La famiglia di fronte alla malattia - OMCeOMI

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La famiglia di fronte alla malattia Sabato 25 maggio 2013 – ore 8.15-13.30 Auditorium Don Alberione – Periodici San Paolo Via Giotto 36 – Milano crediti n. 3,8 evento n. 1834 – 61923

Transcript of La famiglia di fronte alla malattia - OMCeOMI

La famiglia di fronte alla malattia

Sabato 25 maggio 2013 – ore 8.15-13.30

Auditorium Don Alberione – Periodici San Paolo Via Giotto 36 – Milano

crediti n. 3,8 evento n. 1834 – 61923

La famiglia di fronte alla malattia

Aperto alle associazioni di volontariato e famigliari di pazienti

Sabato 25 maggio 2013 – ore 8.15-13.30

Auditorium Don Alberione – Periodici San Paolo Via Giotto 36 – Milano

CoordinatoriCoordinatoriCoordinatoriCoordinatori

WÉààA TÄuxÜàÉ fvtÇÇ| Primario Emerito di Oncologia

A.O. Fatebenefratelli e Oftalmico – Milano Consigliere dell’ Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Milano

WÉààAáát `tÜ|t gxÜxát mÉvv{| Consigliere Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Milano

Referente Commissione Pari Opportunità OMCeO Milano

Programma

8.15-8.45 Registrazione Partecipanti

8.45-9.00 Saluto delle Autorità e del Presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi

e degli Odontoiatri di Milano o di altro Consigliere da lui delegato

ModeratoreModeratoreModeratoreModeratore

WÉààA e|vvtÜwÉ UÉÇtv|Çt Presidente e Direttore di “Vita”

9.00-9.30 WÉààAáát TwxÄx ctàÜ|Ç| Presidente Associazione C.A.O.S. Onlus Varese Consigliere Società Italiana di Psiconcologia (SIPO) sezione Lombardia Come superare il disagio di famiglia e malato: il parere del pazienteCome superare il disagio di famiglia e malato: il parere del pazienteCome superare il disagio di famiglia e malato: il parere del pazienteCome superare il disagio di famiglia e malato: il parere del paziente

9.30-10.00 WÉààA _â|z| itÄxÜt Consigliere Nazionale Società Italiana di Psiconcologia (SIPO)

I bisogni psicologici della famiglia di fronte alla malattiabisogni psicologici della famiglia di fronte alla malattiabisogni psicologici della famiglia di fronte alla malattiabisogni psicologici della famiglia di fronte alla malattia

10.00-10.30 WÉààAáát `tÜ|t ZÜté|t `tÇyÜxw| MMG a Milano Consigliere Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Milano Il Medico di Medicina Generale e la famiglia del malatoIl Medico di Medicina Generale e la famiglia del malatoIl Medico di Medicina Generale e la famiglia del malatoIl Medico di Medicina Generale e la famiglia del malato

10.30-11.00 WÉààA VÄtâw|É ixÜâá|É Direttore S.C. di Oncologia A.O. Ospedale di Circolo Busto Arsizio (Varese) Lo specialista e la famiglia del malatoLo specialista e la famiglia del malatoLo specialista e la famiglia del malatoLo specialista e la famiglia del malato

11.00-11.15 Intervallo

11.15-11.45 cÜÉyA VtÜÄÉ ixÜztÇ| Geriatra – Università degli Studi di Milano La patologia cronica e la non autosufficienza dell’anziano in famigliaLa patologia cronica e la non autosufficienza dell’anziano in famigliaLa patologia cronica e la non autosufficienza dell’anziano in famigliaLa patologia cronica e la non autosufficienza dell’anziano in famiglia

11.45-12.15 \ÇzA ftÄätàÉÜx VÜtÑtÇétÇÉ Presidente del Coordinamento Comitati Milanesi Come un Come un Come un Come un quartiere sostiene un malato e la sua famigliaquartiere sostiene un malato e la sua famigliaquartiere sostiene un malato e la sua famigliaquartiere sostiene un malato e la sua famiglia

12.15 13.00 Dibattito

13.00-13.30 Compilazione schede di valutazione e di verifica

Il Convegno aperto ad uditori è indirizzato anche ad associazioni di volontariato e famigliari di pazienti

I bisogni psicologici della famiglia di fronte alla malattia

Prendersi cura con la famiglia Prendersi cura della famiglia

WÉààA _â|z| itÄxÜt Consigliere Nazionale Società Italiana di Psiconcologia (SIPO)

La malattia oncologica la si può definire psicologicamente come una malattia

famigliare. Perché quando ci si ammala di cancro le conseguenze psicologiche vengono

condivise e reagite da tutto il nucleo famigliare. Secondo alcune statistiche tre famiglie

su quattro devono fronteggiare una diagnosi di cancro nel corso del loro ciclo di vita

La malattia oncologica è un trauma non solo fisico ma anche psicologico, sociale e

spirituale; ne consegue che la progettualità della personalità del paziente e di tutto il

nucleo famigliare viene bloccata e tutto viene congelato da una nuova presenza in

famiglia che ospita lo spazio domestico in modo invadente: La Paura.

Ogni volta che un membro della famiglia si ammala di tumore, questa evenienza viene

vissuta come inattesa , oltre che come negativa.

Dal momento che si iniziano ad eseguire gli esami per l’approfondimento di una

corretta diagnosi oncologica, il paziente e la sua famiglia vivono una nuova

dimensione temporale: quella di un tempo sospeso. Ogni tipo di programma viene

rimandato e ci si concentra solo sul presente con un clima di cupa ansietà alla ricerca

affannosa di recuperare il tempo perduto. Si impongono radicali mutamenti delle

normali abitudini, influenzando i rapporti e condiziona il nostro futuro insieme.

Da questo momento scatta la corsa con il tempo per rincorrere al più presto la cura

più opportuna nell’istituzione sanitaria più accreditata per affrontare un nuovo nemico:

Il Cancro.

Cancro e famiglia

Il cancro è un evento traumatico familiare o meglio una malattia familiare che minaccia

l’unità della famiglia e che crea cambiamenti importanti nella sua struttura e nel suo

funzionamento.

Così come non vi è una persona uguale ad un’altra, così anche per la famiglia non ve né

una uguale ad un’altra e pertanto ogni nucleo è a sé stante e se si fanno grossolani

errori quando si vuole generalizzare.

Ogni nucleo famigliare reagirà alla patologia oncologica maligna in base a molti

fattori:

1) al sesso e ruolo che il paziente ha nella famiglia, le reazioni post traumatiche e di

adattamento saranno molto differenti se ad ammalarsi sarà un uomo-marito-padre,

oppure una donna-moglie-madre. L’equilibrio è dato dai pesi e posizioni all’interno

della famiglia. è molto diversa una famiglia con un bambino piccolo, da una con figli

adolescenziali e da un’altra con figli che abitano fuori casa.

