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Messina Marco Esame di Stato 2006
Istituto Statale d’Istruzione Secondaria Superiore “G. Falcone”
Liceo Scientifico e Pedagogico (Barrafranca) Classe V B
La disgregazione del soggetto “…Gli parve di essersi in quel momento staccato, come con un colpo di forbici, da tutto e da tutti…”
(Fedor Dostoevskij)
SOMMARIO
Introduzione: Concezione dell’io: dall’Ottocento a Joyce pag. 3
Mappa concettuale pag. 4
Luigi Pirandello:
Vita pag. 5 Personalità pag. 7 Rivoluzione teatrale pag. 11
Nietzsche: Vita pag. 12 Pensiero pag. 13
Il Novecento: Il regime fascista pag. 16 Il regime nazista pag. 20 Il regime staliniano pag. 25 Il regime franchista pag. 27
Picasso: Vita pag. 27 Opere pag. 32
James Joyce: Life pag. 38 Main works pag. 38
Tacito: Vita pag. 41 Opere pag. 42 Personalità pag. 47
Einstin: Vita pag. 48 Teoria della relatività ristretta pag. 49 Teoria della relatività generale pag. 50
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INTRODUZIONE
L a cultura dell'Ottocento è saldamente ancorata a una concezione forte dell'io, inteso
come sostanza razionale e unitaria. Tale concezione si era formata gradualmente nel
corso dell'epoca moderna, ma, nel XIX secolo, aveva compiuto un salto di qualità; mai
come in questo secolo, infatti, il pensiero umano aveva considerato tanto potente la soggettività
razionale, attribuendole - almeno in linea di principio - una pressoché assoluta capacità di dominio
sulla propria coscienza, sul proprio corpo e sul mondo naturale. Già nel corso dell'Ottocento,
tuttavia, non erano mancate autorevoli voci controcorrente, precorritrici della successiva evoluzione
culturale, che rimasero non a caso isolate, incomprese 'e a volte perfino misconosciute fino
all'ultimo trentennio del secolo. È infatti solo in questo periodo che l’immagine forte dell'io
comincia a vacillare sotto i colpi della filosofia di Nietzsche, della psicoanalisi di Freud e delle
teorie scientifiche di Einstein. Nella prima metà del Novecento, la crisi dell'io esplode diventando il
motivo dominante della cultura europea, con le “maschere” di Pirandello, con la nascita dei regimi
dittatoriali e con il “flusso di coscienza” di Joyce.
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MAPPA CONCETTUALE
Primo dopoguerra: avvento dei regimi totalitari in Europa
Pirandello: Dissidio interiore tra vita e forma
Tacito: Psicologia dell’Impero
Crisi dell’io
Nietzsche: Dall’uomo al “super-uomo”
Picasso e Einstein: Relatività dell’osservare e del conoscere umano
James Joyce: The attempt to escape from moral paralysis
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LUIGI PIRANDELLO
Pirandello è l’unico scrittore italiano del Novecento famoso in tutto il mondo. Con Pirandello
entrano nella letteratura italiana alcuni dei caratteri fondamentali della ricerca dell’avanguardia
europea nel primo Novecento: la crisi delle ideologie e il conseguente relativismo, il gusto per il
paradosso, la tendenza alla scomposizione e deformazione grottesca ed espressionistica, la scelta
della dissonanza, dell’ironia, dell’umorismo, dell’allegoria. Tuttavia non bisogna dimenticare che
egli è un uomo dell’Ottocento e che solo gradualmente giunge alle prese di posizione che ne
determinarono la modernità. La poetica dell’Umorismo da lui elaborata respinge non solo l’armonia
classica e il mito romantico di un’arte naturale, autentica e spontanea, ma anche l’estetismo
decadente e il Simbolismo.
La vita Luigi Pirandello nasce il 28 giugno 1867 nella villa detta Caos nei pressi di Girgenti (oggi
Agrigento). La famiglia, di tradizione garibaldina e antiborbonica, è proprietaria di alcune zolfare.
Dopo gli studi liceali compiuti a Palermo, rientra nel 1986 a
Girgenti, dove affianca per breve tempo il padre nella conduzione
di una miniera di zolfo e si fidanza con una cugina (rompendo in
seguito il fidanzamento). Si iscrive prima all'università di Palermo,
poi passa alla Facoltà di Lettere dell'università di Roma, ma a
causa di un contrasto con il preside, il latinista Onorato Occioni, si
trasferisce all'università di Bonn, dove nel 1891 si laurea in
Filologia romanza con una tesi dialettologica. Intanto ha già
esordito come poeta con Mal giocondo (1889) e con Pasqua di
Gea (1891), raccolta che dedica a Jenny Schulz-Lander, di cui a
Bonn si è innamorato. Nel '92, fermamente deciso a dedicarsi alla
sua vocazione letteraria, si stabilisce a Roma, dove vive con un assegno mensile del padre.
Nell'ambiente letterario della capitale conosce e stringe amicizia con il conterraneo Luigi Capuana,
che lo spinge verso il campo della narrativa. Compone così le prime novelle e il suo primo romanzo,
uscito nel 1901 con il titolo L'esclusa. Non abbandona tuttavia la poesia: escono nel '95 le Elegie
renane, nel 1901 Zampogna, e nel 1912 Fuori di chiave, la sua ultima raccolta poetica. Nel 1894
sposa a Girgenti, con matrimonio combinato tra le famiglie, Maria Antonietta Portulano, figlia di un
ricco socio del padre. Si stabilisce definitivamente a Roma, dove nascono i tre figli Stefano (1895),
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Rosalia (1897) e Fausto (1899). Pirandello vive sempre con disagio il rapporto con la fragile e
inquieta moglie, avvertendo il forte peso delle norme comportamentali risalenti alle radici siciliane.
Inizia una fitta collaborazione con diversi giornali e riviste letterarie, sulle quali pubblica una ricca e
vasta produzione narrativa che trova consensi presso il pubblico, ma indifferenza da parte della
critica. Scrive il romanzo Il turno (edito nel 1902) e lavora ai suoi primi testi teatrali che per allora
non riescono a raggiungere le scene. In opposizione all'estetismo e al misticismo dominanti fonda
con Ugo Fleres e altri amici un settimanale letterario dal titolo shakespeariano «Ariel». Dal 1897 al
1922 insegna, senza entusiasmo ma con grande dignità, stilistica italiana presso l'Istituto Superiore
di Magistero di Roma. Nel 1903 l'allagamento di una miniera di zolfo causa alla famiglia Pirandello
un grave dissesto economico: il padre Stefano perde insieme al proprio capitale anche la dote della
nuora. In seguito alla notizia dell'improvviso disastro finanziario, Antonietta, già sofferente di nervi,
cade in una gravissima crisi che durerà per tutta la vita sotto forma di grave paranoia. Vani saranno
i tentativi di Pirandello di dimostrare che la realtà non è come invece pare alla moglie. Abbandonata
la tentazione del suicidio, Pirandello cerca di fronteggiare la disperata situazione, assistendo
Antonietta (che verrà internata in una casa di cura solo nel 1919); e per arrotondare il magro
stipendio universitario, impartisce lezioni private e intensifica la sua collaborazione a riviste e a
giornali. Nel 1904 “Il fu Mattia Pascal”, pubblicato a puntate sulla «Nuova Antologia», riscuote un
successo tale che uno dei più importanti editori del tempo, Emilio Treves di Milano, decide di
occuparsi della pubblicazione delle sue opere. Nel 1908 pubblica due volumi saggistici Arte e
scienza e L'Umorismo, grazie ai quali ottiene la nomina a professore universitario di ruolo. Nel
1909 inizia la sua collaborazione, che durerà fino alla morte, al «Corriere della Sera», su cui
appaiono via via le sue novelle; e pubblica la prima parte del romanzo I vecchi e i giovani (la
seconda esce in volume nel 1913). Nel 1911 esce il romanzo Suo marito. Scrive anche alcuni
soggetti cinematografici, mai realizzati; mentre nel 1915 pubblicherà il romanzo Si gira... Nel 1915-
16 inizia la sua prodigiosa e intensa attività teatrale, che darà vita a dibattiti e discussioni in Italia e
all'estero. Proprio negli anni della grande guerra, (vissuti drammaticamente anche per la perdita
della madre e per la partenza dei figli per il fronte), scrive alcune celebri opere: Pensaci Giacomino!,
Liolà (1916), Così è (se vi pare), Il berretto a sonagli, Il piacere dell'onestà (1917), Ma non è una
cosa seria e Il gioco delle parti (1918). Nel 1918 esce il primo volume delle Maschere nude, titolo
sotto cui raccoglie i suoi molteplici testi teatrali. Nel 1920 il teatro pirandelliano con Tutto per bene
e Come prima, meglio di prima, si afferma pienamente, e a partire dall'anno successivo raggiunge il
grande successo internazionale con il capolavoro Sei personaggi in cerca d'autore. Abbandonata la
vita sedentaria degli anni precedenti, Pirandello vive e scrive negli alberghi dei più importanti centri
teatrali sia europei che americani, curando personalmente l'allestimento e la regia delle sue opere. In
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questi stessi anni il cinema trae diversi film dai suoi testi teatrali e narrativi, di cui continuano a
uscire ristampe e nuove edizioni. Nel 1922 esce il primo volume della raccolta Novelle per un anno
presso l'editore Bemporad. La sua produzione teatrale prosegue con Enrico IV e Vestire gli ignudi
(1922), L'uomo dal fiore in bocca (1923), Ciascuno a suo modo (1924), Questa sera si recita a
soggetto (1930). Nel 1924 si iscrive formalmente al partito fascista, da cui ottiene appoggi e
finanziamenti per la compagnia del Teatro d'Arte di Roma che, sotto la direzione dello stesso
Pirandello, porta per tre anni (fino al 1928) il teatro pirandelliano in giro per il mondo. L'interprete
per eccellenza delle sue scene è la "prima attrice" Marta Abba, a cui Pirandello si lega anche
sentimentalmente. Nel 1926 esce in volume il romanzo Uno, nessuno e centomila, ultimo romanzo,
frutto di una lunga gestazione, (Bemporad, Firenze), intessuto di interrogativi che il protagonista
rivolge direttamente al lettore, per coinvolgerlo in una vicenda "universale", un riepilogo di tutta
l’attività, narrativa e teatrale dell'autore. Il dramma La nuova colonia (1928) inaugura l'ultima
stagione pirandelliana, quella fondata sui «miti» moderni, che culmina nell'opera incompiuta I
giganti della montagna. Nel 1929 è nominato membro dell'Accademia d'Italia, dove nel '31
commemora Verga. Nel 1934 riceve il premio Nobel per la letteratura. Si ammala di polmonite,
mentre segue le riprese a Cinecittà di un film tratto da Il fu Mattia Pascal. Muore nella sua casa
romana il 10 dicembre 1936. Esce postuma l'edizione definitiva delle Novelle per un anno
PERSONALITÀ E POETICA Pirandello è uno scrittore isolato, difficile da costringere negli schemi di uno specifico movimento
letterario. Sin dalle prime opere egli evidenzia la totale disillusione circa la possibilità di trovare
risposte ai problemi dell’esistenza umana: non è possibile un’interpretazione deterministica della
vita che è complicata dal mescolarsi di verità e finzione. Attraverso l’intensa produzione
novellistica, alla quale Pirandello è costretto anche per ragioni economiche, egli può sperimentare
nuove forme espressive. Le novelle compongono uno straordinario "serbatoio di invenzioni", idee,
personaggi e situazioni, da cui lo stesso Pirandello attinge frequentemente lo spunto che dà vita alle
sue opere romanzesche e teatrali. I suoi personaggi, posti in situazioni bizzarre, costituiscono
sempre un caso che svela la contraddittorietà dell’esistenza. L’autore non propone soluzioni, anzi,
sul piano ideologico si attesta su posizioni conservatrici, lasciando aperta come unica strada di fuga,
quella che conduce verso l’irrazionale. Il pensiero pirandelliano trova una sistemazione propria nel
suo romanzo più famoso: "Il fu Mattia Pascal" (1904) che evidenzia la divergenza tra la verità dei
fatti e le loro apparenze. Questo romanzo segna un punto di non ritorno nell’arco dell’opera
pirandelliana: ritrae il sogno di un’evasione impossibile, il desiderio irrealizzabile di afferrare per se
un’identità che non sia quella imposta dal destino. Mattia e anche tutti gli altri personaggi sono però
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in balia del caso e degli avvenimenti esterni: sono incapaci di comunicare con gli altri e di dominare
la realtà. Il messaggio di Pirandello è chiaro: dichiara l'inconsapevolezza del reale, la
frammentazione dell’identità psicologica dell’individuo. Pirandello è costretto per approfondire la
dimensione psicologica dei suoi personaggi a costruire un tipo di romanzo nuovo nel quale il
narratore viene a coincidere con il protagonista. L’autore non si preoccupa di garantire l’autenticità
del discorso (questa è la tecnica alla base dei romanzi di Svevo) ed ogni parola pronunciata dal
personaggio è sempre circondata da una forte ambiguità. Il risultato è una scrittura frammentata che
riflette la complessità della vita. L’ultimo romanzo di Pirandello, "Uno, nessuno e centomila"
(1912-1925) porta agli estremi questa concezione artistica: è infatti privo di intreccio, ma si svolge
in prima persona seguendo la meditazione del protagonista Vitangelo Moscarda che sorge dal
casuale commento della moglie: se la moglie lo vede diverso da come si vede lui dal punto di vista
fisico, ciò avverrà anche dal punto di vista psichico. Ci sono dunque tanti Moscarda quanti sono
quelli che lo vedono. Pirandello costruisce quest’opera come una ricerca del protagonista di se
stesso.
La maschera Moscarda come Pascal si propone di distruggere il vecchio se stesso cancellando tutte le immagini
che gli altri hanno di lui, ma nel tentativo di attuare questa operazione, si procura la "maschera" di
pazzo. “Uno, nessuno e centomila” è perciò il romanzo dell'incapacità di comunicare e della
solitudine. Moscarda è consapevole che i giudizi di ogni uomo hanno un valore sempre soggettivo:
a ciascuno le cose appaiono "a suo modo" e chi attribuisce al proprio punto di vista una verità
assoluta si allontana dalla verità. In realtà nulla è fermo e definitivo nella vita e perciò il
protagonista di "Uno, nessuno e centomila" accetta la disgregazione della sua personalità come cosa
positiva. Ed è un concetto che Pirandello ha espresso anche con parole come queste: "la realtà
siamo noi che ce la creiamo: ed è indispensabile che sia così. Ma guai a fermarsi in una sola
realtà: in essa si finisce per soffocare". La vita non può essere fissata in una regola. La conoscenza
invece blocca la vita, l’uccide in impressioni soggettive che l’uomo purtroppo considera assolute.
Per conoscere "bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti ad una
macchina fotografica. Lei si atteggia. E atteggiarsi è come diventare una statua per un momento.
Lei non può conoscersi che atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede.
Conoscersi è morire." Nelle ultime scene di "Così è (se vi pare)" (1918) Pirandello arriva al
culmine della riflessione sull’impossibilità di arrivare alla conoscenza di una verità. Questa
commedia può dunque essere presa a modello per commentare il rapporto individuo/altro e
l’impossibilità di un’unica verità. Quando la signora Ponza, alla fine del dramma afferma "Per me,
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io sono colei che mi si crede" getta nello sconcerto non solo i personaggi teatrali, ma anche gli
spettatori. Tutti si aspettano la risoluzione dell’enigma secondo uno sviluppo normale.
L’anormalità e la normalità Generalmente si intende per normalità, secondo la massa, tutto ciò che viene fatto e pensato in basi
a leggi, norme e consuetudini che l'uomo ha creato per regolare la propria vita e soprattutto per
immortalare un determinato stato di cose. È, quindi, anormale, sempre secondo la massa, tutto ciò
che non segue le regole prescritte. Secondo Pirandello, invece, è normale non ciò che risponde alle
norme, ma ciò che da ciascuno viene fatto seguendo i propri intimi bisogni, e sono questi bisogni
che portano l'uomo sulla via del progresso. Il personaggio tende a ribellarsi quando si rende conto
che l'osservanza delle norme gli impedisce di vivere e di migliorare la propria condizione.
L’anormalità per Pirandello, è il sottomettersi alle regole anche quando queste impediscono
all'uomo di vivere, permettendogli solo di esistere. Per capire l'opera pirandelliana, bisogna quindi,
ribaltare il concetto di normalità-anormalità, nel quale la normalità pirandelliana non è solo il
banale rifiuto della norma, ma il suo superamento, che ha come obiettivo i grandi valori umani, che
sono i veri bisogni da soddisfare.
La realtà Vi sono anche in questo caso due distinte dimensioni, perché ciascuno vede la realtà secondo le
proprie idee e i propri sentimenti, in un modo diverso da quello degli altri: a fronte della realtà
esterna che si presenta una e immutabile, abbiamo le centomila realtà interne di ciascun
personaggio, per cui la vera realtà è nessuna. I due aspetti sono:
la dimensione della realtà oggettiva, che è esterna agli individui e che apparentemente è uguale
e valida per tutti, perché presenta per ognuno le stesse caratteristiche fisiche.
la dimensione della realtà soggettiva, che è la particolare visione che ne ha il personaggio,
dipendente dalle condizioni sia individuali che sociali; vi sono tante dimensioni quanti sono
gli individui e quanti sono i momenti della vita dell'individuo.
