La dieta intelligente: Perché grano, carboidrati e ...Il dottor Perlmutter ci spiega cosa succede...

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Il libro

Nessuno degli innumerevoli libri dedicati all’alimentazione e allasalute dell’organismo ha mai messo in luce la terribile verità cheDavid Perlmutter, con La dieta intelligente, denuncia condeterminazione: i carboidrati possono distruggere il cervello. Eanche i cosiddetti carboidrati sani, come i cereali integrali,possono causare demenza, disturbo da deficit di attenzione eiperattività, epilessia, ansia, mal di testa cronici, depressione, calodella libido e molti altri mali.

Innovativo e tempestivo, questo libro mostra come il destinodell’attività cerebrale non sia segnato dai geni, bensì dal cibo chesi consuma. Inoltre punta i riflettori sul vero colpevole di tutte lemalattie degenerative, ovvero l’infiammazione, che può esserescatenata dai carboidrati, soprattutto da quelli che contengonoglutine o un elevato livello di zucchero.

Il dottor Perlmutter ci spiega cosa succede quando il cervelloincontra ingredienti comuni come il pane e la frutta, andando adanneggiare in modo significativo la memoria, e per questopropone una dieta ad alto contenuto di «grassi buoni», ideale perstimolare la crescita di nuove cellule cerebrali a qualsiasi età.

Questo rivoluzionario programma di quattro settimane cimostrerà come mantenere il cervello sano, attivo e lucido,ottenendo al tempo stesso una netta riduzione del rischio dimalattie neurologiche e alleviando alcuni disturbi comuni senzail bisogno di assumere farmaci. Strategie facili da seguire,deliziose ricette e obiettivi settimanali agevolano l’applicazione diquesto programma. Coniugando ricerche all’avanguardia, storiedi persone che hanno cambiato il loro stile di vita e consiglisemplici e pratici, La dieta intelligente vi insegnerà ad assumere ilcontrollo dei vostri «geni intelligenti», a riguadagnare ilbenessere e a godere sempre di salute e vitalità.

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L’autore

David Perlmutter, rinomato neurologo e ricercatore, è presidentedel Perlmutter Health Center di Naples, in Florida, cofondatore epresidente della Perlmutter Brain Foundation e membrodell’American College of Nutrition. È stato insignito di numerosipremi ed è autore di Salvate il vostro cervello (2007) e Ottieni ilmassimo dal tuo cervello. Gli orizzonti della neuroscienza (2012).

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David Perlmutter

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LA DIETA INTELLIGENTEPerché grano, carboidrati e zuccheri minacciano il nostro cervello

in collaborazione con Kristin Loberg

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L’intento di questo libro è integrare il consiglio di un operatore sanitarioqualificato, non sostituirlo. Qualora sappiate, o sospettiate, di avere unproblema di salute, dovete consultare un medico. Autore ed editore declinanoin modo specifico ogni responsabilità per perdite o rischi, personali o di altranatura, in cui si incorra in conseguenza diretta o indiretta dell’uso edell’applicazione di qualsiasi contenuto di questo libro.

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La dieta intelligente

A mio padre, che all’età di novantaseianni inizia ogni giornata vestendosi

con l’intenzione di visitare i suoi pazienti,nonostante sia andato in pensione

più di venticinque anni fa.

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Il vostro cervello…pesa circa 1,360 kg e ha 160.934 kmdi vasi sanguigni.Contiene più connessioni di quante stelleha la Via Lattea.È l’organo più grasso del vostro corpo.Proprio in questo momento potrebbe soffriresenza che ne abbiate il minimo sospetto.

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IntroduzioneContro i cereali

Il principio fondamentale della saggezza è mantenere l’ordineinvece di correggere il disordine. Curare una malattia dopo la suamanifestazione è come scavare un pozzo quando si ha sete, oforgiare armi a guerra già iniziata.

NEI JING, II secolo a.C.

Se fosse possibile domandare ai vostri nonni e bisnonni di cosamorisse la gente quando erano giovani, forse vi sentireste dire: «divecchiaia». Oppure potreste udire la storia di qualcuno che si erapreso un «brutto batterio» ed era andato incontro a una morteprematura per tubercolosi, colera o dissenteria. Non sentireste parlaredi cose come diabete, cancro, cardiopatia e demenza. Dalla metà delXX secolo, invece di usare il termine «vecchiaia», un certificato dimorte deve citare come causa diretta del decesso una singola malattia.Al giorno d’oggi quelle singole malattie tendono a diventare croniche,degenerando e provocando diverse complicazioni e sintomi che siaccumulano nel tempo. È per questo che di solito gli ottantenni e inovantenni non muoiono di una malattia specifica. Proprio come unavecchia casa che sta cadendo in rovina, i cui materiali si deteriorano earrugginiscono, l’impianto elettrico e quello idraulico perdono colpi ei muri cominciano a cedere, con piccole crepe invisibili a occhio nudo.Durante il naturale declino della casa si effettua la manutenzioneopportuna ovunque sia necessario, ma non sarà mai come nuova, ameno che non si demolisca la struttura per ricostruirla da capo. Ognitentativo di mettere una toppa ed effettuare riparazioni fa guadagnaredel tempo, ma alla fine qualsiasi parte avrà disperato bisogno di unaristrutturazione o addirittura di una sostituzione. Allo stesso modo

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anche il corpo umano si logora, come tutto nella vita. Sopraggiungeuna malattia debilitante e, poco a poco, progredisce a un ritmo semprepiù straziante, finché alla fine il corpo muore.

Questo vale in modo particolare per i disturbi cerebrali, compreso ilpiù temuto di tutti: il morbo di Alzheimer. È un incubo della medicinamoderna che fa sempre notizia. Se c’è una preoccupazione per lasalute che sembra eclissare tutte le altre, a mano a mano che siinvecchia, è quella di cadere vittime dell’Alzheimer o di qualche altraforma di demenza che renda incapaci di pensare, di ragionare e diricordare. La ricerca mostra fino a che punto questa angosciaesistenziale sia radicata. Nel 2011, uno studio condotto dalla HarrisInteractive per la MetLife Foundation ha posto in evidenza che il 31%delle persone teme la demenza più della morte o del cancro. 1 E questapaura non riguarda solo gli anziani.

Molti sono i miti intramontabili sul gruppo di malattiedegenerative del cervello che comprende l’Alzheimer: è genetico, èinevitabile con l’età, è un dato di fatto se si vive fino agli ottanta eoltre.

Un momento, non così in fretta.Sono qui per dirvi che la sorte del vostro cervello non è una

questione di geni. Non è inevitabile. E se soffrite di un altro tipo didisturbo cerebrale, per esempio di mal di testa cronico, di depressione,di epilessia o di estremi sbalzi d’umore, il colpevole potrebbe nonessere codificato nel vostro DNA.

Egli, invece, si nasconde nel cibo che consumate.Sì, avete letto bene: le disfunzioni del cervello derivano dal pane

quotidiano, e ve lo dimostrerò. Lo ripeto, perché mi rendo conto chesuona assurdo: i cereali moderni stanno silenziosamente distruggendoil vostro cervello. Con «moderni» non intendo solo le farine bianche,la pasta e il riso raffinati che sono già stati demonizzati dai nemicidell’obesità; mi riferisco a tutti i cereali che tanti di noi hanno adottatoconsiderandoli sani: grano e cereali integrali, multicereali, settecereali, macinati a pietra e così via. In sostanza, sto considerandoalcuni tra i più amati alimenti base della nostra dieta come un gruppodi terroristi che tormentano il nostro organo più prezioso: il cervello.

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Intendo dimostrare che la frutta e altri carboidrati potrebberorappresentare rischi per la salute con conseguenze di vasta portata,che non solo provocano caos e distruzione fisica nel cervello, maaccelerano il processo di invecchiamento del corpo partendodall’interno. Non si tratta di fantascienza: è un fatto documentato.

Il mio obiettivo nello scrivere questo libro è fornire informazioniattendibili e basate su prospettive scientifiche moderne, evolutive efisiologiche. È un testo che abbandona lo schema del dogma accettatodai profani e prende le distanze da interessi aziendali occulti. Essopropone un nuovo modo di comprendere la causa all’origine dellemalattie del cervello e offre un promettente messaggio di speranza: idisturbi cerebrali possono essere in larga misura prevenuti grazie allenostre scelte di vita. Quindi, se ancora non l’avete capito, cercherò diessere cristallino: questo non è l’ennesimo libro sulla dieta o ungenerico manuale per la tutela della salute da ogni sorta di malanno. Èun libro che cambia le carte in tavola.

Nelle varie guerre che conduciamo contro le malattie croniche,sentiamo ogni giorno parlare di qualcosa di nuovo, soprattuttoriguardo a mali in prevalenza evitabili mediante determinati stili divita. Bisognerebbe vivere fuori dal mondo per non sapere che ognianno ingrassiamo sempre più, a dispetto di tutte le informazioni incommercio su come restare snelli e in forma. A quel punto sarebbedifficile essere al corrente del forte aumento della percentuale dimalati di diabete di tipo 2. O del fatto che la cardiopatia è il nostroprimo flagello, seguita da vicino dal cancro.

Mangiare verdura. Lavarsi i denti. Fare ginnastica una volta ognitanto. Riposare bene. Non fumare. Ridere di più. Alcuni principi cheriguardano la salute sono questione di buon senso e sappiamo tuttiche dovremmo praticarli in maniera sistematica. In qualche modo,tuttavia, quando si tratta di preservare la salute del cervello e lefacoltà mentali, tendiamo a pensare che non dipenda davvero da noi,che sia destino sviluppare malattie al cervello nel fiore degli anni erimbambire da anziani, o che sfuggiremo a una simile sorte grazie allafortuna di una buona conformazione genetica o di conquiste dellamedicina. Senza dubbio, faremmo bene a mantenere impegnata la

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mente dopo il pensionamento, fare cruciverba, continuare a leggere eandare ai musei. E non è che tra le disfunzioni cerebrali e le specifichescelte di stile di vita esista una correlazione diretta, di palese ovvietà,come quella, per esempio, tra fumare due pacchetti di sigarette algiorno e sviluppare il cancro ai polmoni, o tra rimpinzarsi di patatinefritte e diventare obesi. Come stavo dicendo, siamo soliti collocare idisturbi cerebrali in una categoria a parte rispetto alle altre malattieattribuite a cattive abitudini. È mia intenzione cambiare questapercezione mostrandovi la relazione tra il vostro modo di vivere e ilrischio di sviluppare una serie di problemi legati al cervello, alcuni deiquali possono colpire durante l’infanzia, mentre altri sonodiagnosticati all’estremo opposto della vita. Durante lo scorso secolosiamo passati da una dieta ad alto tenore di grassi ma basso dicarboidrati a quella odierna, a basso tenore di grassi e alto dicarboidrati, composta essenzialmente da cereali e altri carboidratidannosi. Credo che questo mutamento sia all’origine di molte dellepiaghe moderne che colpiscono il cervello, come mal di testa cronici,insonnia, ansia, depressione, epilessia, disturbi motori, schizofrenia,disturbo da deficit di attenzione e iperattività (DDAI, noto anche comeADHD, dall’inglese Attention Deficit Hyperactivity Disorder), e di queimomenti della vecchiaia che sono con buona probabilità forieri di ungrave declino cognitivo e di patologie cerebrali conclamate,irreversibili, non trattabili e incurabili. Vi svelerò l’effetto profondoche forse proprio in questo momento i cereali stanno producendo sulvostro cervello senza che nemmeno lo avvertiate.

L’idea che il cervello sia sensibile a ciò che mangiamo circola senzaclamore nella più prestigiosa letteratura medica recente. Questeinformazioni devono essere rese note al pubblico, sempre più spessovittima dell’inganno di un’industria che vende alimenti spacciati per«nutrienti». Anche medici e scienziati come me sono stati indotti adubitare di ciò che riteniamo «sano». I carboidrati e gli oli vegetalipolinsaturi trattati, come quelli di ravizzone, di mais, di semi dicotone, di arachidi, di cartamo, di soia e di girasole, sono responsabilidel vertiginoso aumento di malattie cardiovascolari, obesità edemenza? È vero che una dieta ricca di grassi saturi e di colesterolo fa

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bene a cuore e cervello? E che possiamo modificare il nostro DNA conl’alimentazione, a dispetto dei geni che abbiamo ereditato? Ormai èabbastanza risaputo che una piccola percentuale dei sistemi digestividella popolazione è sensibile al glutine, la proteina che si trova ingrano, orzo e segale, ma è possibile che il cervello di tutti abbia unareazione negativa a questa componente?

Interrogativi come questi cominciarono a preoccuparmi qualcheanno fa, con l’emergere di ricerche incriminanti e l’aggravarsi dei mieipazienti. Come neurologo che esercita la professione e si occupa,giorno dopo giorno, di individui in cerca di risposte a patologiecerebrali debilitanti e di famiglie che faticano ad affrontare la perditadelle facoltà mentali di un proprio caro, ho l’obbligo di andare a fondodella questione. Forse è perché non sono solo un neurologo iscrittoall’albo, ma anche un membro dell’American College of Nutrition:l’unico dottore nel paese in possesso di queste due credenziali. Inoltre,sono membro fondatore e ricercatore dell’American Board ofIntegrative and Holistic Medicine (ente americano di medicinaintegrativa e olistica), il che mi consente una prospettiva unica sulrapporto tra l’alimentazione e il modo in cui funziona il nostrocervello. Questo non è ben compreso dalla maggior parte dellepersone, inclusi quei dottori che sono stati formati anni primadell’affermarsi di questa nuova scienza. È ora di prestare attenzione. Èora che uno come me abbandoni il microscopio o il laboratorio in cuiesegue esami clinici e lanci l’allarme con sincerità. Dopo tutto, lestatistiche lasciano senza parole.

Tanto per cominciare, diabete e disturbi cerebrali sono le patologiepiù costose e più deleterie degli Stati Uniti, eppure possono in largamisura essere prevenute tenendo conto di come sono correlate traloro: avere il diabete raddoppia il rischio del morbo di Alzheimer. Inrealtà, se c’è una cosa che questo libro dimostra con chiarezza è chemolte delle malattie che coinvolgono il cervello condividonodenominatori comuni. Diabete e demenza possono non sembrareaffatto collegati, ma io vi mostrerò fino a che punto ognuna dellenostre potenziali disfunzioni cerebrali sia vicina a patologie che dirado imputiamo al cervello. Inoltre, stabilirò inattesi collegamenti tra

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disturbi cerebrali molto diversi – per esempio tra il morbo diParkinson e una propensione a sviluppare comportamenti violenti –indicando le cause prime di una serie di problemi di salute cheinteressano il cervello.

Anche se è ben noto che i cibi pronti e i carboidrati raffinati hannocontribuito ai nostri problemi di obesità e alle cosiddette allergiealimentari, nessuno ha spiegato il rapporto tra cereali e altri alimenti ela salute del cervello e, in un’ottica più ampia, il DNA. È piuttostosemplice: i nostri geni determinano non solo il modo in cui elaboriamoil cibo, ma, e questo è più importante, il modo in cui reagiamo aglialimenti che consumiamo. Non ci sono dubbi che uno degli eventi piùrilevanti e di maggior portata nel decisivo declino della salutecerebrale della società moderna è stato l’introduzione nella dietaumana del grano. Sebbene sia vero che i nostri progenitori delneolitico consumavano minuscole quantità di questo cereale, quelloche ora chiamiamo grano somiglia ben poco alla varietà selvaticamonococco conosciuta dai nostri antenati. Con l’ibridazione modernae la tecnologia di modificazione genetica, gli oltre sessantachilogrammi di grano che l’americano medio consuma ogni anno nondenotano quasi nessuna somiglianza genetica, strutturale o chimicacon ciò che potrebbero aver incontrato quegli antichi cacciatori-raccoglitori. Ed è questo il problema: stiamo sfidando la nostrafisiologia con sempre più componenti ai quali non siamogeneticamente preparati.

Per la cronaca, questo non è un libro sulla celiachia (una raramalattia autoimmune che riguarda il glutine ma interessa solo unesiguo numero di persone). Se state già pensando che questo libro nonfa per voi perché 1) non vi è stata diagnosticata alcuna malattia odisturbo, o 2) per quanto ne sapete non siete sensibili al glutine, visupplico di andare avanti a leggere. Riguarda noi tutti. Il glutine èquello che definirei un «virus silenzioso». Può infliggere danniduraturi senza essere avvertito.

Al di là di calorie, grassi, proteine e micronutrienti, sappiamoormai che il cibo è un potente modulatore epigenetico, vale a dire ingrado di modificare il nostro DNA in meglio o in peggio. Oltre a

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servire come fonte di calorie, proteine e grassi, il cibo regolal’espressione di molti dei nostri geni. E da questa prospettiva abbiamoappena cominciato a comprendere le dannose conseguenze delconsumo di grano.

La maggioranza di noi crede di poter scegliere come vivere lapropria vita e poi, quando si presentano problemi di salute, andaredal dottore per una soluzione immediata sotto forma dell’ultimo e piùfantastico ritrovato in pillole. Questo comodo scenario favorisce, daparte dei medici che svolgono il ruolo di fornitori di pillole, unapproccio incentrato sulla malattia. Questo approccio, tuttavia, ha untragico difetto per due ragioni: innanzitutto, si concentra sul disturboe non sul benessere; inoltre, le terapie stesse sono spesso gravide dipericolose conseguenze. Un recente rapporto sulla prestigiosa rivista«Archives of Internal Medicine» ha rivelato, per esempio, che donnein menopausa cui erano state prescritte statine per ridurre ilcolesterolo avevano un incremento di quasi il 48% del rischio disviluppare il diabete rispetto a quelle che non assumevano questofarmaco. 2 Quest’unico esempio risulta ancora più critico se siconsidera che diventare diabetici raddoppia il rischio del morbo diAlzheimer.

Al giorno d’oggi, le persone appaiono sempre più consapevoli deglieffetti delle scelte di vita sulla salute e sul pericolo di malattie. Spessosentiamo parlare della dieta heart smart, quella che fa bene al cuore, odi consigli per aumentare il consumo di fibre come strategia perridurre il rischio di tumore del colon. Ma perché sono reperibili cosìpoche informazioni su come mantenere sano il cervello e prevenire lesue patologie? Forse perché il cervello è legato al concetto evanescentedi mente e questo lo isola, a torto, dalla nostra capacità di controllo? Operché le società farmaceutiche hanno fatto investimenti perscoraggiare l’idea che lo stile di vita eserciti una profonda influenzasulla salute del cervello? Vi avverto: non tratterò con guanti di vellutola nostra industria farmaceutica. Conosco troppe storie di persone chene sono state più ingannate che aiutate. Avrete modo di leggernealcune nelle pagine che seguono.

Questo libro riguarda quei cambiamenti dello stile di vita che

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possono essere attuati oggi per mantenere il cervello sano, vivace elucido, e, al tempo stesso, ridurre in maniera notevole l’eventualità didebilitanti malattie al cervello nel futuro. Ho dedicato più ditrentacinque anni allo studio delle patologie cerebrali. La mia giornatalavorativa è incentrata sulla produzione di programmi integrativistudiati per migliorare la funzione cerebrale nei soggetti colpiti damalattie devastanti. Tutti i giorni incontro le loro famiglie e i loro carile cui vite sono state sconvolte dalla malattia. È straziante anche perme. Ogni mattina, prima di cominciare a lavorare, passo a trovare miopadre, che ha novantasei anni. Un tempo era un brillanteneurochirurgo uscito dalla prestigiosa Lahey Clinic, ora risiede in uncentro di assistenza per anziani situato dall’altra parte del parcheggiodel mio ufficio. Anche se non sempre ricorda il mio nome, nondimentica quasi mai di esortarmi a visitare tutti i suoi pazienti. È inpensione da più di venticinque anni.

Le informazioni che voglio divulgare non sono soltantoimpressionanti, ma incontestabili. Vi indurranno ad apportare subitodei cambiamenti al vostro modo di mangiare. E guarderete a voi stessiin una luce del tutto nuova. In questo momento vi staretedomandando: «È già troppo tardi?». Dopo tutti quegli anni in cui nonvi siete negati nulla, il destino del vostro cervello è ormai segnato?Niente panico. Con questo libro intendo soprattutto mettervi in unaposizione di potere, dotarvi di un telecomando per il vostro cervellofuturo. Si tratta di quello che farete a partire da oggi.

Sulla scorta dei decenni di studi clinici e di laboratorio (inclusi imiei), e degli straordinari risultati cui ho assistito negli ultimitrent’anni nell’esercizio della mia professione, vi racconterò ciò chesappiamo e come possiamo trarre vantaggio da questa conoscenza.Inoltre, vi proporrò un piano d’azione globale per migliorare la salutecognitiva e assicurarvi anni più brillanti. E i benefici non sonocircoscritti alla salute del cervello. Posso garantire che questoprogramma è utile nei seguenti casi:

disturbo da deficit di attenzione e iperattivitàansia e stress cronicomal di testa cronico ed emicrania

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depressionediabeteepilessiaproblemi di concentrazionemalattie e patologie infiammatorie, artrite inclusainsonniaproblemi intestinali, inclusi celiachia, sensibilità al glutine eintestino irritabileproblemi di memoria e deterioramento cognitivo lieve, spessoprecursore del morbo di Alzheimerdisturbi dell’umoresovrappeso e obesitàsindrome di Tourettee altro ancora.

Anche se non soffrite di nessuna delle patologie sopra elencate, leindicazioni fornite in questo libro possono aiutarvi a salvaguardare ilbenessere e l’acutezza mentale. Esse sono rivolte sia agli anziani sia aigiovani, comprese le donne che hanno in programma una gravidanzao sono già incinte. Mentre scrivo questa introduzione, è uscito un altrostudio dal quale risulta che i bambini nati da donne sensibili al glutinecorrono un rischio più elevato di sviluppare più avanti negli annischizofrenia e altri disturbi psichiatrici. 3 È una scoperta agghiacciantee di enorme portata, di cui tutte le madri in attesa dovrebbero essereinformate.

Ho assistito a drastiche inversioni di tendenza nella salute, peresempio nel caso di un ragazzo di ventitré anni i cui tremoriinvalidanti scomparvero dopo qualche semplice modifica della suadieta, o negli innumerevoli studi su casi di pazienti epilettici chesmisero di avere crisi il giorno in cui sostituirono i cereali con grassi eproteine. Per non parlare della donna sulla trentina che conobbe unostraordinario miglioramento delle condizioni di salute dopo averesofferto di un’infinita litania di problemi medici. Prima di rivolgersi ame, non solo soffriva di emicranie, di depressione e di un’infertilitàche le spezzava il cuore, ma anche di una malattia rara, chiamata

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distonia, che le contorceva i muscoli in strane posizioni rendendolainabile. Alcuni semplici aggiustamenti nella dieta consentirono al suocorpo e al suo cervello di tornare in perfetta salute… e di avere unaperfetta gravidanza. Queste storie sono eloquenti ed emblematiche dimilioni di altre storie di gente che convive senza necessità con disturbidebilitanti. Vedo molti pazienti che hanno «provato di tutto» e, nellasperanza di trovare una cura per la loro patologia, si sono sottoposti aogni esame neurologico o risonanza possibile. Con poche, sempliciprescrizioni che non implicano farmaci, interventi chirurgici o anchesolo assistenza psicologica, la stragrande maggioranza guarisce eritrova la strada della salute. In questo libro troverete tutte questeprescrizioni.

Una breve nota sull’organizzazione del libro: ho suddiviso ilmateriale in tre parti, partendo da un questionario generale ideato permostrare come le abitudini quotidiane potrebbero influire sullafunzionalità e la salute a lungo termine del cervello.

La prima parte, La verità sui cereali integrali, è una visita guidata tragli amici e i nemici del cervello; questi ultimi vi rendono vulnerabili adisfunzioni e malattie. Rovesciando la classica piramide alimentareamericana, spiegherò cosa succede quando il cervello incontraingredienti diffusi come grano, fruttosio (lo zucchero naturale che sitrova nella frutta) e determinati grassi, dimostrando che una dieta abassissimo contenuto di carboidrati ma ricca di grassi è l’ideale(stiamo parlando di non più di 60 grammi di carboidrati al giorno, laquantità contenuta in una porzione di frutta). Forse suonerà assurdo,ma vi consiglierò di cominciare sostituendo il pane quotidiano conburro e uova. Presto consumerete più grassi saturi e colesterolo evedrete le corsie del supermercato con occhi diversi. A chi è già statodiagnosticato il colesterolo alto e prescritta una statina toccherà unbrusco risveglio: spiegherò cosa succede in realtà all’interno del corpoe come rimediare a questo problema in modo semplice, piacevole esenza farmaci. Con il supporto della scienza, offrirò una nuovainterpretazione dettagliata e convincente del tema dell’infiammazione,mostrando che occorre cambiare dieta per controllare questa reazionebiochimica potenzialmente fatale e al centro delle patologie cerebrali

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(per non parlare di tutte le nostre malattie degenerative, dalla primaall’ultima). Vi illustrerò come le scelte alimentari possano tenere sottocontrollo l’infiammazione modificando l’espressione dei vostri geni.Ed è inutile consumare antiossidanti: dobbiamo invece preferirealimenti che attivano le potenti vie antiossidanti e di disintossicazionedel corpo. La prima parte comprende un esame delle ultime ricerchesul modo in cui possiamo modificare il nostro destino genetico econtrollare gli «interruttori generali» nel DNA. Ricerche così avvincentisaranno di ispirazione anche al fanatico di fast food meno avvezzoalla ginnastica. Questa parte si conclude con un approfondimento sualcuni dei più dannosi disturbi psicologici e comportamentali, comequello da deficit di attenzione e iperattività, la depressione e il mal ditesta. Spiegherò come molti casi si possano curare senza farmaci.

Nella seconda parte, Riabilitare il cervello, illustrerò il fondamentoscientifico delle abitudini a supporto di un cervello sano, che ruotanointorno a tre ambiti primari: nutrizione e integratori, esercizio fisico esonno. Le lezioni apprese in questa sezione vi aiuteranno ad attuare ilmio programma di un mese delineato nella terza parte, Dire addio allevecchie abitudini alimentari, che comprende menù, ricette e obiettivisettimanali. Per ricevere ulteriore supporto e costanti aggiornamentipotete visitare il mio sito web www.DrPerlmutter.com, dove potreteaccedere agli ultimi studi, leggere il mio blog e scaricare materiali chevi aiuteranno ad adattare le informazioni contenute in questo libroalle vostre preferenze personali. Troverete, per esempio, l’agenda di«una giornata in un colpo d’occhio» e di «un mese in un colpod’occhio», con idee su come progettare i pasti e programmare le vostregiornate, ricette incluse. Alcuni degli elenchi presenti in questo libro(come «la polizia del glutine») saranno accessibili anche online, perciònon sarà difficile appenderli in cucina o sul frigorifero comepromemoria.

Dunque, che cosa accade con esattezza al cervello nutrito a cereali?Penso che l’avrete intuito. Per capirlo meglio, basta riflettere su unavecchia pubblicità trasmessa verso la metà degli anni Ottanta. Forsericorderete la campagna su vasta scala del servizio pubblico contro inarcotici, che presentava un uovo in una padella e la battuta

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memorabile: «Questo è il tuo cervello sotto l’effetto delle droghe». Lapotente immagine suggeriva che l’effetto fosse uguale a quelloprodotto su un uovo da una padella bollente. Friggeva.

È una buona sintesi della mia tesi sull’effetto dei cereali sulcervello. Permettetemi di dimostrarlo. Poi spetterà a voi decidere seprenderlo sul serio e andare incontro a un futuro più luminoso e piùsano. Abbiamo tutti molto da perdere, se non ascoltiamo questomessaggio, e molto da guadagnare in caso contrario.

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AutovalutazioneQuali sono i vostri fattori di rischio?

Tendiamo a pensare alle patologie cerebrali come a qualcosa che puòcolpirci in qualsiasi momento, senza particolari motivi all’infuori diuna predisposizione genetica. A differenza della cardiopatia, cheprogredisce nel tempo per la combinazione di determinati fattorigenetici e di stile di vita, le malattie al cervello sembrano disturbi checapitano per caso. Alcuni di noi vi si sottraggono, altri ne sono«afflitti». Ma è un ragionamento sbagliato: una disfunzione delcervello non è affatto diversa da una disfunzione del cuore, ed evolvenel tempo attraverso comportamenti e abitudini. La nota positiva èche possiamo prevenire in modo consapevole i disturbi del nostrosistema nervoso e anche il deterioramento cognitivo, più o meno comepossiamo prevenire le cardiopatie: con una corretta alimentazione efacendo esercizio fisico. Ormai la scienza dice che molte dellepatologie legate al cervello, dalla depressione alla demenza, sono instretta correlazione con le scelte nutrizionali e lo stile di vita. Eppuresolo una persona su cento se la cava nella vita senza alcun disturbomentale, né un paio di mal di testa.

Prima di approfondire la motivazione scientifica di questa audaceaffermazione del nesso tra disturbi cerebrali e cattiva alimentazione edi numerose altre asserzioni perentorie, partiamo da un semplicequestionario che rivela quali abitudini potrebbero, proprio in questomomento, arrecarvi inavvertitamente un danno. L’obiettivo delquestionario sottostante è valutare i fattori di rischio in relazione aiproblemi neurologici attuali (con manifestazioni quali emicranie, crisiepilettiche, disturbi dell’umore e del movimento, disfunzioni sessualie sindrome da deficit di attenzione e iperattività) e a un grave declinomentale in futuro. Rispondete nella maniera più onesta possibile. Non

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pensate al rapporto con i disturbi cerebrali implicito nelle mieaffermazioni: limitatevi a rispondere con sincerità. Nei prossimicapitoli comincerete a comprendere perché mi sono servito di questiparticolari enunciati e qual è la vostra situazione in termini di fattoridi rischio. Se sentite di essere in bilico tra «vero» e «falso» e vorresterispondere «a volte», dovreste in realtà scegliere «vero».

1. Mangio pane (di qualsiasi tipo). vero/falso2. Bevo succo di frutta (di qualsiasi tipo). vero/falso3. Mangio più di una porzione di frutta al giorno. vero/falso4. Preferisco l’agave allo zucchero. vero/falso5. Resto senza fiato nella mia passeggiata quotidiana. vero/falso6. Il mio colesterolo è inferiore a 150. vero/falso7. Ho il diabete. vero/falso8. Sono sovrappeso. vero/falso9. Mangio riso o pasta (di qualsiasi tipo). vero/falso10.Bevo latte. vero/falso11.Non faccio esercizio fisico con regolarità. vero/falso12.I disturbi neurologici sono ricorrenti nella mia famiglia. vero/falso13.Non assumo integratori della vitamina D. vero/falso14.La mia dieta è a basso contenuto di grassi. vero/falso15.Assumo delle statine. vero/falso16.Evito gli alimenti a elevato contenuto di colesterolo. vero/falso17.Bevo bibite (dietetiche o normali). vero/falso18.Non bevo vino. vero/falso19.Bevo birra. vero/falso20.Consumo cereali (di qualsiasi tipo). vero/falso

Per totalizzare un punteggio perfetto in questo test bisognerebbe nonrispondere mai «vero». Se avete risposto «vero» anche solo a unadomanda, il pericolo di malattie e disturbi al cervello (e all’interosistema nervoso) sarà maggiore. E aumenterà in proporzione alnumero di volte in cui avete scelto «vero». Se ne avete totalizzate più

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di dieci, rientrate nella zona a rischio di gravi disturbi neurologici chepossono essere prevenuti, ma, una volta diagnosticati, non semprepossono essere curati.

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Le analisi«Quali rischi corro?» È una domanda che mi viene rivoltainnumerevoli volte tutti i giorni. La bella notizia è che ora abbiamo glistrumenti per stilare un profilo medico delle persone e stabilire il lororischio di sviluppare determinate malattie, dall’Alzheimer all’obesità(che rappresenta ormai un fattore di minaccia ben documentato per lepatologie cerebrali), e per seguirne l’evoluzione. Oggi gli esami dilaboratorio dei valori sotto elencati sono disponibili, economici ecoperti in genere dalla maggioranza dei piani assicurativi. Neiprossimi capitoli apprenderete altre informazioni su questi test escoprirete come migliorare i risultati (i vostri «valori»). Se li elenco giàqui è perché molti di voi desiderano sapere subito quali test puòeseguire il dottore per aiutarvi a cogliere il vero senso dei vostri fattoridi rischio nelle patologie cerebrali. La prossima volta che andate dalmedico non esitate a portare questo elenco con voi e a richiedere iseguenti esami.

Glucosio ematico (glicemia) a digiuno: strumento diagnostico usatodi solito per la verifica di diabete o prediabete, questo test misurala quantità di zucchero (glucosio) nel sangue dopo almeno ottoore di digiuno. Un livello compreso tra 70 e 100 milligrammi perdecilitro (mg/dL) è considerato normale, mentre uno superioreindica avvisaglie di insulinoresistenza e diabete e un aumento delrischio di patologie cerebrali.

Emoglobina A1C: a differenza dell’esame del glucosio ematico,questo test rileva una glicemia «media» relativa a un periodo dinovanta giorni e fornisce informazioni più accurate sul quadrodella glicemia nel suo complesso. Dal momento che puòsegnalare i danni causati alle proteine cerebrali dallo zucchero nelsangue (la cosiddetta «emoglobina glicata»), è uno dei principaliindicatori dell’atrofia cerebrale.

Fruttosamina: simile all’esame dell’emoglobina A1C, il test della

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fruttosamina viene usato per misurare un livello glicemico medioper un periodo di tempo più breve, come le ultime due o tresettimane.

Insulina a digiuno: molto prima che la glicemia cominci adaumentare quando una persona diventa diabetica, cresce il livellodell’insulina a digiuno, segno che il pancreas sta facendo glistraordinari per affrontare l’eccesso di carboidrati nella dieta. Èun sistema di allarme preventivo molto efficace per anticipare lacurva diabetica e dunque importante per prevenire le malattie alcervello.

Omocisteina: livelli troppo elevati di questo amminoacidoprodotto dal corpo sono associati a molti disturbi, inclusiaterosclerosi (il restringimento e indurimento delle arterie),cardiopatie, ictus e demenza; spesso è possibile ridurli senzadifficoltà somministrando determinate vitamine B.

Vitamina D: è ormai riconosciuta come un ormone vitale per ilcervello (in realtà non è una vitamina).

Proteina C reattiva (PCR o CRP, dall’inglese C-reactive protein): è unmarcatore di infiammazione.

Cyrex array 3: è il più completo marcatore della sensibilità alglutine disponibile.

Cyrex array 4 (a discrezione): misura la sensibilità a ventiquattroalimenti «cross reattivi» ai quali può reagire anche un individuosensibile al glutine.

Potete scegliete di non sottoporvi a questi esami oggi, ma averneun’idea generale e conoscerne il significato vi aiuterà a seguire iprincipi da me proposti. Farò riferimento a questi esami e alle loroimplicazioni nel corso di tutto il libro.

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Parte I

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LA VERITÀ SUI CEREALI INTEGRALI

Se il pensiero che il vostro cervello soffra a causa di un gustoso piattodi pasta o di un delizioso french toast vi sembra inverosimile, teneteviforte. Forse sapevate già che lo zucchero trattato e i carboidrati nonsono molto salutari, specie se consumati in eccesso, ma che dire deicosiddetti carboidrati sani, come i cereali integrali e gli zuccherinaturali? Questa parte è dedicata alla verità sui cereali integrali:esamineremo ciò che succede quando il cervello è bombardato dacarboidrati, molti dei quali pieni zeppi di componenti infiammatoricome il glutine, che possono irritare il sistema nervoso. Il danno puòcominciare con disturbi quotidiani, come mal di testa e ansiainspiegabile, e progredire sfociando in disturbi più gravi, comedepressione e demenza.

Prenderemo in esame anche il ruolo, nelle disfunzionineurologiche, di problemi metabolici diffusi come insulinoresistenza ediabete, e vedremo che forse dobbiamo l’obesità e le epidemie diAlzheimer al nostro eterno amore per i carboidrati e al nostro fortedisprezzo per grassi e colesterolo.

Al termine di questa parte nutrirete un nuovo rispetto per i grassialimentari e un ragionevole timore nei confronti della maggior partedei carboidrati. Imparerete inoltre che potete fare qualcosa perstimolare la crescita di nuove cellule cerebrali, acquisire il controllodel vostro destino genetico e salvaguardare le vostre facoltà mentali.

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Capitolo I

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La pietra angolare delle malattie al cervelloQuello che non sapete sull’infiammazione

La funzione principale del corpo è di portare in giro il cervello.THOMAS A. EDISON

Immaginate di tornare nel Paleolitico, decine di migliaia di anni fa,quando i primi esseri umani vivevano nelle caverne e vagavano nellesavane. Fingete, per un momento, che il linguaggio non sia unabarriera e sia possibile comunicare senza difficoltà: avete l’opportunitàdi raccontare loro com’è il futuro. Seduti a gambe incrociate sulla terrabattuta davanti a un bel fuoco, cominciate a descrivere le meravigliedel nostro mondo ad alta tecnologia, con i suoi aerei, i treni e leautomobili, i grattacieli, i computer, i televisori, gli smartphone equell’autostrada dell’informazione che è internet. Gli esseri umanisono già stati sulla Luna. A un certo punto, la conversazione si spostasu altri aspetti dello stile di vita e su come sia vivere nel XXI secolo. Vilanciate nella descrizione della medicina moderna, con il suoincredibile arsenale di farmaci per curare problemi e combatteremalattie e germi. Le gravi minacce alla sopravvivenza sono rare. Nonsono in molti a doversi preoccupare di tigri in agguato, carestia epestilenza. Spiegate com’è fare la spesa nei negozi di alimentari e neisupermercati, un concetto del tutto estraneo a questi individui. Il ciboabbonda e parlate di cose come cheeseburger, patatine fritte, bibite,pizza, bagel, pane, merendine, pancake, cialde, ciambelline, pasta,torte, patatine, cracker, cereali, gelato e dolciumi. È possibile mangiarefrutta tutto l’anno e accedere in pratica a qualsiasi tipo di cibo, bastapremere un pulsante o affrontare un breve tragitto in macchina.Acqua e succo vengono imbottigliati per consentirne il trasporto.

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Anche se tentate di evitare i nomi di marche, resistere è difficile,perché sono entrati a far parte della vostra vita: Starbucks, WonderBread, Pepperidge Farm, Pillsbury, Lucky Charms, Skittles, Domino’s,Subway, McDonald’s, Gatorade, Häagen-Dazs, Cheerios, Yoplait,Cheez-It, Coca-Cola, Hershey’s e Budweiser.

Chi vi ascolta è in soggezione, e fatica a immaginare questo futuro.Gran parte degli aspetti di cui fate la cronistoria sono incomprensibili;non è possibile immaginare un fast food o una panetteria, tantomenotradurre il termine «cibo spazzatura» in parole che queste personepossano capire. Prima ancora di cominciare ad accennare ad alcunedelle principali conquiste degli esseri umani nel corso dei millenni,come agricoltura, pastorizia e, in seguito, la produzione di alimenti, vichiedono delle difficoltà affrontate dai contemporanei. La prima avenirvi in mente è l’epidemia di obesità che di recente ha ricevutotanta attenzione dai media. Non è una materia facile da comprendereper i loro corpi snelli e tonici, e non lo è neppure il resoconto dellemalattie croniche che affliggono la nostra società: cardiopatia, diabete,depressione, malattie autoimmuni, cancro e demenza. Per loro sonouna novità assoluta e fanno molte domande. Cos’è una «malattiaautoimmune»? Cosa provoca il «diabete»? Cos’è la «demenza»? Aquesto punto state parlando una lingua diversa. Fornite loro unarassegna di ciò che ucciderà la maggioranza delle persone nel futuro,facendo del vostro meglio per definire ogni patologia, e siete accoltida sguardi confusi e increduli. Nella mente di queste persone avetedipinto un’immagine del futuro bella ed esotica, ma poi la distruggetecon cause di decesso che sembrano più spaventose della morte causatada un’infezione o dalle fauci di un predatore di un livello superiorenella catena alimentare. Il pensiero di vivere con una malattia cronicache porta a una morte lenta e dolorosa suona terribile. E quandotentate di convincere i vostri antenati preistorici che forse una malattiapermanente degenerativa è il compromesso per vivere in potenzamolto più a lungo di loro, non se la bevono. E ben presto neppure voi.C’è qualcosa che non quadra.

Dal punto di vista genetico e fisiologico, come specie siamo identicia questi umani che vissero prima degli albori dell’agricoltura. E siamo

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il prodotto di un progetto ottimale: plasmati dalla natura nel corso dimigliaia di generazioni. Forse non ci definiamo più cacciatori-raccoglitori, ma senza dubbio, in una prospettiva biologica, i nostricorpi si comportano come tali. Ora, diciamo che durante il vostroviaggio di ritorno al presente iniziate a riflettere sull’incontro conquesti antenati. È facile meravigliarsi di quanta strada abbiamo fattoda un punto di vista meramente tecnologico, ma è anche ovviopensare alle battaglie affrontate invano da milioni dei vostricontemporanei. Potreste perfino sentirvi sconvolti all’idea chepatologie non trasmissibili, che è possibile prevenire, siano la causadel più alto numero di decessi a livello mondiale che tutte le altremalattie messe insieme. È difficile da digerire. Certo, vivremo di piùdei nostri antenati, ma potremmo vivere molto meglio – godendociun’esistenza senza malattie – soprattutto durante la seconda metàdella vita, quando aumenta il rischio di ammalarsi. Sebbene sia veroche viviamo più a lungo delle generazioni precedenti, la maggiorparte dei nostri progressi è dovuta al calo della mortalità e almiglioramento della salute infantile. In altre parole: siamo più bravi asopravvivere agli incidenti e alle malattie dell’infanzia. Purtroppo,non siamo migliorati nella prevenzione e nella lotta contro lepatologie che ci colpiscono quando siamo più vecchi. Anche sepossiamo senz’altro dimostrare che ora abbiamo cure molto piùefficaci per numerose sindromi, ciò non cancella il fatto che milioni dipersone soffrono invano di disturbi che avrebbero potuto essereevitati. Quando lodiamo l’odierna aspettativa di vita media inAmerica, non dovremmo dimenticare la qualità della vita.

All’epoca dei miei primi studi di medicina, decenni or sono, la miaformazione era finalizzata a diagnosticare malattie e sapere comecurare (o, in alcuni casi, guarire) ogni disturbo con un farmaco oun’altra terapia. Imparavo a comprendere i sintomi e a giungere a unasoluzione che vi corrispondesse. Da allora molte cose sono cambiate,non solo perché abbiamo meno probabilità di imbatterci in patologiefacili da curare e da guarire, ma siamo anche in grado di capire megliomolte delle nostre malattie croniche moderne attraverso la lente di uncomun denominatore: l’infiammazione. Così, invece di individuare

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malattie infettive e affrontare mali con cause note, come germi, virus obatteri, i medici si trovano davanti a una miriade di disturbi che nonhanno risposte chiare. Non posso scrivere una ricetta per curare uncancro, sconfiggere dolori inesplicabili, far regredire un diabete orisanare un cervello che è stato eroso dal morbo di Alzheimer. Certo,posso tentare di mascherare o ridurre i sintomi e trattare le reazionidel corpo, ma esiste una grossa differenza tra curare una malattia allaradice e limitarsi a tenerne a bada i sintomi. Ora che uno dei miei figlistudia medicina, mi accorgo di come sia cambiato l’insegnamento. Aidottori tirocinanti non si insegna più solo come diagnosticare e curare:si forniscono loro modi di pensare che li aiutano ad affrontare leepidemie odierne, molte delle quali sono radicate in disordiniinfiammatori fuori controllo.

Prima di arrivare al collegamento tra infiammazione e cervello,prendiamo in considerazione quella che ritengo senza dubbio unadelle scoperte più formidabili della nostra era: il fatto che, in molticasi, l’origine delle malattie al cervello sia in prevalenza alimentare.Anche se alla genesi e all’evoluzione delle patologie cerebralicontribuiscono diversi fattori, numerosi disturbi neurologici riflettonosoprattutto l’errore del consumo eccessivo di carboidrati e dellacarenza di grassi sani. Il modo migliore per comprendere questa veritàè prendere in considerazione la malattia neurologica più temuta,l’Alzheimer, e osservarla nel contesto di un tipo di diabete provocatosolo dalla dieta. Sappiamo tutti che una dieta inadeguata puòcondurre a obesità e diabete, ma a problemi al cervello?

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Morbo di Alzheimer: diabete di tipo 3?Tornate al momento trascorso con quei cacciatori-raccoglitori. Il lorocervello non è poi così diverso dal vostro: entrambi si sono evoluti perreperire alimenti ad alto contenuto di grasso e di zucchero. In fondo èun meccanismo di sopravvivenza. Il problema è che i vostri sforzi percacciare si concludono alla svelta perché vivete nell’eradell’abbondanza e avete più probabilità di trovare grassi e zuccheritrasformati. È verosimile che le vostre controparti delle cavernetrascorrano molto tempo in perlustrazione solo per imbattersi nelgrasso di animali e nello zucchero naturale di piante e bacche, se è lastagione giusta. Perciò, anche se il vostro cervello può funzionare inmaniera analoga, le vostre fonti di alimentazione sono tutt’altro chesimili. Date un’occhiata alla figura che segue, dove si illustrano leprincipali differenze tra la nostra dieta e quella dei nostri progenitori.

E di preciso, che cosa ha a che fare questa differenza nelle abitudinialimentari con il nostro modo di invecchiare e il fatto che soffriamo(oppure no) di un disturbo o di una patologia neurologica?

Tutto.Gli studi che descrivono l’Alzheimer come un terzo tipo di diabete

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iniziarono a emergere nel 2005, 1 ma il legame tra una dietainadeguata e il morbo è stato posto in evidenza solo di recente connuovi studi che illustrano come si possa verificare. 2 Questi studi sonoconvincenti e hanno l’effetto di spaventare e al tempo stessoresponsabilizzare: pensare che solo modificando le nostre abitudinialimentari sia possibile prevenire l’Alzheimer è a dir pocosbalorditivo. L’alimentazione ha numerose implicazioni non soltantonella prevenzione di questo male, ma anche di tutti gli altri disturbicerebrali, come scoprirete nei prossimi capitoli. Prima, però, una brevelezione su ciò che hanno in comune il diabete e il cervello.

Nel corso dell’evoluzione i nostri corpi hanno messo a punto unmodo brillante per trasformare il carburante ricavato dal cibo inenergia a disposizione delle nostre cellule. Il glucosio – la principalefonte di energia per la maggioranza delle cellule – ha scarseggiato perquasi l’intera esistenza della nostra specie, spingendola a svilupparemodi per immagazzinarlo e a convertire altre sostanze in glucosio.All’occorrenza, il corpo è in grado di sintetizzarlo da grassi o proteineattraverso un processo denominato gluconeogenesi, che tuttaviarichiede più energia della conversione di amidi e zucchero in glucosio,una reazione più semplice.

Il processo mediante il quale le nostre cellule accettano e utilizzanoil glucosio è complesso, perché non si limitano ad assorbire il glucosioal suo passaggio nel flusso sanguigno. Questa fondamentale molecoladi zucchero deve essere autorizzata a entrare nella celluladall’insulina, un ormone prodotto dal pancreas, e che, come giàsaprete, è una delle sostanze biologiche più importanti per ilmetabolismo cellulare. Il suo compito è traghettare il glucosio dalcircolo ematico alle cellule di muscoli, adipe e fegato, dove potràessere utilizzato come carburante. Le cellule sane e normali sonocaratterizzate da un’elevata sensibilità all’insulina, ma quando sonoesposte senza sosta a livelli elevati di insulina in conseguenza di unacontinua assunzione di glucosio (in buona parte dovuto a un eccessivoconsumo di alimenti ipertrasformati pieni di zuccheri raffinati, chefanno impennare i livelli di insulina oltre un limite salutare), le nostrecellule si adeguano riducendo sulla loro superficie il numero di

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recettori che reagiscono all’insulina. In altre parole, si desensibilizzanosviluppando l’insulinoresistenza, che le porta a ignorare l’insulina e anon recuperare glucosio dal sangue. Il pancreas reagisce alloraproducendo altra insulina in gran quantità. Così, affinché lo zuccheroentri nelle cellule, saranno necessari livelli di insulina più elevati; equesto provocherà un problema ciclico che alla fine culmina neldiabete di tipo 2. I diabetici hanno valori di glicemia elevati perché illoro corpo non riesce a far accedere lo zucchero nelle cellule, dove puòessere immagazzinato in tutta tranquillità per ricavarne energia. Equesto zucchero nel sangue causa molti problemi, troppi per citarli.Come una scheggia di vetro, lo zucchero tossico infligge molti danni,portando a cecità, infezioni, lesioni ai nervi, cardiopatia e – ebbene sì –Alzheimer. Nel corso di questa successione di eventi, l’infiammazionedilaga nel corpo.

È opportuno ricordare che l’insulina può essere considerata uncomplice negli eventi che si verificano quando lo zucchero nel sanguenon può essere gestito in maniera ottimale. Purtroppo, però, non silimita a scortare il glucosio nelle cellule. Essa è anche un ormoneanabolico, il che significa che stimola la crescita, promuove laformazione e la ritenzione del grasso e favorisce l’infiammazione.Quando i livelli di insulina sono elevati, altri ormoni possonorisentirne, aumentando o diminuendo. Questo, a sua volta, fasprofondare ancor più il corpo in un caos pericoloso che ne lede lacapacità di recuperare il normale metabolismo. 3

La genetica è senz’altro coinvolta nell’eventualità che una personadiventi diabetica, e può anche determinare a che punto l’interruttoredel diabete si accenderà nel corpo nel momento in cui le sue cellulenon potranno più tollerare una glicemia troppo alta. Per la cronaca, ildiabete di tipo 1 è una patologia a parte: è considerato una malattiaautoimmune ed è riconducibile ad appena il 5% dei casi. I soggettimalati di diabete di tipo 1 non producono insulina o ne produconopoca, perché il loro sistema immunitario attacca e distrugge le cellulenel pancreas preposte allo scopo, perciò sono necessarie iniezioniquotidiane di questo importante ormone per mantenere equilibrati glizuccheri nel sangue. A differenza del diabete di tipo 2, di norma

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riscontrabile negli adulti in conseguenza degli effetti sul corpodell’eccesso di glucosio prolungato nel tempo, il diabete di tipo 1viene di solito diagnosticato nei bambini e negli adolescenti. E adifferenza del diabete di tipo 2, che è reversibile mediantecambiamenti nella dieta e nello stile di vita, per il diabete di tipo 1 nonesistono cure. Detto questo, è importante tenere a mente che, sebbene igeni esercitino una notevole influenza sul rischio di sviluppare ildiabete di tipo 1, anche l’ambiente può svolgere il suo ruolo. È noto datempo che questa patologia deriva da influssi sia genetici siaambientali, ma negli ultimi decenni l’aumento dei casi ha indottoalcuni ricercatori a dedurre che i fattori ambientali potrebbero esserepiù determinanti nello sviluppo di questo tipo di diabete di quantoritenuto in precedenza.

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TRISTE MA VERO

Più di 186 mila persone sotto i vent’anni sono affette da diabete (di tipo 1o di tipo 2). 4 Solo un decennio fa, il diabete di tipo 2 era noto come«diabete con insorgenza in età adulta», ma ora, essendo diagnosticato atanti giovani, questa definizione è caduta in disuso. E nuovi studiscientifici mostrano che l’avanzamento della malattia si verifica con piùrapidità nei bambini rispetto agli adulti. Inoltre, nella generazione piùgiovane è più difficile da curare.

Per quanto riguarda il morbo di Alzheimer, stiamo iniziando acomprendere che l’insulinoresistenza provoca la formazione di quellefamigerate placche presenti nei cervelli malati. Queste placche sonodovute all’accumulo di una strana proteina che in pratica siimpossessa del cervello e prende il posto delle normali cellulecerebrali. Il fatto che possiamo associare bassi livelli di insulina aidisturbi cerebrali è il motivo per cui i ricercatori stanno iniziando aparlare di «diabete di tipo 3». È ancora più significativo osservare cheil rischio di alterazione della funzione cerebrale è molto maggiorenegli obesi, e che se sono anche diabetici hanno almeno il doppio delleprobabilità di sviluppare il morbo di Alzheimer.

Questa affermazione non mira a sottintendere che il diabeteprovochi il morbo di Alzheimer, ma solo che entrambe le malattiehanno la stessa origine. Derivano da un’alimentazione che costringe ilcorpo a sviluppare vie biologiche che portano a un malfunzionamentoe, in un secondo momento, a patologie. Sebbene sia vero che unsoggetto diabetico e uno affetto da demenza possono sembrarediversi, hanno in comune molto più di quanto non pensassimo inpassato.

Nell’ultimo decennio siamo stati testimoni di un aumento parallelodel numero di casi di diabete di tipo 2 e del numero di personeconsiderate obese. Ora, tuttavia, stiamo cominciando a intravedereuno schema anche per i soggetti affetti da demenza, in quanto lapercentuale dei pazienti con il morbo di Alzheimer aumenta con lo

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stesso ritmo del diabete di tipo 2. Si tratta di un’osservazione cheritengo tutt’altro che arbitraria. È una realtà che dobbiamo guardare infaccia poiché ci accolliamo il peso di costi sanitari che salgono allestelle e di una popolazione che invecchia. Recenti stime indicano chel’Alzheimer riguarderà con ogni probabilità 100 milioni di personeentro il 2050, un dato rovinoso per il nostro sistema sanitario, in gradodi sminuire l’importanza dell’epidemia di obesità. 5 Negli ultimiquarant’anni la diffusione del diabete di tipo 2, che negli Stati Uniti èriconducibile al 90-95% di tutti i casi di diabete, è triplicata. Non destameraviglia che il governo statunitense guardi con ansia ai ricercatoriper migliorare la prognosi ed evitare questa catastrofe. E nei prossimiquarant’anni sono previsti nel mondo oltre 115 milioni di nuovi casi diAlzheimer, che ci costeranno più di un miliardo di dollari (stimaodierna). 6 Secondo i CDC (Centers for Disease Control and Prevention,Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie), nel 2010 è statodiagnosticato il diabete a 18,8 milioni di americani, e altri 7 milioni dicasi non sono stati individuati. Tra il 1995 e il 2010 il numero di casi didiabete diagnosticati ha registrato un incremento del 50% o superiorein quarantadue stati, e del 100% o superiore in diciotto stati. 7

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Il silenzioso cervello in fiammeUna delle domande più frequenti che mi rivolgono i famigliari deipazienti colpiti da Alzheimer della mia clinica è: «Com’è successo?Che cosa ha fatto di sbagliato mia madre (o padre, o fratello, osorella)?». In un momento così straziante nella vita di una famigliaformulo con attenzione la risposta. Guardare mio padre spegnersipoco a poco, giorno dopo giorno, è un costante promemoria delleemozioni contrastanti sopportate da una famiglia. Frustrazione mistaa impotenza, angoscia e rimpianto. Ma se dovessi dire ai famigliari(me compreso) tutta la verità in base a ciò che sappiamo oggi, direiche il loro caro potrebbe avere fatto una o più delle seguenti cose:

avere vissuto con livelli ematici di glicemia elevati e cronici anchein assenza di diabete;avere consumato per tutta la vita troppi carboidrati;avere optato per una dieta a basso contenuto di grassi cheriducesse al minimo il colesterolo;avere avuto una sensibilità non diagnosticata al glutine, laproteina che si trova nel grano, nella segale e nell’orzo.

Quando dico che la sensibilità al glutine rappresenta per l’umanità lapiù grande e misconosciuta minaccia alla salute, la reazione dellepersone è quasi sempre la stessa: «Non può crederlo sul serio. Nontutti sono sensibili al glutine. Certo, se si è affetti da celiachia èdiverso, ma si tratta di un numero ridotto di persone». E quandoricordo loro che tutti gli ultimi dati scientifici indicano la piaga delglutine come causa scatenante non solo della demenza, ma diepilessia, emicrania, depressione, schizofrenia, disturbo da deficit diattenzione e iperattività e perfino calo della libido, nella rispostaprevale un orientamento comune: «Non capisco cosa intenda». Diconocosì perché quello che sanno sul glutine riguarda la salute intestinale,non il benessere neurologico.

Conosceremo da vicino il glutine nel prossimo capitolo. Questa

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sostanza non è un problema soltanto per i soggetti affetti dal vero eproprio morbo celiaco, una malattia autoimmune che colpisce unaminoranza circoscritta. Fino al 40% di noi non riesce a metabolizzare ilglutine in maniera adeguata e il restante 60% potrebbe essere a rischio.La domanda che dobbiamo porci è: «E se fossimo tutti sensibili alglutine dal punto di vista del cervello?». Purtroppo il glutine non sitrova solo nei prodotti a base di frumento, ma anche in quelli piùimprevedibili, dal gelato alla crema per le mani. Un crescente numerodi studi sta confermando il legame tra sensibilità al glutine e disturbidel sistema nervoso. Questo vale anche per soggetti che non hannoproblemi a digerire il glutine e risultano negativi alla sensibilità aquesto complesso di proteine. Lo vedo tutti i giorni nel mioambulatorio: molti pazienti vengono da me dopo aver «provato tutto»ed essere stati da un mucchio di altri dottori in cerca di aiuto. Che sitratti di mal di testa ed emicranie, sindrome di Tourette, crisiepilettiche, insonnia, ansia, sindrome da deficit di attenzione eiperattività, depressione, o soltanto di qualche strana serie di sintomineurologici senza una precisa etichetta, una delle prime cose chefaccio è prescrivere l’eliminazione totale del glutine dalla loro dieta. Ei risultati continuano a sbalordirmi.

Ormai è da qualche tempo che i ricercatori individuanonell’infiammazione la pietra angolare di tutte le patologiedegenerative, cerebropatie incluse. Finora, tuttavia, non avevanodocumentato i fattori che la provocano, i primi passi falsi chescatenano questa reazione fatale. E ciò che stanno riscontrando è che ilglutine (e una dieta ricca di carboidrati, a dirla tutta) è fra i principalistimolatori di vie infiammatorie che arrivano al cervello. L’aspetto piùinquietante di questa scoperta è che spesso non sappiamo quando ilnostro cervello ne patisce gli effetti. Disturbi digestivi e allergiealimentari sono molto più facili da individuare, perché sintomi comeflatulenza, gonfiore, dolore, costipazione e diarrea emergono piuttostoin fretta. Il cervello, invece, è un organo più elusivo. Potrebbe subireaggressioni a livello molecolare senza che le percepiate. Se non statecurando un mal di testa o trattando un problema neurologicoevidente, potrà essere difficile sapere cosa sta succedendo a livello

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cerebrale finché non sarà troppo tardi. Nel caso dei disturbi cerebrali,invertire la rotta una volta effettuata la diagnosi per patologie come lademenza è difficile.

La buona notizia è che vi spiegherò come tenere sotto controllo ilvostro destino genetico anche se siete nati con una tendenza naturale asviluppare problemi neurologici. A questo scopo dovrete liberarvi dialcuni miti a cui tante persone continuano ad aggrapparsi. I dueprincipali sono: 1) una dieta ad alto contenuto di carboidrati e poveradi grassi fa bene e 2) il colesterolo fa male.

Eliminare il glutine non è sufficiente: è soltanto un pezzo delpuzzle. Nei prossimi capitoli comprenderete presto per quale motivoil colesterolo è uno dei componenti più importanti nel mantenimentodi un cervello sano e ben funzionante. Diversi studi indicano che ilcolesterolo alto riduce la minaccia di patologie cerebrali e aumenta lalongevità. In maniera analoga, è stato provato che elevati livelli digrassi alimentari (del tipo buono, non si parla di «grassi trans») sonofondamentali per la salute e per un’ottima funzione cerebrale.

«Come, scusi?» Mi rendo conto che forse dubiterete di questeaffermazioni perché contrastano con ciò che vi è stato insegnato acredere. Uno dei più apprezzati e rispettati studi effettuati in America,il celebre Framingham Heart Study, ha aggiunto un’enorme quantità didati alla nostra comprensione di determinati fattori di rischio per lemalattie, inclusa, di recente, la demenza. Il progetto ebbe inizio nel1948 con il reclutamento di 5209 uomini e donne, di età compresa tra itrenta e i sessantadue anni, della città di Framingham, Massachusetts,nessuno dei quali era mai stato colpito da infarto o da ictus o avevasviluppato sintomi di malattie cardiovascolari. 8 Da allora, lo studio haaggiunto diverse generazioni discendenti dal gruppo originario,consentendo agli scienziati di monitorare con cura questa popolazionee raccogliere indizi legati ai disturbi fisiologici nel contesto di unamiriade di fattori: età, genere, problemi psicosociali, caratteristichefisiche e predisposizioni genetiche. Nei primi anni del XXI secolo, iricercatori dell’Università di Boston si proposero di esaminare larelazione tra colesterolo totale e prestazioni cognitive, e presero inconsiderazione 789 uomini e 1105 donne che facevano parte del

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gruppo originale. All’inizio dello studio i soggetti non erano affetti dademenza e non avevano avuto ictus, e furono seguiti per sedici-diciotto anni. I test cognitivi furono eseguiti ogni quattro-sei anni,valutando aspetti come memoria, apprendimento, formazione deiconcetti, concentrazione, attenzione, ragionamento astratto e abilitàorganizzative: tutte funzioni compromesse nei pazienti affetti dalmorbo di Alzheimer.

Secondo il rapporto formulato su questo studio, pubblicato nel2005, «Esisteva una significativa associazione lineare positiva tracolesterolo totale e gradi di fluenza verbale,attenzione/concentrazione, ragionamento astratto e un punteggiocomposito che misura diverse sfere cognitive». 9 Inoltre, «ipartecipanti con colesterolo totale “auspicabile” (inferiore a 200)ebbero risultati meno buoni di quelli con livelli di colesterolo totaleborderline (da 200 a 239) e dei partecipanti con livelli di colesterolototale elevati (superiori a 240)». Lo studio concluse che «livelli dicolesterolo totale inferiori sono associati per natura a scarseprestazioni su parametri cognitivi che imponevano uno sforzoimportante in termini di ragionamento astratto,attenzione/concentrazione, fluenza verbale e funzionamentoesecutivo». In altre parole, nei test cognitivi le persone che avevano ilivelli più elevati di colesterolo ottenevano un punteggio superiorerispetto a quelle con livelli di colesterolo inferiori. È quindi evidenteche il colesterolo rappresenta un fattore protettivo per il cervello, e nelcapitolo III chiariremo come questo sia possibile.

I risultati delle ricerche in arrivo da vari laboratori in tutto il mondocontinuano a capovolgere le opinioni predominanti. Mentre stoscrivendo, dei ricercatori dell’Università nazionale australiana diCanberra hanno appena pubblicato su «Neurology» (la rivista medicadell’American Academy of Neurology) uno studio che mostra come isoggetti con valori glicemici nella fascia alta dell’«intervallo normale»sono molto più a rischio di atrofia cerebrale. 10 Questo si ricollega inmodo diretto alla questione del diabete di tipo 3. Sappiamo da tempoche i disturbi cerebrali e la demenza sono associati all’atrofiacerebrale. Tuttavia, scoprire che essa può essere una conseguenza di

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picchi del glucosio ematico nell’intervallo «normale» ha straordinarieimplicazioni per chiunque consumi alimenti che fanno aumentare ilglucosio ematico (per esempio i carboidrati). Spesso i pazienti diconodi stare bene perché la loro glicemia è normale. Ma cosa significa?L’esame di laboratorio può indicare che un individuo è «normale» inbase a standard prestabiliti, però nuovi studi scientifici stannoimponendo di riconsiderare i parametri di «normalità». La glicemiarisulterà «normale», ma se fosse possibile sbirciare nel pancreas forseinorridiremmo di fronte alla fatica che sopporta per fornire l’insulinasufficiente a mantenere l’equilibrio. Per questa ragione è diimportanza cruciale eseguire un esame dell’insulina a digiuno, daeffettuare appena svegli, prima di fare colazione. In quel momento unlivello elevato di insulina nel sangue è un segnale d’allarme, il segnodi un malfunzionamento del metabolismo. Potrebbe significare esseresull’orlo del diabete, con l’effetto di privare già il cervello della suafunzionalità futura.

Lo studio australiano coinvolgeva 249 persone di età compresa tra isessanta e i sessantaquattro anni, i cui valori glicemici rientravano nelcosiddetto intervallo normale; si sottoposero a risonanze del cervelloall’inizio dello studio e poi, di nuovo, in media quattro anni più tardi.I soggetti con livelli di glicemia più elevati all’interno dell’intervallonormale avevano più probabilità di evidenziare una perdita divolume cerebrale in regioni legate alla memoria e alle competenzecognitive. I ricercatori riuscirono perfino a escludere l’influenza dialtri fattori, come età, pressione sanguigna elevata, fumo e consumo dialcol. Tuttavia, riscontrarono che alla glicemia nella fascia alta deisoggetti «normali» corrispondeva il 6-10% dell’atrofia cerebrale. Lostudio suggerisce che i livelli glicemici potrebbero ripercuotersi sullasalute cerebrale anche di persone che non sono affette da diabete. 11

Gli squilibri di glicemia e insulina sono molto diffusi. Entro ilprossimo decennio, un americano su due soffrirà di «diabesità»,termine ora in uso per descrivere una serie di squilibri metabolici, dauna lieve insulinoresistenza, a un pre-diabete, a un diabeteconclamato. Ciò che in assoluto è più difficile da accettare è che per unincredibile 90% di queste persone non vi sarà alcuna diagnosi:

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andranno avanti per la loro strada e arriveranno a conoscere la lorodifficile situazione quando sarà di gran lunga troppo tardi. La miamissione è impedire tale infelice destino. Per sventare il disastro sarànecessario modificare alcune abitudini quotidiane.

Se il pensiero di seguire una dieta a basso contenuto di carboidrati èspaventoso (già vi mordete le unghie all’idea di abbandonare quelledelizie che adorate), non arrendetevi. Prometto di renderlo il più facilepossibile. Farò sparire il cesto del pane, ma lo sostituirò con altre coseche forse finora avete evitato, pensando, a torto, che in qualche modofacessero male; per esempio burro, carne, formaggio e uova, oltre auna quantità di verdure meravigliosamente salutari. La notiziamigliore di tutte è che, appena il metabolismo del vostro corpo non sibaserà più sui carboidrati, ma su grassi e proteine, troverete assai piùagevole raggiungere molti obiettivi allettanti, come perdere pesosenza sforzo e in maniera duratura, avere più energie per tutta lagiornata, dormire meglio, essere più creativi e produttivi, avere unamemoria nitida e un cervello veloce, oltre a godere di una vitasessuale migliore. Questo, è ovvio, oltre a tutelare il vostro cervello.