2) I ruoli si differenziano anche per l’aspetto culturale es: nord e sud, oppure da

provenienze di culture differenti dalla nostra,

3) dall’età cronologica della sua costituzione, ogni famiglia ha un suo equilibrio

instabile (poiché dinamica) raggiunto nel tempo e da precedenti esperienze che la

coppia e/o famiglia ha già affrontato in passato e che le hanno dato un suo stile

specifico di comportamento sia all’esterno che all’esterno es: famiglia conflittuale,

famiglia disgregata, famiglia muta e/o congelata. La famiglia “normale” è quella che

più di tutti esprimerà il disagio dell’alterazione dell’equilibrio relazionale perso alla

ricerca di un nuovo assetto.

La famiglia

• ha un suo equilibrio ed una sua stabilità

• ha un ciclo vitale

• affronta eventi normativi o traumatici

• ha una sua adattabilità

• ha un suo modello in ogni cultura

Il nucleo familiare può influenzare in senso positivo o negativo aspetti non secondari

del decorso e della risposta alle cure della malattia del paziente. Tensione emotiva

(distress), impegno pratico e preoccupazione per il congiunto rappresentano gli

indicatori principali dei riflessi psicologici della malattia sui familiari.

Il coping (adattamento) familiare dipende:

• storia della famiglia e dei suoi singoli membri

• stadio di sviluppo della famiglia

• struttura familiare

• funzionamento familiare

• risorse di supporto

Una figura particolare che si evidenzia all’interno della famiglia è il caregiver (colui

che si prende cura del malato) che impegna gran parte del proprio tempo e delle

proprie risorse emotive ad accompagnare praticamente ed emotivamente il paziente.

La sua presenza psicologica è molto influente nell’affiancamento del paziente, e

potremmo definirla con la metafora di una bicicletta-tandem, dove la pedalata di uno

influisce la pedalata dell’altro. La figura del care-giver è un ruolo molto difficile, perché

si trova ad agire tra il paziente e l’equipe curante, dove viene sollecitato da sentimenti

ambivalenti tra la condivisione ma anche di protezione dalle cattive notizie. Quando le

condizioni fisiche e psicologiche del paziente vanno male, si sente in dovere di

sponsorizzare un atteggiamento di fiducia e di speranza, nascondendo spesso risposte

psicologiche segnate dal dolore e dall’angoscia che si riverberano negativamente sulla

gestione quotidiana della neoplasia. Questa posizione è quindi molto difficile da gestire

perché deve rappresentare un bilanciamento dell’equilibrio psicologico del paziente,

cioè rappresentare la parte mancante cercando gradualmente di condividerla con il

proprio famigliare ammalato.

Pertanto vi è la necessità di mantenere un equilibrio e adeguare il proprio stile di

vita alla malattia dipende anche dal supporto sociale disponibile per la famiglia, dalla

“solidità” psicologica di ciascuno, dalla eventuale concomitanza di altre circostanze

difficili. Le conseguenze più frequenti consistono di solito in angoscia e umore

depresso, diagnosticati come disturbi dell’adattamento, nonché sindromi post-

traumatiche osservabili, con una maggiore frequenza, nel caregiver e nei figli del

paziente. Come comportarsi? Generalizzare è difficile e ogni situazione andrebbe

valutata a sé. Ciò premesso, una comunicazione schietta ed efficace fra i familiari

migliora la gestione di una situazione già di per sé complessa per tutti.

Esprimere le proprie emozioni, condividere i sentimenti di frustrazione, rabbia e dolore

depressivo scatenati dalla malattia, è un consiglio sempre valido.

Così come spiegare ai più piccoli (con delicatezza e con un linguaggio appropriato) ciò

che sta avvenendo. Quando serve, infine, non bisogna indugiare nel chiedere aiuto: gli

interventi di supporto psicologico per la famiglia (condotti da psicologi, medici,

infermieri e personale sanitario adeguatamente formato) sono per lo più brevi e

focalizzati sulla soluzione dei problemi da affrontare.

Doppio ruolo

1. I membri della famiglia agiscono come prima linea di supporto emozionale

2. Essi costituiscono insieme al paziente un’unità richiedente cure e quindi ugualmente

bisognosi di attenzione e supporto.

La famiglia viene chiamata a sostenere il “peso della cura” durante tutte le fasi della

malattia, dal sostentamento e coraggio alla diagnosi, nel sostenere la fiducia durante le

terapie e gli interventi chirurgici altamente demolitivi, a rilanciare la speranza e la

progettualità al momento di una recidiva, nell’accompagnamento nelle varie fasi della

malattia terminale

Compiti dei familiari

1. Mantenere un qualche interesse per il presente e futuro della persona cara mentre

contemporaneamente ci si prepara alla sua morte anticipandone il dolore

2. Offrire una presenza attiva ed un controllo della situazione adattandosi nello stesso

tempo all’idea della malattia mortale del proprio caro

I bisogni/diritti dei familiari:

1. bisogno di esprimere, comunicare le esperienze che stanno vivendo

2. bisogno di capire e cercare il comportamento o atteggiamento giusto nei vari

momenti , superare il senso di colpa

3. Esprimere le proprie emozioni

4. Ricevere conforto e sostegno dagli altri familiari

5. Ricevere accettazione, supporto e conforto dall’équipe curante

6. bisogno di dare un senso alla situazione di malattia inguaribile e della morte

imminente.

Una buona psicodiagnosi familiare consente agli operatori di far leva sulle energie

positive della famiglia e di cercare l’alleanza terapeutica importante per la qualità di

vita del paziente e della famiglia stessa.

E’ quindi importante acquisire una competenza comunicativa e relazionale che non

divida il paziente dalla sua famiglia ma li riunisca in un’unica squadra, dove il care-

giver non venga percepito come un ostacolo all’assistenza del paziente, ma se

giustamente supportato ed istruito può diventare una risorsa.

Quindi è importante verificare l’organizzazione famigliare dove i ruoli permettano di

non sovra o sottostimare il coinvolgimento di ciascuno e di non incorrere in

incomprensioni e delusioni:

1. Se la famiglia può rivedere e ridistribuire i ruoli avrà minori probabilità di ammalarsi

(fuga dal problema, ansia, depressione e malattie psicosomatiche..)

2. Se la famiglia è aiutata ad elaborare sensi di colpa o chiarire “malintesi” sarà aiutata a

costruire vincoli di solidarietà con il paziente, con la rete sociale e i curanti.

Tutto il gruppo familiare

dovrebbe essere considerato come potenzialmente curante e potenzialmente paziente

indipendentemente dalla parte che singolarmente ciascun individuo sembra interpretare

per noi Paziente, familiari, operatori

Occorre incontrarsi e poter discutere per capire che cosa vuole il paziente al limite della

sua vita.

