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Lorenzo Peri Là dove non esiste paura Percorsi e forme del “pensare in musica” nella poesia di Giorgio Caproni quaderni aldo palazzeschi 34

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Percorsi e forme del “pensare in musica” nella poesia di Giorgio Caproni - di Lorenzo Peri

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Lorenzo Peri

Là dove non esiste paura Percorsi e forme del “pensare in musica”

nella poesia di Giorgio Caproni

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quaderni aldo palazzeschi34

34E 16,00

Lorenzo Perisi è laureato in Filologia Moderna all’Università di Firenze e diplomato in Pianoforte al Conservatorio di Siena. Dal 2012 è dottorando in Filologia Linguistica e Letteratura presso l’Università di Pisa dove sta preparando una tesi sul “racconto in versi” nel secondo Novecento italiano. Suoi interventi su Caproni e Sereni sono apparsi su «Paragone», «Quaderni del ’900» e «Studi medievali e moderni».

Paul Valéry ha scritto: «un musicista può ripetere la sua idea cambiando il modo, il tono, il ritmo, l’anda-tura – uno scrittore?». Nel tentativo di stabilire un sal-do discrimine tra “musicalità” e “musicalization of lite-rature”, questo libro analizza l’interferenza della scrit-tura musicale nella versificazione e nella progettazione delle raccolte poetiche di Giorgio Caproni. Se gli studi critici avevano finora evidenziato la disseminazione nell’opera in versi di tessere lessicali variamente ascri-vibili a una sfera “musicale”, ancora poca attenzione è stata posta sulla verifica della relazione profonda, ossia a livello tecnico, tra le raccolte del secondo Caproni e il modello (o i modelli) della scrittura musicale. Per la prima volta, Lorenzo Peri, avvalendosi di una solida preparazione umanistica e di sicure competenze musicologiche, ha tracciato i percorsi e le forme della ricezione del linguaggio musicale a partire dalla con-vinzione che sia necessario coinvolgere nell’indagine non solo le occorrenze esplicite, ma anche le dinami-che sotterranee appena percepibili nella filigrana dei testi. Alternando analisi filologica e riflessione teorica, questa monografia riordina le forme linguistiche ri-conducibili alla “fenomenologia dell’estroversione” (il capitolo sulla storia semantica del tremore, la tematiz-zazione della musica in Albàro) nell’orizzonte di ciò che si qualifica come contenuto manifesto; all’intro-duzione del polo oppositivo è affidata invece l’indivi-duazione del contenuto latente, volto a dare conto di quel reticolo di relazioni soggiacenti (il dialogo con le partiture di Schubert, Verdi, Beethoven) che rappre-senta, nel caso di Caproni, il campo privilegiato per lo studio dell’incidenza della musica nella poesia.

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centro di studi «aldo palazzeschi»Università degli Studi di Firenze

Dipartimento di Lettere e Filosofia

quaderni aldo palazzeschinuova serie

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La collana ospita ricerche di area italianisticacompiute da allievi dell’Università di Firenze,

giudicate meritevoli di pubblicazionedal Consiglio Direttivo del Centro di Studi «Aldo Palazzeschi».

L’Ateneo fiorentino intende in questo modo onorare la memoriae la patria sollecitudine di Aldo Palazzeschi, che l’ha costituita

erede del suo patrimonio ed esecutrice della sua volontà.

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Lorenzo Peri

Là dove non esiste paura

Percorsi e forme del “pensare in musica” nella poesia di Giorgio Caproni

Editrice FiorentinaSocietà

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© 2014 Società Editrice Fiorentinavia Aretina, 298 - 50136 Firenze

tel. 055 [email protected]

isbn: 978-88-6032-298-2issn: 1721-8543

Proprietà letteraria riservataRiproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata

In copertina: foto di Ilaria Iadevaia

(per gentile concessione)

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Appartenendo ad un paesedove tutti i problemi,dal minimo al più importantesi risolvono con la musica,musica sempre facile e leggera,è ormai un giradischi la mia testanella qualele infinite vicendedella lunga esistenza,da quelle tragichea quelle che si prendono in burletta,vengono ricordate col motivo di una canzone,dal ritornello di una canzonetta,tanto che è divenuta musica anche storia.