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L’infiammazione diventa cerebraleTorniamo al concetto di infiammazione, che ho già introdotto inquesto capitolo senza fornire una spiegazione esaustiva. Tutti hannoun’idea approssimativa di cosa si intenda, in senso molto generale,con il termine «infiammazione». Che sia il rossore che compare subitodopo la puntura di un insetto o il dolore cronico di un’articolazioneartritica, la maggioranza di noi comprende che in presenza di unosforzo, la reazione naturale del corpo è produrre gonfiore e dolore,segni distintivi del processo infiammatorio. L’infiammazione, tuttavia,non è sempre una reazione negativa. Può anche servire a indicare cheil corpo sta tentando di difendersi da qualcosa che ritiene in potenzapericoloso. Che sia per neutralizzare le tossine di un insetto o ridurreil movimento per consentire la guarigione di una caviglia slogata,l’infiammazione è vitale per la nostra sopravvivenza.

I problemi sorgono quando l’infiammazione sfugge al controllo. Ècome per il vino: un bicchiere al giorno è salutare, ma parecchibicchieri tutti i giorni possono nuocere alla salute. L’infiammazionedeve rappresentare un fenomeno di breve durata, non deve sussistereper periodi di tempo prolungati né diventare uno stato permanente.Ma questo è ciò che capita a milioni di persone. Se il corpo è sottocontinuo attacco per l’esposizione a sostanze irritanti, la rispostainfiammatoria perdura. E tramite il flusso sanguigno si diffonde inogni parte del corpo, perciò questo tipo di infiammazione diffusa èrilevabile attraverso le analisi del sangue.

Quando l’infiammazione non si risolve, vengono prodotte una seriedi sostanze chimiche con un effetto tossico immediato sulle nostrecellule. Ne deriva una riduzione della funzione cellulare, seguita dalladistruzione delle cellule. L’infiammazione incontrollata è dilagantenelle culture occidentali, e ricerche scientifiche di primo pianomostrano che è una causa fondamentale della morbilità e dellamortalità associate a patologie delle arterie coronariche, cancro,diabete, morbo di Alzheimer e, in pratica, ogni altra malattia cronicache si possa immaginare.

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Non occorre un grande sforzo per rendersi conto di comeun’infiammazione incontrollata sia alla base di un problema comel’artrite, per esempio. In fondo, i comuni farmaci usati per curarequesta malattia, come ibuprofene e aspirina, sono venduti come«antinfiammatori». Nel caso dell’asma, si usano antistaminici percombattere la reazione infiammatoria dovuta all’esposizione a unasostanza irritante, che suscita una risposta allergica. Al giorno d’oggi,un numero crescente di persone sta cominciando a capire che lacoronaropatia, una delle principali cause di infarto, potrebbe in realtàavere a che fare più con l’infiammazione che con il colesterolo alto.Questo spiega perché l’aspirina, oltre alle sue proprietàanticoagulanti, sia utile per ridurre il rischio non solo di attaccocardiaco, ma anche di ictus.

Il collegamento tra infiammazione e patologie cerebrali, anche seben illustrato dalla letteratura scientifica, appare tuttavia per certiversi difficile da comprendere, ed è in larga misura sconosciuto alpubblico. Forse una delle ragioni per cui la gente non sembra riuscirea concepire il coinvolgimento dell’«infiammazione cerebrale» in ognicosa – dal morbo di Parkinson a sclerosi multipla, epilessia, autismo,morbo di Alzheimer e depressione – è che, a differenza del resto delcorpo, il cervello non è dotato di recettori del dolore, dunque nonpossiamo percepire l’infiammazione a livello cerebrale.

Concentrarsi sulla riduzione dell’infiammazione potrebbe sembrarefuori luogo quando si tratta di migliorare la salute e la funzionecerebrale. Ma anche se conosciamo tutti il rapporto tra infiammazionee condizioni patologiche come artrite e asma, il decennio scorso haprodotto un ampio corpus di ricerche che puntano in manierainequivocabile il dito contro l’infiammazione considerandola la causadi una serie di malattie neurodegenerative. Di fatto, studi cherisalgono ancora agli anni Novanta indicano che persone che hannoassunto per due o più anni farmaci antinfiammatori non steroideicome l’Advil (ibuprofene) e l’Aleve (naprossene) possono avere unariduzione del rischio di oltre il 40% per il morbo di Alzheimer e diParkinson. 12 Nello stesso tempo, altri studi hanno evidenziato conchiarezza un drastico innalzamento delle citochine, i mediatori

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cellulari dell’infiammazione, nel cervello degli individui che soffronodi queste e altre patologie cerebrali degenerative. 13 Oggi la nuovatecnologia della diagnostica per immagini permette finalmente divedere cellule attive nella produzione di citochine infiammatorie nelcervello di pazienti affetti da Alzheimer.

Ora dunque siamo costretti a vedere l’infiammazione sotto una lucedel tutto nuova: ben più della mera causa di un dolore al ginocchio ealle articolazioni, essa rafforza il processo stesso della degenerazionedel cervello. In definitiva, il principale effetto derivantedall’infiammazione nel cervello, responsabile del danno, èl’attivazione di vie chimiche che incrementano la produzione diradicali liberi. Al centro dell’infiammazione cronica si trova il concettodi stress ossidativo, una sorta di «arrugginimento» biologico. Questagraduale corrosione si verifica su tutti i tessuti, e fa parte della vita;avviene ovunque in natura, anche quando i nostri corpi trasformanole calorie del cibo e l’ossigeno dell’aria in energia utilizzabile.Tuttavia, essa può diventare fatale quando inizia a dilagare, o quandoil corpo non riesce a tenerla sotto un salutare controllo. Sebbene laparola «ossidazione» implichi ossigeno, non si tratta del tipo cherespiriamo. Il cattivo qui è solo O, perché non è in coppia (O2) conun’altra molecola di ossigeno.

Permettetemi di compiere un ulteriore passo avanti nelladescrizione del processo di ossidazione. La maggior parte di noi hagià sentito parlare dei radicali liberi. Si tratta di molecole che hannoperduto un elettrone. Di norma, gli elettroni si trovano in coppie, mafattori come stress, inquinamento, sostanze chimiche, elementi tossicinell’alimentazione, luce solare ultravioletta e comuni attività fisichepossono «liberare» un elettrone da una molecola. Quest’ultima, diconseguenza, perderà le sue «buone maniere» e comincerà a tentare disottrarre elettroni ad altre molecole. Tale disturbo è il processo diossidazione, una catena di eventi che produce altri radicali liberi eprovoca infiammazione. Poiché i tessuti ossidati e le cellule ossidatenon funzionano in modo normale, questo processo può renderevulnerabili a molteplici problemi di salute. Ciò contribuisce a spiegareperché le persone con elevati livelli di ossidazione – spesso riflessa da

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elevati livelli di infiammazione – presentino un lungo elenco diproblemi di salute e di sintomi: da una bassa resistenza alle infezioni adolori articolari, disturbi della digestione, ansia, mal di testa,depressione e allergie.

Inoltre, come forse immaginerete, una ridotta ossidazione attenual’infiammazione, che a sua volta aiuta a limitare l’ossidazione. Gliantiossidanti sono importanti proprio per questo motivo. Questinutrienti, come per esempio le vitamine A, C ed E, donano elettroni airadicali liberi interrompendo la reazione a catena e contribuendo aprevenire danni. Nel corso della storia, alimenti ricchi di antiossidanticome piante, bacche e frutta a guscio hanno fatto parte della nostraalimentazione, ma oggi l’industria alimentare esclude dalle nostrediete molti nutrienti indispensabili per una salute e per unmetabolismo energetico ottimale.

Più avanti vi illustrerò come attivare nel vostro corpo unaparticolare via che non solo riduce in modo diretto e naturale i radicaliliberi, ma protegge il cervello diminuendo l’eccesso di radicali liberiprodotti dall’infiammazione. Interventi concepiti per ridurrel’infiammazione usando sostanze naturali come la curcuma sono statidescritti nella letteratura medica già più di duemila anni fa, ma è solonel decennio scorso che abbiamo iniziato a comprendere questaintricata ed eloquente biochimica.

Un altro risultato di questa via biologica è l’attivazione di genispecifici che codificano per la produzione di enzimi e altre sostanzechimiche utili a scomporre ed eliminare varie tossine cui siamoesposti. Sarebbe lecito chiedersi perché il DNA umano contenga codiciper la produzione di sostanze chimiche detossificanti, dato chetendiamo a presumere che la nostra prima vera esposizione a tossinesia avvenuta con l’era industriale. Ma gli esseri umani – e, in realtà,tutte le creature viventi – sono stati esposti a svariate tossine fin daquando c’è stata vita sul pianeta. A prescindere dalle tossine cheesistono in natura nel nostro ambiente esterno, come piombo, arsenicoe alluminio, e da quelle potenti generate per una forma di protezioneda piante e animali consumati in vario modo, i nostri corpi produconotossine al proprio interno durante i normali processi del metabolismo.

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Per fortuna questi geni della detossificazione, ora più necessari chemai, sono dunque al nostro servizio da molto, molto tempo. E stiamosolo cominciando a comprendere che sostanze naturali reperibili nelpiù vicino negozio di alimentari, come la curcuma e l’acidodocosaesaenoico (DHA, dall’inglese Docosahexaenoic Acid), un omega 3,possono agire come potenti agenti detossificanti migliorandol’espressione genica.

Non è solo ciò che mangiamo a poter modificare l’espressione deinostri geni e, di conseguenza, aiutare ad affrontare l’infiammazione.Come avrete modo di imparare, recenti studi dimostrano il ruolodell’esercizio fisico e del sonno quali importanti regolatori (dellespecie di telecomandi) del nostro DNA. Inoltre apprenderete comesviluppare nuove cellule cerebrali e vi mostrerò come e perché laneurogenesi (la nascita di nuove cellule cerebrali) è sotto il vostrocontrollo.

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Ironia crudele: le statineDieta ed esercizio fisico possono stimolare i metodi naturali adottatidal corpo per far fronte all’infiammazione, ma esistono anche degliargomenti a favore dei farmaci? Tutt’altro. È paradossale, ma le statine(per esempio Lipitor, Crestor, Zocor), che abbassano il colesterolo esono fra le medicine più spesso prescritte, sono pubblicizzate comerimedio per ridurre il livello di infiammazione globale. Nuovericerche, tuttavia, rivelano che le statine possono alterare la funzionecerebrale e aumentare il rischio di cardiopatie. La ragione è semplice:per prosperare il cervello necessita di colesterolo, cosa che ho già fattopresente, ma che ripeterò per assicurarmi che non lo dimentichiate. Ilcolesterolo è una sostanza nutriente essenziale per il funzionamentodei neuroni e svolge un ruolo fondamentale come componente dellamembrana cellulare. Esso agisce come antiossidante e comeprecursore per importanti elementi di supporto del cervello quali lavitamina D e gli ormoni steroidei (per esempio gli ormoni sessualicome testosterone ed estrogeno). Ma soprattutto il colesterolo èconsiderato un combustibile essenziale per i neuroni: non essendo ingrado di generarne importanti quantità, i neuroni contano su quellofornito dal flusso sanguigno tramite una specifica proteina vettrice. Èinteressante notare che a questa proteina, l’LDL, è stato attribuito iltitolo spregiativo di «colesterolo cattivo». In realtà, l’LDL non è affattouna molecola di colesterolo, né buono né cattivo. È una lipoproteina abassa densità (Low-Density Lipoprotein, da cui l’acronimo) e non haproprio nulla di cattivo. Il suo ruolo fondamentale nel cervello ècatturare colesterolo vitale e trasportarlo fino al neurone, dovesvolgerà funzioni di importanza cruciale.

Nella letteratura scientifica abbiamo ormai prove evidenti chedimostrano che, quando i livelli di colesterolo sono bassi, il cervellonon funziona bene; il rischio di demenza e di altri problemineurologici è molto più grande nei soggetti con il colesterolo basso.Dobbiamo cambiare atteggiamento nei confronti del colesterolo eanche dell’LDL: sono nostri amici, non sono nemici.

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E il rapporto tra colesterolo e coronaropatia? Nel capitolo IIIaffronterò proprio questo problema. Per il momento, desideroinsinuare nella vostra mente l’idea che il colesterolo sia buono.Vedrete ben presto che eravamo fuori strada nel biasimare ilcolesterolo, e in particolare l’LDL, quando invece la coronaropatia hapiù a che fare con l’LDL ossidata. E come avviene che l’LDL siadanneggiata al punto di non riuscire più a fornire colesterolo alcervello? Una delle spiegazioni più comuni riguarda la modificazionefisica del glucosio. Le molecole di glucosio si legano all’LDL ecambiano la forma della molecola, rendendola meno utile eaumentando al tempo stesso la produzione di radicali liberi.

Se quello che ho appena descritto vi sfugge, niente panico. Neiprossimi capitoli vi prenderò per mano illustrando tutti questiprocessi biologici. In queste pagine ho accennato in generale a moltitemi per preludere al resto del libro, che presenterà in modo piùapprofondito la storia degli effetti dell’alimentazione sul cervello.Vorrei che rifletteste su alcune domande. Abbiamo accelerato ildeclino del nostro cervello seguendo una dieta povera di grassi e riccadi carboidrati, con la frutta come contorno? Possiamo davverocontrollare il destino del nostro cervello solo attraverso lo stile di vita,a dispetto del DNA che abbiamo ereditato? Gli interessi investitinell’industria farmaceutica sono troppo elevati per prendere inconsiderazione il fatto che possiamo prevenire, curare e talvoltaguarire in modo naturale (senza farmaci) uno spettro di disturbi delcervello come quello da deficit di attenzione e iperattività,depressione, ansia, insonnia, autismo, sindrome di Tourette, mal ditesta e Alzheimer? La risposta a tutte e tre le domande è un clamorososì. Anzi, mi spingerò perfino oltre, arrivando a suggerire che possiamoprevenire anche cardiopatia e diabete. L’attuale modello di «terapia»per questi mali dedica troppa attenzione al fumo dei sintomi,ignorando il fuoco che cova. Un approccio di questo genere èinefficace e insostenibile. Per estendere i limiti della longevità umana,vivere ben oltre i cento anni e avere davvero qualcosa di eccezionaleda raccontare ai nostri antenati preistorici, dovremo cambiare tutto ilnostro modus operandi.

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L’obiettivo di questo capitolo era spiegare la storiadell’infiammazione e presentare un nuovo modo di pensare (eguardare) al proprio cervello (e al proprio corpo). Diamo per scontatoche il Sole sorga a est ogni mattina e la sera tramonti a ovest. Il giornodopo, si ripeterà la stessa cosa. Ma se vi dicessi che il Sole non si staaffatto muovendo? Siamo noi che giriamo e ci spostiamo intorno alSole! Confido che già lo sapeste, ma il senso di questa analogia è chetendiamo a sposare idee che non sono più valide. Spesso, al termine diuna conferenza, qualcuno viene a ringraziarmi per avere pensato fuoridagli schemi. Con tutto il dovuto rispetto, non è questo il punto. Almondo non fa bene considerarmi uno che ha idee «fuori daglischemi». La mia missione è allargare gli schemi affinché questiconcetti siano parte della nostra cultura e del nostro modo di vivere.Soltanto allora saremo in grado di compiere seri e significativiprogressi nella cura delle malattie moderne.

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Dalla salute del cervello alla salute globaleIl fatto ineludibile è che ci siamo evoluti in una specie che necessita digrasso per vivere in modo sano. Le massicce quantità di carboidratiche consumiamo oggi alimentano nel nostro corpo e nel nostrocervello una silenziosa tempesta di fuoco. E non sto parlando solo delcibo industriale e raffinato, che, lo sappiamo tutti, non ci farà certovincere un premio dal dottore (né tantomeno sulla bilancia). Nella suaopera fondamentale, La dieta zero grano, il dottor William Davis lospiega con parole che mi piacciono molto:

Che si tratti di uno sfilatino di pane integrale biologico ricco di fibreo di un plumcake alla crema, che cosa state mangiando, conprecisione? Sappiamo tutti che un plumcake alla crema è unadebolezza cui cediamo nonostante si tratti di un prodottoindustriale e raffinato e nonostante la saggezza convenzionale ciconsigli di preferirgli il pane integrale, fonte di fibre, di vitamina B edi carboidrati «complessi». Ma c’è sempre un altro lato dellamedaglia. Andiamo a dare un’occhiata alla composizione del granoe cerchiamo di capire perché – indipendentemente da forma, colore,contenuto di fibre, coltivazione più o meno biologica – esso ha sugliesseri umani degli effetti strani. 14

E il nostro prossimo passo sarà proprio questo. Ma a differenza delbrillante resoconto di Davis sui cereali moderni e la battaglia contro ichili di troppo, andremo a vedere come i cereali possano infliggeredanni là dove prima non avremmo mai immaginato: al cervello.

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Capitolo II

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La proteina collosaIl ruolo del glutine nell’infiammazione cerebrale (non è solo questione di

pancia)

Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei.ANTHELME BRILLAT-SAVARIN (1755-1826)

Quasi tutti hanno provato il pulsare di un mal di testa e l’agonia diuna grave congestione. In molti casi, quando i sintomi ci assalgono,siamo in grado di indicare una causa probabile, per esempio unalunga giornata davanti al computer nel caso di un mal di testa datensione, o un raffreddore passeggero quando deglutire fa male e si hail naso chiuso. Di solito, per trovare sollievo, ricorriamo a farmaci dabanco per tenere a bada i sintomi finché il corpo non torna a unnormale stato di salute. Ma cosa fate se i sintomi non scompaiono ed èmolto più difficile identificarne l’origine? Se, come tanti dei mieipazienti, vi trovate coinvolti per anni in una guerra senza fine condolore e sofferenza persistenti?

Fran lottava per scacciare dalla sua testa quella sensazionemartellante fin da quando riusciva a ricordare. Il giorno in cui lavisitai per la prima volta, in una calda mattina di gennaio, Fran fuaffabile come poteva esserlo una sessantatreenne che sopportavaemicranie quotidiane. Naturalmente aveva provato tutte le tipichemedicine per il mal di testa e diverse volte alla settimana prendeval’Imitrex (sumatriptano), un potente farmaco contro l’emicrania.Nell’esaminare la sua anamnesi, mi accorsi che intorno ai vent’anniaveva subito un «intervento esplorativo all’intestino» perché soffrivadi «grave disagio intestinale». Come parte della sua valutazione lasottoposi al test per rilevare la sensibilità al glutine, e non mi sorpresiquando scoprii che risultava fortemente positiva per otto dei

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marcatori. Le prescrissi una dieta senza glutine. Quattro mesi dopo,ricevetti una lettera di Fran che diceva:

Da quando ho eliminato il glutine dalla dieta, i sintomi quasiquotidiani della mia emicrania sono diminuiti. … I due maggioricambiamenti nel mio corpo sono l’enorme aumento dei livellienergetici e il fatto che di notte non sento più la testa molto calda,con la conseguente emicrania. È incredibile quello che riesco arealizzare oggi in una giornata rispetto a prima di rivolgermi a lei.

E proseguiva concludendo: «Grazie ancora per aver trovato quella chesembra essere la soluzione ai miei numerosi anni di sofferenza daemicrania». Vorrei che avesse potuto avere indietro quegli anni, maalmeno ora potevo darle un futuro libero dal dolore.

Un’altra donna, Lauren, venne da me con una serie di sintomi deltutto diversi, ma un’analoga, prolungata storia di sofferenza. Avevaappena trent’anni, e al nostro primo incontro mi disse senza mezzitermini di avere «problemi mentali». Lauren espose in dettaglio lastoria dei dodici anni precedenti, che descrisse come un costantedeclino in termini di salute. Mi raccontò che la sua gioventù era statapiuttosto stressante in seguito alla perdita della madre e della nonnain giovane età. Quando era andata all’università, era stata ricoveratain ospedale in diverse occasioni per «episodi maniacali» durante iquali diventava logorroica e aveva manie di grandezza. A quel puntomangiava troppo, guadagnava molto peso ed entrava in una fase digrave depressione con tendenze suicide. Aveva iniziato da poco adassumere il litio, una medicina usata per curare il disturbo bipolare.La malattia mentale era di famiglia; sua sorella era affetta daschizofrenia e suo padre era bipolare. A eccezione del drammaticoracconto dei suoi problemi mentali, il resto dell’anamnesi di Laurenera piuttosto comune. Non lamentava disturbi intestinali, allergiealimentari né nessun altro dei normali tipi di disturbi associati allasensibilità al glutine.

Prescrissi comunque un test per la sensibilità al glutine, dal qualerisultarono livelli molto alti di sei marcatori importanti per questodisturbo. In realtà, diversi di questi marcatori superavano i valori

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normali di più del doppio. Due mesi dopo aver iniziato una dietasenza glutine, Lauren mi scrisse una lettera che faceva eco a ciò che miero sentito dire da tanti pazienti che avevano eliminato il glutine egodevano dei notevoli risultati. Affermava:

Da quando non consumo più il glutine, la mia vita ha compiuto unasvolta di 180 gradi. Il primo e più importante cambiamento che miviene in mente riguarda il mio umore. Quando consumavo ilglutine, lottavo con sensazioni di depressione. Dovevo semprecombattere contro una «nuvola nera sopra la mia testa». Ora non misento più depressa. L’unica volta che per errore ne ho mangiato unpo’, il giorno dopo ero di nuovo giù di morale. Fra gli altricambiamenti che ho notato c’è il fatto che ho più energie e riesco arimanere concentrata per periodi più lunghi. I miei pensieri sonopiù lucidi che mai. Sono in grado di prendere una decisione egiungere a una conclusione logica e sicura come mai in precedenza.E mi sono liberata anche di molti comportamenti ossessivo-compulsivi.

Permettetemi di citarvi un altro esempio, un caso emblematico di unaserie di sintomi collegati alla stessa causa. Kurt e sua madre sirivolsero a me quando lui era un giovane ventitreenne e soffriva peralcuni movimenti anomali del suo corpo. Sua madre dichiarò che seimesi prima della visita «sembrava si fosse messo a rabbrividire». Daprincipio i suoi tremori erano lievi, ma poi, con il tempo, eranopeggiorati. Era stato da due neurologi e aveva ricevuto due diversediagnosi: una di quello che viene chiamato «tremore essenziale» eun’altra di «distonia». I dottori gli avevano proposto un farmaco perla pressione sanguigna, il propranololo, utilizzato per la cura di certitipi di disturbi da tremore. L’altro consiglio era di farsi iniettare neimuscoli delle braccia e del collo del Botox, la tossina botulinica, perparalizzare in via provvisoria i muscoli spastici. Il ragazzo e la madreavevano scelto di non usare né le pillole né le iniezioni.

La sua anamnesi era interessante sotto due aspetti. Innanzitutto, inquarta elementare gli era stata diagnosticata una difficoltà diapprendimento: sua madre disse che «non riusciva a reggere stimolieccessivi». E poi, per diversi anni, aveva lamentato dolori di stomaco e

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diarrea, tanto che era dovuto andare da un gastroenterologo. Questiaveva effettuato una biopsia dell’intestino tenue per scoprire se eraceliaco, ma il risultato fu negativo.

Quando visitai Kurt, il suo problema di eccessivo movimento eramolto evidente. Non riusciva a controllare il tremore delle braccia edel collo e appariva molto sofferente. Passai in rassegna gli esiti deisuoi esami di laboratorio, in gran parte poco rivelatori. Era statosottoposto al test per il morbo di Huntington, una malattia ereditarianota per provocare nei giovani un’analoga anomalia nel movimento, eper il morbo di Wilson, un disturbo del metabolismo del rameassociato anch’esso ad anomalie motorie. Tutti questi test eranonegativi. Le analisi del sangue per verificare la sensibilità al glutine,tuttavia, evidenziarono livelli elevati di determinati anticorpiindicativi di vulnerabilità. Spiegai a Kurt e a sua madre che eraimportante accertare che la sensibilità al glutine non fosse la causa delsuo disturbo del movimento e li informai su come seguire una dietasenza glutine.

Dopo diverse settimane ricevetti una telefonata dalla madre diKurt: i suoi tremori si erano senza dubbio calmati. Dato ilmiglioramento, il ragazzo scelse di portare avanti quella dieta; dopocirca sei mesi le anomalie motorie erano quasi del tutto scomparse. Icambiamenti avvenuti in questo giovane sono spettacolari, specie seconsideriamo che un semplice mutamento di alimentazione ebbe unimpatto così rivoluzionario sulla sua vita.

La letteratura medica sta solo compiendo i primi passi nelladocumentazione di un legame tra disturbi del movimento e sensibilitàal glutine. Medici come me hanno ormai identificato e curato ungruppetto di individui i cui disturbi motori, per i quali non era stataevidenziata altra causa, sono cessati del tutto con l’adozione di unadieta senza glutine. Purtroppo, però, la maggioranza dei dottori cheadottano la medicina tradizionale non tengono presente la possibilitàdi ricollegare tali disturbi alla dieta e non sono al corrente delle ultimenovità.

Questi casi non sono atipici e riflettono schemi da me osservati intanti pazienti. Potranno rivolgersi a me con problemi di salute molto

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differenti, ma condividono un filo comune: la sensibilità al glutine.Sono convinto che il glutine sia un veleno moderno e che la ricerca stiaobbligando dottori come me a rendersene conto e a riesaminare ilquadro generale dei disturbi e delle malattie cerebrali. La buonanotizia è che conoscere questo comune denominatore ora significapotere curare e, in alcuni casi, guarire un ampio spettro di patologiecon un’unica ricetta: l’eliminazione del glutine dalla dieta.

Entrate in qualsiasi negozio di alimenti naturali (e oggi anche in unnormale supermercato) e sarete senz’altro colpiti dall’assortimento diprodotti «senza glutine». Negli ultimi anni il volume dei prodottisenza glutine in vendita è esploso; secondo gli ultimi calcoli, il settoreregistrava 6,3 miliardi di dollari nel 2011 e sta continuando acrescere. 1 Sottoprodotti di qualsiasi cosa, dai cereali per la colazioneal condimento per insalate, sono ormai posizionati per approfittare delnumero sempre maggiore di acquirenti che scelgono alimenti senzaglutine. Perché tutta questa pubblicità?

L’attenzione mediatica può senza dubbio giocare un ruolo decisivo.In un articolo del 2011 su «Yahoo! Sports», che domandava Is NovakDjokovic’s new, gluten-free diet behind his win streak? (La serie di vittoriedi Novak Djokovic è dovuta alla sua nuova dieta senza glutine?) sileggeva questa risposta: «Un semplice test per le allergie potrebbeavere portato a uno dei momenti d’oro nella storia del tennis». 2

A prescindere dalla rivelazione di quest’unico atleta, tuttavia,cos’ha da dire la comunità scientifica riguardo alla sensibilità alglutine? Cosa significa essere «sensibili al glutine»? In che modo èdifferente dall’essere affetti da celiachia? Cosa c’è di così cattivo nelglutine? Non è forse sempre esistito? E cosa intendo, con precisione,quando parlo di «cereali moderni»? Vediamolo insieme.

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La colla del glutineIl glutine (dal latino gluten, cioè «colla») è un complesso di proteineche agisce come un materiale adesivo, tenendo insieme la farina perpreparare prodotti come il pane, i cracker, i prodotti da forno el’impasto per la pizza. Quando date un morso a un soffice muffin ostendete l’impasto della pizza, dovete ringraziare il glutine. Al giornod’oggi, di fatto, la maggior parte dei prodotti di panetteria incommercio devono la loro gommosità al glutine. Il glutine svolge unruolo chiave nel processo della fermentazione, facendo «crescere» ilpane quando il grano si mescola al lievito. Per tenere fra le mani unapalla che sia in essenza glutine, mescolate acqua e farina di grano,formate un impasto lavorandolo a mano e poi sciacquatelo sottol’acqua corrente per eliminare gli amidi e la fibra. Quello che rimane èun miscuglio appiccicoso di proteine.

La maggioranza degli americani consuma il glutine attraverso ilgrano, ma lo si trova anche in vari cereali inclusi segale, orzo, farro,kamut e bulgur. È uno dei più diffusi additivi alimentari sul pianetaed è utilizzato non solo negli alimenti industriali, ma anche neiprodotti per la cura della persona. Essendo un agente stabilizzanteaffidabile, aiuta i formaggi da spalmare e le margarine a conservare laloro consistenza omogenea, impedisce alle salse di «impazzire» e aisughi di rapprendersi. Anche i balsami per capelli e i mascaravolumizzanti devono ringraziare il glutine. La gente può essereallergica al glutine come a qualunque proteina. Ma diamo un’occhiatapiù approfondita alla portata del problema.

Il glutine non è una singola molecola; esso è composto da duegruppi principali di proteine, le glutenine e le gliadine. Una personapuò essere sensibile a una o all’altra di queste proteine o a una delledodici diverse componenti più piccole della gliadina. Una qualunquedi queste potrebbe provocare una reazione di sensibilità che conduceal processo infiammatorio.

Quando parlo con i pazienti di sensibilità al glutine, una delleprime cose che dicono è qualcosa come: «Beh, io non ho la celiachia.

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Ho fatto il test!». Faccio del mio meglio per spiegare che esisteun’enorme differenza tra morbo celiaco e sensibilità al glutine. Il mioscopo è comunicare l’idea che il morbo celiaco, altrimenti noto comesprue, è una manifestazione estrema della sensibilità al glutine. Laceliachia è ciò che avviene quando una reazione allergica al glutineprovoca danni in particolare all’intestino tenue. È una delle reazionipiù gravi che si possono avere al glutine. Sebbene molti espertistimino che 1 persona su 200 sia affetta da celiachia, si tratta di uncalcolo al ribasso; il numero è probabilmente più vicino a 1 su 30, dalmomento che molti casi non vengono diagnosticati. Fino a 1 personasu 4 è vulnerabile a questa malattia solo per motivi genetici (lepersone di ascendenza nordeuropea sono caratterizzate da questaparticolare predisposizione). Oltretutto, ognuno di noi può essereportatore di geni che codificano per versioni lievi di intolleranza alglutine, dando luogo a un ampio spettro di sensibilità a questasostanza. Il morbo celiaco non si limita a danneggiare l’intestino: unavolta attivati i geni per questa malattia, la sensibilità al glutine è undisturbo che dura per tutta la vita e può ripercuotersi sulla pelle esulle membrane mucose, oltre a provocare vesciche in bocca. 3

A prescindere dalle reazioni estreme che portano a una malattiaautoimmune come la celiachia, la chiave per capire la sensibilità alglutine è la sua capacità di coinvolgere qualsiasi organo del corpo,anche risparmiando del tutto l’intestino tenue. Così, anche se unapersona non è affetta dal morbo celiaco ma è sensibile al glutine, il suoorganismo – cervello incluso – sarà in grave pericolo.

È utile comprendere che di solito, in generale, le sensibilitàalimentari sono una risposta del sistema immunitario. Esse si possonoverificare anche quando il corpo non dispone degli enzimi giusti perdigerire elementi che si trovano nei cibi. Nel caso del glutine, la suaqualità «collosa» interferisce con la scomposizione e l’assorbimentodei nutrienti. Come potete immaginare, il cibo mal digerito comportaun residuo pastoso nell’intestino, che allerta il sistema immunitarioaffinché entri in azione, con il risultato finale di un attacco contro laparete dell’intestino tenue. I sintomi lamentati sono doloreaddominale, nausea, diarrea, costipazione e sofferenza intestinale.

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Alcune persone, tuttavia, pur non sperimentando segni evidenti diproblemi gastrointestinali, potrebbero subire un attacco silente altrovenell’organismo, per esempio nel sistema nervoso. Ricordatevi che,quando reagisce in modo negativo a un alimento, il corpo tenta dicontrollare i danni inviando molecole messaggere dell’infiammazioneper etichettare le particelle alimentari come nemiche. Ciò induce ilsistema immunitario a continuare a inviare sostanze chimicheinfiammatorie, cellule killer incluse, nel tentativo di spazzare via inemici. Spesso questo processo danneggia i tessuti, compromettendole pareti dell’intestino, un disturbo noto come «permeabilitàintestinale». Quando un soggetto ne soffre, sarà molto suscettibile aulteriori intolleranze alimentari in futuro. E l’aggressionedell’infiammazione può anche comportare il rischio di sviluppare unamalattia autoimmune. 4

L’infiammazione, ormai lo sapete, è la pietra angolare di moltidisturbi cerebrali e può avere inizio quando il sistema immunitarioreagisce a una sostanza nel corpo di una persona. Dopo che glianticorpi entrano in contatto con una proteina o un antigene a cuiquesta persona è allergica, si scatena la cascata infiammatoria, con ilrilascio di tutta una serie di sostanze chimiche dannose conosciutecome citochine. In particolare, la sensibilità al glutine è causata daelevati livelli di anticorpi che agiscono contro la componentegliadinica del glutine. Quando l’anticorpo si combina con questaproteina (formando un anticorpo antigliadina), vengono attivatideterminati geni in un particolare tipo di cellula immunitaria. Unavolta attivati questi geni, si ha un accumulo di citochine infiammatorieche possono attaccare il cervello ed esercitare un forte effettoantagonista su di esso, danneggiandone il tessuto e lasciandolovulnerabile a disfunzioni e malattie, soprattutto se questa situazione siprotrae. Inoltre, gli anticorpi antigliadina possono legarsi direttamentea proteine specifiche che si trovano nel cervello e somigliano allagliadina presente negli alimenti contenenti glutine: gli anticorpiantigliadina non sono capaci di distinguere tra le due. È un fenomenogià descritto da decenni e porta a sua volta alla formazione di altrecitochine infiammatorie. 5

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Considerato questo, non sorprende che si osservino elevati livelli dicitochine nel morbo di Alzheimer, in quello di Parkinson, nellasclerosi multipla e perfino nell’autismo. 6 (La ricerca ha posto inevidenza che alcune persone cui è stata diagnosticata per errore la SLA,o il morbo di Lou Gehrig, hanno una semplice sensibilità al glutine:eliminarlo dalla dieta farà scomparire i sintomi.) 7 Come segnalato nel1996 in un articolo sul «Lancet» dal professor Marios Hadjivassiliou,uno dei più stimati ricercatori d’Inghilterra del Royal HallamshireHospital di Sheffield nel campo della sensibilità al glutine in relazioneal cervello: «I nostri dati suggeriscono che la sensibilità al glutine ècomune in pazienti con disturbi neurologici di origine ignota epotrebbe avere rilevanza eziologica». 8

Per uno come me, che si occupa ogni giorno di difficili disturbicerebrali di «origine ignota», l’affermazione del dott. Hadjivassiliou fariflettere, tenendo conto che circa il 99% delle persone il cui sistemaimmunitario reagisce in maniera negativa al glutine non ne è neppureconsapevole. Hadjivassiliou prosegue sostenendo che «la sensibilità alglutine può portare essenzialmente, e talvolta esclusivamente, a undisturbo neurologico». In altri termini, i soggetti sensibili al glutinepossono avere problemi con la funzione cerebrale in assenza diqualsiasi problema gastrointestinale. Per questa ragione, eglisottopone al test per la sensibilità al glutine tutti i suoi pazienti chehanno disturbi neurologici inspiegabili. Trovo che Hadjivassiliou e isuoi colleghi abbiano offerto un’eccellente sintesi dei fatti in uneditoriale del 2002 intitolato Gluten Sensitivity as a Neurological Illness(La sensibilità al glutine come malattia neurologica) sul «Journal ofNeurology, Neurosurgery, and Psychiatry»:

Ci sono voluti quasi 2000 anni per rendersi conto che una comuneproteina alimentare, introdotta nella dieta umana piuttosto tardi intermini evoluzionistici (circa 10.000 anni fa), può provocare malattienon solo dell’intestino, ma anche della pelle e del sistema nervoso.Le manifestazioni neurologiche multiformi della sensibilità alglutine possono verificarsi senza alcun coinvolgimentodell’intestino e i neurologi devono pertanto acquisire familiarità conle comuni manifestazioni neurologiche e gli strumenti per

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diagnosticare questo disturbo. 9

Nella parte conclusiva, inoltre, l’editoriale riepilogava in modobrillante i risultati, ripetendo affermazioni di saggi precedenti:

La sensibilità al glutine è meglio definita come uno stato diaccresciuta reattività immunologica in persone che presentano unapredisposizione genetica. Questa definizione non implica uncoinvolgimento intestinale. Considerare la sensibilità al glutineprima di tutto un disturbo dell’intestino tenue è un pregiudiziostorico. 10

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La celiachia nella storiaSebbene la letteratura medica abbia dedicato scarsissima attenzione alrapporto tra sensibilità al glutine e disturbi neurologici, siamo ingrado di seguire una traccia evidente di conoscenze che si sonoaccumulate e risalgono a migliaia di anni fa, a un periodo in cui ilglutine non faceva neppure parte del nostro vocabolario. A quantopare le prove stavano già emergendo, solo che fino all’inizio del secolonon eravamo in grado di documentarle. Il fatto di riuscire finalmentea individuare un collegamento tra il morbo celiaco – come accennato,la reazione più forte al glutine – e i problemi di carattere neurologicoha implicazioni per tutti noi, inclusi coloro che non sono celiaci. Lostudio dei pazienti celiaci ha consentito di mettere a fuoco i veripericoli del glutine, rimasti per tanto tempo nascosti e silenti.

La celiachia può sembrare una «nuova malattia», ma le primedescrizioni di questo disturbo risalgono al I secolo d.C., quandoAreteo di Cappadocia, uno dei più illustri medici dell’antica Grecia,ne scrisse in un manuale di medicina che riguardava varie patologie,comprese anomalie neurologiche come epilessia, mal di testa, vertiginie paralisi. Areteo fu anche il primo a usare il termine «celiaco», dallaparola greca per «ventre». Nel descrivere questo male, disse: «Essendol’organo digestivo, lo stomaco lavora alla digestione quando la diarreacolpisce il paziente … e se in aggiunta il sistema generale del pazienteè debilitato da un’atrofia del corpo, ne deriva il morbo celiaco dinatura cronica». 11

Nel XVII secolo, il termine «sprue» fu introdotto nella linguainglese dalla parola olandese sprouw, che significa diarrea cronica, unodei sintomi classici del morbo celiaco. Il pediatra inglese Samuel J. Geefu tra i primi a riconoscere l’importanza della dieta nel trattarepazienti affetti da questa malattia; in una conferenza del 1887 pressoun ospedale di Londra diede la prima descrizione moderna di questodisturbo nei bambini, osservando: «Se il paziente può essere guarito,sarà mediante una dieta».

All’epoca, tuttavia, nessuno era in grado di indicare con precisione

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la componente responsabile del problema, perciò i consigli permodificare la dieta e individuare una cura erano tutt’altro che precisi.Il dott. Gee, per esempio, bandiva frutta e verdura, che non avrebberoposto alcun problema, ma permetteva fette sottili di pane tostato. Fumolto commosso dalla guarigione di un bambino «che fu nutrito conoltre un chilo al giorno delle migliori cozze olandesi», ma ebbe unaricaduta non appena finì la stagione dei mitili (forse tornò aconsumare pane tostato). Negli Stati Uniti, la prima analisi dellamalattia fu pubblicata nel 1908, quando il dott. Christian Herterscrisse un libro sui bambini affetti dal morbo celiaco, che chiamò«infantilismo intestinale». Come avevano notato altri in precedenza, siaccorse che questi bambini non riuscivano a crescere bene e aggiunseche tolleravano meglio i grassi dei carboidrati. Poi, nel 1924, Sidney V.Haas, un pediatra americano, segnalò gli effetti positivi di una dieta dibanane (il miglioramento non era dovuto alle banane, è ovvio, mapiuttosto al fatto che questa dieta escludeva il glutine).

Sebbene sia difficile immaginare che una dieta di questo genereresista alla prova del tempo, essa rimase popolare finché non fupossibile determinare e confermare l’effettiva causa della celiachia. Equesto avrebbe richiesto un altro paio di decenni, fino agli anniQuaranta, quando il pediatra olandese Willem Karel Dicke individuòil legame con la farina di grano. A quel punto, i carboidrati in generaleerano sospettati da tempo, ma il rapporto diretto non fu evidentefinché non fu possibile effettuare un’osservazione di causa-effetto conil grano in particolare. E come avvenne questa scoperta? Durante lacarestia olandese del 1944, pane e farina scarseggiavano; Dicke siaccorse di un drastico calo del tasso di mortalità fra i bambini malatidi celiachia: da oltre il 35% a, in pratica, zero. Segnalò inoltre che lapercentuale dei decessi crebbe fino ai livelli precedenti una voltatornato disponibile il grano. Infine, nel 1952, esaminando campioni dimucosa intestinale prelevati da pazienti chirurgici, un’équipe dimedici di Birmingham (Inghilterra) di cui faceva parte anche Dickeindividuò il legame tra l’ingestione di proteine del grano e il morboceliaco. Negli anni Cinquanta e Sessanta, l’introduzione della biopsiadell’intestino tenue confermò che era questo l’organo interessato. (A

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onor del vero, devo fare presente che esperti storici hanno messo indiscussione l’effettiva correttezza delle precedenti osservazionianeddotiche di Dicke nei Paesi Bassi, sostenendo che gli sarebbe statodifficile, se non impossibile, registrare la ricaduta quando la farinatornò a essere disponibile. Non hanno tuttavia messo in dubbiol’importanza dell’identificazione del grano come causa, limitandosi asottolineare che il grano non è l’unica causa.)

Quando abbiamo iniziato dunque a individuare un legame traceliachia e problemi neurologici? Di nuovo, la maggioranza dellepersone non si rende conto di quanto indietro occorra risalire. I primianeddoti cominciarono ad apparire più di cento anni fa, e per tutto ilXX secolo diversi medici documentarono disturbi neurologici inpazienti celiaci. In un primo tempo, tuttavia, quando si scoprì lacorrelazione tra problemi neurologici e morbo celiaco, si ritenne che inlinea di massima rappresentassero una manifestazione di carenzenutrizionali causate dal problema all’intestino. In altre parole, i medicinon pensarono che un determinato elemento stesse devastando ilsistema nervoso; pensarono solo che la stessa celiachia, che impedival’assorbimento di nutrienti e vitamine nell’intestino, portasse acarenze che davano luogo a problemi neurologici come danni ai nervie perfino deficit cognitivi. Ed erano lontani dal cogliere in questastoria il ruolo dell’infiammazione, non ancora entrato a far parte delnostro patrimonio di conoscenze mediche. Nel 1937 la rivista«Archives of Internal Medicine» pubblicò la prima analisi della MayoClinic sui problemi neurologici di pazienti celiaci, ma anche allora iricercatori non furono in grado di descrivere con precisione laconcatenazione degli eventi. Il coinvolgimento del cervello eraattribuito a una «riduzione degli elettroliti», dovuta soprattuttoall’incapacità dell’intestino di digerire e assorbire nutrienti in modoadeguato. 12

Per arrivare a comprendere e spiegare fino in fondo il collegamentotra sensibilità al glutine e cervello avevamo bisogno di notevoliprogressi tecnologici, per non parlare della comprensione del ruolodelle vie infiammatorie. Il mutamento di prospettiva, tuttavia, è statosensazionale e piuttosto recente. Nel 2006 la Mayo Clinic pubblicò un

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altro articolo su «Archives of Neurology» riguardante il morbo celiacoe il declino cognitivo, ma questa volta la conclusione cambiava le cartein tavola: «Data la relazione temporale e la frequenza piuttosto elevatadi atassia e neuropatia periferica, più comunemente associate almorbo celiaco, esiste una possibile associazione tra progressivodeterioramento cognitivo e morbo celiaco». 13 L’atassia è l’incapacitàdi controllare i movimenti muscolari volontari e mantenerel’equilibrio, molto spesso derivante da disturbi al cervello;«neuropatia periferica» è un modo sofisticato per dire «danno a caricodei nervi» e abbraccia un’ampia gamma di disturbi nei quali i nervideteriorati fuori dal cervello e dal midollo spinale (nervi periferici)provocano intorpidimento, debolezza o dolore.

In questo particolare studio, i ricercatori osservarono tredicipazienti che mostravano segni di progressivo declino cognitivo entrodue anni dall’inizio dei sintomi del morbo celiaco o da unpeggioramento del disturbo. (Le ragioni principali per cui questipazienti si rivolgevano a un medico per problemi cerebrali eranoamnesia, confusione e cambiamenti di personalità. I mediciconfermarono tutti i casi di celiachia mediante una biopsiadell’intestino tenue; chiunque fosse affetto da un declino cognitivoriconducibile a una causa alternativa fu escluso.) Durante l’analisi sichiarì un punto che invalidò subito il pensiero precedente: il declinocognitivo non poteva essere attribuito a carenze nutrizionali.Oltretutto, i medici notarono che i pazienti erano piuttosto giovani peressere affetti da demenza (l’età media dei primi segni deldeterioramento cognitivo era sessantaquattro anni, con una fascia cheandava dai quarantacinque ai settantanove anni). Come riportato daimezzi di comunicazione, secondo Joseph Murray, gastroenterologodella Mayo Clinic e ricercatore partecipante a questo studio:

In passato, molto è stato scritto su morbo celiaco e problemineurologici come neuropatia periferica … o problemi di equilibrio,ma questo livello di problema al cervello (il declino cognitivo quiriscontrato) non è stato riconosciuto in precedenza. Non miaspettavo che tanti pazienti celiaci manifestassero un declinocognitivo. 14

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Murray proseguiva aggiungendo, a ragione, che era poco probabileche i disturbi di questi pazienti riflettessero un «collegamentofortuito». Data l’associazione tra l’inizio o il peggioramento deisintomi celiaci e il declino cognitivo entro appena due anni, laprobabilità che si trattasse di un evento casuale era molto ridotta. Ilrisultato forse più sorprendente fu che diversi pazienti cui era stataprescritta una dieta senza glutine registrarono un «nettomiglioramento» nel declino cognitivo. In seguito alla totale astensionedal consumo di glutine, le facoltà mentali di tre pazienti miglioraronoo si stabilizzarono, inducendo i ricercatori a rilevare che potevanoavere scoperto una forma di deterioramento cognitivo reversibile. Unrisultato di enorme portata. Perché? Non vi sono molte forme didemenza facili da trattare, e quindi, se possiamo bloccare e in alcunicasi invertire il percorso verso la demenza, identificare il morbo celiacoin presenza di declino cognitivo dovrebbe diventare unaconsuetudine. Una scoperta di questo tipo, oltretutto, costituisce unulteriore argomento contro la spiegazione che vorrebbe attribuire alcaso la connessione tra morbo celiaco e declino cognitivo. Interrogatosul ragionamento scientifico alla base di questo collegamento, Murraycitò il potenziale impatto delle citochine infiammatorie, queimessaggeri chimici dell’infiammazione che contribuiscono aiproblemi in sede cerebrale.

Desidero segnalare un altro aspetto di questo studio: quando iricercatori sottoposero questi pazienti a risonanze del cervello,rilevarono evidenti alterazioni nella materia bianca, che era facileconfondere con quelle causate da sclerosi multipla o anche da piccoliictus. È per questo che verifico sempre se i pazienti che vengono dame con una diagnosi di sclerosi multipla sono sensibili al glutine; inmolte occasioni ho scoperto che in realtà le loro alterazioni cerebralinon erano affatto collegate a sclerosi multipla, ma probabilmente allasensibilità al glutine. Per loro fortuna, una dieta senza glutine potevaguarirli.

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Il quadro generaleTorniamo al giovane incontrato all’inizio del capitolo: in origine gliera stato diagnosticato un disturbo del movimento denominatodistonia. Non riusciva a controllare il suo tono muscolare, diconseguenza aveva feroci e intensi spasmi in tutto il corpo che gliimpedivano di condurre una vita normale. Anche se in casi comequesto la causa era spesso un disturbo neurologico o gli effettisecondari dei farmaci, è mia convinzione che spesso distonia e altridisturbi motori possano essere attribuiti a semplice sensibilità alglutine. Nella situazione del mio paziente, una volta eliminato ilglutine dalla dieta i tremori e gli spasmi convulsivi subirono unbrusco arresto. Altri disordini del movimento, come l’atassia (giàdescritta in precedenza), la mioclonia – un disturbo caratterizzato daspasmodiche contrazioni dei muscoli – e certe forme di epilessia sonospesso oggetto di errate diagnosi: essi vengono attribuiti a uninspiegato problema neurologico invece che a qualcosa di semplicecome la sensibilità al glutine. Ho avuto diversi pazienti epilettici chesono passati dal prendere in considerazione rischiosi interventichirurgici e fare affidamento su trattamenti farmacologici quotidianiper controllare i loro attacchi a liberarsene del tutto grazie a semplicimodifiche nella dieta.

Il dott. Hadjivassiliou ha esaminato le risonanze al cervello dipazienti che soffrivano di mal di testa e documentato marcateanomalie provocate dalla sensibilità al glutine. Anche un lettoreprofano, privo di occhio clinico, non avrà difficoltà a riconoscerne glieffetti: basta osservare l’esempio della prossima pagina.

Da oltre un decennio Hadjivassiliou ha più volte dimostrato cheuna dieta senza glutine può avere come conseguenza una completasoluzione dei mal di testa in pazienti sensibili al glutine. In un articolodel 2010 per «Lancet Neurology» lanciò un fervido appello invitandoa cambiare atteggiamento rispetto alla sensibilità al glutine. 15 Per lui eper i suoi colleghi è di vitale importanza divulgare la notizia del nessotra la sensibilità al glutine, in apparenza invisibile, e le disfunzioni

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cerebrali. E io sono d’accordo. Il rapporto del dott. Hadjivassiliou supazienti con segni evidenti di deficit cognitivi e documentatasensibilità al glutine e sulla loro guarigione è inconfutabile.

Ristampa da M. Hadjivassiliou et al., Gluten Sensitivity: From Gut to Brain, in«The Lancet Neurology», IX, 3, marzo 2010, pp. 318-30, per gentile

concessione di Elsevier.

Come abbiamo visto, uno dei dati principali acquisiti tramitequeste nuove informazioni è che la celiachia non è circoscrittaall’intestino. Oserei dire che la sensibilità al glutine interessa sempre ilcervello. Il neurobiologo Aristo Vojdani, un collega che ha pubblicatomolti lavori sul tema della sensibilità al glutine, ha dichiarato chel’incidenza della sensibilità al glutine nelle popolazioni occidentalipotrebbe arrivare addirittura al 30%. 16 E poiché la maggior parte deicasi di celiachia sono clinicamente silenti, ormai la prevalenza dellamalattia è venti volte più elevata di quanto si pensasse due decenni fa.Lasciate che vi racconti cosa suggerì il dott. Rodney Ford, della

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Children’s Gastroenterology and Allergy Clinic (Clinica per le allergiee la gastroenterologia infantile) in Nuova Zelanda, nel suo articolo del2009 dall’appropriato titolo The Gluten Syndrome: A NeurologicalDisease (La sindrome da glutine: una malattia neurologica). 17 Ilproblema fondamentale del glutine è la sua «interferenza con le retineurali dell’organismo … il glutine è collegato a danni neurologici neipazienti, che siano o meno celiaci». E aggiunse: «L’evidenza indica ilsistema nervoso come sito primario dei danni da glutine»,concludendo con decisione che «l’implicazione che il glutine causidanni alla rete neurale è di enorme portata. Stimando che almeno unapersona su dieci sia interessata dal fenomeno, l’impatto sulla salute èimmenso. Comprendere la sindrome da glutine è importante per lasalute della comunità globale».

Anche se potete non essere sensibili al glutine nello stesso modo incui lo è un celiaco, vi ho sommerso di dati per un buon motivo:dimostrare che tutti noi possiamo essere sensibili al glutine da unpunto di vista neurologico. Solo che ancora non lo sappiamo, perchénon esistono indizi o segnali evidenti di un problema che si manifestaentro i silenziosi confini del nostro sistema nervoso e del cervello. Nondimenticate che l’infiammazione è in pratica al centro di qualsiasidisturbo e malattia. Quando introduciamo nel corpo qualcosa chescatena una risposta infiammatoria, ci esponiamo ad affrontare unrischio molto più elevato di una gamma di problemi di salute, dadisturbi quotidiani cronici, come mal di testa e annebbiamento delcervello, a gravi affezioni come depressione e Alzheimer. Possiamoperfino sostenere il nesso tra la sensibilità al glutine e alcuni dei piùmisteriosi disturbi cerebrali, le cui cause sono sfuggite ai medici permillenni: schizofrenia, epilessia, depressione, disturbo bipolare e, piùdi recente, autismo e sindrome da deficit di attenzione e iperattività.

Su questo argomento tornerò più avanti; ora vorrei che afferraste laportata del problema e capiste bene che il glutine può influire non solosu un cervello normale, ma anche su un fragile cervello anomalo. Èpoi importante tenere a mente che ognuno di noi è unico in base algenotipo (DNA) e al fenotipo (la modalità di espressione dei geni nelloro ambiente). In me un’infiammazione incontrollata potrebbe avere

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come conseguenza obesità e cardiopatia, mentre in voi lo stessodisturbo potrebbe tradursi in una malattia autoimmune.

Ancora una volta è utile ricorrere alla letteratura sulla celiachia, dalmomento che questa malattia riflette un caso estremo: consente diidentificare modelli di andamento del disturbo che possono essererilevanti per chiunque consumi glutine, anche se non soffre diceliachia. Diversi studi, per esempio, hanno dimostrato che i soggetticeliaci presentano un notevole incremento della produzione di radicaliliberi e conseguenti danni a grassi, proteine e perfino DNA. 18 Inoltre,la reazione del sistema immunitario al glutine fa sì che l’organismo diquesti pazienti perda la capacità di produrre sostanze antiossidanti. Inparticolare, risultano ridotti livelli ematici di glutatione (unimportante antiossidante nel cervello), di vitamina E, di retinolo e divitamina C: tutti elementi di fondamentale importanza per teneresotto controllo i radicali liberi. È come se la presenza di glutineimpedisse al sistema immunitario di sostenere appieno le difesenaturali del corpo. E io mi chiedo: se la sensibilità al glutine puòcompromettere il sistema immunitario, a cos’altro apre la strada?

La ricerca ha dimostrato altresì che la reazione del sistemaimmunitario al glutine porta all’attivazione di molecole segnale che insostanza provocano infiammazione e stimolano il cosiddetto enzimaCOX-2, con la conseguenza di aumentare la produzione di sostanzechimiche infiammatorie. 19 Se conoscete farmaci come il Celebrex,l’ibuprofene o anche l’aspirina, conoscete già l’enzima COX-2, che èresponsabile di infiammazioni e dolori nel corpo. Questi farmacibloccano in modo efficace le azioni di questo enzima, riducendo cosìl’infiammazione. Nei pazienti celiaci sono stati osservati anche elevatilivelli di un’altra molecola infiammatoria, denominata TNF alfa.L’incremento di questa citochina è tra i segni caratteristici del morbodi Alzheimer e in pratica di ogni altra patologia neurodegenerativa. Inconclusione: la sensibilità al glutine, in presenza o in assenza diceliachia, aumenta la produzione di citochine infiammatorie, chesvolgono un ruolo di primo piano nelle malattie neurodegenerative. Enessun organo è più suscettibile del cervello agli effetti deleteridell’infiammazione: è uno degli organi più attivi del corpo, eppure

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manca di validi fattori di protezione. Anche se la barrieraematoencefalica agisce come una sorta di guardiano per impedire adeterminate molecole di passare dal flusso sanguigno all’interno delcervello, non si tratta di un sistema infallibile. Diverse sostanzeriescono a entrare e provocano effetti indesiderabili. (Più avantispiegherò in maniera più dettagliata queste molecole infiammatorie e imodi in cui possiamo usare il potere degli alimenti per combatterle.)

È ora di stabilire nuovi standard per ciò che significa essere«sensibili al glutine». Il problema del glutine è molto più grave diquanto si fosse mai immaginato e il suo impatto sulla società è di granlunga superiore a tutte le nostre stime.

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Un eccesso di glutine negli alimenti moderniSe il glutine è tanto dannoso, come abbiamo fatto a sopravvivere cosìa lungo consumandolo? La risposta immediata è che non mangiamolo stesso tipo di glutine da quando i nostri progenitori iniziarono acapire come coltivare e macinare il grano. I cereali che consumiamooggi somigliano assai poco ai cereali entrati nella nostra dieta circadiecimila anni fa. Fin dal XVII secolo, quando Gregor Mendelpresentò i suoi famosi studi sull’incrocio di piante diverse per arrivarea nuove varietà, siamo diventati bravi a mescolare e abbinare pianteper produrre nuove varietà selvatiche nel campo dei cereali. E anchese la nostra struttura genetica e la nostra fisiologia non sono moltocambiate dai tempi dei nostri progenitori, nel corso degli ultimicinquant’anni la catena alimentare ha subito una rapidatrasformazione. L’industria alimentare moderna e la bioingegneriagenetica hanno permesso di coltivare cereali contenenti fino a quarantavolte il glutine dei cereali coltivati appena qualche decennio fa. 20 Nonsi sa se sia avvenuto nell’intento di incrementare la resa, di farlirisultare più gradevoli al palato, o per entrambi i motivi. Una cosa ècerta: i cereali moderni contenenti glutine creano più dipendenza chemai.

Se vi è capitato di provare un impeto di euforia dopo averconsumato un bagel, una focaccia, una ciambella o una brioche, nonl’avete immaginato e non siete i soli. Fin dalla fine degli anni Settantasappiamo che il glutine si scompone nello stomaco per diventare unmix di polipeptidi in grado di attraversare la barriera ematoencefalica.Una volta entrati, essi possono legarsi ai recettori di morfina delcervello e produrre uno stato di euforia sensoriale. Si tratta dellostesso recettore cui si legano gli oppiacei producendo il loro tipicoeffetto, che dà piacere ma anche dipendenza. I primi scienziati chescoprirono questa attività, la dott.ssa Christine Zioudrou e i suoicolleghi dei National Institutes of Health (Istituti nazionali di sanità),chiamarono questi polipeptidi che colpiscono il cervello esorfine, che èun’abbreviazione di composti esogeni simili a morfina, distinguendoli

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dalle endorfine, gli analgesici prodotti in modo naturale dal corpo. 21

La cosa più interessante di queste esorfine, a ulteriore conferma delloro impatto sul cervello, è che possono essere bloccate da farmaciantagonisti degli oppiacei, come il naloxone e il naltrexone, gli stessiusati per far regredire gli effetti di eroina, morfina e ossicodone. Ildott. William Davis descrive bene questo fenomeno nel suo libro Ladieta zero grano:

Ecco, quindi, una sintesi di ciò che succede al vostro cervelloquando siete sotto l’effetto del grano: la digestione producecomposti simili a morfina che si legano ai recettori degli oppiaceidel cervello. Il che vi regala una specie di ricompensa, una leggeraeuforia. Quando l’effetto viene bloccato o vengono consumati cibiche non producono esorfine, alcune persone provano al contrariouno sgradevole senso di astinenza. 22

Considerato ciò che ho appena spiegato, c’è forse da meravigliarsi sele industrie alimentari tentano di infarcire il più possibile di glutine ipropri prodotti? Ed è forse una sorpresa trovare oggi così tantepersone dipendenti da alimenti pieni di glutine, che soffiano non solosul fuoco dell’infiammazione, ma dell’epidemia di obesità? Non credoproprio. La maggior parte di noi sa e accetta il fatto che zucchero ealcol possono produrre euforia e indurre a volerne consumare ancora.Ma i cibi che contengono glutine? Il vostro pane integrale e i fiocchid’avena? L’idea che il glutine possa influire sulla nostra biochimica,con ripercussioni nel centro del cervello preposto a piacere eassuefazione, è degna di nota. E spaventosa. Se davvero, comedimostra la scienza, questi alimenti sono agenti che alterano la mente,significa che dobbiamo ripensare a come li classifichiamo.

Quando guardo le persone divorare carboidrati carichi di glutine,per me è come assistere mentre si versano un cocktail di benzina. Ilglutine è il tabacco della nostra generazione. La sensibilità al glutine èmolto più diffusa di quanto non crediamo – e può in potenzaprovocare qualche danno in ognuno di noi e a nostra insaputa – e ilglutine si nasconde dove meno lo sospettereste. È nei nostricondimenti e spezie, cocktail e gelati, e addirittura in cosmetici come

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la crema per le mani. È dissimulato in zuppe, dolcificanti e prodotti abase di soia. È nascosto nei nostri integratori alimentari e neimedicinali di marca. Il termine «senza glutine» sta diventando vago einconsistente come è capitato a «biologico» e «tutto naturale». Ilmotivo per cui adottare una dieta senza glutine può avere un impattocosì positivo sul corpo non è più un mistero per me.

Per gran parte degli ultimi 2,6 milioni di anni, le diete dei nostriprogenitori sono state composte da selvaggina, da piante di stagione,da ortaggi e, talvolta, da bacche. Come abbiamo visto nel capitoloprecedente, oggi la dieta della maggioranza delle persone è incentratasu cereali e carboidrati, molti dei quali contengono glutine. Anchetralasciando il fattore glutine, però, non si dimentichi che una delleprincipali ragioni per cui tanti cereali e carboidrati possono essere cosìnocivi è la loro capacità di far aumentare la glicemia come non fannoaltri alimenti, per esempio carne, pesce, pollame e verdura.

Livelli elevati di glicemia danno luogo, lo ricorderete, a livellielevati di insulina, rilasciata dal pancreas per introdurre il glucosioematico nelle cellule. Più elevata è la glicemia, più insulina dovràessere pompata dal pancreas. E con l’aumentare dell’insulina le cellulerecepiscono sempre meno il segnale dell’insulina. In sostanza, lecellule non riescono a udire il suo messaggio e il pancreas fa quelloche farebbe chiunque non riuscisse a farsi sentire: alza la voce, cioèaumenta la produzione di insulina attuando un processo di reazioneanticipata (feed-forward) che può essere mortale. I livelli più elevati diinsulina rendono le cellule ancor meno reattive al suo segnale e ilpancreas fa gli straordinari per abbassare la glicemia, dando luogo aun ulteriore incremento dell’insulina. Anche se la glicemia risultanormale, il livello dell’insulina è aumentato.

Poiché le cellule sono resistenti al segnale dell’insulina, questodisturbo viene definito «insulinoresistenza». Con l’evolversi dellasituazione, il pancreas aumenta al massimo la sua produzione, chetuttavia non sarà sufficiente. A quel punto le cellule perderanno lacapacità di rispondere al segnale dell’insulina e, in ultimo, la glicemiacomincerà ad aumentare, dando origine a un diabete di tipo 2. Ilsistema, arrivato al collasso, richiederà una fonte esterna (ossia i

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farmaci per il diabete) per mantenere bilanciato il livello dellaglicemia. Tenete a mente, però, che non è necessario essere diabeticiper soffrire di iperglicemia cronica.

Quando tengo conferenze a membri della comunità medica, unadelle mie diapositive preferite è una foto di quattro alimenti comuni:1) una fetta di pane integrale, 2) una barretta di Snickers, 3) uncucchiaio di semplice zucchero bianco e 4) una banana. La mostro echiedo all’uditorio di indovinare quale di essi provochi il maggioreaumento di glicemia, o quale abbia l’indice glicemico (GI, dall’ingleseGlycemic Index) più elevato, cioè la valutazione numerica che dà lamisura della rapidità con cui i livelli glicemici aumentano dopo avereconsumato un particolare tipo di alimento. L’indice glicemicocomprende una scala da 0 a 100, con i valori più elevati attribuiti aglialimenti che provocano l’incremento più rapido. Il punto diriferimento è il glucosio puro, che ha un GI pari a 100.

Nove volte su dieci, le persone scelgono l’alimento sbagliato. No,non è lo zucchero (GI = 68), non è la barretta dolce (GI = 55) e non è labanana (GI = 54). È il pane integrale, con un enorme GI di 71, che locolloca alla pari con il pane bianco (altro che pensare che l’integrale siameglio del bianco!). Sono più di trent’anni che sappiamo che il granofa aumentare la glicemia più dello zucchero da tavola, ma in qualchemodo riteniamo ancora che non sia possibile. Sembra unacontraddizione. Eppure è un dato di fatto: pochi alimenti produconoun’impennata del glucosio ematico come quelli a base di grano.

È importante notare che la crescente sensibilità al glutine non è solol’esito di un’iperesposizione a questa sostanza negli alimentiindustriali dei nostri giorni. È anche il risultato di un eccesso dizuccheri e di alimenti proinfiammatori. Possiamo inoltre aggiungerel’impatto delle tossine ambientali, in grado di influire sul modo in cuisi esprimono i nostri geni e sull’eventuale attivazione di segnaliautoimmuni. La combinazione di ognuna di queste componenti –glutine, zucchero, alimenti proinfiammatori e tossine ambientali –porta nel corpo, e soprattutto nel cervello, una sorta di tempestaperfetta.

Se qualsiasi alimento artefice di una tempesta biologica – a dispetto

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della presenza di glutine – è pericoloso per la nostra salute, dovremosollevare un’altra questione di importanza cruciale per la salute delcervello: i carboidrati, anche quelli «buoni», ci stanno forseuccidendo? Dopo tutto, sono spesso la principale fonte di questecomponenti ostili. Qualsiasi discorso su equilibrio glicemico,sensibilità al glutine e infiammazione deve ruotare intorno all’impattoche i carboidrati possono avere sul corpo e sul cervello. Nel prossimocapitolo vedremo come innalzino in generale i fattori di rischio deidisturbi neurologici, spesso a spese del vero amore del nostro cervello:i grassi. Quando consumiamo troppi carboidrati, mangiamo menograssi, proprio le componenti che il nostro cervello richiede per la suasalute.

SINTOMI DELLA SENSIBILITÀ AL GLUTINE

Il miglior modo per sapere se siete sensibili al glutine è sottoporvi aun test. Purtroppo, gli esami del sangue tradizionali e le biopsiedell’intestino tenue sono ben lontani dall’essere precisi come i testpiù recenti, in grado di identificare gli anticorpi del glutine propriocome un test genetico. Di seguito sono elencati sintomi e malattieassociati alla sensibilità al glutine. Anche se non soffrite di nessunodi questi disturbi, vi raccomando di utilizzare la tecnica d’esamepiù all’avanguardia (si veda pagina 19).