Quindi la sofferenza non è solo del malato, ma si allarga anche alla coppia e alla

famiglia intera, causando una sorta di congiura del silenzio, dove ognuno non

comunica le proprie emozioni e sentimenti per proteggere l’altro, e dove la paura della

malattia e della morte monopolizza la mente e blocca ogni progettualità. In questa

fatica relazionale, anche la qualità del legame viene messo a dura prova: ci sono

rapporti che si rafforzano ed altri che si spezzano definitivamente.

LA MIA ESPERIENZA CLINICA

Quando incontro i pazienti per la prima volta, spesso si presentano in ambulatorio

accompagnati con il/la partner, a questo punto lascio a loro la scelta se entrare

individualmente o insieme e spesso entrano in due. Dopo il primo incontro propongo

incontri individuali e di coppia per condividere quello che è emerso, mettendo in luce,

traducendo o mediando modalità comunicative bloccate o contorte.

Dopo 2/3 colloqui individuali e 3/4 colloqui di coppia, propongo ai pazienti e ai loro

corrispettivi partners di frequentare un gruppo, con frequenza bimestrale, allo scopo di

allargare il campo conoscitivo mostrando loro, attraverso il rispecchiamento,

l’identificazione proiettiva e quindi un blocco relazionale che monopolizza la coppia,

gestendo le loro vite. Continuando in parallelo la terapia individuale-coppia.

I ricordi dei traumi sono come le ciliegie, uno ne tira dietro l’altro,… anche per il

compagno/a sano, e pertanto la malattia dell’altro spesso tira fuori anche la tua che non

si vedeva prima, ma che però interferiva subdolamente nella relazione costante ed

intima con l’ammalato.

Inoltre ha evidenziato come i coniugi “sani”, con diverse identità sessuali, abbiano

dovuto confrontarsi con i propri problemi irrisolti, ed erano confusi e di ostacolo a

quelli del partner “malato”. I loro problemi inconsci hanno continuato per anni a

proiettare sul compagno/a l’ombra e le reazioni al proprio dolore, e dove ognuno

vedeva la pagliuzza nell’occhio dell’altro, senza vedere la trave che stava nel proprio.

Queste rivelazioni sono state molto importanti per rimettere le singole coppie in una

posizione di bilanciamento, così come non erano prima, dove il braccio della bilancia

pendeva moltissimo dalla parte del paziente per colpa della malattia. A questo punto si

è un po’ più consapevoli del meccanismo inconscio della identificazione proiettiva, dove

gli aspetti emotivi, precedentemente negati, si possono evidenziare attraverso il

ricordo e l’elaborazione di esperienze affettive d’attaccamento e di separazione

precedenti al costituzione della coppia attuale, e come tutt’ora questi interferiscono in

un inconscio relazionale (J.Bowlby) nel rapporto con il/la partner.

CONCLUSIONI

Lo psicoanalista dovrebbe avere una mentalità ed operatività proiettata

sull’integrazione: mettere insieme quello che il trauma/malattia ha spezzato, riunire il

biologico con lo storico, il corpo con la mente, attraverso un metodo di lavoro

d’integrazione che comprenda il paziente, la sua famiglia ed anche il gruppo dei

curanti all’interno delle istituzioni di cura, allo scopo di raggiungere l’autenticità del

sapere, saper fare, saper essere nel fare nell’hic et nunc.

L’integrazione deve comprendere anche la qualità dei legami e delle relazioni tra:

corpo-mente-famiglia-operatori sanitari in un’ottica olistica, con il linguaggio della storia

biografica integrata con quella biologica.

Il suo compito è quello di facilitare, ricompattare e tenere insieme le parti scisse della

mente, causate dai micro traumi subiti, in modo che la storia reale del paziente coincida

con quella vissuta nel ricordo e nelle emozioni.

Sofferenza dei pazienti, ma soprattutto in rapporto alla dinamiche istituzionali.

E’ importante restituire al personale sanitario, attraverso la formazione, la traduzione e

il senso della propria fatica professionale allo scopo di ampliare la propria esperienza

acquisita sul campo, sensibilizzando all’ascolto empatico, e nel saper riconoscere le

proprie emozioni e reazioni nella relazione con l’ammalato. Soprattutto nell’ottica di

non farsi tentare di lavorare con una mentalità assolutistica, ma operare in un’ottica di

gruppo di lavoro, in una squadra di cui ogni membro riconosca prima in sé e poi con il

paziente il proprio limite professionale, proponendo così altre professionalità per

l’allargamento della conoscenza e quindi dell’assistenza, sempre in un’ottica di

integrazione.

Il Medico di Medicina Generale e la famiglia del malato

WÉààAáát `tÜ|t ZÜté|t `tÇyÜxw| MMG a Milano

Consigliere Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Milano

Il miglioramento delle condizioni di vita e le migliori possibilità di intervento

terapeutico e di cura in situazioni critiche, che consentono la sopravvivenza di soggetti

fino a pochi anni fa destinati a soccombere, hanno determinato nel mondo occidentale

un indubbio aumento dell'età media della popolazione. Il prezzo da pagare per questo

allungamento della vita è stato però un incremento marcato di persone affette da

patologie cronico-degenerative, che impegnano in misura rilevante le risorse umane e

finanziarie dei servizi sanitari, ma che certamente coinvolgono sempre di più le

famiglie nella drammatica realtà della sofferenza.

La famiglia da sempre ha rivestito un ruolo centrale nella cura: la presenza, il sostegno,

l’affetto del nucleo parentale costituiscono per il sofferente un vero e proprio fattore

terapeutico. Il carico assistenziale delle famiglie è però aumentato negli ultimi decenni

anche a seguito delle riforme socio-sanitarie che privilegiano l’assistenza domiciliare a

quella ospedaliera, ora limitata ad un periodo sempre più breve. Se da una parte questa

prassi è positiva, offrendo al paziente notevoli benefici psicologici e ottenendo anche la

riduzione dei costi, a causa della spesso insufficiente strutturazione territoriale può

essere problematica per la famiglia, che si vede caricata di onerosi fardelli a livello

assistenziale ed economico.

Non possiamo scordare che la famiglia attraversa nella nostra società una crisi senza

precedenti e manifesta una fragilità strutturale che la rende spesso incapace di reagire

alle difficoltà e alle sofferenze della vita. All’instabilità dei legami coniugali che l’hanno

trasformata profondamente, si aggiungono oggi le purtroppo diffuse difficoltà legate

alla critica situazione economica del Paese.

Un’adeguata assistenza al malato deve certamente tener conto del rapporto

imprescindibile del paziente con la propria famiglia e le attenzioni nei confronti di

queste due entità devono procedere contemporaneamente e parallelamente.