Della realtà oggettiva esterna, così fissa ed immutabile, noi non cogliamo che quegli aspetti che
sono maggiormente adeguati a una delle nostre anime, al particolare momento che stiamo vivendo,
in base al quale riceviamo dalla realtà certe impressioni, certe sensazioni che sono assolutamente
individuali e non possono essere provate da tutti gli altri individui. Per i personaggi pirandelliani
non esiste, quindi, una realtà oggettiva, ma una realtà soggettiva, che, a contatto con la realtà degli
altri, si disintegra e si disumanizza, come avviene per Moscarda, il protagonista del romanzo Uno
nessuno centomila, che scopre all'improvviso di non essere più quello che credeva dal momento in
cui la moglie Dida gli dice che ha il naso che pende verso destra: un banale accidente che lo porterà
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a capire che gli altri lo vedono in un modo diverso da come lui si era sempre visto. Si può
distinguere quindi:
come la realtà è vista dal personaggio;
come la realtà esterna si impone al personaggio;
come il personaggio crede che gli altri vedano la realtà.
Questa triplice concezione della realtà è un elemento tecnico che serve a Pirandello per esaminare
come i personaggi sono fatti veramente dentro e capire come essi si vedono. Esame che porta a
definire l’impossibilità di sfuggire alle convenzioni sociali, l’impossibilità della comunicazione con
gli altri. Pirandello è una delle figure più caratteristiche per comprendere lo sfaldamento della
coscienza contemporanea.
L’uomo non può conoscere la realtà in sé, ma può creare dei modelli interpretativi che gli
permettano di mettere ordine "nel suo piccolo mondo”.
Il vecchio e il nuovo Nel pensiero di Pirandello non c’è nulla di nuovo. Esso infatti è una ripresa del motivo romantico
della insoddisfazione e dell’inquietudine perenne dello spirito umano, esasperata nel Decadentismo.
Pirandello lo rielabora, intensificandolo e rappresentandolo in situazioni paradossali, ma non tanto
perché a volte esse si verificano realmente, tanto è vero che le cronache spesso parlano di vicende
“pirandelliane”, realmente accadute, e lo stesso Pirandello a volte diceva, che di fronte a certi fatti,
la vita imitava la sua arte, e in questo dimostrava più fantasia. Ora dall’insoddisfazione e
dall’inquietudine dell’esistenza, la gente si difende con il buon senso, rassegnandosi, con
l’accettazione serena dei limiti umani, convinta che non esiste né la libertà assoluta, né la verità
assoluta. Pirandello invece rappresenta lo stato d’animo di chi si ribella a questa condizione e ne fa
un dramma, che può portarlo anche alla pazzia. Il suo merito è quello di smascherare e condannare
nella sua opera i luoghi comuni, le ipocrisie, gli egoismi, i pregiudizi, e soprattutto i venditori di
fumo, coloro cioè che approfittano della forma, entro cui si sono chiusi, per tramare i loro inganni e
le loro frodi a danno degli altri. Facendo ciò, egli desidera un autentico miglioramento della società,
fondato sul rispetto assoluto della persona umana.
L’umorismo I fondamenti teorici della concezione del mondo di Pirandello sono riscontrabili nel saggio
L’umorismo, nel quale lo scrittore espone, discute e codifica la sua poetica. La prima parte è storica,
perché dedicata all’esame delle varie forme assunte dall’umorismo nel corso del tempo, e ad
analizzare l’opera di vari umoristi italiani e stranieri. Nella seconda parte, di carattere teorico,
Pirandello distingue due stadi dell’osservazione del reale, che egli definisce "avvertimento del
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contrario" e "sentimento del contrario". L’avvertimento del contrario, sostiene l’autore, si ha
quando ci accorgiamo di una stonatura nella realtà che ci circonda, e percepiamo in un
comportamento o in un fatto una incongruenza che ci sconcerta e ci induce a reagire in modo
istintivo e immediato, come quando, vedendo una vecchia signora troppo truccata e vestita in modo
inadatto alla sua età, ci mettiamo a ridere. Quando in un’opera la descrizione si limita a questa
primo stadio si ha il comico. Se però superiamo quella impressione superficiale e la trasformiamo in
riflessione, all’"avvertimento del contrario" subentra il "sentimento del contrario": ciò accade
quando ci soffermiamo a pensare, ad esempio, "perché" la signora agisce in quel modo, scoprendo
che forse non prova nessun piacere ad agghindarsi così, e magari ne soffre, ma lo fa per un
disperato tentativo di mantenere vivo l’amore del marito, più giovane di lei. Mettendo in luce tutto
ciò, si fa umorismo. La critica che Pirandello muove alle illusioni dell’uomo è lucida e definitiva, e
la sua esigenza di verità può apparire crudele, ma proprio perché mette a nudo la sofferenza dei suoi
simili, l’autore dimostra una partecipazione accorata, una sincera pietà per i suoi personaggi, nei
quali vita e forma sono in continuo contrasto: personaggi lacerati, messi improvvisamente di fronte
alla scoperta della frantumazione della loro identità e alla crisi di quelle certezze che la "forma"
sembrava loro garantire: non a caso le creature di Pirandello sono caratterizzate dalla "pena di
vivere così", e i loro volti che si rivelano quando si strappano la maschera, sono "un misto di riso e
pianto".
RIVOLUZIONE TEATRALE DI PIRANDELLO Sebbene Pirandello abbia deciso di dedicarsi alle opere teatrali molto tardi, è a loro che deve il suo
successo. Questi testi hanno modificato in modo decisivo la tradizione teatrale italiana che,
all’epoca era ancora influenzata dal modello naturalista e da quello decadente di D’Annunzio.
Pirandello tratta la vita come se fosse una recita, dove ciascuno è "l’attore di se stesso", condannato
a rappresentare la parte che il destino gli ha prefissato. Il teatro fornisce anzi uno strumento ancora
più adatto per esprimere il rapporto maschera – realtà. Attraverso una mescolanza portata fino agli
estremi di realtà e finzione, Pirandello frantuma la "superficie compatta" della vita. Nei "Sei
personaggi in cerca d’autore" (1921) egli raffigura perfettamente la sua visione della vita: se il
teatro è metafora dell’esistenza, mostrando agli spettatori i trucchi che lo governano, denuncia in
realtà le regole della vita stessa. Nelle sue ultime commedie spettatori, maschere, personaggi e attori
si confondono a rappresentare gli equivoci che si nascondono dietro la vita stessa. Pirandello passa
dal teatro che imita la vita al teatro che mette in scena se stesso. Il personaggio di Pirandello,
diversamente da quello tradizionale, il quale chiede allo spettatore di identificarsi in lui, di
"commuoversi" con lui, apre un continuo, incessante dibattito, non solo con gli altri personaggi, ma
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idealmente con il pubblico. Lo spettatore è chiamato a "partecipare" in modo nuovo, a "entrare in
scena" anche lui. Esempio tipico è "Ciascuno a suo modo". Questa scelta di Pirandello significa
intenzione di abolire la separazione tra arte (teatro) e vita (pubblico) e di mescolarle continuamente.
Il teatro non rispecchia più la vita, ma vuole rappresentare se stesso (anche perché la vita è teatro), il
farsi della creazione artistica, il difficile rapporto tra autore e personaggi, che diventa espressione
simbolica del rapporto universale tra l'uomo e il suo destino (come in Sei personaggi in cerca
d’autore).
FRIEDRICH WILHELM NIETZSCHE
La vita Friedrich Wilhelm Nietzsche nacque nel 1844 a Röcken in
Germania, figlio del pastore Karl Ludwig e di Franziska
Oehler, anch'essa figlia di un pastore. Rimasto orfano del
padre in tenera età, crebbe affidato alle cure della madre,
donna di solide qualità morali ma di cultura limitata. A
Naumburg, dove la famiglia si era trasferita, ricevette i suoi
primi insegnamenti di religione, latino e greco e imparò a
suonare il pianoforte. Dopo avere abbandonato la celebre
scuola teologica di Pforta, con disappunto della madre, la quale sperava di vedere il figlio diventare
ecclesiastico, Nietzsche studiò filologia classica alle università di Bonn e Lipsia, diventando
professore della disciplina all'università di Basilea a soli 24 anni; in quell’epoca si delinearono
sempre più chiaramente le sue inclinazioni filosofiche. In questo periodo entrò in relazione con
Richard Wagner, del quale divenne amico ed estimatore. Il loro rapporto in seguito degenerò
progressivamente fino a rompersi nel 1878. Ma a quel tempo, Nietzsche era già malato da alcuni
anni e soffriva di crisi nervose. Nel 1876 abbandonò l'insegnamento per motivi di salute e iniziò la
sua vita solitaria e errabonda, che lo condusse a soggiornare a lungo anche in Italia. Guastati i
rapporti anche con la famiglia, egli vide peggiorare sempre più il suo stato di salute. Nel 1889 a
Torino cade in preda a un accesso di follia che non lo avrebbe abbandonato fino alla morte,
avvenuta a Weimar nel 1900. Negli ultimi anni visse errando per l'Europa, spesso ospite di amici e
protagonista di complicate vicende umane e sentimentali.
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Il pensiero
Studioso della cultura greca, in particolar modo di Platone e di Aristotele,
Nietzsche attinse ispirazione anche dalle opere di Arthur Schopenhauer e
dalla musica di Richard Wagner. Nietzsche non espose il suo pensiero in
forma sistematica ma in frammenti, o in poesia; anche per questo le sue
opere si sono prestate ad interpretazioni differenti esercitando un grande
fascino. Lo stesso autore, consapevole dell'«inattualità» delle sue parole
aveva detto: "Mi si comprenderà dopo la prossima guerra europea". Egli
cercò di ricostruire la genesi del pensiero e della civiltà moderna,
individuando nell'antichità classica le radici di due fondamentali atteggiamenti culturali: quello,
simboleggiato da Apollo, che si esprime nella ricerca dell'armonia, dell'equilibrio, della bellezza
formale, della serenità dello spirito, della razionalità; e quello, che trova il suo simbolo in Dioniso
ed è quello originario nell'uomo, che invece è espressione dell'istinto, della volontà,
dell'irrazionalità, del desiderio di trasgredire a ogni ordine e a ogni legge. Fino a questo momento
della storia, sostenne Nietzsche, è stato seguito principalmente il principio apollineo, nel quale il
filosofo tedesco scorge i segni di una decadenza dell'umanità, testimoniata dalle menzogne e dal
dogmatismo delle scienze sul piano culturale e dal conformismo, dalla passività, dall'ipocrisia delle
leggi e della politica sul piano sociale. Perciò, egli concludeva, è necessario tornare al dionisiaco,
restituire all'uomo la libertà di gioire dei suoi istinti e delle sue passioni; di qui l'esigenza di
abbandonare la "morale degli schiavi", l'etica della rinuncia, dell'obbedienza passiva alle leggi
professate dal Cristianesimo per esaltare l'indomabile volontà di potenza dell'individuo.
L'espressione più elevata di questa liberazione è il superuomo, un essere totalmente libero,
incarnazione della volontà di potenza, che sta "al di là del bene e del male", che non sottostà alle
regole e che è libero dalla morale cristiana. Su un piano filosofico egli si caratterizza per la sua
fedeltà alla terra: poiché Dio è morto, l'unica realtà è ora la vita terrena, non essendoci più Dio non
esiste più un "mondo dietro il mondo" in cui trovare consolazione al pensiero della morte. Tra le sue
opere, le più significative sono: La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872)
Considerazioni inattuali (1872-74) Così parlò Zarathustra (1883-85) Al di là del bene e del male
(1886) Genealogia della Morale (1887) L'Anticristo (1889) La gaia scienza (1882) Ecce Homo
(1889).
Il superuomo Il superuomo è colui che è in grado di accettare la dimensione tragica e dionisiaca dell’esistenza, di
far propria la prospettiva dell’eterno ritorno, di emanciparsi dalla morale e dal cristianesimo, di
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porsi come volontà di potenza. Tutti i valori della civiltà occidentale -
religione, scienza, morale - per Nietzsche sono mistificazioni volute dal
gregge degli «schiavi», dalla massa per ostacolare il cammino degli
uomini superiori; e sono il risultato dello spegnersi nel corso dei
millenni dell'originaria «volontà di potenza», ossia dell’energia creatrice
dell’uomo e dei suoi valori vitali. Incarnazione della volontà di potenza è
il superuomo (Übermensch): «L’uomo deve essere superato. Il
superuomo è il senso della terra. L’uomo è una corda tesa fra la bestia e
il superuomo, ma corda sull’abisso». Nietzsche fu un critico spietato
degli ideali e dei valori tradizionali dell'Europa dell'Ottocento. Nelle sue opere filosofiche si scagliò
contro il Positivismo e la sua fiducia nel fatto scientifico e oggettivo, demolendo il concetto di
progresso da lui definito come un'idea "moderna" e "falsa", e contro ogni tipo di spiritualismo
proclamando la morte di Dio. In particolare egli criticò il cristianesimo che riteneva un "vizio". La
morale cristiana è per Nietzsche la «morale degli schiavi» che deriva dal «dire di sì ad un altro»: ad
essa egli contrappose la «morale aristocratica» che ha inizio nel momento in cui «si dice di sì a se
stessi». In Così parlò Zarathustra (1883), una delle sue opere più importanti, il filosofo tedesco
propone tre temi fondamentali: la morte di Dio, il superuomo e l'eterno ritorno. Soprattutto il
concetto di superuomo è stato spesso male interpretato. Il superuomo nietzschiano, infatti, non è
l'archetipo nazista ma piuttosto colui che, avendo preso coscienza del fatto che tutti i valori
tradizionali sono crollati, è in grado di ritornare ad essere "fedele alla terra", liberandosi dalle
cristallizzazioni della cultura. Il superuomo ha in sé una forza creatrice che gli permette di operare
la traslazione dei valori e di sostituire ai vecchi doveri la propria volontà. Il pensiero dell’eterno
ritorno tende a palesare il suo carattere selettivo, fungente da spartiacque fra l’uomo e il superuomo.
Infatti il terrore di fronte alla prospettiva dell’eterno ripetersi del tutto è propria dell’uomo, mentre
la gioia entusiastica si manifesta come tipica del superuomo. Nietzsche torna, dunque, a recuperare
una concezione pre-cristiana del mondo, la quale presuppone una visione ciclica del tempo. Non
credere nella dottrina dell’eterno ritorno significa ritenere che il senso dell’essere stia fuori
dall’essere, in un oltre irraggiungibile e frustante; nel vivere la vita come tensione angosciosa in
funzione di un futuro migliore.
La morte di Dio Per Nietzsche Dio è sostanzialmente il simbolo di ogni prospettiva oltremondana che ponga il senso
dell’essere al di là dell’essere, ovvero in un altro mondo contrapposto a questo mondo; la
personificazione delle certezze ultime dell’umanità, ossia di tutte le credenze elaborate attraverso i
Marco Messina Esame di s tato 2006 14
millenni per dare un senso alla vita. Alla base della concezione nietzschiana della vita c'è il
tentativo di considerare l'esistenza nella sua sana ebbrezza primitiva e di restituirla alle sue sorgenti
originarie dopo aver estirpato "il posto di Dio". L'atto di liberazione dalla schiavitù della religione è
un atto tragico che viene vissuto attraverso il delirio del pazzo, il quale accusa se stesso e gli altri di
aver ucciso Dio. Il vuoto lasciato dalla "morte di Dio" potrà essere colmato solo dall'Uomo e da
nessun’altra ideologia tirannica. Ma il travaglio della cultura che tenta di costruire un ateismo
umanistico è tutt’altro che semplice da definirsi: Nietzsche vive, nel noto racconto dell’uomo
“folle” come in altri brani, il dramma del pensiero che cerca in se stesso un assoluto criterio di
giudizio e di libertà. Egli sottolinea non solo la difficoltà degli uomini comuni ad accettare la
“morte” dei vecchi valori, ma allude anche alla crisi moderna delle religioni. La cultura
contemporanea si sta ancora misurando con questo problema; ma il fatto che da parte di Nietzsche
esso sia posto in maniera così drammatica e diremmo "teatrale" è indice dello spostarsi della
filosofia verso il racconto o l'aforisma, verso la divulgazione letteraria. La morte di Dio coincide
con la nascita del superuomo. Solo chi ha il coraggio di guardare in faccia la realtà e di prendere
atto del crollo degli assoluti è ormai maturo per varcare l’abisso che divide l’uomo dall’oltre-uomo.
La volontà di potenza Nietzsche identifica la volontà di potenza con “l’intima essenza dell’essere”, ovvero con il carattere
fondamentale di ciò che esiste. Più in particolare, la volontà di potenza si identifica con la vita
stessa, intesa come forza autosuperantesi. La molla fondamentale della vita non sono gli impulsi
autoconservativi o la ricerca del piacere, ma la spinta all’autoaffermazione. Questo costitutivo
espandersi della vita, trova la sua massima espressione nel superuomo, che non è uber solo perché è
oltre l’uomo del passato, ma anche perché la sua essenza consiste nel continuo oltrepassarsi. Ma
dire che la vita è autopotenziamento significa dire che la vita è libera produzione di sé medesima al
di là di ogni piano prestabilito. Se l’essenza della vita è il potenziamento della stessa ne segue che
l’arte, intesa nel senso ampio di forza creatrice, non è soltanto una forma della vita, ma la forma
suprema. Inoltre, poiché la volontà di potenza trova la sua espressione ultima nel superuomo, ne
segue che l’artista si configura come una prima visibile figura di superuomo. Inizialmente Nietzsche
aveva esaltato l’arte. Nella fase illuministica ne aveva denunciato i limiti. Nell’ultimo periodo torna
a rivalutarla. L’essenza creativa della volontà di potenza si manifesta nella produzione di valori che
sono proiezioni della vita e condizioni del suo esercizio. La volontà di potenza trova il proprio
culmine nell’accettazione dell’eterno ritorno, ovvero nell’atto in cui il superuomo si libera dal peso
del passato per “redimere” il tempo. La volontà di potenza sembra urtare contro l’immodificabilità
del passato. Ma rispetto a quest’ultimo nel presente ciò che è cambiato è l’uomo, il quale è divenuto
Marco Messina Esame di s tato 2006 15
superuomo. La volontà di potenza non ha valenze solo teoriche ma essa ne contiene altre. Sono le
valenze connesse al concetto della volontà di potenza come sopraffazione e dominio. Nel concetto
nietzscheano di volontà di potenza albergano aspetti antidemocratici e antiegualitari, che fanno
parte della componente reazionaria del suo pensiero.
