”. Ma su questo tornerò. Quello che intendo

sottolineare è lo straordinario significato del pontificato di Giovanni Paolo II

che ha costituito un vero e proprio argine nei confronti dei processi di

scristianizzazione e di secolarizzazione interna alla Chiesa per oltre 25 anni (e

il magistero di Benedetto XVI si pone in assoluta continuità).

Con le grandi encicliche Laborem exercens del 1981, Sollicitudo rei

socialis del 1988, Centesimus annus del 1991 Giovanni Paolo II costruisce una

nuova sintesi teologica ed etica.

Un acuto teologo come Calvez, vent’anni dopo il profetico discorso di

Giovanni Paolo II a Puebla, denuncia i silenzi della DSC.

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In particolare il gesuita francese segnala che i contenuti delle grandi

encicliche di Giovanni Paolo II sono poco conosciute dai cattolici. E indica

quattro questioni su cui la dottrina sociale deve sviluppare una riflessione più

incisiva: il problema del lavoro, la finanziarizzazione dell’economia, i diritti

dell’uomo e la democrazia nell’era post nazionale.

È indubbio che oggi il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa

possa costituire una sorta di “base dati” per promuovere un incisivo

programma di formazione rivolto ai laici cristiani impegnati nel sociale e nel

politico. Al tempo stesso però occorre riconoscere che dopo la Centesimus annus

del 1991 si avverte l’esigenza di una sintesi magisteriale sui grandi temi legati

alla globalizzazione e al futuro della democrazia. E secondo le informazioni di

cui disponiamo Benedetto XVI si accinge proprio nei prossimi mesi a colmare

questa lacuna. Certamente il pensiero e l’antropologia di Guardini possono

costituire un elemento decisivo per il rinnovamento del pensiero sociale

cattolico.

Uno sguardo di fede sul mondo

Nel secolo che è appena trascorso le utopie in senso moderno hanno

cercato di eliminare l’orizzonte trascendente di cui ogni persona è portatrice. È

quello che De Lubac ha definito «il dramma dell’umanesimo ateo». Ma ora il

fallimento degli umanesimi atei ha lasciato il posto alla scienza, anzi alla sua

divulgazione mediatica, che molti vivono come suprema autorità nelle decisioni

che riguardano il senso della vita dell’uomo e il suo futuro.

Nel 1922, in occasione del secondo congresso dei laureati cattolici a Bonn,

Guardini scrive: «Mi venne più chiaro quale fosse il mio compito proprio: non di

portare avanti la ricerca di una disciplina teologica ma di interpretare la realtà

cristiana con responsabilità scientifica ed alto livello spirituale». Forse non ci

potrebbe essere una definizione più pregnante dell’insegnamento sociale della

Chiesa.

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E lo stesso Guardini nella sua prima lezione all’università di Berlino

descrive così la sua disciplina: «La Weltanschauung cristiana è lo sguardo che

diviene possibile a partire dalla fede sulla realtà del mondo».

Il potere politico, per Guardini, non deve perdere il riferimento ad una

verità fondativa che lo precede. Altrimenti si arriva alla barbarie totalitaria. E

non a caso il suo insegnamento viene soppresso dalla barbarie totalitaria del

nazismo per poi essere ripreso, non più a Berlino ma a Monaco, dopo la guerra.

Guardini cita un aforisma di Socrate che risulta illuminante: gli uomini si

preoccupano di non mangiare cibi avariati ma non disdegnano di riempirsi di

pensieri avariati. Vi è insomma un sapere sulla verità che è un sapere sulla

propria insufficienza che il pensiero relativista tende ad abolire e a considerare

non più proponibile.

La fine dell’epoca moderna

Guardini, che nel 1946 fu considerato per un certo periodo come possibile

successore alla cattedra di Heidegger, pubblicò nel 1950 un libro molto letto a

quel tempo, La fine dell’epoca moderna. Il testo raccoglieva le lezioni tenute a

Tubinga nell’inverno 1947-48.

È un testo decisivo. Chi lo legge ne riceve una vera illuminazione. È un

libro che ha anticipato l’attuale dibattito sulla post modernità ed è il testo in

cui Guardini dà il meglio di sé come filosofo e teologo. L’epoca moderna secondo

Guardini si sforza di sloggiare l’uomo da centro dell’essere. Secondo le nuove

concezioni l’uomo non è più sotto lo sguardo di Dio che abbraccia il mondo ma è

autonomo, libero di fare ciò che vuole, di andare dove vuole. Da un lato il

pensiero moderno esalta l’uomo contro Dio, dall’altro prova un piacere

distruttore a farne un frammento della natura, che non si può distinguere

dall’animale o dalla pianta.

Il mondo moderno – sostiene Guardini in questo testo – prende le

mosse da una concezione della natura come potenza protettrice, dalla

soggettività umana come personalità autonoma e dalla cultura come un

ambito intermedio dotato di leggi proprie. Ogni cosa ha ricevuto il proprio

senso dalla natura, dalla cultura e dalla soggettività. Con la fine del

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mondo moderno, di cui siamo testimoni, queste idee affondano. La natura

perde la sua forza protettrice e diviene estranea e pericolosa. La persona

viene scalzata dall’uomo massificato, e nel malessere culturale muore la

vecchia devozione per la cultura. I sistemi totalitari sono insieme

espressione e risposta a questa crisi; la quale dischiude però a sua volta

l’opportunità di un nuovo inizio. Evidentemente l’uomo deve prima aver

perduto le ricchezze naturali e culturali perché accada che in questa

‘povertà’ torni a scoprire se stesso come persona ‘nuda’ davanti a Dio.

Forse le ‘nebbie della secolarizzazione’ si diradano, e incomincia un giorno

nuovo della storia.

Guardini, Galimberti e L’ospite inquietante

È uscito di recente un libro di Umberto Galimberti che ha un titolo

assai significativo: L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani. Esso

riconduce il malessere che appare diffuso tra la gioventù a una causa

culturale, l’atmosfera nichilista del nostro tempo.

La via d’uscita che Galimberti propone, il ritorno alla misura della vita

tipica della grecità classica, motivata con il fatto che Dio sarebbe «davvero

morto», appare francamente inaccettabile, anche se l’analisi della crisi dei

giovani non è priva di fascino. A questo testo potrebbe essere associata una

acuta riflessione che Guardini sviluppa proprio nella parte centrale della Fine

dell’epoca moderna.

L’attuale non cristiano – scrive Guardini, e il nostro pensiero va a

Galimberti – ritiene spesso di poter cancellare il Cristianesimo e cercare una

nuova via religiosa riallacciandosi direttamente agli antichi. Ma qui sbaglia.

Non si può risalire a ritroso nella storia. Come forma di esistenza l’antichità è

definitivamente tramontata. Quando l’uomo di oggi diviene pagano, lo è in

forma totalmente diversa dall’uomo prima di Cristo. L’atteggiamento religioso

dell’uomo antico, nonostante tutta la grandezza della sua vita e delle sue

opere, aveva qualcosa di giovanilmente ingenuo (…). L’esistenza dell’uomo

acquista ora una serietà che l’uomo antico non ha conosciuta, perché non

poteva conoscerla. Serietà che non proviene da una maturità propria

dell’uomo, ma dall’appello che, attraverso Cristo, Dio rivolge alla persona:

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essa apre gli occhi ed è ora desta, che lo voglia o non lo voglia (…) di qui

proviene la singolare impressione di immaturo arresto di sviluppo che ci dà

l’anticristiano che crede nell’antichità.

Si tratta ovviamente di un giudizio forte ma non mi pare privo di

fondamento, né mi pare fuori luogo accostare questo pensiero di Guardini al

libro di Galimberti che tanto ha fatto e fa discutere in tempi di bullismo e di

nichilismo giovanile.

Come ha sottolineato il Cardinale Camillo Ruini nella prolusione per

l’inaugurazione dell’anno accademico della Pontificia Università Salesiana il

16 ottobre 2007,

diversamente da quel che pensa Galimberti, ed altri con lui, il ritorno

alla misura greca appare assai poco praticabile, perché due millenni di

cristianesimo hanno risvegliato in maniera difficilmente sopprimibile quella

nostalgia di un senso assoluto che è al fondo del nostro essere di uomini, e

anche perché quella “nuova fase” in cui sta entrando la nostra esistenza

sulla terra sembra richiedere un atteggiamento ben più dinamico e aperto

al futuro di quello che la “misura” greca implica e sottintende. Proprio

attraverso le ombre del nichilismo, e per tentare di non rimanere prigionieri

di esse, siamo dunque rimandati ancora una volta al legame tra uomo e Dio.

Anche a noi credenti nel Dio Padre del Signore Gesù Cristo quella

nuova fase domanda però apertura e dinamismo. Sulla base della serena

certezza che l’uomo, creato a immagine di Dio, trascende l’universo fisico

del quale pur profondamente fa parte, siamo chiamati pertanto a prendere

sul serio quella nuova comprensione ed anche quelle possibilità di

cambiamento dell’uomo che la razionalità scientifico-tecnologica sta

portando avanti.

Guardini e la secolarizzazione interna

Vi sono riflessioni di Guardini che sembrano riferirsi in modo puntuale a

quella che situazione che Benedetto XVI ha definito al Convegno ecclesiale di

Verona di “secolarizzazione interna”. Così scrive Guardini:

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Si costituisce una forma di vita non cristiana, anzi per molti aspetti

anti-cristiana, che si impone in modo così conseguente da apparire

normale; e sembra un abuso l’esigenza della Chiesa che vuole che la vita

sia determinata dalla rivelazione. Lo stesso credente accetta questa

situazione quando pensa che le cose della religione costituiscano un

settore a sé (…). La conseguenza è che da un lato si afferma una esistenza

profana, autonoma, staccata da influenze cristiane dirette, e dall’altro

nasce un cristianesimo che imita in uno strano modo questa autonomia.

Si tratta di tematiche delicatissime che non possono essere

caricariturizzate, ma che vedono nel pensiero di Guardini una critica rigorosa

che non può essere sottovalutata.

I temi eticamente sensibili (eutanasia, fecondazione assistita, testamento

biologico, coppie di fatto, matrimonio tra persone dello stesso sesso) entrano

prepotentemente nell’agenda politica. E emerge con forza il tema della laicità.

La divisione vera non è tra credenti e laici, ma tra laici (credenti e non

credenti o diversamente credenti) e fondamentalisti (credenti o non credenti).

La vera laicità è apertura all’alterità, rifiuto di rinchiudersi in recinti clericali

o anticlericali, capacità di integrare le differenze.

Mentre il fondamentalismo laicista e anche quello religioso tende a

chiudersi nelle identità rinunciando all’ascolto e al dialogo.

Alcide De Gasperi partecipò alla Settimana sociale del 1945 ricordando ai

cattolici che occorre «fissare una pratica di convivenza civile che tiene conto

delle opinioni altrui e che deve cercare una via di mezzo fra aspirazioni di

principio e possibilità di azione».

La questione sociale, nella sua configurazione tradizionale ha visto i

cattolici dialogare e affiancarsi a persone di diversa ispirazione, in difesa di

beni primari come il pane, la casa, il lavoro, la pace. Ciò deve avvenire oggi per

la questione della vita. Una sorta di grande alleanza per difendere l’ecologia

umana e la sacralità della vita.

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Il terzo millennio si apre con la consapevolezza che urge un dialogo, una

collaborazione, un comune impegno tra credenti e laici a difesa delle frontiere

della vita e della dignità della persona.

Il cuore della questione sociale

La coscienza è, secondo Guardini, la voce della santità di Dio in noi.

Questa voce ci spinge verso l’ecologia umana, cioè il rispetto della dignità della

persona. In pagine indimenticabili Guardini reagisce all’invadenza della

tecnica. I testi, inizialmente pubblicati in una rivista, vengono raccolti nel

celebre volume del 1925 Lettere dal lago di Como. Un testo breve ma incisivo

sul rapporto tra uomo e progresso scientifico, che mostra una forte assonanza

con alcune delle pagine più persuasive della recente enciclica di Benedetto XVI

Spe salvi.

Tutte le tappe della vita sono oggi divenute manipolabili. Dal

concepimento alla nascita, dall’invecchiamento alla morte si è

straordinariamente accresciuto il potere della tecnoscienza. Il problema per

Guardini non è frenare la tecnica ma umanizzarla. Il vero nemico dell’ecologia

umana non è infatti la scienza (di cui la fede è amica) ma lo scientismo che

rifiuta la trascendenza.