Aborti spontaneiADHD (DDAI)Alcolismo

Annebbiamento del cervelloAtassia, perdita di equilibrio

AutismoCancro

CardiopatieConvulsioni/epilessia

Disturbi neurologici(demenza, dolore toracico,

Alzheimer, schizofrenia, ecc.)Dolore al petto

Dolore osseo/osteopenia/osteoporosiEmicranie

Intolleranza ai latticiniMalassorbimento dei cibi

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DepressioneDisturbi autoimmuni (diabete, infertilità,

tiroidite di Hashimoto, artrite reumatoide, solo per

citarne alcuni)Disturbi digestivi

(flatulenza, gonfiore, diarrea, ansia,

costipazione, spasmi, ecc.)

Morbo di ParkinsonNausea/vomito

Orticaria/dermatitiRitardo nella crescita

Salute precaria Sindrome da intestino

irritabileSLA

Voglia incontrollabiledi zuccheri

LA POLIZIA DEL GLUTINE 23

I seguenti cereali e amidi contengono glutine:

amidobulgur

cous cousfarina graham

farrogerme di grano

granokamutorzo

segalesemolinotriticale

I seguenti cereali sono privi di glutine:

amarantograno saraceno

maismaranta arundinacea

migliopatata

quinoarisosoia

sorgotapioca

teff

I seguenti alimenti contengono spesso glutine:

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aceto di maltoaffettati

alimenti impanatibarrette energetiche

bevande istantanee caldebirra

blue cheese (formaggioerborinato)

brodi commercialibudini

caffè e tè aromatizzaticereali

condimenti per l’insalatacrusca di avena

(se non certificata come senza glutine)

patatine fritte (spesso spolverate di farina prima

del congelamento)polpette/polpettone di carne

ripieni di frutta dei dolcicommerciali

salsa di soia e salse di teriyakisalsa e sughi

salse da marinatura commercialisalsicciasciroppi

fagioli stufati (in scatola)fiocchi d’avena (se non certificati come senza

glutine)formaggio fuso e formaggio

industrialefrutta a guscio tostata

frutta secca assortita (snack)gelato

hamburger vegetarianihot dogketchup

latte al cioccolato commercialemaionese

malto/aroma di maltoostie da comunione

seitansucco di wheatgrass (erba

di grano)surimi, pancetta, ecc.

surrogati del latte surrogati delle uova

tabouléverdure fritte/tempura

vodkabevande a base di vino

zuppe

I seguenti prodotti possono contenere glutine:

cosmeticifarmaci

rossettibalsami per labbra

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francobolli e buste nonautoadesivi

pasta modellabile perl’infanzia

shampoobalsami

vitamine e integratori(controllare l’etichetta)

I seguenti ingredienti sono spesso sinonimo di glutine:

amido modificato peralimenti

aroma naturaleAvena sativa ciclodestrina

color caramello (spesso abase d’orzo)

complesso amminopeptidicodestrina

estratto di fitosfingosinaestratto di grano fermentato

estratto di lievitoestratto di malto idrolizzato

Hordeum distichonHordeum vulgare

idrolizzatomaltodestrina

proteina di soiaproteina vegetale (HVP,

Hydrolyzed Vegetable Protein)proteina vegetale idrolizzata

sciroppo di riso integraleSecale cereale

tocoferolo/vitamina ETriticum aestivumTriticum vulgare

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Capitolo III

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Attenzione, carboidratodipendenti e grassofobiciSorprendenti verità sui veri amici e nemici del vostro cervello

Nessuna dieta eliminerà tutto il grasso dal vostro corpo, perché ilcervello è interamente costituito da grasso. Senza un cervello, forseavrete un bell’aspetto, ma il massimo a cui potrete aspirare ècandidarvi a una carica pubblica.GEORGE BERNARD SHAW

Alcuni dei miei casi più interessanti riguardano persone che, graziealla completa eliminazione del glutine dalla loro dieta e a unarivalutazione dei grassi al posto dei carboidrati, hanno trasformato lapropria vita e la propria salute. Ho visto quest’unico cambiamento nelregime alimentare risollevare dalla depressione, alleviare lastanchezza cronica, far regredire il diabete di tipo 2, porre fine alcomportamento ossessivo-compulsivo e curare molti problemineurologici, dall’annebbiamento cerebrale al disturbo bipolare.

Oltre al glutine, tuttavia, vi sono molte altre cose da dire sulla storiadei carboidrati in generale e del loro impatto sulla salute del cervello.Il glutine non è l’unico cattivo. Per modificare la biochimica del vostrocorpo affinché bruci il grasso (incluso il tipo che «non va mai via»),domini l’infiammazione e prevenga malattie e disfunzioni mentali, ènecessario considerare un altro importante membro dell’equazione: ilrapporto tra carboidrati e grassi. In questo capitolo vi illustrerò imotivi per cui, in linea di principio, il vostro corpo ha bisogno di unadieta a basso contenuto di carboidrati e ad alto contenuto di grassi. Espiegherò perché un eccessivo consumo di carboidrati – anche noncontenenti glutine – può essere dannoso quanto una dieta ricca diglutine.

È paradossale, ma il nostro stato di salute è peggiorato da quando

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abbiamo adottato un «approccio scientifico» alla nutrizione. Daabitudini legate a cultura e tradizione, le decisioni su cosa mangiare ebere sono diventate scelte calcolate, basate su teorie nutrizionalimiopi, che innanzitutto hanno tenuto in scarsa considerazione il modoin cui gli esseri umani hanno raggiunto la modernità. E non possiamodimenticare gli interessi commerciali in gioco. Credete davvero che lavostra salute stia a cuore ai produttori dei cereali per la colazione? Laloro merce è ricca di carboidrati e occupa un’intera corsia delsupermercato.

Uno dei business più redditizi nel settore alimentare è quello dei fiocchidi cereali. È una delle poche attività in grado di trasformare uningrediente economico (cereali lavorati) in una merce costosa. Ilreparto Ricerca e Sviluppo della General Mills, denominato Institute ofCereal Technology (Istituto di tecnologica dei cereali) e situato aMinneapolis, ospita centinaia di scienziati il cui unico scopo èprogettare nuovi e gustosi cereali per la colazione che possano esserevenduti a un prezzo elevato e durare molto a lungo sugli scaffali. 1

Considerate ciò che avete vissuto solo negli ultimi decenni. Sietestati testimoni di un incredibile numero di idee su cosa bisognerebbeconsumare per alimentare il metabolismo, per poi apprendere chepotrebbe essere vero il contrario. Prendete le uova, per esempio. Sipensava che facessero bene, poi che facessero male a causa del lorocontenuto di grassi saturi; e, infine, messaggi come: «Sono necessarieulteriori prove per stabilire l’effetto delle uova sulla salute» hannogenerato estrema confusione. È ingiusto, lo so. Non mi sorprende chela gente si senta sempre più frustrata.

Questo capitolo dovrebbe rallegrarvi. Vi salverò da una vita fatta ditentativi per evitare il consumo di grassi e colesterolo e dimostrerò chequeste deliziose componenti preservano la migliore funzionalità delcervello. Se abbiamo sviluppato una preferenza per il grasso è per unbuon motivo: è l’amore segreto del nostro cervello. Negli ultimidecenni, tuttavia, è stato demonizzato come fonte alimentare poco

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sana: purtroppo siamo diventati una società di «grassofobici» e«carboidratodipendenti» (e l’automatica riduzione dell’apporto digrassi sani quando consumiamo carboidrati in quantità non è diaiuto). Pubblicità, aziende dedicate alla perdita di peso, negozi dialimentari e libri di successo stanno promuovendo l’idea chedovremmo seguire una dieta che sia, per quanto umanamentepossibile, a basso contenuto di grassi, o quasi senza grassi, e a bassocontenuto di colesterolo. È vero, esistono determinati tipi di grassoche sono associati a problemi di salute e nessuno può negare che igrassi e gli oli modificati in commercio siano una minaccia per ilnostro benessere. I grassi trans sono tossici e senza dubbio collegati auna serie di malattie croniche: su questo esiste ormai un generaleconsenso tra gli scienziati. Manca però un semplice messaggio: ainostri corpi fanno bene i grassi «buoni», e il colesterolo è uno diquesti. E abbondanti quantità di carboidrati non giovano, anchequando sono senza glutine, integrali e ad alto contenuto di fibra.

È interessante notare che l’esigenza di carboidrati nella dietaumana è in pratica pari a zero; possiamo sopravvivere con unquantitativo minimo di carboidrati che, all’occorrenza, può esserefornito dal fegato. Senza grassi, invece, non possiamo andare avanti.Purtroppo, la maggior parte di noi mette sullo stesso piano l’idea diconsumare grassi con l’essere grassi, quando in realtà l’obesità – e lesue conseguenze metaboliche – non ha quasi nulla a che vedere con ilconsumo di grassi alimentari, ma è in stretta relazione con la nostradipendenza da carboidrati. Lo stesso vale per il colesterolo:consumare cibi ad alto contenuto di colesterolo non ha alcun impattosui nostri livelli effettivi di colesterolo, e la presunta correlazione traalti valori di colesterolo ed elevati rischi di malattie cardiache è purafalsità.

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Geni grassi, scienza e saluteDi tutte le lezioni di questo libro, quella che spero prenderete sul serioè la seguente: rispettate il vostro genoma. Il combustibile preferito delmetabolismo umano sono i grassi – non i carboidrati – enell’evoluzione della nostra specie è sempre stato così. Abbiamoseguito una dieta ad alto contenuto di grassi per gli ultimi due milionidi anni, ed è soltanto dall’avvento dell’agricoltura, circa diecimila annifa, che i carboidrati abbondano nella nostre provviste. Abbiamoancora un genoma da cacciatori-raccoglitori, frugale, nel senso che èprogrammato per farci ingrassare nei periodi di abbondanza. L’ipotesidel «gene frugale» fu formulata per la prima volta dal genetista JamesNeel nel 1962 per contribuire a spiegare perché il diabete di tipo 2 hauna base genetica così solida e, agevolato dalla selezione naturale,produce effetti così negativi. Secondo Neel questi geni predispongonoal diabete, però hanno rappresentato un vantaggio nel corso dellastoria: aiutavano a ingrassare in fretta quando il cibo era disponibile,poiché erano inevitabili lunghi periodi di carestia. Da quando lasocietà moderna ha cambiato il nostro accesso al cibo, i geni frugalinon sono più necessari, ma sono ancora attivi e, in sostanza,preparano a una carestia che non arriverà mai. Si ritiene che sianoresponsabili anche dell’epidemia di obesità, che è in stretto rapportocon il diabete.

Purtroppo, occorrono dai quarantamila ai settantamila anniaffinché si verifichino mutamenti significativi del genoma, chepotrebbero consentire l’adattamento a un cambiamento così drasticonella nostra dieta e permettere ai nostri geni frugali di contemplareanche solo l’eventualità di ignorare l’istruzione di «accumularegrasso». Anche se alcuni di noi amano credere di essere afflitti da geniche promuovono la crescita e il mantenimento del grasso, rendendodifficile perdere peso e non riprenderlo, la verità è che tutti noi siamoportatori del «gene grasso». Fa parte della costituzione dell’essereumano, che per la maggior parte della sua esistenza sul pianeta èrimasto in vita proprio grazie a esso.

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I nostri progenitori non potevano avere una significativaesposizione ai carboidrati, salvo forse nella tarda estate, quandomaturava la frutta. Questo tipo di carboidrati avrebbe partecipato aincrementare la formazione e il deposito di grasso per aiutare asuperare l’inverno, quando cibo e calorie scarseggiavano. Oggi,invece, chiediamo ai nostri corpi di immagazzinare grasso 365 giorniall’anno. E ne stiamo scoprendo le conseguenze attraverso la scienza.

Il Framingham Heart Study, già citato nel capitolo I, individuòun’associazione lineare tra colesterolo totale e prestazioni cognitive,ma quella è solo la punta dell’iceberg. Nell’autunno del 2012, unservizio sul «Journal of Alzheimer’s Disease» divulgò una ricerca dellaMayo Clinic stando alla quale il rischio di sviluppare undeterioramento cognitivo lieve – mild cognitive impairment, MCI,considerato in genere un precursore del morbo di Alzheimer –aumenta di quasi quattro volte per gli anziani che si riempiono ilpiatto di carboidrati. I sintomi del MCI includono problemi dimemoria, di linguaggio, di pensiero e di giudizio. Questo particolarestudio rilevò che i soggetti con regimi dietetici a più alto contenuto digrassi salutari avevano il 42% di probabilità in meno di sperimentareun deterioramento cognitivo; le persone che assumevano più proteineda fonti salutari, come pollo, carne e pesce, godevano di un rischioridotto del 21%. 2

Studi precedenti che esaminavano modelli di alimentazione epericolo di demenza permisero di trarre conclusioni analoghe. Unodei primi a mettere davvero a confronto la differenza nel tenore digrasso tra un cervello affetto da Alzheimer e un cervello sano fupubblicato nel 1998. 3 In questo studio post mortem, alcuni ricercatoridei Paesi Bassi scoprirono che i pazienti affetti da Alzheimerpresentavano nel fluido cerebrospinale quantità molto ridotte digrassi, in particolare colesterolo e acidi grassi liberi. Questo era vero aprescindere dall’eventuale rilevamento nei pazienti malati diAlzheimer del gene difettoso – noto come APoE ε4 – che predispone lepersone al morbo.

Nel 2007 la rivista «Neurology» pubblicò uno studio che prendevain esame più di ottomila partecipanti, dai sessantacinque anni in su,

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con funzione cerebrale del tutto normale. Essi furono seguiti per unmassimo di quattro anni, nel corso dei quali circa 280 svilupparonouna forma di demenza (alla maggioranza fu diagnosticato il morbo diAlzheimer). 4 I ricercatori miravano a identificare dei modelli nelleloro abitudini alimentari, con particolare attenzione al consumo dipesce, ricco di grassi omega 3 che fanno bene al cuore e al cervello.Durante il periodo di monitoraggio, per le persone che nonconsumavano mai pesce il rischio di demenza e Alzheimer subì unincremento del 37%. Negli individui che consumavano pesce tutti igiorni la minaccia di queste patologie registrava una riduzione del44%. L’uso regolare del burro non incideva in modo significativo sulrischio di demenza o di Alzheimer, ma il consumo regolare di oliricchi di omega 3, come quello d’oliva, di semi di lino e di noci, lodiminuiva del 60% rispetto a quello dei soggetti che nonconsumavano con regolarità oli di questo genere. I ricercatoriscoprirono anche che le persone abituate ad assumere oli ricchi diomega 6, tipici della dieta americana, ma non oli ricchi di omega 3 opesce avevano il doppio delle probabilità di sviluppare la demenzarispetto agli altri. (Per una spiegazione più approfondita su questigrassi si veda il riquadro sottostante.)

È interessante notare che questo rapporto indicava il consumo di oliomega 3 quale fattore di contrasto all’effetto dannoso degli oli omega6 e metteva in guardia dal consumare i secondi in assenza dei primi.Trovo che risultati come questi siano sbalorditivi e utili.

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I TANTI OMEGA: QUALI SONO QUELLI BUONI?

Al giorno d’oggi sentiamo tanto parlare di grassi omega 3 e omega 6. Nelcomplesso, i grassi omega 6 rientrano nella categoria del «grasso che famale»; sono alquanto proinfiammatori e vi sono elementi che indicano unnesso tra un consumo elevato di questi grassi e i disturbi cerebrali.Purtroppo, la dieta americana prevede un altissimo contenuto di grassiomega 6, presenti in molti oli vegetali come quello di cartamo, di semi dimais, di colza, di semi di girasole e di semi di soia; l’olio vegetalerappresenta la fonte numero uno di grassi nella dieta americana. In basealle ricerche antropologiche, i nostri antenati cacciatori-raccoglitoriconsumavano grassi omega 6 e omega 3 in un rapporto di circa 1:1. 5

Oggi consumiamo da dieci a venticinque volte gli omega 6 di allora eabbiamo ridotto in modo drastico il nostro consumo di grassi omega 3salutari per il cervello. Alcuni esperti ritengono che il cervello umanoabbia triplicato le sue dimensioni proprio grazie al crescente consumo diacidi grassi omega 3. La seguente tabella elenca il contenuto di omega 6e di omega 3 di diversi oli vegetali.

Olio Contenuto di omega 6 Contenuto di omega 3arachidi 32% 0%cartamo 75% 0%colza 20% 9%mais 54% 0%noci 52% 10%olio di pesce 0% 100%semi di cotone 50% 0%semi di girasole 65% 0%semi di lino 14% 57%semi di soia 51% 7%sesamo 42% 0%

I frutti di mare sono una meravigliosa fonte di acidi grassi omega 3, eanche la carne di animali allo stato brado come manzo, agnello,cacciagione e bufalo contiene questo grasso favoloso. Occorre tuttaviatenere presente che, se sono nutriti a cereali (di solito mais e soia), gli

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animali non avranno un’adeguata quantità di omega 3 nelle loro diete e lacarne sarà carente di questi nutrienti essenziali. Per questo si invita aconsumare manzo allevato al pascolo e pesce selvatico.

Oltre alla demenza, altri problemi neurologici sono stati associati inparticolare a un basso consumo di grassi e a bassi livelli di colesterolo.In un recente rapporto pubblicato dai National Institutes of Health,dei ricercatori hanno messo a confronto la funzione della memoria inindividui anziani con il loro livello di colesterolo. È risultato che isoggetti non malati di demenza mostravano un’attività mnestica piùefficace in presenza di valori elevati di colesterolo. La conclusione delrapporto non lasciava dubbi: «Un livello elevato di colesterolo èassociato a una migliore funzione della memoria». Nella successivaanalisi, i ricercatori suggerivano: «È possibile che gli individuisopravvissuti oltre gli ottantacinque anni siano più robusti,soprattutto quelli con un livello elevato di colesterolo». 6

Anche il morbo di Parkinson ha uno stretto rapporto con i bassilivelli di colesterolo. Nel 2006 alcuni ricercatori dei Paesi Bassipubblicarono sull’«American Journal of Epidemiology» un rapportoin cui si dimostrava che «livelli più elevati di colesterolo totale nelsiero sono stati associati a una significativa diminuzione del rischiodel morbo di Parkinson, con evidenza di una relazione dose-effetto». 7

Ricerche più recenti, pubblicate sulla rivista «Movement Disorders»nel 2008, mostrarono che il pericolo di contrarre il morbo di Parkinsonnei soggetti con il colesterolo LDL (il cosiddetto colesterolo cattivo) piùbasso registrava un incremento approssimativo del 350%! 8

Per capire come possa essere vero, è utile ricordare ciò che hoaccennato nel capitolo I: l’LDL è una proteina vettrice nonnecessariamente cattiva. Il suo ruolo fondamentale nel cervello ècatturare colesterolo vitale e trasportarlo fino al neurone, dove eseguefunzioni di importanza cruciale. Come abbiamo visto, quando i livellidi colesterolo sono bassi il cervello non funziona bene, e si ha, diconseguenza, un notevole incremento del rischio di problemineurologici. Ma attenzione: una volta danneggiata dai radicali liberi,la molecola di LDL è meno capace di fornire colesterolo al cervello.

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Oltre all’ossidazione che mette a repentaglio la funzione dell’LDL,anche lo zucchero può renderla disfunzionale legandosi a essa eaccelerando l’ossidazione. Quando questo accade, l’LDL non è più ingrado di entrare nell’astrocita, una cellula deputata a nutrire i neuroni.Negli ultimi dieci anni, nuove ricerche hanno posto in evidenza che leLDL ossidate sono un fattore chiave nello sviluppo dell’aterosclerosi.Perciò dovremmo fare tutto il possibile per ridurre nonnecessariamente i livelli di LDL, bensì il pericolo di ossidazione diquesta proteina. Un fattore di primo piano in questo rischio sono ilivelli glicemici elevati; le LDL hanno molte più probabilità di ossidarsiin presenza di molecole di glucosio che le leghino e ne modifichino laforma. Rispetto alle proteine non glicosilate, quelle glicosilate, chesono i prodotti di queste reazioni tra proteine e molecole di glucosio,sono associate a un incremento nella formazione dei radicali liberi paria cinquanta volte. Il nemico non è l’LDL: i problemi si verificanoquando una dieta ricca di carboidrati produce LDL ossidate e porta aun maggiore rischio di aterosclerosi. Inoltre, se e quando diventa unamolecola glicosilata, l’LDL non riesce a fornire il colesterolo alle celluledel cervello e la funzione cerebrale ne risente.

Siamo stati indotti per un motivo o per l’altro a credere che il grassodegli alimenti induca un aumento del colesterolo, a sua volta motivodi un incremento di possibili attacchi di cuore e di ictus. Questanozione continua a prevalere, benché una ricerca di diciannove anni faabbia dimostrato il contrario. Nel 1994, il «Journal of the AmericanMedical Association» pubblicò un esperimento che metteva aconfronto anziani con il colesterolo alto (livelli superiori a 240 mg/dl) equelli con livelli normali (inferiori a 200 mg/dl). 9 Per quattro anni iricercatori dell’Università di Yale misurarono il colesterolo totale e lalipoproteina ad alta densità (HDL, High Density Lipoprotein) di quasi unmigliaio di partecipanti; inoltre, monitorarono le ospedalizzazioni perinfarto e angina instabile e le percentuali di decessi per cardiopatie eogni altra causa. Tra i due gruppi non si riscontrarono differenze: icasi di infarto e i decessi avvenivano con la medesima frequenza neisoggetti con colesterolo totale basso e in quelli con colesterolo totalealto. E le analisi di diversi grandi studi non sono mai riuscite a

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individuare una correlazione tra livelli di colesterolo e cardiopatia. 10

Il crescente numero di ricerche simile a questa ha indotto il dott.George Mann, ricercatore del Framingham Heart Study, a dichiarareufficialmente:

L’ipotesi della dieta per il cuore, secondo cui un consumo elevato digrassi o colesterolo provoca cardiopatie, è stata confutata più volte,eppure, per complesse ragioni di orgoglio, profitto e pregiudizio,questa ipotesi continua a essere sfruttata da scienziati, iniziative diraccolta fondi, industrie alimentari e perfino agenzie governative. Ilpubblico viene tratto in inganno dalla più grande truffa sanitaria delsecolo. 11

Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità del mito secondo ilquale, abbassando i nostri livelli di colesterolo, potremmo averemaggiori possibilità di vivere una vita più lunga e più sana. In unrecente rapporto pubblicato sulla prestigiosa rivista medica «Lancet»,alcuni ricercatori dei Paesi Bassi illustravano lo studio di 724 soggettianziani, dell’età media di ottantanove anni, che erano stati seguiti perdieci anni. 12 Avevano riscontrato qualcosa di straordinario. Durantelo studio 642 partecipanti morirono; ogni incremento di trentanovepunti del colesterolo totale corrispondeva a un decremento del 15%nel rischio di mortalità. Non si evidenziava alcuna differenza nelrischio di decesso per coronaropatia tra i gruppi con colesterolo alto equelli con colesterolo basso, il che è incredibile, se si tiene conto delnumero di anziani che assumono potenti farmaci per ridurre ilcolesterolo. Altre cause di morte comuni negli anziani risultaronoinvece associate in modo marcato al colesterolo basso. Gli autoririferivano: «La mortalità per cancro e infezione era assai inferiore fra ipartecipanti nella categoria del colesterolo totale più alto che non nellealtre categorie, e questo spiega in buona parte la mortalità inferioreper tutte le cause in questa categoria». 13 In altre parole: le persone conlivelli di colesterolo totale più elevati avevano minori probabilità dimorire di cancro e di infezioni (malattie fatali diffuse tra gli anziani)rispetto a quelle con livelli più bassi. In effetti, mettendo a confronto idue gruppi, il rischio di morire durante lo studio era ridotto di un

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incredibile 48% tra coloro che avevano il colesterolo più alto. Ilcolesterolo alto può estendere la longevità.

Forse uno dei più straordinari studi effettuati sull’impatto positivodel colesterolo sull’intero sistema neurologico è un rapporto,pubblicato nel 2008 sulla rivista «Neurology», che descrive ilcolesterolo alto come un fattore protettivo nella sclerosi lateraleamiotrofica (SLA, altrimenti nota come morbo di Lou Gehrig). 14 Nonesiste una cura significativa per la SLA, una malattia devastante di cuimi occupo tutti i giorni nel mio ambulatorio medico. La SLA è unamalattia cronica degenerativa dei motoneuroni che porta alla morte inun periodo compreso tra i due e i cinque anni dalla sua comparsa. LaFDA (Food and Drug Administration, l’agenzia statunitense per laregolamentazione di alimenti e farmaci) ha approvato un farmaco, ilRilutek, che nel migliore dei casi può prolungare la vita di circa tremesi, ma è molto costoso e tossico per il fegato. La maggioranza deipazienti rifiuta di assumerlo. In questo studio di ricercatori francesi,tuttavia, emerse che i soggetti con tassi di colesterolo molto più elevativivevano, in media, un anno in più dei pazienti con livelli inferiori.Come affermano gli autori:

L’iperlipidemia (livelli elevati di colesterolo) è un fattore predittivosignificativo per la sopravvivenza di pazienti che soffrono disclerosi laterale amiotrofica. Questa conclusione pone in evidenzal’importanza delle strategie d’intervento nutrizionale sul progressodella malattia e richiede cautela quando si curano questi pazienticon farmaci per abbassare il livello dei lipidi. 15

Come dicono le pubblicità informative: «Ma aspettate, c’è dell’altro!».Non possiamo circoscrivere il nostro discorso sui grassi alla salutecerebrale. Nella letteratura scientifica sono stati scritti volumi anche sugrasso e salute del cuore, solo non nel contesto a cui immagino statepensando. Nel 2010, l’«American Journal of Clinical Nutrition»pubblicò uno studio sorprendente che rivelava la verità nascostadietro le leggende metropolitane sui grassi, specie del tipo saturo, e lacardiopatia. 16 Si trattava di una valutazione retrospettiva di ventunorelazioni mediche precedenti che coinvolgevano più di

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trecentoquarantamila soggetti seguiti per periodi dai cinque aiventitré anni. Esso concludeva che «il consumo di grassi saturi non eraassociato con un incremento del rischio di cardiopatia coronarica,ictus o disturbi cardiovascolari». Dal confronto del consumo più bassocon quello più alto di grassi saturi, emergeva che la minaccia effettivadi cardiopatia coronarica era inferiore del 19% nel gruppo checonsumava la quantità più elevata di grassi saturi. Gli autoridichiaravano inoltre: «I nostri risultati suggerivano un pregiudizio dipubblicazione; gli studi che presentavano associazioni significativetendevano a ricevere un’accoglienza migliore per la pubblicazione».Gli autori lasciano intendere che gli studi caratterizzati da conclusionipiù familiari alla corrente dominante (ossia che il grasso provocacardiopatie), per non dire più interessanti agli occhi delle grandisocietà farmaceutiche, avevano più probabilità di essere pubblicati. Laverità è che i grassi saturi fanno bene. Per dirla con le parole del dott.Michael Gurr, autore di Lipid Biochemistry: An Introduction(Introduzione alla biochimica dei lipidi): «Qualsiasi cosa provochi lacardiopatia coronarica, non è in primo luogo un elevato consumo diacidi grassi saturi». 17

In un successivo rapporto dell’«American Journal of ClinicalNutrition», un gruppo di ricercatori di spicco nel campo dellanutrizione a livello mondiale affermava senza mezzi termini: «Almomento non esiste una chiara relazione tra il consumo di acidi grassisaturi e questi esiti [di obesità, disturbi cardiovascolari, incidenza dicancro e osteoporosi]». I ricercatori proseguivano sostenendo che laricerca dovrebbe essere indirizzata verso le «interazioni biologiche tral’insulinoresistenza, derivante da obesità e inattività fisica, e la qualitàe quantità di carboidrati». 18

Prima di esaminare altri studi che illustrano i benefici dei grassi, esoprattutto degli alimenti ricchi di colesterolo, vediamo come siamoarrivati al punto di rifiutare proprio i cibi in grado di nutrire ilcervello sano e fornire le energie per una vita lunga e attiva. Sarànecessaria una breve divagazione sul rapporto tra grasso alimentare esalute del cuore, un aspetto che è in stretto rapporto con la salute delcervello.

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Cenni storiciSe siete come la maggioranza degli americani, a un certo punto dellavostra vita avete mangiato più margarina che burro, vi siete sentiti deifolli mentre divoravate un piatto di carne rossa, uova e formaggio eavete gravitato in direzione di prodotti con la dicitura «a bassocontenuto di grassi», «senza grassi» o «senza colesterolo». Non vibiasimo per queste scelte. Siamo tutti membri della stessa società chesi affida a «esperti» che ci dicono cosa fa bene e cosa, al contrario, famale. Per diverse generazioni abbiamo assistito a storiche conquistenella comprensione della salute umana e a scoperte importantissimesu cosa ci fa stare male e ci rende soggetti a patologie. In effetti,l’inizio del XX secolo ha segnato proprio l’inizio di un enormecambiamento nella vita americana dovuto a progressi nella tecnologiae nella medicina. Nell’arco di qualche decennio, abbiamo avuto ampioaccesso ad antibiotici, vaccini e sanità pubblica. Malattie infantilidiffuse, un tempo responsabili di un grave abbassamento della duratamedia della vita, stavano scomparendo o per lo meno venivanocontrollate meglio. Più persone si trasferivano in città lasciandosi allespalle gli stili di vita rurali. Diventammo più istruiti, meglio informatie sempre più sofisticati. Per molti versi, tuttavia, diventammo anchepiù facili da tormentare e ingannare con informazioni non ancora deltutto decifrate e verificate. Forse non ricorderete i tempi in cui i dottoriapprovavano il vizio di fumare sigarette, per esempio, ma questostesso tipo di ignoranza si è verificato su una scala molto più sottilenel mondo delle diete. E purtroppo accade ancor oggi.

Nel 1900 l’abitante tipico di una città consumava circa 2900 calorieal giorno, e il 40% di queste proveniva in parti uguali da grassi saturi einsaturi. (Le famiglie di campagna, che vivevano e lavoravano nellefattorie, assumevano con ogni probabilità più calorie.) La sua dieta erapiena di burro, uova, carni e cereali, frutta e verdura di stagione. Gliamericani in sovrappeso erano pochi e le tre cause di morte piùdiffuse erano polmonite, tubercolosi e diarrea.

In quello stesso periodo, il ministero dell’Agricoltura cominciò a

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tenere traccia delle tendenze alimentari, registrando un cambiamentonel consumo del tipo di grassi di cui si cibavano gli americani. Lagente stava iniziando a usare oli vegetali al posto del burro, e questoindusse i produttori a offrire oli solidificati attraverso il processo diidrogenazione, in modo che somigliassero al burro. Entro il 1950eravamo passati dal consumo annuo di oltre 8 chili di burro e circa 1,3chili di olio vegetale a poco più di 4,5 chili di burro e altrettanti di oliovegetale. Anche la margarina stava guadagnando terreno alla sveltanelle nostre diete; all’inizio del secolo il consumo annuo pro capiteammontava ad appena 9 etti circa, ma per la metà del secolo eraarrivata a circa 3,6 chili.

Anche se la cosiddetta ipotesi lipidica era in circolazione fin dallametà del XIX secolo, fu solo intorno alla metà del XX, con l’aumentodei decessi dovuti a cardiopatia coronarica (CAD, Coronary ArteryDisease), che gli scienziati tentarono di stabilire una correlazione trauna dieta grassa e arterie grasse. Secondo questa ipotesi, il grassosaturo di origine animale innalza i livelli di colesterolo nel sangueportando al deposito di colesterolo e di altri grassi sotto forma diplacche nelle arterie. Per suffragare questa ipotesi Ancel Keys, unricercatore della sanità pubblica dell’Università del Minnesota,documentò una correlazione quasi diretta tra le calorie derivanti daigrassi nell’alimentazione e i decessi per cardiopatia nelle popolazionidi sette paesi. (Keys ignorò i paesi che non si adattavano al suomodello, inclusi i numerosi in cui la gente mangia molti grassi ma nonviene colpita da cardiopatie e altri dove le diete hanno un bassocontenuto di grassi ma si ha un’elevata incidenza di infarti fatali.) Igiapponesi, la cui dieta ha solo il 10% di calorie derivanti da grassi,evidenziavano la più bassa mortalità per CAD: meno di 1 caso su 1000.Gli Stati Uniti, invece, registravano la più alta mortalità per CAD – 7 su1000 – a fronte del 40% delle calorie derivanti da grassi. 19 A primavista, sembrerebbe che questi schemi indichino senza mezzi terminil’idea che il grasso fa male e che provochi cardiopatie. All’epoca gliscienziati erano ben lontani dall’immaginare che questi dati nonfornissero un quadro completo.

Questa errata valutazione, tuttavia, persistette per diversi decenni,

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mentre i ricercatori vagliarono ulteriori dati in cerca di prove; dalFramingham Heart Study, per esempio, risultò che i soggetti conlivelli di colesterolo più elevati avevano maggiori probabilità di averediagnosticata una cardiopatia coronarica e di morirne. Nel 1956l’American Heart Association cominciò a propagandare la «dietaprudente», invitando a sostituire burro, lardo, uova e manzo conmargarina, olio di semi di mais, pollo e fiocchi di cereali. Entro glianni Settanta, l’ipotesi lipidica si era ormai affermata. Questa ipotesiera imperniata sulla tesi irremovibile che il colesterolo causasse lacardiopatia coronarica.

Ovviamente, questo spinse il governo a intervenire: nel 1977 laCommissione speciale del Senato statunitense per la nutrizione e ibisogni umani pubblicò i Dietary Goals for the United States (Obiettividietetici per gli Stati Uniti). Come potete immaginare, tali obiettivimiravano a ridurre il consumo di grassi ed evitare alimenti ad altocontenuto di colesterolo. Si riteneva che facessero male soprattutto igrassi saturi, che «intasano le arterie». Occorreva perciò diminuirecarne, latte, uova, burro, formaggio e oli tropicali come quello di coccoe di palma. Inoltre, quest’ottica spianò la strada all’industriafarmaceutica miliardaria che si occupava delle medicine progettateper ridurre i livelli lipidici. Nello stesso tempo, le autorità sanitariecominciarono a consigliare alle persone di sostituire questi grassi, orareputati cattivi, con carboidrati e oli vegetali polinsaturi trattati, comel’olio di semi di soia, di semi di mais, di semi di cotone, di colza, diarachidi, di cartamo e di semi di girasole. Verso la metà degli anniOttanta i fast food seguirono l’esempio, e per la frittura dei loroalimenti abbandonarono il grasso di manzo e l’olio di palma avantaggio dell’olio vegetale parzialmente idrogenato (grassi trans).Anche se da allora il ministero dell’Agricoltura ha modificato la suaguida per l’alimentazione passando da uno schema a forma dipiramide a una ripartizione alimentare basata sulla suddivisione di unpiatto, l’idea diffusa è ancora che «il grasso fa male» e «i carboidratifanno bene». In effetti, la nuova guida My Plate (Il mio piatto) delministero non presenta affatto i grassi, con la conseguenza di

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disorientare non poco i consumatori, che non sanno come e quale tipodi grassi si debbano inserire in una dieta sana. 20

Donald W. Miller, cardiochirurgo e professore di chirurgiaall’Università di Washington, lo ha espresso alla perfezione nel suosaggio del 2010 intitolato Health Benefits of a Low-Carbohydrate, High-Saturated-Fat Diet (I benefici di una dieta povera di carboidrati e riccadi grassi saturi): «Il dominio della dieta a basso contenuto di grassi ead alto contenuto di carboidrati, durato sessant’anni, finirà. Questoavverrà quando la consapevolezza dei rovinosi effetti di un eccesso dicarboidrati nella dieta crescerà e si comprenderanno meglio i beneficidei grassi saturi per la salute». 21 L’ipotesi lipidica ha dominato perdecenni il settore cardiovascolare nonostante il numero di studiincompatibili con questa tesi superasse quelli in suo favore. Negliultimi trent’anni non è stato pubblicato nemmeno uno studio chedimostrasse in modo inequivocabile che ridurre il colesterolo siericoadottando una «dieta a basso contenuto di grassi e a basso contenutodi colesterolo» previene o riduce il tasso di infarti o di mortalità.Inoltre, come fa notare Miller, le indagini sulle popolazioni di tutto ilmondo non sostengono l’ipotesi lipidica. Possiamo risalire addiritturaal lontano 1968 per trovare studi che sfatano con decisione l’idea diuna dieta ideale a basso contenuto di grassi. Quell’anno l’InternationalAtherosclerosis Project esaminò ventiduemila cadaveri di quattordicinazioni e scoprì che non importava se si consumavano grandi quantitàdi prodotti animali grassi o se si seguiva una dieta per lo piùvegetariana: la prevalenza della placca arteriosa era la stessa in tutte leparti del mondo, in quelle con alte percentuali di cardiopatie cosìcome in popolazioni con presenza scarsa o nulla di cardiopatie. 22

Questo significa che l’ispessimento della parete arteriosa potrebbeessere un processo inevitabile dell’invecchiamento nonnecessariamente correlato a cardiopatie cliniche.

Se consumare grassi saturi non provoca le malattie cardiache, qualè la loro causa? Osserviamo la situazione dalla prospettiva delcervello, poi torneremo a ciò che interessa il cuore. Presto riuscirete acomprendere la causa all’origine dell’obesità e anche dei disturbicerebrali.

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Carboidrati, diabete e disturbi cerebraliCome ho già illustrato in dettaglio, uno dei modi in cui cereali ecarboidrati appiccano il fuoco al cervello è attraverso i picchi glicemicinel sangue; le immediate ripercussioni sul cervello danno il via allacascata infiammatoria. Questo meccanismo va ricondotto aineurotrasmettitori, i principali regolatori dell’umore e del cervello.Quando la glicemia aumenta, si ha un’immediata deplezione deineurotrasmettitori serotonina, epinefrina, norepinefrina, acidogamma-amminobutirrico (GABA, Gamma-aminobutyric Acid) edopamina. Nello stesso tempo, si esauriscono le vitamine del gruppoB, necessarie per produrre quei neurotrasmettitori (e centinaia di altrielementi). Anche i livelli di magnesio diminuiscono, mettendo indifficoltà sia il sistema nervoso sia il fegato. Il livello elevato dellaglicemia fa poi scattare una reazione detta «glicazione», cheesamineremo in dettaglio nel prossimo capitolo. Per dirla con parolesemplici, la glicazione è il processo biologico mediante il quale ilglucosio, le proteine e determinati grassi si legano insiemeprovocando un irrigidimento dei tessuti e delle cellule, incluse quellecerebrali. Per essere più specifici, le molecole di glucosio e le proteinecerebrali si combinano formando nuove strutture letali checontribuiscono, più di ogni altro fattore, alla degenerazione delcervello e del suo funzionamento. Il cervello è molto sensibile alledevastazioni provocate dal glucosio in questo processo, e potentiantigeni come il glutine non fanno che accelerare il danno. In terminineurologici, la glicazione può contribuire alla riduzione della massacritica del tessuto cerebrale.

Accanto alle bevande dolcificate, gli alimenti a base di cereali sono iprincipali responsabili delle calorie ricavate dai carboidrati nella dietaamericana. Che si tratti di pasta, biscotti, torte, bagel, o del «paneintegrale» considerato così sano, in ultima analisi il carico dicarboidrati indotto dalle nostre scelte alimentari non è di grangiovamento quando tentiamo di ottimizzare salute e funzionecerebrale. Se aggiungiamo a questo elenco un assortimento di alimenti

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ad alto contenuto di carboidrati come patate, mais, frutta e riso, nondesta meraviglia che gli americani siano definiti, e a ragione,carboholics, cioè carboidratodipendenti. E non stupisce che siano colpitida un’epidemia di sindromi metaboliche e diabete.

I dati che confermano la relazione tra il consumo elevato dicarboidrati e il diabete sono chiari e gravi. Vale la pena di ricordareche la patologia esplose nel 1994, quando l’American DiabetesAssociation raccomandò agli americani di attingere dal 60 al 70% delleloro calorie dai carboidrati: tra il 1997 e il 2007 il numero dei casi didiabete nel paese raddoppiò. 23 La prossima figura ci permette diosservare la sua rapida ascesa dal 1980 al 2011, anni in cui il numerodelle diagnosi di diabete degli americani risultò più che triplicato.

Il dato è rilevante perché, come già sapete, diventare diabeticiraddoppia il pericolo di contrarre il morbo di Alzheimer. Anche lafase «pre-diabetica», quando i problemi di glucosio nel sangue sonosolo agli inizi, è associata a un declino della funzione cerebrale e a unaatrofia del centro della memoria nel cervello, oltre a rappresentare unfattore di rischio indipendente per il morbo di Alzheimer vero eproprio.

È difficile credere che non avremmo potuto riconoscere primaquesto nesso tra diabete e demenza, ma è stato necessario moltotempo per leggere tra le righe e condurre il tipo di studi longitudinaliche una conclusione di questo genere richiede. E occorreva tempoanche per valutare l’ovvia domanda che si pone una volta individuatoquesto collegamento: in quale modo il diabete contribuisce allademenza?

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Immagine tratta da Centers for Disease Control and Prevention;cdc.gov/diabetes/statistics/prev/national/figpersons.htm.

Innanzitutto, se siete affetti da insulinoresistenza il vostro corpopuò non essere in grado di scindere una proteina (amiloide) che formale placche cerebrali associate alla malattia. Inoltre, il livello elevato delglucosio ematico provoca gravi reazioni biologiche che nuocciono alcorpo producendo molecole contenenti ossigeno che danneggiano lecellule e causano infiammazione, con la possibile conseguenza diirrigidire e restringere le arterie nel cervello (e in altre parti del corpo).Questa malattia, nota come aterosclerosi, può portare alla demenzavascolare, che si verifica quando ostruzioni e ictus uccidono tessutocerebrale. Tendiamo a pensare all’aterosclerosi come a un problema

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connesso al cuore, ma il cervello può essere altrettanto interessatodalle alterazioni nelle pareti delle sue arterie. Nel lontano 2004,ricercatori australiani affermarono con audacia in un articolo dirassegna sull’argomento: «Ora esiste un consenso riguardo al fatto chel’aterosclerosi rappresenti uno stato di accentuato stress ossidativocaratterizzato da ossidazione di lipidi e proteine nella paretevascolare». 24 E puntualizzarono che tale ossidazione è una rispostaall’infiammazione.

Nel 2011 un gruppo di ricercatori giapponesi fece una scopertamolto allarmante esaminando mille uomini e donne sopra isessant’anni di età e riscontrando che «i soggetti diabetici avevano ildoppio delle probabilità degli altri partecipanti allo studio disviluppare il morbo di Alzheimer entro quindici anni. E avevanoanche 1,75 volte più probabilità di sviluppare una demenza diqualsiasi tipo». 25 Questo collegamento rimase valido anche dopoavere contemplato diversi fattori associati a entrambi i rischi didiabete e demenza, come età, sesso, pressione sanguigna e indice dimassa corporea. Ora questi e altri ricercatori stanno documentandocome il controllo della glicemia e la riduzione dei fattori di rischio peril diabete di tipo 2 riducano anche la minaccia di demenza.

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La verità sul grasso: il migliore amico del cervelloPer cogliere appieno i danni causati dai carboidrati e i benefici dati daigrassi, è utile comprendere un po’ di biologia elementare. Il corpotrasforma i carboidrati assunti nella dieta (inclusi zuccheri e amidi) inglucosio e, come ormai sapete, ciò induce il pancreas a rilasciareinsulina nel sangue. L’insulina permette al glucosio di entrare nellecellule e lo deposita sotto forma di glicogeno nel fegato e nei muscoli.È poi il principale catalizzatore per la formazione di grasso: quandofegato e muscoli non hanno più spazio per il glicogeno, infatti,l’insulina trasforma il glucosio in grasso corporeo. La causa primariadell’aumento di peso sono i carboidrati, non i grassi alimentari.(Riflettete: molti agricoltori ingrassano gli animali destinati al bancodel macellaio con carboidrati come mais e cereali, non con grassi eproteine. Per vedere la differenza basta confrontare, per esempio, untaglio di bistecca di lombo di capi allevati a cereali con uno di capiallevati al pascolo: il primo conterrà molto più grasso.) Questo spiegain parte perché uno dei principali benefici di una dieta a bassocontenuto di carboidrati è la perdita di peso. Inoltre, questo tipo didieta riduce il livello glicemico nei diabetici e migliora la sensibilitàall’insulina. In effetti, sostituire i carboidrati con i grassi stadiventando sempre più spesso il metodo consigliato per curare ildiabete di tipo 2.

Un’alimentazione costantemente ricca di carboidrati induce il corpoa una continua produzione di insulina, limitando in modo grave (senon arrestando) la scissione del grasso corporeo per produrre energia.Il corpo sviluppa così una dipendenza dal glucosio: potrà ancheesaurirlo, ma non riuscirà a bruciare il grasso a disposizione, isolatoper effetto degli elevati volumi di insulina. In sostanza, il corpo vienefisicamente ridotto alla fame dalla dieta a base di carboidrati. Perquesto, continuando a nutrirsi di carboidrati, molti individui obesinon riescono a perdere peso: i loro livelli di insulina tengono inostaggio quei depositi di grasso.

Passiamo ora ai grassi assunti nella dieta. Il grasso è ed è sempre

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stato un pilastro fondamentale della nostra nutrizione. Al di là delfatto che il cervello umano è composto da grassi per oltre il 70%, essisvolgono un ruolo cruciale nel regolare il sistema immunitario. Perdirla con parole semplici, i grassi buoni come gli omega 3 e i grassimonoinsaturi riducono l’infiammazione, mentre i grassi idrogenatimodificati, così comuni negli alimenti industriali o semindustriali,provocano un drastico aumento dell’infiammazione. Certe vitamine,in particolare la A, la D, la E e la K, hanno bisogno dei grassi peressere assorbite come si deve nel corpo, e per questo i grassialimentari sono necessari al trasporto di queste vitamine«liposolubili». Non essendo idrosolubili, tali vitamine possono essereassorbite solo dall’intestino tenue in combinazione con i grassi. Lecarenze dovute a un assorbimento incompleto di queste vitamine diimportanza vitale sono sempre gravi e possono indurre malattiecerebrali e molte altre patologie. Se la vitamina K non è sufficiente, peresempio, in caso di lesioni il sangue non è in grado di coagulare e puòaddirittura portare a casi di emorragia spontanea (immaginate questoproblema al cervello). La vitamina K tutela anche la salute di cervelloe occhi, contribuendo a ridurre il rischio di demenza legata allavecchiaia e di degenerazione maculare (e i grassi alimentari giovanoin caso di degenerazione maculare). Senza un’adeguata vitamina A, ilcervello non si sviluppa in modo corretto; si diventa ciechi e moltovulnerabili alle infezioni. È noto che una carenza di vitamina D èassociata a un aumento di suscettibilità a diverse malattie croniche(come schizofrenia, Alzheimer, Parkinson, depressione, disturbiaffettivi stagionali) e a una serie di malattie autoimmuni, per esempioil diabete di tipo 1.

Se vi attenete all’attuale opinione dominante, sapete di doverlimitare il vostro consumo complessivo di grassi a non più del 20%delle calorie ingerite (e per i grassi saturi la percentuale scende a menodel 10%). Sapete anche che è difficile raggiungere questo obiettivo(state tranquilli, però: è un consiglio sbagliato, e seguendo il mioprogramma non dovrete preoccuparvi di contare i grammi dei grassio le percentuali complessive). Tuttavia, anche se i grassi transartificiali che si trovano nella margarina e nei cibi industriali sono

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velenosi, sappiamo che i grassi monoinsaturi (come quelli contenuti inavocado, olive e frutta a guscio) sono salutari. Inoltre, sappiamo chegli acidi grassi polinsaturi omega 3 presenti nei pesci d’acqua fredda ein alcune piante (per esempio il salmone e l’olio di semi di lino) sonoconsiderati «buoni». Ma che dire dei grassi saturi naturali come quelliche si trovano in carne, tuorli d’uovo, formaggio e burro? Come hospiegato in dettaglio, il grasso saturo è stato oggetto di diffamazione.La maggior parte di noi non si domanda neppure più perché questiparticolari grassi siano dannosi; ci limitiamo a supporre che ilpresunto fondamento scientifico sia vero. Oppure, a torto, mettiamoquesti grassi nella stessa categoria dei grassi trans. Tuttavia i grassisaturi sono necessari, e il nostro corpo è concepito per affrontare ilconsumo, anche in quantità elevate, delle loro fonti naturali.

Poche persone comprendono che i grassi saturi svolgono un ruolocruciale in molte equazioni biochimiche che ci mantengono in salute.Se da bambini siete stati allattati al seno, i grassi saturi erano il vostroalimento base, poiché compongono il 54% del grasso nel lattematerno. Ogni cellula del corpo richiede grassi saturi; essicostituiscono il 50% della membrana cellulare. Contribuiscono inoltrealla struttura e al funzionamento di polmoni, cuore, ossa, fegato esistema immunitario. Un particolare grasso saturo, l’acido palmitico16, forma nei polmoni il surfattante polmonare, riducendo la tensionesuperficiale in modo che gli alveoli – le minuscole sacche d’aria checatturano l’ossigeno a ogni inalazione e gli consentono di essereassorbito nel flusso sanguigno – siano in grado di espandersi. Senza ilsurfattante non sareste in grado di respirare, perché le superfici umidedegli alveoli polmonari si incollerebbero impedendo ai polmoni diespandersi. Un surfattante polmonare sano previene l’asma e altridisturbi respiratori.

Le cellule del muscolo cardiaco prediligono come nutrimento untipo di grasso saturo, e le ossa necessitano di grassi saturi perassimilare in modo efficace il calcio. Con l’aiuto dei grassi saturi, ilfegato si sbarazza del grasso e ci protegge dagli effetti nocivi delletossine, compresi alcol e composti contenuti nei farmaci. I globulibianchi del sistema immunitario devono in parte ai grassi che si

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trovano nel burro e nell’olio di cocco la loro capacità di riconoscere edistruggere i germi invasori, nonché di combattere i tumori. Anche ilsistema endocrino si affida agli acidi grassi saturi per trasmettere larichiesta di produrre determinati ormoni, insulina inclusa. Ed essicontribuiscono a informare il cervello quando siete sazi, così chepossiate porre fine al pranzo. Non pretendo che ricordiate tutta questabiologia, ma ho voluto parlarne per enfatizzare la necessità biologicadei grassi saturi. Per un elenco completo degli alimenti in cui sipossono trovare questi grassi buoni (e di dove si annidano i grassicattivi), si vedano le pagine 82-83.

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In difesa del colesteroloSe avete fatto un esame per verificare i vostri livelli di colesterolo, èprobabile che abbiate associato HDL (lipoproteina ad alta densità) eLDL (lipoproteina a bassa densità) a due categorie differenti: una«buona» e una «cattiva». Ho già accennato di sfuggita a queste dueetichette per il colesterolo. Al contrario di quello che potreste pensare,però, non si tratta di due diversi tipi di colesterolo: HDL e LDLrappresentano due contenitori diversi di colesterolo e grassi, ciascunodei quali svolge un ruolo specifico nel corpo. Esistono anche altrelipoproteine, come VLDL (a bassissima densità) e IDL (a densitàintermedia). Vi ho già anticipato che il colesterolo – non importa diquale «tipo» – non è poi così terribile come vi hanno insegnato acredere. Alcuni dei più pregevoli studi recenti sul valore biologico delcolesterolo, in particolare in relazione alla salute del cervello, spieganocome i pezzi di questo puzzle si incastrino raccontando una storiacoerente. Come abbiamo visto, gli scienziati hanno da poco scopertoche il cervello malato presenta una grave carenza di grassi e dicolesterolo e che livelli elevati di colesterolo totale sono associati in etàavanzata a una crescente longevità. 26 Il cervello corrisponde solo al2% della massa corporea, ma contiene il 25% del colesterolo totale, chene supporta funzione e sviluppo. Un quinto del peso del cervello ècostituito da colesterolo!

Il colesterolo forma membrane che circondano le cellule, lemantiene permeabili e nello stesso tempo garantisce«l’impermeabilizzazione» cellulare, consentendo a diverse reazionichimiche di avere luogo all’interno e all’esterno della cellula. Abbiamostabilito che la capacità di sviluppare nuove sinapsi nel cervellodipende dalla disponibilità del colesterolo, che collega le membranecellulari tra loro in modo che i segnali possano attraversare con facilitàla sinapsi. È inoltre una componente cruciale nel rivestimentomielinico intorno al neurone, che consente la rapida trasmissione delleinformazioni. Un neurone che non riesce a trasmettere messaggi èinutile, e la sola cosa sensata è metterlo da parte come scarto: i suoi

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resti sono il segno caratteristico delle malattie del cervello. In sostanza,il colesterolo agisce come un fattore che agevola la comunicazione delcervello e il suo corretto funzionamento.

Nel cervello il colesterolo è utile anche come potente antiossidante,perché protegge quest’organo dagli effetti dannosi dei radicali liberi. Ilcolesterolo è il battistrada degli ormoni steroidei come estrogeni eandrogeni, nonché della vitamina D, un antiossidante liposolubile diimportanza cruciale. La vitamina D è anche un potenteantinfiammatorio, che aiuta il corpo a eliminare agenti infettivi chepossono portare a malattie anche fatali. La vitamina D non èpropriamente una vitamina, e agisce nel corpo più che altro come unosteroide o un ormone. Essendo prodotta direttamente dal colesterolo,non vi sorprenderà apprendere che i livelli di vitamina D sono bassinelle persone colpite da varie malattie neurodegenerative comeParkinson, Alzheimer e sclerosi multipla. In genere, i livelli dicolesterolo naturale aumentano con l’età. Questo è un fatto positivo,perché con l’età aumenta anche la produzione dei radicali liberi,contro i quali il colesterolo può offrire un certo livello di protezione.

A prescindere dal cervello, il colesterolo svolge altre funzioni vitalinella salute e nella fisiologia umana. Sono costituiti da colesterolo isali biliari secreti dalla cistifellea, necessari per la digestione del grassoe pertanto per l’assorbimento di vitamine liposolubili come la A, la De la K. Un livello basso di colesterolo comprometterebbe perciò lacapacità di una persona di digerire i grassi, e metterebbe a repentaglioanche il delicato equilibrio elettrolitico del corpo, che il colesterolocontribuisce a regolare. In effetti, è ritenuto dal corpo un collaboratorecosì importante che ogni cellula ha modo di farne provvista.

Qual è il significato di tutto questo in rapporto alla dieta? Per annici è stato detto di concentrarci su alimenti «a basso contenuto dicolesterolo», ma gli alimenti ricchi di colesterolo, come per esempio leuova, sono molto utili e andrebbero considerati «cibo per il cervello».Abbiamo consumato alimenti ricchi di colesterolo per oltre duemilioni di anni. Come ormai sapete, i veri responsabili, quando siparla di alterazione della salute e della funzione cerebrale, sono glialimenti ad alto indice glicemico, ovvero ricchi di carboidrati.

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Uno dei miti più radicati che non mi stanco mai di sfatare è l’ideache il cervello preferisca bruciare glucosio. Anche questo nonpotrebbe essere più lontano dalla verità. Il cervello fa un ottimo usodel grasso: lo considera un «supercombustibile». Per questo usiamocome terapia per ogni sorta di malattia neurodegenerativa una dieta abase di grassi (nel capitolo VII descriverò in dettaglio in quale modo ilcervello accede ai grassi come combustibile e cosa significhi questoper la salute e ai fini della realizzazione di una perfetta dieta sumisura).

Se mi concentro sui grassi, e sul colesterolo in particolare, non èsolo per la stretta relazione tra queste componenti e la salute delcervello, ma anche perché viviamo in una società che continua ademonizzarli; e la grande industria farmaceutica sfrutta ladisinformazione del pubblico e perpetua falsità, molte delle qualipotrebbero distruggere il nostro fisico. Per spiegarmi meglio,affronterò un esempio problematico: l’epidemia delle statine.

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L’epidemia delle statine e la disfunzione cerebraleAvendo compreso l’importanza cruciale del colesterolo per la salutedel cervello, siamo in molti, nel mio campo, a credere che le statine –farmaci molto richiesti, prescritti a milioni di americani per abbassareil colesterolo – possano causare o esacerbare disturbi e malattie delcervello.

Un noto effetto collaterale delle statine è la disfunzione dellamemoria. Duane Graveline, ex dottore degli astronauti della NASA chesi è guadagnato il soprannome Spacedoc (dottore dello spazio), è unconvinto oppositore delle statine. Dopo avere sperimentato unaperdita totale della memoria, provocata, a suo avviso, dalle statine cheassumeva all’epoca, ha raccolto prove dei loro effetti collaterali dapersone di tutto il mondo. Oggi ha scritto tre libri sull’argomento, ilpiù famoso dei quali è Lipitor, Thief of Memory (Il Lipitor, ladro dellamemoria). 27

Nel febbraio del 2012, la FDA ha rilasciato una dichiarazione in cuisi segnalava che le statine potevano provocare effetti collateralicognitivi, come per esempio deficit di memoria e confusione. Unostudio eseguito dalla American Medical Association e pubblicato su«Archives of Internal Medicine» nel gennaio del 2012 avevaevidenziato uno sbalorditivo aumento del 48% del rischio di diabetefra le donne che assumono statine. 28

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Adattamento da A.L. Culver et al., Statin Use and Risk of Diabetes Mellitus inPostmenopausal Women in the Women’s Health Initiative, in «Archives of Internal

Medicine», CLXXII, 2, 2012, pp.144-52.

Questo studio riguardava grandi numeri – più di centosessantamiladonne in postmenopausa –, il che rende difficile ignorarnel’importanza e la gravità. Ammettendo che il diabete di tipo 2costituisca un potente fattore di rischio per il morbo di Alzheimer, unarelazione tra statine e declino cognitivo o disfunzione cognitiva èsenza dubbio comprensibile.

Nel 2009 Stephanie Seneff, una scienziata ricercatrice senior pressoil Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory del MIT cheaveva iniziato a interessarsi agli effetti dei farmaci e della dieta susalute e nutrizione, ha scritto un saggio affascinante spiegando perchéle diete a basso contenuto di grassi e le statine possono provocarel’Alzheimer. 29 In questo lavoro espone ciò che sappiamo degli effetticollaterali delle statine e dipinge un quadro scioccante di come ilcervello soffra in loro presenza. Riassume inoltre gli ultimi dati

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scientifici e i contributi di altri esperti del settore, spiegando che unadelle principali ragioni per cui le statine favoriscono i disturbicerebrali è il fatto che limitano la capacità del fegato di produrrecolesterolo. Di conseguenza, il livello di LDL nel sangue cala in modosignificativo. Come ho appena illustrato in dettaglio, il colesterolosvolge un ruolo vitale nel cervello, permettendo la comunicazione traneuroni e incoraggiando la crescita di nuove cellule cerebrali. Ironiadella sorte, l’industria delle statine reclamizza i suoi prodotti dicendoproprio che interferiscono con la produzione di colesterolo nelcervello e nel fegato.

Il professore di biofisica dell’Iowa State University Yeon-Kyun Shinè un’autorità per quanto riguarda il funzionamento del colesteroloall’interno delle reti neurali per la trasmissione di messaggi. Inun’intervista su «ScienceDaily» il celebre scienziato ha spiegato senzamezzi termini:

Privare il cervello del colesterolo significa colpire direttamente ilmeccanismo che dà il via al rilascio dei neurotrasmettitori. Ineurotrasmettitori influiscono sulle funzioni di elaborazione dati ememoria, o in altre parole su quanto siete intelligenti e su comericordate bene le cose. Cercare di ridurre il colesterolo assumendofarmaci che attaccano il meccanismo della sintesi del colesterolo nelfegato avrà ripercussioni anche sul cervello. E ridurrà la sintesi delcolesterolo, che è necessaria nel cervello. Il nostro studio mostra cheesiste un collegamento immediato tra colesterolo e rilascio dineurotrasmettitori, e conosciamo con precisione la meccanicamolecolare di ciò che accade nelle cellule. Il colesterolo modifica laforma delle proteine stimolando pensiero e memoria. 30

Nel 2009 una revisione aggiornata di due importanti studi completatinel 2001 sui farmaci contenenti statine utilizzati da più di ventiseimilapersone a rischio di demenza e morbo di Alzheimer dimostrò che lestatine non proteggono dall’Alzheimer, al contrario di quanto sipensava in precedenza. «ScienceDaily» riportò le parole dell’autriceprincipale dello studio, Bernadette McGuinness: «Da questiesperimenti, che contenevano grandi numeri e rappresentavano ilmiglior standard di riferimento, sembra che le statine somministrate

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in tarda età a soggetti a rischio di malattie vascolari non prevenganola demenza». 31 Invitata a commentare questi risultati, la ricercatricedell’UCLA Beatrice Golomb dichiarò: «Per quanto concerne le statinesomministrate come medicine preventive, vi sono diversi casi neglistudi su singoli pazienti e su gruppi di pazienti in cui i processicognitivi sono senza dubbio influenzati in modo negativo eriproducibile dalle statine». 32 La Golomb, inoltre, aggiunse che varistudi avevano dimostrato che le statine avevano ripercussioninegative o neutre sui processi cognitivi, e che nessun esperimentoaveva mai evidenziato un esito positivo.

Oltre all’impatto diretto sul colesterolo, le statine hanno un effettoindiretto sull’approvvigionamento di acidi grassi e antiossidanti. Nonsolo riducono la quantità di colesterolo contenuto nelle particelle LDL,ma diminuiscono anche il numero effettivo delle medesime. Limitanodunque la riserva a disposizione del cervello di acidi grassi e diantiossidanti, anch’essi veicolati dalle particelle LDL. Il correttofunzionamento del cervello dipende da tutte e tre queste sostanze 33 (epiù avanti leggerete dell’importanza di incrementare la produzionenaturale di antiossidanti nel corpo).

Un altro modo in cui le statine possono contribuire all’Alzheimer,descritto alla perfezione dalla dott.ssa Seneff, 34 è paralizzando lacapacità delle cellule di produrre il coenzima Q10, una sostanzavitamino-simile che si trova in tutto il corpo e svolge un ruoloimportante come antiossidante e nella produzione di energia per lecellule. Poiché il coenzima Q10 condivide la stessa via metabolica delcolesterolo, la sua sintesi è disturbata dalle statine e il corpo e ilcervello sono privati di questa sostanza. Alcuni degli effetti collateralielencati per le statine, come spossatezza, fiato corto, problemi dimobilità e di equilibrio, dolore muscolare, debolezza e atrofia sonolegati alla perdita di coQ10 nei muscoli e a una ridotta capacità diprodurre energia. Nei casi estremi, i soggetti che sperimentanoreazioni forti alle statine soffrono di gravi danni ai muscoli scheletrici.Una carenza di coQ10 è stata collegata anche a insufficienza cardiaca,ipertensione e morbo di Parkinson. Non riesce quindi difficile capire

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perché il coQ10 è stato proposto come vera e propria terapia per ilmorbo di Alzheimer.

Infine, le statine potrebbero avere un effetto indiretto sulla vitaminaD. Il corpo produce la vitamina D dal colesterolo presente nella pellequando viene esposta ai raggi UV del sole. Se doveste esaminare laformula chimica della vitamina D, fareste fatica a distinguerla daquella del colesterolo: sembrano identiche. «Se i livelli di LDL vengonomantenuti bassi in modo artificiale», scrive Stephanie Seneff, «il corposarà incapace di procurare quantità adeguate di colesterolo perriempire di nuovo i depositi nella pelle una volta che siano statisvuotati. Ne risulterebbe una carenza di vitamina D, un problemadiffuso in America». 35 La carenza di vitamina D non riguarda solo unaumento del rischio di ossa deboli e molli, e, in caso estremo, dirachitismo; essa è associata a molte malattie che aumentano il pericolodi demenza, come diabete, depressione e malattie cardiovascolari. Seil cervello non necessitasse di vitamina D per un corretto sviluppo efunzionamento, non disporrebbe di appositi recettori diffusi.

I benefici delle statine sono discutibili, e importanti ricerche nonsono riuscite a dimostrare che proteggano il corpo da malattie. Anchese numerosi studi indicano i loro effetti positivi nel ridurre i tassi dimortalità nelle persone che soffrono di cardiopatia coronarica, nuovericerche rivelano che questi esiti hanno poco a che vedere con lariduzione del colesterolo indotta da questi farmaci: più probabilmenteriflettono il fatto che riducono l’infiammazione, una delle principalicause di questa malattia. Ciò non vuol dire tuttavia che i compromessiper l’assunzione di una statina meritino un benestare. Per alcuni, laminaccia di effetti collaterali negativi è troppo grande. Per le personea basso rischio di malattie cardiache ma ad alto rischio di altri disturbiscegliere di assumere una statina equivarrebbe a esporsi a un pericolo.

Alcuni studi che risalgono alla metà degli anni Novanta indicanoun collegamento tra l’uso delle statine e un aumento del rischio dideterminati tumori, per non parlare di un lungo elenco di effetticollaterali: difficoltà digestive, asma, impotenza, infiammazione delpancreas e danni al fegato. 36 Da un esperimento pubblicato nelgennaio 2010 sull’«American Journal of Cardiology» risultò che i

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farmaci contenenti statine aumentavano il rischio di morte. In Israeleun gruppo di ricercatori seguì quasi 300 adulti con diagnosi diinsufficienza cardiaca per una media di 3,7 anni, e in alcuni casi fino a11,5 anni. I tassi di mortalità più elevati furono riscontrati nei soggettiche assumevano statine e avevano i livelli più bassi di lipoproteina abassa densità (LDL). Per contro, il rischio di decesso risultò inferioreper le persone con i livelli di colesterolo più elevati. 37

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Come i carboidrati (e non il colesterolo) causano il colesteroloaltoSe riuscite a limitare il consumo di carboidrati allo stretto necessario(per i dettagli consultate il capitolo X) e compensate la differenza condeliziosi grassi e proteine, potete letteralmente riprogrammare i vostrigeni tornando alle «impostazioni di fabbrica» che avevate alla nascita:le stesse che vi permettono di essere una macchina dalla mente acuta,che funziona bruciando grassi.