L’AVVENTO DEI REGIMI TOTALITARI IN EUROPA IL REGIME FASCISTA
Benito Mussolini è una tra le menti che rivoluzionarono una fetta di storia che appartiene a questa
grande torta che è il mondo. E’ riuscito a condizionare vite e vite, contribuendo anche allo sterminio
di alcune di queste grazie alla sua alleanza con Hitler. Uno degli uomini più potenti e folli che
l’Italia abbia avuto al potere.
La nascita del fascismo Finita la Prima Guerra Mondiale, durante la Conferenza per la Pace stipulata a Parigi, gli Alleati,
concessero all'Italia solamente Trento e Trieste, ma non la Dalmazia e Fiume come previsto dal
Patto di Londra. La delegazione italiana, per protesta, abbandonò la Conferenza e gli Alleati non ne
tennero alcun conto nella spartizione delle ex colonie tedesche. I nazionalisti, capitanati da Gabriele
D'Annunzio, con lo slogan di “vittoria mutilata”, mobilitando i reduci e la piccola borghesia, nel
Settembre 1919 occuparono Fiume. Il nuovo presidente Nitti, non essendo capace di risolvere
l'avventura fiumana che si protrasse per 15, fece intervenire Giovanni Giolitti, che ridivenuto
presidente del Consiglio, con il Trattato di Rapallo cedette la Dalmazia alla Jugoslavia, proclamò
Istria e Zara italiane e Fiume uno Stato libero. Durante e dopo la Guerra vi fu una progressiva
maturazione delle classi lavoratrici non più disposte a tollerare guerre e condizioni di vita durissime
dettate da altri. Vennero poi alimentate dalla ventata rivoluzionaria che attraversava l'Europa per
imitazione e sollecitazione dei rivoluzionari sovietici. In Italia, il “Biennio Rosso” esplose in
proporzioni molto vaste a causa della forte combattività dei lavoratori italiani e della loro
organizzazione in :
( Cgil ) Confederazione Generale del Lavoro legata al Partito socialista;
( Cil ) Confederazione italiana dei lavoratori, cattolica;
Leghe contadine, controllate da Leghe rosse (socialisti), e Leghe bianche(cattolici)
Tra il 1919 e il 1920 i contadini invasero le terre incolte dando vita a un movimento di occupazione
delle terre, ma vennero presto repressi dal governo Nitti con l'esercito. Nel 1920 gli operai della Fiat
Marco Messina Esame di s tato 2006 16
fecero uno sciopero contro il carovita e gli industriali, dopo essersi riuniti nella Confederazione
generale dell'industria, risposero allo sciopero con la serrata delle fabbriche. Ne segui un
occupazione delle stesse e venne anche tentata un'”autogestione” seguendo l'esempio dei soviet.
Contro quest’agitazione operaia sarebbe dovuto intervenire il nuovo presidente del Consiglio
Giovanni Giolitti, egli pero non intervenne.
Fece una mossa abile, infatti l'occupazione
falli perché gli operai, ormai da molti mesi
senza stipendio, abbandonarono le fabbriche
accontentandosi di qualche piccolo aumento
salariale. Inoltre per gli operai, divisi
sull'opportunità di far scoppiare la
rivoluzione, la sconfitta approfondì i
contrasti in seno alle organizzazioni. Nel
Gennaio 1921, al termine del congresso di
Livorno, Antonio Gramsci fondo il Partito
Comunista d'Italia. La reazione degli industriali e dei proprietari terrieri al Biennio rosso fu decisiva
per le sorti della vita democratica e parlamentare in Italia. Temendo i pericoli della Rivoluzione e
mostrandosi ostili alle riforme e avversi ai partiti riformisti, pretendevano la repressione degli
scioperi attraverso l'esercito, non condividevano la politica economica dei liberali e dei democratici.
Per tutti questi motivi si rivolsero a un movimento appena nato e con pochi aderenti: il Movimento
Fascista. La prima origine di questo movimento risaliva al marzo del 1919, quando Benito
Mussolini, un ex leader del partito socialista espulso per le sue posizioni interventiste, fondava i
fasci a Milano, un movimento che riuniva ex-combattenti, ex-sindacalisti rivoluzionari ed ex-
repubblicani. Grazie al programma di San Sepolcro, i fasci si presentarono alle elezioni del
novembre del 1919 ottenendo 5000 voti e senza conseguire alcun seggio. Esso prevedeva il
suffragio universale, la sostituzione della repubblica alla monarchia, riforme fiscali, la riduzione
della giornata lavorativa, e alcuni elementi fortemente anticlericali. Ma proprio in questo
programma si comprendeva l'ispirazione violentemente antisocialista e antioperaia che poi si attuò
nell'azione politica. Dopo l'insuccesso elettorale del 1919 nacque un forte fascismo "agrario" e lo
squadrismo. I grandi proprietari terrieri appoggiavano e finanziavano le "squadre d'azione" fasciste
che giravano per colpire e ridurre al silenzio i sindacati, le associazioni dei braccianti e le
organizzazioni socialiste. Nel 1921, con le elezioni politiche di Maggio, i liberali scelsero di allearsi
con il movimento di Mussolini per riuscire a fronteggiare i due grandi partiti di massa: socialisti e
cattolici. A capo del partito liberale c'era Giolitti che in realtà sperava di poter poi riassorbire il
Marco Messina Esame di s tato 2006 17
fascismo riducendone i poteri. In questo modo però venne, in sostanza, legittimato il Partito
fascista. Infatti, entrarono nel parlamento ben 35 deputati fascisti tra cui lo stesso Mussolini. I
fascisti si presentavano come soluzione contro il "pericolo rosso" per giustificare la loro azione e
per accrescere l'area dei consensi. Il governo liberale entra, così, in crisi. Nel giugno del 1921,
Giolitti si dimette dalla presidenza del consiglio, ormai immerso in una situazione di crescenti
scontri di piazza, illegalità e violenza. Il movimento fascista, ormai forte, si trasformò nel novembre
in Partito Nazionale Fascista. Il re, dopo una breve crisi incaricò Luigi Facta di formare un nuovo
governo. Facta, a capo di una coalizione di liberali e popolari mantenne il governo fra molte
difficoltà fino all'ottobre del 1922. Nell’Ottobre dello stesso anno, di fronte all’intensificarsi della
violenza squadrista i socialisti riformisti decisero di appoggiare il debole governo di Facta, dando
origine al Partito socialista unitario. Il primo segretario del neonato partito fu Giacomo Matteotti.
Alla vigilia della marcia su Roma risultava ormai diviso in tre tronconi. Profonde divergenze
maturarono anche all’interno del Partito popolare tra le diverse “anime” del cattolicesimo italiano.
Poiché né i Socialisti italiani furono in grado di rimanere uniti, né i cattolici e i liberali riuscirono a
trovare un punto d'accordo, nel 1922, quando era in atto il congresso di Napoli del partito nazionale
fascista, fu organizzata una "marcia su Roma" che costrinse il re e il parlamento ad accogliere le
richieste fasciste. Il presidente del consiglio Facta chiese al re di far intervenire l'esercito, ma il re
per paura che l'esercito non obbedisse o che scoppiasse una guerra civile, rifiutò e Facta, del tutto
impotente a fronteggiare la situazione, si dimise. Il 30 ottobre, infine, il re incaricò Mussolini di
formare un nuovo governo. Nasceva, così, una coalizione formata da liberali, cattolico-popolari e
fascisti.
Il partito fascista Dall'ottobre del 1922, Mussolini iniziò un'opera di rafforzamento del potere
fascista. Nel dicembre fu istituito il Gran Consiglio del fascismo, un organo
di dirigenti del partito fascista, con il compito di elaborare le linee generali
della politica fascista. Nel gennaio fu fondata la Milizia Volontaria per la
Sicurezza Nazionale nel tentativo di legalizzare lo squadrismo che però,
rappresentava sempre una forza armata di parte. Mussolini mirava ad ottenere
l'appoggio della classe dirigente, economica e politica. Molte furono le
riforme apportate dal nuovo governo, ad iniziare da una nuova politica
economica che aboliva il monopolio statale delle polizze vita, e da una
riduzione del carico fiscale sulle imprese fino alla decisione di salvare
l'Ansaldo e il Banco di Roma attraverso il denaro pubblico. Fece attuare una
Marco Messina Esame di s tato 2006 18
nuova riforma scolastica del ministro Giovanni Gentile che diede all'istruzione una configurazione
nuova e coerente con gli ideali del fascismo e che contribuì, prevedendo l'insegnamento della
religione nelle scuole elementari, a migliorare i rapporti con la Chiesa cattolica. Nel 1923 i ministri
popolari lasciarono il governo. Nello stesso anno fu introdotta una nuova legge elettorale, la legge
Acerbo che prevedeva un forte premio alla lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa dei
voti. Nel 1924, sulle basi del nuovo sistema elettorale, si tennero le nuove elezioni politiche. I
fascisti raccolsero una schiacciante maggioranza. Ma il deputato Giacomo Matteotti, segretario del
partito socialista, venne rapito da una banda di squadristi fascisti, poiché pochi giorni prima aveva
denunciato in parlamento i sotterfugi del partito fascista. Era chiaro a tutti chi fosse il mandante, ma
l'unica forma di protesta fu la cosiddetta secessione dell'Aventino, cioè l'uscita dal parlamento di
tutte le opposizioni, ad eccezione dei comunisti. La crisi che seguì fu ben presto superata anche
grazie all'inerzia del re di fronte all'illegalità e all'opinione pubblica. In un discorso in parlamento
pronunciato il 3 gennaio del 1925, Mussolini annunciò la svolta autoritaria assumendosi la
responsabilità di quanto accaduto. Da quel momento le opposizioni iniziarono ad essere
sistematicamente colpite da provvedimenti giudiziari, i maggiori giornali italiani divennero
"fascistizzati". Infine, il regime fascista prese la forma di uno stato totalitario. Da questo momento
iniziarono ad essere emanate leggi che miravano a rafforzare i poteri di Mussolini, leggi che
proibivano lo sciopero, che imponevano lo scioglimento di tutti i partiti ad eccezione di quello
fascista, che istituivano un tribunale speciale per la sicurezza dello stato e che reintroducevano la
pena di morte. Muore definitivamente così lo stato liberale.
Il regime Nel 1929 la Santa Sede e il governo Italiano firmano i Patti Lateranensi (Trattato del Laterano, che
restituiva alla Chiesa il Vaticano, S. Giovanni in Laterano e Castel Gandolfo, il concordato, che
regolava le materie d’interesse reciproco come il matrimonio, l'istruzione ed il trattamento fiscale
degli organismi ecclesiastici, e la convenzione finanziaria, che prevedeva un risarcimento
pecuniario per la perdita dei possedimenti pontefici nel 1870). Questi patti furono unicamente un
sistema, per Mussolini di potersi presentare come l'artefice di una storica riconciliazione fra lo stato
e la Chiesa, e, per quest’ultima, invece, rappresentava solo il legittimo riconoscimento della propria
autorità sullo Stato ed, inoltre, era una garanzia di tutela della propria indipendenza. Negli anni '30,
dopo lo scoppio della grande crisi economica mondiale, la politica fascista fondò il sistema
corporativo, una legge che prevedeva la nascita di 22 corporazioni cioè associazioni rappresentativa
sia dei datori di lavoro che dei lavoratori, suddivise per settori produttivi che si proponeva di
impedire alla radice i conflitti di lavoro e di promuovere il massimo livello di produzione. In realtà
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il corporativismo si tradusse in vantaggio per la classe imprenditoriale. Nel 1927 si realizza la
rivalutazione della lira attraverso la "quota novanta" (ossia il valore di cambio di 90 lire per 1
sterlina). Ovviamente tutto questo si accompagnò ad una riduzione dei
salari dei lavoratori. Negli anni '30 cresce, inoltre, l'intervento statale
nell'economia fino ad arrivare a forme di dirigismo. Per ovviare al
problema economico che causava la disoccupazione, viene attuata una
politica di lavori pubblici (strade, ferrovie, edilizia….) e di bonifica di
terreni agricoli malsani ed incolti. Con l'impiego di ingenti risorse
finanziarie pubbliche, buona parte della disoccupazione poté essere
assorbita e migliaia di ettari di terreno vennero messi a cultura. Le
conseguenze della grave crisi economica che nel 1929 aveva colpito tutto
il mondo, fu risolta dal fascismo con la nascita di alcuni istituti statali:
nel 1931 fu creato L'Istituto Mobiliare Italiano (IMI), con il compito di sostituire le banche in crisi
nel sostegno alle industrie in difficoltà finanziarie, nel 1933 nacque l'Istituto per la Ricostruzione
Industriale (IRI) con il compito di salvare le industrie malate. Oltre che istituti economici, nacquero
anche istituti di previdenza sociale come l'Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale (INAIL),
l'Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI). Mussolini fece tutto questo per arrivare ad avere
un sempre maggiore livello di consenso pubblico che esplose, nel 1935, con la conquista
dell'Etiopia e la proclamazione dell'Impero. Nonostante le sanzioni economiche disposte dalla
Società delle Nazioni, la politica estera di Mussolini ebbe successo e ciò contribuì alla nascita di
una politica dell'autarchia (autosufficienza economica), che avvicinò Italia e Germania. Nel 1936
l'Italia intervenne a fianco dei nazisti tedeschi nella guerra civile Spagnola, in appoggio ai franchisti
contro la repubblica. Si posero così le basi per un'alleanza fra Mussolini ed Hitler che, nell'arco di
pochi anni avrebbe portato i due paesi alla guerra Mondiale. Una Conseguenza tragica di
quest'alleanza fu, nel 1938, l'emanazione di leggi razziali antisemite che, in sostanza proclamavano
l'esistenza di una "pura razza Italiana" d'origine ariana. Gli ebrei furono privati, poiché "razza
inferiore", di tutti i fondamentali diritti civili e politici e costretti all'esilio o all'emigrazione.
IL REGIME NAZISTA
Il termine Nazionalsocialismo, più spesso abbreviato in "nazismo", designa la dottrina politica che
dava contenuto ideologico al National Sozialistische Deutsche Arbeiterpartei (NSDAP; Partito
nazionalsocialista tedesco dei lavoratori), improntando la sua azione e, in generale, tutta la
politica interna ed estera di Adolf Hitler e del suo governo dal 1933 al 1945. I principi centrali
della dottrina nazista, per alcuni aspetti affine al fascismo italiano, erano ispirati alle teorie che
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sostenevano una presunta superiorità biologica e culturale
della razza ariana formulate da Houston Stewart Chamberlain
e da Alfred Rosenberg; ma il successo della formula politica in
Germania fu dovuto anche alla sua relazione di continuità con
la tradizione nazionalista, militarista ed espansionista
prussiana, nonché al suo radicamento nella cultura
irrazionalista di inizio secolo. L'ascesa del movimento
nazionalsocialista trasse forte impulso dallo scontento diffuso
fra i tedeschi alla fine della prima guerra mondiale. Ritenuta la principale responsabile del
conflitto, la Germania dovette infatti accettare le pesantissime condizioni del trattato di Versailles,
a causa delle quali entrò in un periodo di depressione economica, segnato da un'inarrestabile
inflazione e da una vasta disoccupazione. Finanziata dagli ambienti militari, la formazione
politica guidata da Adolf Hitler nacque nel 1920 in un paese prostrato dalla guerra e attraversato
da violenti conflitti politici e sociali. Parte dei militanti furono organizzati in una specie di braccio
armato, le SA (Sturmabteilungen, "sezioni d'assalto"), organizzato da Ernst Röhm; le SA avevano
il compito di intimidire con la violenza gli avversari politici e i sindacalisti. Hitler formulò un
programma d'azione antidemocratico, imperniato sul nazionalismo e sull'antisemitismo, e nel
1923 dotò il partito di un efficace strumento di propaganda, il quotidiano " Völkischer
Beobachter" (L'osservatore nazionale), e di un simbolo ufficiale, una croce uncinata nera, inscritta
in un cerchio bianco su campo rosso: la svastica. Nello stesso anno intensificò la propaganda e le
azioni dimostrative contro il Partito comunista tedesco, tentando infine un colpo di stato (il putsch
di Monaco) per rovesciare il governo.