Con espressioni che oggi appaiono assolutamente attuali nel 1922

Guardini scrive:

Il modo di pensare dell’uomo odierno è relativistico. Tutto gli appare

mutevole. L’indagine sperimentale lo ha reso cauto. Ha paura delle

deduzioni. È abituato al pensiero critico e spesso non viene a capo dei

presupposti e dei limiti della conoscenza. Nelle questioni che riguardano la

verità è esitante. Chi si pone con fede davanti a Dio si rende conto come

vacillante sia il suo potere conoscitivo. Di fronte a lui c’è la verità assoluta,

di cui Dio si fa garante. Se egli accetta lealmente questa verità allora

diventa umano.

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Torna alla memoria il discorso pronunciato da Ratzinger sulla dittatura

del relativismo. E Guardini conclude ponendoci di fronte ad una grande

responsabilità: «Allora non ci resta che la scelta: o abbandonarci ad una forma

qualsiasi di relativismo o abbracciare con tutta l’anima una potenza

liberatrice. E questa è la Chiesa».

È davvero un messaggio forte, per chi vede nella Chiesa un supermarket

dei divieti e delle prescrizioni, scoprire in essa una “potenza liberatrice”.

È questo il linguaggio semplice e forte che avvicinava a Guardini la

sensibilità dei giovani. In queste parole non c’è solo una impressionante

attualità che ci rende Guardini molto vicino. C’è un potere del pensiero. C’è un

pensare ragionevole e convincente e soprattutto non c’è il timore reverenziale

verso la cultura dominante.

Il pensiero di Guardini ci è davvero utile per ripensare e rilanciare la

dottrina sociale della Chiesa.

Se ai tempi della Rerum Novarum la questione sociale si poteva

riassumere nella questione dei diritti degli operai, la questione della vita

nell’epoca della riproducibilità tecnica della vita è diventata il cuore della

questione sociale. Sulla vita si fondano tutti gli altri beni sociali: il pane, la

pace, la libertà. Il tema della vita e la sua difesa fin dal concepimento richiama

anche un tema che la modernità ha inutilmente cercato di ignorare: il tema

della morte.

Il termine biopolitica può significare due cose distinte: l’applicazione dei

paradigmi e dei metodi acquisiti in campo biologico allo studio dei fenomeni

politici, oppure l’intervento del potere politico nelle questioni che riguardano la

vita biologica e la sua riproduzione.

Guardini e la biopolitica

È stata la Arendt a cogliere il nesso razzismo, antisemitismo, eugenetica.

Il progetto nazionalsocialista non nasceva solo dalla volontà di eliminare le

razze ritenute inferiori, ma anche di produrre, attraverso una mirata politica

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di selezione, una razza superiore. Per questo il potere politico ha bisogno di

estendere il proprio controllo ai meccanismi stessi di riproduzione della vita.

Ma il concetto di biopolitica, reso celebre negli anni Settanta dagli studi di

Foucault, non è usato dalla Arendt perché nella sua prospettiva sarebbe un

concetto contraddittorio, perché esiste una differenza profonda tra la sfera

della vita biologica e la sfera della politica. La prima appartiene al mondo della

natura e la seconda al mondo della libertà.

La scienza, la tecnologia e la pratica medica hanno assunto nella società

un ruolo centrale. La cura della salute ha sostanzialmente rilevato il ruolo

sociale prima attribuito alla cura della salvezza.

È questa è la frontiera sensibile nel dibattito pubblico tra chi difende la

dignità della persona e chi privilegia la qualità della vita. Vi sono

sostanzialmente oggi anche negli schieramenti politici due concezioni, due idee

di fondo dell’uomo: una potrebbe essere definita “dignitaria”, l’altra

“libertaria”. Nella prima l’autonomia e l’indipendenza dell’uomo si basano sulla

solidità di una concezione che vede l’uomo aperto alla trascendenza. Nell’altra

l’orizzonte verso la trascendenza è chiuso e alla dignità della vita si privilegia

la qualità della vita.

Qui si gioca il futuro “zapateriano” o meno del nostro paese. E questi temi

sono trasversali agli schieramenti politici. Ma su questi temi né la Chiesa né i

cattolici laicamente impegnati nelle società possono tacere per timore di

apparire confessionali, fuori moda, non abbastanza rispettosi della libertà degli

altri.

Benedetto XVI, ricevendo il 30 marzo 2006 nell’Aula delle Benedizioni del

Palazzo Apostolico i partecipanti al convegno promosso dal Partito Popolare

Europeo, ha richiamato in forma sintetica i punti cardine che nel dibattito

pubblico sono legati alla questione della biopolitica, i cosiddetti valori non

negoziabili che costituiscono essenziali principi della Dottrina Sociale:

Protezione della vita in ogni suo stadio, dal primo momento del

concepimento alla morte naturale; riconoscimento e promozione della

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naturale struttura della famiglia – fondata sull’unione di un uomo e una

donna basata sul matrimonio – e sua difesa dai tentativi di equipararla

giuridicamente a forme radicalmente differenti di unione che in realtà la

danneggiano e la destabilizzano, oscurandone lo specifico carattere e il suo

ruolo sociale irripetibile; protezione del diritto dei genitori all’educazione dei

figli.

Il momento storico che viviamo è pieno di speranze ma è anche gravido di

minacce. Sulle speranze di vita e sulle minacce alla vita deve svolgersi un

rinnovato dialogo tra laici credenti e laici non credenti che hanno a cuore i

valori non negoziabili della dignità della persona e che intendono cercare

soluzioni condivise alle sfide della biopolitica.

Guardini e il bene comune

Il tempo che viviamo assomiglia più a quelle straordinarie fasi creative

che hanno accompagnato la vita del movimento cattolico che non agli anni ’70,

dove il miscuglio tra teologia politica e debolezza culturale segnava un’epoca di

eclissi della capacità dei cattolici di contribuire alla costruzione della città

dell’uomo. E da un’agenda dell’impegno sociale dei cattolici bisogna ripartire.

Il bisogno di definizioni e di formulazioni, la urgenza di “prendere

posizione” di fronte alle più vive e dibattute questioni sociali ed economiche

si fa ogni giorno più sentire nel campo cattolico, a mano a mano che si fa

strada la convinzione che la distruttiva crisi di civiltà che andiamo

attraversando trova la sua prima ragione nell’abbandono e nella negazione

dei principi che il messaggio cristiano pone a fondamento della umana

convivenza e dell’ordine sociale, così come del comportamento e della morale

personale. Il riconoscimento di questa verità, che costituisce la più eloquente

apologia del Cristianesimo, avrebbe tuttavia solo un valore negativo e di

pura constatazione storica, se non fosse accompagnato da una immediata

istanza e da un positivo impegno di ricerca, di ricostruzione, di affermazione

di un ordine sociale che elimini e riformi gli elementi di dissoluzione, di

involuzione, di incoerenza rispetto ai fini essenziali dell’uomo e della società.

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Per questo gli spiriti più attenti, gli animi più appassionati, fra i quali

fermentano i germi di quel profondo rivolgimento sociale che batte alle porte

dei tempi nuovi, guardano oggi con grande fiducia e speranza all’idea

cristiana, come all’unica capace di difendere insieme le ragioni dell’uomo e

quelle della comunità, le esigenze della libertà e quelle della giustizia.

Sembrano parole scritte oggi. E invece risalgono a 60 anni fa. Con queste

parole, infatti, si apriva nel 1945 l’introduzione a cura dell’ICAS (Istituto

Cattolico di Attività Sociale) di una raccolta di riflessioni frutto di un gruppo di

giuristi e studiosi del mondo cattolico riuniti nel 1943 nella Foresteria del

Monastero di Camaldoli. Il documento che ne uscì fu poi chiamato per

semplicità Codice sociale di Camaldoli ed ebbe una determinante influenza

nella formulazione della stessa Costituzione e poi nella Legislazione della

Repubblica italiana, così come nelle principali politiche sociali ed economiche

che permisero di ricostruire il paese.

Nel Manifesto fondativo di Retinopera (una rete che raccoglie le più

grandi associazioni ecclesiali, dall’AC al Rinnovamento dello Spirito,

dall’AGESCI alle ACLI, dalla Comunità di S. Egidio al CSI) Prendiamo il largo

pubblicato il 26 marzo 2002 è stata ripresa una riflessione analoga:

Esiste e diventa più forte la coscienza di una crescente urgenza del

tempo in cui viviamo. Particolarmente nelle nostre democrazie affluenti

dell’Occidente sono oggi presenti delle sfide travolgenti – che sono anche

delle opportunità – nelle quali sono messi a rischio: �

da un lato il bene della persona umana nella sua integrità,

quale conseguenza di prevalenti tendenze individualistiche e

relativistiche, ove i valori sono dettati dall’esperienza, il libero arbitrio

individuale è ritenuto l’unica fonte di razionalità rispetto al bene

dell’uomo e il valore fondante la comunità; ove prevalgono chiusure di

fatto al valore della vita; �

dall’altro la stessa democrazia, che rischia una sostanziale

implosione, ridotta a fare i conti con la società emozionale di massa, la

società dei consumi che ha sostituito la società dei produttori, i

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cambiamenti imposti dalla globalizzazione, i localismi e i particolarismi:

una miscela che può favorire l’emergere di nuove forme di populismo se

non di veri e propri, pur se più sofisticati, totalitarismi.

Democrazia delle regole e democrazia dei valori

Occorre assumere con urgenza una vasta iniziativa per fronteggiare la

pervasività di una antropologia basata su un individualismo radicale,

propugnatore di una idea di persona proprietaria e che dunque può disporre di

tutto, fare e disfare, ovunque e comunque, senza limite alcuno ai desideri, che

si pretende trasformare hic et nunc in diritti, con il duplice esito devastante di

una riduzione dell’altro a pura funzione utilitaristica ovvero a totale e violento

rifiuto dell’alterità. Occorre prendere atto che viviamo nell’epoca della

riproduzione tecnica della vita. Il problema della nostra epoca è il fatto che la

vita umana può essere tecnicamente prodotta. L’opera d’arte, riprodotta con la

fotografia, si svaluta. Analogamente, la riproduzione tecnica della vita può

portare ad una enorme perdita di dignità della persona umana.

La democrazia delle regole, quella che ha fatto definire a Popper il

sistema democratico come un «metodo di alternanza al potere senza

spargimento di sangue», rivela la sua intrinseca fragilità. Il futuro della

democrazia incontra il problema della dignità della persona, della sua

socialità, della sua apertura al trascendente. Tutti temi guardiniani. E

seguendo l’insegnamento di Guardini occorre rimettere al centro la questione

antropologica, cioè ripartire dalla persona e dal suo naturale e originario

sistema di relazioni per rifondare la sostanza della democrazia. Occorre

confrontare la nostra idea di democrazia con la realtà di un mondo

globalizzato. La difficoltà ad individuare oggi un insieme di valori condivisi

porta ad una riduzione della democrazia alla sua dimensione procedurale. E la

dimensione procedurale si sposa con un relativismo etico che svuota la

democrazia dei valori da cui è stata generata, in primis il senso della dignità

trascendente di ogni persona. Il multiculturalismo appare in questo senso

rinnegamento della propria identità e rinuncia alla bussola dei valori propri in

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nome di un relativismo etico che è di fatto la nuova religione condivisa del

mondo secolarizzato.

Citando Toynbee, il Cardinale Ratzinger ci aveva ricordato più volte,

prima di diventare papa, che il destino di una società dipende sempre da

minoranze creative e che i cristiani dovrebbero concepire se stessi come

minoranza creativa per aiutare l’Europa a riacquistare il meglio della sua

eredità.

Un discorso sulla democrazia non può ignorare la questione del potere,

spesso dai cattolici pudicamente evitata e che invece è al centro di uno dei testi

più lucidi di Guardini.

La finanziarizzazione dell’economia mondiale, il ridimensionamento della

sovranità nazionale, la spettacolarizzazione della politica, la crisi della

rappresentanza e della partecipazione evidenziano che la democrazia è una

realtà a rischio. Se dopo i gloriosi giorni dell’89 sembrò che la democrazia

occidentale avesse vinto la sua battaglia contro il totalitarismo, oggi

quell’ottimismo non ha più ragion d’essere. Molti osservatori, tra cui

Dahrendorf e Crouch, parlano di una fase di dopo-democrazia, causata dalla

crisi dei demos nazionali e dalla riduzione degli spazi di scelte genuinamente

democratiche.