E di questo è ben conscio il medico di medicina generale, chiamato anche medico di

famiglia, che quindi già nella sua stessa dizione comprende questo termine.

Il medico di medicina generale è sì il medico di fiducia del singolo individuo, ma del

soggetto inserito nel contesto della propria famiglia, comunità e ambiente lavorativo e

sociale e che nell’esercizio quotidiano della professione tiene conto non solo di fattori

fisici, ma anche di elementi psicologici, sociali, culturali ed esistenziali, servendosi della

conoscenza e della fiducia maturata nel corso di contatti ripetuti.

L’approccio della medicina generale segue un modello olistico, cioè centrato sulla

persona, orientato all’individuo, alla sua famiglia e alla sua comunità, occupandosi di

persone e dei loro problemi nel loro contesto di vita, non di patologie impersonali o

“casi”. Dal momento che il punto di partenza del processo clinico è il paziente, capire

come egli convive con la sua infermità, conoscere il suo punto di vista sulla malattia e

quale sia la relazione con la sua famiglia, dal momento che essa stessa può influenzare

profondamente l’atteggiamento del malato, ha la medesima rilevanza dell’affrontare il

processo patologico sotteso alla sua infermità.

La medicina generale si basa su un processo di consultazione fondato sulla costruzione

di una relazione protratta nel tempo: ogni contatto tra il paziente e il suo medico di

famiglia contribuisce alla costruzione di una storia che si evolve anche per un lungo

arco temporale. Addirittura questa relazione può continuare anche dopo la morte del

paziente, attraverso il rapporto che prosegue con la famiglia: spesso infatti egli è il

medico curante anche degli altri componenti del nucleo familiare.

Nella pratica di ogni medico di medicina generale sono numerosissimi gli esempi nei

quali la famiglia svolge un ruolo preponderante, essendo profondamente coinvolta

nella cura del paziente e partecipando con estrema intensità emotiva alla sofferenza di

un proprio componente infermo. Pensiamo per esempio ad una patologia grave come

può essere la malattia oncologica: la diagnosi di cancro rappresenta un evento

drammatico non solo per l’ammalato, ma anche per la sua famiglia, che a volte

attraversa psicologicamente le stesse fasi dell’infermo (shock, negazione, disperazione,

collera, rielaborazione, accettazione). Oppure pensiamo ai soggetti affetti da patologie

psichiatriche: la famiglia spesso vive sentimenti di smarrimento, di vergogna, di

abbandono chiudendosi nella solitudine e finendo essa stessa per diventare parte della

patologia.

Consideriamo le difficoltà sia psicologiche sia pratiche e gestionali affrontate

quotidianamente dalle famiglie che hanno al loro interno soggetti affetti da demenza o

che assistono un disabile anziano, coi figli che si dividono tra le irrinunciabili attività

lavorative e sociali e la pure irrinunciabile cura quotidiana dell’infermo. Oppure

all’angoscia delle famiglie con figli disabili, quando le figure genitoriali invecchiano.

In questo caso, oltre al dramma del confronto quotidiano con la dura realtà della

malattia, queste famiglie vivono anche quello dello spettro del futuro, il cosiddetto

“dopo di noi”, quando il loro figlio non sarà più accudito e protetto da loro, ma sarà

affidato all’indifferenza della società.

In tutte queste situazioni il medico di medicina generale è chiamato ad operare a fianco

del paziente e della famiglia con il proprio bagaglio culturale, le proprie competenze

ed esperienza per fornire le cure mediche necessarie e il supporto psicologico e

attraverso l’attività prescrittiva e certificativa, mettere il paziente e la sua famiglia in

grado di ottenere aiuti economici (inserimento nelle liste protette per l’assunzione,

pensione di invalidità, accompagnamento, nomina dell’amministratore di sostegno),

disporre l’assistenza domiciliare specialistica e infermieristica (ADI) ed entrare in

possesso dei presidi e degli ausili necessari per la sua disabilità. Per guidare i familiari

lungo le complicate strade della burocrazia che porta all’ottenimento dei diritti del

malato il medico di medicina generale deve interfacciarsi con le varie figure sanitarie e

non che costituiscono la rete che si sviluppa complessa attorno al malato e alla sua

famiglia.

Alla fine di queste brevi riflessioni vorrei ricordare le parole che il Beato Don Carlo

Gnocchi rivolse ai medici in un suo discorso del 1954 e che a mio avviso racchiudono

l’essenza della cura:

«Condividere la sofferenza è il primo passo terapeutico».

Lo specialista e la famiglia del malato

WÉààA VÄtâw|É ixÜâá|É Direttore S.C. di Oncologia

A.O. Ospedale di Circolo Busto Arsizio (Varese)

Il cancro è ancora oggi percepito come una malattia particolare, diversa da tutte le

altre e cioè:” la più tragica delle malattie ,intorno alla quale si associano significati

simbolici di stigma sociale., di sofferenza fisica e psichica e di morte ineluttabile.

Pertanto la diagnosi di tumore e le sue conseguenze possono avere un forte impatto

negativo sulla vita dei malati e delle loro famiglie, ben oltre la vasta gamma di sintomi

fisici sui quali generalmente si concentra l’attenzione di chi ha in cura i pazienti.

Oltre al disagio, alla paura e allo sgomento che segue la diagnosi, il 30% circa dei

pazienti è affetto da ansia clinicamente significativa e la prevalenza di depressione

varia da 20% a 35%. La presenza di questi disturbi può limitare notevolmente

l’individuo nelle sue attività, costituendo quindi anche un problema di natura sociale ed

economico. Inoltre, essi ostacolano la capacità di affrontare la malattia, e possono

ridurre la compliance terapeutica.

In questi momenti di sofferenza , di dolore , di difficoltà materiali è tutta la famiglia

del paziente che ne viene coinvolta.

Ha scritto Albero Scanni: “La diagnosi comporta una potente deflagrazione che

investe un ambiente sereno fino al giorno prima, che si vede attaccato, ridotto

all’impotenza e senza possibilità di appello. Il fantasma della morte , la paura di chi

resta solo ed abbandonato, il dover essere forti , consolatori e di aiuto al malato , l’ansia

di ricercare le soluzioni migliori, la scelta dei migliori specialisti, la necessità di non

commettere errori , il bisogno di confrontarsi, il dire o non dire ad amici e parenti la

nuova realtà, il tenere all’oscuro qualcuno dei propri cari, lo sforzo di mantenere una

normalità della vita sono solo alcune delle problematiche che insorgono all’interno

della famiglia.”

E’ stato calcolato che i familiari assolvono a più del 50% delle necessità di cura dei

pazienti di tumore (caregivers), pur essendo spesso poco preparati ed addestrati per

questo compito.