L’ideologia nazista Il tentativo fallì e Hitler fu condannato a cinque anni di
carcere. Durante la detenzione, che in realtà durò meno di un
anno, scrisse la prima parte del Mein Kampf (La mia
battaglia), l'opera in cui riassunse i capisaldi dell'ideologia
nazista, tracciando il suo progetto di conquista dell'Europa. Le
fonti intellettuali di Hitler erano alquanto eterogenee e il
nazionalsocialismo si presentava così più come un
conglomerato di idee dalle matrici più disparate che come
un'ideologia organizzata e strutturata. Nel Mein Kampf le istanze nazionaliste e il progetto di una
grande Germania che radunasse tutte le genti di lingua tedesca trovavano una teorizzazione che
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ben si inseriva nel clima causato dalla disfatta della guerra: Hitler propose infatti un piano di
ampliamento del territorio nazionale, giustificandolo con la necessità di allargare il Lebensraum
("spazio vitale") per il popolo tedesco. Le altre nazioni dovevano sottomettersi alla razza ariana,
in virtù della sua conclamata superiorità, destinata com'era a regnare sul mondo intero. Nemici
degli ariani erano in primo luogo gli ebrei, responsabili del disastro economico e della diffusione
delle ideologie marxiste e liberali.
Il NSDAP al potere Una volta rilasciato, Hitler riorganizzò il partito, creò il corpo armato delle SS (Schutz-Staffeln,
"squadre di difesa"), diretto da Heinrich Himmler, e l'ufficio
di propaganda, che fu affidato a Joseph Goebbels. Nel 1929,
l'anno della grande crisi seguita al crollo di Wall Street,
buona parte dei grandi imprenditori tedeschi cominciarono a
guardare con favore a Hitler e al suo programma e ingenti
somme di denaro presero ad affluire nelle casse del partito
nazista. Appoggiato anche dalle classi medie, dai piccoli
proprietari e dai disoccupati colpiti dalla grande depressione
economica, il partito nazista conquistò la maggioranza relativa nelle elezioni del 1932. Un anno
dopo Hitler ottenne il cancellierato e, sfruttando con abilità l'episodio dell' incendio del Reichstag,
fece in modo che il presidente della Repubblica decretasse lo stato di emergenza, affidandogli
poteri straordinari. Alle successive elezioni politiche il Partito nazionalsocialista ottenne una
schiacciante vittoria; a Hitler furono quindi assicurati i pieni poteri, che egli usò per assorbire le
competenze del parlamento ed eliminare con la violenza l'opposizione. Il Partito
nazionalsocialista divenne l'unica organizzazione politica legale. Nel 1933, allo scopo di
eliminare i dissidenti, venne istituita la Geheime Staatspolizei (Polizia segreta di stato), nota come
Gestapo, svincolata da ogni controllo legale e soggetta solo al proprio comandante, Himmler.
Soppressi gli avversari politici e i diritti costituzionali e civili, il regime affrontò la crisi
occupazionale, pianificando una ristrutturazione industriale e agricola dell'intero paese, eludendo
le restrizioni del trattato di Versailles, abolendo le cooperative e ponendo le organizzazioni
sindacali sotto il controllo dello stato. Grazie al "nuovo ordine" la Germania hitleriana uscì dalla
crisi: le sorti dell'alta finanza e della grande industria nazionale furono risollevate e gradualmente
fu assorbita la disoccupazione; ma questo fu dovuto anche al lavoro creato per la preparazione di
una possente macchina da guerra, mentre veniva inaugurata una politica estera estremamente
aggressiva e brutale. Fu rimilitarizzata la Renania, si formò l'Asse Roma-Berlino (1936) e
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l'Austria venne annessa con uno spregiudicato colpo di mano (1938; Anschluss). Infine,
l'invasione della Polonia (1° settembre 1939) fu la scintilla che fece scoppiare la seconda guerra
mondiale. Nella prima fase del conflitto la Germania sembrò avere la meglio; Hitler e i suoi
uomini diedero allora il via alla cosiddetta "soluzione finale", organizzando la deportazione e
l'eliminazione di milioni di ebrei, zingari, omosessuali, malati mentali, oppositori politici.
Il Terzo Reich Il Terzo Reich rappresenta il Regime nazista instaurato da Adolf Hitler in Germania nel 1933 e
conclusosi nel 1945 con la disfatta della Germania nella seconda guerra mondiale. Negli anni
della Repubblica di Weimar (1919-1933), il sistema
democratico subì i contraccolpi delle crisi internazionali e
delle tensioni interne, accentuate dall'elevata disoccupazione e
dal peso delle riparazioni imposte alla Germania con il trattato
di Versailles dai paesi usciti vincitori dalla prima guerra
mondiale. I contrasti interni finirono col premiare il Partito
nazionalsocialista che, alle elezioni del 1932, con 230 deputati
eletti divenne il partito di maggioranza relativa. Dopo vari
tentativi di formare un governo, il 30 gennaio 1933 il presidente del Reich Von Hindenburg
nominò Hitler cancelliere. Il nazismo, salito al potere, avviò un rapido processo di trasformazione
in senso totalitario dello stato. Si allestirono campi di concentramento per rinchiudervi gli
oppositori e ridurli definitivamente al silenzio, quindi fu preso a pretesto l'episodio dell'incendio
del Reichstag, avvenuto il 27 febbraio 1933, per introdurre ulteriori misure liberticide. Fu ordinata
la carcerazione dei dirigenti dei partiti democratici e la messa al bando dei comunisti e di tutti i
partiti, compresi quelli di destra che erano stati fiancheggiatori di Hitler. A marzo Hitler esautorò
il Parlamento e assunse i pieni poteri, imponendo una dittatura personale, premessa per la totale
identificazione tra Stato e Partito nazista. Il Partito nazista, unico partito autorizzato, doveva
rappresentare il legame tra il capo (Führer) e le masse, irregimentate nelle diverse organizzazioni
naziste, quali il Fronte del lavoro, che sostituiva i disciolti sindacati, e la Gioventù hitleriana
(Hitlerjugend).
Repressione e consenso Il corpo speciale delle SS, inizialmente costituito come guardia del corpo a protezione di Hitler, e
la polizia segreta (la Gestapo) furono alcuni degli strumenti repressivi della dittatura totalitaria,
sancita formalmente nel 1934 quando Hitler proclamò la nascita del Terzo Reich. Tale definizione
sottolineava il nesso con i due precedenti imperi tedeschi, il Sacro romano impero di origine
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medievale durato fino al 1806 e l'impero istituito nel 1871 (Secondo Reich). I nazisti imposero
una politica culturale di stampo totalitario attraverso il controllo sia dei mezzi di comunicazione
di massa sia della produzione intellettuale: Joseph Goebbels, ministro della Propaganda, si
impegnò a mettere al bando le voci del dissenso. Lo stato totalitario si cementò su una scelta
ideologica che esaltava il mito biologico della "razza ariana", destinata alla supremazia su tutte le
razze "inferiori", in particolare sull'"antirazza", quella ebraica. La politica razzista fu avviata nel
1935 con le leggi di Norimberga, che privarono gli ebrei dei diritti civili, premessa per le
successive persecuzioni fisiche, culminate nell'olocausto. Ad esse seguì la “notte dei cristalli” del
1938, in cui furono devastati e requisiti tutti i beni appartenenti agli ebrei. Il regime nazista si
impose senza particolari difficoltà: le opposizioni erano state annientate con provvedimenti
repressivi e l'apparato di controllo messo in atto da Hitler risultò spietato e molto efficiente: nella
notte del 30 Giugno 1934(detta dei lunghi coltelli”), il Fuhrer ordinò l’eliminazione del capo e dei
principali dirigenti delle SA. L’operazione aveva anche l’obiettivo politico di rafforzare l’alleanza
con l’esercito. Contò inoltre il sostanziale e diffuso consenso espresso dalla società tedesca. La
spiegazione di tale fenomeno chiama in causa molteplici fattori, tra i quali la riscossa nazionale
propugnata dai nazisti e praticata con determinazione, che servì a compensare la psicologia delle
masse dalle umiliazioni conseguenti alla prima guerra mondiale; la ripresa economica, sostenuta
da un forte intervento dello Stato, che fece calare vistosamente la disoccupazione; la capacità del
nazismo di proporre miti collettivi che si richiamavano alle tradizioni secolari della cultura
tedesca; l'uso sapiente dei nuovi mezzi della propaganda, quali la radio e il cinema, nonché le
spettacolari adunate di massa e l'esaltazione carismatica del Führer, che contribuirono a cementare
l'unione tra popolo tedesco e capi nazisti. In politica estera, il Terzo Reich provvide a un generale
riarmo della Germania, che comportava innanzitutto la revisione degli equilibri europei, concepita
come parte di un disegno di espansione mondiale che prevedeva l'annientamento dell'Unione
Sovietica e degli Stati Uniti. Nel 1938 l'obiettivo tedesco di rivedere i confini in Europa passò
dalla proclamazione alla realizzazione, prima con l'annessione dell'Austria (Anschluss), poi con
l'occupazione del territorio dei Sudeti, regione della Cecoslovacchia con popolazione a
maggioranza tedesca. Queste mosse dichiaratamente aggressive furono l'elemento detonatore
della seconda guerra mondiale, che scoppiò nel settembre del 1939 con l'attacco tedesco alla
Polonia. La potenza del Terzo Reich, strettamente legato alla dittatura nazista, raggiunse l'apogeo
nel 1942, quando controllava direttamente o indirettamente gran parte dell'Europa; ma entrò in
crisi a fronte delle controffensive dei sovietici e degli angloamericani per scomparire infine nel
1945 con la sconfitta militare della Germania.
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IL REGIME STALINIANO
Stalin al potere Lenin, alla sua morte, lasciò un testamento politico, nel quale espresse le proprie perplessità sulla
persona di Stalin, sull'uso arbitrario che questi faceva del potere e sulle sue ambizioni personali che
rischiavano di scavalcare gli interessi generali del partito; lo accusò inoltre di essere "troppo rozzo"
e ne chiese l'estromissione. Con abili manovre, Stalin riuscì però a occultare il testamento. Dopo la
morte di Lenin, la guida del paese era nelle mani di una troika composta da Stalin, Zinov’ev e
Kamenev. All'interno del partito, il principale oppositore di Stalin era Lev Trotzkij che propugnava
la teoria della "rivoluzione permanente" contraria a quella staliniana della "costruzione del
socialismo in un solo paese". Le due teorie che si contrapponevano consistevano in questo:
• Rivoluzione permanente (Trotzkij): la sopravvivenza nel lungo periodo dell’URSS era legata
alla riuscita di una rivoluzione comunista a livello mondiale, guidata dai vari movimenti operai
nazionali e coordinata dall’Unione Sovietica.
• Il socialismo in un solo paese (Stalin): la prima necessità era il consolidamento dello stato
sovietico; Stalin riteneva che fosse possibile edificare il socialismo in un paese solo (l’URSS), e
che fosse necessario concentrare le forze del comunismo mondiale per rafforzare lo stato
sovietico.
Stalin si presenta come seguace fedele del pensiero di Lenin, e accusa Trotzkij, sostenendo
l’inapplicabilità della “rivoluzione permanente” e portando avanti con decisione la teoria del
“socialismo in un solo paese”. Stalin, Zinov’ev e Kamenev riescono rapidamente a esautorare
Trotzkij, il quale nel 1925 dà le dimissioni da tutte le cariche governative, pur mantenendo quelle di
partito. Nel 1926 Kamenev e Zinov’ev si erano staccati da Stalin per riavvicinarsi a Trotzkij, ma ciò
non aveva avuto effetto alcuno. Nel 1927, in occasione del congresso annuale del Partito, Trotzkij,
Kamenev e Zinov’ev vengono espulsi ed esiliati: Stalin rimane così padrone assoluto del Partito e
dell’Unione Sovietica (Trotzkij verrà poi assassinato nel 1940 in Messico).
I primi piani quinquennali Accresciuto il suo potere personale con l’eliminazione degli oppositori, Stalin potè affrontare il
problema del rafforzamento dell’Unione Sovietica con l’avvio del primo piano quinquennale (1928-
1932); Stalin diede così avvio all’industrializzazione forzata (primato dei beni strumentali su quelli
di consumo, massiccio incremento dell’industria siderurgica ed elettronica) e alla collettivizzazione
delle campagne, che prevedeva l’eliminazione dei kulaki “in quanto classe”. Gli espropri vennero
imposti con la forza dalle truppe speciali dell’NKVD (Narodnij Kommissariat Vnutrennič Del,
Commissariato del Popolo per gli Affari Interni): i kulaki vennero così espulsi dalle comunità rurali
Marco Messina Esame di s tato 2006 25
e milioni di loro morirono per la loro opposizione al regime. Le campagne cambiarono totalmente
fisionomia: a circa 2.600.000 aziende individuali si sostituirono 23.000 aziende collettive, sia
cooperative che statali. Nelle prime, i kolchoz, la terra e i prodotti erano di proprietà comune, ma i
membri del collettivo agricolo avevano a disposizione un piccolo appezzamento privato; nelle
seconde, i sovchoz, la terra era invece di proprietà dello stato. Nel 1933, alla fine del primo piano
quinquennale, si era giunti in Unione Sovietica a un enorme sviluppo dell’industria pesante e a una
diminuzione della disoccupazione, ma lo sviluppo agricolo era rimasto a livelli più modesti. Anche
il secondo piano quinquennale (1933-1937) portò a un incremento della produzione industriale,
mentre l’agricoltura, privata di milioni di lavoratori validi e travolta dalla repressione staliniana,
languiva ai margini del sistema economico. Per far capire i risultati dei piani quinquennali, basta
citare alcuni dati: tra il 1928 e il 1938, la produzione siderurgica sovietica quadruplicò, e quella del
carbone aumentò del 359%. Nel 1938 l’Unione Sovietica era la massima produttrice mondiale di
trattori agricoli e locomotive ferroviarie; i quattro quinti della produzione industriale provenivano
da stabilimenti costruiti nel decennio precedente. Nel 1938 l’URSS era superata, nel prodotto
interno industriale lordo, solo da Germania e Stati Uniti. Nonostante squilibri e carenze, la politica
dei piani quinquennali del Partito Comunista consentì una grande trasformazione della società
sovietica, non solo a livello economico, ma anche a livello sociale. Stalin voleva togliere il paese
dall’arretratezza: avvenne un enorme sviluppo dell’istruzione (la piaga dell’analfabetismo venne
sostanzialmente eliminata), e dei servizi sociali (ospedali, ospizi, asili, trasporti pubblici).
Lo stakanovismo Di pari passo al mutamento economico e sociale, avvenne anche un mutamento culturale: i nuovi
valori imposti furono quelli dell’“emulazione socialista”. In un clima di accesa competizione, i
dirigenti e i tecnici delle fabbriche furono ritenuti i diretti responsabili dell’attuazione degli obiettivi
dei piani quinquennali: essi cominciarono così a far pressione sugli operai per indurli a lavorare di
più, tramite gli incentivi e i premi personali. Il modello ideologico e di comportamento era quello
dello stakanovismo, dal nome di Aleksej Stakanov; egli era un minatore di carbone della regione del
Don, ed era considerato un lavoratore modello, poichè tutti i giorni superava lo standard di 6,5
tonnellate estratte per ogni turno di 5 ore. Il 30 agosto 1935 Stakanov lavorò senza interruzione per
tutta la notte estraendo 102 tonnellate di carbone. Si trattava del doppio di quanto produceva una
squadra di 8 minatori. Questa impresa fruttò a Stakanov un premio di 200 rubli, invece dei soliti 30.
E’ da notare come, paradossalmente, le differenze nei salari all’epoca fossero molto più alte in
Unione Sovietica che nell’occidente capitalista.
Marco Messina Esame di s tato 2006 26
Il terrore staliniano e il culto della personalità Le venature autoritarie del sistema sovietico, già presenti fin dalle sue origini, sotto Stalin emersero
chiaramente, e si arrivò negli anni ’30 ad avere un sistema dittatoriale e tirannico. Ciò che
caratterizzò le “purghe” staliniane non fu solo in gran numero di vittime, ma il fatto che esse si
rivolsero contro il cuore stesso dello stato sovietico: il partito, l’Armata Rossa e lo stesso NKVD,
che era l’apparato preposto ad esercitare il terrore. Tra il 1934 e il 1938 si scatenò un’ondata di
repressione e di terrore, che coinvolse milioni di cittadini sovietici, deportati nei gulag o giustiziati
dopo processi sommari, istituiti senza prove e strumenti di difesa per gli imputati. L’apice della
campagna del terrore si raggiunse tra il 1936 e il 1938, quando Nikolaj Jezov divenne capo
dell’NKVD: in questi due anni, vennero fucilate 680.000 persone, e moltissime altre condannate a
pene lunghissime. L’epurazione colpì uomini di cultura, funzionari di stato, dirigenti di primo piano
come Bucharin, Zinov’ev e Kamenev, eliminati perché rivali di Stalin, e moltissimi ufficiali
dell’Armata Rossa. Nel frattempo, Stalin edificava il mito di sé stesso come padre della patria
(culto della personalità) e imponeva l’adesione totale al marxismo-leninismo tra la popolazione.
IL REGIME FRANCHISTA Quando in Italia iniziò il potere del partito fascista il resto dell'Europa non guardava con sfavore il
regime di Mussolini, vedendo in lui un forte antagonista al bolscevismo sovietico e un argine contro
l'eversione. Perciò non mancarono in Europa movimenti fascisti e filo-fascisti. In Spagna, per
esempio, dopo la lunga guerra civile (1936-1939) Francisco Franco e la Falange spagnola, il suo
partito, apertamente fascista, fondò un regime cattolico e tradizionalista durato sino al 1972. Franco
riuscì a prevalere nella guerra civile, scoppiata nel Luglio del 1936, sulle truppe repubblicane agli
ordini del Fronte Popolare, che riuniva i partiti di sinistra. Quando era ancora in vita il “Caudillo”
nominò Juan Carlos I di Borbone suo legittimo erede alla guida della Spagna e il ritorno della
democrazia nel paese iberico fu pressoché indolore.