In questa fase si va smarrendo il senso sociale dell’ethos democratico. La

coscienza sociale non riesce più a percepire come valori fondamentali il diritto

alla vita del nascituro, la famiglia come soggetto naturale, la dimensione

comunitaria delle fedi religiose, la giustizia sociale. Ma senza una democrazia

dei valori, la democrazia delle regole prepara un futuro di subdolo

totalitarismo in cui si confonde il diritto con l’arbitrio. Per la comunità politica

è necessario il consenso, ma i valori non si decidono a colpi di maggioranza.

Così come prima delle leggi vi è una Costituzione, massima espressione dei

valori condivisi da una comunità nazionale, prima dei singoli atti di consenso

democratico vi è la capacità dei cittadini di avere una piattaforma di valori

condivisi, cioè di essere orientati al vero e al bene.

Il bene comune – diciamolo con chiarezza – è l’esatto contrario dei

concorsi truccati, dei test di accesso all’università pagati, dei furbetti del

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quartierino, dell’evasione fiscale, del mancato utilizzo della riscossione fiscale

per alleviare le povertà, dello spreco del denaro pubblico, della mancanza di

capacità di decisione, delle varie mafie. Recentemente, di fronte alla scoperta

di un test per l’accesso alla facoltà di medicina che era stato pagato, un giovane

ha candidamente risposto: «Siamo in un paese di furbi e anch’io faccio il furbo».

L’eredità di Guardini

Per rendere feconda l’eredità spirituale e l’antropologia di Guardini mi

pare questo il punto da cui partire: il bene comune come vita retta per tutti. Il

bene comune come elemento unificatore di una società pluralista. Il bene

comune come orizzonte etico che precede la politica.

Il nostro è un paese che da circa 20 anni vive in uno stato cronico di

divisione profonda. Prima le vicende di Tangentopoli, poi l’emergere di un

bipolarismo selvaggio in cui le coalizioni nascevano avendo come unico collante

l’odio per l’avversario, infine la progressiva rottura del rapporto fra cittadini e

politica, l’incapacità della politica di governare e di ottenere risultati. Ma

soprattutto una crisi di reputazione della politica e una carenza di leader

credibili. In talune forme il bipolarismo selvaggio non ha risparmiato neppure

la comunità ecclesiale. Infine la perdita della passione per il bene integrale

della persona e per il bene comune causata dalle diverse forme di

individualismo e dal relativismo.

Franco Garelli, in alcuni recenti e lucidi interventi, ha descritto una

cattolicità italiana divisa tra credenti impegnati in esperienze kerigmatiche e

spirituali, ma privi di sensibilità sociale, e i cattolici del volontariato e

dell’impegno sociale, in taluni casi in difficoltà di sintonia con i temi di fondo

dell’insegnamento dei pastori.

Come ha evidenziato la 58ma Settimana Liturgica Nazionale, che si è

svolta lo scorso anno a Spoleto, è proprio la liturgia (a cui Guardini ha dedicato

tanta parte della sua riflessione) uno dei luoghi privilegiati per lo sviluppo di

una coscienza sociale ispirata al Vangelo. Per vivere da cristiani occorre

armonizzare la fedeltà a Cristo con la cittadinanza, cioè con l’impegno ad

essere presenti nel mondo. Ogni celebrazione liturgica aiuta ad operare una

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lettura sapienziale della storia e un discernimento dei fatti e aiuta a scorgere

la misteriosa presenza del Risorto nel quotidiano.

Alla 44ma Settimana Sociale di Bologna il cardinale Carlo Caffarra aveva

affermato: «Abbiamo bisogno di un luogo, creato da tutte le forze associate del

laicato cattolico italiano, dove sia possibile offrire un’alta formazione a chi

intende impegnarsi nella costruzione di una polis nella quale l’ordine delle cose

è subordinato all’ordine delle persone».

Ripartire dalla formazione

Nonostante numerosi e generosi tentativi, nonostante l’impegno di

Retinopera, Scienza e Vita, Forum delle famiglie, Scuole diocesane di dottrina

sociale, questa domanda è rimasta sostanzialmente inevasa.

Il pensiero di Guardini da questo punto di vista può costituire una base

preziosissima per ripensare la formazione dei cattolici. Tre tratti essenziali mi

sembrano indispensabili per questa nuova stagione formativa. In primo luogo

la formazione deve abilitare ad una laicità per la quale il pluralismo è da

viversi entro una comune cornice di valori.

In secondo luogo i cattolici sono chiamati a partecipare al dibattito

democratico proponendo principi, valori e soluzioni, nell’ambito dell’idea della

democrazia deliberativa e non meramente competitiva in termini razionali

quindi condivisibili da ogni uomo di buona volontà. In sostanza si tratta di

formare ad una idea di laicità intesa come casa comune le cui mura sono

costituite dai valori non negoziabili dell’ecologia umana.

In terzo luogo la formazione deve far leva su quel patrimonio dottrinale e

sociale costituito dalla tradizione del movimento cattolico e dalla Dottrina

Sociale della Chiesa. Evidentemente la formazione alla coscienza sociale deve

evitare forme di moralismo e di velleitarismo e preparare persone competenti

capaci di adottare soluzioni efficaci per il bene comune. Alla base di questa

auspicata nuova stagione formativa per i cattolici vi è l’idea che l’Italia ha

bisogno del contributo dei cattolici per la costruzione del bene comune.

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Il distintivo cristiano

Quello che i cattolici impegnati in politica e nella cultura devono evitare è

l’assuefazione al relativismo e alla secolarizzazione e la conseguente

programmatica rinuncia a quello che Guardini definiva il «distintivo cristiano».

Come è stato nel passato, anche nel futuro il cattolicesimo rimane una risorsa

per pensare l’Italia. Come non possiamo immaginare il nostro patrimonio

culturale nazionale senza le Madonne di Raffaello e i Crocifissi di Giotto così ci

è difficile immaginare il futuro dell’Italia senza un ruolo attivo e propositivo

dei cattolici. L’identità italiana non è quella di una nazione cattolica ma tale

identità non si può prospettare senza il cattolicesimo. Direi che scopo precipuo

di tale formazione alla coscienza sociale è aiutare i cattolici a ripensare il

proprio ruolo di laici impegnati per la costruzione della città dell’uomo.

Il fulcro ispiratore e sintetico della formazione alla coscienza sociale è il

concetto di bene comune che va reinterpretato alla luce dei cambiamenti

storici. Si tratta quindi di appropriarsi del concetto già elaborato dalla Pacem

in Terris di bene comune universale e di quella dimensione universalistica di

bene comune che la Centesimus Annus individua nel tema della salvaguardia

del creato.

Si tratta infine di legare strettamente bene comune e questione

antropologica. Facendo in modo che non vi siano più i cattolici della pace e

quelli della famiglia con reciproche antipatie ideologiche, ma che pace e

famiglia, salvaguardia del creato e rifiuto delle manipolazioni genetiche,

attenzione ai poveri e fisco equo, solidarietà con gli immigrati e rafforzamento

della legalità, cultura del lavoro e passione educativa, camminino insieme.

Vi sono due motivi dominanti del Magistero di Benedetto XVI che, in

perfetta sintonia con il pensiero di Guardini, possono ispirare una ripresa di

attenzione al ruolo sociale dei cattolici. Innanzitutto l’esigenza di conciliare

fede e ragione. In secondo luogo l’idea che dove Dio è grande l’uomo non è mai

piccolo e che chi crede non è mai solo.

Per realizzare questi auspici occorre anche guardarsi, per quanto

possibile e sempre avendo a cuore le persone e la loro dignità, da alcuni cattivi

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maestri che godono di particolare e immeritata fiducia da parte dei giovani. Si

tratta in molti casi di sacerdoti che al discernimento cristiano sembrano

preferire la propaganda ideologica. E per questi la “cura Guardini” sarebbe

illuminante. Con espressione dolce Benedetto XVI nella Spe salvi ha fatto

riferimento alla necessità di una autocritica del cristianesimo moderno.

Vorrei concludere citando ancora Guardini che nell’opera della sua

maturità, nell’ultima opera, scritta a 80 anni nel 1965, La Chiesa del Signore

afferma:

Si rimprovera alla Chiesa di legare con la sua autorità il Dio libero e

sovrano. Ma come? È Cristo stesso che si è legato accettando i limiti della

esistenza terrena. La Chiesa diventa allora garante che il Dio libero,

creatore, redentore, crocifisso ha stretto un’alleanza eterna con l’uomo finito.

Nessun umanesimo antico, nessuna profetica intuizione orientale ha preso

l’uomo così sul serio.

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Jacques Maritain tra ragione, fede e dimensione civile

Giovanni Grandi*

Il binomio fede-ragione si può dire che abbia impegnato Maritain lungo tutta la

vita, sia perché è stato un uomo intensamente credente, sia perché ha percorso tutti i

sentieri lungo i quali la ragione umana si dispiega nella ricerca della verità. Del resto,

come non ricordare che Paolo VI lo omaggiò definendolo un «maestro nell’arte di

pensare, di vivere e di pregare»1?

Il rapporto tra fede e ragione può essere analizzato, ricorrendo al magistero di

Maritain, secondo molteplici angolature. Una pista molto interessante da percorrere

potrebbe senz’altro essere quella epistemologica: ci troveremmo a ragionare, ad

esempio, di «filosofia cristiana»2 oppure dei modi con cui l’uomo può approfondire la

conoscenza della realtà; in questo caso osserveremo subito che il binomio va

riformulato, e parleremo più correttamente di ragione filosofica e di ragione teologica:

qui «ragione» significherà lo strumento di cui tutti disponiamo, l’intelligenza

discorsiva, la capacità di trovare i nessi tra idee, eventi, esperienze, attese, mentre

«fede» indirizzerà ai contenuti di un annuncio rivelato, che si propone come non

raggiungibile con le sole risorse conoscitive che la nostra esperienza ci mette a

disposizione. C’è dunque un ragionare sull’uomo, sulla realtà, sulla storia che si lascia

ispirare ed orientare dalla fede, e c’è un ragionare sull’uomo e su tutto quanto il resto

che opta per l’esclusione della possibilità di una rivelazione. In entrambi i casi siamo

dinanzi ad un ragionare, ad un movimento di pensiero: tecnicamente allora il binomio

ragione-fede non è mai assimilabile ad altre coppie concettuali in cui i termini si

escludono a vicenda, come ad esempio ragionevole/assurdo o razionale/irrazionale. Non

* Direttore del Centro Studi Veneto J. Maritain, Ricercatore presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Padova e docente di Antropologia filosofica ed Etica presso la Facoltà di Scienze della Formazione. 1 «Maritain, davvero un grande pensatore, maestro nell’arte di pensare, di vivere, di pregare. Muore solo e povero, associato ai “Petits Frères” di padre Foucauld. La sua voce, la sua figura resteranno nella tradizione del pensiero filosofico e della meditazione cattolica». Così si esprimeva Paolo VI all’indomani della morte del filosofo, avvenuta il 28 aprile 1973. 2 Si potrà ad esempio vedere l’intenso dibattito del 1932 proprio sulla nozione di Filosofia Cristiana a cui parteciparono tra gli altri Maritain, Blondel Van Stenberghen, Brehier e Gilson.

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c’è un aut-aut tra fede e ragione, e Maritain lo ha sempre insegnato, in special modo in

quel grande affresco del conoscere umano che è I gradi del sapere.

Tuttavia noi possiamo anche imboccare un percorso diverso, adottando non solo il

magistero ma anche lo stile del filosofo francese: infatti, salvo che in pochi casi, la sua

opera nasce per lo più come una riflessione incarnata nella storia, un pensare che si fa

attivare dai problemi che stanno a cuore all’umanità. In questo senso allora noi

dobbiamo anzitutto chiederci quale sia l’interrogativo che implicitamente, ma

profondamente, anima la nostra ricerca quando rivolgiamo la nostra attenzione al

binomio ragione-fede.

Perché si discute di fede e ragione, oggi? È improbabile che si tratti di un

dibattito epistemologico, quantomeno nel suo punto di partenza. Persino tra i filosofi

cattolici oggi è molto raro trovarne qualcuno che valuti interessante riprendere il

dibattito degli anni Trenta a cui si accennava sopra sul significato di «filosofia

cristiana». E se la questione non coinvolge i filosofi credenti, cioè coloro che per primi

devono fare i conti con il rapporto tra razionalità e dato rivelato, perché mai dovrebbe

interessare chi del dato rivelato non si cura?