Aldo Palazzeschi,Un’esistenza musicale

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indice

introduzione 11

nota 21

il contenuto manifesto il tremore. diacronie della ricorsività 25 1. Campi tipologici e motivi molecolari 25 2. Il “tremore” tra nevrosi e leitmotiv 40 3. La mano trema 68 4. Risvolti metafisici 74 5. Il tremore, o del suonare 90

«albàro» mon amour. tema con variazioni 105 1. Tema. Forme della temporalità e grammatica del pensiero

in un discorso amoroso 110 2. Variazioni. Il mare come materiale 128

il contenuto latente note in clausola. la metrica «solfeggiata»

(all’ombra di schubert) 139

avvertire la morte. «su un’eco (stravolta) della traviata» 161

pensare in musica.l’op. 132 di beethoven e «il conte di kevenhüller» 183 1. Il Quartetto in la minore op. 132 di L.V. Beethoven. Analisi 189 2. Il terzo stile caproniano 199

Indice dei nomi 241

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introduzione

Pareva dovesse giocarsi nell’esclusione, nella sola eccezione dei pochi rispetto ai più, la riconoscibilità piena della musica di Beethoven tra i suoi contemporanei. Pareva, secondo le parole di Thomas Mann affidate a Adrian Leverkühn (nel Doctor Faustus), che nelle ultimis-sime composizioni «l’arte di Beethoven ave[sse] superato se stessa» come se «dalle regioni abitabili e tradizionali si [fosse] sollevata, davanti agli occhi sbigottiti degli uomini, nelle sfere della pura per-sonalità – a un io dolorosamente isolato nell’assoluto, escluso anche, causa la sordità, dal mondo sensibile: sovrano solitario d’un regno spirituale dal quale erano partiti brividi oscuri persino ai più devoti del suo tempo, e nei cui terrificanti messaggi i contemporanei ave-vano saputo raccapezzarsi solo per istanti, solo per eccezione»1. Chissà se, poi, la ragione letteraria di Mann dovette servire a giusti-ficare almeno in parte la rottura della solidarietà tra dimensione estetica e dimensione sociale che segnò in quel tempo l’esclusione dai programmi delle sale da concerto della produzione tarda del compositore tedesco. Proprio in quel tempo che beethoveniano era stato apertamente almeno fino alle appassionate cadenze dell’opera 57. Ecco che improvvisamente lo stile di quelle ultime sonate per pianoforte (ma il medesimo discorso vale anche per gli ultimi quar-tetti per archi) all’apparenza sembra esser un non-stile: frammenta-rio, scostante ai più, a tratti persino trascurato nell’organicità dell’insieme, creatura sfuggente che trova ragion d’essere solo ai margini di un’individualità sopravvissuta a se stessa, già postuma

1 Thomas Mann, Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico, traduzione e introduzione di Ervirio Pocar, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1980, p. 74.

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pur essendo nei fatti ancora in vita. È stile giocato sullo stravolgimento della sintassi musicale, concepisce l’oggettivo attraverso il solo schermo del soggettivo per cui anche il convenzionale (i trilli, le fio-riture decorative, i codificati percorsi cadenzali per esempio) è decli-nato come metafora sfinita, come immagine di vuoto2. Beethoven senza Beethoven, si potrebbe dire, la sua musica ultima dà l’idea di non-finito, di qualcosa che traccia il suo segno solo nel negativo delle cose laddove non esiste riconciliazione, ma apre sulla dissocia-zione, sull’essere nel tempo come una maceria dopo la catastrofe (Adorno).