PABLO PICASSO
Vita Picasso nasce a Malaga il 25 ottobre 1881; il padre, pittore specializzato nella decorazione di sale
da pranzo, trasmette questa sua passione al figlio fin dalla più tenera età sperando di trovare in lui la
realizzazione delle sue ambizioni deluse; quando ancora non sa parlare, già disegna con il lapis
figure di piccioni. Nel 1891 la famiglia si trasferisce a La Coruňa e qui Pablo frequenta i corsi di
Marco Messina Esame di s tato 2006 27
disegno della Scuola di Belle Arti, a partire dal 1892. Pablo non è un bravo studente, non si applica
nelle attività scolastiche come nel disegno. Grazie all'aiuto del padre, a 14 anni gli è concesso di
sostenere l'esame per entrare alla Scuola di Belle Arti di Barcellona: stupisce tutti finendo in un
giorno il lavoro per cui era stato concesso un mese di tempo, dimostrando così le sue grandi abilità.
Da solo, poi, parte per Madrid per andare all'Accademia Reale e a soli 16 anni ha già sostenuto tutte
le prove della Scuola Spagnola di Belle Arti. Il padre non si stanca di incoraggiarlo, e infine gli
consegna "i suoi colori e i suoi pennelli, e non dipinse più". Se per Blaise Cendrars "l'abdicazione
del padre era pura demonologia", il critico Palau i Fabre ritiene che il professore si fosse
semplicemente reso conto di essere stato superato dal suo allievo e di non aver
più nulla da insegnargli. In questo stesso periodo il giovane Picasso rivela un
nuovo interesse: dà vita a molte riviste (realizzate in un unico esemplare) che
redige e illustra da solo, battezzandole La torre de Hercules, La Coruna, Azuly
Blanco. Nel Giugno 1895, Josè Ruiz Blasco ottiene un posto a Barcellona.
Nuovo trasferimento della famiglia: Pablo prosegue i suoi studi artistici
all'Accademia della capitale catalana. Ha perfino uno studio, in calle de la Plata,
che divide con il suo amico Manuel Pallarès. L'anno seguente porta a termine un
buon numero di paesaggi, di figure accademiche, di ritratti di sua madre, di suo
padre, di se stesso, e una grande composizione, Prima comunione, strutturata
convenzionalmente, ma caratterizzata da un fondo nero che conferisce un tono drammatico alla
scena. Questo aspetto cupo del suo carattere si manifesta in un'altra tela, Scienza e carità del 1897
(che ottiene una menzione all'Esposizione nazionale di Belle Arti di Madrid): qui, un medico è
seduto al capezzale di una malata dal volto esangue, mentre una suora tiene in braccio il bambino
della donna e le porge una tazza. In questi anni, Pablo si è dimostrato uno studente molto saggio e
rispettoso. Suo padre accarezza l'idea di mandarlo a Monaco perché "è una città dove si studia
seriamente la pittura senza occuparsi delle mode come il "Pointillisme" e tutto il resto". Ma,
impercettibilmente, lo stile dell'allievo diligente comincia a sbrigliarsi e a diventare via via più
libero; ed è proprio in questo periodo che adotta anche il nome di sua madre come nome d'arte. Egli
stesso spiegherà questa decisione, dichiarando che "i miei amici di Barcellona mi chiamavano
Picasso perché questo nome era più strano, più sonoro di Ruiz. E’ probabilmente per questa ragione
che l'ho adottato". Ma in realtà è anche una decisione che sottolinea il conflitto sempre più grave tra
padre e figlio (preferisce andare a Madrid invece che a Monaco), una decisione che pone l’accento
sul vincolo d'affetto nei confronti di sua madre, dalla quale ha preso molto. Tuttavia, anche se il
fossato che lo separa dal padre diventa sempre più profondo man mano che questi cede
irrimediabilmente alla nevrastenia, non è men vero che Picasso continua a vederlo come modello.
Marco Messina Esame di s tato 2006 28
Dopo un periodo di malattia e di convalescenza trascorsa presso i genitori di Pallarès a Horta de
Ebro, Picasso ritorna a Barcellona e comincia ad elaborare un nuovo genere di opere. Sono gli
ultimi anni dell'Ottocento, sta per iniziare il nuovo secolo. E già Picasso volta le spalle alle
convenzioni, ma non attua ancora una rottura radicale con il clima estetico del suo tempo. Quella
che egli inizia in questo momento è soprattutto una lunga ricerca della propria identità. Picasso
lavora con furore. Le tele, gli acquerelli, i disegni a carboncino e a matita che escono dal suo studio
di Barcellona in questi anni sorprendono per il loro eclettismo. Si ha l'impressione che attinga da
ogni parte, con una curiosità insaziabile. E’ attento in particolare al simbolismo e al decadentismo,
predominanti negli ambienti colti della sua città sotto l'etichetta del "Modernismo". Un evento
importante, a questo proposito, era stata l'inaugurazione del cabaret "Els Quatre Gats", nel giugno
del 1897. Qui si riunisce in questi anni tutta l'intellighenzia catalana, intorno a Père Romeu, che era
stato socio di Robert Salis alla "Taverne du Chat-Noir" a Parigi, e Miguel Utrillo, vissuto anche lui
a Montmartre. E qui, in particolare, è il tumultuoso punto d'incontro del movimento modernista.
Picasso, non ancora ventenne, lo frequenta assiduamente, vi trascorre lunghe serate a chiacchierare
ed ha modo di vedere la prima mostra di gruppo che vi viene organizzata (sono opere di Casas,
Rusinol, Utrillo, Nonell, Mir, Torent). Come tutti, egli da un lato subisce l'influenza dell’Aesthetic
Movement inglese ; dall'altro dipinge opere che si ispirano ad artisti come Edvard Munch. Così, in
Passeggiata lungo il mare, il gioco cromatico, violento e contrastato, prevale sulla definizione
lineare della figura in piedi; in La sorella dell'artista, pur conservando la stessa attenzione
all'intensità cromatica e al dissolvimento dello spazio, Picasso esalta le sfumature di colore sottili e
vibranti, che derivano soprattutto dall'arte francese dell'Ottocento, e da quella di Auguste Renoir in
particolare. Al contrario, quando si osserva Picador e valletto d'arena, i tratti neri e marcati che
schematizzano le sagome dei due uomini e del loro cavallo appartengono a tutto un altro registro. Il
pittore si orienta sempre di più verso un pathos, creato da contrasti di toni molto netti, e verso
l'espressione di sentimenti forti e patetici per mezzo del puro trattamento plastico. Ne sono
testimonianza la straziante Donna con scialle, cominciata nel 1899, o il suggestivo Ritratto di Lola,
sua sorella. E’ nella sala delle rappresentazioni teatrali di "Els Quatre Gats" che Picasso allestisce la
sua prima mostra personale, inaugurata il primo febbraio 1900. Proprio qui Picasso conosce Casas,
attraverso il quale viene a conoscenza del postimpressionismo francese nell'interpretazione dei
peintres de la vie moderne, che caricavano l'indagine sociale di un’accentuazione espressionistica.
Tale influsso è evidente, dopo le primissime prove accademiche di gusto realistico, nelle opere
dipinte a Parigi, Madrid e Barcellona nel 1900-1901, improntate ad un violento cromatismo e ad
una tecnica parzialmente divisionista. In questa prima esposizione, i suoi amici vogliono fare di lui
il campione della nuova generazione catalana. Picasso espone essenzialmente disegni, molti dei
Marco Messina Esame di s tato 2006 29
quali sono ritratti di amici. L'unica tela in mostra raffigura un prete che assiste una donna morente.
La mostra piace e si vendono molte opere su carta. Nel 1901 dopo un’estate passata con un amico a
Horta de San Juan nelle campagne spagnole Picasso vorrebbe andare a Londra per vedere i pittori
preraffaelliti che ammira. Invece si reca a Parigi in compagnia di Carlos Casagemas e Manuel
Pallarès. Si stabilisce a Montmartre, ospite del pittore barcellonese Isidro Nonell, e incontra molti
dei suoi compatrioti tra i quali Pedro Manyac, un mercante di quadri che gli offre 150 franchi al
mese in cambio della sua produzione: una somma discreta che gli permette di vivere senza troppe
preoccupazioni. Il clima parigino, e più specificamente quello di Montmartre, ha una profonda
influenza su di lui. Picasso capisce l'importanza di Toulouse-Lautrec: se ne vede l'influenza già
nella prima opera concepita nel suo studio di rue Gabrielle, il Moulin de la Galette. In questa tela,
come in L'abbraccio, Nella loggia, Finestra, vengono rappresentate scene di vita notturna e
cittadina, dove l'oscurità della composizione è animata da colori vivaci. Alla fine dello stesso anno,
Picasso torna in Spagna forte di quest’esperienza. Soggiorna a Malaga, poi trascorre qualche mese a
Madrid, dove collabora alla realizzazione di una nuova rivista, Artejoven, pubblicata dal catalano
Francisco de Asis Soler (Picasso illustra quasi interamente il primo numero con scene caricaturali di
vita notturna). Nel febbraio del 1901 riceve però una terribile notizia: l'amico Casagemas si è
suicidato per un dispiacere d'amore. L'evento colpisce profondamente Picasso e segnerà a lungo la
sua vita e la sua arte. Riparte per Parigi: questa volta vi torna per allestire una mostra presso
l'influente mercante Ambroise Vollard. A Parigi conosce Max Jacob e, dopo essere stato attratto dal
simbolismo, inizia quello che fu chiamato il "periodo blu", dipingendo prevalentemente esseri
miserabili, immersi in un'atmosfera di desolazione e sintetizzati da un linearismo alla Gauguin,
mentre la struttura plastico-cromatica rivela una prima attenta meditazione dell'opera di Cézanne,
ma anche richiami alla grande tradizione spagnola, dal Greco a Velázquez. Picasso quasi
interponendo un filtro fra sé e il mondo, vede tutto blu. La scelta del colore é tutt'altro che casuale;
esprime, anzi, un sentimento preciso, peculiare. Per Picasso il blu non è l'infinito, il sovrasensibile,
ma è un colore freddo, malinconico, statico, attraverso il quale il pittore esprime la tristezza
sconsolata e senza speranza dei personaggi che rappresenta e verso i quali rivolge l'attenzione
coerentemente con la propria ideologia politica: mendicanti, ciechi, girovaghi, tutti gli emarginati
della società. Il blu corregge, accentua, attenua, capovolge ciò che il soggetto del quadro dichiara.
Picasso attribuisce al blu una dimensione sacra; il suo guardare in faccia la miseria, la sofferenza e
la morte è sublimato dal blu, colore appunto sublimato e spietato. Alla monocromia si aggiunge
l'allungarsi delle figure e la netta decisione della linea di contorno che le racchiude e ne sintetizza la
forma. Questa tecnica va ad eliminare ogni rapporto con il languido intimismo "decadente" e
contraddice l'uso negativo della parola populismo per indicare una tendenza superficiale verso il
Marco Messina Esame di s tato 2006 30
popolo. Qui si tratta di un'autentica e sofferta partecipazione dell'artista al dramma esistenziale
dell'uomo. Il blu é il colore della notte, del mare, del cielo; é profondo e freddo, in armonia con il
pessimismo, la miseria e la disperazione. Il
cosiddetto “Periodo Blu” di Picasso è
caratterizzato, inoltre, dal pathos delle
figure, espressioni di una tragica condizione
sociale e umana, che è accentuato dal
disegno stilizzato e pungente e dal
monocromo blu che definisce duramente i
volumi, eliminando ogni spunto
naturalistico ed impressionistico. Stabilitosi
definitivamente a Parigi nel 1904, nel
Bateau-Lavoir, conosce Apollinaire e si
unisce a Fernande Olivier. Inizia qui il
"periodo rosa", con scene di saltimbanchi
(Famiglia d'acrobati, 1905, Göteborg,
Konstmuseum), in cui una forte accentuazione
classicistici (Donna col ventaglio, 1905, New York, Collezione Whitney; Due fratelli, 1906,
Basilea, Museo di belle arti). Fondamentale fu il ritorno in Spagna, a Gósol, nell'estate del 1906:
colpito dalle deformazioni espressive dell'arte romanica e gotica catalana, fu tratto, forse su
indicazione di Matisse, a meditare sulla sintesi espressiva, per rottura e incastro di piani, propria
simbolica viene tradotta in termini o arcaizzanti o
della scultura africana; e, dopo una lunga serie di prove, di rielaborazi oni, di studi parziali, giunse
alla creazione delle Demoiselles d’Avignon (dal nome del quartiere delle prostitute di Barcellona),
opera fondamentale nella storia del cubismo, che unisce soluzioni cromatiche e formali di tipo
arcaizzante dell'estremo "periodo rosa" alla definitiva rottura della rappresentazione tradizionale
dello spazio tridimensionale, che non era stata incrinata nemmeno dalla violenza cromatica dei
fauves. In questo dipinto si nota un sincretismo artistico di straordinaria originalità: il soggetto è
ripreso dalle Bagnanti di Cézanne, ma in Picasso si mescolano l'orribile umano e il delizioso, il
primitivo e il delicato, senza lasciar posto alla vena idillica di Cézanne o a simili elementi esornativi.
In questo quadro riconosciamo subito quella libertà di espressione tipica di Pablo, scevra da
qualsiasi convenzione accademica, indifferente all'unità di stile. Sempre ne Les Demoiselles
d'Avignon è evidente l'ispirazione primitiva nata dall'incontro con l'arte africana avvenuto quando
già l'opera era in atto. Come quasi tutte le opere piú significative di Picasso, questo dipinto è una
somma di consapevoli incoerenze, ma per questo grande artista il "finito" non può produrre che il
Marco Messina Esame di s tato 2006 31
"nulla"; solo il disordine è dotato di fascino spontaneo e vitale, al contrario della perfezione formale
che rende tutto statico e privo di vita. Il dinamismo del suo animo è il riflesso del continuo fluire del
vivere, ed è proprio per questo che parallelamente ad opere cubiste Picasso continuerà a dipingere
soggetti di ispirazione neoclassica e naturalista. Convivono in lui due tendenze mai risolte: una lo
porta a una gioiosa concezione decorativa; l'altra, piú rigida, mira invece alla realizzazione del
volume. I segni di un conflitto profondo li possiamo notare in tutte le opere di Picasso e anche
quando dipingerà le sue nature morte con forme cubiste, egli non rinuncerà a ritornare a forme
tipiche del naturalismo classico, in cui predominano armonia ed equilibrio compositivo. Per Picasso
non c'è antagonismo tra i due stili, poiché per rappresentare la realtà non ci potrà mai essere una
maniera unica e statica; gli stili devono essere multiformi, se l'artista vuole interpretare la realtà. Dal
1907 al 1909 Picasso, partendo dalla lezione di Cézanne, svolse il suo lavoro di ristrutturazione e
spiegamento bidimensionale delle superfici plastiche fondamentali in nudi maschili e femminili,
nature morte, paesaggi, e attrasse nella propria orbita, oltre a Braque, anche Dufy e Derain. La
seconda fase cubista, iniziata fra la primavera e l'autunno 1909 e destinata a protrarsi, in stretto
sodalizio con Braque, fino al 1914, fu preannunciata dall'accentuata scomposizione dei piani e
dall'incupirsi del colore ed esplose nell'inverno-primavera 1909-1910 con la grande serie dei Ritratti
di Vollard, Uhde, Kahnweiler e dei Nudi seduti. La frantumazione prismatica, quasi a minuti
cristalli verdastri-grigi-bruni, dell'immagine plastica giunge quasi all'astrazione, portando alle
conseguenze estreme il rifiuto della convenzione di "natura".
Ritratto di Ambrosie Vollard to di Ambroise Vollard, dipinto nell’inverno 1909-10, Il ritrat
pur essendo eseguito con rigoroso criterio cubista, è
straordinariamente somigliante. Vollard stesso riferisce che,
sebbene molti a quel tempo non lo riconoscessero, il figlio di
quattro anni di un suo amico, vedendo il quadro per la prima
volta, disse senza esitare: «È Vollard». Il naso camuso e l’alta
fronte calva a cupola del mercante di quadri si staccano, in toni
caldi, dalla grigia monocromia e dai continui ritmi angolari
regolari dello sfondo. All’interno del complesso elaborato di
sfaccettature, Vollard è seduto frontalmente e alle sue spalle si
scorgono, a sinistra, un tavolo con sopra una bottiglia e, a
destra, un libro in piedi. Pur contenendo accenti molto forti, il
dipinto non presenta in nessuna delle sue parti fratture o vuoti
Marco Messina Esame di s tato 2006 32
difficilmente risolvibili. La superficie cristallina del quadro è ininterrotta. Particolare curioso:
vicino al bottone centrale della giacca si scorge un fazzoletto nel taschino. Paragonato al ritratto che
Cézanne fece a Vollard, mostra gli evidenti progressi che Picasso ha compiuto sulla medesima linea.
Ritratto di Kahnweiler Il ritratto di Kahnweiler è uno dei migliori esempi dello stile cui è
Picasso torna al motivo già trattato da Cézanne e da lui stesso. I
materica delle sovrapposizion
stato dato il nome di cubismo analitico. Il desiderio di penetrare
nella natura della forma, di comprendere lo spazio che essa occupa
e lo spazio in cui è situata, ha dato luogo ad un’analisi rigorosa in
cui i contorni familiari della superficie hanno tutti perduto
simultaneamente la loro abituale opacità. Il velo dell’aspetto
esteriore è stato sottoposto ad un processo di cristallizzazione che
lo ha reso più trasparente. Ogni sfaccettatura è posta a spigolo così
da consentirci di valutare i volumi che stanno sotto la superficie.