In effetti il dibattito sul binomio fede-ragione ha, nella nostra cultura, una

declinazione molto diversa, e non è certo un dibattito epistemologico, né esistenziale.

Almeno, come si diceva, nel punto di partenza.

Possiamo renderci conto facilmente di tutto questo se pensiamo alle coppie

concettuali – variamente protagoniste dei dibattiti culturali e civili del nostro tempo –

che in qualche misura vengono associate al binomio in questione: ragione/fede, ma

anche laici/cattolici, pubblico/privato, autonomia/autorità, società/Chiesa,

libertà/obbedienza o ancora hard cases/principi non negoziabili… Sono coppie molto

problematiche, eppure di uso comune, che ci consegnano una domanda che potrebbe

essere sintetizzata in prima approssimazione in questo modo: «Si può essere ad un

tempo cittadini (e, tra i cittadini, anche uomini di scienza o delle istituzioni) e credenti

(dunque fedeli ad una Tradizione o persino inseriti a pieno titolo nella Chiesa)?».

Oppure le due cose sono incompatibili, ed occorre di volta in volta cambiarsi d’abito,

mettendo tra parentesi ora la fede, ora l’esercizio critico e pubblico del pensare?

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Può un cristiano essere filosofo, si chiedeva Maritain? Possiamo anche chiederci:

può una persona che ragiona e riflette, una persona che ama le scienze sperimentali e

il sapere che queste fruttano essere credente? La risposta risiede in tutta l’esperienza

del maestro francese, ed è senz’altro positiva. E Maritain stesso scriveva che «dopo

tutto, un cristiano può essere filosofo. E se per filosofare crede di dover chiudere la sua

fede nella cassaforte, – cioè cessare di essere cristiano mentre è filosofo – si mutila da

sé, cosa davvero malsana e si inganna, giacché queste casseforti chiudono sempre

male!»3. L’essere uomini di fede non è in conflitto con l’essere uomini di ragione e di

pensiero, e anzi è assurdo pensare di scindere i due aspetti. Ma, aggiungiamo, non è

solo Maritain ad attestarci questa possibilità: quanti altri pensatori ci mostrano che si

può essere credenti e razionalmente critici allo stesso tempo? E quante persone noi

stessi conosciamo capaci di integrare fede e pensiero?

Dunque quando ci chiediamo se una persona può conciliare le dimensioni della

fede e della ragione, in realtà, non ci stiamo chiedendo se ciò sia in linea di principio

possibile, ma piuttosto se in determinate circostanze, ed in primis nella dimensione

pubblica, sia consentito farlo.

Possiamo allora osservare che stiamo partendo da un quadro d’insieme diverso

rispetto a quello che ha animato a lungo la storia dell’Occidente, e che faceva conto su

uno strutturale accordo tra ragione e fede: l’ipotesi odierna è che la fede crei una sorta

di «interferenza» nella ragione, una interferenza – si sottintende – nociva per la

dimensione pubblica e per la convivenza civile.

Ma da dove proviene l’idea che l’interferenza della fede – ammesso e non concesso

che sia corretta questa soluzione epistemologica (e non lo è) – sia qualcosa di nocivo

per la dimensione pubblica? Giungiamo allora al vero nocciolo della questione che,

nella nostra cultura, si cela in seno all’interrogativo sul rapporto tra ragione e fede:

oggi ritorna vivo il timore che il credente, se dovesse trovarsi nella posizione

dell’amministratore, del legislatore o del ricercatore, inevitabilmente finirebbe per

voler imporre a tutti la propria prospettiva di vita, cioè di vita etica, maturata a

partire da un’esperienza di fede. Probabilmente è questo il problema – problema

pratico, civile, non certo speculativo – che oggi fa da sfondo nella riproposizione del

tema di cui ci stiamo occupando.

Osserviamo come Maritain avesse intuito in maniera penetrante la questione: 3 J. Maritain, Il contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia, 1969.

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Il problema della verità e della fraternità umana è importante per le società

democratiche. [...] Se ognuno cominciasse ad imporre le proprie convinzioni e la

verità nella quale crede a tutti i suoi concittadini, la vita comune non finirebbe

forse per diventare impossibile? È evidente. Sì, ma è facile, troppo facile, fare

ancora un passo e chiedere: se ognuno tiene fermamente alle proprie convinzioni,

non prenderà ad imporle a tutti gli altri? Cosicché alla fine, la vita comune

diventerà impossibile se un cittadino qualsiasi aderisce fermamente alle proprie

convinzioni e crede ad una determinata verità?4

Sembra la fotografia di un’argomentazione ricorrente sulla stampa dei giorni

nostri, e invece siamo nel 1957.

Notiamo allora le chiavi di lettura che Maritain predispone per poi proseguire il

ragionamento: sono fondamentalmente due, «verità» e «fraternità». Che cosa hanno a

che fare l’una con l’altra? La verità riguarda la ricerca e il sapere, la fraternità le

relazioni umane: livelli senz’altro diversi. Eppure il filosofo individua proprio nello

snodo tra questi due livelli, quello teoretico della riflessione e quello pratico,

dell’azione umana, il punto di Archimede su cui intervenire. Maritain suggerisce in

fondo che per disinnescare l’ipotesi di contrarietà tra fede e ragione occorre

probabilmente disporsi ad un percorso diverso da quello epistemologico, che rimane

l’unico appropriato nel merito, ma è tanto appropriato quanto inefficace, proprio

perché l’inquietudine che risiede alla base della domanda non è affatto di ordine

teoretico, ma di ordine pratico e politico.

In questo probabilmente si rivela la grande capacità di ascolto del proprio tempo

del filosofo francese, che sapeva di dover andare al cuore degli interrogativi,

cogliendone il nocciolo anche al di là della formulazione: con lui noi possiamo forse dire

che la questione del rapporto ragione/fede è soprattutto la questione della convivenza

civile tra persone animate da convincimenti – cioè fedi, tanto religiose quanto laiche –

diversi; il che significa però che non sono solo i credenti in questione, ma tutti gli

uomini, uomini che si accorgono oggi di fare riferimento a sistemi di idee e di valori

diversi e che tuttavia intendono positivamente vivere in società. Ci interroghiamo

sulla verità, ossia sul sapere, sui suoi strumenti – la ragione – e sulle sue fonti – tra

4 J. Maritain, Tolleranza e verità (1957), in Il filosofo nella società (1960), Morcelliana, Brescia, 1976, p. 62.

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cui le fedi ed i convincimenti –, ma ciò che stiamo realmente ponendo a tema è la

possibilità di una «fraternità» tra persone e forse culture che, su questioni rilevanti

esistenzialmente, la pensano in maniera differente.

Possono dunque convivere in società persone animate da identità forti e convinte,

o finiranno inevitabilmente per aggredirsi ed ostacolarsi a vicenda, specie trovandosi

nella posizione di amministratori della cosa pubblica?

Se fosse vero – scriveva ancora Maritain – che chiunque conosce o pretende

di conoscere la verità o la giustizia non può ammettere la possibilità di un punto di

vista diverso dal proprio ed è quindi tenuto ad imporre il proprio punto di vista

vero agli altri con la violenza, allora l’animale ragionevole sarebbe il più pericoloso

di tutti gli animali5.

Se fosse vero che un’identità forte è necessariamente violenta e prevaricatrice,

allora sarebbe inevitabile dover ritenere che la via per una convivenza civile – il tema

della fraternità – sia la sterilizzazione delle convinzioni, e cioè la loro espulsione dal

livello della vita pubblica civile. È l’ipotesi della rimozione delle «interferenze». Il che

significa tante cose, come ad esempio evitare di discutere pubblicamente delle grandi

questioni antropologiche e morali; oppure ridurre tutto ciò che è diverso dalle scienze

sperimentali a fatto privato, intimistico, senza importanza né rilievo per la vita civile e

pubblica, o ancora evitare qualsiasi intervento legislativo sulle cosiddette questioni

«eticamente sensibili».

Ma l’umanità tollera male queste scissioni, rivelandoci che «mettere tra

parentesi» proprio ciò che appassiona o inquieta è una soluzione poco convincente,

viziata da qualche errore: è, per dirla con Maritain, la via di una cassaforte che

inevitabilmente rimane sempre aperta. Dei valori, dei progetti di vita, delle

convinzioni più profonde – chiamiamole pure, in maniera comprensiva, fedi – occorre

invece parlare e discutere, anche per poter trovare soluzioni e mediazioni convincenti

in una società democratica.

L’animale ragionevole – ci ricorda ancora Maritain – è tenuto, in virtù della

sua natura, a cercare di condurre i propri compagni a partecipare di ciò che egli

conosce o pretende di conoscere come vero e come giusto, non con la coercizione ma 5 Op. cit., p. 62.

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con mezzi razionali, e cioè con la persuasione. E il metafisico, proprio perché ha

fiducia nella ragione umana, e il credente, proprio perché ha fiducia nella grazia

divina e sa “che una fede imposta è ipocrisia detestabile a Dio e all’uomo”, come

dice il card. Manning, non fanno ricorso alla guerra santa per rendere accessibile

agli altri la loro “verità eterna”; essi si richiamano alla libertà interiore degli altri,

offrendo loro sia le dimostrazioni, sia la testimonianza del loro amore6.

In questa prospettiva fede e ragione non possono fare a meno l’una dell’altra: è

con un buon uso della ragione, cioè argomentando e spiegando, che gli uomini possono

reciprocamente comprendersi e capire ciò che anima gli uni e gli altri. In tempi più

recenti è stato Habermas (ma poi anche Ricoeur) a ricordarci la necessità di uno sforzo

di traduzione, cioè di rielaborazione in termini largamente comprensibili del

patrimonio di convinzioni delle diverse fedi.

Il punto allora è che occorre discutere, non rimuovere le questioni (antropologiche

ed etiche) difficili.

Ma, e forse questo è un altro snodo notevole per noi oggi, queste discussioni non

possono avvenire per procura, delegandole ai «campioni» delle diverse posizioni,

magari ben raccolti in un talk show oppure ospitati sulle colonne degli editoriali dei

principali quotidiani. Beninteso, anche questo è utile, ma ha un rilievo scarso quanto

al problema reale della fraternità, che è un fatto di relazioni concrete e non di sole

composizioni ideali. Per promuovere un buon contesto civile ho bisogno cioè di sapere

come la pensano il mio collega, il mio vicino di casa e quindi ho bisogno di parlarne con

loro, di trovare l’occasione ed il tempo per distendere insieme un ragionamento: non mi

basta sapere che – grosso modo – stimano il tal editorialista o hanno sugli scaffali

della libreria un volume sui Padri della Chiesa o sul marxismo.

In un certo modo potremmo dire che il problema della fraternità, sotteso alla

coppia ragione/fede, è una questione globale a soluzione locale, o meglio una questione

generale a soluzione personale. La misura della fraternità di una società non può cioè

essere presa considerando i campioni che duellano sui giornali o alla televisione

oppure le parti che si contrappongono in piazza a colpi di slogan: va presa sulle

relazioni personali tra quanti, come ancora direbbe Maritain, sono «compagni di

viaggio che per caso si ritrovano riuniti quaggiù e che camminano per le strade del

6 Op. cit., p. 64.

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mondo»7.

Allo stesso modo, se si ritiene che davvero la nostra società inizi a palesare dei

segni di una difficoltà nella convivenza civile – e, da questo punto di vista, certe

contrapposizioni plateali potrebbero essere un sintomo da considerare con attenzione –

occorre ancora allo stesso modo ricordare che la fraternità si promuove, con indubbia

fatica, nelle dimensioni ordinarie, nelle relazioni di ogni giorno, perché questo è il

livello pratico in cui ciascuno può essere incisivo, in cui ci si può realmente capire, con

pazienza e fatica, ma anche con soddisfazione. A questo livello, probabilmente,

l’esperienza per prima ci attesta come il nutrire consapevolmente convinzioni diverse

rispetto a chi ci sta accanto non significa affatto essere incapaci di amicizia o di

solidarietà; le fedi, le verità a cui ciascuno tiene e di cui cerca di rendere ragione, non

precludono la fraternità:

La base di un buon compagnonnage tra gli uomini di differenti credenze

(religiose o civili ndr) – scriveva Maritain – non è dell’ordine dell’intelletto e delle

idee, ma del cuore e dell’amore […]. L’amore non va alle essenze, né alle qualità,

né alle idee: va alle persone; ed è il mistero delle persone e della presenza divina in

loro ad entrare qui in gioco. Il compagnonnage di cui parliamo non è il

compagnonnage delle credenze, è il compagnonnage degli uomini che credono8.