A riprova – sia pur collocandosi come dato naturalmente eccen-trico – di una persistenza della lezione nel moderno delle ultime partiture di Beethoven (sia detto per inciso, occorrerà attendere la musica “nuova” di Arnold Schönberg e degli epigoni della Scuola di Vienna – Alban Berg e Anton Webern – per comprendere appieno la lezione beethoveniana che si colloca nel cosiddetto “terzo stile”) non può non stupire quando, più di un secolo dopo, un poeta della modernità italiana dichiarò di avvertire l’incidenza profonda del Quartetto op. 132 nella fase di progettazione macrotestuale e nell’ela-borazione, perfino, verbale di quella che rimarrà la sua ultima silloge poetica pubblicata in vita. Fermo restando che l’ancoraggio al tema della ricezione dell’eredità beethoveniana non potrà confondere i piani di competenza specifica e il rispetto degli (ovvi) confini, misu-rare sul campo della scrittura in versi la durata della sopravvivenza del quartetto di Beethoven è operazione che, sulla base di una fre-quentazione certa di “lettura” palesata in più di un’occasione, tende a inscriversi in quella grammatica delle sotterranee incidenze e dei

2 Cfr. ibidem: «Invero nel periodo di mezzo Beethoven era stato molto più sogget-tivo, per non dire molto più “personale”, che non alla fine; era stato più attento ad assimilare nell’espressione personale tutti i convenzionalismi, tutte le formule, tutta la retorica che, come si sa, abbondano nella musica e a fonderli nel dinami-smo soggettivo. Nonostante l’originalità e persino la mostruosità del linguaggio formale, il rapporto fra l’ultimo Beethoven, quello, diciamo, delle cinque ultime sonate per pianoforte, e il mondo convenzionale era un rapporto ben diverso, molto più lasco e docile. Non tócca né modificata dalla soggettività, la convenzione affiora piuttosto spesso nelle ultime opere, in una nudità o, si dica pure, un’estin-zione, un abbandono dell’io che a sua volta esercita un’azione più paurosamente maestosa di ogni ardimento personale. In queste composizioni, diceva l’oratore, gli elementi soggettivi e la convinzione combinavano un nuovo rapporto, un rapporto caratterizzato dalla morte».

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modelli soggiacenti la cui delucidazione potrà costituire – sulla scorta di una stratificata letteratura critica (penso a quanto fatto da Anna Dolfi per Leopardi) – «una modalità forte di ermeneutica del testo»3. Quindi, pur nella varietà delle vicende formali e nella “natu-rale” diversità dei linguaggi in combinazione (quello musicale e quello poetico), la verifica della modulazione e dell’assorbimento delle strutture armoniche e compositive del Quartetto op. 132 di Beethoven nel Conte di Kevenhüller di Giorgio Caproni si attesta come episodio eminente dell’opera di rimotivazione segnica e semantica attiva, da una certa soglia in avanti, nell’opera in versi del poeta. Nondimeno, dato che il piano della incidenza musicale nella poesia di Caproni è territorio confermato da un nutrito quadro sag-gistico ormai da più di un trentennio, l’exemplum beethoveniano, sensibilmente “maggiore”, potrà illuminare le ragioni e i dati “minori” del contatto esplicito e/o implicito con la musica, e far emergere il criterio della metodologia critica adottata in questo libro. Tema, quello delle corrispondenze tra i due linguaggi, varia-mente declinato per eterogeneità dei motivi interni (si passa dalla semplice registrazione di “prestiti” lessicali alla sollecitazione di pro-cedure compositive tipicamente musicali) e che, per non neutrale presa di posizione di Caproni, entra fortemente in combinazione con le strutture genetiche della poesia.