È importante comprendere che nell’esame del colesterolo ematico ilvalore indicato è in realtà derivato per il 75-80% da ciò che il vostrocorpo produce e non necessariamente da ciò che avete mangiato. Inrealtà, gli alimenti ad alto contenuto di colesterolo riducono laproduzione di colesterolo del corpo. Noi tutti produciamo fino a 2000grammi di colesterolo al giorno perché ne abbiamo un disperatobisogno, e si tratta della quantità che si trova nelle nostre dietemoltiplicata per diverse volte. Nonostante questa straordinariacapacità, però, è fondamentale ottenere il colesterolo anche da fontialimentari. I nostri corpi preferiscono di gran lunga essere «imboccati»con colesterolo ricavato dai cibi che consumiamo invece che produrloal loro interno, attraverso un complesso processo biologico in più fasiche mette a dura prova il fegato. Il colesterolo alimentare è cosìimportante che il corpo ne assorbe il più possibile per utilizzarlo.

Cosa succede quindi se limitate il vostro consumo di colesterolocome fanno oggigiorno tante persone? Il corpo invia un allarme cheindica crisi (carestia). Il fegato avverte questo segnale e inizia aprodurre un enzima (lo stesso che viene preso di mira dalle statine)chiamato HMG-CoA reduttasi, che contribuisce a compensare ildeficit utilizzando i carboidrati nella dieta per produrre un surplus dicolesterolo. Come forse potrete prevedere, si tratta di un cocktailesplosivo: consumando carboidrati in eccesso mentre riducete ilconsumo di colesterolo, stimolate una costante e punitivasovrapproduzione di colesterolo nel corpo. Il solo modo per arrestare

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questo percorso interno fuori controllo è assicurarsi una quantitàadeguata di colesterolo alimentare e ridurre in modo drastico icarboidrati. Per questo i miei pazienti con il «colesterolo alto» cheiniziano a seguire la mia dieta possono tornare in tutta tranquillità aivalori normali senza bisogno di farmaci e godendosi alimenti ricchi dicolesterolo.

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ESISTE UN «COLESTEROLO ALTO» PERICOLOSO?

Nella cardiopatia coronarica il colesterolo è al massimo un elementosecondario e rappresenta un cattivo predittore del rischio di infarto. Oltrela metà dei pazienti ricoverati in ospedale con un infarto hanno livelli dicolesterolo compresi nel range «normale». L’idea che abbassare in modoaggressivo i livelli di colesterolo ridurrà, come per magia, in manierasensibile il rischio di infarto è ormai stata confutata in modo categorico edesaustivo. I principali fattori di rischio modificabili in relazione all’infartoincludono fumo, consumo eccessivo di alcol, mancanza di esercizioaerobico, sovrappeso e una dieta ad alto contenuto di carboidrati.Quando vedo pazienti con livelli di colesterolo pari, per esempio, a 240mg/dl o superiori, è quasi scontato che il loro medico generico gli abbiaprescritto un farmaco per abbassare il colesterolo. È sbagliato sia sulpiano teorico sia su quello pratico. Come ho spiegato, il colesterolo è unadelle sostanze chimiche vitali nella fisiologia umana, soprattutto perquanto riguarda la salute del cervello. Il migliore esame cui fareriferimento per stabilire il proprio stato di salute è l’emoglobina A1C, nonil livello di colesterolo. Raramente, per non dire mai, è correttoconsiderare il solo colesterolo alto una minaccia significativa per lasalute.

Una buona domanda: chi soffre di colesterolo alto? Trent’anni fa, larisposta era: chiunque avesse un livello di colesterolo superiore a 240,insieme ad altri fattori di rischio, come essere sovrappeso e fumare.Dopo la Cholesterol Consensus Conference del 1984, la definizione èdiventata: chiunque avesse un livello di colesterolo superiore a 200, aprescindere da altri fattori di rischio. Oggi la soglia è scesa a 180. E seavete avuto un infarto sarete in una categoria del tutto diversa: perquanto basso sia il vostro livello di colesterolo, è probabile che vi verràprescritta una medicina per ridurlo e vi si raccomandi di seguire unadieta povera di grassi.

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Disfunzione sessuale: è tutto nella vostra testaVa bene. Dunque il colesterolo è una buona cosa. Ma non si tratta solodell’acutezza del vostro cervello, di salute fisica e di futura longevità.Si tratta anche di una parte molto importante del vostro stile di vitache di norma viene passata sotto silenzio nei testi seri sulla salute. Stoparlando della vostra vita sessuale. Quanto è vivace?

Pur essendo un neurologo, curo un certo numero di persone chesoffrono di disfunzione sessuale: o sono impotenti ed evitano del tuttoil sesso, o accumulano boccette di pillole per rimediare. Conosceretequeste pillole: sono quelle pubblicizzate come caramelle neltelegiornale della sera e promettono di trasformare la vostra vitasessuale. I miei pazienti con problemi di salute nella sfera sessualenon vengono certo da me per questo motivo in particolare, ma è unproblema che emerge quando li interrogo su quella parte della lorovita, oltre alle questioni neurologiche che sto affrontando.

Un breve aneddoto. Un ingegnere di settantacinque anni venne dame lamentando una serie di problemi, comprese insonnia edepressione. Prendeva sonniferi da quarant’anni e nei due o tre mesiprecedenti al nostro appuntamento la sua depressione era peggiorata.Quando lo visitai, assumeva alcuni farmaci: un antidepressivo, unansiolitico e il Viagra per la disfunzione erettile. Per prima cosa losottoposi all’esame per la sensibilità al glutine e scoprii, con suagrande sorpresa, che risultava positivo. Accettò di adottare una dietasenza glutine e ad alto contenuto di grassi. Quando ci risentimmo pertelefono, dopo circa un mese, mi diede una notizia magnifica: la suadepressione era migliorata e non aveva più bisogno di assumereViagra per avere rapporti sessuali con sua moglie. Mi ringraziò molto.

Il sesso è del tutto connesso a ciò che avviene nel cervello, su questoil consenso è pressoché unanime. Si tratta di un atto profondamentelegato a emozioni, impulsi e pensieri, ma anche, in manierainesorabile, agli ormoni e alla struttura chimica del sangue. Senzadubbio, se siete depressi e non dormite bene, come il mio pazienteingegnere, il sesso è l’ultimo dei vostri pensieri. Tuttavia, una delle

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cause più comuni dell’impotenza non è uno di questi due disturbi,bensì ciò di cui abbiamo parlato in buona parte di questo capitolo:bassissimi livelli di colesterolo. Finora gli studi hanno corroboratoquesta teoria: se non avete sani livelli di testosterone (e vale sia per gliuomini sia per le donne), non avrete una vita sessuale piccante. E dacosa è costituito il testosterone? Colesterolo. E cosa fanno oggi milionidi americani? Abbassano i loro livelli di colesterolo attraverso la dietae/o l’assunzione di statine, riducendo al tempo stesso libido e capacitàdi prestazione. Deve forse stupire che vi sia un’epidemia didisfunzione erettile (ED, Erectile Dysfunction) e la richiesta di appositifarmaci, per non parlare (ironia della sorte, forse) della terapiasostitutiva del testosterone?

Questi nessi sono stati confermati da numerosi studi. 38 Il calo dellalibido è uno dei sintomi più diffusi lamentati da coloro che assumonostatine, e gli esami di laboratorio hanno rilevato a più riprese un bassolivello di testosterone nei consumatori di statine. 39 Chi le assume ha ildoppio delle probabilità di avere livelli bassi di testosterone. Perfortuna questo disturbo è reversibile, basta smettere di assumere lastatina e aumentare il consumo di colesterolo. Le statine possonoridurre il testosterone in due modi: abbassando direttamente i livellidi colesterolo e interferendo con gli enzimi che produconotestosterone attivo.

Uno studio pubblicato nel Regno Unito nel 2010 prese inconsiderazione 930 uomini affetti da cardiopatia coronarica e nemisurò i livelli di testosterone. 40 Nel 24% dei pazienti fu riscontratoun livello basso e un 21% di rischio di morte, ben diverso dal 12% deisoggetti con un livello normale. La conclusione era sotto i loro occhi:se si ha una cardiopatia coronarica e il testosterone basso, il rischio dimorte sarà molto più elevato. In sintesi, somministriamo farmacicontenenti statine per ridurre il colesterolo e questo abbassa iltestosterone… e abbassare il testosterone aumenta il rischio di morire.Non è una follia?

Non ho altro da aggiungere.

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La dolce veritàIn questo capitolo ho trattato molti argomenti, occupandomisoprattutto del ruolo dei grassi nel cervello. A questo punto, però,dobbiamo porci la seguente domanda: cosa succede invece quandoinondiamo il cervello di zucchero? Ho iniziato questo capitoloelencando gli effetti negativi dei carboidrati sul nostro corpo, ma hotenuto in serbo per un capitolo a parte il discorso su questocarboidrato particolarmente devastante. Purtroppo si tratta di un temache ha ricevuto davvero scarsa attenzione dalla stampa: sentiamoparlare sempre più spesso del rapporto tra zucchero e diabesity(l’accoppiata diabete e obesità), zucchero e cardiopatia, zucchero efegato grasso, zucchero e sindrome metabolica, zucchero e rischio ditumore… ma di zucchero e disfunzione cerebrale? È tempo diosservare da vicino il cervello sotto gli effetti dello zucchero.

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Capitolo IV

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Un’unione infruttuosaQuesto è il vostro cervello sotto l’effetto dello zucchero (naturale e non)

Nel corso dell’evoluzione, lo zucchero fu a disposizione dei nostriprogenitori sotto forma di frutta solo per pochi mesi all’anno … osotto forma di miele, difeso dalle api. Di recente, invece, è statoaggiunto a quasi tutti gli alimenti industriali, limitando la scelta deiconsumatori. La natura rese difficile accedere allo zucchero; l’uomol’ha reso facile.ROBERT LUSTIG ET AL.,

Public Health: The Toxic Truth About Sugar 1

Zucchero. Che provenga da un leccalecca, dai cereali o da una fetta dipane all’uvetta, sappiamo tutti che non è il più salutare deicarboidrati, soprattutto se consumato in eccesso o in forme raffinate otrattate, come per esempio lo sciroppo di mais ad alto contenuto difruttosio. E sappiamo che è in parte colpa dello zucchero se abbiamoproblemi di linea, di appetito, di controllo della glicemia, di obesità, didiabete di tipo 2 e di insulinoresistenza. Ma che dire di zucchero ecervello?

Nel 2011 Gary Taubes, l’autore di Good Calories, Bad Calories (caloriebuone, calorie cattive), 2 scrisse un ottimo articolo per il «New YorkTimes» intitolato Is Sugar Toxic? (Lo zucchero è tossico?). 3 Il pezzorendeva conto non solo della storia dello zucchero nella nostra vita enei prodotti alimentari, ma anche dei progressi scientifici compiuti indirezione della comprensione dei suoi effetti sul nostro corpo. Inparticolare, presentava il lavoro di Robert Lustig, specialista indisturbi ormonali pediatrici e principale esperto di obesità infantilealla University of California School of Medicine di San Francisco,

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convinto che lo zucchero sia una «tossina» o un «veleno». Lustig noninsiste molto sul consumo di queste cosiddette «calorie vuote»: a suoavviso il problema è che lo zucchero ha caratteristiche uniche,soprattutto per il modo in cui i vari tipi di zucchero vengonometabolizzati dal corpo umano.

Quando descrive la differenza tra il glucosio puro – la forma piùsemplice di zucchero – e lo zucchero da tavola – che è unacombinazione di glucosio e fruttosio –, Lustig ama usare l’espressione«isocalorico ma non isometabolico». (Il fruttosio, al quale midedicherò tra un momento, è un tipo di zucchero che si trova innatura soltanto nella frutta e nel miele.) Quando assumiamo 100calorie di glucosio mangiando una patata, per esempio, il nostro corpole metabolizza in maniera differente rispetto a 100 calorie di zuccherocostituito per metà da glucosio e per metà da fruttosio, e sperimentaeffetti differenti. Vediamo perché.

È il fegato a occuparsi della componente di fruttosio dello zucchero.Il glucosio ricavato da altri carboidrati e amidi, invece, viene elaboratoda ogni cellula del corpo. Perciò, consumando nello stesso tempoentrambi i tipi di zucchero (fruttosio e glucosio), il fegato dovrà farepiù fatica che se assumessimo lo stesso numero di calorie di sologlucosio. E sarà messo a dura prova anche dalle forme liquide diquesti zuccheri, quelle che si trovano nelle bibite o nei succhi di frutta:bere zucchero liquido non è la stessa cosa che mangiare, per ipotesi,una dose equivalente di zucchero tramite mele. Il fruttosio è il piùdolce di tutti i carboidrati presenti in natura e questo forse spiegaperché lo amiamo tanto; al contrario di ciò che potreste pensare,tuttavia, ha l’indice glicemico più basso di tutti gli zuccheri naturali.La ragione è semplice: poiché il fegato metabolizza gran parte delfruttosio, esso non ha alcun effetto immediato sui livelli di glicemia edi insulina nel sangue, a differenza dello zucchero o dello sciroppo dimais ad alto contenuto di fruttosio, il cui glucosio finisce subito incircolazione, aumentando i livelli glicemici nel sangue. Non lasciateviingannare, però: anche se può non avere un effetto immediato, ilfruttosio ha effetti più a lungo termine se viene consumato indeterminate quantità da fonti non naturali. E la documentazione

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scientifica non manca: il consumo di fruttosio è associato a ridottatolleranza al glucosio, insulinoresistenza, elevati livelli ematici dilipidi e ipertensione. E poiché non dà luogo alla produzione diinsulina e leptina, due ormoni chiave nella regolazione del nostrometabolismo, le diete ad alto contenuto di fruttosio portano all’obesitàe alle rispettive conseguenze sul metabolismo. (Più avanti chiarirò checosa questo comporti per coloro che amano molto la frutta. Ingenerale, per fortuna, potete mangiarne quanta ne volete: la quantitàdi fruttosio nella maggior parte della frutta fresca impallidisce inconfronto ai livelli di fruttosio contenuti negli alimenti industriali.)

Sentiamo parlare dello zucchero e dei suoi effetti in pratica su ogniparte del corpo, eccetto quelli sul cervello. Anche questo è unargomento cui la stampa ha dedicato scarsa attenzione. Le domandeda porre, e alle quali darò risposta in questo capitolo, sono:

Qual è l’effetto del consumo eccessivo di zucchero sul cervello?Il cervello è in grado di distinguere tra diversi tipi di zucchero?«Metabolizza» lo zucchero in modo differente a seconda della suaprovenienza?

Se fossi in voi, riporrei quel dolce o quei biscotti che stateaccompagnando al caffè e mi allaccerei la cintura. Dopo avere lettoquesto capitolo, non guarderete mai più con gli stessi occhi un frutto oun dolcetto.

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L’ABC di zucchero e carboidratiPermettetemi di partire dalla definizione di alcuni termini. Qual è, conprecisione, la differenza tra zucchero da tavola, zucchero della frutta,sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio e simili? Belladomanda. Come ho già detto, il fruttosio è un tipo di zucchero che sitrova in natura nella frutta e nel miele. È un monosaccaride, propriocome il glucosio, mentre lo zucchero da tavola (o saccarosio, ossia icristalli bianchi che versiamo nel caffè o mettiamo nell’impasto per ibiscotti) è una combinazione di glucosio e fruttosio, cioè undisaccaride (due molecole legate tra loro). Lo sciroppo di mais ad altocontenuto di fruttosio, che è quello che troviamo nelle nostre bibite,nei succhi e in molti cibi confezionati, è un’altra combinazione dimolecole dominata dal fruttosio (55% fruttosio, 42% glucosio e 3%altri carboidrati).

Lo sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio fu introdotto nel1978 come sostituto economico dello zucchero da tavola in bevande eprodotti alimentari. Senza dubbio ne avrete sentito parlare dai massmedia, che hanno attaccato questo ingrediente prodotto in manieraartificiale considerandolo la causa alla radice della nostra epidemia diobesità. Ma il problema è un altro. Sebbene sia vero che possiamoattribuire al nostro consumo di sciroppo di mais ad alto contenuto difruttosio la colpa dei nostri straripanti girovita e delle diagnosi dimalattie correlate come l’obesità e il diabete, possiamo puntare il ditoanche contro gli altri zuccheri, poiché sono tutti carboidrati, una classedi biomolecole che condividono caratteristiche analoghe. I carboidratisono solo lunghe catene di molecole di zucchero, diverse dai lipidi(catene di acidi grassi), dalle proteine (catene di amminoacidi) e dalDNA. Sapete già che non tutti i carboidrati sono uguali e che non sonotrattati dal corpo nella stessa maniera. La caratteristica che lidifferenzia è la misura in cui un determinato carboidrato faràaumentare nel sangue il livello della glicemia, e quindi anchedell’insulina. I pasti a più alto contenuto di carboidrati, e soprattuttodi glucosio semplice, inducono il pancreas a incrementare la

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produzione di insulina per depositare il glucosio ematico nelle cellule.Nel corso della digestione, i carboidrati vengono scissi e altrozucchero liberato nel flusso sanguigno induce di nuovo il pancreas aincrementare la produzione di insulina in modo che il glucosio possapenetrare nelle cellule. Col tempo, i livelli di glucosio ematico piùelevati causeranno una produzione sempre maggiore di insulina daparte del pancreas.

I carboidrati che provocano la maggiore impennata della glicemiasono di solito quelli che, proprio per questa ragione, fanno ingrassaredi più. Essi includono qualsiasi prodotto preparato con farina raffinata(pane, cereali, pasta), amidi (riso, patate e mais) e carboidrati liquidi(bibite, birra e succo di frutta). La loro digestione è rapida perchéinondano il flusso sanguigno di glucosio stimolando un’impennata diinsulina e il deposito delle calorie in eccesso sotto forma di grasso. E icarboidrati contenuti in un ortaggio? Quelli, soprattutto se degliortaggi a foglia verde come broccoli e spinaci, sono legati a fibreindigeribili, perciò richiedono una digestione più lenta. In sostanza, lafibra rallenta il processo, provocando un passaggio più lento delglucosio nel flusso sanguigno. Inoltre, in rapporto al loro peso, leverdure contengono più acqua che amidi, il che mitiga ancor più larisposta glicemica. Anche quando mangiamo la frutta, che ovviamentecontiene zucchero, l’acqua e la fibra ne «diluiranno» l’effetto nelsangue. Se per esempio prendiamo una pesca e una patata bollita diuguale peso, la patata avrà un effetto assai maggiore sulla glicemiarispetto alla pesca, ricca di acqua e di fibra. Ciò non vuol dire che lapesca, o qualunque altro frutto, non causerà alcun problema. 4

I nostri antenati delle caverne mangiavano frutta, ma non tutti igiorni dell’anno. Non siamo ancora evoluti al punto di riuscire a farfronte alle grandi quantità di fruttosio che consumiamo oggi,soprattutto quando lo ricaviamo da fonti industriali. La frutta ha uncontenuto piuttosto basso di zucchero in confronto, per esempio, auna lattina di una normale bibita. Una mela di medie dimensionicontiene circa 44 calorie di zucchero in una miscela ricca di fibregrazie alla presenza di pectina; per contro, una lattina da 360 ml diCoca-Cola o di Pepsi ne ha quasi il doppio: 80 calorie di zucchero. Se

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estraete il succo di diverse mele e lo concentrate in una bibita da 360ml (perdendo così la fibra), ecco che otterrete ben 85 calorie dizucchero, che potrebbero provenire, alla stessa stregua, da una bibitaqualsiasi. Quando quel fruttosio arriva al fegato, viene in gran partetrasformato in grasso e inviato alle nostre cellule adipose. Non pernulla più di quarant’anni fa i biochimici definirono il fruttosio ilcarboidrato più ingrassante. Quando il nostro corpo si abitua aeseguire questa semplice conversione a ogni pasto, possiamo cadere inuna trappola in cui anche il tessuto dei nostri muscoli diventaresistente all’insulina. Gary Taubes descrive in modo brillante questoeffetto domino in Perché si diventa grassi:

Quindi, anche se il fruttosio non ha effetti immediati sulla glicemiae sull’insulina, nel corso del tempo, magari alcuni anni, è unaprobabile causa di insulinoresistenza, e quindi dell’aumentatoaccumulo di calorie sotto forma di grasso. Anche se non sarà statocosì fin dall’inizio, la lancetta del nostro indicatore di distribuzionedel carburante finirà con l’orientarsi verso l’accumulo di grasso. 5

Il fatto più fastidioso riguardo alla nostra dipendenza dallo zucchero èche quando combiniamo fruttosio e glucosio (cosa che facciamospesso quando mangiamo cibi preparati con lo zucchero da tavola), ilfruttosio potrebbe non incidere molto sulla nostra glicemianell’immediato, ma a questo provvederà il glucosio che l’accompagna,stimolando la secrezione di insulina e allertando le cellule adipose aprepararsi per ulteriori depositi. Più zuccheri consumiamo, piùdiciamo ai nostri corpi di ricavarne grasso. Questo non accade solo nelfegato, con la conseguenza di un disturbo denominato fegato grasso,ma anche in altre parti del corpo. Nascono così le maniglie dell’amore,i rotolini di ciccia, lo stomaco da bevitori di birra e il grasso del tipopeggiore in assoluto, quello invisibile: il tessuto adiposo viscerale cheabbraccia i nostri organi vitali.

Taubes traccia un parallelo molto efficace tra il rapporto di causa edeffetto che unisce carboidrati e obesità e il collegamento tra il fumo e ilcancro: se il mondo non avesse inventato le sigarette, il cancro aipolmoni sarebbe una malattia rara. In modo analogo, se le nostre diete

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non fossero così ricche di carboidrati l’obesità sarebbe una malattiarara. 6 Scommetto che sarebbero molto meno diffuse anche altrepatologie collegate, come diabete, cardiopatia, demenza e cancro. E sedovessi indicare cosa è fondamentale evitare per mantenersi in salute,direi: «il diabete». Non diventate diabetici.

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Il rintocco funebre nel diabeteNon potrò mai ribadire a sufficienza quanto sia importante nonimboccare la strada che porta al diabete. E se il diabete è una carta cheavete già in mano, è fondamentale mantenere un buon equilibrioglicemico. Negli Stati Uniti sono quasi 11 milioni gli adulti daisessantacinque anni in su colpiti da diabete di tipo 2, il che la dicelunga sull’entità della catastrofe che ci aspetta se tutte queste persone– più quelle che ancora non hanno ricevuto una diagnosi ufficiale –svilupperanno l’Alzheimer. I dati che supportano il nesso tra diabete emorbo di Alzheimer sono di notevole misura, ma è importante capireche il diabete rappresenta un potente fattore di rischio per il semplicedeclino cognitivo; ciò vale soprattutto nei casi in cui non viene tenutobene sotto controllo. Esempio emblematico: nel giugno del 2012,«Archives of Neurology» pubblicò un’analisi su 3069 anziani perstabilire se il diabete aumentasse il rischio di deterioramento cognitivoe se uno scarso controllo della glicemia fosse legato a unpeggioramento delle prestazioni cognitive. 7 A una prima valutazione,circa il 23% dei partecipanti aveva il diabete, al contrario del restante77% (i ricercatori scelsero di proposito un «gruppo eterogeneo dianziani attivi»). Tuttavia, una piccola percentuale di quel 77%sviluppò il diabete nel corso dei nove anni dello studio. All’iniziovenne eseguita una serie di test cognitivi, ripetuta poi nei nove annisuccessivi.

Nella conclusione si specificava: «Negli anziani attivi, il DM [diabetemellito] e uno scarso controllo del glucosio dei soggetti diabetici sonoassociati a una funzione cognitiva peggiore e a un maggior declino.Questo suggerisce che la gravità del DM può contribuire aun’accelerazione dell’invecchiamento cognitivo». I ricercatoridimostrarono una differenza abbastanza netta nella percentuale dideclino mentale fra diabetici e non diabetici. Inoltre, fatto ancora piùinteressante, notarono che già all’inizio dello studio i punteggicognitivi di riferimento dei diabetici erano inferiori a quelli degli altrisoggetti campione. Lo studio individuò altresì un rapporto diretto tra

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la percentuale di declino cognitivo e livelli più elevati di emoglobinaA1C, un marcatore del controllo della glicemia nel sangue. Gli autoriprecisarono: «L’iperglicemia (glicemia elevata) è stata proposta comemeccanismo che potrebbe contribuire all’associazione tra diabete eridotta funzione cognitiva». E aggiunsero poi che «l’iperglicemiapotrebbe contribuire al deterioramento cognitivo attraversomeccanismi come la formazione di prodotti finali di glicazioneavanzata, l’infiammazione e la patologia microvascolare».

Prima di arrivare a spiegare cosa sono i prodotti finali dellaglicazione avanzata e come si formano, passiamo a un altro studioeffettuato in precedenza, nel 2008. Pubblicato su «Archives ofNeurology», questa indagine della Mayo Clinic prendeva in esame glieffetti della durata del diabete. In altre parole, si domandava se iltempo trascorso dall’inizio della malattia incidesse sulla gravità deldeclino cognitivo.

La risposta è sì, e i numeri sono scioccanti: secondo le conclusionidella Mayo, se il diabete aveva inizio prima dei sessantacinque anni ilrischio di deterioramento cognitivo lieve era superiore di unastronomico 220%. E del 176% nei soggetti diabetici da dieci anni opiù. L’assunzione di insulina comportava un aumento del rischio del200%. Gli autori descrivevano un meccanismo proposto per spiegarela connessione tra il persistere di livelli glicemici elevati e il morbo diAlzheimer: «incremento della produzione di prodotti finali diglicazione avanzata». 8 Cosa sono di preciso questi prodotti finali chericorrono nella letteratura medica in relazione al declino cognitivo eall’invecchiamento accelerato? Li ho citati in breve nel capitoloprecedente e ne illustrerò l’importanza nella prossima parte.

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La mucca pazza e molti indizi sui disturbi neurologiciRicordo l’isteria che dilagò nel globo verso la metà degli anniNovanta, quando i timori per il morbo della mucca pazza si diffuseroin un lampo mentre in Gran Bretagna cominciava a emergere ladocumentazione delle prove di trasmissione della malattia dalbestiame agli esseri umani. Nell’estate del 1996 Peter Hall, unventenne vegetariano, morì a causa della forma umana della malattia,denominata variante del morbo di Creutzfeldt-Jakob: l’aveva contrattamangiando hamburger di manzo da bambino. Poco tempo dopofurono confermati altri casi, e diversi paesi, Stati Uniti compresi,cominciarono a vietare le importazioni di manzo dalla Gran Bretagna.Perfino McDonald’s sospese per un periodo la vendita di hamburgerin alcune zone, finché gli scienziati riuscirono a scoprire le originidell’epidemia e furono adottate misure per estirpare il problema. Ilmorbo della mucca pazza, chiamato anche encefalopatia spongiformebovina, è una rara malattia contagiosa dei bovini; il soprannome vienedallo strano comportamento delle bestie malate. Entrambe le forme,quella che colpisce gli animali e quella che colpisce l’uomo, sonomalattie da prioni, ossia causate da proteine anomale che infliggonodanni diffondendosi in modo aggressivo da cellula a cellula.

Anche se di solito il morbo della mucca pazza non viene classificatoinsieme alle classiche malattie neurodegenerative come il morbo diAlzheimer, di Parkinson e di Lou Gehrig, tutte queste patologie hannouna deformazione analoga nella struttura di proteine necessarie perun funzionamento sano e normale dell’organismo. È vero, Alzheimer,Parkinson e Gehrig non sono trasmissibili alle persone come il morbodella mucca pazza, ma nonostante questo presentano caratteristicheanaloghe, che gli scienziati hanno appena cominciato a comprendere.E alla fine tutto è legato a proteine deformate.

Così come ora sappiamo che dozzine di malattie degenerativehanno in comune uno stato infiammatorio, sappiamo anche chedozzine di quelle stesse malattie – fra le altre il diabete di tipo 2, lacataratta, l’aterosclerosi, l’enfisema e la demenza – hanno a che vedere

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con proteine deformate. Ciò che rende tanto particolari le malattie daprioni è la capacità di quelle proteine anomale di compromettere lasalute di altre cellule, trasformando quelle normali in portatrici didanni cerebrali e demenza. È un fenomeno simile al cancro, nel sensoche una cellula interferisce con la normale regolazione di un’altragenerando una nuova famiglia di cellule che non agiscono più comesane. Lavorando sui topi in laboratorio, gli scienziati stannofinalmente raccogliendo prove del fatto che importanti malattieneurodegenerative seguono schemi paralleli. 9

Le proteine sono tra le strutture più importanti: in pratica formanoe plasmano il corpo stesso, svolgendo funzioni e agendo comeinterruttori generali per il nostro manuale di funzionamento. Il nostromateriale genetico, o DNA, codifica per le proteine, che vengono poiprodotte come una serie di amminoacidi. Esse devono raggiungereuna forma tridimensionale per svolgere i loro compiti, per esempioregolare i processi del corpo e proteggerlo da infezioni. Le proteineassumono la loro conformazione attraverso una speciale tecnica diripiegamento; alla fine, ogni proteina raggiunge una forma peculiaredalla quale dipende la sua particolare funzione.

È ovvio che le proteine deformate non riescono, in parte o del tutto,ad assolvere la loro funzione; e purtroppo le proteine mutanti nonpossono essere riparate. Se non si ripiegano in modo correttoassumendo la giusta forma, nel migliore dei casi saranno inattive e nelpeggiore tossiche. Di solito le cellule dispongono di meccanismi perdistruggere le proteine deformate, ma l’invecchiamento e altri fattoripossono interferire con questo processo. Quando una proteina tossicaè capace di indurre altre cellule a produrre ulteriori proteinemalformate, il risultato può essere disastroso: per questo motivo moltiscienziati oggi puntano a bloccare questa diffusione da cellula acellula, in modo da fermare il corso di tali patologie.

Stanley Prusiner, il direttore dell’Institute for NeurodegenerativeDiseases (Istituto per le malattie neurodegenerative) della Universityof California di San Francisco, fu insignito del premio Nobel nel 1997per avere scoperto i prioni. Nel 2012, Prusiner lavorò insieme a unaéquipe di ricercatori che pubblicò su «Proceedings of the National

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Academy of Sciences» un saggio epocale secondo cui la proteina beta-amiloide associata con l’Alzheimer presenta caratteristiche simili aquelle dei prioni. 10 Nel loro esperimento, riuscirono a seguire laprogressione della malattia iniettando la proteina beta-amiloide in unaparte del cervello dei topi e osservandone gli effetti. Servendosi di unamolecola luminosa, poterono osservare il cervello dei topi che siilluminava a mano a mano che la proteina incriminata si accumulava,una catena di eventi deleteri analoga a ciò che accade nel cervellocolpito da Alzheimer.

Questa scoperta non offre indicazioni solo sui disturbi cerebrali.Anche scienziati che si occupano di altre parti del corpo hannostudiato l’impatto di queste proteine dalla struttura alterata. In realtà,è possibile che le proteine «impazzite» abbiano un ruolo in una seriedi patologie. Il diabete di tipo 2, per esempio, può essere visto inquest’ottica se consideriamo il fatto che i diabetici ospitano nelpancreas proteine anomale che possono influire in maniera negativasulla produzione di insulina (e questo induce a chiedersi: la glicemiaalta cronica provoca questa deformazione?). Nell’aterosclerosi,l’accumulo di colesterolo che caratterizza la malattia potrebbe essereprovocato dal ripiegamento non corretto delle proteine. Nellacataratta, proteine «canaglia» si accumulano nel cristallino. La fibrosicistica, una malattia ereditaria provocata da un difetto del DNA, ècaratterizzata da errato ripiegamento della proteina CFTR. E perfino untipo di enfisema deve la sua devastazione a proteine anomale che siaccumulano nel fegato e non raggiungono mai i polmoni.

Ora che abbiamo stabilito che le proteine ribelli hanno un ruolonelle malattie, e soprattutto nella degenerazione neurologica, laprossima domanda è: qual è la causa del ripiegamento errato delleproteine? Nel caso della fibrosi cistica la risposta è ben definita, perchéabbiamo identificato un difetto genetico specifico. Ma che dire di altridisturbi che hanno origini misteriose o che non si manifestano fino aun’età più avanzata? Torniamo ai prodotti finiti della glicazione.

Glicazione è il termine biochimico che indica il legame dellemolecole di zucchero a proteine, grassi e amminoacidi; la reazionespontanea che provoca il legame della molecola di zucchero viene

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talvolta chiamata reazione di Maillard. Louis Camille Maillarddescrisse per la prima volta questo processo nei primi anni delNovecento. 11 Anche se presagì che questa reazione avrebbe potutoavere un impatto importante sulla medicina, i ricercatori non se neservirono fino al 1980, quando tentarono di capire le complicazioni deldiabete e l’invecchiamento.

Questo processo forma prodotti finali di glicazione avanzata (disolito opportunamente abbreviati in AGE, dall’inglese AdvancedGlycation End-products), che rendono deformi e rigide le fibre delleproteine. Per vedere gli AGE in azione basta osservare una persona chestia invecchiando in modo precoce, qualcuno con molte rughe,tendenza a incurvarsi, alterazioni della pigmentazione della pelle eperdita di radiosità in rapporto all’età. Ciò che osservate è l’effettofisico del legame tra proteine e zuccheri traditori, il che spiega perchégli AGE sono ormai considerati fattori chiave nell’invecchiamento dellapelle. 12 Oppure basta dare un’occhiata a un fumatore incallito:l’ingiallimento della pelle è un altro segno caratteristico dellaglicazione. Nella pelle dei fumatori sono presenti meno antiossidanti eil fumo stesso contribuisce ad aumentare il processo di ossidazione.Queste persone non possono combattere i sottoprodotti di processinormali come la glicazione perché il potenziale antiossidante del loroorganismo è molto indebolito e in pratica sopraffatto dall’entità deidanni. Per la maggior parte di noi, i segni esterni della glicazione simanifestano tra i trenta e i quarant’anni, quando abbiamo accumulatosufficienti alterazioni ormonali e stress ossidativi ambientali, inclusi idanni provocati dal sole.

La glicazione è una realtà inevitabile, proprio come, in una certamisura, l’infiammazione e la produzione di radicali liberi. È unaconseguenza del nostro normale metabolismo ed è fondamentale nelprocesso dell’invecchiamento. Possiamo perfino misurarla sfruttandola tecnologia che illumina i legami che si formano tra zuccheri eproteine: i dermatologi infatti sono esperti in questo processo e conl’analisi della carnagione effettuata mediante gli apparecchi Visiariescono a catturare la differenza tra gioventù e vecchiaia scattandoun’immagine fluorescente di bambini e confrontandola con i volti di

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adulti. I volti dei bambini appariranno molto scuri, indicando unamancanza di AGE, mentre quelli degli adulti risplenderannoall’illuminarsi di tutti quei legami di glicazione.

L’obiettivo è senza dubbio limitare o rallentare il processo dellaglicazione. Molti programmi anti-invecchiamento sono ormaiimperniati sul modo di ridurre la glicazione e perfino scindere questilegami tossici. Ma ciò non può succedere se consumiamo una dieta adalto contenuto di carboidrati, che anzi accelera l’intero processo. Glizuccheri, in particolare, stimolano la glicazione in quanto si leganocon facilità alle proteine nel corpo umano (e a questo proposito sitenga presente che negli Stati Uniti la fonte numero uno delle calorienegli alimenti è lo sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio, chedecuplica la velocità di glicazione).

La glicazione ha almeno due effetti importanti sulle proteine, cheinnanzitutto funzioneranno meno bene e poi, una volta legate allozucchero, tenderanno a aderire ad altre proteine danneggiate in modoanalogo, formando collegamenti incrociati che inibisconoulteriormente la loro funzionalità. Il dato forse più importante,tuttavia, è che una volta glicata la proteina dà luogo a un drasticoincremento nella produzione di radicali liberi. Questo porta alladistruzione di tessuti, danneggiando lipidi, altre proteine e perfino ilDNA. La glicazione delle proteine è insomma un fattore naturale delnostro metabolismo, ma quando è eccessiva si presentano moltiproblemi. Livelli elevati di glicazione sono stati associati non solo conil declino cognitivo, ma anche con malattie ai reni, diabete, malattievascolari e, come accennato, con l’invecchiamento. 13 Tenete a menteche qualsiasi proteina nel corpo può essere danneggiata da glicazionee diventare un AGE. Data la rilevanza di questo processo, mediciricercatori di tutto il mondo sono impegnati nel tentativo disviluppare vari modi per ridurre la formazione degli AGE con l’aiutodei farmaci. Senza dubbio, però, il modo migliore è ridurre inpartenza la disponibilità di zucchero.

Oltre a causare infiammazione e danni dovuti ai radicali liberi, gliAGE sono associati a deterioramento dei vasi sanguigni e si ritiene chespieghino la connessione tra diabete e problemi vascolari. Come ho

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indicato nel capitolo precedente, nei diabetici il rischio di cardiopatiacoronarica aumenta in maniera sensibile, così come il rischio di ictus.Molti individui che soffrono di diabete presentano danni importanti aivasi sanguigni che alimentano il cervello e, anche se possono nonessere malati di Alzheimer, possono soffrire di una demenzaprovocata da questo problema di circolazione del sangue.

Ho spiegato in precedenza che l’LDL – il cosiddetto colesterolocattivo – è un’importante proteina vettrice che procura colesterolovitale alle cellule cerebrali. Solo quando è ossidata danneggia i vasisanguigni. E ora comprendiamo che quando l’LDL è glicata (dopo tuttoè una proteina), la sua ossidazione aumenta in modo drastico.

Il legame tra stress ossidativo e zucchero non sarà mai ribadito asufficienza. Quando le proteine sono glicate, la quantità di radicaliliberi formati aumenta di cinquanta volte; la cellula smette difunzionare bene e alla fine muore.

Ciò richiama la nostra attenzione sul forte nesso tra produzione diradicali liberi, stress ossidativo e declino cognitivo. Sappiamo cheesiste un collegamento diretto tra stress ossidativo e degenerazionedel cervello. 14 Gli studi mostrano che i danni da radicali liberi a lipidi,proteine, DNA e RNA si verificano agli inizi del cammino verso ildeterioramento cognitivo e molto prima dei segni di gravi disturbineurologici come il morbo di Alzheimer, di Parkinson e di Gehrig. Ètriste, ma quando viene effettuata una diagnosi il danno è già fatto. Inconclusione, per ridurre lo stress ossidativo e l’azione dei radicaliliberi che danneggiano il cervello occorre ridurre la glicazione delleproteine. Vale a dire, diminuire la disponibilità di zucchero. Moltosemplice.

Gran parte dei dottori sono soliti avvalersi della misurazione di unaproteina glicata che ho già menzionato: l’emoglobina A1C. Si trattadello stesso esame standard di laboratorio utilizzato per valutare laglicemia nel sangue nei soggetti diabetici. Così, anche se il dottore puòprescrivere questo test per verificare il controllo della glicemia, il fattoche si tratti di una proteina glicata ha vaste e notevoli implicazioni perla salute del cervello. L’emoglobina A1C rappresenta più di una

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semplice misura di controllo della glicemia media su un periodo di 90-120 giorni.

L’emoglobina A1C è la proteina che si trova nei globuli rossi chetrasportano l’ossigeno e si legano al glucosio ematico; con l’aumentodella glicemia questo legame si rafforza. Anche se non fornisceun’indicazione attimo per attimo della glicemia, l’emoglobina A1C èdi grande utilità perché mostra quella che è stata la glicemia «media»nei 90 giorni precedenti. Per questo essa viene spesso utilizzata instudi che tentano di correlare il controllo della glicemia a vari processidi malattie come Alzheimer, deterioramento cognitivo lieve ecardiopatia coronarica.

L’emoglobina glicata è un notevole fattore di rischio per il diabete,e questo è ben documentato, ma è stata anche messa in relazione alrischio di ictus, cardiopatia coronarica e morte per altre patologie.Queste correlazioni sono risultate evidenti quando il valoredell’emoglobina A1C è superiore al 6,0%.

È stato riscontrato che livelli elevati di emoglobina A1C sonoassociati a variazioni nelle dimensioni del cervello. In uno studioapprofondito pubblicato sulla rivista «Neurology», alcuni ricercatoriesaminarono le immagini della risonanza magnetica per stabilirequale esame di laboratorio fosse più correlato con l’atrofia cerebrale escoprirono che la corrispondenza più precisa si aveva conl’emoglobina A1C. 15 Confrontando il grado della perdita di tessutocerebrale negli individui che registravano valori di emoglobina A1Cinferiori (da 4,4 a 5,2) con quello di coloro che registravano valori piùelevati (da 5,9 a 9,0), la perdita di tessuto cerebrale di questi ultimi eraquasi raddoppiata nell’arco di sei anni. L’emoglobina A1C è dunqueben più di un mero marcatore dell’equilibrio glicemico. Ed è in tutto eper tutto sotto il vostro controllo!

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Adattamento da C. Enzinger et al., Risk Factors for Progression of Brain Atrophyin Aging. Six-year Follow-up of Normal Subjects, in «Neurology», LXIV, 24

maggio 2005, pp. 1704-11.

Il valore ideale dell’emoglobina A1C sarebbe compreso in unintervallo tra 5,0 a 5,5. Ricordatevi che la riduzione dei carboidratiingeriti, la perdita di peso e l’esercizio fisico migliorano la sensibilitàall’insulina portando a un calo dell’emoglobina A1C.

Inoltre, dovete sapere che è ormai stato provato e documentato unrapporto diretto tra emoglobina A1C e rischio di depressione. Unostudio ha preso in esame più di quattromila uomini e donne dell’etàmedia di sessantatré anni evidenziando una correlazione diretta traemoglobina A1C e «sintomi depressivi». 16 In questi adulti un cattivometabolismo del glucosio è stato definito un fattore di rischio per lo

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sviluppo della depressione. In definitiva, la glicazione delle proteine èuna brutta notizia per il cervello.

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Intervenire per tempoCome ho già illustrato, i livelli glicemici nella norma possono ancheindicare che il pancreas sta facendo gli straordinari per manteneresotto controllo la glicemia. In tal caso livelli elevati di insulina sipresenteranno molto prima di un aumento della glicemia edell’insorgenza del diabete. Per questo è così importante controllarenon solo la glicemia a digiuno, ma pure il livello dell’insulina adigiuno. Se quest’ultimo è elevato, significa che il pancreas si stasforzando di normalizzare la glicemia. Ed è un chiaro segnale chestate consumando troppi carboidrati. Non illudetevi: anche essereinsulinoresistente rappresenta un notevole fattore di rischio per ladegenerazione cerebrale e il deterioramento cognitivo. Non bastaesaminare i dati rilevanti per diabete e malattie del cervello e sentirsisicuri di avere ridotto il rischio perché non siete diabetici. E se laglicemia risulta normale, l’unico modo per sapere se sieteinsulinoresistenti è controllare il livello di insulina a digiuno. Punto ebasta.

Servono ulteriori prove? Qualche anno fa fu eseguito uno studio su523 persone di età compresa tra i settanta e i novant’anni che nonavevano il diabete e neppure la glicemia alta. 17 Molti di essi, tuttavia,erano insulinoresistenti, come stabilito in base ai loro livelli di insulinaa digiuno. Lo studio rivelò che i soggetti insulinoresistentipresentavano un notevole aumento del rischio di deterioramentocognitivo rispetto a quelli che registravano valori nella norma. Nelcomplesso, più il livello di insulina era basso e meglio era. Negli StatiUniti il livello medio di insulina negli adulti è pari a circa 8,8microunità internazionali per millilitro (µIU/mL) per gli uomini e a 8,4per le donne. Ma dato il grado di obesità e abuso di carboidrati delpaese, possiamo dire con sicurezza che questi valori «medi» sono conogni probabilità assai più elevati di quanto si dovrebbe considerareideale. I pazienti molto attenti al loro consumo di carboidratipotrebbero avere livelli di insulina che risultano inferiori a 2,0. Questaè una situazione ideale, un segno che il pancreas non è sovraffaticato,

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che il controllo sulla glicemia è eccellente, il rischio di diabete è assaibasso e non vi è alcuna evidenza di insulinoresistenza. L’importante èche un livello elevato di insulina a digiuno – ossia qualsiasi valoresuperiore a 5,0 – può essere ridotto. Nel capitolo X vi mostrerò comefarlo.

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Più siete grassi, più piccolo sarà il vostro cervelloQuasi tutti sono consapevoli che scarrozzare chili in eccesso non èsalutare. Ma se aveste mai bisogno di una ragione in più per liberarvidel peso superfluo, forse contribuirà a motivarvi la paura di perdere latesta, in senso fisico e letterale.

Quando studiavo per diventare dottore, si pensava che le celluleadipose fossero innanzitutto contenitori in cui masse indesiderate dicalorie in eccesso potevano restare silenziose in panchina. Era unaprospettiva grossolana e distorta. Oggi sappiamo che le celluleadipose non si limitano a stoccare calorie; il loro coinvolgimento nellafisiologia umana va ben al di là di questo. Le masse di grasso corporeoformano organi ormonali complessi e sofisticati tutt’altro che passivi.Avete letto bene: il grasso è un organo. 18 E forse è uno dei piùindustriosi del corpo, poiché ha numerose funzioni oltre a mantenercial caldo e protetti. Ciò vale in particolare per il grasso viscerale,ovvero quello che avvolge i nostri organi interni, «viscerali», comefegato, reni, pancreas, cuore e intestino. Di recente, il grasso visceraleè stato oggetto di grande attenzione mediatica: ora sappiamo chequesto tipo è il più devastante per la nostra salute. Forse cilamentiamo di avere cosce grandi, dell’«effetto tendina» delle braccia,delle maniglie dell’amore, della cellulite e del sedere grosso, ma ilpeggior tipo di grasso è quello che molti di noi non possono neppurevedere, sentire o toccare. In casi estremi lo vediamo nelle pancesporgenti e nei rotolini di ciccia sui fianchi, segnali esterni di organiinterni avvolti nell’adipe (proprio per questa ragione, la circonferenzaaddominale è spesso un parametro di «salute» usato per prevederefuture patologie e mortalità; a una circonferenza addominale piùelevata corrisponde un maggior rischio di malattia e di morte). 19

È ben documentato che il grasso viscerale ha una capacità unica diattivare reazioni infiammatorie e molecole segnale che interromponoil normale corso delle azioni ormonali. 20 Questo permette alla serie dieffetti negativi che produce di protrarsi. Inoltre, il grasso viscerale non

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si limita a generare infiammazione tramite una sequenza di eventibiologici: diventa esso stesso infiammato. Esso ospita gruppi diglobuli bianchi infiammatori, e le molecole ormonali e infiammatorieprodotte dal grasso viscerale vengono scaricate direttamente nelfegato, che, come potete immaginare, risponde con altre munizioni,per esempio reazioni infiammatorie e sostanze che interferiscono conil sistema ormonale. Per farla breve: più che un mero predatore inagguato dietro un albero, si tratta di un nemico armato e pericoloso. Ilgrasso viscerale viene ormai collegato a un gran numero di disturbi,da quelli ovvi, come obesità e sindrome metabolica, ai meno scontati:cancro, malattie autoimmuni e patologie del cervello.

Alla luce delle informazioni che avete già acquisito da questo libronon è difficile seguire la logica che collega eccesso di grasso corporeo,obesità e disfunzione cerebrale. L’eccesso di grasso corporeo provocanon solo un aumento dell’insulinoresistenza, ma anche dellaproduzione di sostanze chimiche infiammatorie che intervengono inmodo diretto nella degenerazione del cervello.

In uno studio del 2005 fu messo a confronto il rapporto vita-fianchidi oltre 100 individui con le alterazioni strutturali del loro cervello. 21

Lo studio esaminava anche le alterazioni cerebrali in relazione ailivelli di glicemia e di insulina a digiuno. Gli autori volevano stabilirese esistesse un rapporto tra la struttura del cervello e le dimensionidell’addome, e i risultati furono impressionanti. In sostanza, maggioreè il rapporto tra vita e fianchi (vale a dire: più grande è la pancia), piùpiccolo sarà il centro della memoria nel cervello, l’ippocampo, chesvolge un ruolo cruciale nella memoria. Il suo funzionamento dipendedalle sue dimensioni, dunque con la riduzione dell’ippocampo lamemoria si deteriora. Ancora più impressionante è la scopertasecondo cui un rapporto più elevato vita-fianchi corrisponde a unmaggior rischio di ictus cerebrale di lieve entità, noto anche per essereassociato al deterioramento della funzione cerebrale. Gli autoriconstatarono: «Questi risultati sono coerenti con un crescente corpusdi evidenze che collega obesità, malattie vascolari e infiammazione adeterioramento cognitivo e demenza». Da allora, altri studi hannoconfermato questa conclusione: per ogni chilo in eccesso, il cervello

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diventa un po’ più piccolo. Ironicamente, più il corpo cresce, più ilcervello rimpicciolisce.

In un progetto di ricerca congiunto tra l’UCLA e l’Università diPittsburgh, alcuni neuroscienziati hanno esaminato le immagini delcervello di novantaquattro persone tra i settanta e gli ottant’anni cheavevano partecipato a uno studio precedente su salutecardiovascolare e processi cognitivi. 22 Nessuno dei partecipantisoffriva di demenza o di altri disturbi cognitivi e furono seguiti percinque anni. I ricercatori scoprirono che il cervello delle persone obese(ossia con un indice di massa corporea superiore a 30) appariva piùvecchio di sedici anni rispetto a quello dei soggetti sani e normopeso.E quello di coloro che erano in sovrappeso (ossia con un indice dimassa corporea compreso tra 25 e 30) sembrava più vecchio di ottoanni rispetto a quello dei partecipanti più magri. Per essere piùspecifici, gli obesi in senso clinico avevano l’8% di tessuto cerebrale inmeno rispetto a individui normopeso, e i soggetti in sovrappeso il 4%.La perdita di tessuto era concentrata soprattutto nelle regioni del lobofrontale e temporale del cervello, l’area deputata, tra le altre cose, aprendere decisioni e archiviare ricordi. Gli autori dello studio miserogiustamente in evidenza che le loro conclusioni potevano comportaregravi implicazioni per soggetti in fase di invecchiamento, sovrappesoo obesi, ivi compreso un aumento del rischio del morbo di Alzheimer.

Si tratta senza alcun dubbio di circoli viziosi che si alimentano avicenda. La genetica potrebbe influire sulla tendenza a esagerare atavola e guadagnare peso, con ripercussioni su livelli di attività,insulinoresistenza e rischio di diabete. Il diabete influisce poi sulcontrollo del peso e sull’equilibrio glicemico. Quando una personadiventa diabetica e sedentaria è inevitabile che si verifichino problemiin tessuti e organi, non solo al cervello. Inoltre, una volta che ilcervello comincia a degenerare e diminuisce il volume della sua massacritica, esso comincia anche a perdere la capacità di funzionare comesi deve. Questo significa che l’appetito del cervello e i centri dicontrollo del peso potrebbero cominciare a perdere colpi, alimentandoa loro volta il circolo vizioso.

È importante capire che la perdita di peso deve avvenire il prima

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possibile, poiché le alterazioni sopra descritte si verificano non appenaun soggetto comincia ad avere del grasso corporeo in eccesso. Entrocerti limiti, misurando il grasso corporeo di una persona possiamoprevedere se fra trent’anni il suo cervello sarà sofferente. Un rapportodel 2008 documenta la ricerca di alcuni scienziati della California chepassarono al setaccio le cartelle di più di seimilacinquecento personesottoposte ad analisi dalla metà degli anni Sessanta agli anniSettanta. 23 La loro intenzione era identificare chi si fosse ammalato didemenza. Al momento del primo esame, in media trentasei anniprima, per stabilire la quantità di grasso corporeo erano state rilevatediverse misure, come dimensione dell’addome, circonferenza dellacoscia, altezza e peso. A distanza di circa tre decenni, coloro cheavevano più grasso corporeo presentavano un drastico incremento delrischio di demenza. A 1049 membri del gruppo originale fu riscontratauna diagnosi di demenza. Quando gli scienziati confrontarono isoggetti con livello di grasso corporeo basso con quelli dal livello piùelevato, constatarono che il rischio di demenza per i secondi era quasiraddoppiato. Gli autori affermarono: «Come avviene per il diabete e lemalattie cardiovascolari, l’obesità centrale [grasso addominale] è unfattore di rischio anche per la demenza».

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L’efficacia del calo ponderale (al di là di ciò che già sapete)Come è stato dimostrato da un susseguirsi di studi, perdere pesoseguendo una dieta può avere un effetto significativo sullasegnalazione insulinica e sulla sensibilità all’insulina. In uno studio,107 individui obesi di almeno sessantacinque anni di età furonoseguiti dai medici per un periodo di un anno osservando comereagivano in termini di insulina a una dose orale di glucosio. 24 Iricercatori volevano misurare la differenza tra tre gruppi distinti: ilprimo era sottoposto a una dieta per perdere peso, al secondo eraassegnato un programma di esercizio fisico e il terzo era trattato siacon la dieta sia con l’esercizio fisico. Un quarto gruppo di persone fueletto a gruppo di controllo ai fini di un ulteriore confronto. I risultatisei mesi dopo? Le persone nel gruppo che doveva perdere pesoregistrarono un incremento del 40% nella sensibilità all’insulina.Questo avvenne anche nel gruppo che seguiva un programma perperdere peso abbinato all’attività fisica. Le persone che non avevanoiniziato una dieta ma facevano esercizio fisico, invece, nonevidenziavano cambiamenti nella sensibilità all’insulina. Quandoinfine, dopo un anno, lo studio si concluse, la sensibilità all’insulinaera migliorata di un incredibile 70% nei soggetti che erano dimagriti;chi aveva fatto esercizio fisico durante la dieta ed era sceso di pesoregistrò un miglioramento dell’86%, mentre il terzo gruppo, quelloimpegnato nell’attività fisica senza curare la dieta e perdere peso,rimase molto indietro. Anche dopo un anno la sensibilità all’insulinarisultava invariata.

È chiaro: per migliorare la sensibilità all’insulina e ridurre il rischiodi diabete (per non parlare di ogni sorta di disturbo cerebrale) bastaapportare qualche modifica allo stile di vita in modo da far sparirequel grasso. E aggiungendo l’attività fisica alla dieta ne ricaveretebenefici ancor maggiori. Ormai dovreste saperlo, la dieta che hointenzione di prescrivervi è povera di carboidrati e ricca di grassi sani,incluso il colesterolo. Non accontentatevi però della mia parola:prendete gli ultimi studi che ne dimostrano l’efficacia. Lo scorso anno

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il «Journal of the American Medical Association» pubblicò i risultati ditre diete in voga su un gruppo di giovani adulti in sovrappeso oobesi. 25 Ciascuno dei partecipanti provò ognuna delle diete per unmese: una era a basso contenuto di grassi (il 60% delle calorieproveniva da carboidrati, il 20% da grassi e il 20% da proteine), unaera a basso indice glicemico (il 40% delle calorie proveniva dacarboidrati, il 40% da grassi e il 20% da proteine) e la terza era unadieta a bassissimo contenuto di carboidrati (il 10% delle calorieproveniva da carboidrati, il 60% da grassi, e il 30% da proteine). Tuttee tre fornivano lo stesso numero di calorie, ma i soggetti cheseguivano quella a basso contenuto di carboidrati e ad alto contenutodi grassi bruciarono più calorie degli altri. Lo studio prese in esameanche la sensibilità all’insulina durante le quattro settimane diciascuna dieta, rilevando che quella a basso contenuto di carboidratidava luogo al miglioramento più significativo: quasi il doppio rispettoalla dieta a basso contenuto di grassi. I trigliceridi, un efficacemarcatore del rischio cardiovascolare, ammontavano in media a 66 nelgruppo della dieta a basso contenuto di carboidrati e a 107 nel gruppodi quella a basso contenuto di grassi (per inciso, livelli elevati ditrigliceridi sono a loro volta un segno distintivo dell’eccesso dicarboidrati nella dieta). Gli autori misero in evidenza che i risultatidegli esami di laboratorio rilevati nella dieta a basso contenuto digrassi mostravano alterazioni ematochimiche che lasciavano i soggettiesposti al rischio di un aumento di peso. È chiaro che la dieta miglioreper mantenere il calo ponderale è quella povera di carboidrati e riccadi grassi.

Molti altri studi sono arrivati alla medesima conclusione: una dietapovera di carboidrati e ricca di grassi darà sempre risultati miglioririspetto a una dieta povera di grassi e ricca di carboidrati, e questo inrelazione a qualunque parametro fisico, dalla chimica interna algirovita. Considerando poi tutti i parametri che interessano la salute, ein particolare la salute cerebrale – come per esempio il calo ponderale,la sensibilità all’insulina, il controllo della glicemia e anche la proteinaC reattiva – una dieta a basso tenore di carboidrati è di gran lunga piùefficace di qualunque altra. Le altre diete produrranno esiti che

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aumentano il rischio di numerose disfunzioni cerebrali, da seccaturequotidiane come il mal di testa a emicranie croniche, disturbi da ansia,disturbo da deficit di attenzione e iperattività e depressione. E se ilpensiero di essere lucidi e pronti fino all’ultimo respiro sulla Terranon è sufficiente a motivarvi, allora pensate a tutti i vantaggi che ilvostro cuore (e in pratica ogni organo del vostro corpo) trarràdall’abbandono di una dieta a basso contenuto di grassi. Nel marzodel 2013, il «New England Journal of Medicine» pubblicò un grandestudio epocale che documentava come le persone nella fascia di età trai cinquantacinque e gli ottant’anni che seguivano una dietamediterranea presentassero un rischio inferiore – di ben il 30% – dicardiopatie e ictus rispetto a quelle che seguivano un tipico regimedietetico a basso contenuto di grassi. 26 I risultati furono cosìsignificativi che gli scienziati interruppero l’indagine prima delprevisto perché la dieta a basso contenuto di grassi si dimostrò troppodannosa per le persone che consumavano molti prodotti da fornoindustriali al posto di fonti di grassi sani. La dieta mediterranea è notaper essere ricca di olio d’oliva, frutta a guscio, fagioli, pesce, frutta everdura, nonché per l’uso del vino a tavola. Benché lasci spazio ancheai cereali, è molto simile al protocollo dietetico da me proposto. Ineffetti, se modificate la tradizionale dieta mediterranea eliminandotutti i cibi contenenti glutine e riducendo l’apporto di fruttazuccherina e carboidrati, avrete la dieta perfetta per il cervello.

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Una mela al giorno?Forse no, una mela al giorno non toglierà il medico di torno. Ora cheho criticato tanti dei vostri cibi preferiti, riesco a percepire l’incertezza:«Come può il corpo vivere di grassi senza mai ingrassare?» Ottimadomanda. Tra poco affronterò proprio questo enigma e chiarirò comesia possibile vivere di grassi (e vivere bene). Sembra assurdo pensaredi sopravvivere senza carboidrati ma garantendoci abbondantiquantità di grasso e colesterolo. Eppure è possibile e dovremmo farlo,se vogliamo proteggere il nostro genoma. A dispetto di ciò che leindustrie alimentari vorrebbero farvi credere, negli ultimi 2,6 milionidi anni abbiamo avuto una dieta a base di grassi che ha plasmato ilnostro genoma. Perché cambiarla? Come avrete già capito, quandol’abbiamo fatto siamo ingrassati.

Partiamo da una panoramica sulle caratteristiche fondamentali delcervello per capire come invertire questa tendenza e recuperare quelcorpo snello, vigoroso e agile che siamo progettati per avere, insieme aun cervello lucido.

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Capitolo V

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Il dono della neurogenesi e il controllo degli interruttorigenerali

Come cambiare il vostro destino genetico

Il cervello è un sistema assai più aperto di quanto abbiamo maiimmaginato, e la natura ci ha dato davvero molto per aiutarci apercepire e osservare il mondo intorno a noi. Ci ha consegnato uncervello che, per sopravvivere in un mondo in continuatrasformazione, si trasforma a sua volta.

NORMAN DOIDGE, Il cervello infinito

Siamo progettati per essere persone intelligenti per tutta la vita. Ilcervello dovrebbe funzionare bene fino al nostro ultimo respiro. Lamaggioranza di noi, tuttavia, presume erroneamente che con l’etàarrivi il declino cognitivo; pensiamo che sia una parte inevitabiledell’invecchiamento, proprio come la perdita di udito o le rughe.Questa convinzione è un grave errore, perché la verità è che viviamouna vita non adeguata al nostro genoma. Punto. Le malattie chevediamo al giorno d’oggi sono dovute per lo più al fatto che lo stile divita attuale non è in armonia con la nostra predisposizione genetica.Ma noi possiamo cambiare questa situazione e far tornare il nostroDNA al programma originale. Meglio ancora, possiamoriprogrammare parte del nostro DNA affinché funzioni in maniera piùefficace. E non si tratta di fantascienza.

Quante volte sentiamo la gente dire cose come: «Prima o poi miverrà la malattia x perché è ereditaria». Il nostro retaggio geneticocontribuisce senza dubbio a determinare il rischio di contrarre varidisturbi, ma ricerche mediche all’avanguardia mostrano ormai cheabbiamo il potere di cambiare il nostro destino genetico.

Al momento, uno dei campi di ricerca più entusiasmanti èl’epigenetica, lo studio di particolari sezioni del DNA (denominate

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«marcatori») che indicano ai geni quando e con quale forzaesprimersi. Come i direttori di un’orchestra, questi marcatoriepigenetici sono il telecomando non solo della vostra salute elongevità, ma anche di come trasmetterete i vostri geni alle futuregenerazioni. Le scelte dello stile di vita quotidiano hanno profonderipercussioni sull’attività dei nostri geni. E questo è incoraggiante. Orasappiamo che le nostre propensioni alimentari, lo stress che viviamo oevitiamo, l’attività fisica che svolgiamo o schiviamo, la qualità delnostro sonno e perfino i rapporti umani che scegliamo hanno un pesosignificativo nel determinare quali dei nostri geni siano attivi e qualirestino inattivi. La cosa più affascinante però è che possiamomodificare l’espressione di più del 70% dei geni che hanno direttaattinenza con la nostra salute e longevità.

Nel corso del capitolo spiegherò come possiamo intensificarel’espressione dei nostri «geni sani» disattivando i geni che dannoluogo a eventi dannosi, come l’infiammazione e la produzione diradicali liberi. Questi ultimi sono molto influenzati dalla scelta dialimentarsi con grassi e carboidrati e queste informazioni offrirannoulteriore supporto ai consigli offerti nei prossimi capitoli.

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La storia della neurogenesiÈ vero che ogni cocktail che bevete uccide migliaia di cellule cerebrali?A quanto risulta, il numero di neuroni a nostra disposizione non èsolo quello con cui siamo nati, o quello sviluppato nella primainfanzia. Possiamo svilupparne di nuovi durante tutta la vita. Epossiamo rafforzare i circuiti cerebrali esistenti e instaurareconnessioni del tutto nuove e complesse con nuove cellule cerebrali.Ho avuto il privilegio di partecipare a questa scoperta che hacapovolto opinioni predominanti da generazioni nella neuroscienza,anche se molte persone sono ancora di diverso avviso. Quando eroall’università, ho avuto l’opportunità di studiare il cervello con unatecnica che compiva i suoi primi passi. Era l’inizio degli anni Settantae gli svizzeri avevano cominciato a fabbricare microscopi chepermettevano ai neurochirurghi di eseguire delicate procedure sulcervello. Con l’evoluzione di questa tecnica, che i colleghi negli StatiUniti erano ansiosi di adottare, emerse ben presto un problema.

Imparare a usare il microscopio operatorio non era molto arduo,ma i neurochirurghi constatarono di avere qualche difficoltà nelcomprendere l’anatomia del cervello da questa nuova prospettivamicroscopica. Avevo diciannove anni e stavo iniziando il mio terzoanno di università quando ricevetti una telefonata dal dott. AlbertRhoton, presidente del Reparto di neurochirurgia presso lo ShandsTeaching Hospital di Gainesville, in Florida. Rhoton stava aprendo lastrada alla diffusione dell’uso del microscopio operatorio negli StatiUniti e voleva scrivere il primo testo di anatomia del cervelloosservato al microscopio. Mi invitò a passare l’estate successiva astudiare e mappare il cervello; da questa ricerca derivò poi lapubblicazione di una serie di articoli e contributi che fornirono aineurochirurghi la «mappa» necessaria per operare con più cautela.

Oltre all’anatomia, ebbi anche l’opportunità di esplorare esviluppare altri aspetti della microneurochirurgia con strumenti eprocedure innovativi. Trascorrendo tanto tempo al microscopio, erodiventato piuttosto abile nel manipolare e riparare vasi sanguigni

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molto piccoli che sarebbero stati distrutti durante gli interventi alcervello prima dell’uso del microscopio con conseguenze spessospaventose. Il nostro laboratorio era diventato famoso a livellointernazionale per i successi in questo campo nuovo ed elettrizzante espesso veniva visitato da professori provenienti da ogni parte delmondo. Subito dopo la visita di una delegazione di neurochirurghispagnoli, mi ritrovai ad accettare un invito a continuare le miericerche presso il prestigioso Centro Ramón y Cajal di Madrid. Il loroprogramma di microneurochirurgia era agli esordi, ma l’équipe eramolto motivata e mi sentii onorato di collaborare agli sforzi del lorolavoro preliminare, soprattutto per quanto concerneva lacomprensione della circolazione sanguigna cerebrale. L’ospedale eraintitolato a Santiago Ramón y Cajal, patologo e neuroscienziatospagnolo la cui opera risaliva agli albori del XX secolo, ancor oggiconsiderato il padre della neurologia moderna; alle pareti erano affissinumerosi suoi ritratti e senza dubbio i miei colleghi spagnoliprovavano un profondo senso di orgoglio per la presenza nelle lorofila di uno scienziato così influente. Nel 1906 aveva vinto il premioNobel per la medicina grazie alle sue indagini pionieristiche sullastruttura microscopica del cervello, e ancora oggi centinaia dei suoidisegni a mano sono utilizzati per finalità didattiche.

Durante la visita a Madrid mi sentii in dovere di approfondire lemie conoscenze su Cajal e arrivai a nutrire una grande rispetto per lesue ricerche sull’anatomia e la funzione del cervello umano. Uno deiprincipali insegnamenti del neuroscienziato affermava che i neuronierano unici rispetto ad altre cellule del corpo, non solo a causa dellaloro funzione, ma anche perché non avevano la capacità di rigenerarsi.Il fegato, per esempio, si rigenera di continuo sviluppando nuovecellule epatiche, e un’analoga rigenerazione cellulare si verifica inpratica in tutti gli altri tessuti, come pelle, sangue, ossa e intestini.