Se allora riconsideriamo il breve percorso in cui ci siamo fatti accompagnare da

Maritain potremmo dire che ciò che va mostrato oggi, forse con più urgenza, non è

tanto il fatto teoretico della non contrapposizione tra ragione e fede, ma il fatto pratico

della possibilità di un «buon compagnonnage tra gli uomini di differenti credenze»; è

una possibilità di cui oggi talvolta dubitiamo, finendo per ritenere che – proprio per

convivere – sia necessario tacere di ciò che ci sta più a cuore, operando una malsana

scissione in noi stessi. Per fare ancora riferimento alle sintesi pungenti del filosofo,

potremmo dire che ciò che oggi occorre temere non è la «durezza d’intelletto», ma la

«durezza di cuore», così come ciò che occorre coltivare e promuovere non è una

«mollezza di pensiero» – l’inclinazione a ritenere tutte le posizioni equivalenti,

censurando tutto ciò che si ritiene «interferenza» – ma la «tenerezza di cuore».

In qualche modo bisogna considerare una dinamica forse paradossale: dovremo 7 Op. cit., p. 72. 8 Op. cit., p. 74.

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accettare di buon grado che – è ancora, ed in chiusura, Maritain che parla – le persone

possano vivere in società «in buon accordo umano – per quanto fondamentali siano le

loro opposizioni – di buon umore e in cordiale solidarietà, o, per dire meglio: in amicale

e servizievole disaccordo»9.

È questa la condizione difficile della democrazia; già Aristotele insegnava che alla

base di una società non può che esserci l’amicizia: noi, oggi, siamo dinanzi alla grande

sfida – forse epocale – che consiste nel mostrare che l’amicizia si può custodire ed anzi

fortificare proprio in «servizievole disaccordo».

9 Op. cit., p. 72.

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Guardini, Maritain e l’«ampliamento della ragione» (M. Merleau-Ponty).

Alcune riflessioni intorno alla “questione liturgica”

Andrea Grillo*

«Una antropologia non si propone di aver ragione del primitivo o di

dargli ragione contro di noi, ma di insediarsi su un terreno dove siamo

entrambi intellegibili, senza riduzione e senza trasposizione temeraria...

Il compito è quindi ampliare la nostra ragione per renderla idonea a

comprendere ciò che in noi e in altri precede e sopravanza la ragione»

M. Merleau-Ponty1

«Impariamo a veder nuovamente il mondo attorno a noi da cui ci

eravamo distolti nella convinzione che i nostri sensi non potessero

insegnarci nulla di valido e che solo un sapere rigorosamente oggettivo

meritasse di esser preso in considerazione... In un mondo così trasformato

non siamo soli, e non siamo soltanto tra uomini. Questo mondo si offre

anche agli animali, ai bambini, ai primitivi, ai pazzi, che lo abitano a

modo loro e che coesistono con esso»

M. Merleau-Ponty2

«Ciò che opera nell’azione liturgica, che prega, che offre e agisce

non è l’‘anima’, non l’‘interiorità’, bensì l’‘uomo’»

R. Guardini3

«Contro le esagerazioni pseudo-liturgiche, si deve anche difendere

la libertà delle anime»

J. e R. Maritain4

* Insegna Teologia e Liturgia all’Istituto di Liturgia Pastorale di Padova e Teologia dogmatico-sacramentaria al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. 1 Da Mauss a Claude Lévi-Strauss, in Id., Segni, Milano, il Saggiatore, 1967 (ed. orig. 1960), pp.154-168, qui p.164, il corsivo è mio. 2 Conversazioni, Milano, SE, 2002, pp. 43-44. 3 Formazione liturgica. Saggi, Milano, Edizioni O.R., 1988, p.21. 4 Liturgia e contemplazione, in Id., Vita di preghiera. Liturgia e contemplazione, Borla, Roma, 1979, p.136.

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Le epigrafi con cui ho deciso di aprire questo contributo segnalano, proprio con la

loro abbondanza, il doppio livello su cui vorrei affrontare la “questione liturgica” in

questo mio scritto: da un lato, infatti, essa è scritta nella storia del secolo scorso, e ha

trovato in Romano Guardini e in Rissa e Jacques Maritain i protagonisti di uno

“scontro” che in qualche modo dura tuttoggi. Ma questo primo livello, al quale

dedicheremo gran parte della nostra attenzione, trova riscontro in un livello ulteriore,

per il quale attingiamo alla sapienza di un filosofo come M. Merleau- Ponty, che ci aiuta

a cogliere come la questione liturgica segnali il bisogno di «ampliamento della ragione»,

che sappia render conto anche di ciò che “precede” e “supera” la ragione. In effetti, è

proprio dalle parole di R. Guardini che apprendiamo, già agli inizi degli anni Venti del

XX secolo, che la liturgische Bildung costituisce il banco di prova non solo della vitalità

ecclesiale, ma della maturità culturale di un’epoca.

Movimento liturgico, nostalgia e progresso teorico

La nuova impostazione della problematica liturgica e sacramentale, nata intorno

alla prima metà del 1800, esordisce con le prime riflessioni di quello che verrà poi

chiamato movimento liturgico5. Il nuovo fenomeno – se ha davvero una importanza – è

proprio quella di indirizzare verso un nuovo obiettivo l’interesse che da più di un secolo

si era manifestato nei confronti del rito e della liturgia. In effetti, se ancora con Dom

Guéranger (1805-1875) l’interesse puramente “filologico” e “nostalgico” sembra ancora

largamente prevalere, con Dom Beauduin (1873-1953) e con Dom Festugière (1870-

1950) la liturgia viene sottoposta ad una analisi teorica e teologica già approfondita, che

manifesta una decisa inclinazione ad un approccio fondamentale. Curiosamente

entrambi questi autori – dai quali si è soliti far partire la riflessione propriamente

teologica sulla liturgia e quindi anche ogni possibile apertura ad una “teologia liturgica”

– pubblicano le loro opere quasi nello stesso anno durante il secondo decennio del nostro

secolo: infatti il primo pubblica Essai de manuel fondamental de liturgie nel 1912 e La

pieté de l’Eglise nel 1914, mentre il secondo dà alle stampe La liturgie Catholique nel

1913. I tre monaci benedettini, precursori della grande riflessione che investirà la

liturgia nei successivi decenni, e culminerà poi nella riforma liturgica impostata dalla 5 Per una informazione globale sulla portata culturale e teologica del fenomeno cfr. B. Neunheuser, Movimento liturgico, in Nuovo Dizionario di liturgia, edd. D. Sartore - A.M.Triacca, Cinisello B., Ed. Paoline, 1988, pp.905-918.

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Sacrosanctum Concilium, sanno però anticipare in modo originale gran parte dei temi

che poi costituiranno il «compito della elaborazione di una efficace teologia liturgica»6.

Anzi, la considerazione di questi tentativi, nella loro diversa impostazione, è già in

grado di anticipare non soltanto quasi tutti i temi successivi, ma anche di indicare

alcune questioni aperte della attuale comprensione teologica della liturgia.

Difficoltà del nuovo corso: Jacques e Raïssa Maritain

Non tutto ciò che oggi brilla come oro è stato immediatamente scorto e compreso

nel suo effettivo valore. Molto utile, soprattutto per cogliere la distanza culturale del

contesto in cui il discorso sulla liturgia poteva essere impostato anche solo 40 anni fa, è

l’avvertenza di “frequentare il nemico”: sia ben inteso, non si tratta di considerare

Jacques e Raïssa Maritain come “nemici” della teologia liturgica, ma di valutare le loro

argomentazioni come obiettivamente chiuse, e persino impermeabili, alla vera “novità”

della “questione liturgica”. Di qui può derivare anche una maggiore consapevolezza

intorno alla fatica, alla pazienza e alla solitudine che le idee del Movimento liturgico

hanno dovuto sperimentare, prima di essere acquisite come idee non “stravaganti”, non

“eterodosse”, non “moderniste”, non “contraddittorie” con i principi fondamentali e i

dogmi centrali della fede cristiana. Maturare questa coscienza, tornare brevemente ad

immedesimarsi nelle difficoltà sperimentate da questi “precursori” significa acquisire la

forza di una nuova urgenza, di una più profonda pretesa di quelle argomentazioni che

oggi sono tanto più deboli quanto più vengono distrattamente accettate come “luoghi

comuni”.

Il modo con cui affronteremo queste difficoltà sarà quello di considerare le critiche

rivolte alla fine degli anni Cinquanta a questi “novatori liturgisti” da parte di Jacques e

Raïssa Maritain. La prospettiva della riflessione proposta dai coniugi Maritain è quella

del confronto tra liturgia e contemplazione. Sullo sfondo vengono tenute molte

affermazioni della enciclica Mediator Dei (1947), interpretata come un potente colpo di

freno contro la pericolosa marea montante del nuovo spirito liturgico. Ma veniamo alle

asserzioni più significative di questo interessante studio:

a) Anzitutto viene proposta una accentuata distinzione tra culto esteriore e culto

interiore. Ciò che conta veramente, nel culto cristiano, è la realtà interiore e spirituale:

il culto esterno, pubblico, corporeo, sensibile (la liturgia) deve lasciare il campo alla 6 Cfr. S. Marsili, Teologia liturgica, in Nuovo dizionario di liturgia, ed. cit., pp.1508-1525.

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contemplazione, che ne costituisce il punto di arrivo e il compimento: «È normale che

coloro che partecipano alla vita liturgica tendano ad entrare in qualche stadio della

contemplazione dei santi e conseguentemente a praticare in qualche forma l’orazione

mentale»7.

b) Da ciò deriva quasi naturalmente una forte sottolineatura della differenza tra la

partecipazione della Chiesa ai Misteri di Cristo e la manifestazione di tale

partecipazione. La prima «è superiore a ciò che la manifesta in quanto vissuta

nell’intimo dell’anima della Chiesa dai santi... La contemplazione della Chiesa, fioritura

delle virtù teologiche e dei doni dello Spirito nel campo invisibile dei cuori, è dunque

superiore alla grande voce liturgica che ne è la manifestazione»8.

c) Ne deriva anche una precisa forma di identità ecclesiale, dove la singolarità e la

individualità del rapporto con Dio inevitabilmente attenua ogni enfasi sulle strutture

espressive della liturgia: «Mai l’uomo è più e meglio membro della Chiesa, che quando,

clauso ostio e solo con Colui che ama, è unito a Dio con ineffabile unione da persona a

persona ed entra nelle sue profondità»9. In tale prospettiva, che afferma il primato di

una spiritualità individuale e contemplativa, è chiaro come la liturgia non soltanto

venga trascurata, ma subisca anche un implicito giudizio negativo, come possibile

distrazione a questa solitudine contemplante. Tutta la sensibilità, la corporeità, la

moltitudine liturgica è allora veramente un pericolo per la spiritualità cristiana.

d) Assumendo in modo rigido le categorie tomiste, si passa poi a sostenere che

mentre la contemplazione deriva dai doni dello Spirito Santo, «il culto e la liturgia

invece derivano essenzialmente dalla virtù di religione»10 e perciò trovano oltre se stesse

– nella contemplazione di ognuno – la loro verità ultima.