Invece di essere invitati ad accarezzare con lo sguardo un liscio
involucro esterno, ci viene offerta una trasparente costruzione a
favo d’ape in cui superficie e profondità sono entrambe visibili.
Donna con ventaglio
verdi, gli ocra e i rossi scuri si accordano perfettamente nel creare
una composizione di altissimo livello. Lo spazio appare
accuratamente calcolato e strutturato. Le curve si integrano con i
piani per rendere corposamente il volume. Le ombre sono indicate
da tinte piatte. Le pieghe del ventaglio corrispondono
all’articolazione stessa del nuovo spazio. Il discorso artistico di
Picasso proseguì, in comune con Braque e dal 1911 con Gris, con
la lunga serie di nature morte di oggetti d'uso e di figure con
strumenti musicali. L'immissione nel contesto di lettere
tipografiche e l'impiego di tecniche nuove (sabbiature) prepararono
l'assunzione, dal 1912, del papier collé come obiettivazione
i ritmiche di piani-colore e, parallelamente, come ulteriore
proposizione polemica contro il concetto tradizionale della tecnica pittorica. L'assoluta libertà
raggiunta nei confronti della "materia" nel senso più ampio e forse qualche interscambio con
Matisse e Severini lo portarono dal 1913 a una rinnovata ricchezza decorativa di piani cromatici.
Marco Messina Esame di s tato 2006 33
Biograficamente ciò corrispose alla nuova, felice stagione mediterranea vissuta con la nuova
compagna Marcelle Humbert (Eva). La morte di quest'ultima, nel 1916, gettò Picasso in una
profonda crisi.
Donna in camicia in poltrona grande tela della Donna in camicia si accende dei toni Pur appartenendo al cubismo analitico, la
ocra e porpora, che risaltano sulla grigia tavolozza di questo
periodo. E' uno degli esempi più forti, più potenti di "arte
fantastica". Al di là di nuove inquietanti relazioni tra astrazione e
sensualità, tra rigide forme geometriche e morbide suggestioni
organiche, rimane l'impianto compositivo che ruota attorno al
solido pilastro centrale con una specie di movimento avvolgente del
volume del corpo, simile a quello di un uovo, su cui spiccano i seni,
i capelli, le costole, le pieghe della camicia. Lo schema mette in
evidenza la ricerca delle forme essenziali racchiuse in una struttura
grandiosamente architettonica. Come spesso accade nella "visione"
cubista, la donna è vista e inquadrata di fronte e di lato
contemporaneamente. Pur nell'astrazione della nuova sintesi formale
femminile sono evocati con particolare realismo. Accanto al triangolo del volto, Picasso dispone il
motivo ondulato dei capelli; il seno, in una visione contemporanea frontale e laterale, è reso con
bravura e ironia, quasi a smorzare l'erotismo della composizione; non rinuncia invece, Picasso, alla
seduzione delle pieghe morbide della camicia rifinita con l'orlo a merli. L'anno dopo compì un
viaggio a Roma, Napoli, Pompei con Cocteau, Diaghilev e Stravinskij per l'allestimento
scenografico del balletto Parade di Satie. In seguito conobbe e sposò Olga Khoklova, da cui nel
1921 ebbe il figlio Paulo. Fu una parentesi "reazionaria": la ripresa di forme del "periodo rosa"
preannunciò la fase del "ritorno all'ordine" neoclassico, in cui però la pesante espansione delle
forme plastiche e il dinamismo delle membra conservano una carica di espressività polemica di cui
sono assolutamente prive le innumerevoli imitazioni. Nei nuovi soggetti del periodo rosa, tuttavia,
si coglie una struggente malinconia che li imparenta con i poveri del periodo blu. Il gusto del
"gioco" è chiaramente dimostrato dai paralleli stupendi ritorni, sia pure con una vaga patina
spaziale-naturalistica, agli incastri cromatici dell'ultima fase cubista, 1913-1916, culminanti nei Tre
musici e nelle Nature morte con strumenti, posteriori al 1921.
I tre musici
, alcuni elementi della figura
Marco Messina Esame di s tato 2006 34
È il capolavoro del cubismo sintetico, l’opera che riassume e condensa l’iter di creazioni,
innovazioni ed esperienze personali che hanno impegnato nel periodo cubista. Costituisce inoltre
una vera e propria ricapitolazione degli anni e del lavoro compiuto nell’ambito della scenografia
teatrale. Ne esistono due versioni simultanee ed è significativo il fatto che non si conoscano studi
preparatori. I numerosi disegni, bozzetti e tutte le innumerevoli esperienze di decoratore teatrale,
che hanno caratterizzato l’attività di
Picasso negli ultimi cinque anni, sono
la base da cui si sviluppano le due
eccezionali composizioni. Tre figure
della commedia – Pulcinella,
Arlecchino e un monaco -, maestose,
ieratiche e monumentali, sono disposte
del tutto frontalmente dietro un
tavolino, al di sotto del quale si trova
pure un curioso motivo plastico, un
fantasmagorico cane, come del resto
appare spesso nelle opere di questi
anni. Dal cubismo sintetico sono
desunti la tecnica vigorosa, il linguaggio semplificato, essenziale, la schematicità delle forme
geometriche, la resa delle grandi e semplici superfici piatte, che denunciano l’origine del papier
collé, e articolano e strutturano architettonicamente il dipinto. Ma le piatte forme colorate sono
divenuti elementi figurativi: la loro disposizione è strutturata in modo da renderle immediatamente
leggibili a chiunque. La chiarezza formale si accomuna alla ricchezza cromatica, sottilmente variata
e caratterizzata dall’intenso uso dei colori primari. Vive e brillanti, le tinte dei costumi accentuano il
carattere misterioso e spettrale dei personaggi, distaccandoli dal fondo bruno. Il modo di trattare lo
spazio è del tutto particolare. Le figure sono disposte in assoluta frontalità ”iconica”, ogni
illusionismo spaziale è bandito, ma la profondità di quello che pare essere un ambiente è resa
attraverso un’indicazione puramente schematica di spazio, quasi in proiezione ortogonale,
determinata dagli angoli, dipinti in tonalità diverse di bruno, del pavimento, delle pareti e del
soffitto. La linea dell’orizzonte sulla sinistra è, però, più alta che a destra.
Nature morte con strumenti In questo periodo Picasso visse d'estate sulla Costa Azzurra, soprattutto a Juan-les-Pins; conobbe e
aiutò Mirò. La Danse del 1925 segnò l'abbandono di ogni illusione classicistica, il ritorno a una
Marco Messina Esame di s tato 2006 35
violenta deformazione espressiva, del tutto libera, però, dallo strutturalismo programmatico del
cubismo "storico". Formalmente, divenne sempre più complesso e ricco il rapporto fra piani spaziali
e grafia continua in superficie. I sempre più frequenti contatti con il gruppo surrealista parigino si
tradussero, dal 1928 in poi ("periodo di Dinard"), nella violenta sublimazione erotica delle
immagini e intrecci di membra femminili, visti in chiave di simbolo fallico. Indice di tale
orientamento furono le prime grandi serie grafiche. In un crescendo mitico, alle donne-fallo si
aggiunsero dopo il 1930 i simboli del toro e del Minotauro, mentre aumentava la programmatica
violenza strutturale e cromatica esercitata sulla figura umana. Nel 1934 Picasso ruppe con la moglie,
in seguito a un precedente rapporto con Marie-Thérèse Walter. Nel 1935 nacque la figlia Maïa.
Dello stesso anno è l'incontro con Dora Maar. Alla crescente violenza drammatica del pittore
sembrò dare giustificazione a posteriori lo scoppio della guerra di Spagna nel 1936. Già aderente
alle istanze di sinistra dei surrealisti, Picasso si mise appassionatamente al servizio del governo
repubblicano, curò la protezione e lo sfollamento da Madrid dei capolavori del Prado. Picasso, cui
era stato chiesto un pannello decorativo per il padiglione spagnolo alla grande esposizione parigina
del 1937, dopo il feroce bombardamento della cittadina basca, con una decisa presa di posizione
politica e umana, trae spunto dall’evento
per creare un opera universale, emblema
di tutte le tragedie della guerra,
sicuramente il più noto dei suoi dipinti:
Guernica. Ancora in fase di lavorazione,
Picasso dichiara alla stampa anglosassone:
"Nel dipinto a cui sto lavorando e che si
intitolerà Guernica, e in tutte le mie opere
recenti, esprimo chiaramente il mio odio
per la casta militare che ha fatto
naufragare la Spagna in un oceano di
dolore e di morte". I due disegni
preparatori a Guernica, i primi in ordine di tempo tra i numerosi eseguiti da Picasso tra il primo
maggio e il sei giugno 1937, presentano le figure chiave della composizione finale: il toro immobile,
maestosa immagine di violenza brutale, il cavallo sventrato e urlante, figurazione del popolo, la
donna con la lampada, tutte immagini simboliche più volte interpretate dalla critica, ma delle quali
Picasso non amava dare spiegazioni. Un dipinto che, nonostante la sua portata politica, non piace ai
dirigenti repubblicani spagnoli che lo giudicano "antisociale, ridicolo e del tutto inadeguato alla
sana mentalità del proletariato". C’è addirittura un momento in cui si pensa di ritirare il quadro dal
Marco Messina Esame di s tato 2006 36
padiglione espositivo e lo stesso Louis Aragon, amico di Picasso e comunista da lunga data, aveva
qualche perplessità sull’opera. Nonostante le critiche, Guernica viene portata "in tournée" a
beneficio della Spagna repubblicana, ed esposto prima a Londra, poi in Scandinavia ed infine a
New York, dove rimane fino alla morte del generale Franco per volontà dello stesso artista, che lo
destinava alla Spagna solo nel momento in cui questa avesse ritrovato la libertà democratica. Le fasi
di realizzazione del dipinto vengono documentate da una serie di fotografie di Dora Maar, una delle
quali esposte in mostra. Picasso, che da Parigi segue con grande partecipazione ogni fase della
guerra di Spagna, da lui stesso definita "una battaglia della reazione contro il popolo, contro la
libertà", lui che afferma che tutta la sua "vita d’artista non era stata che una lotta continua contro la
reazione e la morte dell’arte", come atto d’accusa in parole e in immagini ha già inciso nel gennaio
1937, prima della realizzazione di Guernica, compone le due acqueforti Sogno e menzogna di
Franco, grottesche e cariche di simboli, riallacciandosi così all’opera di Goya. Franco, instauratore
di una dittatura militare, è la Bestia, l’incarnazione di tutti i mali, il Demonio contro cui si batte il
toro, qui immagine potente del popolo spagnolo, mentre una donna urlante, la Spagna, abbandona la
propria casa invocando aiuto. Tutte immagini che, delineatisi qui per la prima volta, sfoceranno
proprio in Guernica.La violenza ormai crudele esercitata sulle figure femminili (le "donne-mostro"),
anche della Maar e della figlia Maïa, e sulle cupe nature morte, con i frequenti simboli funerei del
cranio e del bucranio, e che dà toni tragici anche al capolavoro della Pesca notturna ad Antibes,
collega le opere fino al 1945 alla realtà europea, con singolari tangenze con le ultime opere di Klee,
che Picasso aveva visitato in Svizzera nel 1937. L'attività fino al 1945 e poco oltre è l'ultima a
incidere realmente sulla cultura pittorica europea, dando origine al neocubismo dell'immediato
dopoguerra. Da allora, al prevalere di nuove istanze culturali di origine diversa dall'avanguardia
cubista, corrisponde da parte di Picasso un definitivo ritorno al "gioco", quasi simbolo di una
conclamata perdurante vitalità fisica. Con una produttività eccezionale, Picasso riprende
vorticosamente tutte le sue "maniere", aggiungendovi un nuovo senso sontuoso, quasi barocco,
della pasta cromatica e dell'intreccio formale, che ha forse i suoi risultati migliori negli interni delle
sue successive residenze, la villa Californie a Cannes e il castello di Vauvenargues. Tipico di
questo gioco, fra orgoglioso e autoironizzante, è il gusto di sfida insito nelle grandi serie di
"variazioni" su celebri capolavori di Courbet (Damigelle sulle rive della Senna), Delacroix (Donne
d'Algeri; 15 versioni, 1954-1955), Velázquez (Las Meniñas; 44 versioni, 1957), Manet (Le déjeuner
sur l'herbe, 1960), in cui ancor vive robustamente la fondamentale vocazione dissacrante dell'artista.
Morì a Mougins, l’ 8 aprile del 1973 per un attacco cardiaco.
Marco Messina Esame di s tato 2006 37
JAMES JOYCE Life and main works James Joyce is the most famous cosmopolitan European Irish writer. He
was born in Dublin in 1882. he was educated at Jesuit schools. Here he
studied Italian, French and German languages. Joyce believed that the
only way to increase Ireland’s awareness was by offering a realistic
portrait of its life from a European viewpoint. In June 1904 he met and
fell in love with Nora Barnacle. They had their first date on 16th June,
which was to become the “Bloomsday” of Ulysses. In October he
proposed to Nora that they should leave Ireland. They moved to Italy,
settling in Trieste where Joyce began teaching English and made friends
with Italo Svevo. The years in Trieste were difficult, filled with finalcial problems. In 1914 Joyce
wrote most of his naturalistic drama Exile, and in the following year he moved to Zurich together
with his family, since his position as a British national in Austrian-occupied Trieste left him no
alternative.Althougn Dubliners and A portrait had helped establish him as writer, they had done
little to alleviate his financial difficulties. Joyce returned to Trieste after the war, but in 1920 he
settled in Paris. Ulysses was published in book form in Paris in 1922. In March 1923 he began to
work on what was eventually to be published as Finnegans Wake in 1939.By that time Hitler’s
advances in Europe and the Joyces sought refuge in Vichy and finally got permission to return to
Zurich in December 1940. A month later Joyce was taken ill, and died of peritonitis on 13th January
1941.
Dubliners
Joyce’s intention in writing Dubliners, in his own words was to write a chapter of the moral history
of his country, and he chose Dublin for the scene because that city seemed to him the centre of
paralysis. He tried to present it to the indifferent public under four of its aspects: childhood,
adolescence, maturity and public life. The Sisters, An Encounter and Araby are stories from
childhood. Eveline, After the Race, Two Gallants and The Boarding House are stories from
adolescence. A Little Cloud, Counterparts, Clay and A Painful Case are all stories concerned with
mature life. Stories from public life are Ivy Day in the Committee Room, A Mother and Grace. The
Dead is the last story in the collection and probably Joyce’s greatest. It stands alone and, as the title
would indicate, is concerned with death. Dubliners is a collection of vignettes of Dublin life at the
end of the 19th Century written, by Joyce’s own admission, for the most part in a style of
Marco Messina Esame di s tato 2006 38
scrupulous meanness. What hold all these stories together is a particular structure and the presence
of a certain themes , symbols and narrative technique. In each story the
description is naturalistic, extremely concise but detailed. Such detail
have a further, deeper meaning. The stories incorporate epiphanies, that
is the sudden spiritual manifestation caused by trivial situation, of the
character’s self-realisation. The theme is: moral, culture, physical and
politics paralysis of Dublin. The main themes are the failure to find a
way out of paralysis; escape, which is the opposite of paralysis, linked
to its consequent failure; typical authority Irish man, who didn’t
consider the autonomy of women; music, that is important to active the
process of epiphany; ospitality, that is a Dubliners standard; love and
marriage that gave no stability to escape. Joyce also attacks the catholic Church because was
responsible of the spiritual death of Dubliners. The omniscient narrator and the single point of view
are rejected: each story is told from the prospective of a character. The linguistic register is varied,
since the language used in all the stories suit the age and the social class of the characters.
A Portrait of the Artist as a Young Man Is the work of transition. It was the first time that Joyce use the modern narrative technique like the
interior monologue. The indefinite article “A” means that this novel had many interpretations.This
novel dealt with the growth of the personality of the main character, Stephen Dedalus. He stands for
Joyce himself and for the artist in general both in A Portrait and Ulysses. Stephen’s name is taken
from the religion: he is the first Christian martyr. In fact the artist is a martyr: his task is to report
the reality without his personal responds in order to reach the neutrality of art. Joyce travels through
Stephen’s mind and soul allowing us to experience his mental and spiritual development whilst
witnessing the physical changes he goes through as he matures. Joyce as part of the early twentieth
century modernist movement was involved in reinterpreting the form of the traditional novel as plot
driven narrative. By rejecting traditional narrative form in A Portrait, Joyce moved towards
internalising the action within Stephen’s mind; a movement from narrative driven plot to
internalised rhythmic moods. In A Portrait of the Artist as a Young Man what happens inside
Stephen’s head is actually more important than what happens in the physical world. The other
characters in the novel exist to further display Stephen’s character and its development in relation to
their own singular lack of artistic awareness. As Stephen gets older and more introspective the other
characters become less well defined. We get quite detailed snippets on his mother, father and
siblings that are more telling in their brevity than in their detail. This novel is a work of highly
Marco Messina Esame di s tato 2006 39
polished precision writing, lyrical and poetic in its observations of both poverty and intellectual
reverie. In this novel, some glimpses of Joyce's later techniques are evident, in the use of interior
monologue and in the concern with the psychic rather than external reality.
Ulysses In 1906, as he was completing work on Dubliners, Joyce considered adding another story featuring
a Jewish advertising canvasser called Leopold Bloom under the title Ulysses. 1922 was a key year
in the history of English-language literary modernism, with the appearance of both Ulysses and T. S.