Criterio fondamentale che sovrintende alla analisi comparatistica tra le due scritture è l’esistenza di una quota tecnica che dalle strut-ture musicali passa alle strutture poetiche. Ho quindi concentrato lo studio delle correlazioni laddove Caproni indicava un modello com-positivo di riferimento da poter coinvolgere nei meccanismi della versificazione. Un modello dichiarato che fosse dal poeta stesso esplicitamente coinvolto a partire da una precisa peculiarità tecnico-formale: lo “spezzato” ritmico del pizzicato dei violini nell’Adagio del Quintetto op. 163 di Franz Schubert, l’armonia cromatica della parte di Violetta nel duetto del iii atto della Traviata di Giuseppe Verdi, il “sistema della variazione continua” del Molto adagio del Quartetto per archi op. 132 di Ludwig van Beethoven. L’opportunità di tracciare dei confini sulla scorta di un criterio tipologico permette

3 Cfr. Anna Dolfi, Leopardi e il Novecento: sul leopardismo dei poeti, Firenze, Le Let-tere, 2009, p. 210.

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in primo luogo di fare distinzione nel nutrito quadro di testimoni musicali richiamati nel corso di tutta l’opera discernendo sugge-stione emotiva da correlazione strutturale, piano del sentimento e piano della forma. In secondo luogo, è possibile interrogarsi sulla natura delle somiglianze tra i testi interessati dall’incidenza della dimensione musicale e, conseguentemente, verificare, a fianco della logica delle inclusioni, le ragioni delle esclusioni. Quanto alle seconde, penso in particolare all’avvicinamento tra la poesia epo-nima del Congedo del viaggiatore cerimonioso e il Preludio n. 15 op. 28 di Frédéric Chopin così come emerge dalla corrispondenza episto-lare tra Caproni e Carlo Betocchi4, laddove non si fa menzione di alcuna specificità formale e non vi è traccia nella poesia di alcun rife-rimento esplicito o implicito che possa far pensare ad una reale com-promissione strutturale. Le possibili obiezioni potrebbero replicare sostenendo come anche nel caso di Su un’eco (stravolta) della Traviata mancasse da parte dell’autore la chiara indicazione di un piano tec-nico dell’arte musicale col quale misurare la scrittura in versi. Ma, se certo non si dava notizia di una determinata pratica compositiva da rintracciare nella testualità poetica (come accadrà nel caso di Bee-thoven e di Schubert), è pur vero che la trama di relazioni con la par-titura verdiana tendeva a emergere per profusione di indizi interni al testo stesso. Il contrappunto cromatico affidato alla voce di Violetta giace en abîme nella poesia di Caproni, e costituisce il testimone decisivo per comprendere le ragioni profonde dell’elaborazione ver-bale nella poesia.

Nel parallelo Preludio op. 28-Congedo del viaggiatore cerimonioso non abbiamo né l’una né l’altra indicazione. Nessun segno interno o esterno che possa autorizzare un tale collegamento, se non la noti-zia ricavabile dal carteggio con Betocchi. Sottoponendo allora a una verifica comparatistica i due testi, non paiono esserci elementi deci-sivi tali da giustificare una relazione esclusiva. Confrontiamoli rapi-damente: sul piano dell’architettura testuale, il brano di Chopin presenta una tripartizione della materia musicale in A-B-A1 e «quella

4 Cfr. Giorgio Caproni, Carlo Betocchi, Una poesia indimenticabile: lettere 1936-1986, a cura di Daniele Santero, prefazione di Giorgio Ficara, Lucca, M. Pacini Fazzi, 2007: «come hai fatto a indovinare», scrive Caproni a Betocchi «che ho scritto quei versetti rinsecchiti proprio mentre ascoltavo il 15 preludio di Chopin, che ho in disco, suonato da Géza Anda?» (p. 210).

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decisa bitematicità che […] sia per il rapporto tonale tra le sezioni (tonalità maggiore-parallela minore), sia nel carattere (lirica la prima sezione, drammatica la seconda), sia per alcune peculiarità della sezione B (la melodia del basso, la ripetitività degli elementi della mano destra)»5 lo avvicina allo schema tipico dei Notturni, in parti-colare l’op. 15 n. 1. Se non si riscontrano nel componimento poetico le caratteristiche strutturali appena viste in Chopin, e ancor meno sopravvive quel contrasto espressivo fortissimo tra le due parti del Preludio (in Caproni, si ha monotematicità e non una struttura cir-colare ma vettoriale, logico-narrativa), qualche probabile accosta-mento potrà esser rintracciato tra il piano melodico e il piano lessicale. Si veda l’inizio del brano di Chopin (fig. 1).