Dopo una dettagliata esposizione della natura della contemplazione – le cui fonti

risultano significativamente o moderne (Garrigou-Lagrange, Th. Merton) o medioevali

(Tommaso, Bonaventura, Bernardo), senza alcun riferimento ad autori del I millennio

della Cristianità – si passa infine ad indicare una serie di «preconcetti che tendono ad

allontanare dalla contemplazione» e che risultano illuminanti per valutare la forza (e la

7 J. e R. Maritain, Liturgia e contemplazione, p.86. 8 Ivi, p.87-88. 9 Ivi, p.89. 10 Ivi, p.90.

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debolezza) delle nuove idee di teologia liturgica11. Si tratta quasi di un catalogo di idee

percepite come “distorte” e “fuorvianti”, dalle quali occorre difendere il primato della

contemplazione12.

a) L’idea che la contemplazione sia legata a tecniche, a metodi cui il singolo deve

sottoporsi duramente, mentre la liturgia costituirebbe un “movimento collettivo” che

trascina da solo e spontaneamente verso Dio.

b) L’idea che la meditazione solitaria inciti ad una spiritualità nella quale l’anima

è ripiegata su se stessa e ricerca se stessa, mentre a questa spiritualità “soggettiva” si

contrapporrebbe una spiritualità puramente “oggettiva” e completamente

disinteressata, quella della liturgia.

c) L’idea che i grandi maestri della contemplazione (come Teresa o Giovanni della

Croce) appartengano ad una “età introspettiva” rispetto a cui l’età attuale rivela altre

esigenze, mentre l’aspirazione liturgistica a “sottomettere tutto al primato di ciò che è

sociale e comunitario” risolverebbe ogni questione.

d) L’idea che la contemplazione sia riservata a “ordini religiosi”, a “esperienze

determinate” e non possa essere invece una “contemplazione per le strade”, una

spiritualità nascosta, ma efficace nell’amore per Dio e per il prossimo.

e) L’idea che «esser membri di un coro liturgico» sia il fine della partecipazione alla

chiesa, e non piuttosto che la cosa più importante sia essere membri del Corpo Mistico e

della comunione dei Santi. La «sistemazione pseudo-liturgica» – così viene chiamato

l’aspetto più originale del Movimento Liturgico – «invece di elevare l’elemento sociale

umano con quanto è spirituale, tende a sottomettere la vita spirituale all’elemento

sociale umano»13. «In nome della liturgia si vuol soddisfare un istinto gregario

puramente naturale e in nome addirittura del Corpo Mistico si esige un puro esse inter

homines»14.

f) L’idea che Dio ami solo le masse che insieme pregano e cantano, e non ogni

singola persona nella sua irripetibile originalità, mentre il comandamento usa il

personalissimo “Tu” e ad esso ci si deve attenere. 11 Questi preconcetti sono quasi la ripresa fedele delle “idee portanti” che si trovano in Guéranger e Festugière, e che ritroveremo abbondantemente in Guardini, Casel, Marsili e nella teologia che da essi largamente deriva. 12 Di un certo interesse è il fatto che il Movimento Liturgico avesse già suscitato queste dure reazioni 40 anni prima, e che in tali reazioni parlava non soltanto di “arretratezza” del mondo teologico tradizionale, ma anche di “rozzezza” della impostazione liturgica. 13 J. e R. Maritain, Liturgia e contemplazione, p.130. 14 Ibidem.

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g) L’idea che soltanto la messa “partecipata” sia veramente messa, mentre contro

l’atteggiamento pseudo-liturgico è opportuno difendere anche i “diritti del silenzio”.

«Benché il termine “partecipazione attiva” abbia preso praticamente il senso di

partecipazione manifestata esteriormente, che qui ascoltare, con gli orecchi o col cuore,

dal punto di vista filosofico è altrettanto attivo quanto parlare»15.

h) L’idea che vi sia spiritualità soltanto nell’aderire al culto comunitario, rispetto al

quale occorre difendere la libertà delle anime che risponde alla libertà dello Spirito che

soffia dove vuole16.

i) L’idea che la liturgia tragga alimento o dallo scrupolo archeologico o dalla novità

comunicativa, e non sia invece il suo sviluppo omogeneo a garantirne la verità e

l’efficacia.

l) Da ultimo l’idea che la autentica spiritualità cristiana possa nascere soltanto

nella celebrazione comunitaria e partecipata, contro cui bisogna difendere i diritti della

solitudine: «La possibilità di raggiungere una vita spirituale del tutto pura potrebbe

dunque essere riservata ad una élite privilegiata, consacrata al servizio liturgico? Vi è

pure la massa degli altri, impediti dalle necessità della vita e dagli obblighi di lavoro: vi

sono quelli che hanno a carico la famiglia, gli itineranti, gli ammalati, gli illetterati, i

solitari... Contro lo pseudo-liturgismo vanno difese la solitudine e la vita solitaria»17.

Tutti questi preconcetti e pregiudizi, che attentano al primato della

contemplazione nella vita spirituale cristiana, dimostrano come il quadro che prima

Festugière, poi Guardini hanno contribuito ad illuminare sia pieno di chiaro-scuri. Va

poi precisato che il vero intento dei coniugi Maritain non è quello di attaccare il

rinnovamento liturgico, ma di denunciare e por freno ad ogni pretesa di “assoluta

autosufficienza liturgica”, che dispenserebbe da ogni ascesi, da ogni silenzio, da ogni

solitudine, da ogni lavoro personale e individuale su di sé. Resta comunque una duplice

sensazione: da un lato nelle parole dure dei Maritain riconosciamo bene l’ombra lunga 15 Ivi, p.134. 16 Interessante è la lunga annotazione che a questo proposito viene proposta: «Roma fu sempre vigile nell’opporsi ad ogni tentativo di irregimentazione delle anime. Essa sa che lo spirito della liturgia chiede il rispetto della libertà evangelica proprio alla nuova Legge. Invece coloro che confondono liturgia e pseudo-liturgismo ritenendo valida la sola forma di pietà comunitaria ed esigendo da tutti che obbediscano nel gesto e nella parola con una precisione militare alle forme liturgiche, respingendo o discutendo le devozioni private e perfino l’adorazione del Santissimo Sacramento fuori della Messa, costoro – dico – impongono alle anime dei quadri rigidi e le onerano di obblighi esterni che sono dello stesso tipo delle osservanze della Legge Antica» (J. e R. Maritain, Liturgia e contemplazione, p.137). 17 J. e R. Maritain, Liturgia e contemplazione, p.140.

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di quella rimozione del rito dal fondamento della fede che compromette radicalmente la

percezione stessa del rito liturgico come tale: la volontà di essere assolutamente

equilibrati, quando l’equilibrio è già stato dimenticato da un punto di vista della prassi,

significa non riuscire più a dire tutta la verità, significa coprire, mascherare, rimuovere

quella urgenza di risignificazione rituale di cui la contemplazione – come tale – è

incapace. D’altro canto, però, il confronto con queste critiche mette bene in luce una

serie di “limiti intrinseci” al cammino della teologia liturgica: una serie di

approssimazioni, di viste unilaterali, di ipotesi troppo semplicistiche che oggettivamente

danno una pertinenza a molte delle critiche dei Maritain.

Sulla stessa linea di queste difficoltà possiamo collocare il fatto che uno dei

principali responsabili della introduzione reinterpretata della formula legem credendi

statuat lex orandi all’inizio di questo secolo fu proprio il modernista Tyrrel. Solo sulla

base di questo retroterra si possono intendere appieno e correttamente le tendenze anti-

sistematiche presenti in Casel e Marsili, come anche la famosa inserzione proposta da

Balthasar per il Movimento liturgico all’interno di una genealogia responsabile della

“riduzione antropologica” moderna, risalente in qualche modo addirittura al grande

crocevia kantiano (sic!). Dopo aver citato la linea che va da Kant a Feuerbach fino a

Marx, Ebner, Buber, Ragaz, e poi ancora giù giù fino a Scheler e ad alcune forme del

personalismo cristiano, Balthasar infatti aggiunge:

Nel movimento liturgico si riflette paradossalmente qualche cosa di queste

concezioni, perché quella maggior partecipazione dei fedeli alla liturgia, che

giustamente si vorrebbe realizzare, sotto sotto si tramuta in un’autoesperienza e in

un autogodimento della coscienza religiosa comunitaria. Persino nell’architettura

troviamo i riflessi di quelle concezioni18.

La percezione della novità della “questione liturgica”: Romano Guardini

Uno tra i più grandi pensatori che abbia interrogato a fondo la liturgia è

certamente Romano Guardini, che non fu teologo in senso stretto, ma piuttosto filosofo e

teorico dell’esistenza, della spiritualità e della cultura. È proprio a lui che dobbiamo far

18 H.U.von Balthasar, Solo l’amore è credibile, Roma, Borla, 1991, p.46, nota 15. Non è qui il caso di chiedersi fino a che punto sia del tutto pertinente questo gioco di capovolgimenti e di esegesi del “sotto sotto”. Tuttavia è plausibile l’ipotesi che la ricerca liturgica dell’elemento oggettivo abbia potuto trovare la sua ultima motivazione anche in un romanticissimo momento iper-soggettivo.

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risalire la individuazione del tema centrale del Movimento liturgico nella “questione

liturgica” (liturgische Frage). Ed è ancora a lui – con la nobile eccezione di M.

Festugière, come lo stesso Guardini riconobbe19 – che possiamo far risalire anche un

interesse teoretico (filosofico e antropologico) per il rito della celebrazione cristiana20. È

stato proprio il congiungersi di questi due “talenti” – una spiccata sensibilità per

cogliere intuitivamente le sfumature dei cambiamenti epocali e una rigorosa capacità

nel ricondurne gli effetti alle vere cause – ad aver fatto concentrare l’attenzione di

Guardini soprattutto sul rapporto tra celebrazione e modernità, come luogo eminente in

cui porre e discutere la “questione liturgica”.21

L’opera più famosa di Romano Guardini, Lo spirito della liturgia,22 appare

lucidissima nel porre, già nei primi anni Venti, il dito sulla piaga più grave: ossia la

questione della incapacità dell’uomo moderno di accedere al senso del rito.23 A proposito

dell’atteggiamento medio e profondamente radicato dell’uomo contemporaneo, leggiamo

infatti in Guardini che «questo uomo moderno vuole – specialmente quando ha un

temperamento personale – che la preghiera sia espressione immediata del suo stato

d’animo... Specie all’uomo moderno, che è così sensibile a tutto ciò che riguarda la vita

individuale e che dovunque cerca il profumo della terra ed ogni cosa guarda con tono

personale – proprio all’uomo moderno queste forme limpide susciteranno facilmente

l’impressione del gelo».24

Appare qui già sapientemente delineato il cuore stesso della “questione liturgica”,

che possiamo riformulare con altre parole: come è possibile offrire all’uomo di oggi la

centralità della mediazione liturgica senza rinunciare alla immediatezza che il rito non

può non avere nel suo impatto sull’uomo? La radicalità di questa domanda non permette

una soluzione troppo semplice: essa – nella sua dialettica di immediatezza e mediazione

19 R. Guardini, Das Objektive im Gebetsleben. Zu P.M.Festugières “Liturgie catholique”, «JLw – Jahrbuch für Literaturwissenschaft», 1(1921), pp.117-125. 20 Riconosce bene questa centralità di R. Guardini il bel saggio di G. Busani, I compiti del movimento liturgico: la proposta di Romano Guardini, in F. Brovelli (ed.), Liturgia: temi e autori. Saggi di studio sul movimento liturgico, C.L.V. – Ed. Liturgiche, Roma, 1990 (Bibliotheca Ephemerides Liturgicae Subsidia, 53), pp.83-138. 21 Un valido contributo all’approfondimento teoretico di questo rapporto di Guardini con la modernità si trova in R. Tagliaferri, La scienza liturgica fondamentale di R. Guardini nel quadro epistemologico attuale, in Id., La violazione del mondo. Ricerche di epistemologia liturgica, Roma, C.L.V. Ed. Liturgiche, 1996, pp.119-162. 22 Brescia, Morcelliana, 1930. 23 Vediamo così lucidamente compresa la questione che qui abbiamo assunto a criterio interpretativo fondamentale per dar forma e corpo alla essenza della “teologia liturgica”. 24 R. Guardini, Lo spirito della liturgia, pp.76-77.

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– addita quel difficile groviglio di questioni che sono apparse chiare con la coscienza

maturata a seguito della “riforma liturgica”. Proprio perché la liturgia non è solo

“mediazione”, ma anche “immediatezza”; proprio perché non è solo “riforma”, ma anche

“iniziazione”; non solo “eternità”, ma anche “storia”; non solo “teoria”, ma anche

“azione”; non solo “evidenza”, ma anche “formazione”, ecco risultare profondamente

riabilitata una competenza schiettamente antropologico-culturale perché il Movimento

liturgico prima, e la teologia liturgica poi, possano fare il proprio mestiere ad un livello

adeguato sia di scientificità, sia di persuasività.