Eliot's poem, The Waste Land. In Ulysses, Joyce employs stream of consciousness, parody,
cinematic technique, jokes, and virtually every other literary technique to present his characters
(“collage technique”). In the Ulysses Joyce brought to perfection the interior monologue. The action
of the novel, which takes place in a single day, June 16 1904, sets the characters and incidents of the
Odyssey of Homer in modern Dublin and represents Odysseus, Penelope and Telemachus in the
characters of Leopold Bloom, his wife Molly Bloom and Stephen Dedalus. They represent two
aspects of human nature. Stephen is pure intellect and embodies the alienated artist; Mrs Bloom
stands for flesh, since she identifies herself with her sensual nature; mr Bloom, uniting the extremes,
is everybody. The book explores various areas of Dublin life, dwelling on its squalor and monotony.
Nevertheless, the book is also an affectionately detailed study of the city, and Joyce claimed that if
Dublin were to be destroyed in some catastrophe it could be rebuilt, brick by brick, using his work
as a model. Consequently, Dublin becomes itself a character in this novel. The novel is divided into
three parts, “Telemachiad”, “Odyssey” and “Nostos” imitating the three parts of the Homer’s
Odyssey. The book consists of 18 chapters, each covering roughly one hour of the day, beginning
around about 8 a.m. and ending sometime after 2 a.m. the following morning. Each of the 18
chapters of the novel employs its own literary style. Each chapter also refers to a specific episode in
Homer's Odyssey and has a specific colour, art or science and bodily organ associated with it. This
combination of kaleidoscopic writing with an extreme formal, schematic structure represents one of
the book's major contributions to the development of 20th century modernist literature. The use of
classical mythology as a framework for his book and the near-obsessive focus on external detail in a
book in which much of the significant action is happening inside the minds of the characters are
others. Nevertheless, Joyce complained that, "I may have oversystematised Ulysses," and played
down the mythic correspondences by eliminating the chapter titles that had been taken from Homer.
Joyce’s Ulysses was a new form of prose based on “the mythical method”, resulting from the
progress made by psychology, ethnology and anthropology. Homer’s myth was used to express the
universal in the particular. Joyce, in Ulysses, brought together the contemporary opposing
Marco Messina Esame di s tato 2006 40
tendencies of realism and symbolism and was able to create a new form of realism. The language
used is rich in puns, contrasts and paradoxes.
Poetry: Chamber Music Chamber Music is a collection of thirty-six poems, all accessible to the Joycean novice. Chamber
Music is essentially a collection of love poems written in different styles. Joyce wrote many other
poems such as ‘Gas From a Burner’ and ‘The Holy Office’, both polemical attacks on Irish society.
Among his other renowned poetical works is ‘Ecce Puer’, a poem dealing with the death of his
father John Stanislaus Joyce and the birth of his grandson, Stephen Joyce.
ExileJoyce, heavily influenced by the dramatic writing of Henrik Ibsen wrote his own theatrical work
Exiles in 1914 after the completion of A Portrait of the Artist as a Young Man and just before
beginning Ulysses. The play is set in the Dublin of 1912 and the plot revolves round the character of
Richard Rowan and his intellectual dilemmas as to whether he should settle down in Ireland as a
lecturer in Romance Languages trying to europeanise Ireland or flee the net as Joyce himself did.
There is a fear that if he decides to stay it will leave him in a state of paralysis and bitterness and at
the play’s end we do not find a resolution, only a deep longing for love and understanding on the
part of Bertha, Richard’s wife and a deep weariness on the part of Richard himself. The play has
much autobiographical information relating to Joyce’s early experiences of exile in Europe which is
of interest. One also gets an insight into Joyce’s preoccupation with jealousy and betrayal in love.
However, as a piece of theatre, Exile has never been a major success.
PUBLIO CORNELIO TACITO Vita Origini nobili. Molto incerti e lacunosi sono i dati biografici di Tacito: nacque probabilmente nella
Gallia Narbonese da una famiglia ricca e molto influente, di rango equestre. Studiò a Roma
(frequentò probabilmente anche la scuola di Quintiliano), acquistò ben presto fama come oratore, e
nel 78 sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola, statista e comandante militare. All'inizio della sua
carriera diede grande impulso Vespasiano, come dice nelle Historiae, ma fu sotto Tito che entrò
realmente nella vita politica con la carica di quaestor, nell'anno 81 o nell'anno 82. Proseguì
costantemente nel suo cursus honorum, divenendo praetor nell'88 e facendo parte dei
quindecemviri sacris faciundis, un collegio sacerdotale che custodiva i libri sibyllini ed i giochi
secolari. Fu elogiato come avvocato e oratore; la sua abilità nel parlare in pubblico si contrappone
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ironicamente al suo cognomen Tacito (silenzioso). Ricoprì funzioni pubbliche nelle province
all'incirca dall'89 al 93, forse a capo di una legione, forse in ambito civile. Sopravvisse con le sue
proprietà al regno del terrore di Domiziano (93-96), ma l'esperienza lasciò in lui cupa amarezza,
forse per la vergogna della propria complicità, contribuendo allo sviluppo di quell'odio verso la
tirannia così evidente nelle sue opere. Divenne consul suffectus nel 97 durante il regno di Nerva,
diventando il primo della sua famiglia a ricoprire tale carica. Durante tale periodo raggiunse i vertici
della sua fama di oratore nel pronunciare il discorso funebre per il famoso soldato Virginio Rufo.
Durante l'anno seguente scrisse e pubblicò sia l'Agricola sia la Germania, primi esempi dell'attività
letteraria che lo occuperà fino alla sua morte. Seguì una lunga assenza dalla politica e dalla
magistratura. Nel frattempo scrisse le sue due opere più importanti: le Historiae e, quindi, gli
Annales. Ha ricoperto la più alta carica di governatorato, quello della provincia romana dell'Asia
prima di morire nel 117 d.C.
LE OPERE Cinque sono le opere attribuite a Tacito che sono sopravvissute, almeno in una parte sostanziale di
esse. Le date sono approssimative e le ultime due (le sue opere "maggiori"), hanno comunque
richiesto alcuni anni per essere completate.
• (98) De vita et moribus Iulii Agricolae ("La vita e i costumi di Giulio Agricola”)
• (98) De origine et situ Germanorum ("Sull’origine e la regione dei Germani")
• (102) Dialogus de oratoribus ("Dialogo sull'oratoria")
• (105) Historiae ("Le storie")
• (117) Ab excessu divi Augusti (Annales)
L’Agricola L’attività letteraria di Tacito inizia dopo la morte di Domiziano (96 d.C.).
Infatti, l’autore assume come punto di partenza delle sue riflessioni proprio
l’esperienza negativa della tirannide dell’ultimo imperatore flavio. Il De
vita Iulii Agricolae è una biografia encomiastica del suocero Agricola.
Nella prefazione dell’opera tratta delle differenze tra l’antichità, ricca di
eroi e uomini giusti, e l’età contemporanea, piena di immoralità ed
ingiustizie. Da questi eventi il discorso si allarga nella condanna al regime
di Domiziano che priva i suoi sudditi della loro libertà, e nell’omaggio a
Nerva e Traiano. In realtà la figura che Tacito esalta non è di un ribelle ma
di un collaboratore dei principi, buoni o cattivi che fossero. Quest’esaltazione provoca in Tacito un
certo imbarazzo, che viene superato in due modi. In primo luogo presenta Agricola come una
Marco Messina Esame di s tato 2006 42
vittima innocente di Domiziano, che per gelosia dei suoi successi militari lo avvelenò. In secondo
luogo, Tacito in difesa del suocero afferma che è più utile collaborare con il principe malvagio per
poter servire legalmente la patria anziché farsi uccidere ribellandosi ad esso. Per tale motivo Tacito
critica gli oppositori del principato. Egli espone la biografia del suocero con precisione cronologica
e contemporaneamente ne enuncia le sue qualità: attitudine al comando e cortezza nell’evitare di dar
ombra ai suoi superiori con i suoi successi. Si narra in particolar modo delle imprese di Agricola in
Britannia dove restò per sette anni. Gli ultimi nove anni della vita di Agricola sono riassunti in
pochi capitoli, dove si rileva la crescente gelosia di Domiziano per l’eroe e si espongono i sospetti
sulla causa della sua morte. L’opera si conclude con numerosi Epitaffi e apostrofi al defunto.
L’Agricola è una biografia di tipo particolare. Mancano, infatti, gli aneddoti, i pettegolezzi ed i
particolari curiosi. Lo stile, in armonia con la materia, risulta duttile e vario.
Latino " Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur; si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit; soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre, trucidare, rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant. "
Italiano " Rapinatori del mondo, i Romani, dopo aver tutto devastato, non avendo più terre da saccheggiare, vanno a frugare anche il mare; avidi se il nemico è ricco, smaniosi di dominio se è povero, tali da non essere saziati né dall'Oriente né dall'Occidente, sono gli unici che bramano con pari veemenza di possedere tutto e ricchezze e miseria. Rubare, massacrare, rapinare, questo essi, con falso nome, chiamano impero e là dove hanno fatto il deserto, dicono di aver portato la pace. "
(Publio Cornelio Tacito, La vita di Agricola, BUR, Milano, trad.: B. Ceva)
La Germania Poco dopo L’Agricola Tacito pubblicò la sua seconda opera, La Germania. Quest’ultima, il cui
titolo completo è “L’origine e la regione dei Germani”, rientra nel filone etnografico trattando di
paesi e popoli stranieri. Il contenuto dell’opera si compone di due parti: una descrizione
complessiva della Germania e una descrizione più approfondita delle singole popolazioni. Dopo
alcune notizie sulla geografia della regione, vengono date alcune notizie sugli usi e costumi dei
Germani: dal clima all’educazione dei figli. Invece nella seconda parte vengono trattate, in maniera
più o meno estesa, le singole popolazioni. Si Ritiene che questa massa d’informazioni provenga
oltre che dal “De bello Gallico” di Cesare, anche dall’opera sulle guerre germaniche di Plinio il
Vecchio. Tacito nell’opera non sembra però mosso da una curiosità sincera nei confronti del popolo
straniero, ma è Roma il suo costante punto di riferimento. Nonostante ciò il poeta ammira la sanità
morale dei barbari che praticano quelle virtù presenti nell’antichità. Affiora però anche, un
atteggiamento di disprezzo e di superiorità per generi di vita ancora tanto rozzi e primitivi. I
Marco Messina Esame di s tato 2006 43
Germani per fortuna di Roma sono discordi, ovvero sono incapaci di coalizzarsi contro un nemico
comune.
Il Dialogus de oratoribus L’attribuzione a Tacito del “Dialogo sugli oratori”, è ancora oggi discussa. La data “drammatica”
cioè la data in cui s’immagina che si svolga l’azione è il 75 d.C.. La data di composizione si stima
invece nel 102 d.C.. Il dialogo tratta delle cause della decadenza dell’oratoria, già svolto da
Quintiliano. L’ambientazione dell’opera è inspirata al De oratore di Cicerone. Marco Apro e Giulio
secondo, modelli di Tacito, si recano a far visita a Curiazio Materno, senatore e oratore. Dopo
l’arrivo di un quarto personaggio, Vistano Messalla, inizia il dialogo sulla decadenza dell’oratoria.
Il primo a parlare è Apro che difende l’oratoria contemporanea affermando che essa non è in
declino ma in trasformazione. Messalla invece afferma che l’oratoria è in decadenza e che a
causarla sono il livello scadente delle scuole e la negligenza dei genitori nell’educare i figli. Segue,
poi, la spiegazione politica di Materno. Il declino dell’eloquenza, egli dice, è dovuto alla perdita
della libertà politica. Afferma, inoltre, che la grande eloquenza nasce dalla licenza, a cui gli sciocchi
danno il nome di libertà. La difesa dell’oratoria contemporanea da parte di Apro, si può leggere
anche come difesa dello stile moderno rappresentato da Seneca e Tacito stesso. L’autore infatti è
costretto a constatare che i tempi sono cambiati e così anche i generi letterari.
Le Historiae e gli Annales Il progetto di una vasta opera storica era presente già nell'Agricola, ma nelle "Historiae" tale
progetto appare modificato: mentre la parte che ci è rimasta contiene la narrazione degli eventi dal
regno di Galba fino alla rivolta giudaica, l'opera nel suo complesso doveva estendersi fino al 96,
l'anno della morte di Domiziano: nel proemio, Tacito afferma di voler trattare durante la vecchiaia
dei principati di Nerva e di Traiano .Le "Historiae" descrivono quindi un periodo cupo, sconvolto
dalla guerra civile e concluso con la tirannide: Il I libro parla del breve regno di Galba; seguono
l'uccisione di questo e l'elezione all'Impero di Otone. In Germania le legioni acclamano però come
Imperatore Vitellio. In particolare, il 69, anno in cui si aprono le "Historiae", vede succedersi 4
imperatori: questo perché il principe poteva essere eletto anche fuori da Roma, e la sua forza si
basava principalmente sull'appoggio delle legioni di stanza in paesi più o meno remoti. Nel II e III
libro si parla della lotta tra Otone e Vitellio, con la sconfitta del primo, e tra Vitellio e Vespasiano.
Quest'ultimo, eletto imperatore in Oriente, lascia il proprio figlio Tito ad affrontare i giudei e fa
dirigere le sue truppe a Roma dove si era rifugiato Vitellio, che viene ucciso. Nel IV libro si parla
dei tumulti ad opera dei soldati flaviani, e dei tumulti contro Vespasiano scoppiati in Gallia e in
Germania. Il V libro parla degli avvenimenti di Germania e dei primi segni di stanchezza mostrati
Marco Messina Esame di s tato 2006 44
dai ribelli. Come già si evince dallo stesso titolo Tacito vuol soddisfare un desiderio di ricerca e di
comprensione dei fatti che va al di là della pura e semplice raccolta di testimonianze: ciò in piena
rispondenza e fedeltà al significato stesso che il termine "historiae" rivestiva nella lingua latina,
mutuandolo strettamente dal greco "historìa" (indagine, ricerca storica), ovvero come esposizione
sistematica della storia, sia come racconto storicamente attestato dei singoli avvenimenti sia come
sguardo d'insieme retrospettivo sul passato. Così, Tacito scrive a distanza di 30 anni dagli
avvenimenti del 69, ma la ricostruzione di quell’anno avveniva nel vivo del dibattito politico che
aveva accompagnato l'ascesa al potere di Traiano. A tal proposito, è stato notato un certo
parallelismo tra questa e gli avvenimenti del 69: il predecessore di Traiano, Nerva, si era trovato
come Galba ad affrontare un rivolta di pretoriani che faceva traballare le basi del suo potere, e come
Galba aveva designato per "adozione" un suo successore. L'analogia però si ferma a questo punto:
mentre Galba si era scelto come successore Pisone, un nobile di antico stampo poco adatto, Nerva
aveva invece consolidato il proprio potere associandosi nel governo Traiano, un capo militare
autorevole, comandante dell'armata della Germania superiore. Con il discorso di Galba in occasione
dell'adozione di Pisone, lo storico ha inteso mostrare nella figura dell'imperatore il divario fra il
modello di comportamento rigorosamente ispirato al "mos maiorum" e la reale capacità di dominare
e controllare gli avvenimenti. Solo l'adozione di una figura come quella di Traiano placò i tumulti
fra le legioni e pose fine a ogni rivalità. Tacito è convinto che solo il principato sia in grado di
garantire la pace e la fedeltà degli eserciti: già il proemio delle "Historiae" sottolinea come - dopo
la battaglia di Azio - la concentrazione del potere nelle mani di una sola persona si rivelò
indispensabile, o quantomeno ineluttabile: ovviamente il principe non dovrà essere uno scellerato
tiranno come Domiziano, né un inetto come Galba; piuttosto, dovrà invece assommare in sé quelle
qualità necessarie per reggere la compagine imperiale, e contemporaneamente garantire i residui del
prestigio e della dignità del ceto dirigente senatorio. Quindi, per Tacito l'unica soluzione sembra
consistere nel principato moderato degli imperatori d'adozione. Lo stile delle "Historiae" ha un
ritmo vario e veloce, che richiede da parte di Tacito un lavoro di condensazione rispetto ai dati
forniti dalle fonti: a volte qualcosa è omesso, ma più spesso egli sa conferire efficacia drammatica
alla propria opera suddividendo il racconto in più scene. Lo storico è poi molto bravo nella
descrizione delle masse, da cui traspare il timore misto a disprezzo del senatore per le turbolenze
dei soldati e della feccia della capitale. Le "Historiae" raccontano, del resto, per la maggior parte,
fatti di violenza e di ingiustizia: ciò non toglie che Tacito sappia tratteggiare in modo abile i
caratteri dei propri personaggi, alternando notazioni brevi a ritratti compiuti come quello di
Muciano o di Otone. Lo storico, ad esempio, insiste sulla consapevolezza di questo personaggio,
della sua subalternità nei confronti degli strati inferiori urbani e militari: forse Otone deve proprio a
Marco Messina Esame di s tato 2006 45
questo servilismo la sua capacità di incidere nelle cose. Egli è dominato da una "virtus" inquieta,
che all'inizio della sua vicenda lo porta a deliberare, in un monologo quasi da eroe tragico, una
scalata al potere decisa a non arrestarsi. Ma Otone è un personaggio in evoluzione e decide così di
darsi una morte gloriosa. Nella sua descrizione Tacito si affida alla "inconcinnitas", alla sintassi
disarticolata, alle strutture stilistiche slegate per incidere nel profondo dei personaggi. Egli ama
ricorrere a costrutti irregolari e a frequenti cambi di soggetto per dare movimento alla narrazione.