Ammetto che ero proprio convinto di questa teoria, eppure giàall’epoca mi domandai perché il cervello non dovesse avere questacapacità ed essere in grado di sviluppare nuovi neuroni cerebrali.Dopo tutto, i ricercatori del Massachusetts Institute of Technologyavevano già dimostrato che la neurogenesi, la crescita di nuovi

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neuroni cerebrali, nei ratti avveniva durante tutta la vita. E molto diciò che riguarda il corpo umano è rigenerazione; per sopravvivereesso si affida a un continuo auto-rinnovamento. Determinate celluleematiche, per esempio, vivono solo poche ore, le cellule recettorialigustative vengono sostituite ogni dieci giorni, le cellule epiteliali ognimese e alle cellule muscolari occorrono circa quindici anni per uncompleto rinnovamento. Nell’ultimo decennio, gli scienziati hannostabilito che il muscolo cardiaco – un organo a lungo ritenuto«immutabile» dalla nascita – in realtà sperimenta a sua volta ilricambio cellulare. 1 A venticinque anni viene sostituito circa l’1%delle cellule del cuore ogni anno; ma all’età di settantacinque anni siscende a meno di mezzo punto percentuale. Riesce difficile credereche solo di recente siamo giunti a identificare e comprendere questofenomeno nella pompa ematica del nostro corpo. E infine adessoabbiamo decodificato il cervello e scoperto le sue qualità di auto-rinnovamento.

Data la tecnologia disponibile a quel tempo, Cajal non potevasapere fino a che punto il cervello fosse malleabile e «plastico».All’epoca, il DNA non era ancora stato decodificato e non si sapevamolto dell’impatto dei geni sulla funzionalità cerebrale. Nel suofondamentale testo del 1928, Degeneration and Regeneration of theNervous System (Degenerazione e rigenerazione del sistema nervoso),Cajal affermava: «Nei centri di soggetti adulti le vie nervose sonoqualcosa di rigido, finito, immutabile. Tutto può morire, nulla puòessere rigenerato». 2 Se potessi modificare la sua affermazione con ciòche sappiamo oggi, sostituirei le parole «rigido», «finito» e«immutabile» con l’esatto contrario: «flessibile», «indefinito», e«alterabile». E aggiungerei che le cellule cerebrali possono morire, masenza dubbio possono essere rigenerate. Cajal diede senz’altro ungrande contributo alla nostra conoscenza del cervello e delfunzionamento dei neuroni; fu persino un precursore nel tentativo dicapire la patologia dell’infiammazione. La sua convinzione riguardoalle limitate risorse del cervello, tuttavia, ha pervaso gran parte dellastoria dell’umanità; finché la scienza moderna, verso la fine del XX

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secolo, ha dimostrato fino a che punto il cervello potesse essereflessibile.

Nel mio ultimo libro, Ottieni il massimo dal tuo cervello. Gli orizzontidella neuroscienza, 3 ho raccontato insieme al dott. Alberto Villoldocome la scienza sia arrivata a comprendere il dono della neurogenesinegli esseri umani. Pur avendo provato da tempo la neurogenesi indiversi altri animali, gli scienziati cominciarono a concentrarsi inmodo esclusivo sul tentativo di dimostrare la nascita di nuove cellulenervose negli esseri umani solo negli anni Novanta. 4 Nel 1998, larivista «Nature Medicine» pubblicò un rapporto in cui il neurologosvedese Peter Eriksson sosteneva che all’interno del nostro cervelloesiste una popolazione di cellule staminali neurali che vengonoreintegrate di continuo e possono differenziarsi in neuroni cerebrali. 5

E aveva ragione: tutti sperimentiamo la «terapia delle cellulestaminali» cerebrali in ogni minuto della nostra vita. Questo haportato a una scienza innovativa, detta neuroplasticità.

La rivelazione che la neurogenesi si verifica negli esseri umani pertutta la vita ha fornito ai neuroscienziati di tutto il mondo un nuovoemozionante punto di riferimento, con implicazioni che riguardano inpratica l’intera gamma dei disturbi cerebrali. 6 Ciò ha inoltre infusosperanza in coloro che sono alla ricerca di indizi per fermare, farregredire o perfino guarire malattie cerebrali progressive. L’idea deineuroni cerebrali che si rigenerano ha entusiasmato gli scienziatiimpegnati nello studio delle malattie neurodegenerative e ha aperto lastrada a nuove terapie, cambiando la vita di persone che soffrono pergravi lesioni o patologie. Basta leggere il libro di Norman Doidge, Ilcervello infinito. Alle frontiere della neuroscienza: storie di persone che hannocambiato il proprio cervello, 7 per conoscere esperienze di vita reale cheprovano fino a che punto quest’organo – e il nostro potenziale umano– sia flessibile. Se le vittime di ictus possono imparare di nuovo aparlare e le persone nate senza una parte del cervello possonoaddestrarlo riprogrammandolo affinché svolga anche le funzioni dellaporzione mancante, immaginate le possibilità per quelli di noi chesperano solo di conservare le proprie facoltà mentali.

La questione scottante è: come possiamo sviluppare nuovi neuroni

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cerebrali? O, in altre parole, cosa influenza la neurogenesi e cosapossiamo fare per favorirla?

Questo processo naturale è controllato, come è logico pensare, dalnostro DNA. Per la precisione, un gene situato sul cromosoma 11codifica per la produzione di una proteina chiamata «fattoreneurotrofico derivato dal cervello» o BDNF (Brain-derived NeurotrophicFactor). Il BDNF ha un ruolo chiave nella produzione di nuovi neuroni,ma, al di là del suo ruolo nella neurogenesi, protegge i neuroniesistenti, garantendo loro la capacità di sopravvivere e incoraggiandoal tempo stesso la formazione delle sinapsi (il collegamento di unneurone all’altro): un processo vitale per il pensiero, l’apprendimentoe i livelli più elevati della funzione cerebrale. Gli studi effettuati hannoregistrato un calo dei livelli di BDNF nei pazienti malati di Alzheimer,il che non dovrebbe sorprendere in base a ciò che si conosce dellamodalità di funzionamento di questa proteina. 8 A stupire forse èpiuttosto il nesso tra il BDNF e una serie di disturbi neurologici comeepilessia, anoressia nervosa, depressione, schizofrenia e disturboossessivo compulsivo.

Oggi conosciamo bene i fattori che inducono il DNA a produrre ilBDNF, e fortunatamente questi fattori sono per lo più sotto il nostrodiretto controllo. Sul gene che attiva la produzione del BDNFinfluiscono diversi aspetti dello stile di vita, fra i quali l’eserciziofisico, la restrizione calorica, l’osservanza di una dieta chetogenica el’aggiunta di determinati nutrienti come la curcumina e l’acidodocosaesaenoico o DHA, un grasso omega 3.

Questa è una notizia incoraggiante, perché tutti questi fattori sonoalla nostra portata e rappresentano scelte che possiamo compiere perpremere l’interruttore che stimola la crescita di nuove cellule cerebrali.Vediamoli in dettaglio uno per uno.

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Il vostro (nuovo) cervello e l’attività fisicaApprofondirò questo argomento nel capitolo VIII, che tratterà indettaglio il ruolo dell’esercizio fisico nella prevenzione del declinocognitivo. È sorprendente: l’esercizio fisico è uno dei metodi piùformidabili per modificare i geni; per semplificare, si potrebbe direche l’attività fisica rappresenta un allenamento per i geni. Inparticolare, l’esercizio aerobico attiva non solo i geni legati allalongevità, ma anche il gene BDNF, l’«ormone della crescita» nelcervello. Per essere più specifici, è stato dimostrato che l’esercizioaerobico provoca un incremento del BDNF, inverte il declino dellamemoria negli anziani e aumenta la crescita di nuove cellule cerebralinel centro della memoria. L’attività fisica non serve solo per restare informa e avere un cuore forte; i suoi effetti forse più importanti,impercettibili, si verificano nella stanza al piano superiore, dove abitail cervello. La visione scientifica emergente dell’evoluzione umana edel ruolo dell’attività fisica conferisce un significato tutto nuovoall’espressione «rinfrescare la memoria». Un milione di anni fa,avevamo la meglio sulle lunghe distanze perché riuscivamo asuperare nella corsa e nel cammino la maggior parte degli altrianimali. Alla fine, questo contribuì a fare di noi gli esseri umaniintelligenti che siamo oggi. Più ci muovevamo, meglio stava il nostrocervello. E ancor oggi il buon funzionamento del nostro cervellorichiede un’attività fisica regolare, a dispetto dello scorrere del tempoe dei mali del processo di invecchiamento.

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La restrizione caloricaUn altro fattore epigenetico che attiva il gene per la produzione diBDNF è la restrizione calorica. Ampi studi hanno dimostrato conchiarezza che quando gli animali seguono una dieta a ridotto apportocalorico (in genere di circa il 30%), la produzione di BDNF del cervelloregistra un netto aumento, con incredibili miglioramenti nellamemoria e in altre funzioni cognitive. Tuttavia, un conto è leggerestudi su ricerche sperimentali che riguardano dei ratti in un ambientecontrollato, tutt’altro elargire consigli alle persone in base a ricerchesugli animali. Per fortuna abbiamo ormai un ampio numero di studisugli esseri umani che dimostrano il potente effetto della riduzionedell’apporto calorico sulla funzione cerebrale, e molti di questi sonostati pubblicati sulle nostre riviste mediche più accreditate. 9

Nel gennaio 2009, per esempio, «Proceedings of the NationalAcademy of Sciences» pubblicò uno studio di ricercatori tedeschi cheavevano messo a confronto due gruppi di individui anziani: uno conun regime calorico ridotto del 30% e l’altro cui era stato permesso dimangiare ciò che voleva. I ricercatori intendevano stabilire se fossepossibile misurare variazioni nella funzione mnestica dei due gruppi.Al termine dello studio, durato tre mesi, i soggetti liberi di mangiare apiacimento sperimentarono un piccolo, ma ben definito, declino dellamemoria, mentre la funzione mnestica nel gruppo che aveva seguitola dieta con restrizione calorica registrò un netto miglioramento.Sapendo che gli attuali approcci farmaceutici alla salute cerebrale sonomolto limitati, gli autori concludevano: «I presenti risultati potrebberocontribuire a sviluppare nuove strategie di prevenzione e trattamentoper preservare la salute cognitiva in età avanzata». 10

Ulteriori testimonianze a sostegno del ruolo della restrizionecalorica nel rafforzare il cervello e aiutarlo a resistere meglio allemalattie degenerative giungono dal dott. Mark Mattson del NationalInstitute on Aging, che ha dichiarato:

I dati epidemiologici suggeriscono che individui con un ridotto

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apporto calorico potrebbero presentare un rischio inferiore di ictus edisturbi neurodegenerativi. Esiste una forte correlazione tra ilconsumo alimentare pro capite e il rischio del morbo di Alzheimer edi ictus. I dati ricavati da studi caso-controllo basati sullapopolazione hanno evidenziato che i soggetti con i consumi caloriciquotidiani più bassi presentavano il più basso rischio di morbo diAlzheimer e morbo di Parkinson. 11

Mattson si riferiva a uno studio prospettico longitudinale basato suuna popolazione di famiglie nigeriane di cui alcuni membri sitrasferirono negli Stati Uniti. Molti credono che il morbo di Alzheimersia qualcosa che si «riceve» dal proprio DNA, ma questo particolarestudio raccontava un’altra storia: l’incidenza del morbo di Alzheimertra gli immigrati nigeriani che vivevano negli Stati Uniti eraaumentata rispetto ai parenti rimasti in Nigeria. Sotto il profilogenetico, i nigeriani che si erano trasferiti in America erano uguali ailoro famigliari rimasti in Africa. 12 L’unico cambiamento riguardaval’ambiente, in particolare l’apporto calorico. La ricerca mise bene afuoco gli effetti dannosi che un consumo più elevato di calorie ha sullasalute del cervello.

Se la prospettiva di ridurre il vostro consumo di calorie del 30%appare scoraggiante, considerate che oggi consumiamo in media 523calorie al giorno in più rispetto al 1970. 13 In base a datidell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle NazioniUnite (la FAO), l’americano medio adulto consuma 3770 calorie algiorno. 14 La maggior parte delle persone ritiene «normale» unconsumo delle calorie che si aggiri intorno alle 2000 al giorno per ledonne e alle 2550 per gli uomini (con esigenze superiori a seconda dellivello di attività/esercizio fisico). Un taglio del 30% su una media di3770 calorie al giorno equivale a 2640 calorie.

Buona parte dell’aumento del nostro consumo di calorie è dovutoallo zucchero. L’americano medio consuma orientativamente dai 45 ai72 chili di zucchero raffinato ogni anno, con la tendenza a un aumentodel 25% proprio negli ultimi tre decenni. 15 Anche solo concentrarsisulla riduzione del consumo di zucchero potrebbe dunque essere digrande aiuto per ottenere una riduzione significativa dell’apporto

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calorico, e questo porterebbe senz’altro a perdere peso. L’obesità èassociata a una riduzione dei livelli di BDNF e così pure a livelliglicemici elevati, e non va dimenticato che un aumento del BDNF offreil beneficio aggiunto di ridurre l’appetito. Io lo definisco un doppiovantaggio.

Se i numeri sopra citati non sono ancora comunque sufficienti permotivarvi a seguire una dieta destinata a giovare al vostro cervello, vidirò che, per molti aspetti, la stessa via che accende la produzione delBDNF può essere attivata interrompendo il normale regime alimentarecon periodi di digiuno. Approfondiremo il tema del digiuno nelcapitolo VII.

Gli effetti benefici del trattamento dei disturbi neurologici mediantela restrizione calorica non rappresentano una novità per la scienzamoderna; erano già noti nei tempi antichi. La restrizione calorica èstata la prima terapia efficace per le crisi epilettiche nella storia dellamedicina. Ora, tuttavia, sappiamo come e perché sia così efficace: offreuna profonda neuroprotezione, aumenta la crescita di nuove cellulecerebrali e consente alle reti neuronali esistenti di espandere la lorosfera di influenza (neuroplasticità).

Anche se la documentazione scientifica testimonia che un bassoapporto calorico promuove la longevità in diverse specie – fra le qualiascaridi, roditori e scimmie –, la ricerca ha pure dimostrato che a unconsumo inferiore di calorie corrisponde un decrementodell’incidenza del morbo di Alzheimer e del morbo di Parkinson.Riteniamo che ciò accada grazie a un miglioramento della funzionemitocondriale e del controllo dell’espressione genica.

Consumare meno calorie significa attenuare la prolificazione diradicali liberi e, al tempo stesso, aumentare la produzione di energiada parte dei mitocondri, i minuscoli organelli che nelle nostre cellulegenerano energia chimica sotto forma di ATP (adenosina trifosfato). Imitocondri hanno il proprio DNA e sappiamo che svolgono un ruolochiave nelle malattie degenerative come il morbo di Alzheimer e ilcancro. La restrizione calorica ha inoltre un notevole effetto sullariduzione dell’apoptosi, il processo di autodistruzione delle celluleche si verifica quando all’interno delle stesse vengono attivati

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meccanismi genetici che culminano nella loro morte. Anche se a primavista può sembrare sconcertante, e ci si può domandare perché questodovrebbe essere considerato un evento positivo, l’apoptosi è unafunzione cellulare cruciale per la vita come noi la conosciamo. Lamorte preprogrammata delle cellule è una caratteristica naturale efondamentale di tutti i tessuti viventi, ma occorre un equilibrio traapoptosi efficace e distruttiva. Inoltre, la restrizione calorica dà luogoa un decremento dei fattori infiammatori e a un incremento dei fattorineuroprotettivi, in particolare del BDNF. È stato anche riscontrato cheincrementa le naturali difese antiossidanti del corpo aumentandoenzimi e molecole importanti per arginare l’eccesso di radicali liberi.

Nel 2008 la dott.ssa Veronica Araya dell’Università del Cile aSantiago rese noto uno studio durante il quale aveva messo a dieta pertre mesi soggetti sovrappeso e obesi con una riduzione complessivadel 25% delle calorie. 16 Insieme ai suoi colleghi, aveva misurato uneccezionale aumento della produzione di BDNF, che aveva portato anotevoli riduzioni dell’appetito. Ed è stato dimostrato che avvieneanche il contrario: la produzione di BDNF diminuisce negli animali cheseguono una dieta ricca di zuccheri. 17

Una delle molecole più studiate associate alla restrizione calorica ealla crescita di nuove cellule cerebrali è la sirtuina 1 (SIRT1), un enzimache regola l’espressione dei geni. Nelle scimmie, un aumentodell’attivazione di SIRT1 provoca l’incremento di un enzima chedeteriora l’amiloide, la proteina simile all’amido il cui accumulo è ilsegno caratteristico di malattie come l’Alzheimer. 18 L’attivazionedella SIRT1 altera poi alcuni recettori sulle cellule, determinandoreazioni che hanno l’effetto complessivo di ridurre l’infiammazione.Forse il dato di maggior rilievo è che l’attivazione della via disegnalazione della sirtuina mediante la restrizione calorica aumenta ilBDNF. Non solo il BDNF incrementa il numero delle cellule cerebrali,ma migliora la loro differenziazione in neuroni funzionali (sempregrazie alla restrizione calorica). Per questo motivo, diciamo che il BDNF

favorisce l’apprendimento e la memoria. 19

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I vantaggi di una dieta chetogenicaLa restrizione calorica è in grado di attivare queste diverse reazioni,che non solo agiscono a tutela del cervello, ma promuovono la crescitadi nuove reti neuronali; lo stesso processo, tuttavia, può essereattivato dal consumo di particolari grassi denominati chetoni. Quellodi gran lunga più importante per l’utilizzo di energia del cervello è ilbeta-idrossibutirrato (β-HBA), un grasso eccezionale che analizzeremoin maggior dettaglio nel prossimo capitolo. Per questo motivo lacosiddetta dieta chetogenica è stata un trattamento per l’epilessia findai primi anni Venti e oggi viene rivalutata come opzione terapeuticamolto valida nel trattamento del morbo di Parkinson, del morbo diAlzheimer, della SLA e perfino dell’autismo. 20 In uno studio del 2005,dopo avere seguito una dieta chetogenica per soli ventotto giorni, deipazienti malati di Parkinson registrarono un notevole miglioramentodei sintomi, paragonabile all’effetto di un trattamento medicinale operfino di interventi chirurgici al cervello. 21 Per essere precisi, è statodimostrato che consumare grassi chetogenici (ossia trigliceridi acatena media o olio MCT) comporta un notevole miglioramento nellafunzione cognitiva dei pazienti colpiti da Alzheimer. 22 L’olio di cocco,dal quale ricaviamo gli MCT, è una ricca fonte di un’importantemolecola precursore del beta-idrossibutirrato, e se impiegatorappresenta un approccio utile al trattamento del morbo diAlzheimer. 23 È stato riscontrato che una dieta chetogenica provoca,inoltre, una riduzione dell’amiloide nel cervello 24 e un aumentonell’ippocampo del glutatione, l’antiossidante naturale protettivo delcervello. 25 Essa stimola inoltre la crescita dei mitocondri e migliorapertanto l’efficienza metabolica. 26

Nonostante la scienza abbia in genere guardato al fegato come allaprincipale fonte della produzione di chetoni nella fisiologia umana, èormai riconosciuto che anche il cervello può produrre chetoni inparticolari cellule denominate astrociti. Questi corpi chetonici hannoun profondo effetto neuroprotettivo, riducono la formazione di

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radicali liberi, aumentano la biogenesi mitocondriale e stimolano lacomparsa di importanti antiossidanti per il cervello. Inoltre, i chetonibloccano la via apoptotica che altrimenti condurrebbeall’autodistruzione delle cellule cerebrali.

Purtroppo, però, hanno una cattiva reputazione. Durante il miointernato ricordo di essere stato svegliato da un’infermiera per curareun paziente in «chetoacidosi diabetica». Dottori, studenti di medicinae tirocinanti diventano ansiosi quando sono alle prese con un pazientein quello stato, e per un buon motivo. Questa condizione si manifestanei pazienti affetti da diabete di tipo 1 insulinodipendente quandonon è disponibile abbastanza insulina per metabolizzare il glucosio eprodurre energia. Il corpo ricorre quindi ai grassi e si ha unaproduzione di chetoni in quantità pericolosamente elevate, cheaccumulandosi nel sangue diventano tossiche. Nello stesso tempo, siverifica una notevole perdita di bicarbonato, che porta a unsignificativo abbassamento del pH (acidosi). In genere, a causa deglielevati livelli di glucosio ematico i pazienti perdono molta acqua e nederiva un’emergenza medica.

Questo disturbo è molto raro e, lo ripeto, si presenta in diabetici ditipo 1 con problemi nella regolazione dei livelli di insulina. La nostranormale fisiologia è in grado di gestire un certo livello di chetoni nelsangue, una capacità che, a dire il vero, non è diffusa tra i nostricompagni del regno animale. Forse la dobbiamo al particolarerapporto tra peso corporeo e peso del cervello e all’elevato fabbisognodi energia di quest’organo. A riposo, il 20% del nostro consumo diossigeno viene utilizzato dal cervello, che rappresenta appena il 2%del corpo umano. Nel corso dell’evoluzione, la capacità di usarechetoni come combustibile quando il glucosio ematico era esaurito e ilglicogeno epatico non era più disponibile (in fasi di inedia) divenne ilsolo modo per sopravvivere e continuare a cacciare e a raccogliere. Lachetosi si dimostrò un passo cruciale poiché consentì all’uomo ditenere duro nei periodi di carestia. Per citare Gary Taubes:

In effetti possiamo definire questa lieve chetosi come lo statonormale del metabolismo umano quando non stiamo mangiandoquei carboidrati che non sono esistiti nelle nostre diete per il 99,9%

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della storia umana. E come tale la chetosi è, presumibilmente, nonsoltanto una condizione naturale ma anche particolarmentesalutare. 27

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IL POTERE DELLA MEDITAZIONE

Meditare è un’attività tutt’altro che passiva. Gli studi dimostrano che lepersone che meditano sono molto meno a rischio di sviluppare malattieal cervello e altre patologie. 28 Imparare a meditare richiede tempo edesercizio, ma offre numerosi e comprovati vantaggi, tutti legati allalongevità. Per reperire risorse su come imparare questa tecnica, visitate ilmio sito web www.DrPerlmutter.com.

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Curcumina e DHA

La curcumina, la principale componente attiva nella spezia curcuma, èoggi al centro di approfondite indagini scientifiche in particolare perla sua relazione con il cervello. Nella medicina tradizionale cinese eindiana (aiurvedica) è utilizzata da migliaia di anni. Anche se è bennota per le sue proprietà antiossidanti, antinfiammatorie,antimicotiche e antibatteriche, è stata soprattutto la sua capacità diincrementare il BDNF ad attirare l’interesse di neuroscienziati di tutto ilmondo, in particolare di epidemiologi in cerca di indizi per spiegarecome mai la diffusione della demenza sia assai ridotta nelle comunitàche fanno largo uso di curcuma (ulteriori informazioni sullacurcumina sono reperibili nel capitolo VII).

Negli ultimi tempi l’acido docosaesaenoico (DHA) sta ricevendoforse più attenzione di ogni altra molecola utile al cervello. Da diversidecenni gli scienziati studiano in modo approfondito questa sostanza,cruciale per almeno tre ragioni. Innanzitutto, più di due terzi del pesoa secco del cervello umano sono rappresentati da grasso e un quartodi quel grasso è DHA. Dal punto di vista strutturale, il DHA è unimportante mattone per le membrane che circondano le cellulecerebrali, in particolare per le sinapsi, fondamentali per unfunzionamento efficiente del cervello.

Il DHA ha inoltre un importante ruolo nella regolazionedell’infiammazione. Esso riduce in modo naturale l’attivitàdell’enzima COX-2, che attiva la produzione di dannose sostanzechimiche infiammatorie. Per molti versi, il DHA agisce poi come unguerriero quando entra in territorio ostile derivante da una dieta nonappropriata. Può combattere l’infiammazione all’interno della mucosaintestinale di un soggetto sensibile al glutine, e può porre un freno aglieffetti dannosi di una dieta ad alto contenuto di zuccheri, soprattuttodi fruttosio, aiutando a prevenire eventuali disfunzioni metabolichenel cervello conseguenti a un’alimentazione troppo ricca dicarboidrati.

Infine, l’attività forse più interessante del DHA è il suo ruolo nella

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regolazione dell’espressione genica per la produzione del BDNF. Inparole povere, il DHA contribuisce a orchestrare la produzione, lereciproche connessioni e la possibilità di sopravvivere delle cellulecerebrali, migliorandone al tempo stesso la funzione.

In una sperimentazione interventistica in doppio cieco, portata atermine di recente e nota ormai come MIDAS (Memory Improvement withDHA Study, Studio sul miglioramento della memoria con l’acidodocosaesaenoico), un gruppo di 485 soggetti dell’età media disettant’anni, con lievi problemi di memoria, ricevette per sei mesi unintegratore contenente DHA ricavato da un’alga marina oppure unplacebo. Al termine dello studio, i livelli ematici di DHA risultaronoraddoppiati nel gruppo cui era stato somministrato, con notevolieffetti sulla funzione cerebrale. La dott.ssa Karin Yurko-Mauro,responsabile della ricerca, commentò:

Nel nostro studio, i soggetti sani con disturbi di memoria cheavevano assunto capsule di DHA algale per sei mesi hanno ridotto aquasi la metà gli errori in un test che misura le prestazioni diapprendimento e memoria rispetto al gruppo che aveva assunto unplacebo. ... Il beneficio è all’incirca equivalente ad avere le capacitàdi apprendimento e memoria di una persona più giovane di treanni. 29

In un altro studio, effettuato su 815 individui di età compresa tra isessantacinque e i novantaquattro anni, si riscontrò che i soggetti checonsumavano la quantità più elevata di DHA registravano unastraordinaria riduzione del 60% del rischio di sviluppare il morbo diAlzheimer. 30 Questo livello di protezione è dunque superiore a quelloofferto da altri acidi grassi come l’EPA e l’acido linolenico. Anche ilFramingham Heart Study indicava un effetto protettivo eccezionale. Iricercatori confrontarono i livelli ematici di DHA rilevati in 899 uominie donne per un periodo di quasi dieci anni; in quest’arco di tempoalcuni avevano sviluppato demenza e Alzheimer, ma il gruppo con ipiù elevati livelli ematici di DHA risultò avere un rischio di contrarrequeste malattie inferiore del 47%. 31 I ricercatori scoprirono inoltre una

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correlazione tra il consumo di più di due porzioni di pesce allasettimana e una riduzione del 59% del manifestarsi dell’Alzheimer.

Quando i genitori portano da me figli con problemi comportamentali,sono solito esaminare i loro livelli di DHA, oltre a controllare la lorosensibilità al glutine. A causa del suo ruolo nell’attivare la produzione diBDNF, il livello di DHA è importante in utero, durante la prima infanzia eda bambini. Al giorno d’oggi molti bambini non ricevono quantitàsufficienti di DHA ed è anche per questo che assistiamo a tanti casi didisturbo da deficit di attenzione e iperattività. Non so dirvi quante volteio lo abbia «curato» solo raccomandando un integratore di DHA. Nelcapitolo X vi darò consigli sul dosaggio di questo importanteintegratore.

Come possiamo aumentare il nostro livello di DHA? Il corpo puòprodurne piccole quantità, e siamo in grado di sintetizzarlo da uncomune grasso omega 3 contenuto negli alimenti, l’acido alfalinolenico. È però difficile ottenere tutto il DHA di cui abbiamo bisognodal cibo che consumiamo, e non possiamo neppure affidarci allaproduzione naturale del nostro organismo. Abbiamo bisogno dialmeno 200-300 milligrammi al giorno, ma la maggioranza degliamericani ne assume meno del 25%; e farebbe bene invece a superarequesta quantità minima necessaria. Nel capitolo X illustrerò la miaricetta per garantire un approvvigionamento sufficiente di DHAtramite alimentazione e integratori.

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La stimolazione intellettuale rafforza nuove retiSe non fosse risaputo che gli stimoli intellettuali giovano alla salutecerebrale, i cruciverba, i corsi di formazione, le visite ai musei eperfino la lettura non sarebbero così popolari. E sappiamo che metterealla prova la mente rafforza le nuove reti neurali. Il cervello reagiscealle sfide della stimolazione intellettuale in modo molto simile aimuscoli che guadagnano forza e funzionalità con l’attività fisica. Ilcervello diventa più veloce e più efficiente nella sua capacità dielaborazione, migliorando anche la sua abilità nel memorizzare unmaggior numero di informazioni. Anche in questo caso, trovoistruttiva la sintesi di Mark Mattson delle pubblicazioni che lodocumentano:

Per quanto concerne l’invecchiamento e i disturbineurodegenerativi legati all’età, i dati a disposizione suggerisconoche i comportamenti che favoriscono la complessità dendritica e laplasticità sinaptica promuovono anche un buon invecchiamento ediminuiscono il rischio di malattie neurodegenerative. 32

Mattson prosegue fornendo diversi esempi: osserva che le persone piùistruite corrono un rischio inferiore di ammalarsi del morbo diAlzheimer e che, in generale, la protezione da disturbineurodegenerativi legati all’età comincia probabilmente già moltoprima della vecchiaia. A questo proposito, egli rimanda a studisecondo cui i giovani adulti dotati delle migliori capacità linguistichedenotano una riduzione del rischio di demenza. E scrive che «datiricavati da studi sugli animali suggeriscono che un aumento di attivitànei circuiti neuronali derivante da attività intellettuale stimolal’espressione di geni partecipi dei rispettivi effetti neuroprotettivi».

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La truffa degli antiossidanti 33

Ovunque si trovano pubblicità che inneggiano alle virtù di un succo odi un estratto di frutta esotica che possiede il più alto contenuto diantiossidanti sulla faccia della Terra. Vi chiederete: come mai tuttoquesto battage pubblicitario? Qual è il vantaggio collegatoall’assunzione di un antiossidante? Come ormai sapete, gliantiossidanti aiutano a controllare i pericolosi radicali liberi; e ilcervello genera spaventose quantità di radicali liberi, tuttavia mancadel livello di protezione antiossidante riscontrabile in altre parti delcorpo. Per fortuna, oggi sappiamo come rimediare a questo dannososquilibrio, ma non possiamo farlo consumando antiossidanti. Inpresenza di specifici segnali, il nostro DNA è in grado di produrreantiossidanti protettivi, e questo sistema antiossidante interno è moltopiù potente di qualsiasi integratore alimentare. Se dunque statemangiando bacche esotiche o trangugiando vitamine E e C neltentativo di avere la meglio sui radicali liberi, tenete presente ciò chesegue.

Nel 1956 il dott. Denham Harman dimostrò che i radicali liberisono «neutralizzati» dagli antiossidanti, e da quel momento nacqueun’intera industria. 34 Le sue teorie divennero più raffinate nel 1972,quando constatò che i mitocondri, la vera fonte dei radicali liberi, sonoi primi a rischiare di esserne danneggiati, e che, quando la funzionemitocondriale è compromessa, il risultato è l’invecchiamento. 35

La comprensione dei pericolosi effetti dei radicali liberi, soprattuttoin rapporto al cervello, ha incoraggiato gli scienziati a cercareantiossidanti migliori per fornire al cervello una misura di protezionenon solo al fine di prevenire disturbi, ma anche di incrementare lafunzione cerebrale. Il rapporto tra deterioramento cognitivo lieve eradicali liberi fu ben descritto, per esempio, in una relazione del 2007del dott. William Markesbery della University of Kentucky. Insieme aisuoi colleghi, Markesbery dimostrò che la funzione cognitiva cominciail suo declino assai presto, molto prima della diagnosi di un disturbo

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cerebrale. Inoltre, notò una diretta correlazione tra i marcatori elevatidi danni ossidativi a lipidi, a proteine e perfino al DNA e il grado deldisturbo. Egli asserì: «Questi studi confermano i danni ossidativi comeevento precoce nella patogenesi del morbo di Alzheimer; essi possonodunque diventare un obiettivo dell’approccio terapeutico perrallentare la progressione della malattia o forse anche il suo inizio».Nel prosieguo si leggeva poi:

Per neutralizzare la componente ossidativa della patogenesi delmorbo di Alzheimer saranno necessari migliori antiossidanti eagenti usati in combinazione per rafforzare i meccanismi di difesacontro l’ossidazione. È assai probabile che per ottimizzare questiagenti neuroprotettivi sarà necessario che siano impiegati nella fasepresintomatica della malattia. 36

In parole povere: dobbiamo stimolare la difesa naturale del nostrocorpo contro i radicali liberi molto prima del manifestarsi di segnali esintomi del deterioramento cognitivo. Se vivremo fino agliottantacinque anni o più, il nostro rischio di contrarre l’Alzheimer saràpari a un incredibile 50%. Rendersene conto significa capire che moltepersone dovrebbero considerarsi in fase «presintomatica» fin da ora.

Se il nostro tessuto cerebrale è attaccato dai radicali liberi, hadunque senso fare il pieno di antiossidanti? Per rispondere a questadomanda dobbiamo prendere in considerazione i fornitori di energiadelle nostre cellule: i mitocondri. Nel normale processo di produzionedell’energia, ciascun mitocondrio produce ogni giorno centinaia, senon migliaia, di molecole di radicali liberi. Moltiplicatele per i diecimilioni di miliardi di mitocondri che ognuno di noi possiede e nericaverete un numero inimmaginabile: dieci seguito da diciotto zeri.Sarebbe quindi lecito dubitare dell’efficacia, per esempio, di unacapsula di vitamina E o di una compressa di vitamina C di fronte aquesto violento attacco di radicali liberi. I comuni antiossidantifunzionano «sacrificandosi»: quando incontrano i radicali liberiavviene l’ossidazione. Di conseguenza, una molecola di vitamina C siossida al contatto con un radicale libero (i chimici chiamano questachimica uno-a-uno reazione stechiometrica). Potete immaginare la

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quantità di vitamina C o di un altro antiossidante orale necessaria perneutralizzare l’incalcolabile numero di radicali liberi generato dalcorpo di giorno in giorno?

Per fortuna, come prevedibile, l’organismo umano ha sviluppato ipropri meccanismi biochimici di difesa, producendo altri antiossidantidurante i periodi di elevato stress ossidativo. Lungi dall’essere deltutto dipendenti da fonti alimentari esterne di antiossidanti, le nostrecellule hanno la capacità innata di generare enzimi antiossidantiquando occorre. Elevati livelli di radicali liberi attivano unaparticolare proteina nel nucleo, denominata Nrf2, che in pratica aprela porta alla produzione non solo di un’ampia gamma dei principaliantiossidanti del nostro corpo, ma anche degli enzimi detossificanti.Così, se per questa via un eccesso di radicali liberi induce unamigliore produzione di antiossidanti, la prossima, ovvia domanda è:che cos’altro attiva la proteina Nrf2?

E qui la storia si fa davvero avvincente. Nuove ricerche hannoidentificato svariati fattori modificabili in grado di accendere questo«interruttore» Nrf2 attivando geni che possono produrre potentiantiossidanti ed enzimi detossificanti. La dott.ssa Ling Gao dellaVanderbilt University ha scoperto che l’ossidazione dei grassi omega3 EPA e DHA rappresenta un importante segnale per l’attivazione dellaproteina Nrf2. Da anni si osserva una minore incidenza di danni daradicali liberi nei soggetti che consumano olio di pesce (la fonte di EPAe DHA), ma ora, grazie a queste nuove ricerche, il rapporto tra olio dipesce e protezione antiossidante è chiaro. Come ha documentato LingGao: «I dati in nostro possesso confermano l’ipotesi che la formazionedi ... composti generati da ossidazione di EPA e DHA in vivo puòraggiungere concentrazioni abbastanza elevate da innescare sistemi didifesa antiossidanti e detossificanti basati sul fattore Nrf2». 37

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DETOSSIFICAZIONE: COSA SIGNIFICA PER LA SALUTECEREBRALE

Il corpo umano produce un notevole assortimento di enzimi che servonoa combattere il gran numero di tossine cui siamo esposti negli ambientiesterni e anche quelle generate all’interno del nostro corpo nel corso delnormale metabolismo. Questi enzimi sono prodotti sotto la direzione delDNA e si sono evoluti in centinaia di migliaia di anni.Il glutatione, considerato uno dei più importanti agenti detossificanti delcervello umano, è una sostanza chimica piuttosto semplice ed è untripeptide, il che significa che è composto da tre soli amminoacidi. Adispetto della sua semplicità, il glutatione ha però un ruolo importantenella salute del cervello. Innanzitutto, agisce come antiossidante nellafisiologia cellulare, contribuendo non solo a proteggere la cellula daidanni dei radicali liberi, ma anche a proteggere i delicati e vitalimitocondri. È un antiossidante talmente importante che spesso gliscienziati misurano i livelli del glutatione cellulare come indicatoregenerale della salute delle cellule. Esso rappresenta inoltre un potentefattore nella chimica della detossificazione, poiché si lega a varie tossineper renderle meno nocive. Ma soprattutto, il glutatione serve comesubstrato per l’enzima glutatione S-transferasi, coinvolto nellatrasformazione di numerose tossine, rendendole più solubili in acqua e,pertanto, più facili da espellere. Eventuali deficit funzionali di questoenzima sono associati a una lunga serie di problemi medici, comemelanoma, diabete, asma, cancro al seno, morbo di Alzheimer,glaucoma, cancro ai polmoni, morbo di Lou Gehrig, morbo di Parkinsoned emicranie, per citarne solo alcuni. Conoscendo il suo ruolofondamentale come antiossidante e come elemento chiave nelladetossificazione, appare ragionevole fare tutto il possibile per manteneree incrementare i livelli di glutatione, proprio ciò che il mio protocollo viaiuterà a ottenere.

Diversi modelli di laboratorio hanno dimostrato – e non dovrebbestupire – che anche la restrizione calorica provoca l’attivazione diNrf2. In seguito a una riduzione delle calorie nella loro dieta, non sologli animali da laboratorio vivono più a lungo (con ogni probabilitàcome conseguenza di un incremento della protezione antiossidante),

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ma diventano anche molto resistenti allo sviluppo di diversi tipi dicancro. E questa caratteristica avvalora ulteriormente il programma didigiuno illustrato nel prossimo capitolo.

Sono stati identificati vari composti naturali che provocano l’azioneantiossidante e detossificante attraverso l’attivazione del sistema Nrf2.Fra questi si annoverano la curcumina, ricavata dalla curcuma,l’estratto di tè verde, la silimarina (cardo mariano), l’estratto dibacopa, il DHA, il sulforafano (contenuto nei broccoli) e l’ashwagandha(Whitania somnifera). Ciascuna di queste sostanze è efficacenell’attivare l’innata capacità del corpo di produrre antiossidantifondamentali, compreso il glutatione. E se nessuno di questi compostisomiglia a qualcosa che siete abituati a consumare ogni giorno, saretefelici di sapere che il caffè è uno dei più potenti attivatori di Nrf2 innatura. Questo effetto positivo è dovuto a numerose molecole in essocontenute, alcune presenti nella materia prima, altre generate duranteil processo di tostatura. 38

Oltre alla funzione antiossidante, l’attivazione del sistema Nrf2 fa sìche i geni producano un’ampia gamma di sostanze chimicheprotettive, le quali offrono ulteriore supporto ai meccanismi didetossificazione del corpo, riducendo al tempo stessol’infiammazione: tutte cose positive per la salute del cervello.

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Il «gene dell’Alzheimer»Dopo la decodifica dell’intero genoma umano, più di un decennio orsono, siamo riusciti ad accumulare una grande quantità diinformazioni su quali geni siano responsabili di determinati esiti,positivi o negativi. Se seguivate con attenzione la cronaca nella primametà degli anni Novanta, avrete saputo che gli scienziati avevanoscoperto un «gene dell’Alzheimer», un’associazione tra un particolaregene e il rischio di contrarre il morbo di Alzheimer. E vi sarete chiesti:«Ce l’ho anch’io?».

Partiamo innanzitutto da una rapida lezione di biochimica pergentile concessione del National Institute on Aging, l’istitutonazionale americano che si occupa di studi sull’invecchiamento. Nonsempre le mutazioni genetiche, o i cambiamenti permanenti in uno opiù geni specifici, provocano malattie. In alcuni casi, tuttavia, avvieneproprio questo; se ereditate una mutazione patogena, avrete laprobabilità di sviluppare la malattia. L’anemia falciforme, il morbo diHuntington e la fibrosi cistica sono esempi di malattie geneticheereditarie. Talvolta, ma non sempre, può presentarsi una «variante»genetica per cui le mutazioni in un gene possono portare alla malattia.Più spesso, la variante si limita ad aumentare o ridurre il rischio disviluppare un certo disturbo o patologia. Se si sa che una varianteaumenta le probabilità di incorrere in una malattia, ma nonnecessariamente la scatena, si parla di fattore di rischio genetico. 39

Per essere chiari, gli scienziati non hanno identificato uno specificogene che provochi il morbo di Alzheimer. Tuttavia, un fattore dirischio genetico che sembra aumentare il pericolo di sviluppare lamalattia è associato al gene dell’apolipoproteina E (ApoE) sulcromosoma 19. Questo fattore codifica le istruzioni per produrre unaproteina che contribuisce a trasportare il colesterolo e altri tipi digrasso nel sangue. Ne esistono molte forme diverse, o alleli. Le treprincipali sono ApoE ε2, ApoE ε3, e ApoE ε4.

L’allele ApoE ε2 è piuttosto raro, ma ereditarlo aumenta lepossibilità di sviluppare il morbo di Alzheimer. L’allele ApoE ε3 è il

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più comune, ma si ritiene che non aumenti né diminuisca il rischio.L’allele ApoE ε4, infine, è di solito il più citato dai mass media e il piùtemuto. È presente nel 25-30% circa della popolazione, e quasi il 40%di tutti i malati di Alzheimer ne è portatore. Vi starete chiedendo sesiete portatori di questo fattore di rischio e cosa possa significare pervoi e per il vostro futuro.

Purtroppo, non sappiamo come questo allele aumenti il rischio diammalarsi di Alzheimer: il meccanismo non è ancora stato compresoin maniera adeguata. Le persone nate con l’allele ApoE ε4 hannomaggiori probabilità di sviluppare la malattia in età meno avanzatarispetto agli altri, ma è importante ricordare che ereditare un alleleApoE ε4 non significa avere un destino segnato, e che sarete senz’altrocolpiti dall’Alzheimer. Alcune persone hanno un DNA che contienel’allele ApoE ε4 e non soffriranno mai di declino cognitivo. E moltesviluppano l’Alzheimer in assenza di questi fattori di rischio genetico.

Un semplice test di screening del DNA può appurare se possedetequesto gene, ma, anche se così fosse, c’è qualcosa che potete fare. Ilmio protocollo è un modo per farsi carico del destino del propriocervello nonostante il DNA. Non mi stancherò mai di ripeterlo: la sortedella vostra salute – e della vostra serenità, come mostrerà il prossimocapitolo – è soprattutto nelle vostre mani.

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Capitolo VI

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Esaurimento cerebraleCome il glutine toglie serenità a voi e ai vostri figli

I pericoli che non stanno dinnanzi agli occhi, in genere, turbano conmaggior intensità le menti degli uomini.GIULIO CESARE

Se a lungo termine zuccheri e carboidrati pieni di glutine – inclusi ilpane integrale che mangiate ogni giorno e i vostri comfort foodpreferiti – influiscono poco a poco sulla salute e sulla funzionalitàcerebrale, quali altri effetti possono avere in tempi più brevi? Èpossibile che producano cambiamenti nel comportamento, incidanosulla capacità di concentrazione e siano alla base di alcuni tic nervosi edi disturbi dell’umore come la depressione? E che siano i principaliresponsabili di mal di testa cronici e perfino di emicranie?

La risposta è sì. Una dieta ricca di carboidrati non si limita aintralciare la neurogenesi e aumentare il rischio di problemi cognitividestinati a progredire silenziosi nel tempo. Come ho già accennato neicapitoli precedenti, una dieta ad alto contenuto di carboidratiinfiammatori e povera di grassi sani interferisce con la mente in più diun modo, non solo influendo sul rischio di demenza, ma esponendocia patologie neurologiche diffuse, come il disturbo da deficit diattenzione e iperattività, il disturbo d’ansia, la sindrome di Tourette, lemalattie mentali, le emicranie e perfino l’autismo.

Fino a questo momento mi sono concentrato in prevalenza sudeclino cognitivo e demenza. Ora passiamo agli effetti deleteri delglutine sul cervello dal punto di vista di questi comuni disturbicomportamentali e psicologici. Inizierò con le patologie che sonospesso diagnosticate nei bambini piccoli, per poi trattare una gammapiù ampia di problemi riscontrati in persone di ogni età. Una cosa

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emergerà con chiarezza: l’eliminazione del glutine dalla dieta el’adozione di uno stile di vita corretto sono spesso il rimedio miglioree più sicuro per i disturbi cerebrali che affliggono milioni di persone.In molti casi questa semplice «medicina» è in grado di surclassare laterapia farmacologica.

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Il ruolo del glutine nei disturbi comportamentali e motoriVisitai Stuart per la prima volta quando aveva appena compiutoquattro anni. Lo portò al mio centro sua madre, Nancy, che conoscevoda diversi anni; era fisioterapista e aveva curato molti dei nostripazienti. Nancy cominciò con l’espormi le sue preoccupazioniriguardo a Stuart e riferì di non avere notato nulla che non andasse nelfiglio, ma la sua insegnante dell’asilo era convinta che fosseinsolitamente «attivo» e pensava che sarebbe stata una buona ideasottoporlo a una valutazione. Non ero il primo medico a visitarlo. Lasettimana prima di venire da noi, la mamma di Stuart lo aveva portatodal pediatra, il quale aveva annunciato che era affetto da «DDAI» e gliaveva prescritto il Ritalin.

Nancy era preoccupata, e non a torto, all’idea di somministrarequel farmaco al figlio, così decise di prendere in considerazione altreopzioni. Iniziò con lo spiegare che il bambino aveva frequenti accessidi collera e che «quando era frustrato tremava in modo incontrollato».Raccontò che, secondo l’insegnante dell’asilo, Stuart era incapace di«perseverare in un compito», il che mi indusse a chiedermi qualicompiti esigessero totale concentrazione in un bambino di quattroanni.

L’anamnesi di Stuart fu rivelatrice. Aveva sofferto di molte otiti edera stato sottoposto a innumerevoli cicli di antibiotici. Quando lovisitai, stava seguendo una profilassi antibiotica di sei mesi nellasperanza di ridurre il rischio di altre infezioni alle orecchie. Al di là diquesti problemi, però, Stuart lamentava sempre dolori allearticolazioni, tanto che ora assumeva regolarmente anche il Naprosyn,un potente antinfiammatorio. Ipotizzai che non fosse stato allattato alseno e scoprii di avere ragione.

Durante la visita emersero tre fatti degni di nota. Primo: era solitorespirare dalla bocca, un segno inequivocabile di continuainfiammazione delle fosse nasali. Secondo: il suo volto sfoggiava leclassiche «occhiaie da allergia», i cerchi scuri sotto gli occhi correlati aquei disturbi. Terzo: era davvero molto attivo. Non riusciva a stare

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seduto tranquillo per più di dieci secondi, si alzava per esplorare ognicentimetro dell’ambulatorio e strappare la carta che ricopre gran partedei lettini degli studi medici.

La valutazione del nostro laboratorio non fu approfondita.Eseguimmo un semplice test per la sensibilità al glutine misurando illivello di anticorpi antigliadina, una delle proteine del grano. Il livellodi Stuart (e la cosa non mi sorprese) superava del 300% il valoreconsiderato normale dal laboratorio.

Invece di ricorrere a un farmaco per curare i sintomi, decidemmo diprendere di mira la causa dei problemi di questo bambino, ovverol’infiammazione. L’infiammazione svolgeva un ruolo fondamentale inpratica in tutto ciò che accadeva nella fisiologia di questo ragazzino,compresi i suoi problemi alle orecchie e alle articolazioni, el’incapacità di calmarsi.

Spiegai a Nancy che bisognava eliminare il glutine. Inoltre, peraiutare a ristabilire la flora intestinale dopo la prolungata esposizioneagli antibiotici, dovevamo aggiungere al suo regime alcuni batteribenefici, probiotici. Infine, completai l’elenco con l’acido grasso omega3 DHA.

Quello che avvenne dopo seguì un copione da manuale. Trascorsedue settimane e mezzo, i genitori di Stuart ricevettero una telefonatadall’insegnante dell’asilo che li ringraziava per avere deciso disomministrargli la cura farmacologica: la sua condotta era «moltomigliorata». I genitori si accorsero che si era calmato, interagiva di piùe dormiva meglio. La sua trasformazione, però, non era dovuta afarmaci. Fu sufficiente una dieta per permettergli di compiere«grandi» progressi nella salute e nel comportamento.

Due anni e mezzo dopo ricevetti un biglietto da Nancy che diceva:«Abbiamo potuto inserirlo a scuola in una classe dove è il più giovane.È riuscito a eccellere in lettura e matematica e non prevediamoulteriori problemi di iperattività. È cresciuto così in fretta che è unodei bambini più alti della classe».

Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (DDAI) è una dellediagnosi pediatriche più frequenti. I genitori dei bambini iperattivisono indotti a credere che i loro figli abbiano un tipo di malattia che

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limiterà la loro capacità di apprendere. Troppo spesso la classe medicaconvince i genitori che i farmaci sono la migliore «soluzione rapida»:l’idea che il DDAI sia una malattia specifica cui si rimedia senzadifficoltà con una pillola è comoda ma allarmante. In numerose scuoledegli Stati Uniti fino al 25% degli studenti riceve regolarmente potentipsicofarmaci le cui conseguenze a lungo termine non sono mai statestudiate!

Nonostante l’American Psychiatric Association dichiari nel suoDiagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (Manualediagnostico e statistico dei disturbi mentali) che dal 3 al 7% dei bambini inetà scolare è affetto da DDAI, gli studi su campioni di comunità hannofornito stime di percentuali più elevate e i dati dei sondaggi tragenitori raccolti dai Centers for Disease Control and Prevention(Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, o CDC)dipingono un quadro diverso. 1 Secondo nuovi dati CDC pubblicati nelmarzo del 2013, quasi un ragazzo su cinque delle scuole secondarienegli Stati Uniti e l’11% dei bambini in età scolare in generale ha avutouna diagnosi di DDAI. Questo si traduce in una stima di 6,4 milioni dibambini dai quattro ai diciassette anni, che riflette un aumento del16% dal 2007 e del 53% nell’arco di un decennio. 2

Come annunciato dal «New York Times»: «Circa due terzi di tuttele diagnosi attuali sono trattati con stimolanti come il Ritalin ol’Adderall, che possono portare a un netto miglioramento della vitadei soggetti colpiti da DDAI, ma possono anche dare dipendenza, ansiae, talvolta, psicosi». 3 Il potenziale miglioramento ha indottol’American Psychiatric Association a prendere in considerazione unamodifica della sua definizione del DDAI affinché più persone ricevanola diagnosi… e siano curate con dei farmaci. Il dott. Thomas R.Frieden, il direttore dei CDC, ha affermato che la crescente percentualedi prescrizioni di stimolanti ai bambini è come l’abuso di analgesici eantibiotici negli adulti. Sono d’accordo con lui. Jerome Groopman,professore di medicina alla Harvard Medical School e autore di Comepensano i dottori, 4 ha affermato in un’intervista rilasciata al «Times»:«Esiste una spinta molto forte a considerare patologico ilcomportamento ritenuto, tra virgolette, anomalo del bambino – se non

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sta seduto in silenzio al banco – invece di considerarlo solo un aspettodell’infanzia». 5 Cosa significa dunque quando la nostra definizione diinfanzia viene calpestata da diagnosi vaghe come il DDAI?

A prescindere dal notevole aumento nell’uso di medicine percurare questa patologia nel corso dell’ultimo decennio, l’utilizzo diansiolitici è salito alle stelle tra il 2001 e il 2010: nei bambini fino aidiciannove anni ha subito un incremento del 45% nelle femmine e del37% nei maschi. Stando a un rapporto della Express Scripts intitolatoAmerica’s State of Mind (Lo stato mentale dell’America), il numerocomplessivo degli americani che assumono psicofarmaci per trattaredisturbi psicologici e comportamentali ha registrato un sostanzialeaumento dal 2001. Nel 2010, i dati più recenti indicavano che più di unadulto su cinque prendeva almeno un medicinale, fino al 22% in piùrispetto a dieci anni prima. È interessante notare che le donne hannomolte più probabilità degli uomini di prendere una medicina per undisturbo mentale. Nel 2010 più di un quarto della popolazionefemminile adulta assumeva psicofarmaci, a fronte di appena il 15%degli uomini. 6 (I ricercatori di Harvard ipotizzano che ciò sia dovutoa cambiamenti ormonali nelle donne, legati a pubertà, gravidanza emenopausa. Sebbene la depressione possa colpire in ugual misurauomini e donne, di solito le donne tendono a ricorrere più spessoall’aiuto del medico.)

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America’s State of Mind, rapporto di Express Scripts, 2011. Pubblicazioneautorizzata.

L’11% degli americani sopra i dodici anni assume antidepressivi,ma la percentuale aumenta in maniera vertiginosa se si considera ilnumero di donne sulla quarantina e sulla cinquantina cui sono statiprescritti antidepressivi: un colossale 23%.

Per quale motivo, date le percentuali in crescita dei disturbi psichicie comportamentali sempre più spesso trattati con potenti farmaci,nessuno richiama l’attenzione sulle ragioni di fondo di questatendenza? E come possiamo proporre soluzioni che non richiedanofarmaci pericolosi? Da dove nasce il problema? Dalla collosa proteinadel grano: il glutine. Anche se non è ancora stata detta l’ultima parolacirca i legami tra sensibilità al glutine e problemi comportamentali epsicologici, alcuni fatti sono assodati:

le persone colpite da celiachia possono essere più a rischio di

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ritardo nello sviluppo, difficoltà di apprendimento, disturbi da tice DDAI; 7

depressione e ansia sono spesso gravi nei pazienti con sensibilitàal glutine. 8 Questo è dovuto innanzitutto alle citochine, chebloccano la produzione di importanti neurotrasmettitori cerebralicome la serotonina, fondamentale nella regolazione dell’umore.Con l’eliminazione del glutine, e spesso dei latticini, moltipazienti si sono liberati non solo dei loro disturbi dell’umore, madi altre patologie provocate da un sistema immunitario iperattivo,come allergie e artrite;

fino al 45% delle persone che soffrono di disturbi dello spettroautistico (ASD) hanno problemi gastrointestinali. 9 Anche se nontutti i loro sintomi derivano dal morbo celiaco, dai dati emergeuna crescente prevalenza della celiachia nei casi pediatrici diautismo rispetto alla popolazione pediatrica generale.

La buona notizia è che siamo in grado di eliminare molti deisintomi dei disturbi comportamentali, psicologici e neurologici conuna dieta senza glutine e l’aggiunta di integratori come quelli a basedi DHA e probiotici. Per illustrare l’impatto di una ricetta cosìsemplice, che non prevede l’uso di medicine, prendiamo inconsiderazione la storia di KJ, che conobbi più di un decennio fa.All’epoca aveva cinque anni e le era stata diagnosticata la sindrome diTourette, un tipo di disturbo da tic caratterizzato da movimentiimprovvisi, ripetitivi, non ritmici (tic motori) e vocalizzazioni checoinvolgono gruppi muscolari distinti. La scienza non conosce lacausa precisa di questa anomalia neurologica, ma è noto che, comemolti disturbi neuropsichiatrici, ha origini genetiche che possonoessere aggravate da fattori ambientali. A mio avviso, in futuro laricerca confermerà che dietro a molti casi di sindrome di Tourette sinasconde una sensibilità al glutine.

In occasione della prima visita di KJ, sua madre mi spiegò che, perragioni sconosciute, nel corso dell’anno precedente sua figlia avevainiziato a soffrire di contrazioni involontarie dei muscoli del collo. Era

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stata sottoposta a vari tipi di terapie di massaggio e ne aveva trattoqualche giovamento, ma ogni tanto il problema si ripresentava. Allafine, peggiorò fino al manifestarsi di violenti movimenti di mascella,faccia e collo. Inoltre, si schiariva di continuo la voce e produceva varigrugniti. Il suo medico di base aveva diagnosticato la sindrome diTourette.

Durante l’anamnesi annotai che tre anni prima della comparsa deisuoi gravi sintomi neurologici aveva iniziato ad avere attacchi didiarrea e dolori addominali cronici, di cui soffriva ancora. Comepotrete immaginare, la sottoposi a un test per la sensibilità al glutine econfermai che questa povera bambina aveva convissuto con unasensibilità non diagnosticata. Due giorni dopo avere iniziato la dietasenza glutine, tutti i movimenti anomali, gli schiarimenti di voce, igrugniti e perfino il dolore addominale erano scomparsi. A tutt’oggiKJ non ha sintomi e non può più essere considerata una personacolpita da sindrome di Tourette. La sua reazione fu cosìinoppugnabile che spesso presento questo caso quando tengoconferenze per professionisti del settore sanitario.

Attenzione: come testimoniato dalla documentazione scientifica fin daiprimi anni Ottanta, alcuni farmaci utilizzati per trattare il DDAI hannoprovocato casi di sindrome di Tourette permanente. 10 Ora che laricerca ha dimostrato il potente effetto di una dieta senza glutine, ètempo di voltare pagina, anzi, di lasciare un segno nella storia.

Un altro caso che desidero raccontare ci riporta al DDAI. I genitori diKM, una dolce bambina di nove anni, la portarono da me a causa diclassici segni di DDAI e «cattiva memoria». La storia è interessanteperché i suoi genitori descrissero le sue difficoltà di pensiero econcentrazione dicendo che «duravano giorni» e che poi stava «bene»per diversi giorni. Le valutazioni accademiche indicavano capacitàcorrispondenti alla metà della terza classe. Sembrava molto compostae impegnata e, passando in rassegna i suoi vari test di profitto,

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confermai che corrispondevano, in effetti, al livello della terzaelementare, tipico della sua età.

Gli esami di laboratorio misero in luce due potenziali responsabilidelle sue difficoltà: la sensibilità al glutine e livelli ematici di DHAinferiori al normale. Prescrissi una rigorosa dieta senza glutine, 400milligrammi quotidiani di integratore di DHA, e le chiesi diinterrompere il consumo di aspartame e altri dolcificanti artificiali,visto che beveva diverse bibite dietetiche al giorno. Tre mesi dopo,mamma e papà erano elettrizzati dai suoi progressi, e anche KMsorrideva da un orecchio all’altro. Nuovi test scolastici collocavano lesue competenze nel calcolo matematico all’inizio del livello dellaquinta, le competenze scolastiche generali a metà del livello di quartae la capacità di ricordare storie a metà del livello dell’ottava classe.

Riporto una lettera che ricevetti da sua madre:

[KM] sta finendo la terza quest’anno. Prima di eliminare il glutinedalla sua dieta, lo studio, specie della matematica, era una fatica perlei. Come può vedere, ora sta migliorando molto in matematica. Inbase a questo test, iniziando la quarta l’anno prossimo sarebbe tra iprimi della classe. La maestra ha spiegato che se saltasse la quarta eandasse in quinta sarebbe nel gruppo con risultati nella media. Chesuccesso!

Storie come questa non sono una rarità nel mio ambulatorio. È damolto che conosco l’«effetto successo» di una dieta senza glutine, magrazie al cielo le prove scientifiche stanno finalmente aggiungendosialle evidenze aneddotiche. Nel 2006 fu pubblicato uno studio, a mioavviso davvero notevole, che documentava la storia molto illuminantedi persone con DDAI «prima» e «dopo» una dieta senza glutine duratasei mesi. Questo studio mi piace soprattutto perché esamina un ampiospettro di individui – di età compresa tra i tre e i cinquantasette anni –e si avvale di una rispettata scala di valutazione comportamentale peril DDAI, detta Conner Scale Hypescheme. Dopo sei mesi, imiglioramenti erano significativi:

«Nessuna precisa attenzione ai dettagli»: diminuzione del 36%.«Difficoltà a mantenere l’attenzione»: diminuzione del 12%.

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«Non termina il lavoro»: diminuzione del 30%.«Si distrae con facilità»: diminuzione del 46%.«Si lascia spesso sfuggire risposte e citazioni»: diminuzione

dell’11%. 11

Il «punteggio medio» complessivo per i soggetti studiati avevaregistrato un miglioramento del 27%. La mia speranza è che altrepersone si uniscano alla mia crociata e intervengano affinché si possadiventare tutti più sani (e più intelligenti).

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PERCHÉ I PARTI CESAREI AUMENTANO IL RISCHIO DI DDAI

I bambini nati con parto cesareo presentano un maggior rischio di DDAI,ma per quale motivo? L’ipotesi accreditata è che i batteri intestinali sianoimportanti per sostenere la salute dell’intestino e il benessere generaledella persona. Quando un bambino attraversa in modo naturale il canaledel parto, miliardi di salutari batteri gli passano sopra, inoculando utiliprobiotici i cui effetti positivi per la salute dureranno per tutta la vita. Seun bambino nasce con un cesareo perde questa sorta di «doccia» e ciòlo predispone a coliti e, di conseguenza, a un aumento del rischio disensibilità al glutine e DDAI per il futuro. 12

Nuove ricerche stanno offrendo alle mamme una ragione di più perallattare al seno; è infatti stato rilevato che, quando si inizia a introdurrenella loro dieta cibi contenenti glutine, i neonati regolarmente allattati alseno corrono un rischio di diventare celiaci inferiore del 52% rispetto aquelli non allattati al seno. 13 Una delle ragioni potrebbe essere chel’allattamento naturale diminuisce il numero delle infezionigastrointestinali, riducendo il rischio di una compromissione della mucosaintestinale. Anche la risposta immunitaria al glutine potrebbe risultareattenuata.

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È possibile curare l’autismo con una dieta senza glutine?Spesso mi viene chiesto se vi sia un rapporto tra glutine e autismo. Unbambino su 150 nati oggi svilupperà un disturbo dello spettroautistico; nel 2013, un nuovo rapporto del governo indicava che a 1bambino su 50 in età scolare – un milione di bambini circa – era statadiagnosticata una qualche forma di autismo. 14 L’autismo è undisturbo neurologico che di solito si manifesta verso i tre anni einteressa lo sviluppo di competenze sociali e comunicative. Gliscienziati stanno cercando di individuarne le cause precise,probabilmente di carattere sia genetico sia ambientale. Diversi fattoridi rischio sono stati e sono tutt’ora oggetto di studio, compresi quelligenetici, infettivi, metabolici, nutrizionali e ambientali, ma meno del10-12% dei casi ha cause specifiche ben identificabili.

Sappiamo che non esiste una panacea per l’autismo, proprio comenon esiste per la schizofrenia o il disturbo bipolare. Queste malattiedel cervello sono diversissime, ma condividono tutte una caratteristicadi fondo, l’infiammazione, che potrebbe essere in parte il semplicerisultato di una sensibilità a determinati alimenti. Benché questoargomento sia ancora oggetto di discussione, alcune persone chesoffrono di autismo reagiscono in maniera positiva all’eliminazionedalla loro dieta di glutine, zucchero e, talvolta, latticini. In un casoparticolarmente incredibile, un bambino di cinque anni con diagnosidi autismo severo risultò soffrire anche di una grave forma diceliachia che gli impediva di assorbire nutrienti. I suoi sintomiautistici si attenuarono dopo che ebbe smesso di consumare glutine,inducendo i dottori a raccomandare che tutti i bambini con problemidi sviluppo neurologico fossero sottoposti a una valutazione perindividuare eventuali deficit nutrizionali e sindromi damalassorbimento come la celiachia. In alcuni casi, i deficit nutrizionaliche influiscono sul sistema nervoso possono essere la causa originariadi ritardi nello sviluppo che rispecchiano l’autismo. 15

Ammetterò che non abbiamo ancora il tipo di ricerca scientifica in

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grado di rispettare l’elevato standard di riferimento necessario pertracciare collegamenti inequivocabili, ma vale la pena di affrontarel’argomento in generale e accennare ad alcune deduzioni logiche.

Permettetemi di cominciare indicando la tendenza a un aumentoparallelo di autismo e morbo celiaco. Non intendo dire che vi sia uncollegamento categorico, però è interessante rilevare l’analogianell’andamento in termini numerici. Ciò che queste due malattiehanno davvero in comune, invece, è la stessa caratteristicafondamentale: l’infiammazione. La celiachia è un disturboinfiammatorio dell’intestino, l’autismo è un disturbo infiammatoriodel cervello. È ben documentato che gli individui autistici hanno nelloro organismo un livello di citochine infiammatorie superiore allanorma. Anche solo per questa ragione, vale la pena di rifletteresull’opportunità di ridurre tutte le interazioni anticorpo-antigenenell’organismo, comprese quelle riguardanti il glutine.

Uno studio del Regno Unito, pubblicato nel 1999, monitoròventidue bambini autistici che seguivano una dieta senza glutine perun periodo di cinque mesi e registrò una serie di miglioramenticomportamentali. Il fatto più allarmante fu che, quando i bambiniingerivano per errore del glutine dopo avere cominciato la loro dieta,«la velocità con cui il comportamento cambiava di conseguenza … eraimpressionante e fu notata da molti genitori». 16 Inoltre lo studiosegnalò che erano occorsi circa tre mesi affinché i bambini mostrasseroun miglioramento nel loro comportamento. Per qualsiasi genitore chemetta a dieta un figlio è importante non perdere troppo presto lasperanza se non si verificano subito cambiamenti nella condotta: èbene insistere per tre-sei mesi prima di aspettarsi miglioramentievidenti.

Alcuni esperti si sono domandati se gli alimenti contenenti glutinee proteine del latte possano rilasciare composti simili alla morfina(esorfine), che stimolano vari recettori nel cervello e aumentano nonsolo il rischio di autismo, ma anche di schizofrenia. 17 Queste teorierichiedono ulteriori ricerche e approfondimenti, ma forse possiamoridurre il rischio di sviluppare queste patologie e affrontarle meglio.