Benché a sostegno di un disegno melodico decisamente lirico (affidato alla mano destra), la mano sinistra introduce un elemento di drammaticità che diventa caratterizzante dell’intero brano data la sua ossessiva ripetizione: il la bemolle, indizio esplicito secondo molti del «carattere iconico dell’onomatopea della goccia d’acqua»6, è pre-sente dall’inizio alla fine del brano, se figura anche nella sezione cen-trale con l’enarmonico sol diesis. Ma fenomeni di oltranza come può

5 Gastone Belotti, Chopin, Torino, edt, 1984, p. 344.6 Pochi altri brani musicali mantengono diciture apocrife come quelli di Chopin.

Assieme ai titoli La rivoluzione (o Il rivoluzionario, a seconda del paese di edizione) e La caduta di Varsavia per lo studio op. 10 n. 12, anche il Preludio n. 15 op. 28 passa persino nei programmi da concerto con l’etichetta La goccia d’acqua. Ma per una non aderenza in Chopin agli aspetti della musica a programma, cfr. Gastone Belotti, Chopin, cit., p. 344.

Fig. 1

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essere l’installazione di una nota ribattuta (quasi un continuo gocciolare), nel testo di Caproni non sono presenti. Ipotesi senz’al-tro debole sarebbe quella di legare l’ostinato chopiniano alla pur ricca anafora di «congedo»7, parola tematica dell’intera poesia se inscritta nel titolo oltretutto eponimo della silloge. Debole non per ragioni di quantità (l’anafora, in effetti, si attesta con sette occor-renze ma soltanto nella parte finale della poesia) ma per ragioni di densità. Il lemma «congedo» aderisce al “tematico”, contribuisce al livello del “discorso” non al livello sintagmatico dove invece cade interamente il dominio del La bemolle, che appunto non ha alcuna incidenza nella dinamica “narrativa” del brano musicale. Dinamica che, in Chopin, è data dall’alternanza tonalità maggiore-tonalità minore e dalla ripresa in coda finale del tema iniziale in versione accorciata. La nota ribattuta rappresentando un elemento di conti-nuità e di unità tra le due sezioni mantiene un profitto in termini di densità decisamente esemplare. La parola “congedo” è tema, non ossatura fonica. I due fenomeni (quello musicale e quello poetico) non sono quindi comparabili in quanto rispondono a funzioni testuali differenti. Sotto questo profilo, un più corretto parallelo potrebbe essere stabilito con la verticale rimica che vede prevalere con deciso stacco la terminazione in -are. Ma se, stavolta, l’imposta-zione del confronto potrà dirsi opportuna, è il criterio quantitativo a marcare la non perfetta equivalenza: i versi con uscita in -are sono la maggioranza, ma non la totalità e devono gran parte della loro supremazia alle strofe centrali (vv. 29-60) dove si attestano in netta evidenza, lasciando alla prima parte e all’ultima della poesia un sostanziale equilibrio con le altre terminazioni foniche.

Venendo a mancare ogni accordo parallelistico sul piano struttu-rale tra Chopin e Caproni, non si autorizza quel rapporto stretto di incidenza, assorbimento di modelli musicali nella poesia, come si

7 Cfr. Antonio Girardi, Il congedo, in breve, in Prosa in versi. Da Pascoli a Giudici, Padova, Esedra, 2001, p. 219: «Colpo di scena dal Congedo di v. 68: il quale, ripe-tuto varie volte […] e per questo mettendo in sottordine le rime, come sue o insi-stenti scurisce il timbro di tutta la seconda parte, un po’ come accade nel Preludio n. 15 di Chopin, quando all’incanto tenero della melodia iniziale subentra un ince-dere cupo, funebre di note basse. E, si può anche aggiungere, col suo ritmo più stretto l’anafora di congedo tramuta la «lenta enfasi» iniziale in qualcosa di simile al Sostenuto che è l’indicazione di movimento del preludio chopiniano».