In uno studio effettuato dall’associazione Attivecomeprima insieme con il centro

CERGAS dell’Università Bocconi sulla percezione della qualità della vita degli

ammalati di cancro e sulla soluzione dei sintomi correlati alla malattia e alla cura è

risultato che i pazienti comunicano i loro sintomi nella maggior parte dei casi proprio

ai loro familiari invece che agli operatori sanitari, cioè a chi è meno preparato per

risolverli. (figura 1)

I RISULTATI - I destinatari della comunicazione

(segue)

% sempre e qualche volta

45,1

45,2

38,8

31,1

36

24,8

71,5

28,8

57,1

42,8

27,1

38,333,6

63,3

17,7

55,6

36,6

27,1

36,6

24,6

54,6

24,1

48,8

19,2

27,7

22,6

11,8

71,8

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

Mi succede

Ne parlo

Ne parlo con MMG

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fermiere

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miglia

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Ne parlo con la fa

miglia

Fatigue Nausea Dolore Depressione

Qualche voltaSempre

Ciò comporta molto spesso un impatto negativo sulla salute sia fisica che psichica

dei caregivers., e questo a sua volta ha un impatto negativo nella gestione delle cure

del familiare ammalato.. L’intervento sulla famiglia di un congiunto affetto da

patologia oncologica è da considerarsi fondamentale, date le ripercussioni della

malattia sull’equilibrio di tutto il sistema familiare (“malattia di famiglia”) e si basa

sulle caratteristiche della famiglia (composizione del nucleo familiare, età dei suoi

membri, modalità di funzionamento, capacità di comunicazione e di gestione dello

stress). Ciò ha valore sia quando gli interventi sono declinati nella fase di cura del

paziente, sia nella fase del lutto.

In considerazione della rilevanza del tema, l’AIOM, in collaborazione con la Società

Italiana di Psiconcologia (SIPO), ha realizzato le prime linee guida italiane per il

miglioramento dello stato psicosociale dei pazienti con tumore, progettate per fornire

ai professionisti dell’area oncologica le informazioni più recenti sulle implicazioni

psicologiche e psicopatologiche delle persone ammalate di tumore ma anche dei loro

familiari, e sulle modalità di gestione di tali implicazioni. (tabella 1)

Linea Guida

Cure Psicosociali per i Pazienti Adulti con Cancro.

Versione 01/2012

• Q1: Fornire informazioni ai pazienti, familiari/caregiver

• Q2: Comunicare in maniera efficace

• Q3: Rilevare e rispondere al disagio psicologico

• Q4: Rilevare e rispondere ai bisogni sociali

• Q5: Eliminare le emergenti disparità nell’accesso alle cure

• Q6: Cure di fine vita

• Q7: Cure di supporto per sopravvissuti al cancro

• Q8: Integrare l’assistenza psicosociale nei servizi oncologici

INDICE DEI CONTENUTI

L’informazione

Il perseguire un obiettivo terapeutico è il punto centrale in medicina, ma non sempre

è sufficientemente chiaro il grado di informazione del paziente e quindi il suo

coinvolgimento nella definizione dello stesso. Il raggiungimento di una realtà comune

e condivisa tra medico e paziente è uno degli aspetti centrali, si tratta di trovare un

punto d'incontro fra l'esperienza soggettiva di sofferenza del paziente e la visione

medico-scientifica oggettiva del medico

Ma perché ciò avvenga è necessario fornire informazioni ai pazienti in tutte le fasi della

malattia; l’informazione corretta ai pazienti è uno dei più importanti elementi della

supportive care in oncologia. . L’informazione ha lo scopo di prepararli al loro percorso

di cura, favorire l’adesione terapeutica, aiutarli ad adeguarsi alla nuova situazione e,

ove possibile, facilitare la guarigione. Fornire informazioni ed educare i pazienti non è

un compito semplice, soprattutto in presenza di patologie devastanti come il tumore.

L’equipe che ha in cura il paziente deve saper fornire informazioni congrue alle

necessità del singolo soggetto, alla sua cultura di riferimento ed alle credenze,

adattandole alle specifiche esigenze che malato e familiari/caregiver manifestano,

assicurandosi che siano state comprese ed accettate. La potenziale utilità dell’

informazione e supporto non è limitata ai pazienti; la letteratura sottolinea infatti

quanto sia importante soddisfare i bisogni psicologici, pratici e informativi dei

familiari/caregiver, in quanto svolgono un ruolo essenziale nel percorso di

adattamento del paziente alla malattia, assumendosi spesso la responsabilità di aiutarlo

a comprendere le informazioni ricevute.

Anche i caregivers se non supportati da un’adeguata politica di informazione e di

sostegno nei loro bisogni, anche sociali, possono in egual modo subire ‘danni

collaterali’ conseguenti al percorso di diagnosi e cura del proprio familiare,

condizionando negativamente l’esito della cura; si innesca così un vero e proprio

circolo vizioso in cui i distress dei pazienti e o dei caregivers se non adeguatamente

trattati, si condizionano negativamente a vicenda.

La comunicazione

La consapevolezza del proprio stato di malattia è un'entità difficilmente definibile e non

può essere ricondotta unicamente all'informazione ricevuta dal malato. Essa è infatti il

risultato di un'elaborazione personale delle informazioni e comunicazioni ricevute da

numerose persone, soprattutto i familiari e delle condizioni cognitive ed emotive del

soggetto stesso.

Spesso non viene fatta giusta distinzione tra il significato della parola informazione e

quello della parola comunicazione .

Mentre l'informazione può essere vera o falsa, completa o parziale comprensibile

oppure no la comunicazione può essere intesa come un insieme di messaggi che

vengono scambiati tra due o più persone. La comunicazione della diagnosi non va

pertanto ridotta alla sola trasmissione di informazioni fornite verbalmente.

Se nella maggioranza dei casi il malato chiede di conoscere la diagnosi, la stragrande

maggioranza dei familiari vuole che questa venga accuratamente occultata.

Se l'esistenza della malattia e le sue possibilità di guarigione possono essere dal malato

in parte negate , non è così per il familiare. L'angoscia per la futura morte del proprio

caro molto spesso viene mitigata attraverso il meccanismo psichico dello spostamento.

Utilizzando lo spostamento il profondo senso di impotenza del familiare viene

sostituito da un comportamento iperattivo oppure da quello denominato congiura del

silenzio.

L'iperattività può manifestarsi attraverso tentativi disperati di trovare il medico che

possa scoprire un clamoroso errore diagnostico commesso in precedenza ,oppure possa

miracolosamente guarire la malattia.

Cominciano così i viaggi della speranza, viaggi che pur mantenendo viva la speranza di

guarigione, spesso contribuiscono ad aumentare le sofferenze fisiche del malato.