Nell’indagare il livello comunitario, oggettivo, gestuale, corporeo, sensibile del rito

liturgico, Guardini ha saputo mettere in luce – come nessun altro – il rilievo “storico” di

queste dimensioni della liturgia. Si noti bene questo passaggio, perché normalmente

viene frainteso. Di norma, infatti, si ritiene che l’antropologia studi e metta in luce

strutture perenni (trascendentali) dell’“essere uomo”, rispetto a cui la teologia

categorializza, storicizza e temporalizza nel contingente queste strutture. Qui,

viceversa, proprio un pieno rispetto del livello antropologico-rituale della liturgia

permette alla “riforma liturgica” di non de-storicizzarsi in un rigore filologico o in uno

storicismo delle fonti, ma di affrontare davvero la questione liturgica sul piano della

significatività e della possibilità dell’atto di culto oggi25.

È stato merito di Guardini aver aperto – con cautela e insieme con decisione – la

via ad un ripensamento del rapporto tra liturgia e “sacro”26, tra liturgia e “gioco”, tra

liturgia e “corpo”, in generale tra liturgia ed esperienza religiosa. Grazie a questi meriti

ha saputo cogliere – già nel secondo decennio del XX secolo – il gioco incrociato che

riforma e iniziazione avrebbero svolto per l’avvenire della liturgia. «Guardini non si è

preoccupato di “riformare” il “come” celebrativo per coinvolgere il soggetto, ma si è

preoccupato soprattutto di formare il soggetto in riferimento al senso del suo celebrare,

25 Vi sono alcune parole profetiche, scritte da Guardini nel 1964, che oggi appaiono in una luce che le conferma pienamente: «Il lavoro liturgico è giunto a un punto importante. Il Concilio ha posto le basi per il futuro... ora si tratta di vedere in qual modo il lavoro debba essere iniziato, affinché la verità possa divenire realtà. Si presenterà naturalmente una gran quantità di problemi rituali e testuali e una lunga esperienza dice come sia possibile affrontarli in modo giusto e anche errato. Ma il problema principale mi sembra sia un altro, il problema cioè dell’atto di culto... Se le intenzioni del Concilio verranno poste in atto, si renderanno necessari un giusto insegnamento, ma soprattutto una autentica educazione e l’esercizio per imparare l’atto. Questo è oggi il compito: l’educazione liturgica. Se non viene iniziato, la riforma dei riti e dei testi non gioverà molto» (R. Guardini, Lettera sull’atto di culto e il compito attuale della formazione liturgica, «Humanitas», 20(1965), pp.85-90, qui pp.85 e 88, il corsivo è mio). 26 In particolare su questo tema si trovano acute riflessioni in G. Bonaccorso, Il Sacro nel Movimento Liturgico, «La Scuola Cattolica», 123(1995), pp.593-620.

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in modo da renderlo capace di un “come” sempre rinnovato e da rinnovare»27. Questo

giudizio coglie proprio il cuore della questione che più ci ha appassionato. Essa è

destinata ad accompagnarci ancora per molte pagine, ma se dovessimo ora riformularla

dovremmo dire così: la percezione di una “questione liturgica” come essenziale per una

visione fondamentale del cristianesimo ha assunto in R. Guardini la evidenza di una

sfida alla “visione del mondo” moderna. Ma bisogna evitare di pensare che questa

caratteristica appartenga esclusivamente a sparuti ed isolati rappresentanti del

Movimento liturgico. Anzi, come abbiamo già dimostrato altrove28, non c’è vera ricerca

liturgica senza lo stimolo di una ricostruzione fondamentale del sapere teologico, che

troveremo nitidissima in Casel come in Marsili, in Bonaccorso come in Sequeri. Ciò che

in Guardini è emerso alla luce non è il versante “antropologico” di ciò che la teologia

liturgica propone sul piano teologico, ma una necessaria e inaggirabile integrazione

antropologica della stessa teologia, perché la sua “originalità liturgica” sappia non solo il

proprio “come”, ma anche il proprio “perché”.

Conclusioni

Nel breve confronto che abbiamo considerato tra i coniugi Maritain e il pensiero di

Romano Guardini intorno al tema della “azione liturgica”, possiamo senza dubbio aver

scoperto qualche notizia sorprendente e soprattutto una nostra inadeguata

comprensione della tradizione liturgica contemporanea. Molte delle approssimazioni e

delle errate visioni, che oggi circolano tranquillamente nella volgata giornalistica anche

intraecclesiale, sono il frutto di una lettura distorta della tradizione più recente, delle

sue difficoltà e delle sue occasioni propizie, per rendere possibile non solo una adeguata

comprensione dell’agire cultuale, ma anche un più corretto rispetto delle fatiche e delle

controversie che le precedenti generazioni hanno dovuto assumere e portare, per noi e

quasi in vista di noi. Anche di questa “comunione verticale” (ossia tra diverse

generazioni) ha bisogno il sapere del mondo, come soprattutto quello della Chiesa.

27 G. Busani, I compiti del Movimento Liturgico, p.137. 28 Cfr. il I capitolo di A. Grillo, Teologia fondamentale e liturgia. Il rapporto tra immediatezza e mediazione nella riflessione teologica, Padova, Messaggero-Abbazia di S. Cristina, 1995, pp.17-49.

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Ateismo e ricerca di Dio

Ferdinando Marcolungo*

In un suo intervento sul Corriere della Sera, il 19 settembre del 2000, Carlo Bo

riprendeva il volume di Maritain, Dialogo sulla fede, da poco apparso in edizione

italiana. Si tratta della corrispondenza fra Cocteau, tentato dalla fede, e un filosofo,

Jacques Maritain (1882-1973), il quale proprio nella prima lettera si domanda:

Cosa sono io? Un convertito, un uomo che Dio ha rivoltato come un guanto,

tutte le cuciture sono fuori, la scorza è dentro e non serve più a niente. Un animale

del genere fa fatica a ritenersi qualcosa, ha voglia di chiedere perdono agli altri per

la sua esistenza. Le loro pellicce, i loro gusci lo impressionano. So che capisce,

anche se nel suo caso non si è trattato di abbandonare l’eresia per la fede, ma solo

di riprendere il proprio banco in chiesa; il suo Angelo le teneva il posto e tutte le

mattine scriveva il suo nome sull’inginocchiatoio.

Jacques Maritain e Raïssa Oumançoff si erano incontrati sui banchi d’università

alla Sorbona. Raïssa, ebrea russa, emigrata a Parigi con la famiglia, era brillante nei

suoi studi ma aveva perso la fede. Confesserà più avanti: «Era un grande dramma che

cominciava, ed in questo dramma ero sola. Ragionavo così: se Dio esiste, è

infinitamente buono e onnipotente. Ma, se è buono, perché permette la sofferenza?».

Jacques, che veniva da una famiglia protestante e di tradizioni liberali, sposerà

civilmente Raïssa nel 1904, a 22 anni, ma già nel 1903 avevano deciso che si sarebbero

suicidati assieme, se assieme non avessero trovato una risposta che li riscattasse da

quella visione puramente scientifica e materialista che avevano appreso alle lezioni di

scienze naturali, di filosofia e di storia, «una lezione – come diranno più tardi – di

relativismo integrale, di scetticismo intellettuale e di nichilismo morale».

«Mendicanti del cielo»: così si definiranno, ricordando il dramma di quegli anni.

La conversione avvenne a seguito dell’incontro con Léon Bloy, che avevano voluto

* Ordinario di Filosofia Teoretica alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Verona.

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conoscere di persona dopo la lettura di un suo testo, La femme pauvre. L’esperienza

della sua fede sincera, unita ad un disinteresse e distacco singolari sarà decisiva. Bloy

sarà padrino al loro battesimo l’11 giugno 1906 a Montmartre.

La conversione di Jacques e Raïssa rimarrà l’espressione significativa di un

cammino che coniugherà sempre insieme la ricerca della ragione e l’adesione sincera

della fede, senza nulla togliere all’una o all’altra. La sintesi, che Maritain ci offre a tale

riguardo, può essere riassunta nelle parole con cui Bruno Forte, certamente tra i

teologi più significativi del nostro tempo, si presenta in un’intervista:

Ma chi sono veramente? Sono un “mendicante del cielo”, vorrei dire con le

parole di Jacques Maritain, un uomo che ha un orecchio incollato alla terra per

coglierne le germinazioni nascoste e un orecchio in ascolto del cielo. È un uomo che

vive la fatica di coniugare questi due ascolti, di essere fedeli a questa storia, a

questa terra, che amiamo, e al tempo stesso all’altro, allo sconosciuto, allo

straniero, che è diventato il vivente nell’incontro, che, nella fede, ho vissuto con lui.

Sì, perché io sono un uomo che pensa, che sente fortemente l’ansia della ricerca, la

passione del domandare. Ma sono anche un uomo che è stato raggiunto, in un certo

momento della sua vita, dall’altro, dall’esperienza del Dio vivente. E questo nulla

ha tolto alla mia fatica di pensare, anzi, vorrei dire che l’ha accresciuta.

Il cammino di Maritain è noto: se da una parte Léon Bloy gli dischiude la

radicalità della fede, nella sua ispirazione contemplativa, sarà l’incontro con Bergson e

poi con Tommaso d’Aquino a segnare definitivamente il suo pensiero; di Bergson dirà

che «fu il primo che rispose al nostro desiderio profondo di verità metafisica e liberò in

noi il senso dell’assoluto»; di Tommaso intenderà ripensare in modo vivo

l’impostazione, sulla base degli eterni problemi della filosofia, aprendosi allo stesso

tempo al pensiero moderno e a quelle tematiche, le scienze empiriche, l’arte e la storia,

che il pensatore medievale non aveva direttamente affrontato.

Nella prefazione al volume Ateismo e ricerca di Dio, che ho voluto riprendere nel

titolo di questo mio intervento, Maritain dirà che

Dio è inaccessibile e a portata di mano. Investe l’uomo da ogni parte. Non v’è

un solo percorso, come verso un’oasi attraverso il deserto, o verso una nuova idea

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matematica attraverso la distesa della scienza del numero; per l’uomo vi sono

tante strade verso Dio quanti passi sulla terra o strade verso il proprio cuore.

Riprendendo le cinque vie di Tommaso d’Aquino dirà che non si tratta solo di

«cinque argomentazioni tipicamente distinte», ma anche di argomentazioni

distribuite con un certo ordine, in cui la profondità del pensiero e la

complessità della discussione vanno aumentando. A mano a mano che lo spirito

procede più avanti nel mondo dell’esperienza per prendervi il suo punto di

partenza, egli discerne nel Primo Essere aspetti più significativi e gli sono aperte

più ricche prospettive.

E dopo essersi richiamato a Tommaso, Maritain non temerà di aggiungere alle

cinque vie una sesta; una via, questa volta, che nasce dall’esperienza interiore del

nostro pensiero, della nostra intelligenza. Una via che unirà all’aspetto dimostrativo il

piano dell’intuizione e dell’esperienza diretta. Come lui stesso avverte, occorre infatti

distinguere

un piano pre-filosofico, dove la certezza è immersa in una esperienza

intuitiva, e un piano scientifico e filosofico, dove la certezza emana da una

dimostrazione logicamente elaborata e da una giustificazione metafisica

razionalmente sviluppata. [...] [Sul piano pre-filosofico] è di superiore importanza il

processo intuitivo, benché l’intuizione in questione sia un tipo di intuizione molto

più particolare che non l’intuizione primordiale dell’esistere, e supponga

l’esperienza della vita propria dell’intelletto.

È in questo rapporto tra i diversi gradi del sapere che diventa urgente per

Maritain riscoprire le profondità dell’intelligenza e riconciliare le istanze del pensiero

scientifico con le urgenze della ragione, così da dare una risposta a quello che egli

considera il problema tipico del nostro tempo, ossia la riconciliazione tra scienza e

sapienza.

Ma veniamo a Romano Guardini (1885-1968), per ricordare almeno alcuni tratti

del suo pensiero, anche se molte altre cose si dovrebbero dire di Maritain, e in

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particolare sulla sua lettura dell’ateismo contemporaneo. Anche Guardini, di soli tre

anni più giovane di Maritain, vive anzitutto del clima culturale che precede la prima

guerra mondiale, per quanto riguarda la sua preparazione universitaria. Dopo due

semestri alla facoltà di chimica a Tubinga, nel 1904 passa a studiare economia politica

a Monaco e quindi a Berlino, dove frequenta il semestre invernale del 1905.