Nonostante la mancanza di prove documentate, è chiaro che il

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sistema immunitario svolge un ruolo nello sviluppo dell’autismo e chelo stesso sistema immunitario collega la sensibilità al glutine alcervello. E non va dimenticato l’«effetto stratificazione», per cui unproblema biologico apre la porta a un altro, dando il via a una catenadi eventi. Se un bambino è sensibile al glutine, per esempio, la rispostaimmunitaria a livello intestinale può portare a sintomicomportamentali e psicologici, e nell’autismo questo può indurreun’«esacerbazione degli effetti», come ha osservato un’équipe diricercatori. 18

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Uscire dal tunnelÈ un dato di fatto straziante: la depressione è la principale causa didisabilità a livello mondiale. Ed è anche al quarto posto nell’elencoglobale delle malattie. L’Organizzazione Mondiale della Sanità hastimato che entro il 2020 la depressione sarà diventata la secondacausa di sofferenza, seconda solo alla cardiopatia. In molti paesisviluppati, come gli Stati Uniti, figura già tra le prime cause dimortalità. 19

Ancora più inquietante è la massiccia presenza negli armadiettidelle medicine di molti depressi di flaconi di farmaci come Prozac,Paxil, Zoloft e innumerevoli altri cosiddetti antidepressivi. Negli StatiUniti sono di gran lunga il trattamento più diffuso contro ladepressione, anche se in molti casi si sono dimostrati non più efficacidi un placebo e talvolta possono essere molto pericolosi e portareperfino al suicidio. Nuovi studi scientifici stanno iniziando a illustrarefino a che punto questi farmaci possano essere micidiali. Esaminandopiù di 136.000 donne di età compresa tra i cinquanta e i settantanoveanni, alcuni ricercatori di Boston constatarono, per esempio, uninnegabile collegamento tra l’uso di antidepressivi e il rischio di ictuse di morte in generale. Le donne in cura con antidepressivi avevano il45% di probabilità in più di ictus e un aumento del 32% del rischio dimorte a prescindere dalle cause. 20 La conclusione, pubblicata su«Archives of Internal Medicine», proveniva dalla Women’s HealthInitiative, una grande indagine sulla salute pubblica delle donne negliStati Uniti. E non importava se gli antidepressivi usati erano delnuovo tipo, i cosiddetti inibitori selettivi della ricaptazione dellaserotonina (ISRS), o di vecchia generazione, cioè antidepressivi triciclicicome l’Elavil. Gli ISRS sono usati di norma come antidepressivi, mapossono essere prescritti anche per curare disturbi dell’ansia e alcunidisturbi della personalità. Funzionano impedendo al cervello diriassorbire il neurotrasmettitore serotonina: alterando l’equilibrio

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della serotonina nel cervello, i neuroni trasmettono e ricevono meglio imessaggi chimici, il che a sua volta migliora l’umore.

Gli studi destano preoccupazione e si è giunti a un punto di svolta:alcune grandi società farmaceutiche stanno prendendo le distanzedallo sviluppo di antidepressivi (anche se questo settore, con i suoiquasi quindici miliardi di dollari all’anno, è ancora molto redditizio).Come si leggeva di recente sul «Journal of the American MedicalAssociation»: «L’entità del beneficio dei farmaci antidepressivirispetto ai placebo è proporzionale alla gravità dei sintomi delladepressione, e in media, in pazienti con sintomi lievi o moderati, puòessere minimo o inesistente». 21

Questo non vuol dire che in alcuni casi gravi determinati farmacinon siano di aiuto, ma le implicazioni sono assai significative.Passiamo brevemente in rassegna alcuni dati interessanti cheindurranno chiunque pensi di assumere un antidepressivo a tentareun’altra strada verso la felicità.

GIÙ DI MORALE E CON IL COLESTEROLO BASSOHo già esposto la mia tesi a favore del colesterolo come nutrimentoper il cervello. A quanto pare, innumerevoli studi hanno dimostratoche la depressione è molto più intensa nei soggetti con bassi livelli dicolesterolo. 22 E le persone che cominciano ad assumere farmaci perridurre il colesterolo (cioè statine) possono diventare molto piùdepresse. 23 Ho avuto occasione di osservarlo io stesso nel mioambulatorio. Non è chiaro se la depressione sia una direttaconseguenza del principio attivo o se sia solo un corollario del livelloinferiore del colesterolo (spiegazione per la quale propendo).

Studi risalenti a più di un decennio fa hanno evidenziato un legametra basso colesterolo totale e depressione, per non parlare dicomportamenti impulsivi come suicidio e violenza.

Nel 2011 James M. Greenblatt, psichiatra specializzato nella cura dibambini e di adulti e autore di The Breakthrough Depression Solution (Lasoluzione innovativa della depressione), scrisse un bell’articolo per«Psychology Today» in cui sintetizzava le evidenze. 24 Nel 1993 fu

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rilevato che gli anziani di sesso maschile con il colesterolo bassocorrevano un rischio di depressione superiore del 300% rispetto alleloro controparti con il colesterolo più elevato. 25 Uno studio svedesedel 1997 individuò uno schema analogo: fra trecento donne per il restosane, di età compresa fra i trentuno e i sessantacinque anni, il 10% conlivelli di colesterolo inferiori presentava sintomi depressivi molto piùimportanti rispetto alle altre partecipanti con livelli di colesterolo piùelevati. 26 Nel 2000 alcuni scienziati dei Paesi Bassi annunciarono che,a lungo termine, gli uomini con livelli di colesterolo totale bassiriscontravano più sintomi depressivi di quelli con livelli di colesterolopiù elevati. 27 In un rapporto del 2008 pubblicato sul «Journal ofClinical Psychiatry» si leggeva: «Un colesterolo serico basso puòessere associato con un’anamnesi di tentato suicidio». 28 I ricercatoriesaminarono un gruppo di 417 pazienti che avevano tentato il suicidio– 138 uomini e 279 donne – e li confrontarono con 155 pazientipsichiatrici che non lo avevano tentato e con 358 pazienti sani. Lostudio definiva «basso» il colesterolo serico inferiore a 160. I risultatifurono impressionanti: le probabilità di avere tentato il suicidio eranosuperiori del 200% per gli individui appartenenti alla categoria delcolesterolo basso. Nel 2009, infine, il «Journal of Psychiatric Research»pubblicò uno studio che aveva seguito per quindici anni quasiquattromilacinquecento veterani statunitensi. 29 Gli uomini depressicon bassi livelli di colesterolo totale affrontavano un rischio di morteprematura per cause non naturali (come suicidio e incidenti) settevolte superiore a quello degli altri partecipanti allo studio. Come giàosservato, è dimostrato da tempo che le persone con un basso livellodi colesterolo totale sono più inclini a tentare il suicidio.

Potrei proseguire e presentare studi di tutto il mondo che giungonoalla stessa conclusione sia per gli uomini sia per le donne: alcolesterolo basso corrisponde un rischio molto più elevato disviluppare la depressione. Più è basso, più si è a un passodall’insorgere di pensieri suicidi. Non lo dico con superficialità, ormaiabbiamo prove della gravità di questo rapporto causa-effettodocumentate da molte istituzioni prestigiose. Questo nesso è bendocumentato anche nel campo del disturbo bipolare. 30 I pazienti con

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disturbo bipolare hanno una maggior tendenza a tentare il suicidio sehanno il colesterolo basso.

LA MELANCONIA DEL GLUTINEGli studi scientifici osservano da tempo una sovrapposizione tramorbo celiaco e depressione, molto simile alla sovrapposizione traceliachia e DDAI e altri disturbi comportamentali. Notizie didepressione in pazienti celiaci iniziarono a essere pubblicate neglianni Ottanta. Nel 1982 alcuni ricercatori svedesi riferirono che «lapsicopatologia depressiva è una caratteristica del morbo celiaco negliadulti». 31 Uno studio del 1998 stabilì che circa un terzo dei celiacisoffre anche di depressione. 32

Nel 2007 fu pubblicato uno studio di particolare importanza; sitrattava di nuovo di ricercatori svedesi, che valutavano quasiquattordicimila pazienti celiaci e li confrontavano con più disessantaseimila soggetti sani. 33 Volevano conoscere il rischio didepressione di un paziente celiaco e il rischio di celiachia di unpaziente depresso. Risultò che la possibilità per i celiaci di incorrere inuna depressione era più elevata dell’80% e che la minaccia diun’effettiva diagnosi di celiachia negli individui depressi registravaun incremento del 230%. Nel 2011, un’altra indagine svedese riscontròche tra i malati di celiachia il rischio di suicidio era superiore del55%. 34 Un altro studio eseguito da un’équipe di ricercatori italianiconstatò che il morbo celiaco innalza il rischio di depressione di unincredibile 270%. 35

Oggi la depressione colpisce fino al 52% degli individui sensibili alglutine. 36 Anche gli adolescenti sensibili al glutine sono esposti ad altitassi di depressione; quelli celiaci denotano particolare vulnerabilità,con un rischio di depressione del 31% (a fronte di appena il 7% degliadolescenti sani). 37

A questo punto si pone una domanda logica: qual è il rapporto tradepressione e danni all’intestino? Una volta che la mucosa intestinaleè lesa dal morbo celiaco, essa non riesce più ad assorbire in modoefficace nutrienti essenziali, molti dei quali mantengono sano il

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cervello, per esempio lo zinco, il triptofano e le vitamine B. Questinutrienti sono elementi necessari nella produzione di mediatorichimici come la serotonina. Inoltre, la grande maggioranza degliormoni e delle sostanze chimiche del buon umore viene prodottanell’area intestinale da quello che gli scienziati chiamano ormai il«secondo cervello». 38 Le cellule nervose nell’intestino non soloregolano muscoli, immunociti e ormoni, ma fabbricano anche circal’80-90% della serotonina del corpo. In realtà, il «cervello intestinale»produce più serotonina di quello situato nel cranio.

I deficit nutrizionali di vitamina D e zinco risultano i più critici traquelli collegati alla depressione. Conoscete già l’importanza dellavitamina D in diversi processi fisiologici, inclusa la regolazionedell’umore. Anche lo zinco è importante per la meccanica del corpo:oltre ad aiutare il sistema immunitario e mantenere la memoriapronta, è richiesto nella produzione e nell’uso dei neurotrasmettitoriche favoriscono il buon umore. Questo aiuta a spiegare perchél’integrazione di zinco potenzi gli effetti degli antidepressivi nellepersone con depressione maggiore (esempio calzante: da uno studiodel 2009 emerse che persone che in passato non erano state aiutatedagli antidepressivi riferivano infine dei miglioramenti dopo averecominciato ad assumere un integratore di zinco). 39 James Greenblatt,che ho già citato, ha scritto molto sull’argomento, e, come me, vedemolti pazienti cui gli antidepressivi non hanno giovato. Quandoquesti pazienti evitano gli alimenti contenenti glutine, i loro sintomipsicologici si risolvono. In un altro articolo per «Psychology Today»,Greenblatt scrive: «Il morbo celiaco non diagnosticato può esacerbaresintomi di depressione o anche esserne la causa principale. I pazienticon depressione dovrebbero essere sottoposti a esami per individuareeventuali deficit nutrizionali. Chissà, forse la diagnosi corretta èceliachia e non depressione». 40 Molti medici ignorano i deficitnutrizionali e non pensano a effettuare test per la sensibilità al glutineperché sono abituati (e si sentono più tranquilli) a prescrivere farmaci.

È importante segnalare che un elemento comune a molti di questistudi è il lasso di tempo necessario a cambiare la situazione nelcervello. Come per altri disturbi comportamentali, per esempio DDAI e

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disturbo d’ansia, possono occorrere almeno tre mesi affinché i soggettiprovino un vero senso di sollievo. Una volta adottata una dieta senzaglutine, è fondamentale seguirla con coerenza. Non perdete lasperanza se non ottenete subito miglioramenti significativi: rendeteviconto che, con ogni probabilità, sperimenterete un nettomiglioramento sotto diversi aspetti. Mi capitò di curare un istruttoredi tennis professionista che era paralizzato dalla depressione, enonostante l’uso di diversi antidepressivi prescritti da altri dottori nonmigliorava. Quando gli diagnosticai la sensibilità al glutine eintraprese la dieta appropriata, ne fu come trasformato: i sintomidepressivi scomparvero e tornò alle sue massime prestazioni incampo.

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Stabilità psichica attraverso la dietaTutti questi discorsi sull’insidioso legame tra glutine e disturbipsicologici comuni spingono senza dubbio a interrogarsi sul ruolo delglutine in qualsiasi disturbo che riguardi la mente, dal più diffuso inAmerica, l’ansia – che tocca circa quaranta milioni di adulti –, apatologie complesse come la schizofrenia e il disturbo bipolare.

Cosa dice la scienza in merito al glutine e al suo rapporto con lenostre malattie mentali più misteriose? Sono patologie complicate cheimplicano fattori genetici e ambientali, ma diversi studi dimostranoche spesso coloro che ne soffrono sono anche sensibili al glutine. E sehanno un’anamnesi di celiachia, il rischio di sviluppare questi disturbipsichiatrici è molto più elevato della norma. Oltretutto, disponiamoormai di prove documentate che le madri sensibili al glutine mettonoal mondo figli con un rischio di schizofrenia superiore di quasi il 50%.

Lo studio, pubblicato nel 2012 sull’«American Journal ofPsychiatry», si aggiunge a un crescente corpus di prove del fatto chemolte delle malattie che si manifestano nel corso della vita hannoorigine prima o appena dopo la nascita. Gli autori dello studio, cheprovengono dalla Johns Hopkins e dall’università svedese dimedicina Karolinska Institutet, una delle più grandi e prestigiosed’Europa, hanno saputo esprimere i fatti con grande chiarezza:

Stile di vita e geni non sono gli unici fattori a plasmare il rischio dipatologie; fattori ed esposizioni prima, durante e dopo la nascitapossono contribuire a preprogrammare una buona parte dellanostra salute da adulti. Il nostro studio è un esempio esplicativo esuggerisce che una sensibilità alimentare prima della nascitapotrebbe essere un catalizzatore nello sviluppo della schizofrenia odi una malattia analoga venticinque anni dopo. 41

Se vi state chiedendo come siano potuti arrivare a questocollegamento, vi basterà dare un’occhiata ai dettagli delle loro analisi,che attingevano agli atti di nascita e ai campioni di sangue neonatali

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di bambini nati in Svezia tra il 1975 e il 1985. Circa 211 dei 764 bimbiesaminati svilupparono in seguito disturbi psichici caratterizzati daun significativo squilibrio della personalità e da una perdita dicontatto con la realtà. L’équipe misurò i livelli di anticorpi IgG perlatte e grano nei campioni di sangue e risultò che «i bambini nati damadri con livelli di anticorpi elevati in modo anomalo contro laproteina del grano, il glutine, avevano un rischio di sviluppare laschizofrenia nel corso della vita superiore di quasi il 50% rispetto aibambini nati da madri con normali livelli di anticorpi contro ilglutine». 42 Questa associazione rimase vera anche dopo che gliscienziati esclusero altri fattori noti per incrementare il rischio disviluppare schizofrenia, come l’età della madre durante la gravidanzae l’eventualità che il figlio fosse nato con parto vaginale o cesareo (inlinea di massima, i fattori genetici e gli impatti ambientali in uteroinfluiscono sul rischio di schizofrenia molto più dei fattori ambientaliincontrati più avanti nella vita). Tuttavia, i bambini nati da madri conlivelli di anticorpi contro la proteina del latte elevati in modo anomalonon sembravano incorrere in un maggior rischio di disturbipsichiatrici.

Gli autori aggiunsero al loro articolo anche un’interessante notastorica. Fu solo nella Seconda guerra mondiale che sorse il sospetto diun legame tra disturbi psichiatrici e sensibilità alimentare materna. Ildott. F. Curtis Dohan, ricercatore dell’esercito degli Stati Uniti, fu tra iprimi scienziati a rilevare un nesso tra la scarsità di cibo nell’Europadel dopoguerra (e, di conseguenza, una mancanza di grano nelladieta) e la netta diminuzione di ospedalizzazioni per schizofrenia.Anche se all’epoca quest’osservazione non poteva costituire unaprova di tale associazione, nel frattempo abbiamo avuto il beneficio distudi a lungo termine e di tecnologie moderne per verificare laresponsabilità del glutine.

Alcuni studi hanno mostrato altresì che una dieta povera dicarboidrati e ricca di grassi, proprio come quella che illustro nelcapitolo VII, può alleviare non solo i sintomi della depressione, maanche della schizofrenia. Nel caso di una donna citata in letteraturacon le iniziali CD, i sintomi di schizofrenia scomparvero del tutto dopo

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l’adozione di una dieta senza glutine e povera di carboidrati. 43 Lapaziente ebbe la prima diagnosi all’età di diciassette anni e soffrì pertutta la vita di paranoia, pensiero disorganizzato e allucinazioniquotidiane. Prima di adottare, all’età di settant’anni, una dieta poveradi carboidrati, era stata più volte ricoverata in ospedale per tentativi disuicidio e aumento dei sintomi psicotici. Le medicine non alleviavanoi suoi sintomi. Già nella prima settimana della nuova dieta, CD riferì disentirsi meglio e di avere più energie. E dopo tre settimane nonsentiva più voci né «vedeva scheletri». Nel corso dell’anno, CD persepeso e le sue allucinazioni non tornarono più, neppure quando, unavolta ogni tanto, trasgrediva e mangiava un po’ di pasta, di pane o ditorta.

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Un rimedio per il comune mal di testa?Non riesco a immaginare come sarebbe soffrire di mal di testa tutti igiorni, ma ho curato molti pazienti che hanno sopportato il peso diquesto tipo di sofferenza per tutta la vita. Prendiamo, per esempio, unsignore di sessantasei anni che incontrai per la prima volta nelgennaio del 2012. Lo chiamerò Cliff.

Cliff viveva da trenta lunghi anni con un mal di testa incessante emerita una medaglia d’oro per avere fatto del suo meglio pereliminare il dolore. Fra i suoi tentativi annoverava una litania difarmaci: da quelli concepiti per le emicranie, come l’Imitrex, agliantidolorifici narcotici come il Vicodin, prescritti dopo consultazionicon famose cliniche specializzate. Invano. Oltre a essere inefficaci,scoprì che molti di questi farmaci lo rallentavano in manierasignificativa. Pur accennando al fatto che pensava vi fosse un rapportotra i suoi mal di testa e l’alimentazione, Cliff non sapeva dire se fossesempre così. Nulla nella sua anamnesi mi colpì in modo particolare,ma quando parlammo della sua famiglia disse che anche sua sorellasoffriva di continui mal di testa e di notevoli intolleranze alimentari.Questo dato mi indusse a un’ulteriore piccola indagine. Appresi cheCliff aveva una storia ventennale di rigidità muscolare, e che suasorella era portatrice di un particolare anticorpo legato alla sensibilitàal glutine e associato pure alla cosiddetta «sindrome della personarigida».

Quando controllai gli esami del sangue di Cliff per verificare lasensibilità al glutine, alcune cose risultarono evidenti. Era moltoreattivo a undici proteine in relazione con il glutine. Come sua sorella,denotava una forte reazione all’anticorpo associato alla sindrome dellapersona rigida. Mi accorsi anche che era piuttosto sensibile al lattevaccino. Come faccio spesso con i miei pazienti, gli prescrissi unadieta che limitava glutine e latticini. Dopo tre mesi, mi disse che nonaveva avuto alcun bisogno di Vicodin nelle settimane precedenti. Suuna scala di valutazione del dolore da 1 a 10, il suo peggior mal ditesta era ora un sopportabile 5 e non più un clamoroso 9. La cosa

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migliore, però, era che quei mal di testa non si protraevano più pertutta la giornata, duravano solo tre o quattro ore. Anche se non eracompletamente guarito, il sollievo era grande e così pure lasoddisfazione. Era così contento dei risultati ottenuti che mi autorizzòa usare la sua fotografia per la presentazione del suo caso, orapubblicato, agli operatori sanitari.

Molti altri pazienti varcano la porta del mio studio per poi liberarsidal mal di testa grazie all’adozione di una dieta senza glutine. Unadonna con un problema analogo si era rivolta a un numero infinito didottori, aveva tentato molteplici farmaci soggetti a prescrizionemedica e si era sottoposta a sofisticate risonanze magnetiche alcervello. Non aveva funzionato nulla, fino all’incontro con me e allaprescrizione di un test per la sensibilità al glutine. A un tratto il suomale aveva un nome (e anche una cura).

I mal di testa sono una delle malattie più diffuse: soltanto negliStati Uniti soffrono di mal di testa cronici più di quarantacinquemilioni di persone. Tra queste, ventotto milioni soffrono diemicranie. 44 È incredibile: la medicina del XXI secolo continua aconcentrarsi sulla cura dei sintomi di quello che spesso è un problemadel tutto evitabile. Se soffrite di mal di testa cronico, perché nontentare una dieta senza glutine? Non avete nulla da perdere.

DUE PAROLE SUI GRANDI MAL DI TESTAAi fini di questo discorso raggrupperò tutti i tipi di mal di testa inun’unica categoria. Perciò, che si tratti di mal di testa dovuti atensione, cefalee a grappolo, cefalee da sinusite o emicranie, miriferirò in generale ai mal di testa come a un insieme di disturbi checondividono la stessa caratteristica: dolore al capo dovuto adalterazioni fisiche e biochimiche nel cervello. Per la cronaca, leemicranie tendono a essere il tipo più doloroso e sono spessoaccompagnate da nausea, vomito e sensibilità alla luce. Ma un mal ditesta è un mal di testa e, se ne avete uno, la vostra principale prioritàsarà trovare una soluzione. Ogni tanto, tuttavia, farò riferimento inmaniera specifica alle emicranie.

Un mal di testa può essere scatenato da un infinito numero di

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fattori, dall’avere dormito male la notte a cambiamenti meteorologici,sostanze chimiche presenti negli alimenti, congestione sinusale,trauma cranico, tumori al cervello o eccesso di alcol. I meccanismibiochimici dei mal di testa, e in particolare delle emicranie, sonooggetto di attenti studi, ma oggi ne sappiamo molto più che inpassato. E per coloro che ne soffrono senza riuscire a individuare unacausa precisa (e di conseguenza una possibile soluzione), la miaipotesi è che nove volte su dieci quella causa potrebbe essere unasensibilità al glutine non diagnosticata.

Nel 2012, alcuni ricercatori del Columbia University MedicalCenter di New York portarono a termine uno studio di un anno chedocumentava mal di testa cronici nel 56% delle persone sensibili alglutine e nel 30% di quelle colpite dal morbo celiaco (quelleclassificate come sensibili al glutine non erano risultate positive al testper la celiachia, ma ne riferivano i sintomi quando consumavanoalimenti contenenti grano). 45 Inoltre, fu riscontrato che il 23% deipartecipanti con malattie infiammatorie croniche intestinali avevanoanche mal di testa cronici. Quando i ricercatori accertarono laprevalenza delle emicranie, scoprirono percentuali molto più elevatedi soggetti che ne soffrivano nel gruppo dei celiaci (21%) e nel gruppocon malattie infiammatorie croniche intestinali (14%) rispetto algruppo di controllo (6%). Quando le fu chiesto di spiegare questaconnessione, la dott.ssa Alexandra Dimitrova, responsabile dellaricerca, rimandò al principale colpevole: l’infiammazione. Per citare lesue parole:

È possibile che i pazienti che soffrono [di malattie infiammatoriecroniche intestinali] abbiano una risposta infiammatoriageneralizzata, e la situazione può essere simile nei pazienti celiaci,nei quali l’infiammazione coinvolge il corpo intero, incluso ilcervello. … L’altra possibilità è che, associati al morbo celiaco, visiano anticorpi che possono … attaccare le cellule cerebrali e lemembrane che rivestono il sistema nervoso, provocando in qualchemodo i mal di testa. Quello che abbiamo appurato è una maggioreprevalenza di mal di testa di ogni sorta, emicranie incluse, inconfronto ai soggetti sani del gruppo di controllo. 46

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La dottoressa proseguiva poi dichiarando che, dopo avere adottatouna dieta senza glutine, molti dei suoi pazienti riferiscono notevolimiglioramenti in relazione a frequenza e gravità dei mal di testa; inalcuni casi i dolori scompaiono del tutto.

Marios Hadjivassiliou, da me citato a più riprese in questo libro, haeseguito studi approfonditi su mal di testa e sensibilità al glutine. 47

Fra i suoi lavori più pregevoli figurano le risonanze cerebrali chemostrano profonde alterazioni nella materia bianca dei pazienti conmal di testa e sensibilità al glutine: le anomalie sono indicative delprocesso infiammatorio. Per la maggioranza di questi pazienti lenormali cure farmacologiche per il mal di testa non funzionavano, mala sofferenza venne meno quando adottarono una dieta senza glutine.

Il dott. Alessio Fasano, a capo del Center for Celiac Research alMassachusetts General Hospital, è un gastroenterologo pediatrico difama mondiale e un ricercatore all’avanguardia nel campo dellasensibilità al glutine. 48 Quando lo incontrai a una conferenzanazionale sull’argomento, a cui partecipavamo entrambi come oratori,mi disse che per lui non era più una novità che i pazienti sensibili alglutine, compresi quelli celiaci, soffrissero spesso di mal di testa.Fummo concordi nel ritenere un peccato che questo tipo di disturbodovuto al glutine sia spesso male interpretato. Il rimedio è semplice,ma poche delle persone che ne soffrono sanno di essere sensibili alglutine.

In una sperimentazione condotta da ricercatori italiani, ottantottobambini celiaci con mal di testa cronici provarono una dieta senzaglutine. Il 77,3% di essi rilevò un notevole miglioramento, e tra questiil 27,3% non lamentava più alcun mal di testa se perseverava nelladieta. Lo studio dimostrò altresì che il 5% dei bambini con mal di testacui in precedenza non era stata diagnosticata la celiachia soffriva, inrealtà, di questa malattia; una percentuale molto superiore allo 0,6%documentato dai ricercatori nell’insieme della popolazione infantilestudiata. Di conseguenza, il rischio di mal di testa nel gruppo celiacoera aumentato dell’833%. Gli autori conclusero: «Nella nostra areageografica abbiamo registrato un’elevata frequenza di mal di testa inpazienti con morbo celiaco e, viceversa, l’effetto positivo di una dieta

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senza glutine. Lo screening per la celiachia potrebbe essereconsigliabile nel check up diagnostico di pazienti che soffrono di maldi testa». 49

La prevalenza dell’emicrania nella popolazione pediatrica è inaumento. Prima dell’inizio della pubertà, l’emicrania colpisce in ugualmisura maschi e femmine. In seguito, le femmine superano i maschi inun rapporto di circa tre a uno. I bambini che soffrono di emicraniahanno un rischio pari al 50-75% di incorrere in questo problema ancheda adulti. Nell’80% dei casi il disturbo è ereditario. Le emicranie infantilirappresentano la terza causa di assenza da scuola. 50

È una coincidenza che tanti di questi bambini colpiti da mal di testacronici risultino anche molto sensibili al glutine? Ed è un caso fortuitoche eliminare il glutine dalla loro dieta faccia scomparire come permagia i loro mal di testa? No e ancora no. Purtroppo, molti bambininon vengono mai sottoposti al test per la sensibilità al glutine, mentrenon si esita a prescrivere loro farmaci potenti. L’approccio standardalla cura del mal di testa nei bambini prevede l’uso di antinfiammatorinon steroidei, composti contenenti aspirina, triptani, alcaloidi dellasegale cornuta e dopamino-antagonisti. Tra i farmaci usati perprevenire i mal di testa sono da annoverare antidepressivi triciclici,diversi anticonvulsivanti (incluso il sodio divalproato) e, più direcente, topiramato, agenti antiserotoninergici, betabloccanti,calcioantagonisti e antinfiammatori non steroidei. Il topiramato, cheviene usato per trattare l’epilessia, ha terribili effetti collaterali cheallarmerebbero qualsiasi genitore e sarebbero penosi per un bambino:perdita di peso, anoressia, dolori addominali, difficoltà diconcentrazione, sedazione e parestesia (la sensazione di «aghi e spilli»o di un arto «che si addormenta»). 51 Non so voi, ma io non vorrei chemio figlio li provasse, anche in modo temporaneo, per tenere a badaun mal di testa che non ha nulla a che fare con quello per cui ilfarmaco è stato studiato. In generale, in base a numerosi studi emersi

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negli ultimi anni gli anticonvulsivanti non alleviano i mal di testa neibambini più di quanto fa un placebo. 52 Eminenti ricercatorispecializzati in questo campo hanno anzi insistito sulla necessità dieffettuare ulteriori studi sui bambini, perché pochi farmaci si sonodimostrati utili, efficaci e sicuri. Concentrarsi sui farmaci invece chesulle scelte alimentari e l’integrazione nutrizionale impedisce,purtroppo, di affrontare la causa principale del mal di testa.

UNA PANCIA GRANDE FAVORISCE UN GRAN MAL DI TESTASapete già che il grasso addominale è il peggiore e che aumenta ilrischio di diversi problemi di salute (patologie cardiache, diabete edemenza, solo per citarne alcuni). La gente, tuttavia, non pensa alnesso tra l’aumento del proprio rischio di mal di testa e lacirconferenza addominale. Sorpresa: il girovita è un indicatoredell’attività delle emicranie più affidabile dell’obesità generale, sianegli uomini sia nelle donne fino all’età di cinquantacinque anni.Negli ultimi anni siamo stati in grado di dimostrare scientificamentequanto questo nesso sia forte, anche grazie al lavoro dei ricercatori delDrexel University College of Medicine di Philadelphia, che hannoanalizzato i dati accumulati su oltre ventiduemila partecipanti alprogramma, tutt’ora in corso, di indagine nazionale sulla salute e sullanutrizione (National Health and Nutrition Examination Survey oNHANES). 53 I dati comprendevano un patrimonio di prezioseinformazioni da esaminare, dai calcoli dell’obesità addominale (lamisura della circonferenza della vita) e dell’obesità generale (stabilitamediante l’indice di massa corporea) alle segnalazioni sulla frequenzadi mal di testa ed emicranie. Anche dopo avere controllato l’obesitàgenerale, i ricercatori stabilirono che sia per gli uomini sia per ledonne di età compresa tra i venti e i cinquantacinque anni (la fascia dietà in cui l’emicrania è più diffusa) il grasso addominale in eccesso eraassociato a un aumento significativo dell’attività dell’emicrania. Ledonne con grasso addominale in eccesso avevano il 30% di probabilitàin più di soffrire di emicranie rispetto alle altre. Questo rimaneva veroanche quando i ricercatori tenevano conto di obesità generale, fattoridi rischio per patologie cardiache e caratteristiche demografiche.

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Molti altri studi evidenziano il nesso irriducibile tra obesità erischio di mal di testa cronici. 54 Uno studio molto ampio, pubblicatonel 2006, prese in esame oltre trentamila persone constatando che imal di testa cronici quotidiani ricorrevano con una frequenzasuperiore del 28% nel gruppo degli obesi rispetto ai soggetti dicontrollo normopeso. Per chi era patologicamente obeso l’aumento delrischio di mal di testa cronico quotidiano era pari al 74%. Quando iricercatori esaminarono più da vicino coloro che soffrivano diemicranie in particolare, verificarono un rischio più elevato del 40%per le persone in sovrappeso e del 70% per gli obesi. 55

Arrivati a questo punto del libro sapete ormai che il grasso è unpotente organo ormonale, un sistema in grado di generare compostipro-infiammatori. Le cellule adipose secernono una quantità enormedi citochine che danno luogo a cascate infiammatorie. I mal di testasono, in fondo, manifestazioni di un’infiammazione, proprio come lamaggior parte delle altre patologie relative al cervello di cui ci siamooccupati.

È comprensibile, dunque, che gli studi che esaminano il rapportotra i fattori legati allo stile di vita (per esempio essere sovrappeso,avere una scarsa attività fisica e fumare) e i mal di testa ricorrenticolleghino questi ultimi e il grasso addominale. Pochi anni fa, inNorvegia, alcuni ricercatori intervistarono 5847 studenti adolescenti inmerito ai loro mal di testa, fecero compilare loro un esaurientequestionario sulle abitudini e stili di vita e li sottoposero a un esameclinico. 56 Quelli che affermavano di impegnarsi in una regolareattività fisica e di non essere fumatori furono classificati come aventiuno stile di vita sano. Questi studenti furono messi a confronto conquelli considerati meno sani a causa di una o più abitudini negative.

I risultati? I giovani in sovrappeso avevano il 40% di probabilità inpiù di soffrire di mal di testa; il rischio aumentava del 20% per coloroche non facevano molto esercizio e del 50% per i fumatori. Questepercentuali, tuttavia, si sommavano quando uno studente selezionavapiù di un fattore di rischio. Se uno studente era in sovrappeso, fumavae non faceva esercizio fisico, il suo rischio di mal di testa cronico eramolto più elevato. E anche questo studio puntava il dito contro

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l’infiammazione e il suo effetto di alimentare questa sorta di tempestadi fuoco.

Più grossa è la pancia, maggiore sarà il rischio di mal di testa. Èraro pensare al nostro stile di vita e alla nostra alimentazione quandoci viene un mal di testa: tendiamo a ricorrere ai farmaci e ad aspettarel’arrivo del prossimo. Finora, tuttavia, ogni ricerca mostra la grandeimportanza dello stile di vita per controllare, curare e guarire in mododefinitivo i mal di testa. Se riuscite a ridurre le fonti di infiammazione(perdere il peso in eccesso, eliminare il glutine, ridurre l’apporto dicarboidrati, aumentare quello dei grassi buoni e mantenere un sanoequilibrio glicemico), potrete colpire i mal di testa e tenerli sottocontrollo.

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LA RICETTA PER LIBERARSI DAL MAL DI TESTA

Un mal di testa può essere scatenato da numerosi fattori. Non mi èpossibile elencare tutti i potenziali responsabili, ma posso offrire alcunisuggerimenti per porre fine a questa sofferenza:

rispettare un ciclo sonno-veglia molto rigoroso. È fondamentale per laregolazione ormonale del corpo e per il mantenimento dell’omeostasi, lostato di equilibrio fisiologico preferito dal corpo.Perdere peso. Più pesate, maggiore sarà la probabilità che soffriate dimal di testa.Essere attivi. La sedentarietà alimenta l’infiammazione.Moderare il consumo di alcol e di caffeina. Ciascuna di queste sostanze,se assunta in quantità eccessive, può provocare un mal di testa.Non saltare i pasti e seguire abitudini alimentari regolari. Come per ilsonno, i ritmi dell’alimentazione controllano molti processi ormonali chepossono influire sul rischio di mal di testa.Tenere sotto controllo stress emotivi, ansia, preoccupazione e ancheeccitazione. Queste emozioni sono fra le cause scatenanti più diffuse delmal di testa. In generale, chi soffre di emicrania è sensibile agli eventistressanti, che inducono il rilascio nel cervello di determinate sostanzechimiche in grado di provocare alterazioni vascolari e causareun’emicrania. Aggiungendo il danno alla beffa, emozioni come l’ansia ela preoccupazione possono aumentare la tensione muscolare e dilatare ivasi sanguigni, intensificando la gravità dell’emicrania.Non consumare glutine, conservanti, additivi e alimenti industriali. Ladieta a basso contenuto di zuccheri e di carboidrati e ricca di grassi sanidescritta nel capitolo XI contribuirà molto a ridurre il vostro rischio di maldi testa. State attenti soprattutto al formaggio stagionato, agli affettati ealle fonti di glutammato monosodico (MSG, di solito presente nel cibocinese), che possono arrivare a scatenare fino al 30% delle emicranie.Seguite l’andamento dei vostri mal di testa e individuate eventualischemi. È utile sapere quando il rischio di un mal di testa sia maggiore,così in queste occasioni sarà possibile prestare particolare attenzione.Le donne, per esempio, riescono spesso a individuare schemi in base alciclo mestruale. Riuscire a definire queste dinamiche consente dicomprendere meglio il proprio mal di testa e agire di conseguenza.

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L’idea che attraverso la dieta possiamo curare – e in alcuni casieliminare del tutto – disturbi neurologici diffusi è una fonte di poteree di responsabilità. La maggioranza delle persone ricorre subito aifarmaci in cerca di una soluzione, dimenticando che esiste una curache richiede solo qualche cambiamento molto pratico e assolutamentegratuito nello stile di vita. A seconda delle circostanze, alcuni dei mieipazienti hanno bisogno di maggior supporto a breve termine pertenere sotto controllo determinati disturbi. Può trattarsi dipsicoterapia o anche dell’assunzione di integratori. Nel complesso,tuttavia, molti di essi rispondono in modo positivo a una semplicebonifica della loro dieta e all’eliminazione dalle loro vite dicomponenti che, alla lettera, logorano i nervi. E quelli che hannobisogno di un aiuto medico supplementare alla fine scoprono spessodi potere sospendere i prodotti farmaceutici e dare il benvenuto allegratificazioni di una vita senza medicine. Tenete presente che, anchescegliendo di seguire le raccomandazioni di questo libro solo perquanto concerne l’eliminazione del glutine e dei carboidrati raffinati,sperimenterete profondi effetti positivi al di là di quelli descritti inquesto capitolo. Il vostro umore migliorerà, in poche settimanevedrete calare il vostro peso e sarete pieni di energie. Le innatecapacità di guarigione del vostro corpo raggiungeranno il culmine ecosì pure la vostra funzionalità cerebrale.

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Parte II

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RIABILITARE IL CERVELLO

Ora che avete un quadro generale degli effetti dei cereali – o, permeglio dire, di tutti i carboidrati – sul cervello, è tempo di passare aimodi per favorire la salute e il funzionamento ideale di quest’organo.Questa parte del libro prende in esame tre abitudini fondamentali:dieta, esercizio fisico e sonno. Ciascuno di questi elementi svolge unruolo significativo nell’eventualità che il cervello prosperi oppurecominci a vacillare. E con le lezioni esposte di seguito sarete pronti amettere in pratica il protocollo di quattro settimane delineato nellaterza parte.

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Capitolo VII

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Le abitudini alimentari ottimali per il cervelloDigiuno, grassi e integratori essenziali

Io digiuno per ottenere maggiore efficienza fisica e mentale.PLATONE

Il rapporto tra le dimensioni del cervello e il resto del corpo è unadelle principali caratteristiche che ci distinguono da tutti gli altrimammiferi. Il cervello di un elefante, per esempio, pesa 7500 grammie fa sembrare piccolo il nostro, di appena 1400 grammi. Nelpachiderma, però, esso rappresenta 1/550 del peso corporeocomplessivo, mentre nell’essere umano la proporzione è di 1/40. Nonè dunque possibile fare confronti sulla «capacità intellettiva» ointelligenza basandosi soltanto sulle dimensioni. Il rapporto tradimensioni del cervello e dimensioni del corpo è fondamentalequando si considera la capacità funzionale di quest’organo. 1

Ancor più rilevante del nostro notevole volume di materiacerebrale, tuttavia, è il fatto che, a parità di peso, il nostro cervelloconsuma una quantità sproporzionata di energia. È un organo cherappresenta il 2,5% del peso corporeo totale, ma consuma unincredibile 22% del nostro dispendio energetico a riposo. Il cervelloumano consuma circa il 350% di energia in più rispetto ai cervelli dialtri antropoidi come gorilla, oranghi e scimpanzé.

Mantenere in funzione il cervello richiede dunque l’acquisizione dimolte calorie tramite l’alimentazione. Fortunatamente per noi, ilnostro grande e potente cervello ci ha permesso di sviluppare lecompetenze e l’intelligenza per sopravvivere a condizioni estremecome la scarsità di cibo. Sappiamo immaginare il futuro e pianificarlo,una caratteristica che contraddistingue la nostra specie. Avere un’idea

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delle incredibili capacità del nostro cervello può contribuire aorganizzare in modo ottimale la nostra dieta per mantenerlo sano efunzionante.

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Il potere del digiunoHo già accennato a un meccanismo del corpo umano di importanzacruciale: la sua capacità di trasformare il grasso in carburante vitale intempi di carestia. Siamo in grado di scindere i grassi in molecolespecializzate denominate chetoni. Una in particolare, che ho già citato,è il beta-idrossibutirrato (beta-HBA), un carburante di prim’ordine peril cervello. Questo non solo rappresenta un argomento convincente afavore dei benefici di un digiuno ciclico per nutrire il cervello – perquanto ciò possa sembrare contraddittorio –, ma serve anche aspiegare una delle questioni oggetto delle più accese discussioni incampo antropologico: perché i nostri parenti di Neanderthal sianoscomparsi tra i trentamila e i quarantamila anni fa. Sebbene siacomodo e quasi obbligatorio accettare che gli uomini di Neanderthalfurono «spazzati via» dall’intelligente homo sapiens, oggi moltiscienziati ritengono che la scarsità di cibo possa avere svolto un ruolopiù importante nella loro scomparsa. Forse gli uomini di Neanderthalnon avevano la «resistenza mentale» per sopravvivere perché nondisponevano della via biochimica per sfruttare il grasso per nutrire ilcervello.

A differenza di quello di altri mammiferi, in tempi di carestia ilnostro cervello può attingere a una fonte di calorie alternativa. Disolito, il nostro cibo quotidiano fornisce al cervello il glucosio dabruciare come carburante; tra un pasto e l’altro, il cervello vieneapprovvigionato da un flusso costante di glucosio, prodotto dallascissione di glicogeno, in prevalenza proveniente da fegato e muscoli.Ma le scorte di glicogeno possono procurare solo una determinataquantità di glucosio. Una volta esaurite le riserve, il nostrometabolismo cambia e siamo in grado di produrre nuove molecole diglucosio da amminoacidi ricavati da proteine che si trovanoinnanzitutto nei muscoli. Questo processo, propriamente dettogluconeogenesi, è un meccanismo provvidenziale perché aggiunge ilglucosio necessario al sistema, ma ha il difetto di sacrificare muscoli. E

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la perdita di massa muscolare non è un fatto positivo per uncacciatore-raccoglitore affamato.

Per fortuna, la fisiologia umana offre un’altra via per nutrire ilcervello. Quando il cibo non è più disponibile, dopo circa tre giorni, ilfegato inizia a sfruttare il grasso corporeo per produrre chetoni. Daquel momento il beta-HBA si presta come forma molto efficiente dicarburante per il cervello, permettendoci di funzionare sotto il profilocognitivo per tempi prolungati durante le carestie. Questa fontealternativa di energia riduce la nostra dipendenza dallagluconeogenesi preservando, di conseguenza, la massa muscolare.

Per giunta, come ha dichiarato il professor George F. Cahill dellaHarvard Medical School: «Alcuni recenti studi hanno dimostrato cheil beta-idrossibutirrato, il principale chetone, non è solo un carburante,bensì un supercarburante, che produce energia ATP con maggioreefficienza del glucosio. Inoltre, ha protetto cellule neuronali in fase dicoltura tessutale dall’esposizione a tossine associate all’Alzheimer o alParkinson». 2

Cahill e altri ricercatori hanno stabilito che il beta-HBA, che è facileottenere aggiungendo olio di cocco alla nostra dieta, migliora lafunzione antiossidante, aumenta il numero dei mitocondri e stimola lacrescita di nuove cellule cerebrali.

Nel capitolo V abbiamo esaminato la necessità di ridurre l’apportocalorico per incrementare i livelli di BDNF, stimolando così la crescitadi nuove cellule cerebrali e potenziando il funzionamento dei neuroniesistenti. Molti non amano l’idea di ridurre in modo sostanzialel’apporto calorico giornaliero, anche se è un approccio che giovaparecchio non solo al potenziamento del cervello, ma alla salute nelsuo complesso. È più semplice applicare il digiuno ciclico, unalimitazione assoluta del cibo per ventiquattro-settantadue ore aintervalli regolari nel corso dell’anno. Nel capitolo X consiglio edescrivo un protocollo di digiuno. La ricerca ha dimostrato che moltidei meccanismi genetici attivati dalla restrizione calorica e utili allasalute e al potenziamento del cervello sono innescati in modo analogodal digiuno, anche per periodi di tempo piuttosto brevi. 3 Ciòcontrasta con l’opinione diffusa in base alla quale digiunare rallenta il

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metabolismo e costringe il corpo a conservare il grasso in uno statocosiddetto da fame. Viceversa, digiunare procura al corpo benefici chepossono accelerare e aumentare la perdita di peso, per non parlare deivantaggi per la salute cerebrale.

Non solo digiunare attiva il meccanismo genetico per la produzionedi BDNF, ma alimenta anche la via Nrf2, che migliora ladetossificazione, riduce l’infiammazione e aumenta la produzione diantiossidanti a difesa del cervello. Digiunare fa sì che il cervello passidall’utilizzo del glucosio come carburante a quello dei chetoniprodotti nel fegato. Quando il cervello metabolizza i chetoni comecarburante, si ha anche una riduzione del processo del suicidiocellulare (apoptosi), mentre nei mitocondri si attivano geni cheportano alla replicazione mitocondriale. In altre parole: digiunareaumenta la produzione di energia e consente al cervello di funzionaremeglio ed essere più lucido.

Il digiuno nei percorsi di ricerca spirituale è una parte integrante dellastoria delle religioni. Le principali promuovono il digiuno come qualcosadi più di un atto cerimoniale. Digiunare è sempre stato una partefondamentale della pratica spirituale, come nel caso del Ramadanmusulmano e della ricorrenza ebraica di Yom Kippur. Gli yoghipraticano una dieta ascetica e gli sciamani digiunano durante la ricercadelle visioni. Il digiuno è una pratica diffusa anche tra i devoti cristiani ela Bibbia riporta esempi di digiuni di un giorno, tre giorni, sette giorni equaranta giorni.

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Elementi in comune tra digiuno e diete chetogenicheCosa succede quando si riduce in maniera sostanziale l’apporto dicarboidrati e si ricavano più calorie dai grassi? Ho appena finito dispiegare i benefici del digiuno, che stimola il cervello a ricorrere ailipidi come carburante sotto forma di chetoni. Una reazione analogaha luogo quando si segue una dieta povera di carboidrati e ricca digrassi sani e di proteine. Questo è il fondamento del protocollodietetico da me proposto.

Nel corso della storia i grassi sono stati per l’essere umanoun’ambita fonte di nutrimento ricco di calorie: lo mantenevano snelloed erano utili nella vita dei cacciatori-raccoglitori. Come già sapete,consumare carboidrati stimola la produzione di insulina, che a suavolta favorisce la produzione e la ritenzione di grasso e una ridottacapacità di bruciarli. Oltretutto, il consumo di carboidrati stimola unenzima chiamato lipoproteina lipasi, che favorisce l’ingresso dei lipidinella cellula; l’insulina secreta quando consumiamo carboidratipeggiora la situazione attivando enzimi che bloccano i lipidi nellecellule adipose.

Come ho già accennato, quando bruciamo grassi invece dicarboidrati entriamo in uno stato di chetosi. Di per sé non vi è nulla dimale: i nostri corpi sono attrezzati per questa attività fin dalla nostracomparsa sulla Terra. Essere in un lieve stato di chetosi è perfinosalutare. Capita quando ci alziamo al mattino, perché il fegato stamobilitando il grasso corporeo da usare come carburante. I chetoni,rispetto all’impiego glicemico, permettono a cuore e cervello difunzionare con un’efficienza superiore fino al 25%. Le cellule cerebralinormali e sane prosperano grazie ai chetoni. Determinate cellule deitumori cerebrali, invece, possono bruciare solo glucosio. Il trattamentostandard per il glioblastoma, uno dei tipi più aggressivi tra i tumori alcervello, è rappresentato da chirurgia, radioterapia e chemioterapia. Aessere onesti, però, i risultati di questi approcci sono piuttostodeprimenti. Approfittando del fatto che le cellule del glioblastomapossono servirsi solo di glucosio e non di chetoni, il dott. Giulio

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Zuccoli della University of Pittsburgh School of Medicine ha sostenutoche una dieta chetogenica potrebbe integrare le cure tradizionali neltrattamento del glioblastoma. 4 E ha pubblicato il caso clinico di unpaziente affetto da glioblastoma trattato usando una dieta chetogenicacon notevoli risultati. Se una dieta può prolungare la vita di unpaziente oncologico, cosa potrà fare in un individuo sano?

Una dieta solo chetogenica è una dieta che ricava l’80-90% dellecalorie dai lipidi e il resto da carboidrati e proteine. Questo è senzadubbio un caso estremo, ma i chetoni sono un carburante molto piùefficace per il cervello. Nel 1921, quando Russell Wilder della MayoClinic sviluppò la dieta chetogenica, l’approccio prevedeva in praticasolo grassi. Negli anni Cinquanta scoprimmo i trigliceridi a catenamedia (MCT, Medium Chain Triglycerides), che agiscono nel corpo comeprecursori del beta-idrossibutirrato e possono essere consumatiattraverso l’olio di cocco.

Il protocollo dietetico delineato nel capitolo X rispetta i principichetogenici di base: riduce in modo significativo i carboidrati perspingere il corpo a bruciare grassi e aumenta al tempo stesso l’apportodi grassi e nutrienti per incrementare la produzione di beta-HBA. Perquattro settimane limiterete il consumo di carboidrati a soli 30-40grammi al giorno, poi potrete incrementarne la quantità fino a 60grammi. Il grado di chetosi che potete raggiungere può esseremisurato grazie a un test con apposite strisce, usato di solito daidiabetici e disponibile in tutte le farmacie. Un paio di gocce di urinasono sufficienti per conoscere subito il livello di chetosi raggiunto.L’obiettivo sono bassi livelli di chetosi, intorno a un intervallo da 5 a15; la maggior parte dei prodotti per questo esame, come per esempioil Ketostix, si avvalgono di tabelle colorimetriche e di solito il rosachiaro indica la presenza di piccole tracce. Ciò significa che il vostrocorpo sta sfruttando in maniera efficace i corpi chetonici per produrreenergia. Se seguirete il mio protocollo, potrete sperimentare una lievechetosi all’incirca dopo la prima settimana del programma, e forsevorrete sottoporvi all’esame per verificare questo effetto. Alcunepersone si sentono meglio con livelli più elevati di chetosi.

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Sette integratori per il cervello

© Randy Glasbergen, glasbergen.com. Pubblicazione autorizzata.

Amo le vignette che offrono una perla di saggezza nel temponecessario a inarcare un sopracciglio, quello che ci vuole perassimilare l’immagine e il testo. Questa attirò la mia attenzione annifa; vorrei solo che più dottori fossero intelligenti come il vignettistaRandy Glasbergen. Con tutte le conoscenze scientifiche che abbiamoaccumulato da quando questa vignetta fu pubblicata per la primavolta, nel 2004, possiamo aggiungere alla didascalia: «e lapredisposizione a disturbi cerebrali».

La dolorosa realtà nel mondo della medicina attuale è che sarà

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difficile che riceviate molti consigli utili sulla prevenzione dellemalattie cerebrali in una visita ambulatoriale dal vostro internista. Algiorno d’oggi, avete a disposizione meno di quindici minuti (nelmigliore dei casi) con un dottore che forse non è neppure aggiornatosulle ultime novità scientifiche riguardo al modo di salvaguardare lefacoltà mentali. E la cosa più allarmante è che molti dei dottori di oggi,che hanno frequentato l’università decenni addietro, non hanno unasolida conoscenza della nutrizione e dei suoi effetti sulla salute. Nonlo dico per mettere in cattiva luce la mia categoria, ma solo persegnalare una verità che è in gran parte conseguenza di aspettieconomici. La mia speranza è che la nostra prossima generazione dimedici sia meglio attrezzata per far pendere la bilancia dalla partedella prevenzione invece di concentrarsi tanto sulla terapia. E questomi riporta ai consigli sugli integratori (per dosi e istruzioni precise suquando assumerli ogni giorno, andate a pagina 240).

DHA: come ho già accennato, l’acido docosaesaenoico è una stella delregno degli integratori. Il DHA è un acido grasso omega 3 cherappresenta più del 90% dei grassi omega 3 nel cervello. Il 50% delpeso della membrana plasmatica di un neurone è composto da DHA,ed è un componente fondamentale del tessuto cardiaco. Potrei scrivereun intero capitolo solo sul DHA, ma vi risparmierò una spiegazionetroppo dettagliata. Diciamo soltanto che è uno dei più documentatipaladini a difesa del cervello.

Oggi sul mercato gli integratori di questo acido grasso ad altaqualità abbondano, ed esistono più di 500 prodotti alimentariarricchiti con DHA. Non ha alcuna importanza se il DHA che acquistateè derivato da olio di pesce oppure da alghe. Se siete vegetariani,optate per la varietà ricavata da alghe.

Durante le mie conferenze domando spesso ai dottori qual è secondoloro la più ricca fonte di DHA in natura. Ricevo le risposte più disparate:olio di fegato di merluzzo, olio di salmone, olio di acciughe. Alcunipropongono olio di avocado o di semi di lino, che però non contengonoabbastanza DHA. La più ricca fonte di DHA in natura è il latte materno.

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Questo spiega perché si continui a enfatizzare l’importanzadell’allattamento al seno per la salute neurologica e le prestazioni alungo termine del bambino.

Resveratrolo: dietro ai benefici per la salute di un bicchiere di vinorosso al giorno si cela una magia che è strettamente in relazione conquesto composto naturale presente nell’uva. Il resveratrolo non solorallenta il processo dell’invecchiamento, migliora il flusso del sangueal cervello e promuove la salute del cuore, ma inibisce lo sviluppodelle cellule adipose. Un bicchiere di vino, tuttavia, non può fornire laquantità sufficiente di resveratrolo, quindi per raccoglierne i benefici ènecessario assumerne dosi più elevate.

Poiché questa molecola «miracolosa» protegge le cellule danumerose malattie, viene spesso pubblicizzata come un aiuto alsistema immunitario e di difesa del corpo. Nell’ultimo decennio siamoarrivati a capire come ciò sia possibile soprattutto grazie all’opera deldott. David Sinclair di Harvard, che scoprì la capacità di questointegratore di attivare determinati geni, chiamati sirtuine, cheinfluiscono sulla longevità. 5 Nel 2010, alcuni scienziati dellaNorthumbria University, nel Regno Unito, pubblicaronosull’«American Journal of Clinical Nutrition» uno studio che trattavaproprio dei motivi per cui il resveratrolo può essere così efficacenell’ottimizzare la funzione cerebrale. 6 Essi spiegarono di averesomministrato resveratrolo a ventiquattro studenti e registrato marcatiincrementi del flusso sanguigno nel cervello mentre eseguivano deicompiti mentali. Più i compiti erano difficili, maggiore era l’effetto delresveratrolo.

L’opportunità di assumere resveratrolo prima di imbarcarsi inun’impresa importante come un esame o un colloquio è un argomentodi cui si può discutere, ma per il momento sappiamo che potremmogiovare al nostro cervello con l’aggiunta di una modesta dose tutti igiorni. E si noti che ho detto modesta. Sebbene precedenti ricercheaccennassero alla necessità, per ottenere benefici, di dosi moltoabbondanti (equivalenti a bere centinaia di bottiglie di vino), studi più

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recenti dimostrano con chiarezza che dosi inferiori (appena 4,9milligrammi al giorno) determinano effetti positivi.

Curcuma (curcuma longa): membro della famiglia dello zenzero, èmateria di intense ricerche scientifiche, in buona parte per valutare leproprietà antinfiammatorie e antiossidanti derivanti dal suoingrediente attivo, la curcumina. La curcuma è la spezia che conferiscealla polvere di curry il suo colore giallo e, come ho già accennato, èusata da migliaia di anni nella medicina cinese e indiana comerimedio naturale per una serie di malanni. In un articolosull’«American Journal of Epidemiology», alcuni ricercatoriindagarono l’associazione tra il livello del consumo di curry e lafunzione cognitiva in soggetti asiatici anziani. 7 Quelli checonsumavano curry «di tanto in tanto» e «spesso o molto spesso»ottennero un punteggio assai migliore in specifici test studiati permisurare la funzione cognitiva rispetto ai partecipanti che non neconsumavano «mai o quasi mai».

Una delle armi segrete della curcumina è la sua capacità di attivaregeni per produrre un’ampia gamma di antiossidanti utili a proteggerei nostri preziosi mitocondri. Inoltre, essa migliora il metabolismo delglucosio. Tutte queste proprietà aiutano a ridurre il rischio dipatologie cerebrali. Se in cucina non fate un uso molto abbondante dicurry, è probabile che la vostra dieta non preveda un sufficienteapporto regolare di curcuma.

Probiotici: negli ultimi anni nuove e sensazionali ricerche hannoindicato che consumare alimenti ricchi di probiotici – microrganismivivi che sostengono i batteri residenti nel nostro intestino – puòinfluire sul comportamento del cervello e contribuire ad alleviarestress, ansia e depressione. 8 Questi ceppi di «batteri buoni», chevivono nell’intestino e aiutano la digestione, sono incrementati enutriti dai probiotici. Essi hanno un ruolo nella produzione,nell’assorbimento e nel trasporto di sostanze neurochimiche comeserotonina, dopamina e fattore di crescita delle cellule nervose, chesono essenziali per la salute di nervi e cervello.

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Per capire come ciò sia possibile, è necessaria una rapida lezionesulla comunicazione tra microflora, intestino e cervello. 9 Si tratta diun campo di ricerche dinamiche e affascinanti; l’intestino è in effetti ilnostro «secondo cervello». 10 Di recente, molto è stato scritto perdimostrare l’intima e diretta via di comunicazione che collega ilcervello e il sistema digestivo. È una via a doppio senso, grazie allaquale il cervello riceve informazioni su ciò che accade nell’intestino eil sistema nervoso centrale spedisce a sua volta informazioniall’intestino per garantirne un funzionamento ottimale.

Tutto questo andirivieni di messaggi consente di controllare ilcomportamento alimentare e la digestione, e perfino di dormire benela notte. L’intestino trasmette anche segnali ormonali che comunicanoal cervello sensazioni di pienezza, fame o anche dolore dainfiammazione intestinale. Nei disturbi e nelle malattie cheinteressano gli intestini, come la celiachia incontrollata, la sindromedell’intestino irritabile (IBS) o il morbo di Crohn, l’intestino puòesercitare una forte influenza sul nostro benessere: come stiamo, laqualità del nostro sonno, il nostro livello energetico, l’entità del doloreche proviamo e perfino come pensiamo. Al momento i ricercatoristanno esaminando l’eventuale ruolo di alcuni ceppi di batteriintestinali in patologie come obesità, disturbi infiammatori efunzionali gastrointestinali, dolore cronico, autismo e depressione. Estanno studiando anche l’influenza di questi batteri sulle nostreemozioni. 11

Questo sistema è così intricato e importante che la salute del nostrointestino potrebbe avere un peso assai maggiore di quanto abbiamomai immaginato nella percezione della nostra salute nel suocomplesso. Le informazioni elaborate dall’intestino e inviate alcervello sono in stretto rapporto con il nostro senso di benessere. E sepossiamo aiutare questo sistema mediante il consumo diimportantissimi collaboratori dell’intestino – salutari batteri intestinali–, perché non farlo? Molti alimenti – per esempio lo yogurt e alcunebevande – sono ormai arricchiti con probiotici, ma spesso possonocontenere troppi zuccheri. L’ideale è assumere i probiotici attraversoun integratore che offra una varietà di ceppi (almeno dieci), compresi

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il lactobacillus acidophilus e il bifidobacterium, e contenga almeno diecimiliardi di batteri attivi per capsula.

Olio di cocco: come ho già accennato, l’olio di cocco può contribuirea prevenire e trattare condizioni patologiche neurodegenerative. È unsupercarburante per il cervello e riduce l’infiammazione. Potete berneun cucchiaino da solo o usarlo quando preparate i pasti. L’olio dicocco è termostabile, perciò si può usare per cuocere a temperatureelevate. Nella parte dedicata alle ricette, vi proporrò alcune idee per ilsuo uso in cucina.

Acido alfa-lipoico: questo acido grasso si trova all’interno di ogni celluladel corpo, dove è coinvolto nella produzione di energia per le normalifunzioni dell’organismo. Esso attraversa la barriera ematoencefalica eagisce nel cervello come potente antiossidante nei tessuti liquidi eanche in quelli adiposi. Gli scienziati stanno studiandone lepotenzialità in relazione al trattamento di ictus e altre patologiecerebrali che comportino danni da radicali liberi, per esempio lademenza. 12 Anche se il corpo può produrre scorte adeguate di questoacido grasso, i nostri stili di vita moderni e le diete inadeguaterendono spesso necessaria un’integrazione.

Vitamina D: definirla una «vitamina» significa utilizzare unadenominazione impropria, perché in realtà si tratta di un ormonesteroideo liposolubile. Benché venga per lo più associata, in sensostretto, alla salute delle ossa e ai livelli di calcio – di qui la suaaggiunta al latte –, ha effetti di vasta portata sul corpo e, in particolare,sul cervello. Sappiamo che l’intero sistema nervoso centrale possiederecettori per la vitamina D ed è noto che essa partecipa allaregolazione degli enzimi nel cervello e nel liquido cerebrospinale, aloro volta coinvolti nella produzione di neurotrasmettitori e nellastimolazione della crescita dei nervi. Gli studi di laboratorio e quellisu animali hanno indicato che la vitamina D protegge i neuroni daglieffetti dannosi dei radicali liberi e riduce l’infiammazione.Permettetemi di elencare alcuni dati. 13

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Dalla documentazione è risultata una riduzione del 25% delrischio di declino cognitivo in individui con livelli di vitamina Dpiù elevati (in uno studio di questo tipo gli individui colpiti dagrave carenza avevano il 60% di probabilità in più di subire undeclino cognitivo nel corso dei sei anni della fase di follow-up). 14

Uno studio di sette anni su 498 donne ha evidenziato che quellecon il più elevato apporto di vitamina D registravano unariduzione del 77% del rischio di sviluppare il morbo diAlzheimer. 15

Dalla valutazione delle condizioni mentali di 858 adulti tra il 1998e il 2006 emerse un sostanziale declino nella funzione cognitivadegli individui colpiti da grave carenza di vitamina D. 16

Diversi studi collegano bassi livelli di vitamina D al rischio delmorbo di Parkinson e di ricaduta nei pazienti con sclerosimultipla (per inciso: secondo gli studi ogni aumento di 5 ng/mLdei livelli di vitamina D nel sangue è correlato a una riduzionedel 16% di ricadute nella SM). 17

Da tempo la letteratura medica segnala che bassi livelli divitamina D concorrono alla depressione e perfino alla stanchezzacronica. 18 Una quantità adeguata di vitamina D serve alleghiandole surrenali per contribuire a regolare un enzimanecessario per la produzione di dopamina, epinefrina enorepinefrina, importanti ormoni cerebrali che influisconosull’umore, sul controllo dello stress e sull’energia. È statoriscontrato che pazienti con forme di depressione da lieve a graveregistrano cambiamenti e miglioramenti dell’umore anche solograzie agli integratori.

Correggere livelli insufficienti di vitamina D può richiederel’assunzione di integratori per diversi mesi, ma avrà significativieffetti positivi sull’intera chimica del vostro corpo – dalla salute delleossa a quella del cervello – e perfino sulla sua sensibilità all’insulina. Ilmio protocollo dietetico metterà a disposizione anche valide fonti di

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vitamina D in natura, come il pesce che vive in acque fredde e ifunghi.

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Capitolo VIII

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Medicina geneticaAllenare i geni per tenere in forma il cervello

L’intelletto di un anziano è come un cavallo vecchio; devi tenerlo inesercizio se vuoi che continui a lavorare.JOHN ADAMS

Quiz a sorpresa! Che cosa rende più intelligenti e meno inclini aidisturbi cerebrali? A: risolvere un complesso rompicapo, o B: fare unapasseggiata?

Se avete scelto A, non vi castigherò, ma vi inviterò prima a uscire afare una passeggiata (a passo molto veloce) e poi a sedervi e lavorareal rompicapo. Appare chiaro che la risposta è B: il semplice atto dimuovere il vostro corpo gioverà al vostro cervello più di qualsiasienigma, equazione matematica, libro giallo e perfino dell’atto stesso dipensare.

Fare moto ha numerosi effetti salutari sul corpo, e sul cervello inparticolare. Nel mondo dell’epigenetica rappresenta un fattoreformidabile: per semplificare si può dire che, quando fate eserciziofisico, state letteralmente allenando il vostro patrimonio genetico. Nonsolo l’esercizio aerobico attiva geni collegati alla longevità, mainteressa anche il gene che codifica per il BDNF, l’«ormone dellacrescita» per il cervello. È stato osservato che l’esercizio aerobicoinverte il declino della memoria negli anziani e incrementa laproduzione di nuove cellule cerebrali nel centro della memoria.

Da tempo, ormai, sappiamo che l’esercizio fisico giova al cervello,tuttavia solo nell’ultimo decennio siamo davvero stati in grado diquantificare e qualificare l’affascinante rapporto tra forma fisica eforma mentale. 1 Per riuscirci sono stati necessari gli sforzi congiunti

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di molti attenti ricercatori di diversi campi, fra i quali neuroscienziati,fisiologi, bioingegneri, psicologi, antropologi e dottori di vari altrisettori della medicina. Ed è stato necessario lo sviluppo di numerosetecniche avanzate per potere analizzare e capire i meccanismi internidella materia stessa del cervello, inclusi i suoi singoli neuroni.

I risultati delle più recenti ricerche chiariscono in modoinequivocabile che il legame tra esercizio fisico e salute cerebrale non èuna relazione qualsiasi. Come commenta la divulgatrice scientificaGretchen Reynolds sul «New York Times»: «È la relazione», un nessofondamentale. 2 In base agli ultimi studi scientifici, fare esercizio aiutaa «strutturare un cervello che resiste all’atrofia e aumenta la flessibilitàcognitiva». E questo, amici miei, può significare che l’attività fisica è lostrumento migliore a nostra disposizione.

Date un’occhiata ai grafici che seguono: uno illustra la differenzapercentuale nel rischio di morbo di Alzheimer in base al livello diesercizio fisico, l’altro la differenza in base all’intensità dell’eserciziofisico. A mio avviso sono molto eloquenti: 3

Adattamento da A.S. Buchman et al., Total Daily Physical Activity and the Riskof AD and Cognitive Decline in Older Adults, in «Neurology», LXXVIII, 2012, p.

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Adattamento da A.S. Buchman et al., Total Daily Physical Activity and the Riskof AD and Cognitive Decline in Older Adults, in «Neurology», LXXVIII, 2012, p.

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La magia del movimentoL’attività fisica ha sempre fatto parte della vita dell’essere umano.Oggigiorno la tecnologia ci ha offerto il privilegio di un’esistenzasedentaria; quasi tutto ciò di cui abbiamo bisogno è accessibile senzagrandi sforzi, a volte senza neppure dovere scendere dal letto. Permilioni di anni, però, il nostro genoma si è evoluto in condizioni dicostanti difficoltà fisiche da affrontare nella ricerca del cibo. In realtà,il nostro genoma richiede movimento frequente, necessita di regolareesercizio aerobico per mantenerci in vita. Purtroppo, le persone cheoggi rispettano questo requisito sono troppo poche. E lo dimostrano lemalattie croniche e gli elevati tassi di mortalità.