La seconda modalità di spostamento attuata dai familiari consiste nel cercare di creare

una campana protettiva tale da impedire che il malato possa capire ciò di cui è affetto.

I medici vengono preavvisati della non consapevolezza del malato circa il suo stato di

salute, vengono fatti alterare i referti ed in casa si parla di tutto meno che della cosa

più importante. In questo modo la relazione del malato con i suoi familiari si modifica

radicalmente. Il tema dominante, quello della possibile morte e della conseguente

separazione,viene apparentemente estromesso. Non si sa più cosa dire perché tutto

quello che è essenziale viene taciuto e tutto quello che non è essenziale viene detto.

Il tentativo del familiare di nascondere la verità è però spesso fallimentare.

Di solito è l'ammalato stesso che da innumerevoli piccoli segnali provenienti

dall'ambiente che lo circonda e dalla comparsa di importanti sintomi fisici capisce di

avere qualcosa di diverso rispetto a ciò che gli è stato detto ed accetta la congiura del

silenzio venutasi a creare intorno a lui. Tutto questo porta frequentemente ad un

restringimento dei momenti comunicativi all'interno della famiglia causando

l'instaurarsi del gioco pirandelliano del: io lo so,tu lo sai; io so che tu lo sai; io so che tu

sai che io so...

Questa richiesta, molto frequente, di evitare che il loro congiunto sia in nessun modo

messo al corrente della diagnosi deve essere compreso dal medico come una modalità

psicologica mediante la quale il familiare fa fronte alla sua angoscia di morte.

L'insistenza del familiare non deve comunque interferire sulla possibilità che tra

medico e paziente si possa costituire una chiara ed aperta comunicazione . Il medico

dovrebbe in queste situazioni aiutare i familiari a capire quali potrebbero essere i

vantaggi di un rapporto che si basa sulla chiarezza e sulla verità e quali al contrario

potrebbero essere gli svantaggi di un rapporto insincero per pietà.

Come si può vedere già da questi accenni il problema di informare, comunicare, entrare

in relazione con l'ammalato di cancro è un compito complesso e difficile, e comporta

sempre il farsi carico di una corretta informazione e comunicazione anche dei familiari.

Bisogni psicosociali

La malattia tumorale è spesso associata all’insorgenza di bisogni di diversa natura, di

tipo organizzativo, di supporto spirituale, economico, psicologico, ecc., che complicano

notevolmente la situazione del malato e della sua famiglia. E’pertanto, molto

importante sviluppare e implementare un approccio integrato tra bisogni strettamente

clinico/tecnico e bisogni in area psico-sociale. L’intervento psiconcologico si è rivelato

efficace nel ridurre il distress nel paziente e migliorarne la qualità di vita, occupando

un ruolo centrale durante la fase di diagnosi ed inquadramento anamnestico e clinico

dei problemi emozionali del paziente.

La gestione assistenziale del di stress e la presa in carico psicologica devono proseguire

nel contesto domiciliare e/o di hospice. In tale contesto diviene indispensabile anche la

presa in carico dei familiari poiché la risposta al distress, oltre ad essere influenzata

dagli aspetti clinici, dipende anche dal contesto familiare.

Diversi studi hanno infatti evidenziato come i coniugi ed i figli risultano vulnerabili ed

esposti a rischio, pertanto diventa imprescindibile supportarli affinché a loro volta,

possano sostenere il parente. La psicoterapia familiare, sebbene riconosciuta

clinicamente utile nel migliorare la comunicazione, la coesione e la risoluzione di

conflitti nel sistema familiare, inclusi i bisogni dei figli minori, non ha sufficienti

evidenze.

Gli aspetti psicosociali comunque sono influenzati da molti fattori di carattere

individuale o legati alla società e comprendono una molteplicità di problemi che vanno

molto al di là dello stress psicologico e all’ansia.

La sanità italiana è oggi tutto sommato di buon livello (sia pure con differenze tra le

regioni), ma il sociale è del tutto inadeguato. In generale, i pazienti, e coloro che li

accompagnano nel percorso di malattia, tendono a modellare le loro esperienze e stati

psicosociali. Il successo nel fare questo è positivamente influenzato dal loro accesso alle

risorse, in particolare: informazioni, cure mediche, sostegno emotivo nonché assistenza

pratica. In questo percorso particolare attenzione deve essere rivolta ai gruppi più

svantaggiati della popolazione quali ad esempio persone con livelli socio-economici più

bassi, anziani o persone sole nei quali i bisogni, soprattutto quelli pratici e legati

all’informazione, possono accentuarsi e portare ad un decadimento della qualità della

vita e della cura del soggetto. Va infine sottolineata l’importanza che questo tema sia

affrontato in modo multidisciplinare, investendo a tutti gli effetti coloro che sono

coinvolti nel percorso di cura.

Tra questi, non solo pazienti e loro rappresentanze, ma anche la cittadinanza in

generale, perché questi aspetti devono essere fonte di un dibattito che deve coinvolgere

l’intera comunità. E’ necessario attuare trial randomizzati di buona qualità che

dimostrino l’efficacia, in termini di out come clinici, dell’uso di servizi strutturati che

affrontano i problemi psicosociali dei pazienti e dei loro caregivers e di interventi di

carattere umanitario, come quelli forniti dalle associazioni di pazienti che hanno negli

anni sviluppato una vasta gamma di attività di sostegno psicosociale, a volte disponibili

senza alcun costo per i pazienti.

Le cure di fine vita

Afferma Freud: “ Qual è il nostro atteggiamento nei confronti della morte? Noi ci comportiamo

in generale come se volessimo eliminare la morte dalla vita. La morte si fa sentire a noi

occasionalmente ed allora siamo profondamente scossi e come strappati dalla nostra sicurezza

da qualcosa di straordinario.

Ma soprattutto siamo colti di sorpresa se la morte colpisce uno dei nostri conoscenti o parenti.

Nessuno potrebbe arguire dal nostro comportamento che riconosciamo la morte come una

necessità , che abbiamo la sicura convinzione che ognuno di noi è debitore alla natura della

propria morte. Al contrario , noi troviamo una spiegazione che derubrica questa necessità a

casualità. Si ammette certamente che alla fine si deve morire , ma questo alla fin fine lo

intendiamo come situato in lontananze imprevedibili.

Noi non crediamo in fondo alla nostra propria morte”.

Il cancro è una delle principali cause di morte in tutto il mondo con stime in proiezione

al 2015 di 9 milioni di decessi e a 13 milioni nel 2030 con indicazioni che circa il 60%

delle persone colpite dal cancro morirà a causa della propria malattia [WHO 2012].

In Italia, nel 2010, i casi stimati di mortalità per tutti i tipi di tumore maligno sono

stati circa 127.000 secondo il rilevamento dell’Istituto Superiore di Sanità [sito].