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verifica altrove. Pertanto fattori stilistici in qualche maniera avvicinabili (il caso, appunto, La bemolle – verticale rimica), che però vivono senza ancoraggio contestuale, vale a dire senza essere inquadrati all’interno di un dialogo serrato e profondo tra due scritture, restano episodi di una interpretazione impressionistica. Probabilmente il carattere di non dispiegata ma latente drammati-cità in un brano ad alto tasso melodico deve aver fornito il pretesto del collegamento alla poesia di Caproni, dove proprio la leggerezza del ductus, il travestimento ritmico di versi che sollecitano il registro del parlato e l’allontanamento di una poetica dell’enfasi (la « disperazione / calma, senza sgomento») contrasta volutamente con il carattere sottilmente cupo, e anche testamentario dei versi. Ma è un rilievo puramente arbitrario, non evidenziato da alcun rapporto causale tra i due. A fronte di una predilezione meramente estetico-sentimentale per i brani di Chopin, Schumann, e anche Mozart, la logica della profonda disposizione verso la musica trova un maggior profitto euristico nel circoscrivere l’indagine a opere richiamate per devozione tecnico-formale. Ricordando come il testimone musicale convocato non sempre e non automaticamente sia attivo nel piano delle correlazioni tra i due linguaggi. Capita a volte che i livelli di interazione siano multipli (linguistico, strutturale, ritmico, memo-riale, culturale…) e che del fenomeno musicale a rendersi appunto attivo sia un dispositivo di “secondo” grado. Come dimostra bene il caso del Franco cacciatore di Weber, laddove l’aggancio con l’omonima silloge poetica è dato non dall’organizzazione “musicale” del dato verbale (primo livello di corrispondenza) ma dalla «simulazione teatrale» della cornice letteraria (secondo livello). Non sarà forse un caso se dopo avere assunto la patina operistica per così dire dall’esterno, il successivo Conte di Kevenhüller, capace di imba-stire autonomamente una sovrastruttura melo drammatica che potesse valere come cornice di senso per i testi (l’aggancio con il Conte di Lussemburgo di Franz Lehár è soltanto orecchiato), potrà stabilire con il quartetto beethoveniano quel primo grado di coin-volgimento che tocca le strutture del linguaggio poetico.

Il criterio tipologico assunto seleziona quindi opere, modelli paralleli trascelti non senza quel «conforto delle confessioni sfuggite all’autore, dei programmi di lavoro, delle poetiche implicite o esplicite», di cui parla Vittorio Sereni per la lettura e la comprensione

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del testo poetico8. Relativamente a Schubert, Verdi e Beethoven Caproni stabilisce infatti un parallelo che emerge prima di tutto da una fonte autorizzata e, in secondo luogo, da una caratteristica immanente al testo poetico poiché investe, in concomitanza l’uno con l’altro, plurimi dispositivi della testualità: dalla sintassi alla elaborazione ritmica e fonica del verso, resistendo così al rapporto un po’ superficiale con la musicalità.

Riconoscere i margini, i riferimenti, gli intervalli più o meno stretti impone di affrontare il problema delle relazioni di affinità e di inclusione con il modello (o i modelli) della sintassi musicale, tracciando i percorsi e le forme della disponibilità ricettiva al dato extratestuale nell’ottica di una stratificazione dei piani (quanto vive come esplicito richiamo e quanto vive come sottotesto) che, di volta in volta, caso per caso, verrà richiamata come orientamento del nostro discorso critico.