L’idea che l’esercizio fisico possa renderci più intelligenti haintrigato non solo i ricercatori tradizionali nei laboratori biomedici, maanche gli antropologi in cerca di indicazioni sullo sviluppodell’umanità nel corso dei millenni. Nel 2004, la rivista «Nature»pubblicò un articolo dei biologi evoluzionisti Daniel E. Lieberman diHarvard e Dennis M. Bramble della University of Utah, chesostengono che siamo sopravvissuti così a lungo nella storia in virtùdella nostra abilità atletica. 4 I nostri antenati, uomini delle caverne,riuscirono a sfuggire ai predatori e a cacciare selvaggina preziosa,fonte di nutrimento che forniva pasti ed energia per l’accoppiamento,permettendo la sopravvivenza. E quei primi atleti di resistenzatrasmisero i loro geni. È una bella ipotesi: siamo progettati per esseredegli atleti e per riuscire a vivere il tempo sufficiente a procreare. Inaltri termini, la selezione naturale spinse gli uomini primitivi aevolvere in esseri agilissimi, che svilupparono gambe più lunghe, ditadei piedi più tozze e un complesso orecchio interno per migliorareequilibrio e coordinazione in posizione eretta e camminare solo su duepiedi invece di quattro.

Per lungo tempo, la scienza non è riuscita a spiegare perché ilnostro cervello fosse diventato così grande, di dimensionisproporzionate in confronto a quelle di altri animali. In passato glistudiosi dell’evoluzione amavano parlare dei nostri comportamenti

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carnivori e del bisogno di interazione sociale, due caratteristiche cheesigevano complicati schemi di pensiero (per cacciare e uccidere, e perintrattenere rapporti con gli altri). Ora la scienza ha un’altracomponente da prendere in considerazione: l’attività fisica. Standoalle ultime ricerche, dobbiamo il nostro straordinario cervello albisogno di pensare… e al bisogno di correre.

Per giungere a questa conclusione gli antropologi hanno studiato ilrapporto tra dimensioni del cervello e capacità di resistenza in moltianimali, da cavie e topi a lupi e pecore. 5 Hanno osservato che lespecie con la più alta capacità di resistenza innata avevano anchevolumi cerebrali più elevati in relazione alle dimensioni del corpo. Iricercatori hanno poi compiuto un ulteriore passo nel loroesperimento, allevando topi e ratti addestrati per correre maratone.Incrociando gli esemplari che si dedicavano più degli altri all’uso delleruote nelle loro gabbie, hanno selezionato una linea di animali dalaboratorio che eccelleva nella corsa. E la verità ha cominciato aemergere: in questi animali i livelli di BDNF e altre sostanze chepromuovono la crescita dei tessuti e la salute registravano unaumento. Il BDNF è noto anche per l’impulso che dà alla crescita delcervello, e da questo giunge una nuova visione, ovvero che l’attivitàfisica possa avere contribuito a farci evolvere in esseri acuti eintelligenti. David A. Raichlen, antropologo della University ofArizona e autorità nel campo dell’evoluzione del cervello umano, hariassunto in modo brillante per il «New York Times» questo concetto,parafrasato così da Gretchen Reynolds: «I più atletici e i più attivisopravvivevano e, come nel caso dei topi da laboratorio,trasmettevano caratteristiche fisiologiche che miglioravano laresistenza, compresi livelli elevati di BDNF. Alla fine, questi atletiprimitivi avevano in corpo tanto BDNF che parte di esso poté migraredai muscoli al cervello, dove stimolò la crescita di tessuto cerebrale». 6

Migliorando la capacità di pensare, ragionare e pianificare, gliuomini primitivi poterono poi affinare le competenze di cui avevanobisogno per sopravvivere, come cacciare e uccidere prede.Beneficiarono di un continuo circolo virtuoso: essere in movimento lirendeva più intelligenti, e una mente più acuta permetteva loro di

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rimanere in movimento e muoversi con maggiore efficacia. Col tempo,gli esseri umani sarebbero giunti a impegnarsi in pensieri complessi einventare cose come la matematica, i microscopi e i prodotti ad altatecnologia.

In conclusione, se l’attività fisica ci ha aiutato a sviluppare ilcervello che usiamo oggi, è ovvio che abbiamo bisogno di fareesercizio per mantenerlo in efficienza (o per continuare a evolvere inuna specie più intelligente, più veloce e più abile).

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Siate agili e prontiIl meccanismo biologico che rende l’esercizio fisico così benefico per lasalute del cervello va ben al di là del fatto che il moto promuove ilflusso sanguigno al cervello fornendo nutrienti per la crescita e lamanutenzione delle cellule. Certo, questa è una buona cosa, ma non èuna novità. Le ultime conoscenze scientifiche acquisite sulla magicacapacità del movimento di proteggere e salvaguardare la funzionecerebrale sono sorprendenti e si riassumono in cinque vantaggi:controllo dell’infiammazione, aumento della sensibilità all’insulina,influenza su un miglior controllo della glicemia, espansione delledimensioni del centro della memoria e, come ho già accennato,incremento dei livelli di BDNF.

Alcune delle più convincenti scoperte scientifiche in questo camposono proprio degli ultimi anni. 7 Nel 2011, il dott. Justin S. Rhodes e lasua équipe al Beckman Institute for Advanced Science andTechnology presso la University of Illinois hanno studiato quattrogruppi di topi in quattro diversi ambienti. 8 Un gruppo viveva nellusso in un’ambientazione che comprendeva sontuosi pasti ideali per itopi (frutta secca e non, formaggi e acque aromatizzate) e moltigiocattoli divertenti da esplorare, come specchi, palle e gallerie. Ilsecondo gruppo aveva accesso agli stessi piaceri e giochi, ma lasistemazione comprendeva delle ruote dove correre. Le gabbie delterzo gruppo somigliavano a sistemazioni in motel: l’arredamento eraessenziale e i topi si nutrivano di normale mangime secco. Il quartogruppo non aveva accesso a comfort né a cibi particolari, ma aveva adisposizione le ruote.

All’inizio dello studio, i topi furono sottoposti a una serie di testcognitivi e all’inoculazione di una sostanza che permetteva airicercatori di rilevare cambiamenti nelle loro strutture encefaliche. Perdiversi mesi gli scienziati li lasciarono liberi di fare ciò che volevanonei rispettivi ambienti, poi li sottoposero di nuovo ai test sulle lorofunzioni cognitive ed esaminarono i loro tessuti cerebrali.

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L’unica variabile che spiccava netta su tutte le altre era la presenzao l’assenza di una ruota a disposizione. Non importava che i topiavessero o non avessero qualcosa con cui giocare nella gabbia. Glianimali che facevano esercizio erano quelli con il cervello più sano e imigliori risultati nei test cognitivi. Quelli che non correvano nonmiglioravano sotto il profilo intellettivo, anche se il loro mondooffriva altri stimoli. I ricercatori miravano in particolare a individuareprogressi cognitivi nel pensiero complesso e nella soluzione deiproblemi. In quest’ottica l’esercizio fisico si dimostrò l’unico elementochiave.

Sappiamo che l’attività fisica stimola la generazione di nuovecellule cerebrali. Gli scienziati hanno perfino misurato questo effettoconfrontando topi e ratti che avevano corso per qualche settimana conun gruppo di controllo sedentario. I corridori avevano nell’ippocampoun numero di neuroni nuovi circa due volte superiore a quello deipigri. Altri studi hanno osservato quali tipi di esercizi siano piùefficaci. In un esperimento del 2011, 120 uomini e donne anzianifurono suddivisi in due gruppi: il primo doveva seguire unprogramma di allenamento che consisteva nel camminare, il secondoun regime con esercizi di allungamento; i camminatori ebbero lameglio su quelli che facevano stretching. 9 Dopo un anno, il loroippocampo era più grande e i livelli ematici di BDNF più elevati.Viceversa, i soggetti del secondo gruppo registrarono una perdita divolume cerebrale dovuta a normale atrofia e non riuscirono altrettantobene nei test cognitivi. Date un’occhiata ai risultati.

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Adattamento da K.I. Erickson et al., Exercise Training Increases Size ofHippocampus and Improves Memory, in «Proceedings of the National Academy

of Sciences», CVIII, 7, 15 febbraio 2011, pp. 3017-22.

A prescindere dall’attività, abbiamo prove a sufficienza per poterdire che l’esercizio fisico non deve per forza essere sfibrante perprodurre un effetto positivo sul cervello.

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Far crescere nuove retiÈ stato dimostrato che l’esercizio fisico stimola la crescita di nuovineuroni nel cervello, ma il vero miracolo è che aiuta anche a costruirenuove reti al suo interno. Un conto è far nascere nuove cellulecerebrali, un altro organizzarle in una rete che funzioni in modoarmonioso. Non basta produrre nuove cellule cerebrali per diventarepiù «intelligenti»; dobbiamo essere in grado di collegarle alla reteneurale esistente, altrimenti vagheranno senza scopo e alla finemoriranno. Un modo utile per innescare questo processo è impararequalcosa di nuovo. In uno studio del 2007, i nuovi neuroni dei topientravano a far parte delle loro reti cerebrali quando questi animaliimparavano ad attraversare un labirinto acquatico. 10 Tale compitorichiede più energia cognitiva che abilità fisica. I ricercatoriosservarono anche che le cellule neofite avevano capacità limitate: nonpotevano, infatti, aiutare i topi a eseguire compiti cognitivi cheesulassero dal labirinto. Per farlo, i topi avrebbero avuto bisogno diesercitarsi fisicamente, stimolando quelle nuove cellule a diventarevivaci e flessibili sotto il profilo cognitivo.

Il beneficio segreto dell’esercizio fisico consiste proprio in questo:rende i neuroni agili e in grado di svolgere più di un compito. Nonsappiamo in quale modo il moto agevoli le trasformazioni mentali alivello molecolare, ma sappiamo che il BDNF contribuisce a rafforzarecellule e assoni, a consolidare le connessioni tra neuroni e a dare il viaalla neurogenesi. Questo processo aumenta la capacità del cervello diapprendere nuove cose, e questo, a sua volta, rafforza le nuove cellulecerebrali e rende ancora più robusta la rete neurale. Non vadimenticato, inoltre, che livelli più elevati di BDNF sono associati a uncalo dell’appetito: per coloro che hanno difficoltà a tenerlo sottocontrollo, ciò costituisce dunque un altro incentivo all’attività fisica.

Tenendo presente questo nesso tra BDNF ed esercizio, i ricercatorihanno esaminato l’effetto dell’attività fisica in soggetti a rischio didisturbi o malattie al cervello o che già ne soffrivano. In un recentearticolo sul «Journal of the American Medical Association», il

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professor Nicola Lautenschlager della University of Western Australiariferiva di avere registrato in individui anziani che per un periodo diventiquattro settimane facevano regolare esercizio fisico unmiglioramento del 1800% nei parametri di memoria, competenzalinguistica, attenzione e altre importanti funzioni cognitive rispetto aun gruppo di controllo. 11 Il gruppo che faceva ginnastica dedicavacirca 142 minuti alla settimana ad attività fisiche, in media circa 20minuti al giorno. I ricercatori attribuivano questi progressi a unamigliore circolazione del sangue, alla crescita di nuovi vasi sanguignie di nuove cellule cerebrali e al miglioramento della «plasticità» delcervello.

In uno studio analogo, alcuni ricercatori di Harvard hannoindividuato una forte associazione tra funzione cognitiva ed eserciziofisico nelle donne anziane, arrivando a concludere:

In questo ampio studio prospettico su donne anziane, livelli elevatidi attività fisica regolare a lungo termine avevano una strettacorrelazione con livelli elevati di funzione cognitiva e minoredeclino cognitivo. In particolare, gli evidenti benefici cognitivi diuna maggiore attività fisica corrispondevano all’essere più giovanidi circa tre anni ed erano associati a un rischio di problemi cognitiviinferiore del 20%. 12

L’attività fisica ha molteplici effetti sul corpo. L’esercizio è un potenteantinfiammatorio. Come ho già accennato in precedenza, attivando lavia dell’Nrf2 l’esercizio fisico «accende» i geni che sopprimonol’infiammazione. E questo può essere misurato in laboratorio. Gliscienziati hanno più volte documentato che il livello della proteina Creattiva – un marcatore dell’infiammazione spesso usato in laboratorio– è inferiore nelle persone che fanno esercizio con regolarità. Faremoto aumenta inoltre la sensibilità all’insulina e aiuta a governarel’equilibrio della glicemia e a ridurre la glicazione delle proteine. Tuttoquesto è confermato da studi eseguiti sugli effetti dell’eserciziosull’emoglobina A1C. In uno di questi, i ricercatori diedero istruzionea trenta partecipanti di non apportare cambiamenti al proprio stile divita, assegnando invece ad altri trentacinque un programma di attività

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sportiva per tre giorni alla settimana. 13 Il gruppo di controllo nonpartecipava ad alcuna forma di esercizio. Dopo la sedicesimasettimana, l’emoglobina A1C diminuì di 0,73 nel gruppo che praticavasport, mentre aumentò di 0,28 in quello sedentario. Percontestualizzare questi dati numerici, a fronte di un’emoglobina A1Cpari a 6,0, una riduzione di 0,73 indotta dall’attività sportivarappresenta un abbassamento del 12%, in grado di competere conl’effetto prodotto dai farmaci contro il diabete.

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Basta poco per fare la differenzaD’accordo, l’esercizio fisico fa bene al corpo e al cervello. Ma fino ache punto? Con quale intensità? Contano anche i lavori domestici e leattività quotidiane come il giardinaggio e portare fuori la spazzatura?

Per rispondere a questa domanda ricorriamo a uno studio sullamemoria e l’invecchiamento della Rush University, quello illustratodai grafici che ho presentato a pagina 210 e 211. Esaminando gli effettidell’esercizio fisico quotidiano sul rischio del morbo di Alzheimer, ildott. Aron S. Buchman riscontrò notevoli differenze tra le personepiuttosto sedentarie e quelle che eseguivano vari tipi di attività,comprese semplici azioni come cucinare, lavare i piatti, giocare a carte,spingere una sedia a rotelle e pulire. Egli riuscì a registrare i lorolivelli di attività usando un nuovo dispositivo denominato actigrafo,che viene indossato al polso per rilevare e quantificare il movimento.L’età media dei soggetti era di ottantadue anni e non soffrivano didemenza. Il gruppo comprendeva 716 partecipanti, 71 dei qualisvilupparono il morbo di Alzheimer in fase conclamata nei tre anni emezzo circa di monitoraggio. 14

I risultati dello studio rivelarono che gli individui che rientravanonel 10% con il livello più basso di attività fisica giornalierapresentavano un incremento del rischio di sviluppare il morbo diAlzheimer pari al 230% in confronto a quelli inseriti nel 10% con illivello più alto di attività fisica. Quando i dati furono valutati intermini di intensità dell’attività fisica, i risultati furono ancora piùeloquenti. Confrontando i soggetti compresi nel 10% con attività fisicadi intensità inferiore con quelli nel 10% con intensità più elevata,Buchman e la sua équipe constatarono che all’intensità inferiorecorrispondeva un rischio di Alzheimer quasi triplicato. Ne dedussero,a buon diritto, che non possiamo sottovalutare il potere di attività che,pur non comportando la pratica di un vero e proprio sport, risultano abasso costo, di facile accessibilità ed esenti da effetti collaterali. Lesemplici azioni della vita quotidiana possono contribuire a proteggereil cervello a qualsiasi età.

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Scegliere un’attivitàNon è affatto necessario puntare a scalare il monte Everest. E neppureallenarsi per una gara di resistenza. Quello che occorre è un’attivitàche acceleri il battito cardiaco. Anche se alcuni studi hanno riscontratobenefici cognitivi tra persone anziane che, per un anno, si limitavano asollevare pesi, finora la maggior parte degli studi – e tutti gliesperimenti sugli animali – hanno riguardato la corsa o altre attivitàaerobiche come nuotare, andare in bicicletta, fare escursionismo ecamminare a passo veloce almeno cinque giorni alla settimana peralmeno venti minuti a sessione.

Mi rendo conto che fare esercizio non è in cima all’elenco di prioritàdella maggioranza delle persone, ma spero che le prove che ho fornitoin questo capitolo vi incoraggeranno a rivedere il vostro elenco,sempre che non pratichiate già con regolarità un’attività fisica.Durante il programma vi chiederò di dedicare una settimana aconcentrarvi su questo importante aspetto della vostra vita e diiniziare un allenamento regolare se non ne avete già uno. Altrimentipotrete sfruttare questa settimana per aumentare la durata e l’intensitàdei vostri allenamenti o per provare qualcosa di nuovo.

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Capitolo IX

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Buona notte, cervelloAgire sulla leptina per governare il sistema ormonale

Finisci ogni giorno prima che cominci il successivo, e interponi unsolido muro di sonno fra loro.RALPH WALDO EMERSON

Era una giornata di fine novembre quando Samuel, un agente dicambio di quarantotto anni, venne da me e mi chiese di «ottimizzarela sua salute». Non era la prima volta che qualcuno faceva unarichiesta così generica e vaga, ma sapevo che cosa desiderava: volevache analizzassi a fondo le sue sofferenze e lo aiutassi a raggiungereuno stato di salute ed energia che non aveva mai sperimentato.Un’impresa ardua per qualunque dottore, tuttavia il suo volto gonfiomi fornì subito un indizio su quello che poteva essere il problema.Cominciai dall’anamnesi e dai principali disturbi. Soffriva diipotiroidismo ed era in cura per questo. Disse che conduceva una vitapiuttosto stressante, ma definì «buono» il suo stato di salute generale.In passato non aveva avuto molti problemi medici, però trovaiinteressante l’accenno al fatto che suo figlio, da piccolo, era «sensibile»ai cibi solidi e gli era stata diagnosticata una sensibilità al glutine.Approfondimmo il suo disturbo alla tiroide, e risultò che soffriva diuna malattia autoimmune chiamata tiroidite di Hashimoto, provocatadall’attivazione anomala del sistema immunitario che attacca laghiandola tiroidea.

Gli prescrissi poi un test per la sensibilità al glutine e i risultatifurono inequivocabili. Il suo livello di reazione era molto elevato: solouno dei ventiquattro anticorpi esaminati rientrava nell’intervallonormale. Aveva assoluta necessità di provare una dieta senza glutine.

La reazione di Samuel a questo cambiamento di regime alimentare

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fu davvero notevole e, a onor del vero, abbastanza prevedibile allaluce dell’esperienza del figlio e del suo test così fuori dalla norma.Quattro mesi dopo l’inizio della dieta ricevetti da lui una lettera chemi fece sorridere: confessava fino a che punto la sua vita fosse difficilequando aveva preso l’appuntamento per incontrarmi. Affermando cheil suo stato di salute era «buono» aveva con ogni evidenza raccontatouna frottola. La situazione era ben diversa, come mi scrisse:

Prima della diagnosi di sensibilità al glutine, la mia salute avevaimboccato una spirale discendente. … Anche se avevo poco più diquarant’anni e lavoravo tutti i giorni, ero apatico e faticavo adarrivare a fine giornata. … Stavo diventando più volubile e scattavocon facilità per le più piccole cose. … Subentrò la depressione, nonriuscivo a scrollarmi di dosso i pensieri negativi. Ero convinto distare morendo. … [Oggi] sono una persona nuova. Sono tornato aessere spensierato, e ho energia per tutto il giorno. Dormoregolarmente per tutta la notte e il mio dolore alle articolazioni èscomparso. Sono in grado di pensare con chiarezza e di non farmidistrarre dai miei compiti. Ma la cosa migliore è che la fascia digrasso resistente intorno al mio addome è in pratica scomparsa indue settimane. La ringrazio per avermi aiutato a riprendermi la miavita.

Anche se Samuel non accennò ai suoi problemi di sonno durante lavisita, avevo il vago sospetto che da qualche tempo non dormissebene. Aveva l’aria esausta e tutti i segni distintivi di una lunga emisteriosa privazione del sonno. Prima di essere curati, molti dei mieipazienti considerano così normale la mancanza di sonno chedimenticano come sia fare una bella dormita finché non tornano asperimentarlo. Samuel avrà pensato che dormire per tutta la nottefosse solo un vantaggio secondario rispetto al sollievo provato grazieall’eliminazione del glutine. Si sbagliava: era qualcosa di più. Nelmomento in cui cominciò a dormire un sonno ristoratore una nottedopo l’altra, iniziò a «rimettere in sesto» il suo corpo sotto il profiloormonale, emotivo, fisico e anche spirituale. A prescindere da tutti isuoi problemi con il glutine e persino dal suo disturbo alla tiroide,posso affermare senz’ombra di dubbio che riuscire a dormire con

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regolarità e a riposarsi fu di enorme importanza nel rovesciare lasituazione e raggiungere il traguardo desiderato: uno stato di saluteottimale.

La maggioranza di noi sottovaluta i benefici del sonno, che è unadelle poche risorse nella nostra vita a essere del tutto gratuita eassolutamente essenziale per il benessere. Inoltre, come scoprirete trapoco, è uno strumento fondamentale nella prevenzione deldecadimento cerebrale.

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La scienza del riposoNegli ultimi dieci anni, la scienza del sonno è stato uno degliargomenti preferiti dei media. E per una buona ragione: sotto il profiloscientifico comprendiamo il valore del sonno come mai prima d’ora.Gli studi clinici e le analisi di laboratorio sono concordi nel dimostrareche la qualità e la quantità del nostro sonno influiscono in pratica suogni apparato del corpo umano, in particolare sul cervello. 1 Il sonnopuò determinare quanto mangiamo, il ritmo del nostro metabolismo,se ingrassiamo o dimagriamo, se riusciamo a combattere le infezioni,quanto possiamo essere creativi e perspicaci, fino a che puntosopportiamo lo stress, con quale velocità siamo in grado di elaborareinformazioni e di apprendere nuove cose e in che modo riusciamo aorganizzare e immagazzinare ricordi. 2 Un sonno adeguato, che per lagrande maggioranza di noi significa almeno sette ore buone di sonno,influisce anche sui nostri geni. All’inizio del 2013, alcuni scienziati inInghilterra scoprirono che una settimana di privazione del sonnoalterava il funzionamento di 711 geni, alcuni dei quali avevano a chefare con stress, infiammazione, immunità e metabolismo. 3 Qualsiasicosa eserciti ripercussioni negative su queste importanti funzioni haun impatto sul cervello. Contiamo su quei geni per produrre unacostante riserva di proteine necessarie a sostituire o riparare tessutidanneggiati; il fatto che smettano di funzionare dopo appena unasettimana di sonno disturbato la dice lunga sul potere del riposo.Anche se possiamo non notare gli effetti collaterali a livello genetico,senza dubbio possiamo percepire gli altri segni di privazione cronicadel sonno: confusione, perdita di memoria, annebbiamento delcervello, immunodeficienza, obesità, malattie cardiovascolari, diabetee depressione. Tutte patologie in stretto rapporto con il cervello.

Di recente siamo anche arrivati a capire che pochi di noi dormono asufficienza in base alle vere esigenze del corpo. Circa il 10% degliamericani soffre di insonnia cronica, mentre almeno il 25% riferisce dinon dormire abbastanza, quantomeno di tanto in tanto. 4 Oltre

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all’aspetto quantitativo, l’attenzione degli esperti verte ora sulla qualitàdel sonno ai fini della sua capacità di rigenerare il cervello. È megliodormire bene per sei ore o male per otto? Si potrebbe pensare che adomande come queste sia facile rispondere e che sappiamo tuttoquello che c’è da sapere su una cosa che facciamo per buona partedella nostra vita. Tuttavia, la scienza sta ancora tentando di svelare ilmistero del sonno, e anche come influisca in modo diverso su uominie donne. Proprio mentre stavo scrivendo questo capitolo, è apparso unnuovo studio sui «sorprendenti effetti» del sonno sulla fame. Aquanto pare, gli ormoni influenzati dalla privazione del sonno sonodiversi negli uomini e nelle donne. 5 Anche se il risultato è ilmedesimo per entrambi i sessi – la tendenza a mangiare troppo –, lascintilla all’origine di quella fame non è la stessa per i due sessi. Negliuomini la mancanza di sonno provoca elevati livelli di grelina, unormone che stimola l’appetito. Nelle donne, invece, i livelli di grelinarestano inalterati, ma variano i livelli di un ormone soppressoredell’appetito, il GLP-1. È vero, una differenza così sottile può sembrareinsignificante dal momento che, nel complesso, il risultato è lo stesso,ma è un segno di come conosciamo poco le reazioni biochimiche delcorpo umano in rapporto al sonno.

Se c’è una cosa che invece sappiamo, è che, col passare degli anni,dormire diventa sempre più una sfida. Ciò avviene per svariateragioni, molte delle quali derivanti da condizioni di salute chepossono incidere sul sonno profondo. Fino al 40% degli anziani nonriesce a godersi una buona notte di sonno per problemi cronici comeapnea notturna e insonnia. Ormai abbiamo anche prove del nesso trasonno disturbato e declino cognitivo. Kristine Yaffe, una psichiatraalla University of California di San Francisco, studia le persone più arischio di sviluppare deterioramento cognitivo e demenza. Nella suaclinica per i disturbi della memoria, i problemi lamentati dai pazientihanno un comun denominatore: la difficoltà di addormentarsi erimanere addormentati. I soggetti riferiscono di essere stanchi pertutto il giorno e di ricorrere a sonnellini. Studiando per un periodo dicinque anni più di milletrecento adulti sopra i settantacinque anni, ladott.ssa Yaffe si è accorta che quelli che avevano problemi durante il

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sonno, per esempio disturbi respiratori o apnea, avevano un rischiopiù che raddoppiato di sviluppare demenza anni dopo. E anche isoggetti che sperimentavano interruzioni nel loro naturale ritmocircadiano, o che si svegliavano durante la notte, correvano un rischiomaggiore. 6

I ritmi circadiani sono fondamentali per il nostro benessere. A circasei settimane dalla nascita, tutti noi stabiliamo questo schema diattività ripetute, associate ai cicli diurno e notturno, che accompagneràil resto della nostra vita. Come avviene per l’alba e il tramonto, questiritmi si ripetono grossomodo ogni ventiquattro ore. Sperimentiamomolti cicli che coincidono con il giorno solare di ventiquattro ore, dalsonno/veglia agli schemi stabiliti nei nostri ritmi biologici: la crescita eil calo dei livelli ormonali, la variabilità della temperatura corporea, ilflusso e riflusso di determinate molecole che alimentano la nostrasalute e il nostro benessere. Quando il nostro ritmo non è in sincroniacon il giorno solare possiamo sentirci male o stanchi, come capita, peresempio, quando viaggiamo attraversando fusi orari e obblighiamo ilcorpo a adattarsi in fretta a un nuovo ciclo.

Trovo che la maggioranza delle persone non comprenda fino a chepunto il ritmo caratteristico del corpo sia basato sulle abitudini legateal sonno e controllato dal cervello. Il naturale ciclo diurno/notturnodel nostro organismo domina in pratica tutto ciò che ci riguarda,considerando che gli schemi ricorrenti delle nostre secrezioniormonali sono legati a questo ciclo. Un ottimo esempio è la nostratemperatura corporea, che, in conseguenza a un’oscillazione dideterminati livelli ormonali, aumenta durante il giorno, subisce unlieve calo nel pomeriggio (una piccola pausa di fine giornata) eraggiunge il picco la sera, per poi cominciare a scendere durante lanotte. Nelle prime ore del mattino toccherà il suo minimo, propriomentre i livelli di cortisolo cominciano ad aumentare, fino araggiungere l’apice in mattinata e poi decrescere nel resto dellagiornata. Chi svolge un lavoro a turni dorme con orari irregolari acausa delle responsabilità professionali e convive per questo con unmaggior rischio di contrarre una serie di malattie anche gravi. Nonper nulla il turno di notte è chiamato «turno del cimitero».

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La prossima volta che avvertite un’insolita stanchezza, malumore,sete, fame, rallentamento dei processi mentali, smemoratezza, o che visentite vigili, aggressivi o eccitati in modo anomalo, potrete dunquecercare di comprenderne il motivo riflettendo sulle vostre recentiabitudini in tema di sonno. Basti pensare che la regolazione ormonalerichiede un affidabile alternarsi tra stato di allerta e sonno ristoratore.Si potrebbero scrivere svariati volumi sugli ormoni, ma ai fini diquesta analisi, e, in particolare, del collegamento tra il sonno e lasalute del cervello, concentreremo l’attenzione su uno degli ormonipiù sottovalutati e trascurati del nostro organismo: la leptina. Dato cheil suo ruolo essenziale è coordinare le risposte infiammatorie del corpoe aiutare a stabilire se proviamo o meno un insaziabile desiderio dicarboidrati, non è possibile parlare di salute del cervello senzanominare questo importante ormone, che risente molto del sonno.Riuscire a controllare questo maestro cerimoniere biologico permettedi governare il sistema ormonale a beneficio del corpo e del cervello.

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Più grasso sei, più piccolo sarà il tuo cervelloEra il 1994. La scoperta colse di sorpresa la comunità medica e cambiòper sempre il nostro modo di vedere non solo il corpo umano e il suocomplesso sistema ormonale, ma anche il sonno e il suo vero valore.Proprio quando pensavamo di avere scoperto tutti gli ormoni e le lorofunzioni, trovammo un nuovo ormone di cui in precedenza nonconoscevamo l’esistenza. 7 Si chiama leptina e non è, a quanto pare, unormone qualsiasi. Come l’insulina, la leptina è molto importante einfluenza, in ultima analisi, tutti gli altri ormoni, controllando inpratica ciascuna funzione dell’ipotalamo nel cervello. L’ipotalamo è ilpunto in cui alberga il dinosauro che c’è in noi: una struttura arcaicache ha sede nel centro del cranio, responsabile delle attività ritmichedel corpo e di un’ampia gamma di funzioni fisiologiche, dalla fame alsesso. Forse questa scoperta è così recente perché la leptina è stataidentificata in un luogo improbabile: le cellule adipose.

Come ho già accennato, un tempo si pensava che le cellule adiposeavessero il solo scopo di conservare scorte, piene di calorie superfluetenute in serbo per il momento del bisogno. Ora, invece, sappiamo cheil tessuto adiposo è partecipe della nostra fisiologia come altri organi«vitali», perché gli ormoni che vi risiedono, come la leptina, decidonose finiremo per avere ventri sporgenti e piccoli cervelli. Innanzitutto,una rapida premessa: la funzione della leptina è assai complicata,come quella di quasi tutti gli ormoni nel corpo. L’intero sistemaormonale, di fatto, è di una complessità straordinaria. Vi sonoincredibili quantità di relazioni reciproche e descriverle tutte nonrientra nelle competenze di questo libro. Per semplificare le cose, miatterrò a quello che dovete sapere per assumere il controllo dei vostriormoni a beneficio del cervello.

La leptina è, a un livello molto elementare, uno strumentoprimitivo di sopravvivenza, legato in modo esclusivo allacoordinazione della nostra risposta metabolica, ormonale ecomportamentale alla fame. Di conseguenza, essa ha un forte influssosulle nostre emozioni e sul nostro comportamento. È una sorta di

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guardiano; capire questo ormone consente di governare il resto delsistema ormonale e, di conseguenza, controllare la propria salute inmodi inimmaginabili.

La leptina si trova nelle cellule adipose, ma ciò non significa che sia«cattiva». Un livello eccessivo comporta senz’altro dei problemi, inparticolare malattie degenerative e una vita più breve, mentre livellisalutari hanno l’effetto contrario: prevengono gran parte delle malattieda invecchiamento e favoriscono la longevità. Una maggioresensibilità a questo ormone di importanza cruciale va a braccetto conuna salute migliore. Con «sensibilità» mi riferisco al modo in cui irecettori di questo ormone lo riconoscono e utilizzano per eseguirevarie operazioni. Nora T. Gedgaudas, un’acclamata terapistanutrizionale, fornisce una breve definizione della leptina nel suo libroPrimal Body, Primal Mind (Corpo primitivo, mente primitiva):

La leptina controlla in sostanza il metabolismo dei mammiferi. Lamaggioranza delle persone crede che sia compito della tiroide, main realtà la leptina controlla la tiroide, che regola il ritmo delmetabolismo. La leptina sovrintende a tutte le riserve di energia,decide se farci venire fame e fare scorta di grasso o se bruciarlo. Laleptina governa la nostra risposta infiammatoria e può anchecontrollare l’attivazione del sistema nervoso simpatico o di quelloparasimpatico. Se una parte qualunque del sistema [ormonale] haqualcosa che non va, comprese le ghiandole surrenali o gli ormonisessuali, non avrete una sola chance di risolvere davvero laquestione finché non avrete sotto controllo i livelli della leptina. 8

Gedgaudas definisce la leptina l’«ultimo arrivato che detta leggenell’intero circondario» e io non potrei essere più d’accordo. Laprossima volta che appoggiate la forchetta e vi alzate da tavola,potrete ringraziare la leptina: quando lo stomaco è pieno, le celluleadipose rilasciano leptina per dire al cervello di smettere di mangiare.È il vostro freno. E questo spiega perché le persone con bassi livelli dileptina tendono a sovralimentarsi. Nel 2004 fu pubblicato uno studiofondamentale, in base al quale soggetti con un calo del 20% nel livellodi leptina sperimentavano un aumento del 24% della fame edell’appetito. Ne risultava una spinta a consumare cibi ad alta densità

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calorica e ad alto contenuto di carboidrati, soprattutto dolci, snacksalati e alimenti ricchi di amido. 9 E cosa aveva provocato questocrollo della leptina? La privazione del sonno. 10 Abbiamo imparatomolto sui nostri ormoni proprio dagli studi sul sonno, dai qualiabbiamo ricavato anche informazioni sulla sua importanza nellaregolazione degli ormoni.

Leptina e insulina hanno molto in comune, anche se tendono aessere in antagonismo. Entrambe sono molecole proinfiammatorie. Laleptina è una citochina infiammatoria e svolge un ruolo di primopiano nei processi flogistici del corpo, poiché controlla la produzionedi altre molecole infiammatorie nel nostro tessuto adiposo in tutto ilcorpo. E aiuta a spiegare perché le persone in sovrappeso e obese sonosoggette a problemi infiammatori, compresi quelli che aggravano ilrischio di malattie al cervello, problemi di salute mentale e patologieneurodegenerative. Leptina e insulina sono pezzi grossi nella catenadi comando del corpo, perciò eventuali squilibri tendono a generareuna spirale discendente, creando scompiglio in ogni apparatodell’organismo, oltre a quelli sotto il diretto controllo di questiormoni. Leptina e insulina risentono entrambe di influssi negativianaloghi e i loro principali nemici sono i carboidrati: più raffinati e piùelaborati sono, più i livelli di queste molecole ne risulterannoscombussolati. Ho già spiegato come il continuo abuso di carboidratisi ripercuota sulla produzione di insulina e sull’equilibrio glicemico,finendo per portare all’insulinoresistenza. Lo stesso accade con laleptina. Quando il corpo è sovraccarico e inondato da sostanze checausano continue impennate dei livelli di leptina, i recettori di questoormone cominciano a desensibilizzarsi, non avvertono più ilmessaggio della leptina e si diventa leptinoresistenti. In breve, icomandi non funzionano più e il corpo è vulnerabile a malattie e aulteriori disfunzioni. Così, anche livelli elevati di leptina nonriusciranno a segnalare al cervello che siete sazi e potete smettere dimangiare. Non riuscendo a controllare l’appetito, il pericolo diaumentare di peso e diventare obesi sarà molto più alto, così come ilrischio di disturbi cerebrali. Gli studi hanno altresì dimostrato cheelevati livelli di trigliceridi, a loro volta un segno caratteristico di

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un’alimentazione troppo ricca di carboidrati, sono causa dileptinoresistenza. 11

Non esiste un solo farmaco o integratore sulla Terra in grado diequilibrare i livelli di leptina. Il segreto per riuscirvi è migliorare laqualità del sonno e dell’alimentazione.

SIETE LEPTINORESISTENTI?È una domanda che tutti dobbiamo porci. Purtroppo, milioni diamericani hanno i requisiti necessari per essere membri a pieno titolodel club dei leptinoresistenti. È un dato di fatto, se seguite una dietaricca di carboidrati e non dormite bene. Nel libro di Ron Rosedale eCarol Colman, The Rosedale Diet (La dieta Rosedale), che offre unapanoramica completa sul ruolo della leptina nel controllo del peso, gliautori enumerano i seguenti sintomi, molti dei quali sono comunianche nell’insulinoresistenza: 12

essere sovrappesonon riuscire a modificare l’aspetto del proprio corpo, aprescindere da quanto esercizio fisico si faccianon riuscire a perdere peso o a non ingrassareavere sempre una voglia insaziabile di comfort foodsentirsi stanchi dopo i pastisentirsi sempre ansiosi o stressatisentirsi affamati, sempre o a strane ore della notteavere una tendenza a fare spuntini dopo i pastiavere livelli elevati di trigliceridi a digiuno, superiori a 100mg/dL, soprattutto se uguali o superiori ai livelli di colesteroloavere l’osteoporosiavere problemi a addormentarsi o a restare addormentatisoffrire di ipertensioneprovare regolarmente una voglia insaziabile di zucchero o distimolanti come la caffeinaavere le «maniglie dell’amore».

Se avete motivo di credere di essere leptinoresistenti, non lasciatevi

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prendere dal panico. Il programma delineato nel capitolo X virimetterà in carreggiata.

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L’altro lato della medaglia: la grelinaPrima di proseguire, devo menzionare un altro ormone collegatoall’appetito: la grelina. Se la leptina è lo yang, la grelina è lo yin.Questo ormone viene secreto dallo stomaco quando è vuoto eaumenta l’appetito, inviando al cervello il messaggio che avetebisogno di mangiare. Come ovvio, scombussolare i livelli di leptina egrelina ha ripercussioni su voglie incontrollabili, girovita, senso disazietà e capacità di resistere alle tentazioni in cucina. Negli studi sulsonno, i livelli di grelina salivano alle stelle in risposta all’insufficienzadi sonno negli uomini. Ciò causava un aumento dell’appetito e lapropensione a gravitare verso alimenti ricchi di carboidrati e poveri dinutrienti che, una volta consumati, si trasformano con facilità ingrasso. Quando gli ormoni dell’appetito non si comportano in modoadeguato, il cervello rimane in pratica scollegato dallo stomaco. Viinganna, facendovi credere di essere affamati quando non lo siete, estimola voglie irresistibili di alimenti che perpetueranno quel circolovizioso di formazione del grasso. Questo ciclo alimenta poi i più ampicircuiti di reazione che influiscono sull’equilibrio glicemico, sulle vieinfiammatorie e, com’è ovvio, sul rischio di disturbi e malattiecerebrali. In sintesi, se non riuscite a controllare la fame e l’appetitonon sarà facile tenere sotto controllo la chimica ematica, ilmetabolismo, il girovita e, più in generale, evitare in prospettivaproblemi a livello cerebrale.

Durante la terza settimana del programma, vi chiederò diconcentrarvi sul raggiungimento di un sonno di alta qualità chediventi una normale routine e vi permetta di acquisire il controllodegli ormoni che influiscono sul destino del vostro cervello. E nonavrete bisogno di qualcosa che vi aiuti a dormire. Il sonno miglioreper il cervello arriva in maniera naturale.

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Parte III

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DIRE ADDIO ALLE VECCHIE ABITUDINIALIMENTARI

Congratulazioni! Avete acquisito più informazioni sulle abitudini diun cervello molto efficiente di tanti medici che oggi esercitano laprofessione. Se non avete ancora cominciato ad apportare qualchemodifica alla vostra vita in base a ciò che avete letto, ora ne avrete lapossibilità. In questa parte del libro seguirete un programma diquattro settimane, nel corso delle quali smetterete di fare affidamentosui carboidrati e rieducherete il vostro corpo riportandolo a uno statodi salute ottimale. A quel punto vi sentirete pieni di vita e di energie ementalmente lucidi. E quando un qualsiasi dottore visionerà i vostriesami del sangue si congratulerà per il vostro ottimo controllo suglicemia, marcatori infiammatori e perfino livello del colesterolo. È ilsogno di tutti noi ed è assai più accessibile di quanto crediate.

Sulle prime, apportare cambiamenti, anche minimi, allo stile di vitapuò sembrare molto arduo. Vi domandate come potrete evitare levecchie abitudini, se sentirete la mancanza di qualcosa, se sareteaffamati, se troverete impossibile mantenere per sempre questo nuovostile di vita, se questo programma sarà realizzabile dato il tempo cheavete a disposizione e gli impegni già presi. E se riuscirete araggiungere un livello per cui seguire queste direttive diventeràautomatico.

Questo programma è la risposta. È una strategia semplice e lineare,con il giusto equilibrio tra struttura e flessibilità per rispettare levostre preferenze personali e la vostra facoltà di scelta. Porterete atermine queste quattro settimane con la consapevolezza e la voglia direstare su questa strada salutare per il resto della vostra vita. Più viatterrete alle mie linee guida, prima ne vedrete i risultati. Nondimenticate che questo programma offre molti vantaggi al di là di

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quelli fisici, ormai scontati. Una salute ottimale del cervello (e ungirovita più snello) potrebbe essere la vostra priorità, ma legratificazioni non finiscono qui: osserverete cambiamenti in ogniambito della vostra vita. Acquisirete maggiore sicurezza e autostima.Vi sentirete più giovani e capaci di controllare meglio la vostra vita e ilvostro futuro. Saprete attraversare senza difficoltà periodi stressanti,sarete motivati a mantenervi attivi e a interagire con gli altri, e visentirete più realizzati sia a casa sia al lavoro. In breve, sarete più felicie più produttivi. E il vostro successo porterà ad altri successi. Quandola vita diventerà più ricca, piena e stimolante grazie ai vostri sforzi,non vorrete tornare allo stile di vita poco sano di prima. Io so chepotete farcela. È un dovere, verso voi stessi e verso i vostri cari. Irisultati sono colossali… e lo sono anche le conseguenze, in potenzadisastrose, di non tenere conto di questi consigli.

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Capitolo X

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Un nuovo stile di vitaIl piano d’azione in quattro settimane

A casa servo una varietà di alimenti di cui conosco la provenienza.MICHAEL POLLAN

Questo è il punto cruciale. Molti di voi potrebbero essere colti dalpanico al pensiero di perdere gli amati carboidrati. Mi rendo conto cheper alcuni abbandonare pane, pasta, pasticcini e la maggior parte deidessert (tra le altre cose) sarà difficile. Cambiare è difficile. E cambiareabitudini di vecchia data è ancora più difficile.

Spesso mi viene chiesto innanzitutto: «Cosa diamine mangerò?».Alcuni si preoccupano di come reagiranno all’astinenza da zucchero egrano e all’insaziabile fame di carboidrati. Si immaginano di nutriredesideri incontrollabili cui non riusciranno a resistere. Temono lareazione del corpo a un’inversione a U nell’alimentazione, e sidomandano se sia davvero fattibile nella realtà, visto che la forza divolontà non fa parte del loro vocabolario.

Ebbene, lasciate che sia il primo a dire che sì, tutto questo èpossibile. Dovete solo compiere il primo passo e sperimentarne glieffetti. Prevedo che in pochi giorni, o giusto un paio di settimane,penserete con più lucidità, dormirete meglio e avrete più energie.Soffrirete meno di mal di testa, affronterete con disinvoltura lo stress evi sentirete più felici. Quelli di voi che convivono con una malattianeurologica cronica, come per esempio il disturbo da deficit diattenzione e iperattività, il disturbo d’ansia o la depressione,potrebbero notare che i sintomi cominciano ad attenuarsi o addiritturascompaiono. Con il tempo constaterete un calo ponderale e il nettomiglioramento di molti valori in determinati esami di laboratorio. Se

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poteste sbirciare nel vostro cervello, vedreste anche che stafunzionando al massimo livello.

È una buona idea consultare il dottore prima di iniziare questoprogramma, soprattutto se avete problemi di salute come il diabete. Inparticolare, è importante farlo se intendete optare per il digiuno di ungiorno descritto a pagina 245.

Nel corso del prossimo mese raggiungerete quattro obiettiviimportanti:

1. distogliere il corpo dalla dipendenza da carboidrati comecarburante e aggiungere al regime quotidiano integratori utili alcervello;

2. inserire nei propri impegni un programma di attività fisica pertenersi in forma, se già non se ne ha uno;

3. fare in modo di dormire un sonno regolare e rigenerante settegiorni alla settimana;

4. instaurare un nuovo ritmo e mantenere abitudini salutari per lavita.

Ho suddiviso il programma in quattro settimane, ciascuna dedicata aconcentrarsi su uno di questi particolari obiettivi. Nei giorni cheprecedono la prima, dovreste recarvi dal dottore e sottoporvi adalcuni esami che vi forniranno un punto di riferimento.

Approfitterete di questo periodo anche per riorganizzare la cucina,iniziare ad assumere gli integratori, cominciare a perdere l’abitudineai carboidrati e prendere in considerazione un digiuno di un giornoper partire con il piede giusto.

Durante la prima settimana, che chiameremo «Obiettivoalimentazione», comincerete a usare i miei menù e a seguire i mieiconsigli sulla dieta.

Durante la seconda settimana, «Obiettivo esercizio fisico», viesorterò a iniziare un regolare programma di attività fisica e viproporrò qualche idea per muovervi di più durante la giornata.

Durante la terza settimana, «Obiettivo sonno», vi concentreretesulle vostre abitudini legate al sonno e seguirete alcuni semplici

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suggerimenti per assicurarvi di dormire nel modo migliore ognisingola notte, fine settimana compreso.

Durante la quarta settimana, «Obiettivo applicazione integrata», viaiuterò a mettere insieme tutti gli elementi del programma e vi forniròstrategie per far sì che questi nuovi comportamenti diventino persempre parte della vostra vita. Non dubitate della vostra capacità diriuscita; ho progettato questo programma affinché fosse il piùpossibile pratico e facile da seguire.

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Preludio alla prima settimana: preparazioneSTABILITE QUAL È LA VOSTRA SITUAZIONE DI PARTENZAPrima di cominciare la dieta sottoponetevi, se possibile, ai seguentiesami di laboratorio. Dove opportuno, ho inserito i livelli salutariindicativi.

Test Livello ideale

glicemia a digiuno meno di 95 milligrammiper decilitro (mg/dL)

insulina a digiuno inferiore a 8 µUI/ml(idealmente inferiore a 3)

emoglobina A1C 4,8 - 5,4%

fruttosamina 188 - 223 µmol/L

omocisteina 8 µmol/L o inferiore

vitamina D 80 ng/mL

proteina C reattiva 0,00 - 3,0 mg/L

sensibilità al glutinecon test Cyrex array 3

Questi esami dovrebbero essere ripetuti al termine del programmadi quattro settimane. Tenete presente che potrebbero essere necessaridiversi mesi per riscontrare un netto miglioramento di questiparametri e dell’emoglobina A1C in particolare, che di solito si misurasolo ogni tre o quattro mesi. Se rispetterete questo programma fin dalprimo giorno, comunque, entro un mese dovreste cominciare a

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riscontrare nei livelli di glicemia e di insulina cambiamenti positiviche vi motiveranno a proseguire.

Il test della fruttosamina è la misurazione di una proteina glicatache consente di comprendere bene il controllo glicemico medio;questo parametro cambia abbastanza rapidamente, in due o tresettimane. Pertanto, se forse non riscontrerete grandi variazioninell’emoglobina A1C, dovreste senz’altro notarne nella fruttosamina.

L’omocisteina è un amminoacido considerato ormai in genereabbastanza tossico per il cervello; come accennato prima, il livello cuiaspirare è intorno agli 8 micromole al litro (µmol/L) o inferiore. Unlivello 14 di omocisteina – valore superato da molti dei miei paziential primo esame – è stato descritto dal «New England Journal ofMedicine» come associato a un raddoppiamento del rischio del morbodi Alzheimer (qualsiasi livello superiore a 10 µmol/L di omocisteinanel sangue è un livello «elevato»). I livelli di omocisteina sono quasisempre facili da migliorare. Molti farmaci possono inibire le vitamineB e provocare l’aumento dell’omocisteina (si veda l’elenco sul sitoDrPerlmutter.com), ma per intervenire a correggere il vostro livello èsufficiente un’integrazione di alcune vitamine B e acido folico. Disolito, invito i pazienti con risultati poco soddisfacenti nel testdell’omocisteina a prendere ogni giorno 50 milligrammi di vitaminaB6, 800 microgrammi di acido folico e 500 microgrammi di vitaminaB12 e a ripetere l’esame dopo circa tre mesi.

Non vi allarmate se il vostro livello di vitamina D è molto basso: lamaggioranza degli americani presenta una carenza di questofondamentale nutriente. Poiché il corpo può avere bisogno di tempoper incrementare i suoi livelli di vitamina D con l’assunzione diintegratori, comincerete con 5000 unità internazionali (UI) di vitaminaD una volta al giorno e verificherete il livello dopo due mesi. Setrascorso questo tempo il vostro livello sarà pari a 50 nanogrammi almillilitro (ng/mL) o inferiore, assumerete altre 5000 UI al giorno eripeterete l’esame dopo due mesi. È il livello mantenuto nel corpo checonta, non il dosaggio. La norma è compresa tra 30 e 100 ng/mL, manon vorrete fermarvi a un misero 31: mirate a un livello intorno agli 80ng/mL, che rispecchia la metà della cosiddetta zona normale. Chiedete

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al vostro medico di aiutarvi a regolare il dosaggio per raggiungere unlivello ottimale. Quando l’avrete fatto, di solito una dose giornaliera di2000 IU sarà sufficiente per conservare un livello salutare, ma perconsigli specifici rivolgetevi al vostro dottore.

La proteina C reattiva, un marcatore di infiammazione, ha unlivello ideale inferiore a 1,0 mg/L. Possono essere necessari diversimesi per migliorare questo valore, tuttavia è possibile che notiatecambiamenti positivi anche a un mese dall’inizio del programma.

Infine, raccomando vivamente di richiedere il test Cyrex array 3: èil migliore sul mercato per la sensibilità al glutine. Secondo la miaesperienza, i test standard di laboratorio per rilevare il morbo celiaconon sono abbastanza sensibili per verificare ogni sensibilità al glutine,dunque non prendetevi il disturbo di farli.

COMINCIATE AD ASSUMERE GLI INTEGRATORIInizierete ad assumere integratori ogni giorno per tutta la vita. Litrovate elencati nella pagina che segue con il dosaggio giornalieroconsigliato, e sono reperibili nei negozi di prodotti dietetici, nellamaggior parte delle farmacie e dei supermercati e in internet. Sul miosito segnalo un elenco di alcune delle marche che preferisco. Iprobiotici dovrebbero essere presi a stomaco vuoto, ma gli altriintegratori possono essere assunti anche in concomitanza dei pasti. Gliintegratori idrosolubili come la curcuma e il resveratrolo vengonometabolizzati piuttosto in fretta, quindi è meglio assumerli due volteal giorno. La vitamina D e il DHA sono oli, perciò una volta al giornova benissimo. Per ulteriori dettagli su ciascuno di essi tornate alcapitolo VII.

Se avete domande sul dosaggio a causa di problemi di salutepersonali, rivolgetevi al vostro medico affinché vi assista negliopportuni aggiustamenti. Nel complesso, tutti i dosaggi elencati sonoideali sia per adulti sia per bambini, ma interpellate il pediatra per unconsiglio specifico in base al peso di vostro figlio.

Nella mia clinica, per esempio, prescrivo 100 milligrammi di DHAper i bambini fino ai diciotto mesi, e poi 200 milligrammi al giorno;per i bambini con disturbo da deficit di attenzione e iperattività,

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invece, di solito quei dosaggi sono più elevati: intorno ai 400milligrammi al giorno.

acido alfa lipoico 600 mg al giorno

olio di cocco 1 cucchiaino al giorno, puro o comeingrediente in cucina

DHA 1000 mg al giorno (attenzione:va bene acquistare DHA abbinato con

EPA; optate per un integratore con oliodi pesce o scegliete DHA derivato da

alghe marine)

probiotici una capsula assunta a stomaco vuotofino a tre volte al giorno; cercate un

probiotico che contenga almeno diecimiliardi di colture attive dialmeno dieci specie diverse,

compresi il lactobacillus acidophiluse il bifidobacterium

resveratrolo 100 mg due volte al giorno

curcuma 350 mg due volte al giorno

vitamina D 5000 UI al giorno

RIPULITE LA VOSTRA CUCINANei giorni che precedono l’adozione della nuova dieta, è bene fare uninventario della cucina togliendo di mezzo alimenti che nonconsumerete più. Cominciate eliminando ciò che segue.

Ogni fonte di glutine (per l’elenco completo si vedano le pagine74-75), come pane ai cereali integrali o di frumento integrale,

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spaghetti e vari tipi di pasta, dolcetti, prodotti da forno e cereali.

Ogni forma di carboidrati, zuccheri e amidi trattati: mais, patate,patate dolci, patatine, cracker, biscotti, dolcetti, muffin, impastoper la pizza, torte, ciambelle, snack dolci, caramelle, barretteenergetiche, gelati, yogurt, sorbetti, marmellate/gelatine/conserve,ketchup, formaggi da spalmare, succhi di frutta, frutta secca,bibite sportive, bibite analcoliche e frizzanti, cibi fritti, miele,agave, zucchero (bianco e di canna), sciroppo di mais e sciroppod’acero.

Alimenti confezionati contrassegnati come «senza grassi» o «abasso contenuto di grassi» (a meno che non siano davvero «senzagrassi» o «a basso contenuto di grassi» e compresi nel protocollo,come per esempio acqua, senape e aceto balsamico).

Margarina, grasso vegetale per pasticceria e olio da cucina (oli disemi di soia, di mais, di semi di cotone, di ravizzone, di arachidi,di cartamo, di vinaccioli, di girasole, di crusca di riso e di germedi grano) di qualunque marchio commerciale e anche sebiologico.

Soia non fermentata (per esempio tofu e latte di soia) e alimentitrattati contenenti soia (cercate nell’elenco degli ingredienti«proteine isolate della soia»; evitate il formaggio di soia, glihamburger di soia, gli hot dog di soia, lo spezzatino di soia, ilgelato di soia, lo yogurt di soia). Attenzione: anche se alcune salsedi soia prodotte in modo naturale sono tecnicamente prive diglutine, quelle di molti marchi commerciali ne contengono alcunetracce. Se avete bisogno di usare la salsa di soia per cucinare,usate il tamari prodotto con il 100% di fagioli di soia e senzagrano.

State attenti ai cibi contrassegnati (e commercializzati) come «senzaglutine». Alcuni di questi alimenti vanno bene perché non contengonoglutine all’origine. Molti, però, riportano questa dicitura perché sonostati trattati: il glutine è stato sostituito da un altro ingrediente, comeper esempio l’amido di mais, la farina di mais, l’amido di riso, la

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fecola di patate e la tapioca, che possono essere altrettanto dannosi,provocando un forte aumento della glicemia. Inoltre, possono semprerimanere tracce di glutine. Al momento la dicitura «senza glutine»non ha significato legale; la FDA (L’agenzia statunitense per laregolamentazione di alimenti e farmaci) ha proposto una definizione,ma non l’ha ancora messa a punto. Siate ancora più prudenti consalse, sughi e prodotti a base di farina di mais senza glutine (peresempio tacos, tortillas, cereali e patatine di mais).

FATE RIFORNIMENTOI seguenti alimenti possono essere consumati in quantità (se possibile,scegliete sempre prodotti integrali locali e biologici; vanno bene anchesurgelati).

Grassi sani: olio extravergine d’oliva, olio di sesamo, olio dicocco, sego di animali allevati al pascolo e burro biologico o dabestiame allevato al pascolo, burro chiarificato, latte di mandorla,avocado, noci di cocco, olive, frutta in guscio e burro ricavato dafrutta in guscio, formaggio (a eccezione dei formaggi erborinati) esemi (di lino, di girasole, di zucca, di sesamo, di chia).

Erbe, condimenti e spezie: qui potete sbizzarrirvi, a patto di stareattenti alle etichette. Dite addio a ketchup e chutney (composte)ma godetevi senape, rafano, tapenade e salsa piccante, purchésiano senza glutine, grano, soia e zucchero. In pratica nonesistono restrizioni per erbe aromatiche e condimenti; attenzione,tuttavia, ai prodotti confezionati provenienti da impianti chelavorano grano e soia.

Verdura: verdure a foglia verde e insalate, cavoli da foglie,spinaci, broccoli, cavolo riccio, bietola, cavolo verza, cipolle,funghi, cavolfiore, cavolini di Bruxelles, crauti, carciofo, germoglidi alfalfa, fagiolini, sedano, cavolo cinese, ravanelli, crescione,rapa, asparago, aglio, porro, finocchio, scalogno, cipollotti,zenzero, jicama, prezzemolo, castagne d’acqua.

Frutti a basso contenuto di zucchero: limone, lime, avocado; ma

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anche peperone, cetriolo, pomodoro, zucchina, zucca, melanzana.

Proteine: uova intere, pesce selvatico (salmone, merluzzo nero,lampuga, cernia, aringa, trota, sardine), crostacei e molluschi(gambero, granchio, aragosta, cozze, vongole, ostriche), carne dianimali allevati al pascolo, volatili, pollame e maiale (manzo,agnello, bisonte, pollo, tacchino, anatra, struzzo, vitello),selvaggina.

I seguenti alimenti possono essere usati con moderazione(«moderazione» significa consumarne piccole quantità una volta algiorno, oppure, meglio ancora, solo un paio di volte alla settimana).

Carote e pastinache.

Fiocchi di latte, yogurt e kefir: usare con parsimonia in ricette ocome guarnizione.

Latte vaccino e panna: usare con parsimonia nelle ricette, nel caffèe nel tè.

Legumi (fagioli, lenticchie, piselli). Eccezione: potete consumaredell’hummus (una purea a base di ceci).

Cereali senza glutine: amaranto, grano saraceno, riso (bianco,integrale, selvatico), miglio, quinoa, sorgo, teff. (Una notasull’avena: anche se in natura in genere non contiene glutine,spesso è contaminata da glutine perché viene lavorata in muliniche trattano anche il grano; evitatela, a meno che sia garantitacome senza glutine.) Quando i cereali senza glutine vengonolavorati per il consumo umano (per esempio nella macinaturadell’avena integrale e nella preparazione del riso per ilconfezionamento), la loro struttura fisica cambia e questoaumenta il rischio di una reazione infiammatoria. Pertantolimitiamo il consumo di questi alimenti.

Dolcificanti: stevia naturale e cioccolato (scegliete cioccolatofondente con almeno il 70% di cacao).

Frutta intera dolce: le bacche sono la scelta migliore; fate

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particolare attenzione ai frutti zuccherini come albicocche,manghi, meloni, papaie, prugne secche e ananas.

Vino: un bicchiere al giorno, se lo gradite, preferibilmente rosso.

RIVALUTIAMO LE UOVASento il dovere di dire qualcosa di positivo in difesa delle uova,perché sono tra gli alimenti più ingiustamente vituperati della nostraepoca moderna. Comincerò con l’esporre due dati di fatto importanti,ma spesso dimenticati: 1) la scienza ha più volte fallito nel tentativo dicollegare i grassi alimentari di origine animale (grassi saturi) e ilcolesterolo alimentare ai livelli di colesterolo serico e al rischio dicoronaropatia; la convinzione che il colesterolo che consumiamo sitrasformi subito in colesterolo ematico è palesemente falsa; 2) quandoi ricercatori confrontano i livelli di colesterolo serico con il consumo diuova, constatano che i livelli di coloro che consumano poche uova oche non ne consumano affatto sono in pratica identici a quelli dipersone che ne consumano in abbondanza. Non dimenticate che, alcontrario dell’opinione comune, il colesterolo alimentare riduce laproduzione di colesterolo del corpo e più dell’80% del colesterolomisurato dall’esame del sangue viene prodotto dal fegato.

Usiamo le parole di un valido articolo di ricercatori britannici, Eggsand Dietary Cholesterol – Dispelling the Myth (Uova e colesteroloalimentare: sfatare un mito), pubblicato sul bollettino della BritishNutrition Foundation:

Il diffuso pregiudizio che le uova influiscano in modo negativo sulcolesterolo ematico e di conseguenza facciano male al cuore èpersistente e continua ancora a influenzare i consigli di alcuniprofessionisti della sanità. Il mito prevale a dispetto delle proveevidenti che gli effetti degli alimenti ricchi di colesterolo sulcolesterolo ematico sono scarsi e poco significativi sotto il profiloclinico. 1

I messaggi erronei ma forti riguardanti la limitazione del consumo diuova, diffusi soprattutto dagli Stati Uniti negli anni Settanta, hannopurtroppo circolato a lungo. Decine e decine di studi hanno

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confermato il valore delle uova, che sono forse l’alimento più perfettodel mondo. Il tuorlo è la parte più nutriente. 2 In uno studio del 2013, iricercatori della University of Connecticut dimostrarono che, con unadieta povera di carboidrati, il consumo – anche quotidiano – di uovaintere migliorava la sensibilità all’insulina e altri parametri legati alrischio cardiovascolare. 3 Oltre al colesterolo sano, le uova intereracchiudono tutti gli amminoacidi essenziali di cui abbiamo bisognoper vivere, vitamine e minerali, ma anche antiossidanti noti perchéproteggono la salute degli occhi: il tutto con appena 70 calorieciascuna. Inoltre, contengono ampie riserve di colina, sostanza diparticolare importanza perché contribuisce alla funzione cerebrale ealla salute di madre e feto durante la gravidanza. Quando vedo scrittosu un menù «omelette di solo albume» mi viene da rabbrividire.

Noterete che in questa dieta consiglio di mangiare molte uova. Perfavore, non abbiatene paura. Potrebbero essere il modo migliore periniziare la giornata e dare il là all’equilibrio della glicemia. E con leuova si possono preparare tanti piatti. Strapazzate, fritte, in camicia,bollite o usate per cucinare svariate pietanze, sono senz’altro fra gliingredienti più versatili. Preparate una confezione di uova sode ladomenica sera e avrete la colazione e/o gli spuntini per tutta lasettimana.

DIGIUNO FACOLTATIVOL’ideale è iniziare la prima settimana del programma dopo averedigiunato per un giorno intero. Digiunare è un ottimo metodo pergettare le basi e accelerare il passaggio del corpo dagli zuccheri aigrassi come carburante; le conseguenze biochimiche per la salute delcorpo e del cervello saranno prodigiose. Molti preferiscono digiunaredomenica (l’ultimo pasto è la cena di sabato sera), e poi cominciare lanuova dieta il lunedì mattina.

Il protocollo del digiuno è semplice: niente cibo ma molta acqua perun periodo di ventiquattro ore. Evitate anche la caffeina. Se stateassumendo farmaci, continuate assolutamente a prenderli (se sietediabetici, consultate prima il vostro dottore). Se l’idea di digiunare vipesa troppo, limitatevi a sospendere i carboidrati per qualche giorno

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mentre preparate la vostra nuova cucina. Più il vostro corpo èdipendente dai carboidrati, più lo troverete difficile. Preferisco che imiei pazienti mettano un punto fermo quando si tratta di dire no alglutine, dunque fate del vostro meglio per eliminare per interoalmeno le fonti di glutine e ridurre gli altri carboidrati. Nel momentoin cui il corpo non è più dipendente dai carboidrati, sarà possibiledigiunare per periodi più lunghi, talvolta per giorni. Quando avreteadottato questa dieta per la vita e vorrete digiunare per ricavarneulteriori vantaggi, potrete provare un digiuno di settantadue ore(dando per scontato che avrete verificato con il vostro medico sesoffrite di disturbi di cui tenere conto). Io consiglio di digiunarealmeno quattro volte all’anno; il digiuno durante i cambiamenti distagione (per esempio l’ultima settimana di settembre, dicembre,marzo e giugno) è un’ottima abitudine.

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La prima settimana: obiettivo alimentazioneOra che la vostra cucina è a posto, è tempo di abituarvi a preparare ipasti applicando questa nuova serie di criteri. Nel prossimo capitolotroverete un programma con menù giornalieri per la prima settimana,che poi vi servirà come modello per pianificare i pasti delle restanti tresettimane. A differenza di altre diete, questa non vi chiederà dicontare le calorie, limitare l’apporto di grassi o preoccuparvi delleporzioni. Confido che conosciate la differenza tra un piatto moltoabbondante e una quantità normale. E non vi chiederò neppure dipreoccuparvi di quanti grassi saturi o insaturi consumate.

Il vantaggio di questo tipo di dieta è che si basa moltosull’«autoregolazione»: non eccederete nel mangiare e vi sentirete saziper diverse ore prima di avere bisogno di un altro pasto. Quando ilcorpo funziona per lo più a carboidrati, è in balia delle montagnerusse di glucosio e insulina: la glicemia che scende in picchiataprovoca una fame intensa, mentre la sazietà è di breve durata.Consumare una dieta povera di carboidrati e più ricca di grassi avràl’effetto opposto. Eliminerà le voglie incontrollabili e preverrà queiblocchi mentali che si verificano spesso nel tardo pomeriggio con lediete a base di carboidrati. Consentirà in modo automatico, dicontrollare le calorie (senza neppure pensarci), bruciare più grassi,non mangiare in maniera confusa e meccanica (cioè evitare diassumere quelle 500 calorie extra circa che tanti consumano ognigiorno senza accorgersene per tenere a bada una glicemia nel caos) emigliorare senza sforzo le prestazioni mentali. Dite addio allasensazione di essere lunatici, confusi, indolenti e stanchi per tutto ilgiorno. E date il benvenuto al vostro nuovo Io.

L’unica differenza tra questo mese e quello che verrà dopo è chemirerete ad assumere quantità minime di carboidrati. È imperativoridurre l’apporto di carboidrati ad appena 30-40 grammi al giorno perquattro settimane. In seguito, potrete aumentarlo a 60 grammi.Aggiungere carboidrati alla vostra dieta dopo le prime quattrosettimane non significa riprendere a mangiare pasta e pane. Quello

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che farete è solo consumare una quantità di poco maggiore deglialimenti elencati nella categoria «con moderazione», come peresempio frutta intera, cereali senza glutine e legumi.