Nonostante ciò vi è un’evidente discrepanza tra le risorse destinate alla prevenzione e

cura del cancro e le risorse indirizzate alle cure di fine vita e scarsa attenzione al fatto

che il percorso assistenziale da parte dei familiari verso il proprio congiunto ammalato

e il lutto moltiplicano l’entità dei bisogni cui dare risposte all’interno dei programmi di

“cura di fine-vita”.

La ESMO Taskforce on Supportive and Palliative Care [Cherny et al, 2003] definisce

le cure di fine-vita come gli interventi prestati quando la morte è imminente,

identificando e dando risposte ai bisogni sia del paziente sia della famiglia nell'ultima

fase della vita e nel lutto. Le “cure di fine-vita” si inseriscono nell’ambito delle cure

palliative, finalizzate, in accordo con la WHO [WHO, 2002], a migliorare la qualità

della vita dei pazienti e delle loro famiglie attraverso la prevenzione e il trattamento

del dolore e di altri problemi fisici, psicosociali e spirituali. Un aspetto importante è che

l’offerta di cure non termina con la morte della persona ammalata ma che il processo

del lutto della famiglia è parte delle cure di fine vita nella dimensione anticipatoria

della perdita e successivamente nel lutto.

Una percentuale significativa delle persone in fase avanzata di malattia seguite in

assistenza palliativa presenta disturbi psichici, in particolare disturbi d’ansia (15% -

28%), depressivi (9% - 26%), delirium (52%- 88%), nonché di distress esistenziale /

dolore spirituale (35-70%). Tutto questo comporta uno stato di sofferenza delle

famiglie, nella fase antecedente la perdita con dati indicativi che disturbi psicologici del

paziente sono predittori significativi di disagio familiare Per questo la valutazione del

disagio è estremamente importante. Nella fase del lutto ugualmente è necessaria

grande attenzione per le possibili complicazioni del percorso della elaborazione della

perdita . Quadri di sofferenza psicologica sono infatti presenti nel 15-30% dei familiari

in lutto, in particolare disturbi d’ansia, depressivi, da stress post-traumatico. Sono

disponibili linee guida per la valutazione del lutto complicato.

Le cure di “fine-vita”, ovunque siano erogate (ospedale, domicilio, hospice) implicano

attenzione ai bisogni dell’unità paziente-famiglia, finalizzata all’accompagnamento del

paziente e dei familiari verso una “buona morte”. Questa è definita, nella prospettiva

dei pazienti e degli stessi familiari, come caratterizzata da un efficace controllo del

dolore e dei sintomi fisici, un chiaro processo decisionale, la preparazione alla morte, il

raggiungimento di un senso di completamento della propria vita (ad es. revisione del

percorso esistenziale, risolvere conflitti, stare con amici e cari), poter percepire un

senso a quanto si è fatto (eredità nel senso dei valori lasciati), affermazione di sé come

persona in senso globale Numerosi studi dimostrano che l’enorme carico gestionale e

di stress cui i familiari devono far fronte, anche a causa della mancanza di una loro

specifica preparazione, non è in genere preso in considerazione dal team di cura.

E’ fondamentale la costituzione di una rete di sostegno/intervento, i cui nodi sono

rappresentati dalla famiglia, dai servizi istituzionali (équipe di cure palliative inclusiva

della componente assistenziale psiconcologica), dal contesto di rete sociale, tra cui le

associazioni di volontariato. Poiché la famiglia si pone sia come “soggetto” di cura

(data la funzione di supporto primario per il proprio congiunto ammalato), sia come

“oggetto” di cura (data la necessità che i bisogni della famiglia siano ascoltati e

soddisfatti), la conoscenza delle modalità di risposta emotiva e delle capacità di

adattamento della famiglia rappresenta in questa fase un problema assistenziale

prioritario. Tali risposte, spesso inquadrate nel concetto di lutto anticipatorio

(variamente definito anche come perdita anticipatoria, risposta emozionale alla fase

terminale, lutto preparatorio), necessitano di una comprensione finalizzata a

inquadrare e decodificare i comportamenti che i familiari possono mettere in atto verso

il congiunto ammalato, verso altri membri della famiglia e verso lo staff.

La creazione di un contesto che favorisca la comunicazione, la capacità di dare un

senso di presenza (essere presente per l’altro), l’ascolto (ascolto e risposta ai bisogni),

l’empatia (dialogo compartecipativo, non identificatorio e non distaccato) sono le

variabili da tenere in considerazione, per la famiglia, nelle cure di fine-vita .

La sede di morte rappresenta un problema assistenziale da tenere in considerazione: la

morte a domicilio, rispetto a quella in ospedale o terapie intensive, è protettiva sullo

sviluppo di disturbi psichici durante la fase del lutto dei familiari .

Bibliografia:

1) Alberto Scanni : Sole 24 ore , 30 aprile 2013 pag12-13

2) AIOM: linee guida della oncologia italiana.: assistenza psicosociale dei malati oncologici.

Pag 1479-1532, 2012

3) L.Northouse et al : Psychosocial Care for Family Caregivers of Patients with Cancer.

JCO,Vol 30, issue 11, pag 1227-1234, 10 april 2012

4) S.Freud: “Noi e la morte” Editore Palomar di Alternative, Collana Margini, 1/!/1993

La patologia cronica E la non autosufficienza dell’anziano

in famiglia

cÜÉyA VtÜÄÉ ixÜztÇ| Geriatra – Università degli Studi di Milano

Gran parte dell’attività del medico di medicina generale viene dedicata agli anziani.

Gli anziani, che a metà del secolo scorso erano l’8 per cento della popolazione e che ora

sono il 20 per cento, presentano caratteristiche fisiopatologiche che condizionano il

rapporto medico – paziente.

L’80 per cento di essi sono portatori di almeno una malattia cronica e il 18 per cento

sono totalmente o parzialmente non autosufficienti.

I determinanti della salute degli anziani sono rappresentati non solo dalla condizione

fisica ma anche da fattori contestuali di tipo personale e ambientale.

C’è una specificità dell’approccio medico all’anziano che mira non solo alla guarigione

della singola malattia, secondo le linee guida della medicina dell’evidenza, ma anche

alla soluzione, tramite procedure proprie della medicina della complessità, di problemi

legati alla comorbilità, al vissuto personale e all’ambito familiare.

La conoscenza della “normalità” biologica e l’uso appropriato della polifarmacoterapia

nella cura dell’anziano sono aspetti che entrano a far parte del bagaglio culturale del

“nuovo” medico.

Ci sono poi le sindromi geriatriche (i disturbi cognitivi, il delirio, la caduta,

l’incontinenza, i disturbi dell’equilibrio, la malnutrizione), gestite all’interno della

famiglia, che richiedono una visione prospettica del decorso clinico e una

programmazione della cura a lungo termine con il coinvolgimento di più operatori.