Nella convinzione che per chi si prometta di indagare la fenome-nologia dell’intertestualità latamente intesa si imponga la necessità di muoversi lungo un paradigma, per così dire, “geologico”, un para-digma cioè che coinvolga non solo quanto emerge in superficie ma anche quanto scorre sotterraneamente, in filigrana (e proprio questo volto “nascosto” costituisce spesso la zona di più alta concentrazione del dialogo tra eredità culturale e personalismo), sotto questa pro-spettiva hanno trovato sistemazione critica i vari fenomeni musicali “presenti” nella poesia di Caproni. Si è imposta, quindi, l’articola-zione del lavoro in due macro-parti in cui la verifica del contatto- contagio delle partiture musicali, delle tessere di memoria variamente attive, delle allusioni lessicali più o meno riconoscibili potesse trovare un canale di giustificazione secondo quella dinamica “geologica” che individua le zone di esibizione e di occultazione intertestuale in un componimento letterario. Ma le due parti evi-dentemente si integrano e si presuppongono a vicenda, nell’ottica di un percorso poetico che stabilisce un rapporto con il dato musicale di progressiva complicità e di inveramento. Pertanto tutte le forme linguistiche afferenti alla fenomenologia dell’estroversione sintag-

8 Vittorio Sereni, La vocazione della gioia, in Sentieri di gloria: note e ragionamenti sulla letteratura, a cura di Giuseppe Strazzeri, introduzione di Giovanni Raboni, Milano, Mondadori, 1996, p. 61.

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matica (il capitolo sulla storia semantica del tremore, l’insenatura privata e sentimentale di Albàro) insomma della disposizione in superficie, entrano nell’orizzonte di ciò che si qualifica come conte-nuto manifesto; all’introduzione della categoria speculare è affidata invece la ricognizione del contenuto latente, volto a dare conto di quel reticolo di relazioni soggiacenti9 (il dialogo con le partiture di

9 L’articolazione del lavoro in due parti sottende un principio metodologico che discende, da una parte, dagli studi sull’intertestualità letteraria e dall’altra dai Musico-Literary Studies che, in ambito anglosassone, si sono affermati a partire dal pioneristico scritto di Calvin S. BroWn, Music and Literature: A Comparison of the Arts, Athens, University of Georgia Press, 1948 e, successivamente, sulla scia del dibattito sviluppatosi attorno alle categorie tipologiche promosse da Steven Paul Scher nel suo Literatur und Musik. Ein Handbuch zur Theorie und Praxis eines Komparatistischen Grenzgebietes, Berlin, Erich Schmidt Verlag, 1984 [nell’edizione inglese: Essays on Literature and Music (1967-2004) by Steven Paul Sher (5), edited by Walter Bernhart, Amsterdam/New York, Rodopi, 2004] per lo studio delle incidenze tra musica e letteratura e la loro ridefinizione condotta, anni dopo, da Werner Wolf nel saggio Musicalized Fiction and Intermediality. Theoretical Aspects of Word and Music Studies che figura nel primo volume collettaneo pubblicato dall’International Association for Word and Music Studies (Wma) con il titolo Word and Music Studies (1). Defining the Field, a cura di Walter Bernhart, Steven Paul Scher, Werner Wolf, Amsterdam/New York, Rodopi, 1999, pp. 37-58 (da cui, adesso, si cita). A fronte dei tre campi tipologici individuati da Paul Scher (“word music”; “structural analogies to music”; “verbal music”), Werner Wolf preferisce parlare di “intermedialità” (intermediality), categoria che «implies the involvement of more than one conventionally distinct medium in the signification of an artifact», leggendo nei termini di trasparenza (over/direct) o di occultamento (covert/indirect) la “presenza”, variamente intesa, della musica nella testualità letteraria. Nel tentativo di stabilire in che cosa consista quella che Wolf definisce la «“musicalization” of literature», secondo il critico occorre identificare le forme di tematizzazione (“thematization forms”, ovvero quelle forme che potrebbero essere descritte come «the presence of a (non-dominant) medium as a signified (in the case of a reference to a real or imaginary work created in the non- dominant medium also as a referent) in the signification of a work using another (dominant) medium, whereby the signifiers of the dominant medium are being used in the customary way and only serve as a basis of an intermedial signification without being iconically related to the other medium», p. 47), forme che si attestano «in the mode of explicit “telling”» (Wolf fa qui riferimento alla citazione, per esempio, di brani o forme musicali nel testo letterario, in sede sovratestuale in qualità di titolo, oppure a «contextual thematizations outside the text» come può essere il «comment by the author on his or her musical intentions») come polo oppositivo (opposite pole) al campo dell’«“imitation” or “dramatization” of the non-dominant medium in the mode of implicit “showing”», laddove invece «an equally non-dominant “other” medium informs (a part of ) a work, its signifiers and/or the structure of its signifieds so that its signs, while remaining typical signs of the dominant medium, are iconically related to the non-dominant one and give