Quest’ultimo anno segna la svolta nell’impostazione della sua vita: nel semestre estivo

del 1906 inizia gli studi di teologia cattolica a Friburgo, per tre semestri, e quindi a

Tubinga, per altri tre semestri. In quegli stessi anni ha il primo incontro con i

benedettini del monastero di Beuron, decisivo per i suoi successivi interessi per la

liturgia. Nel semestre invernale del 1908 entra nel seminario di Magonza e viene

consacrato sacerdote nel maggio del 1910. L’anno seguente ottiene la cittadinanza

tedesca, richiesta per l’insegnamento nelle scuole pubbliche; riprende gli studi sul

finire del 1912 a Friburgo e si laurea in teologia nel 1915 con una tesi su san

Bonaventura.

Su sollecitazione di Max Scheler, Guardini viene chiamato ad insegnare

nell’aprile del 1924 presso l’università di Berlino alla nuova cattedra di “Filosofia della

religione e Weltanschauung cattolica”, formalmente come docente comandato in forma

stabile della facoltà teologica cattolica di Breslavia. L’insegnamento a Berlino

rappresenta il periodo più fecondo e significativo della sua attività, interrotto solo 15

anni dopo nel marzo del 1939 con la soppressione della cattedra ad opera del regime

nazista. Un insegnamento che riprenderà, come è noto, dopo il secondo conflitto

mondiale dapprima a Tubinga (1945) e poi a Monaco di Baviera (1948-1962) alla

cattedra di “Filosofia della religione e Weltanschauung cristiana”.

Ho voluto brevemente richiamare questi dati per ricordare anzitutto il legame

stretto di Guardini con l’esperienza della gioventù universitaria, alla quale ebbe modo

di dedicare tutte le sue forze, sia nella guida di movimenti giovanili, come il Quickborn

(fonte viva), sia nei corsi universitari, sempre affollatissimi e seguiti da studenti delle

più diverse facoltà. Di quanto tenesse all’impresa è testimonianza anche uno sfogo

degli ultimi anni (1955) che si ritrova in appendice all’edizione recente dell’Etica, che

riprende le sue lezioni a Monaco nel secondo dopoguerra. Avverte Guardini che il

clima è cambiato, perché

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le due guerre – e, forse ancor più, la dittatura – non hanno ucciso solo

persone e ridotto in macerie case, ma hanno distrutto gli ordinamenti, che

aiutavano l’uomo a convivere più facilmente con l’altro. Naturalmente si veniva di

continuo ad attriti e durezze; si verificavano però anche accordi in rapporto a ciò

che ‘si’ faceva e a ciò che non ‘si’ faceva; e su chi si poteva fare affidamento. Anche

all’Università.

E di fronte alle difficoltà dell’insegnamento, con giovani che ormai apparivano

difficili da agganciare, confessa di essere stato più volte sul punto di «rinunciare alla

lotta»; ma, confessava:

Io ho troppo rispetto per ciò che è l’Università; sento troppo profondamente di

quanto grande e bella cosa ne vada, per poter realmente rinunciare. Perciò posso

soltanto pregare vivamente che vogliate aiutarmi affinché quanto qui avviene non

scada al carattere di una qualsiasi riunione e mostra, ma diventi ciò che deve

essere.

Uno sfogo, dicevo, che fa onore tuttavia all’integrità del suo pensiero: come diceva

poco prima, chiarendo il proprio intento:

Io devo mostrare come la verità della fede e la realtà del mondo si incontrino:

e ciò io posso compiere solo con la più personale partecipazione. Questo significa da

un lato energia; dall’altro però anche suscettibilità. Infatti pensieri che sono così

pensati ed espressi in tal modo presuppongono nell’ascoltatore qualcosa: un

rispetto e una disponibilità.

Legate all’insegnamento universitario sono le opere più celebri di Guardini, nelle

quali passa in rassegna alcuni tra i momenti più significativi del pensiero cristiano e si

confronta con il mondo contemporaneo: da Il mondo religioso di Dostojevskij (1933) a

La conversione di sant’Agostino (1935), da Pascal (1935) a Dante (1937, 1946, 1956,

1958), ma anche Hölderlin. Immagine del mondo e religiosità (1939), Rainer Maria

Rilke. Le Elegie duinesi come interpretazione dell’esistenza (1941) e La morte di

Socrate (1944). Ne emerge l’urgenza di una dimensione religiosa che dia risposta agli

interrogativi profondi dell’esistenza, in una tensione interiore che anima le diverse

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figure e ne mette in risalto la grandezza, talvolta tragica, che le contraddistingue. Il

confronto con le urgenze del momento storico porta Guardini, come è noto, a

sviluppare inoltre un’originale lettura del moderno che si accompagna ad una

consapevolezza critica del momento presente, anche dal punto di vista politico. Da

Mondo e persona (1939) a Libertà, grazia, destino (1948), da La fine dell’epoca

moderna (1950) e Il potere (1951) fino ai due volumi di Ansia per l’uomo (1962-66),

Guardini mostra la necessità di superare il finitismo tragico che contraddistingue la

volontà di potenza dell’uomo moderno per ritrovare una dimensione di libertà in grado

di garantire l’uomo di fronte al predominio della massa e al dispotismo delle diverse

forme di dittatura.

Ma veniamo a due battute sul tema di questo nostro incontro. Potremmo

ricordare anzitutto la lucida lettura di quello che a suo avviso rappresenta il nucleo

dell’ateismo contemporaneo, per il quale il problema fondamentale sembra appunto

essere quello «della coesistenza di Dio e dell’uomo». Guardini così focalizza il tema

della maggiore età raggiunta dall’uomo moderno:

Una formulazione più sottile dice: finché l’uomo non è arrivato alla

completezza della maggiore età scientifica, sociale, culturale, ha bisogno di

assistenza. Perciò – si dice – l’uomo ripone in un’entità metafisica ciò che

propriamente avrebbe potuto fare da se stesso con la perfezione del proprio potere

e per diritto proprio. Quest’entità gli evita uno sforzo del quale non è ancora in

grado; è quanto capita a chi ha una gamba rotta e usa le stampelle. Nella misura

in cui l’uomo diventa autonomo, può mettere da parte quest’entità ausiliatrice.

Anzi, è suo dovere farlo, assumendosi lui stesso la piena ed esclusiva

responsabilità dell’esistenza.

L’origine della contrapposizione tra Dio e l’uomo deriva secondo Guardini da una

falsa concezione che il moderno ha di Dio, che viene ora inteso solo come «l’Altro»,

«secondo lo schema di quel rapporto nel quale l’uomo si trova in relazione con un altro

uomo». Ne viene di conseguenza che l’alternativa tra l’uomo e Dio sembrerà

inevitabile: «Dio allora apparirà sempre più soltanto come colui che è tutto, che è

onnipotente, che è puramente e semplicemente superiore, e sarà sentito come

l’avversario radicale. […] Dio è sentito come il concorrente nell’esistenza o, meglio,

come colui che è irrimediabilmente più forte».

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In tal modo ci troviamo necessariamente di fronte ad una contrapposizione

radicale tra Dio e l’uomo. La rivelazione cristiana, osserva Guardini, ci offre invece

una diversa possibilità:

Dio essenzialmente non è ‘l’Altro’. […] Il rapporto tra Dio e l’uomo che sia

corretto nel suo senso viene espresso dalla Scrittura con due concetti che noi

esamineremo approfonditamente perché su di essi si basa tutta l’etica cristiana: il

concetto della creazione e quello della grazia. […] L’uomo è ciò che è ed è colui che

è grazie alla volontà creatrice di Dio che lo vuole come ente autentico e come

determinato nel suo sé. Quanto più fortemente il Dio reale si fa valere

nell’esistenza dell’uomo – nei suoi pensieri, nelle sue sensazioni, nel suo

atteggiamento esistenziale –, tanto più compiutamente l’uomo diventa se stesso.

Ci viene in mente allora quel che Guardini diceva nel suo corso su Pascal, ancora

del ’35. In apertura Guardini si chiedeva: «Come accade che un uomo creda? Come si

presenta la struttura della coscienza cristiana che riposa su siffatta fede? Come si

compie una vita che è determinata da tale fede?». La scelta di Pascal è determinata

appunto dal fatto che in lui si trovano non solo «la serietà e l’intensità di una fede

conquistata attraverso l’esperienza, la decisione, il coraggio e l’energia della vita

cristiana», ma anche «la vigile attenzione e l’impulso conoscitivo del ricercatore nato».

Nell’affrontare il celebre argomento della scommessa, Guardini sottolinea la

particolare natura dell’esperienza di fede: l’argomento più che dimostrare intende

convincere: alla base dell’esperienza conoscitiva sta ancora la coscienza di un moto

spirituale.

L’argomentazione suona così: se c’è un Dio, egli è, come Dio, incommensurabile

per noi esseri finiti. Con la logica non possiamo in modo convincente sapere se e che

cosa Esso sia. Da una parte ci sono io, uomo, finito; dall’altra parte c’è

l’incommensurabile. Di fronte al problema dell’esistenza di Dio l’uomo si trova nella

situazione del “gioco d’azzardo” con il suo rischio. L’uomo non è libero di sottrarsi alla

scelta, deve comunque decidersi, scegliendo di credere o di non credere. Ora, sulla base

della natura delle due grandezze, Pascal dimostra che, con le regole della teoria del

calcolo delle probabilità, le probabilità in favore sono più forti di quelle contrarie.

Dunque è ragionevole superare i limiti della ragione; l’unica cosa ragionevole è il

rischio “in favore” dell’esistenza di Dio. «La grandezza del rischio – conclude Guardini

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– è per lui [Pascal] una base di misura: non soltanto per la posizione o il grado

dell’uomo che lo affronta, ma per il grado di valore della cosa che lo richiede».

In tal senso, Guardini, sulla scia di Scheler, sottolinea che la forza che anima

l’argomentazione è l’eros, una vera e propria forza del pensiero: «Pensare in serietà,

filosoficamente ed ancor più religiosamente, è sempre un esistere nel pensiero; [...]

pensando io lotto per conquistare la verità di quel qualcosa che sta di fronte a me. E

insieme lotto anche per me stesso, per la mia verità». La nostra conoscenza non può

rimanere a livello puramente intellettuale, ma deve coinvolgere necessariamente tutta

la persona:

Il conoscere – conclude Guardini – è, come conoscere, un reale accadere, un

reale fare, è attuazione d’esistenza. [...] Dall’esattezza e dall’intensità di questo

processo dipende il grado della verità raggiunta. [...] Quanto più elevata è la

natura dell’oggetto, tanto meno questo è conoscibile con un semplice intendimento

oggettivo, e tanto più alto è il significato che acquista il momento esistentivo. Di

fronte all’Oggetto assoluto non è necessario soltanto un impegno altissimo, ma un

impegno specifico, originale, cioè l’impegno assoluto: la decisione religiosa.

In tal senso della fede offre una risposta a quello che Guardini chiamava il

finitismo tragico del mondo moderno. Nel ‘39, nel corso su Dostoevskij, sottolineava

l’atteggiamento emblematico dell’ingegnere Kirillov che rifiuta Dio:

Questa dunque è ribellione. Non ateismo, ma attacco aperto; Dio in fondo non è

negato - sebbene appaia molto dubbio (vedi il colloquio col diavolo) che Ivàn creda in

Lui -, ma è, qui, il nemico. In questo modo Ivàn proietta il suo interiore dissidio

nell’assoluto.

Pascal, al termine della sua vita, come ricorda Guardini, riuscirà invece a

sconfiggere il proprio demone, rappresentato appunto dall’orgoglio intellettuale e dalla

volontà di emergere sugli altri; sarà nell’umiltà e nel silenzio degli ultimi mesi che

potrà così accostarsi a quel Mistero di Gesù di cui aveva parlato nei suoi Pensieri: un

Dio che accetta l’umiliazione e la croce per salvare gli uomini. Al di là della ragione, si

aprono qui le vie del cuore, di una conoscenza che coinvolge l’interezza della persona e

può donare serenità ed equilibrio.

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Mendicanti del cielo, dicevamo prima di Raïssa e di Jacques Maritain; pellegrino

dell’Assoluto e insieme compagno di viaggio di tante figure del mondo contemporaneo,

potremmo definire Romano Guardini, proprio in questa sua apertura e attenzione agli

interrogativi più radicali e profondi del cuore umano.