Oggi la medicina, prevalentemente ospedalocentrica, lavora per silos. L’anziano ha

bisogno invece di una cura continuativa, sul territorio, integrata, cioè sociosanitaria, e

coordinata fra i diversi settori d’intervento.

Come un quartiere sostiene un malato e la sua famiglia

\ÇzA ftÄätàÉÜx VÜtÑtÇétÇÉ

Presidente del Coordinamento Comitati Milanesi*

Il mio compito è di ragionare sul rapporto tra la famiglia del malato e il quartiere

in cui vive, per sottolineare come, in termini molto pratici, possa migliorare sia il

rapporto che il Quartiere.

In generale, la famiglia del malato punta – consciamente o meno – ad alzare un muro

di silenzio, di riservatezza rispetto ai vicini di casa.

Quando una malattia è seria, si pensa spesso anche “a cosa se ne dice in giro” – “ a non

disturbare”.

Quando la malattia viene vissuta in famiglia quasi come un fatto di cui vergognarsi, la

risposta a quel complicatissimo e aggrovigliato mondo di esigenze che agitano il

malato viene affidata “solo” al rapporto professionale delle strutture sanitarie

appositamente attrezzate allo scopo.

E quando la famiglia del malato cerca – per i motivi più vari - di ridurre al minimo

indispensabile il coinvolgimento degli altri abitanti del quartiere in cui vive, si perdono

risultati molto importanti.

Una breve premessa - fermo restando che il rapporto che intercorre tra il malato, la

sua famiglia, il suo medico, dipenderà sempre in modo prevalente dal carattere e

dalla disponibilità di ognuno dei soggetti coinvolti.

Il rapporto tra il malato e il suo medico è un rapporto diretto e riservato, che

utilmente cerca di evitare tutte le interferenze esterne (a cominciare da quelle derivanti

dai consigli di parenti e amici, sempre attivi e propositivi nel vastissimo campo delle

cure necessarie per recuperare la salute), ma quando il medico coinvolge la famiglia

del malato – senza la mediazione del malato - si trova nelle condizioni di comprendere

meglio le reali esigenze del malato (e della famiglia).

Questi stessi rapporti dipendono però molto anche dal contesto sociale che è

presente in quel territorio, un contesto sociale che negli ultimi anni è dovunque in

continua rapida mutazione.

Dobbiamo chiederci allora non solo “come un quartiere può essere messo in condizioni

di sostenere un malato e la sua famiglia”; ma prima ancora “perché” – quali siano i

risultati molto positivi che si potrebbero ottenere per tutti, non solo per il malato (che

ovviamente rimane il soggetto centrale).

Si tratta quindi di riscoprire, sostenere, estendere, opportunità relativamente nuove in

un contesto troppe volte alienante e spersonalizzato di una grande città.

A Milano si tratta di ridare spazio ai comportamenti che invece erano ben presenti e

attivi in quei contesti sociali che molti considerano “arretrati”, dove l’aiuto reciproco

era un fatto abituale, naturale, forse anche perché inserito in un quadro di doverosa e

conveniente mutua solidarietà.

La malattia, specie quando è improvvisa, grave, e problematica è una delle poche

occasioni - arriverei persino a dire “l’occasione migliore”, dando per scontato di non

essere frainteso - per costruire e rafforzare quei rapporti interpersonali che

costituiscono, di fatto, le fondamenta sulle quali poggia e cresce una Comunità (o

meglio “sulle quali potrebbe poggiare e crescere una Comunità”).

Ne parlo anche per esperienza personale, che in questo caso ritengo facilmente

generalizzabile.

Risultati inaspettati e generalmente molto positivi, si possono ottenere quando la

famiglia del malato cerca, anzi sollecita, nel quartiere in cui vive, le risposte alle più

semplici ma diversificate esigenze del malato.

Già le tecnologie di cui facilmente disponiamo, possono rendere tutto molto più facile.

Con un semplice SMS multiplo molti “potenziali collaboratori” possono essere subito

informati di una emergenza che preoccupa la famiglia del malato.

Rispondendo con un semplice SMS, un “collaboratore” può dare conferma della propria

disponibilità e risolvere quella che non è più un’emergenza.

Si tratta di investire in volontà (merce rarissima e deperibile) – prima di tutto nella

disponibilità della famiglia di muoversi con il consenso del malato – anche superando le

sue iniziali ritrosie.

Si tratta di investire in tempo da dedicare (merce sprecata solo da chi ne è più ricco),

con risultati molto significativi per tutti, da diversi punti di vista.

Il malato non deve essere affidato solo alle cure dei medici, degli infermieri, degli

operatori specializzati che possono accompagnare il malato con l’ambulanza all’interno

delle strutture sanitarie preposte allo scopo.

Senza porsi direttamente l’obiettivo di ridurre la spesa pubblica, ma invece quello di

ampliare i servizi alle persone che ne hanno più bisogno, inserire meglio il malato

nella sua Comunità permette anche di costituire una prima base solida alla quale

poter unire le attività più specialistiche, ovviamente insostituibili.

Tutto ciò non sostituisce, ma integra e amplia la benemerita ed indispensabile attività

del mondo del volontariato che da sempre è vicino al malato negli ospedali, nel

trasporto, nell’assistenza domiciliare.

Che un malato venga aiutato da un volontario messo a disposizione da

un’organizzazione o da un amico/conoscente vicino di casa, in pratica il risultato è

(quasi) lo stesso, ma nel primo caso a ben vedere emerge una triste considerazione –

“sei ancora più solo di quanto pensassi!”

Difficile, ma anche sostanzialmente inutile quantificare con precisione i risultati, perché

questa attività – insieme con tante altre da ricostruire - non è marginale, ma

semplicemente “vitale”.

Siamo in un momento difficile da diversi punti di vista. La convivenza civile è messa

continuamente a dura prova; nell’indifferenza generale, molti la denigrano senza sapere

che stanno tagliando il ramo su cui sono seduti, pochi lavorano per difenderla e

ricostruirla su basi più solide.

Chi opera nei Quartieri è disponibile ad approfondire il tema di oggi, anche per capirlo

meglio e per trovare il modo operativo di collaborare veramente nell’interesse di tutti -

nostro e dei nostri figli.

(*) Il Coordinamento Comitati Milanesi si è costituito quasi venti anni fa per collegare e dare più forza all’attività di

denuncia e proposta di molti comitati sorti spontaneamente in Città. Attualmente raggruppa una cinquantina di comitati.

Tra i temi centrali delle iniziative del CCM ci sono i beni primari di una comunità: l’attenzione al territorio e all’ambiente, la

sicurezza, il rispetto reciproco e la promozione di valori civici.

APPUNTI

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