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Schubert, Verdi, Beethoven) che rappresenta, nel caso di Caproni, il campo privilegiato per lo studio dell’importanza e dell’incidenza della musica nella poesia.

the impression to represent it mimetically, as far as that is possible» (p. 48). Stabi-lito un doppio livello di verifica articolato nei termini di “thematization”/explicit reference e “imitation”/implicit reference (o, per stabilire adesso un parallelo col nostro lavoro, di contenuto manifesto e contenuto latente), Werner Wolf traccia una linea di demarcazione netta tra ciò che si qualifica come mero riferimento tematico, anche esplicito (“positional form”: textual / para-textual / con-textual ) e quanto invece interviene a livello composizionale del testo (“technical form”: ana-logy), tanto da far avere al lettore «the impression that music is involved in the signification of the narrative (as a general signified or a specific – real or imaginary – reference) and that the presence of music can indirectly be experienced while rea-ding» (p. 48). Per una ricostruzione del dibattito critico tra Calvin Brown, Paul Scher e Werner Wolf si veda l’eccellente Roberto Russi, Letteratura e musica, Roma, Carocci, 2005.

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nota

La divisione in due parti si è imposta alla luce di un lavoro di inda-gine che è apparso nel corso di qualche anno in vari interventi edito-riali (in rivista o atti di convegno). Sull’ordine di successione dell’indice diamo conto delle collocazioni precedenti: Il tremore. Giorgio Caproni e il violino, in «Paragone», xl, 81-82-83, febbraio-giugno 2009, pp. 128-148; Albàro mon amour, in Il commento. Rifles-sioni e analisi sulla poesia del Novecento, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni 2011, pp. 331-352; Note in clausola. La metrica solfeggiata di Giorgio Caproni, in «Studi medioevali e moderni», 1-2, 2012, numero a cura di Giancarlo Quiriconi; Avvertire la morte. Giorgio Caproni e «l’eco (stravolta) della Traviata», in Sur l’aile de ces vers. L’écriture et l’Opera, Journée d’etude du 9 avril 2010 – Séminaires 2009-2010 (Université Paris 8, Institut Nationale d’Histoire de l’Art), sous la direction de Camillo Faverzani, «Travaux et documents» 2011, pp. 335-348; Pensare in musica. Il quartetto op. 132 di Beethoven e il “Conte di Kevenhüller” di Giorgio Caproni, in Parnasse et Paradis. L'écriture et la musique, Actes du colloque International des 14, 15 et 16 Mai 2009 (Saint-Denis, Université Paris8-Paris), sous la direction de Camillo Faverzani, «Travaux et Documents», 2010, pp. 109-129.

Le sezioni musicali estratte dalle partiture e dagli spartiti proven-gono dalle seguenti edizioni: Frédéric Chopin, 24 Préludes op. 28, Edited from the autograph and first editions by Bernhard Hansen, Fingering by Jörg Demus, Wien, Wiener Urtext Edition, 1973; Franz Schubert, Complete Chamber Music for Strings, Edited by Eusebius Mandyczewski and Joseph Hellmesberger, New York, Dover, 1973; Ludwig van Beetho-ven, Complete String Quartets and Grosse Fuge: from the Breitkopf & Här-tel complete works edition, New York, Dover, 1970; Giuseppe Verdi, La traviata, opera completa [per] canto e pianoforte, Milano, Ricordi, 1916.