Nemmeno nell'ultima fase della sua attività Tacito mantenne il proposito di narrare la storia dei
principati di Nerva e Traiano: anzi egli, negli "Annales", intraprese il racconto solo della più antica
storia del principato, dalla morte di Augusto (il giudizio su questo primo principe non può essere
che negativo, viste le nefaste conseguenze - anche se nei tempi lunghi - della sua "rivoluzione"
politica) a quella di Nerone. Come del resto già si arguisce dallo stesso titolo, continuò il metodo
degli annalisti, giacché lo schematismo dei fatti non urtava con la sua funzione critica, che tendeva
prevalentemente allo studio dei caratteri e dei moventi psicologici e morali delle azioni.
Probabilmente, Tacito intendeva la sua opera anche come un proseguimento di quella di Livio: in
effetti, già il "sottotitolo" presente nei manoscritti ("Ab excessu divi Augusti") sembra ricordare
proprio quello liviano, "Ab urbe condita".Degli "Annales" sono conservati i libri I-IV, un
frammento del V e parte del VI, comprendenti il racconto degli avvenimenti dalla morte di Augusto
(14) a quella di Tiberio (37); inoltre sono conservati i libri XI-XVI, col racconto dei regni di
Claudio e di Nerone. Negli "Annales" Tacito sembra mantenere la tesi della necessità del principato:
ma il suo orizzonte sembra essersi notevolmente incupito, o comunque fatto più amaro. La storia
del principato è, infatti, anche la storia del tramonto della libertà politica dell'aristocrazia senatoria,
anch'essa coinvolta in un processo di decadenza morale e di corruzione, e sempre più incapace - per
colpe dirette o per cause indirette - di giocare ancora un ruolo politico significativo. Scarsa simpatia
lo storico presenta anche nei confronti di coloro che scelgono l'opposta via del martirio,
sostanzialmente inutile allo Stato, e continuano a mettere in scena suicidi filosofici. Tacito sembra
condurre insomma il lettore attraverso un territorio umano desolato, senza luce o speranza; ma forse,
a ben vedere, un barlume di speranza rimane: la parte sana dell'élite politica, infatti, continua a dare
il meglio di sé nel governo delle province e nella guida degli eserciti. E' proprio su questi uomini
che, secondo il nostro autore, bisognerebbe puntare per la ricostruzione politica e morale di Roma.
Tacito alla forte componente tragica della sua storiografia assegna soprattutto la funzione di scavare
nelle pieghe dei personaggi per sondarli in profondità e portarne alla luce le ambiguità e i
chiaroscuri. Lo storico, infatti, sa bene “che né la volontà degli dèi, né la Provvidenza o la Fatalità
sono cause immediate del divenire storico. Le azioni umane, che sono le più visibili, le più
immediatamente percepibili, in questo divenire, dipendono dal libero arbitrio” [P. Grimal]. Le
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conseguenze, quindi, delle opinioni e soprattutto delle passioni che scatenano i comportamenti
umani ricadono sul divenire storico e ne determinano il corso: ciò è tanto più vero, poi, se il
protagonista di tale divenire è un principe investito, per la durata del suo regno, di un potere
illimitato. Per Tacito è indispensabile, quindi, per comprendere la trama della storia, analizzare la
personalità di colui dal quale dipende il destino dell'impero. Ecco, così, spiegato come mai,
soprattutto negli "Annales", si perfezioni ulteriormente la tecnica del ritratto e si accentui la
componente "tragica" del racconto. Ad esempio, Claudio è rappresentato come un imbelle che,
dopo la morte della prima moglie Messalina, cade nelle mani del potente liberto Narciso e della
seconda moglie Agrippina, che alla fine fa avvelenare il marito e mette sul trono Nerone, il figlio
avuto da un precedente matrimonio. Quindi, è narrato il regno di Nerone, nella giovinezza
influenzato dalle figure della madre, del filosofo Seneca e del prefetto del pretorio Burro. Poi
acquista indipendenza e cade sempre più nella pazzia: instaura quindi un regime da monarca
ellenistico e si dedica soprattutto ai giochi e agli spettacoli. Riesce a far uccidere la madre
Agrippina mentre Seneca si ritira a vita privata. Nerone si abbandona a eccessi di ogni sorta, ma
intorno a Gaio Pisone si coagula un gruppo di congiurati che si propongono di uccidere il principe.
La congiura di Pisone viene scoperta e repressa. Ma il vertice dell'arte tacitiana è stato individuato
nel ritratto di Tiberio, del tipo cosiddetto indiretto: lo storico non dà cioè il ritratto una volta per
tutte, ma fa sì che esso si delinei progressivamente attraverso una narrazione sottolineata qua e là da
osservazioni e commenti. Un certo spazio è anche dato al ritratto del tipo paradossale: l'esempio più
notevole è la descrizione di Petronio. Il fascino del personaggio sta proprio nei suoi aspetti
contraddittori: Petronio si è assicurato con l'ignavia la fama che altri acquistano dopo grandi sforzi,
ma la mollezza della sua vita contrasta con l'energia e la competenza dimostrate quando ha
ricoperto importanti cariche pubbliche. Egli affronta la morte quasi come un'ultima voluttà, dando
contemporaneamente prova di autocontrollo e di fermezza. Nello stile degli "Annales" si assiste ad
un allontanamento dalla norma e dalla convenzione, ad una ricerca di straniamento che si esprime
nel lessico arcaico e solenne: è a partire dal libro XIII che quest'involuzione verso modelli più
tradizionali, meno lontani dai dettami del classicismo, sembra assumere una importante consistenza:
forse il regno di Nerone, abbastanza vicino nel tempo, richiedeva una trattazione con minore
distacco solenne. Comunque, in linea di massima, gli "Annales" risultano meno eloquenti, più
concisi e austeri delle opere precedenti. Si accentua il gusto della "inconcinnitas", ottenuta
soprattutto grazie alla "variatio", cioè allineando un'espressione a un'altra che ci si attenderebbe
parallela, ed è invece diversamente strutturata.
Personalità
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Storico impegnato e partecipe.L’opera di Tacito è tutta sostenuta da un’esplicita e tesa passione
etico-politica e dalla co-partecipazione alle sorti della Roma a lui contemporanea: è il corrosivo e
dettagliato bilancio (soprattutto nelle opere maggiori) del primo secolo di esperienza monarchica
dal punto di vista di un intellettuale, il quale - benché proclami di voler fare storia in modo
imparziale ("sine ira et studio", ovvero "senza risentimento e senza partigianeria") - esprime
tuttavia, giocoforza, il punto di vista della "sana" opposizione senatoriale alla pratica imperiale
(leitmotiv ne è l’inconciliabile tensione tra "libertas" e "principatus").Evidentemente, “Tacito non
sarebbe mai giunto alla storia, se al fondo di tutta la sua esperienza politica e forense non ci fosse
stato un forte disinganno” [F. della Corte]: quello sulla vera natura e sulle reali conseguenze del
principato. Ecco perché la sua visione della storia risulta in definitiva, come già detto, fortemente
impregnata dell'elemento morale (anche se non legata a credenze, filosofiche o religiose,
preconcette) ed essenzialmente individualistica, facendo discendere la dinamica degli eventi dalla
personalità e dalle scelte dei "grandi". Il nostro autore, anche dal punto di vista artistico, rappresenta
forse il momento davvero più importante della storiografia romana, superiore - volendo - allo stesso
momento liviano. Proprio di contro a Livio, in particolare, egli - scrittore veramente profondo ed
informato sugli avvenimenti - è storico "contemporaneo", sia nel senso preciso del vocabolo, sia
perché ha saputo rendere contemporanea anche l'età che non aveva vissuto. Anche il suo stile -
volutamente controllato, rapido e conciso - è un aspetto fondante di questa sua concezione della
storia, “storia di idee più che storia di fatti” [F. della Corte]. Di quest'ultima affermazione, è una
testimonianza lampante il fatto che Tacito individui il "peccato originale" della decadenza di Roma
nella svolta anticostituzionale operata da Augusto, dietro una formale facciata repubblicana, e
denunci le conseguenze nefaste del sistema dinastico, pur senza rifiutare totalmente l’istituzione –
oramai necessaria per l’unità, l’ordine e la pace dell’Impero – del "principato" stesso. Ancora aperto
è, infine, il "problema delle fonti" di Tacito. Alcuni punti sono comunque assodati: lo storico
consultò la documentazione ufficiale ("acta senatus", più o meno i verbali delle sedute; "acta
diurna", contenenti gli atti del governo e notizie su quanto avveniva a corte a Roma) ed ebbe inoltre
a disposizione raccolte di discorsi imperiali. Il tutto vagliato con uno "scrupolo" inusuale tra gli
storici antichi. Numerose anche le fonti storiche (Plinio, Vespasiano Messala, Pluvio Rufo, F.
Rustico…) e letterarie (epistolografia, memorialistica, libellistica…). Così, dopo il mito
dell’utilizzo di un’unica fonte, si è sempre più sostenuta piuttosto l’idea di una molteplicità di fonti,
per giunta talune anche di opposta tendenza, ed utilizzate con una certa libertà.
ALBERT EINSTEIN
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Vita Albert Einstein fu probabilmente il più grande scienziato del XX secolo. La sua teoria della
relatività, e quindi la negazione dell'esistenza di spazio e tempo assoluti, e l'ipotesi sulla natura
corpuscolare della luce, cui pervenne generalizzando la teoria di Max Planck, segnarono una vera
e propria rivoluzione del pensiero scientifico. Trascorse gli anni giovanili a Monaco, città nella
quale la famiglia, di origine ebraica, possedeva una piccola azienda che produceva macchinari
elettrici, e già da ragazzo mostrò una notevole predisposizione per la matematica; a dodici anni
imparò, da autodidatta, la geometria euclidea. Quando ripetuti dissesti finanziari costrinsero la
famiglia a lasciare la Germania e a trasferirsi in Italia, a Milano, decise di interrompere gli studi.
Visse un anno insieme alla famiglia, ma ben presto comprese l'importanza di una salda
preparazione culturale e, concluse le scuole superiori ad Arrau, in Svizzera, si iscrisse al
politecnico di Zurigo, dove si laureò nel 1900. Lavorò quindi come supplente fino al 1902, anno
in cui trovò un modesto impiego presso l'Ufficio Brevetti di Berna.
Prime pubblicazioni scientifiche Nel 1905 Einstein conseguì il dottorato con una dissertazione teorica sulle dimensioni delle
molecole; pubblicò inoltre tre studi teorici di fondamentale importanza per lo sviluppo della fisica
del XX secolo. Nel primo di essi, relativo al moto browniano, fece importanti previsioni,
successivamente confermate per via sperimentale, sul moto di agitazione termica delle particelle
distribuite casualmente in un fluido. Il secondo studio, sull'interpretazione dell'effetto
fotoelettrico, conteneva un'ipotesi rivoluzionaria sulla natura della luce; egli affermò che in
determinate circostanze la radiazione elettromagnetica ha natura corpuscolare, e ipotizzò che
l'energia trasportata da ogni particella che costituiva il raggio luminoso, denominata fotone, fosse
proporzionale alla frequenza della radiazione, secondo la formula E = hu, dove E rappresenta
l'energia della radiazione, h è una costante universale nota come costante di Planck, e u è la
frequenza. Questa affermazione, in base alla quale l'energia contenuta in un fascio luminoso viene
trasferita in unità individuali o quanti, era in contraddizione con qualsiasi teoria precedente,
cosicché fu violentemente criticata, finché circa un decennio dopo il fisico statunitense Robert
Andrews Millikan ne diede una conferma sperimentale.
La teoria della relatività ristretta Il terzo e più importante studio del 1905, dal titolo Elettrodinamica dei corpi in movimento,
conteneva la prima esposizione completa della teoria della relatività ristretta, frutto di un lungo e
attento studio della meccanica classica di Isaac Newton, delle modalità dell'interazione fra
radiazione e materia, e delle caratteristiche dei fenomeni fisici osservati in sistemi in moto relativo
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l'uno rispetto all'altro. La base della teoria della relatività ristretta, che comporta la crisi del
concetto di contemporaneità, risiede su due postulati fondamentali: il principio della relatività, che
afferma che le leggi fisiche hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziale, ossia in
moto rettilineo uniforme l'uno rispetto all'altro, e che è una naturale estensione del precedente
principio di relatività galileiano, e il principio di invarianza della velocità della luce, secondo cui
la velocità di propagazione della radiazione elettromagnetica nel vuoto è una costante universale,
che sostituisce il concetto newtoniano di tempo assoluto.
Critiche alla teoria di Einstein
La teoria della relatività ristretta non fu immediatamente accolta dalla comunità scientifica. Il
punto d'attrito risiedeva nelle convinzioni di Einstein in merito alla natura delle teorie scientifiche
e sul rapporto tra esperimento e teoria. Sebbene egli affermasse che l'unica fonte di conoscenza è
l'esperienza, era anche convinto che le teorie scientifiche fossero libera creazione dell'uomo e che
le premesse sulle quali esse sono fondate non potessero essere derivate in modo logico dalla
sperimentazione. Una "buona" teoria, dunque, è una teoria nella quale è richiesto un numero
minimo di postulati per ogni dimostrazione. Questa scarsità di postulati, una caratteristica di tutti
gli studi di Einstein, fu ciò che rese così difficile la comprensione della sua teoria. Il valore
dell'attività scientifica di Einstein venne comunque riconosciuto e nel 1909 lo scienziato ricevette
il primo incarico di docenza presso l'università di Zurigo. Nel 1911 si trasferì all'università
tedesca di Praga e l'anno successivo tornò al Politecnico di Zurigo. Nel 1913 assunse la direzione
del Kaiser Wilhelm Institut di Berlino.
La teoria della relatività generale Ancor prima di lasciare l'Ufficio Brevetti nel 1907, Einstein iniziò a lavorare a una teoria più
generale, che potesse essere estesa ai sistemi non inerziali, cioè in moto relativo non uniforme.
Enunciò il principio di equivalenza, in base al quale il campo gravitazionale è equivalente a una
accelerazione costante che si manifesti nel sistema di coordinate, e pertanto indistinguibile da
essa, anche sul piano teorico. In altre parole, un gruppo di persone che si trovino su un ascensore
in moto accelerato verso l'alto non possono, per principio, distinguere se la forza che avvertono è
dovuta alla gravitazione o alla accelerazione costante dell'ascensore. La teoria della relatività
generale non venne pubblicata sino al 1916. In essa le interazioni dei corpi, che prima di allora
erano state descritte in termini di forze gravitazionali, vengono spiegate come l'azione e la
perturbazione esercitata dai corpi sulla geometria dello spazio-tempo, uno spazio
quadridimensionale che oltre alle tre dimensioni dello spazio euclideo prevede una coordinata
temporale. Einstein, alla luce della sua teoria generale, fornì la spiegazione delle variazioni del
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moto orbitale dei pianeti, fenomeno fino ad allora non pienamente compreso, e previde che i raggi
luminosi emessi dalle stelle si incurvassero in prossimità di un corpo di massa elevata quale, ad
esempio, il Sole. La conferma di quest'ultimo fenomeno, durante l'eclissi solare del 1919, fu un
evento di enorme rilevanza. Per il resto della sua vita Einstein dedicò molto tempo alla ricerca di
un'ulteriore generalizzazione della teoria e alla ricerca di una teoria dei campi, che fornisse una
descrizione unitaria per i diversi tipi di interazioni che governano i fenomeni fisici, incluse le
interazioni elettromagnetiche, e le interazioni nucleari deboli e forti. Tra il 1915 e il 1930 si stava
sviluppando la teoria quantistica, che presentava come concetti fondamentali il dualismo onda-
particella, che Einstein aveva già prima ritenuto necessario, nonché il principio di
indeterminazione, che fornisce un limite intrinseco alla precisione di un processo di misurazione.
Einstein mosse diverse e significative critiche alla nuova teoria e partecipò attivamente al lungo e
tuttora aperto dibattito sulla sua completezza. Commentando l'impostazione, per certi versi
intrinsecamente probabilistica della meccanica quantistica, affermò che "Dio non gioca a dadi con
il mondo".
Cittadino del mondo Dopo il 1919 Einstein divenne famoso a livello internazionale; ricevette riconoscimenti e premi,
tra i quali il premio Nobel per la fisica, che gli fu assegnato nel 1921. Lo scienziato approffittò
della fama acquisita per ribadire le sue opinioni pacifiste in campo politico e sociale. Durante la
prima guerra mondiale fu tra i pochi accademici tedeschi a criticare pubblicamente il
coinvolgimento della Germania nella guerra. Tale presa di posizione lo rese vittima di gravi
attacchi da parte di gruppi di destra; persino le sue teorie scientifiche vennero messe in ridicolo, in
particolare la teoria della relatività. Con l'avvento al potere di Hitler, Einstein fu costretto a
emigrare negli Stati Uniti, dove gli venne offerto un posto presso l'Institute for Advanced Study di
Princeton, New Jersey. Di fronte alla minaccia rappresentata dal regime nazista egli rinunciò alle
posizioni pacifiste e nel 1939 scrisse insieme a molti altri fisici una famosa lettera indirizzata al
presidente Roosevelt, nella quale veniva sottolineata la possibilità di realizzare una bomba
atomica. La lettera segnò l'inizio dei piani per la costruzione dell'arma nucleare. Al termine della
seconda guerra mondiale, Einstein si impegnò attivamente nella causa per il disarmo
internazionale e più volte ribadì la necessità che gli intellettuali di ogni paese dovessero essere
disposti a tutti i sacrifici necessari per preservare la libertà politica e per impiegare le conoscenze
scientifiche a scopi pacifici.
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