Come sapere quanti ne state assumendo? Usate l’almanacco deglialimenti sul mio sito web (DrPerlmutter.com), che elenca i grammi dicarboidrati a porzione. Se seguirete i menù e le ricette di questo libro,presto riuscirete a capire com’è un pasto povero di carboidrati.

E l’apporto di fibre? Molte persone temono che ridurre il consumodi pane e prodotti a base di grano e «ricchi di fibre» sarà causa di unadrammatica perdita di fibre indispensabili. Sbagliato. Sostituendoquei carboidrati con altri a base di frutta a guscio e verdura l’apportodi fibre aumenterà. E avrete un sufficiente apporto di vitamineessenziali e anche di nutrienti che in precedenza, con ogni probabilità,vi mancavano.

Forse troverete utile tenere un diario alimentare per tutto il tempodel programma. Prendete nota delle ricette che vi piacciono e deglialimenti che ritenete possano ancora crearvi difficoltà (per esempio sesi presentano sintomi come stomaco sottosopra o mal di testa ognivolta che mangiate i semi di sesamo). Alcune persone sono sensibiliad alcuni alimenti compresi in questa dieta. Circa la metà dei soggetticon intolleranza al glutine, per esempio, è suscettibile anche ailatticini. Strano a dirsi, i ricercatori stanno constatando che anche ilcaffè tende a una reazione crociata con il glutine. Qualora, dopo avereintrapreso questa dieta, aveste ancora la sensazione che vi sia qualcheproblema, potrete eseguire un altro esame di laboratorio, il test Cyrexarray 4, che può aiutare a individuare gli alimenti che, nel vostro caso,hanno una reazione crociata con il glutine. Esso identifica inparticolare reazioni ai seguenti alimenti:

amarantoavena caffè

canapacioccolato

farro

grano saracenolatticinilievitomiglioquinoa

riso

siero di lattesoia

sorgotapioca

teffuova

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sesamo

Per le prime tre settimane del programma vi consiglio di evitare dimangiare fuori casa, così potrete concentrarvi sulla messa a punto delprotocollo alimentare. Ciò vi preparerà al giorno in cui andrete amangiare fuori e dovrete saper decidere cosa ordinare (si vedano lepagine 258-259). Le prime tre settimane, inoltre, vi libereranno davoglie incontrollabili, e sarete meno suscettibili alle tentazioni di unmenù pieno di carboidrati.

Durante la prima settimana concentratevi sulla padronanza dellenuove abitudini alimentari. Potrete usare le mie ricette, compreso ilmodello per pianificare i pasti di sette giorni, o avventurarvi per contovostro, purché vi atteniate ai criteri stabiliti. Ho ideato un sempliceelenco di idee suddivise in categorie per tipo di pasto (per esempiocolazione, pranzo o cena, insalate), dunque scegliete pure a vostropiacimento. Ogni pasto dovrebbe contenere una fonte di grassi sani eproteine. Potete mangiare quasi tutte le verdure che volete, aeccezione di mais, patate, carote e pastinache. Se seguite il programmadella prima settimana, in futuro impostare i vostri pasti sarà una cosada nulla.

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La seconda settimana: obiettivo esercizio fisicoSe non lo state già facendo, puntate a impegnarvi in un’attività fisicaaerobica per un minimo di venti minuti al giorno. Approfittate diquesta settimana per instaurare una routine di vostro gradimento cheaumenti la frequenza del battito cardiaco almeno del 50% rispetto allepulsazioni a riposo. Non dimenticate che state creando nuoveabitudini da seguire per tutta la vita: non è il caso di logorarsi, maneppure di faticare troppo poco e rifuggire dallo sfidare il vostrocorpo in modi che possano promuovere la salute e aumentare lalongevità del cervello.

Per raccogliere i benefici dell’esercizio fisico, mirate a faticarealmeno una volta al giorno e a costringere i vostri polmoni e il cuore alavorare di più. Oltre a tutti i vantaggi che ne ricaverete sul pianocardiovascolare e di gestione del peso corporeo, gli studi dimostranoche le persone che fanno esercizio fisico con regolarità, fanno garesportive o anche solo camminano diverse volte alla settimana,proteggono il loro cervello dall’atrofia. Riducono inoltre al minimo lapossibilità di diventare obesi e diabetici, cioè affetti da patologie cherappresentano importanti fattori di rischio nelle malattie cerebrali.

Se avete condotto uno stile di vita sedentario, limitatevi a fare unapasseggiata di venti minuti al giorno e quando avrete familiarizzatocon la vostra routine aggiungete altri minuti. Potrete anche renderepiù intensi i vostri allenamenti aumentando la velocità e affrontandosalite. O portare un peso di circa due chilogrammi in ogni mano edeseguire alcuni esercizi per i bicipiti mentre camminate.

Se praticate già un’attività per mantenervi in forma, provate avedere se potete intensificare gli allenamenti fino a un minimo ditrenta minuti al giorno, almeno cinque giorni alla settimana. Questapotrebbe anche essere la settimana in cui provate qualcosa di diverso,come un nuovo corso in palestra, o rispolverate una vecchia biciclettain garage. Al giorno d’oggi le occasioni per fare esercizio sonoovunque, al di là delle palestre tradizionali, dunque non esistonoscusanti. Potete perfino utilizzare dei video tutorial su internet e fare

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esercizi nel comfort della vostra casa. Non importa cosa scegliete,basta che lo facciate!

Un allenamento completo dovrebbe richiedere un insieme diesercizi che aumentano il ritmo cardiaco, esercizi di resistenza edesercizi di allungamento. Se partite da zero, cominciate con i primi eaggiungete in seguito resistenza e stretching. L’allenamento diresistenza può essere effettuato con classiche attrezzature da palestra,pesi, o l’utilizzo del vostro peso corporeo in lezioni mirate a questaattività, come per esempio yoga e pilates. Queste lezioni implicanospesso anche molti esercizi di allungamento, ma non è necessario uncorso vero e proprio per lavorare al mantenimento della flessibilità.Potete eseguire numerosi esercizi di stretching anche per conto vostro,perfino davanti alla televisione.

Una volta messo a punto un allenamento regolare, sarete in gradodi programmare la vostra routine quotidiana in base a diversi tipi diesercizio. Per esempio: lunedì, mercoledì e venerdì potreste dedicarviper un’ora allo spinning e martedì e giovedì a un corso di yoga. Poi, alsabato, fare una passeggiata con gli amici o nuotare in piscina; quindiprendervi la domenica di vacanza per riposare. Vi consiglio di tirarfuori l’agenda e segnarvi il programma dell’attività fisica.

Se capita un giorno in cui non avete proprio tempo da dedicare auna serie di esercizi convenzionali, ingegnatevi per ritagliare deimomenti di attività fisica. Tutte le ricerche indicano che da tre sessionidi dieci minuti ciascuna è possibile ottenere benefici per la saluteanaloghi a quelli di un singolo allenamento di trenta minuti. Se siete acorto di tempo in una certa giornata, dunque, limitatevi a suddividerela vostra routine in segmenti più brevi. E pensate a come abbinarel’esercizio fisico ad altri compiti: per esempio, fare la riunione con uncollega di lavoro camminando all’aperto o guardare la televisione disera mentre portate a termine una serie di esercizi di stretching a terra.Se possibile, riducete i minuti che passate seduti, muovetevi mentreparlate al telefono con l’auricolare, usate le scale al postodell’ascensore e parcheggiate molto lontano dalla porta d’ingresso alvostro edificio. Più vi muovete nel corso della giornata, più il vostrocervello ne trarrà vantaggio.

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La terza settimana: obiettivo sonnoOltre a portare avanti le nuove abitudini alimentari e di eserciziofisico, sfruttate questa settimana per concentrarvi sull’igiene delvostro sonno. Ora che seguite questo protocollo da un paio disettimane, dovreste dormire meglio. Se dormite abitualmente meno disei ore per notte, potete iniziare con l’estendere questo lasso di tempoad almeno sette ore. Questo è il minimo, se volete avere livelli sani enormali di fluttuazione ormonale.

Per accertarvi di aver fatto tutto ciò che potete per ottenere unsonno ristoratore della migliore qualità possibile, vi offro alcunisuggerimenti per una buona notte di riposo.

1. Mantenete abitudini di sonno regolari. Gli esperti di medicina delsonno amano chiamare «igiene del sonno» il modo in cui ciassicuriamo di dormire in modo riposante notte dopo notte.Andate a letto e alzatevi più o meno alla stessa ora sette giornialla settimana, 365 giorni all’anno. Rispettate sempre una ritualitàprima di andare a letto; potrebbe trattarsi di un momento dipausa, di lavarsi i denti, di fare un bagno caldo, di bere una tisanao di qualsiasi cosa abbiate bisogno di fare per rilassarvi esegnalare al vostro corpo che è ora di dormire. Applichiamoquesti accorgimenti con i bambini, ma poi dimentichiamo spesso inostri rituali dell’ora della buona notte, che fanno miracoli nelcontribuire a prepararci a un sonno tranquillo.

2. Individuate ed eliminate i fattori ostili al sonno. Può trattarsi diqualunque cosa, dai farmaci alla caffeina, dall’alcol alla nicotina.Caffeina e nicotina sono entrambe stimolanti. Chiunque fumiancora, dovrebbe adottare un piano per smettere, dato l’aumentodi rischio di qualsiasi malattia. Quanto alla caffeina, cercate dievitarla dopo le due del pomeriggio: questo darà al vostro corpoil tempo di smaltirla evitando che influisca sul sonno. Alcunepersone sono più sensibili a questa sostanza, perciò potrebbero

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anticipare l’ultimo caffè al mezzogiorno o passare a bevandecontenenti meno caffeina. Chiedete al vostro medico o alfarmacista informazioni a proposito delle eventuali ripercussionisul sonno dei farmaci che assumete con regolarità: anche moltifarmaci da banco possono contenere componenti che disturbanole vostre notti. I comuni medicinali contro il mal di testa, peresempio, possono contenere caffeina. L’alcol, pur producendo uneffetto sedativo subito dopo il suo consumo, può disturbare ilsonno mentre viene metabolizzato dal corpo; uno degli enzimiusati per scomporlo, infatti, ha effetti stimolanti. L’alcol provocainoltre il rilascio di adrenalina e interrompe la produzione diserotonina, un’importante sostanza chimica del cervello chefavorisce il sonno.

3. Cenate all’ora giusta. A nessuno piace andare a letto a stomacopieno o vuoto. Trovate il momento giusto, lasciando circa tre oredi tempo tra la cena e l’ora di andare a letto. E siate consapevolidi eventuali ingredienti nei cibi che possono essere difficili dadigerire prima di dormire. Questo aspetto cambia da persona apersona.

4. Non mangiate in maniera irregolare. Seguite un regime regolare, inmodo da mantenere sotto controllo gli ormoni dell’appetito.Ritardare troppo un pasto scombussola gli ormoni, conconseguenze sul sistema nervoso e successive ripercussioni sulsonno.

5. Provate uno spuntino della buona notte. L’ipoglicemia notturna(bassi livelli glicemici di notte) può provocare insonnia. Uneccessivo calo del glucosio ematico induce il rilascio di ormoniche stimolano il cervello e accendono l’appetito. Provate a fareuno spuntino prima di andare a letto per evitare questo disastronel mezzo della notte. Optate per alimenti con livelli elevatidell’amminoacido triptofano, un coadiuvante naturale del sonno,per esempio tacchino, fiocchi di latte, pollo, uova e frutta a guscio(in particolare le mandorle). Fate attenzione alla porzione: unamanciata di frutta secca potrebbe essere l’ideale. Non vorrete

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divorare un’omelette da tre uova con tacchino subito prima dicoricarvi. Scegliete con saggezza.

6. State attenti agli stimolanti ingannatori. Sapete già che un normalecaffè vi manterrà vigili, ma oggi i prodotti contenenti caffeinasono ovunque. Se seguirete il mio protocollo alimentare, èprobabile che non ne incontrerete. Inoltre, determinati compostialimentari come coloranti, aromi e carboidrati raffinati possonoagire da stimolanti, dunque evitate anche questi.

7. Create l’ambiente giusto. Non è una novità che tenere in camera daletto apparecchi elettronici che stimolano occhi e cervello sia unacattiva idea, eppure la gente non rispetta ancora questa regolaelementare. Cercate di rendere la vostra camera da letto unrifugio tranquillo, pacifico, senza dispositivi stimolanti (peresempio il televisore, il computer, telefoni ecc.), luci forti edisordine diffuso. Investite in un letto comodo e morbidelenzuola. Mantenete un’illuminazione soffusa. Coltivate l’umoreadatto al sonno (e al sesso, che a sua volta può predisporre alsonno, ma questa è un’altra storia).

8. Usate con prudenza i sonniferi. Un sonnifero una volta tanto non viucciderà, ma l’uso continuo può diventare un problema.L’obiettivo è arrivare a dormire bene con regolarità senza bisognodi aiuti. E non mi riferisco ai tappi per le orecchie o allemascherine per gli occhi, che approvo come ausili per il sonno;sto parlando di farmaci che lo inducono, con o senza obbligo diprescrizione. Fra gli esempi sono da annoverare le formule «PM»di antistaminici calmanti come difenidramina e dossilamina.Anche se rivendicano di non dare assuefazione, possono sempreprodurre una dipendenza psicologica. Meglio regolare il sonno inmaniera naturale.

UNA NOTA SU ARTICOLI DA TOILETTE E PRODOTTI DI BELLEZZAOltre a concentrarvi sul sonno, durante la terza settimana dovrestecontrollare i prodotti per il bagno. Il glutine tende a essere presente inmolti di questi e, usandoli sulla pelle – il nostro organo più grande –,

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può entrare nel corpo senza che lo si voglia. Fate dunque attenzione aprodotti di bellezza e cosmetici che usate con regolarità, inclusishampoo, balsamo e altri trattamenti per capelli. Forse vorrete cercarenuove marche che offrano prodotti senza glutine. La SophytoPRO(http://sophytopro.com) è una di queste aziende, specializzata in unalinea di prodotti per la cura della pelle esente da ingredienti chepossono irritare non solo la cute, ma anche l’organismo e il cervello.

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La quarta settimana: obiettivo applicazione integrataA questo punto dovreste essere in sintonia con il nuovo stile di vita esentirvi molto meglio di tre settimane fa. Siete in grado di distingueretra un’alimentazione ricca di carboidrati e una scelta più sana.Dormite meglio e fate esercizio con regolarità. E adesso?

Non lasciatevi prendere dal panico se vi sembra di non avereancora trovato il giusto ritmo. Nella vita la maggioranza di noi haalmeno un punto debole che richiede ulteriore attenzione. Forse avetedifficoltà ad andare a letto entro le dieci ogni sera, o forse il vostrotallone d’Achille è trovare il tempo per allenarvi quasi tutti i giornidella settimana ed evitare il cibo spazzatura sempre a portata di manonella sala ristoro dell’ufficio. Approfittate di questa settimana pertrovare il giusto ritmo nella vostra nuova routine. Individuate gliambiti della vostra vita in cui faticate a rispettare il protocollo e vedetecosa potete fare per rimediare. Ecco qualche suggerimento chepotreste trovare utile.

Pianificate in anticipo ogni settimana. È utile dedicare qualcheminuto nel fine settimana a pianificare i giorni successivi tenendoconto di programmi e appuntamenti. Identificate i giorni freneticiin cui sarà più arduo trovare tempo per un allenamento e cercatedi inserirlo nella vostra tabella di marcia. Salvaguardate la zonanotte ogni sera e accertatevi di andare a letto alla stessa ora; siatescrupolosi al riguardo. Organizzate la maggior parte dei pastidella settimana, soprattutto pranzi e cene: tendiamo a esserepiuttosto abitudinari a colazione, ma possiamo essere vittime didecisioni dell’ultimo minuto riguardo al pranzo sul lavoro e allacena se arriviamo a casa molto affamati. State all’erta per i giorniin cui sapete di arrivare a casa tardi e non avrete energie percucinare. Approntate un piano d’emergenza. (Nel prossimocapitolo vi proporrò molte idee per affrontare i pasti fuori casa e imomenti in cui avete bisogno di qualcosa per tirare avanti fino alpasto vero e proprio.)

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Preparate la lista della spesa. Che andiate a far compere tutti i giornio solo una volta alla settimana, avrete bisogno di una lista dellaspesa per essere più efficienti ed evitare acquisti impulsivi.Inoltre, vi risparmierà una quantità di congetture per tentare dicapire cosa, al mercato, sia sicuro acquistare, cucinare econsumare. Seguite, in linea di massima, il perimetro del negozio,dove si trovano i prodotti più naturali. Evitate le corsie centrali,che traboccano di prodotti industriali confezionati. E non fate laspesa quando avete fame, altrimenti graviterete sui cibi dannosi,dolci e salati. Tenete a mente che gli ingredienti freschi nondurano più di tre-cinque giorni, a meno che non li mettiate incongelatore. Andare una volta al mese in un negozio che vendealimentari sfusi potrebbe essere utile se avete una famiglia dasfamare e spazio in più nel congelatore per grandi quantità dicarne, pollame e verdure surgelate.

Stabilite alcuni punti «non negoziabili». Se nutrite grandi speranzedi andare giovedì pomeriggio al mercato dei contadini nel vostroquartiere, scrivetelo sulla vostra agenda e trasformatelo in unpunto non negoziabile. Se sognate di provare una nuova scuola diyoga che ha aperto in città, stabilite con precisione quando e fatein modo che accada. Individuare obiettivi non negoziabili viaiuterà a evitare le scuse che si presentano quando vi impigrite oquando vi lasciate intralciare da altre incombenze. Ed è un ottimomodo per rimediare ai vostri punti deboli. Abbiate chiare levostre priorità quando fissate la rotta della vostra settimana, erispettatele!

Sfruttate la tecnologia. Tutti i giorni ci serviamo della tecnologiaper semplificare la nostra vita. Perché non approfittare dellerisorse di internet e delle applicazioni tecnologiche che possonoaiutarci a seguire i nostri obiettivi e restare in armonia con noistessi? Negli ultimi anni, per esempio, il mercato delleapplicazioni di self-tracking (automonitoraggio) è esploso. Poteteutilizzare ingegnosi dispositivi per osservare quanti passi fate inun giorno, fino a che punto avete dormito bene ieri notte eperfino con quale velocità mangiate. Alcune app funzionano su

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smartphone, mentre altre richiedono un vero e proprio supporto,per esempio un accelerometro che segue i movimenti del vostrocorpo per tutta la giornata. È vero, questi strumenti non sonoadatti a tutti, ma potreste trovare qualche programma che allafine vi aiuterà a mantenere uno stile di vita sano. Sul mio sitotrovate qualche spunto, insieme a un elenco di applicazioni chepossono aiutarvi a ottimizzare le informazioni di questo libro,come l’almanacco degli alimenti, con i dati sugli ingredienti dipietanze diffuse, e collegamenti a servizi legati alla salute chepossono ricordarvi di tenere sotto controllo le vostre abitudini.Google Calendar, per esempio, può essere usato comeun’applicazione completa per autogestirsi. Usatela, se fa al casovostro.

Siate flessibili, ma coerenti. Non autoflagellatevi se per un momentonon avete rispettato il programma. Siamo tutti umani. Potresteavere una giornata no e ritrovarvi a saltare la palestra per uscirela sera con gli amici e recarvi in un ristorante dove in pratica tuttociò che viene servito è off limits. O magari siete in vacanza eindulgere a qualche gratificazione è inevitabile. Purché rientriatein carreggiata appena vi fermate, andrà tutto bene. Solo nonlasciate che un piccolo scivolone vi faccia deragliare per sempre.A questo proposito, ricordatevi di seguire con coerenza iprogrammi quotidiani. La coerenza non è rigidità: si tratta dimangiare e fare moto in modi che vi siano utili senza farvi sentirecome se steste esagerando o costringendovi a fare qualcosa chenon gradite. Trovare una versione personale di questa coerenzasarà fondamentale per la vostra riuscita. Scoprirete cosa funzionameglio per voi e cosa non funziona. Poi potrete adeguare questoprogramma alla vostra vita in base a questi criteri generali eportarlo avanti con coerenza.

Trovate fattori di motivazione. A volte avere una motivazione aiuta;può essere di qualsiasi genere, dal desiderio di correre la 10chilometri della vostra città, alla programmazione di un viaggiocon i vostri figli adulti per fare un’escursione sul monteKilimangiaro. Le persone che decidono di concentrarsi sulla loro

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salute lo fanno spesso per ragioni specifiche, come per esempio:«Voglio avere più energie», «voglio vivere più a lungo», «voglioperdere peso» e «non voglio morire come mia madre». Nonperdete di vista il quadro generale. Questo vi aiuterà non solo amantenere uno stile di vita sano, ma anche a tornare incarreggiata se di tanto in tanto barate. A volte fare progressi èmeglio della perfezione.

La tabella di marcia cambierà da persona a persona, ma dovrebberoesistere dei modelli. Di seguito un esempio di come potrebbe essereuna giornata tipo.

Alzarsi, portare fuori il cane 6.30Colazione 7.00Spuntino 10.00Pranzo portato da casa 12.30Passeggiata postprandiale di venti minuti 13.00Spuntino 16.00Palestra 17.45Cena 19.00Portare fuori il cane 19.30Spegnere le luci 22.30

MANGIARE FUORIVerso la fine della quarta settimana, lavorerete all’obiettivo di esserein grado di mangiare in qualsiasi posto. La maggioranza di noimangia fuori diverse volte alla settimana, soprattutto nelle orelavorative. Pianificare e preparare ogni singolo pasto e spuntino checonsumiamo è quasi impossibile, perciò datevi l’obiettivo di esplorarealtri menù. Vedete se riuscite a tornare nei vostri ristoranti preferiti eordinare alla carta pur rispettando il protocollo. Se lo trovate troppoarduo, forse vorrete provare nuovi ristoranti che soddisfino le vostreesigenze. Non è difficile far sì che qualunque menù vi vada bene, a

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patto di decidere con buonsenso. Il pesce al forno con verdura alvapore dovrebbe essere una sicurezza (resistete alle patate, allepatatine fritte e al cestino del pane e chiedete un contorno di insalatacon olio d’oliva e aceto). State attenti ai piatti elaborati che contengononumerosi ingredienti. Nel dubbio, chiedete spiegazioni.

In linea generale, bisognerebbe mangiare fuori il meno possibile,poiché è impossibile eliminare tutte le fonti di ingredienti pocosalutari. Impegnatevi a consumare cibi che preparate voi per lamaggior parte dei giorni della settimana. Tenete a portata di manoanche degli spuntini, così non vi scoprirete affamati nel negoziettodella stazione di servizio. Il prossimo capitolo propone molte idee perspuntini e alimenti da portare con sé fuori casa, molti dei quali sonotrasportabili e non deperibili. Una volta che avrete familiarizzato conil nuovo stile di alimentazione, provate a tornare alle vostre vecchiericette e a modificarle adeguandole ai miei criteri. Sarete sorpresi daciò che può fare un po’ di sperimentazione in cucina per trasformareun piatto classico pieno di glutine e ingredienti infiammatori in unpasto altrettanto delizioso, ma rispettoso del cervello. Invece dellanormale farina o del grano, provate la farina di cocco, i semi di linotritati e farine di frutta a guscio come le mandorle tritate; al postodello zucchero trovate modi per dolcificare la vostra ricetta con steviao frutta intera, e invece di cucinare con oli vegetali trattati attenetevi alburro e all’olio extravergine d’oliva.

Infine, di fronte alla tentazione (la scatola di dolcetti al lavoro o latorta di compleanno di un amico), ricordatevi che in qualche modopagherete per quella gratificazione. Se non riuscite a dire no, siatepronti ad accettarne le conseguenze. Ma tenete a mente che uno stiledi vita libero dagli alimenti che nuociono al cervello è, secondo la miaumile opinione, il più appagante e gratificante che esista. Godetevelo.

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Un esercizio di equilibrismoCome per tante cose nella vita, apprendere e consolidare una nuovaabitudine è un atto di equilibrismo. Anche una volta modificati icomportamenti relativi ad alimentazione e attività fisica e cambiato ilmodo di acquistare, cucinare e ordinare il cibo, vi capiteranno ancoramomenti in cui vecchie abitudini riemergeranno.

Non mi aspetto che non mangiate mai più una fetta di pizzacroccante o una pila di pancake bollenti, ma spero proprio cherimaniate consapevoli delle vere esigenze del vostro corpo, ora che leconoscete, e che realizziate ogni giorno questa sensibilità appenascoperta al meglio delle vostre possibilità.

Molte persone hanno applicato alla dieta il famoso principiodell’80/20: mangiare bene per l’80% del tempo e lasciare da partel’ultimo 20% per fare follie. Alcuni, al contrario, si ritrovano a viverela situazione opposta! È troppo facile trasformare un’occasionale folliain un’abitudine quotidiana, come mangiare una coppa di gelatodiverse volte alla settimana. Bisognerebbe ricordare che una scusa pernon prendersi cura di se stessi non manca mai. Abbiamo feste ematrimoni cui presenziare. Il lavoro che dobbiamo affrontare ci lasciacarichi di stress e senza le energie, il tempo e la capacità mentale perpreparare del buon cibo, fare esercizio fisico e adottare le scelterelative al sonno. La vita è fatta così, e accettare una certa elasticità vabene. Cercate, tuttavia, di optare per una regola di 90/10. Rispettate icriteri di questa dieta per il 90% del tempo e l’ultimo 10% verrà da sé,com’è inevitabile. Ogni volta che sentirete di essere usciti troppo dalsentiero, poi, premerete il pulsante di riavvio. Potete farlo digiunandoper un giorno e impegnandovi di nuovo nelle quattro settimane direstrizione dei carboidrati a 30-40 grammi quotidiani. Questoprotocollo può essere la vostra ancora di salvezza per un modo divivere più sano, alla base della visione che avete in prospettiva di voistessi e del vostro cervello.

La vita è una serie infinita di scelte. «Da questa parte o dall’altra?Adesso o più tardi? Maglione rosso o verde? Sandwich o insalata?» In

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fondo, il senso di questo libro è aiutarvi a imparare a prenderedecisioni migliori, che alla fine vi permetteranno di partecipare allavita nella maniera più completa. La mia speranza è di avervi datomolte idee almeno per iniziare a cambiare stile di vita. Tutti i giorni,nel mio studio, prendo atto del valore che ha la salute – e la luciditàmentale – per le persone. E riscontro anche gli effetti di disturbiimprovvisi e malattie croniche, a prescindere dai successi dellepersone e da quanto siano amate. Per molti la salute può non essere lacosa più importante nella vita, ma senza di essa null’altro conta. Equando siete in buona salute, quasi tutto è possibile.

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Capitolo XI

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Nutrirsi bene per un cervello sanoProgrammazione dei pasti e ricette

Il numero di idee per pasti e ricette proposto in questo capitolotestimonia la molteplicità di scelte offerta da questa dieta:un’abbondanza di verdure, pesce, carne, pollame, frutta a guscio,uova e insalate. Con altrettanta facilità, tuttavia, potreste creare voistessi piatti più semplici, basati sui temi presentati (per esempioscegliere un pesce o della carne da cucinare per pranzo o per cena concontorno di verdure e insalata verde, e per colazione preparare uovasode con una manciata di frutta a guscio come spuntino). Troveretealcune proposte di dessert (sì, è consentito!) e vari condimenti perinsalate e salse.

Noterete che in queste ricette non compaiono informazioni sulcontenuto nutrizionale. Come ho già accennato, uno dei miei obiettiviin questo libro era liberarvi dall’obbligo di dovere sempre calcolare lecalorie o i grammi di proteine e grassi (soprattutto di grassi saturi).Voglio insegnarvi cosa mangiare, non come (cioè quanto di questo o diquello). Se seguite i criteri di base e il protocollo, non dovretepreoccuparvi dell’apporto di grassi, carboidrati e proteine. Nonesagererete e neppure vi sentirete sottoalimentati, inoltre nutrirete inmodo ottimale corpo e cervello.

Nello scorso decennio, la varietà degli alimenti disponibili neinostri mercati è molto cambiata. Se vivete in un’area urbana, peresempio, è probabile che possiate acquistare qualsiasi tipo diingrediente nel raggio di pochi chilometri, che si tratti di andare nelvostro negozio di alimentari di riferimento – che ora è pieno dialimenti biologici – o di avventurarsi in una rivendita dei contadinidella zona. Fate conoscenza con i vostri fornitori: potranno dirvi cosa èappena arrivato e offrire spiegazioni sulla provenienza della loro

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merce. Puntate su prodotti agricoli di stagione e siate pronti a provarenuovi alimenti mai gustati in precedenza. Dieci anni fa, per esempio,acquistare bisonte o merluzzo nero era difficile, mentre oggi vi èampia disponibilità di carni e pesci deliziosi ed esotici. Ricordatevi dioptare sempre, quando è possibile, per prodotti biologici o selvatici.Nel dubbio, chiedete al negoziante.

Sul sito DrPerlmutter.com troverete i miei consigli per specifichemarche di alimenti che seguono i criteri del regime da me proposto.Anche se state eliminando il glutine, il grano e gran parte deglizuccheri dalla vostra dieta, sarete sorpresi dall’abbondanza delleopzioni a vostra disposizione. E sarete sbalorditi dal controllo cheacquisirete sui livelli della vostra fame, sulle voglie incontrollabili, sulledimensioni delle porzioni e sull’apporto calorico. Anche le vostre papillegustative ne godranno, perché vivranno una sorta di rinascitaconsentendovi una nuova valorizzazione del cibo.

Cosa bere: l’ideale è prediligere l’acqua purificata. Bevete ognigiorno una buona quantità d’acqua. Se pesate circa 70 chili,bevete almeno 2 litri abbondanti d’acqua al giorno, circa novebicchieri. Potete optare anche per tè o caffè (purché non abbiateproblemi con il caffè), ma state attenti a non sorbire caffeina atarda ora. Per ogni bevanda contenente caffeina che consumate,calcolate da 350 a 450 ml circa di acqua in più. Anche il latte dimandorla è una scelta salutare. A cena potete scegliere di bereanche un bicchiere di vino, preferibilmente rosso.

Frutta: scegliete la frutta intera e, nelle prime quattro settimane,puntate a metterla da parte per uno spuntino o come dessert.Provatela con panna fresca, non zuccherata, o mescolata con lattedi cocco e un pizzico di stevia o polvere di cacao amaro.

Regola dell’olio d’oliva: siete liberi di fare un uso generoso dell’oliod’oliva (extravergine e bio). In cucina è spesso possibile sostituirel’olio d’oliva con olio di cocco, per esempio per saltare in padella

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il pesce e le verdure o per strapazzare le uova a colazione. Questovi aiuterà ad assumere il vostro cucchiaino quotidiano di olio dicocco, come consigliato nella parte riguardante gli integratori.

Fuori casa: quando siete a corto di tempo e non avete accesso auna cucina, come capita di frequente durante la pausa pranzo allavoro, preparate qualcosa da portare con voi. È utile avere prontiin frigorifero cibi già cotti, come per esempio pollo arrosto o aiferri, salmone al vapore o strisce di controfiletto o di roast beefalla griglia. Riempite un contenitore di insalata verde mista ecubetti di verdure crude, e subito prima di mangiareaggiungetevi le proteine e il condimento scelti, che avreteconservato a parte. Oggi molti supermercati offrono cibi prontiche riportano un elenco degli ingredienti, così saprete cosa aveteacquistato. Alcuni market della catena Whole Foods 1, peresempio, propongono un pasto completo, il «Meal Deal»: potetescegliere tra pollo o salmone alla griglia e due contorni, comefagiolini piccanti e insalata di cavolo riccio crudo. E nondimenticate gli avanzi. Molte ricette di questo capitolo possonoessere preparate durante il fine settimana (magari raddoppiandole quantità) per coprire diversi pasti durante la settimana, quandosiete fuori casa. Basta trasportare il cibo in un contenitoreermetico e consumarlo freddo o riscaldato in un microonde.

Io viaggio portando con me avocado e scatolette di salmonerosso. I cibi in scatola possono essere ottime fonti di nutrimento,buono e comodo da tenere con sé, purché stiate attenti a qualiprodotti state acquistando. I pomodori in scatola, per esempio,possono essere ottime alternative al prodotto fresco, ma fateattenzione agli ingredienti aggiunti, come sodio e zucchero.Quando scegliete il pesce in scatola, optate per quello pescato inmaniera sostenibile, a traina o con la canna. E state alla larga daipesci che potrebbero contenere quantità elevate di mercurio. Unsito fantastico da consultare è quello del programma SeafoodWatch dell’acquario della Baia di Monterey, all’indirizzohttp://www.seafoodwatch.org. Questo sito offre informazioni

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aggiornate sulla provenienza del pesce e su quale evitare a causadi sostanze contaminanti e tossine.

Cosa scegliere per fare uno spuntino: considerato l’elevato fattore disazietà dei pasti che propongo (per non parlare del meravigliosocontrollo sui livelli glicemici), è difficile che vi ritroviate, famelici,a caccia di cibo tra un pasto e l’altro. Tuttavia, è bello sapere cheseguendo questa dieta potrete fare uno spuntino ogni volta chevorrete. Di seguito trovate qualche proposta.

Una manciata di frutta a guscio cruda (a eccezione dellearachidi, che sono un legume). Oppure scegliete un misto difrutta a guscio e olive.

Qualche quadratino di cioccolato fondente (contenentealmeno il 70% di cacao).

Dadini di verdura cruda (per esempio peperoni, broccoli,cetrioli, fagiolini, ravanelli) intinti in hummus, guacamole,formaggio di capra, tapenade o burro di frutta a guscio.

Cracker al formaggio senza grano, a basso contenuto dicarboidrati.

Fette di tacchino arrosto freddo o di pollo intinte nellasenape.

Mezzo avocado con un filo di olio d’oliva, sale e pepe.

Due uova sode.

Insalata caprese: un pomodoro a fette con sopra mozzarellafresca, un filo di olio d’oliva, basilico, sale e pepe.

Un gambero freddo sgusciato con limone e aneto.

Un pezzo o una porzione di frutta intera, a basso contenutodi zuccheri (per esempio pompelmo, arancia, mela, frutti dibosco, melone, pera, ciliegie, uva, kiwi, prugna, pesca, pescanoce).

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Esempio di menù per una settimanaUn’alimentazione sana per il cervello potrebbe iniziare con unprogramma giorno per giorno come quello settimanale descritto nelleprossime righe. Potete trovare alcune ricette a partire da pagina 269.Fate attenzione: quando saltate i cibi in padella potete usare burro,olio extravergine d’oliva biologico o olio di cocco. Evitate gli olitrattati e gli spray per cucinare, a meno che il contenuto dello spraynon consista in olio d’oliva biologico.

Lunedì

Colazione: 2 uova strapazzate con circa 30 grammi di formaggiocheddar e verdure saltate in padella in quantità a piacere (peresempio cipolle, funghi, spinaci, broccoli).Pranzo: pollo con vinaigrette alla senape (pagina 273) concontorno di verdure a foglia larga condite con aceto balsamico eolio d’oliva.Cena: a scelta, bistecca di lombata da circa 90 grammi di manzoallevato al pascolo, pollo arrosto biologico o pesce selvatico concontorno di insalata verde e verdure saltate in padella con burro eaglio.Dessert: mezza tazza di frutti di bosco con sopra un filo di pannafresca senza zucchero.

Martedì

Colazione: mezzo avocado con un filo di olio d’oliva e due uovain camicia con guarnizione di salsa piccante.Pranzo: pollo al limone (pagina 273) con insalata agli aromi convinaigrette all’aceto balsamico (pagina 286).Cena: salmone veloce ai funghi (pagina 282) e verdure arrosto apiacere.Dessert: 2 tartufi al cioccolato (pagina 298).

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Mercoledì

Colazione: frittata di groviera e formaggio di capra (pagina 270).Pranzo: rucola al limone con Parmigiano Reggiano (pagina 288) ecirca 90 grammi di pollo alla griglia.Cena: pesce al forno con Chardonnay (pagina 274) con 120 gr diriso selvaggio e verdure cotte al vapore.Dessert: 1 mela intera tagliata a fettine, con sopra una spolveratadi stevia e cannella.

Giovedì

Colazione: 3-4 fette di salmone affumicato con circa 30 grammi diformaggio di capra e una porzione di «cereali» veloci e croccanti(pagina 272).Pranzo: 120 gr di gazpacho allo yogurt con zucchine alla Sea Salte petto di pollo marinato nello zafferano (pagina 279).Cena: bistecca di filetto con glassa di aceto balsamico (pagina 274)e fagiolini con condimento all’aglio (pagina 290).Dessert: 2-3 quadratini di cioccolato fondente.

Venerdì

Colazione: omelette all’olio di cocco (pagina 270).Pranzo: insalata verde mista con olio di noce e noci tostate(pagina 287) e circa 90 grammi di salmone alla griglia.Cena: agnello con limone alla greca (pagina 282) e fagiolini ebroccoli a piacere.Dessert: mousse di cioccolato al cocco (pagina 298).

Sabato

Colazione: «porridge» senza avena (pagina 272).Pranzo: carpaccio di tonno pinna gialla alla Sea Salt con cipollarossa, prezzemolo e grani di pepe rosa (pagina 276).Cena: filetto di manzo Akaushi alla Sea Salt con cavolini diBruxelles (pagina 277).

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Dessert: 150 gr di fragole intere immerse in 3 quadratini dicioccolato fondente fuso.

Domenica

Colazione: huevos rancheros (pagina 271).Pranzo: insalata nizzarda (pagina 286).Cena: sardine alla griglia alla Sea Salt con pomodoro, rucola epecorino (pagina 278).Dessert: 2 quadratini di cioccolato fondente immersi in 1cucchiaio da tavola di burro alle mandorle.

RICETTE

Attenersi ai principi alimentari di una dieta che tutela il cervello è piùfacile di quanto non crediate. Anche se questa nuova alimentazionecomporta una riduzione significativa dell’apporto di carboidrati, inparticolare di grano e di zucchero, gli alimenti e gli ingredienti con cuidivertirsi in cucina non mancano davvero.

Dovrete diventare un po’ creativi per preparare alcuni dei vostripiatti preferiti, ma, una volta appreso come effettuare con disinvolturadeterminate sostituzioni, sarete in grado di modificare in manieraopportuna le istruzioni dei vostri classici ricettari. Le ricette propostedi seguito vi daranno un’idea generale di come applicare i criteriillustrati in precedenza a qualsiasi pasto e vi aiuteranno apadroneggiare un’arte culinaria rispettosa del cervello.

Sapendo che la maggioranza delle persone è oberata di impegni eha poco tempo per cucinare, ho scelto piatti semplici abbastanza facilida preparare e, soprattutto, gustosi e ricchi di sostanze nutritive.Anche se nella prima settimana del programma vi invito a seguire ilmio protocollo giorno per giorno delineato alle pagine 267-268, così danon dover neppure pensare a cosa mangiare, potrete in ogni casoscegliere le ricette che più risvegliano il vostro interesse per ottenereun protocollo personalizzato.

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La maggior parte degli ingredienti utilizzati è di facile reperibilità.Non dimenticate di optare sempre, se possibile, per prodotti daallevamento al pascolo, biologici e selvatici. Nella scelta di olio d’olivao di cocco ricorrete alle varietà extravergini. Sebbene tutti gliingredienti elencati nelle ricette siano stati scelti perché reperibili inuna forma senza glutine, controllate sempre le etichette per sicurezza,specie se state acquistando un alimento lavorato da un produttore(per esempio la senape). Non abbiamo la facoltà di controllare quelloche finisce nei prodotti, ma possiamo controllare quello che finisce neinostri piatti.

COLAZIONE

Frittata di groviera e formaggio di capra

Le uova sono uno degli ingredienti più versatili. Le possiamo sceglierecome pietanza principale di un pasto oppure aggiungerle ad altripiatti. Se possibile, acquistate sempre uova biologiche, da allevamentoall’aperto. Le frittate sono veloci e facili da fare e vanno benissimo peressere servite a gruppi numerosi. Potete preparare molti tipi diversi difrittata cambiando il tipo di formaggio, le verdure a foglia verde e gliortaggi. Di seguito una delle mie preferite.

Ingredienti per 4 persone1 cucchiaio di olio d’oliva1 cipolla media, tritata½ cucchiaino di sale½ cucchiaino di pepe450 gr di foglie di spinaci, lavate e tritate1 cucchiaio d’acqua9 uova grandi, sbattute85 gr di formaggio di capra, sbriciolato25 gr di groviera grattugiato

Preriscaldare il forno a 200 °C. Scaldare l’olio in un tegame su una fiammamedio-alta. Quando sarà ben caldo, aggiungere la cipolla, il sale e il pepe.

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Cuocere per 3-4 minuti, mescolando di tanto in tanto, fino a quando la cipollasarà trasparente. Aggiungere gli spinaci e l’acqua e far cuocere, mescolando,fino a farli appassire (circa 1-2 minuti). Unire le uova e spolverare il tutto conil formaggio di capra e il groviera.Far cuocere per 1-2 minuti finché la miscela comincerà a rapprendere lungo ibordi. Trasferire il tegame nel forno per 10-12 minuti, fino a cottura ultimata.Sfornare e servire.

Omelette all’olio di cocco

Anche le omelette sono molto amate in casa mia. Fate esperimenti condiverse verdure e cuocete la vostra omelette un giorno nell’olio d’olivae il successivo nell’olio di cocco.

Ingredienti per 1 persona1 cipolla, tritata1 pomodoro maturo, tagliato a pezzi½ cucchiaino di sale½ cucchiaino di pepe2 uova, sbattute1 cucchiaio di olio di cocco¼ di avocado, a fettine2 cucchiai di salsa piccante

Sbattere le uova in una ciotola e unirvi la cipolla, il pomodoro, il sale e il pepe.Mescolare il tutto. Mettere un tegame su una fiamma medio-alta e versarvil’olio di cocco. Quando sarà ben caldo, aggiungere il composto con le uova elasciar cuocere finché cominceranno a rapprendere (circa 2 minuti).Girare l’omelette con una spatola e far cuocere per un altro minuto circa,finché le uova non saranno più liquide. Piegare l’omelette a metà e controllareche sia lievemente rosolata.Trasferirla su un piatto e servirla calda con sopra l’avocado a fettine e la salsapiccante.

Huevos rancheros

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Questo classico piatto messicano è stato modificato: invece di essereservite su tortillas, le uova saranno adagiate su un letto di verdurafresca.

Ingredienti per 2 persone1 cucchiaio di burro o di olio d’oliva4 uova300 gr di insalata scarola o riccia, tagliata grossa60 gr scarsi di formaggio cheddar forte, grattugiato4 cucchiai di salsa piccante2 cucchiai di foglie di coriandolo fresco, tritateSale e pepe q.b.

Mettere il burro o l’olio d’oliva in un tegame su una fiamma medio-alta.Quando sarà ben caldo, rompere le uova nella padella e far cuocere per 3-4minuti per ottenere tuorli liquidi, o più a lungo affinché risultino più sodi.Servire le uova su un letto di insalata e cospargerle di formaggio, salsapiccante e coriandolo. Condire con sale e pepe.

«Porridge» senza avena

La seguente ricetta è un adattamento di quella di Loren Cordain e NellStephenson pubblicata in The Paleo Diet Cookbook (Il libro di ricettedella paleodieta). Se la colazione vi piace abbondante, densa e calda,optate per questa versione.

Ingredienti per 2 persone30 gr di noci30 gr di mandorle2 cucchiai di semi di lino macinati1 cucchiaino di pimento macinato3 uova65 ml di latte di mandorla non dolcificato½ banana, ridotta a purea1 cucchiaio di burro di mandorle2 cucchiaini di semi di zucca (facoltativo)1 manciata di frutti di bosco freschi (facoltativo)

Porre le noci, le mandorle, i semi di lino e il pimento in un robot da cucina e

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tritare a grana grossa. Sbattere le uova e il latte di mandorla fino araggiungere una consistenza cremosa. Unire la purea di banana al burro dimandorle e aggiungere il composto alle uova, mescolando, quindi aggiungerela miscela tritata. Trasferire il composto in un pentolino su una fiamma bassae mescolare spesso, finché la pastella non raggiungerà la consistenzadesiderata. Cospargere di semi di zucca e frutti di bosco, aggiungere altrolatte di mandorle, se desiderato, e servire.

«Cereali» veloci e croccanti

Siete golosi di cereali per la colazione? Provate questa ricetta. E, se lenoci non fanno al caso vostro, sostituitele con il tipo di frutta a gusciocruda che preferite.

Ingredienti per 1 persona30 gr di noci, tritate (o altra frutta a guscio)20 gr di fiocchi di cocco1 manciata di frutti di bosco freschi170 ml di latte intero o latte di mandorla

Unire gli ingredienti in una ciotola. Buon appetito!

PRANZO O CENA

Pollo al limone

Il pollo può essere usato in una grande varietà di piatti. Ecco unafacile ricetta che potete preparare per cena, e i cui avanzi possonoessere messi da parte per il pranzo del giorno seguente.

Ingredienti per 6 persone6 petti di pollo disossati, senza pelle1 cucchiaio di foglie di rosmarino fresco, tritate2 spicchi d’aglio, tritati1 scalogno, tritatoScorza e succo di 1 limone

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120 ml di olio d’oliva

Mettere il pollo in una teglia da forno bassa che possa contenere tutti e 6 ipetti. Unire in una ciotola il rosmarino, l’aglio, lo scalogno, la scorza e il succodel limone. Incorporare poco a poco l’olio d’oliva. Versare la marinata sopra ilpollo, coprirlo e lasciarlo in frigorifero almeno 2 ore o per tutta la notte.Preriscaldare il forno a 175 °C. Togliere il pollo dalla marinata e cuocerlo inuna teglia da forno per 25 minuti, oppure finché non sarà ben cotto. Servirecon un’insalata di contorno e verdure al vapore.

Pollo con vinaigrette alla senape

Quando siete a corto di tempo, questa ricetta richiede pochi minuti dipreparazione, a patto che abbiate a portata di mano un pollo arrosto.Potete raddoppiare gli ingredienti del condimento e usarlo per tutta lasettimana sulle insalate.

Ingredienti per 4 persone1 pollo arrosto biologico intero350 gr di insalata verde a scelta, già lavataPer la vinaigrette alla senape:4 cucchiai di olio d’oliva1 cucchiaio di aceto di vino rosso2 cucchiai di vino bianco secco1 cucchiaio di senape con semi interi1 cucchiaino di senape di DigioneSale e pepe q.b.

Mettere in una ciotola tutti gli ingredienti della vinaigrette e sbatterli fino aottenere un’emulsione, infine aggiungere sale e pepe.Tagliare il pollo e servirlo sull’insalata con sopra un filo di vinaigrette.

Pesce al forno con Chardonnay

Nulla potrebbe essere più semplice della cottura al forno del vostropesce preferito cui aggiungere una gustosa salsa. Anche se in origine

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questa salsa è stata pensata per essere accoppiata al salmone, sisposerà bene con qualsiasi pesce. Sceglietelo selvatico e cercate diacquistare il più fresco a disposizione, chiedendo al mercato cosa siaappena arrivato.

Ingredienti per 4 persone110 gr di burro260 ml di Chardonnay2-3 cucchiai di senape di Digione3 cucchiai di capperi sotto sale, sciacquati e sgocciolatiIl succo di 1 limone2 cucchiaini di aneto fresco, tritato4 filetti di salmone o pesce bianco a scelta (con la pelle)

Preriscaldare il forno a 220 °C. Far sciogliere poco a poco il burro a fiammamedia in un tegame, aggiungere mescolando lo Chardonnay, la senape, icapperi e il succo di limone. Lasciare cuocere per circa 5 minuti per fareevaporare l’alcol. Completare con l’aneto.Mettere il pesce in una teglia da forno con la pelle rivolta verso il basso.Versarvi sopra la salsa e far cuocere per 20 minuti o finché il pesce inizierà asfaldarsi. Servire caldo accompagnato da fagiolini con condimento all’aglio (siveda pagina 290).

Bistecca di filetto con glassa di aceto balsamico

Cucinare il filetto non dà problemi e richiede pochi minuti. Bastaavere un ottimo taglio di carne allevata al pascolo e una gustosamarinata.

Ingredienti per 2 persone2 cucchiai di olio d’oliva3 cucchiai di aceto balsamico½ cucchiaino di sale½ cucchiaino di pepe2 bistecche di filetto (spesse circa 2,5 cm)250 gr di insalata verde

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Mettere in una ciotola l’olio d’oliva, l’aceto, il sale e il pepe. Versare lamarinata in una busta di plastica sigillabile e aggiungere la carne. Lasciaremarinare per 30 minuti. Preparare la griglia e cuocere le bistecche per 1minuto da ogni lato, oppure secondo il proprio gusto. Durante la cottura,spennellare con la marinata.In alternativa, i filetti si possono cuocere sulla griglia del forno: prima scottarein una padella con olio bollente a fiamma viva (circa 30 secondi per parte) epoi completare la cottura sulla griglia per circa 2 minuti per parte (per unabistecca ben cotta prolungare il tempo di cottura). Servire la carne su un lettodi insalata con un contorno di verdure.

Costine succulente

La seguente ricetta è una rivisitazione delle deliziose costine di manzodi Steve Clifton. Viticoltore e chef, Steve ama creare piatti che sisposano con i suoi vini italiani Palmina.

Ingredienti per 6 persone4 cipolle dorate medie3 carote, pelate6 gambi di sedano3 spicchi d’aglio120 gr di farina di mandorle1 cucchiaino di sale1 cucchiaino di pepe900 gr di costine di manzo6 cucchiai di olio d’oliva3 cucchiai di passata di pomodoro1 bottiglia di vino rosso italianoScorza e succo di 1 arancia navel4 cucchiai di foglie di timo fresco12 gr di prezzemolo fresco, tritato

Tagliare a pezzetti grossi le cipolle, le carote e il sedano. Tritare l’aglio emetterlo da parte. Versare in una grossa ciotola la farina di mandorle emescolarvi sale e pepe, poi passarvi le costine. Scaldare l’olio d’oliva in unagrande casseruola o in un forno olandese su fiamma medio-alta. Far rosolarele costine e metterle da parte.

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Far saltare nella casseruola le cipolle e l’aglio per circa 5 minuti, fino a farlidiventare trasparenti. Aggiungere le carote e il sedano, e far cuocere per circa5 minuti in modo da ammorbidirli un poco. Unirvi le costine e poi,mescolando, la passata di pomodoro per coprirle. Aggiungere il vino, lascorza e il succo dell’arancia. Coprire e portare a ebollizione, poi far cuocere afuoco lento per due ore e mezzo. Togliere il coperchio, unire le foglie di timo elasciare sobbollire per 30 minuti.Servire cospargendo di prezzemolo e con contorno di «cuscus» al cavolfiore(si veda pagina 291).

Carpaccio di tonno pinna gialla alla Sea Salt con cipolla rossa, prezzemolo egrani di pepe rosa

Le sette ricette che seguono furono create dal mio buon amico e chefFabrizio Aielli al Sea Salt, uno dei mie ristoranti preferiti di Naples, inFlorida, dove mi reco spesso (www.seasaltnaples.com).Fabrizio è stato così generoso da offrirmi alcune delle sue ricette dacondividere. Vi consiglio di provarle quando avete ospiti a cena evolete fare bella figura.

Ingredienti per 6 persone700 gr di tranci di tonno pinna gialla½ cipolla rossa, affettata1 ciuffo di foglie di prezzemolo, tritate1 cucchiaio di grani di pepe rosa macinato4 cucchiai di olio d’olivaSale q.b.3 limoni, tagliati a metà

Tagliare il tonno a fette sottili spesse circa mezzo centimetro; ogni piattodovrebbe comprendere da tre a cinque fette. Disporre sopra il tonno la cipollarossa, il prezzemolo, i grani di pepe e l’olio d’oliva. Per finire, aggiungere unpizzico di sale e mezzo limone a parte.

Filetto di manzo Akaushi alla Sea Salt con cavolini di Bruxelles

Questo piatto è molto gradito dagli amanti della carne. Se avete

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difficoltà ad acquistare il manzo Akaushi, una varietà di capi di razza(Akaushi significa «vacca rossa»), andrà bene qualsiasi filetto dimanzo molto marmorizzato. Il manzo Akaushi è famoso per i suoigrassi sani e il gusto appetitoso.

Ingredienti per 6 persone1½ litri d’acqua6 cucchiai di olio d’oliva2 cucchiaini di sale, più sale e pepe q.b.900 gr di cavolini di Bruxelles1 tazza di brodo di pollo6 tagli (da 170 gr ciascuno) di filetto di manzo Akaushi1 spicchio d’aglio, tritatoLe foglie di 2 ramoscelli di rosmarino, tritate

Come preparare i cavolini di BruxellesFar bollire l’acqua con 2 cucchiai di olio d’oliva e 2 cucchiaini di sale.Aggiungere i cavolini di Bruxelles e cuocere a fiamma medio-alta per 9minuti, o finché diventeranno teneri. Scolare.Mettere 2 cucchiai di olio d’oliva in una padella per la cottura al salto,aggiungervi i cavolini di Bruxelles tagliati a metà e sale e pepe q.b.Cuocere a fiamma viva, fino a far dorare i cavolini. Unire il brodo di pollo elasciar cuocere fino a farlo evaporare.

Come preparare le bisteccheCondire le bistecche con sale e pepe. Aggiungere il restante olio d’oliva in unapadella per la cottura al salto su un fuoco a fiamma medio-alta.Quando l’olio è ben caldo, scottare le bistecche su un lato finché sarannodorate (circa 2 minuti).Girarle e aggiungere l’aglio tritato e il rosmarino. Proseguire a fiamma media,continuando a girare per qualche altro minuto, fino a raggiungere la cotturadesiderata (da 3 a 6 minuti circa, a seconda dello spessore delle bistecche).Versare il sugo della carne sui cavolini di Bruxelles e servirli di contorno alfiletto.

Sardine alla griglia alla Sea Salt con pomodoro, rucola e pecorino

Le sardine sono un alimento fantastico per incrementare l’apporto diproteine, acidi grassi omega 3, vitamina B12 e altri nutrienti. Anche se

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alcuni amano consumare questo piccolo pesce grasso d’acqua salatadirettamente dalla scatola, vi propongo un modo semplice e veloceper servirlo e renderlo un piatto più gustoso e ben presentato.

Ingredienti per 6 persone18 sardine fresche del Mediterraneo, pulite3 cucchiai di olio d’olivaSale e pepe q.b.6 mazzetti di rucola giovane4 pomodori heirloom 2 maturi, tagliati a pezzettiIl succo di 3 limoni1 ciuffo di prezzemolo fresco, tritato150 gr di pecorino, in scaglie

Riscaldare la griglia a calore medio-alto (se è possibile regolarne latemperatura, portarla a circa 175 °C). Spennellare le sardine con un cucchiainodell’olio d’oliva e condire con sale e pepe. Cuocere sulla griglia per 4 minutida ciascun lato (in alternativa, potete far saltare in padella le sardine sufiamma medio-alta).Mettere in una ciotola la rucola, i pomodori, il resto dell’olio d’oliva, il succodi limone, sale e pepe e mescolare. Dividere in sei porzioni e disporre sopraciascuna le sardine, il prezzemolo tritato e le scaglie di pecorino.

Red Snapper alla Sea Salt con sedano, olive nere, cetriolo, avocado epomodorini gialli

Quando questo pesce arriva fresco al mercato, acquistatelo e provatequesta ricetta. Richiede meno di venti minuti di preparazione.

Ingredienti per 6 persone2 cucchiai di olio d’olivaSale e pepe q.b.6 filetti di Red Snapper americano, con la pelle2 gambi di sedano, tagliato a pezzetti100 gr di olive nere, denocciolate1 cetriolo, tagliato a pezzetti2 avocado, tagliati a cubetti

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500 gr di pomodorini gialli, tagliati a metà1 cucchiaio di aceto di vino rossoIl succo di 2 limoni

Mettere una padella per cuocere al salto su fiamma medio-alta, versarvi 1cucchiaio dell’olio d’oliva e farlo scaldare. Condire i filetti di pesce con sale epepe, quindi scottarli in padella per 6 minuti su ogni lato. Versare in unagrande ciotola il sedano, le olive, il cetriolo, gli avocado, i pomodorini, l’acetodi vino rosso, il succo di limone e il restante olio d’oliva. Dividere l’insalata susei piatti e disporvi sopra il pesce scottato servito con la pelle rivolta versol’alto.

Gazpacho allo yogurt con zucchine alla Sea Salt e petto di pollo marinatonello zafferano

Non occorre molto zafferano – la spezia ricavata dal fiore del crocus –per creare un piatto gustoso davvero squisito. Zucchine e coriandolocontribuiscono a rendere eccellente questa ricetta.

Ingredienti per 6 persone260 ml di vino biancoIl succo di 2 limoni1 pizzico di zafferano3 petti di pollo disossati, senza pelle6 zucchine1 litro di brodo di verdura120 ml di olio d’olivaIl succo di 1 lime2 cucchiai di coriandolo tritato, steli compresiSale e pepe q.b.1 cetriolo, tagliato a pezzettini½ cipolla Vidalia 3, tritata fine1 pomodoro heirloom 4, tagliato a pezzettini6 cucchiaini di yogurt greco naturale

Mettere in una grossa ciotola il vino, il succo di 1 limone e lo zafferano.Aggiungere i petti di pollo e lasciare marinare per una notte.

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Scaldare la griglia fino a un calore medio-alto (se la vostra griglia consente diregolare la temperatura, portarla a 175 °C). Grigliare i petti di pollo per 6minuti per parte o fino a quando saranno ben cotti, poi tagliare a fette spessecirca mezzo centimetro (in alternativa, cuocere il pollo al forno per lo stessotempo su ciascun lato). Far raffreddare il pollo in frigorifero.Mettere le zucchine, il brodo di verdura, l’olio d’oliva, il succo del limonerimasto, il succo del lime e 1 cucchiaio di coriandolo nel frullatore e ottenereuna purea. Aggiungere sale e pepe q.b. Versare questa crema in una grossaciotola e incorporarvi il cetriolo, la cipolla e il pomodoro. Mettere in fresco per1-2 ore. Quando è pronta da servire, dividere la crema in sei porzioni eversare sopra ciascuna 1 cucchiaino di yogurt. Aggiungere a ogni piatto dellefette di petto di pollo. Condire con sale e pepe e guarnire con il coriandolorimasto.

«Minestrone» liquido alla Sea Salt

Quando le persone pensano al minestrone, immaginano una minestradi verdura. Questa versione sostituisce la pasta o il riso con altraverdura… e più gusto.

Ingredienti per 4-6 persone3 cucchiai di olio d’oliva3 gambi di sedano, tagliato a pezzetti1 cipolla, tritata350 gr di broccoli, tagliati a pezzetti600 gr di cavolfiore, tagliato a pezzetti250 gr di asparagi, tagliati a pezzetti3 zucchine medie, tagliate a pezzetti1 cucchiaino di timo essiccato500 gr di sedano rapa, pelato e tagliato a cubettidi 1 centimetro abbondante300 gr di cavolo riccio, privato dei gambi250 gr di bietole da costa, private dei gambi2 foglie di alloro½ cucchiaino di salvia essiccata1½ cucchiaino di sale¼ di cucchiaino di pepe nero macinato fresco2 litri di brodo di pollo fatto in casa

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1,125 kg di foglie di spinaci6 cucchiai di yogurt greco naturale

Scaldare l’olio d’oliva in una grande pentola da brodo su una fiamma medio-alta. Aggiungere il sedano, la cipolla, i broccoli, il cavolfiore, gli asparagi, lezucchine e il timo.Far rosolare le verdure finché le cipolle non diventeranno trasparenti.Aggiungere il sedano rapa, il cavolo riccio, le bietole, le foglie di alloro, lasalvia essiccata, il sale e il pepe nero, quindi far cuocere per circa 4 minuti.Unire infine il brodo di pollo. Portare la minestra a ebollizione, poi continuarela cottura a fiamma media lasciando sobbollire per 25-30 minuti o finché leverdure saranno tenere. Lasciare riposare per 10 minuti. Aggiungere glispinaci e mescolare, intanto individuare le foglie d’alloro e toglierle. Passare laminestra in un frullatore fino a ottenere un composto omogeneo.Guarnire ogni porzione con una cucchiaiata di yogurt greco.

Minestra di pomodori e cavolo rosso alla Sea Salt

Nel bel mezzo dell’inverno come in piena estate, gli ingredienti perquesta minestra semplice e dissetante sono quasi sempre a portata dimano. Si accompagna bene a qualsiasi piatto al posto di un’insalata dicontorno.

Ingredienti per 6 persone130 ml di olio d’oliva1 cipolla Vidalia 5, tritata2 gambi di sedano, tagliato a pezzetti2 cucchiai di aglio, tritato2 lattine di polpa di pomodoro San Marzano1 cavolo rosso, tagliato a pezzetti10 foglie di basilico1½ litro di brodo di pollo1½ litro di brodo di verdureSale e pepe q.b.

Mettere metà dell’olio d’oliva in una grossa pentola su una fiamma medio-altae far appassire la cipolla, il sedano e l’aglio finché diventeranno trasparenti(circa 5 minuti). Aggiungere la polpa di pomodoro, il cavolo rosso, metà delle

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foglie di basilico, il brodo di pollo, il brodo di verdure e portare a ebollizione.Continuare la cottura a fiamma media facendo sobbollire per 25-30 minuti.Versare quel che rimane dell’olio d’oliva, condire con sale e pepe e lasciareriposare la minestra per 10 minuti. Passare il tutto nel frullatore fino a ottenereuna crema, quindi servire.

Salmone veloce ai funghi

Niente di più facile che passare in padella dei filetti di pesce einsaporire con funghi, aromi, spezie e un misto di olio d’oliva e olio disesamo. Questa ricetta si prepara in pochi minuti.

Ingredienti per 4 persone4 cucchiai di olio d’oliva3 spicchi d’aglio, spremuti3 scalogni, affettati finemente1 cucchiaino di zenzero, fresco o essiccato4 filetti di salmone senza pelle1 cucchiaio di olio di sesamo150 gr di funghi freschi tagliati a fettine25 gr di coriandolo, tritato

Scaldare 2 cucchiai di olio d’oliva in una padella su una fiamma media, poiaggiungere l’aglio, gli scalogni e lo zenzero. Cuocere fino a far sfrigolare (per1 minuto circa), poi aggiungere i filetti di salmone e cuocere bene (circa 3minuti per parte). Togliere i filetti e metterli da parte, quindi pulire con cura ilfondo della padella con un foglio di carta da cucina. Scaldare quel che rimanedell’olio d’oliva e l’olio di sesamo nella padella su una fiamma media.Aggiungere i funghi e far cuocere per 3 minuti, mescolando di continuo.Disporre i funghi sopra il salmone e guarnire con il coriandolo, infine servirecon un contorno di verdure arrosto di stagione (si veda pagina 290).

Agnello con limone alla greca

Quando trovate le costolette d’agnello allevato al pascolo fateneprovvista. Ci permettono di preparare piatti deliziosi ed eleganti che

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si cucinano in poco tempo. Tutto ciò che vi serve è una buonamarinata, come questa.

Ingredienti per 4 persone12 costolette d’agnello1 limone, tagliato in quattroPer la marinata:2 spicchi d’aglio, tagliati a pezzetti2 cucchiai di olio d’oliva1 cucchiaino di origano essiccatoLe foglie di 2 ramoscelli di timo fresco1 cucchiaio di succo di limoneSale e pepe q.b.

Versare tutti gli ingredienti della marinata in una ciotola e mescolarli. Metterele costolette a marinare in frigorifero, coperte, per un’ora.Preparare la griglia, quindi cuocere le costolette per 1-2 minuti per parte (inalternativa, potete far cuocere l’agnello arrosto nel forno a 200 °C per circa 10minuti, o fino al punto di cottura desiderato). Servire l’agnello con spicchi dilimone da spremere, verdure e «cuscus» al cavolfiore (si veda pagina 291).

Pollo arrosto veloce

Mi piace tenere nel congelatore dei piccoli polli interi e prepararequesta ricetta ogni volta che invito a cena gli amici o voglio avereavanzi in abbondanza per il pranzo del giorno dopo. Se usate un pollocongelato, lasciatelo scongelare in frigorifero durante la notte o nellavello per diverse ore.

Ingredienti per 6 persone1 pollo biologico da 1,3-1,8 kg1 limone, a fette5 spicchi d’aglio sbucciatiLe foglie di 7 ramoscelli di timo fresco4 cucchiai di olio d’olivaSale e pepe q.b.

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Preriscaldare il forno a 200 °C. Tagliare il pollo lungo la spina dorsale usandoun paio di forbici da cucina o un coltello, aprirlo a metà e premere con forzasullo sterno per appiattirlo. Stenderlo su una grossa teglia con la pelle versol’alto. Mettere in una ciotola le fette di limone, gli spicchi d’aglio, il timo e 2cucchiai di olio d’oliva (il timo può essere sostituito da dragoncello o daorigano). Spennellare il pollo con il resto dell’olio d’oliva e condirlo con sale epepe. Aggiungere le fette di limone, il timo e l’aglio e infornare per 45-55minuti, finché sarà ben cotto. Servire con contorno di insalata verde e verdurearrosto di stagione (si veda pagina 290).

Pesce con aneto e limone

Una piccola quantità di aneto, limone e senape di Digione aiuta moltoa esaltare ogni sorta di pesce fresco. Potete usare questa ricetta conqualsiasi pesce bianco.

Ingredienti per 4 personeLe foglie di 1 ciuffo di aneto fresco, tritate2 cucchiai di senape di DigioneIl succo di 1 limone2 cucchiai di olio d’olivaSale e pepe q.b.4 filetti di pesce bianco fresco e sodo, come halibut o merluzzo nero

(450 gr totali), con la pelle

Preriscaldare il forno a 200 °C. Passare tutti gli ingredienti tranne il pesce inun frullatore fino a ottenere un composto omogeneo.Mettere in una teglia da forno bassa i filetti di pesce con la pelle rivolta versoil fondo e coprirli con la salsa all’aneto. Infornare per circa 15 minuti, fino acottura ultimata. Servire con «cuscus» al cavolfiore (si veda pagina 291) espinaci al salto con aglio (si veda pagina 291). L’aneto può essere sostituito dalprezzemolo; in alternativa, provate la crema di aneto (si veda pagina 296) o ilpesto al pecorino (si veda pagina 296).

Zuppa di broccoli con crema di anacardi

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Quando la giornata richiede una zuppa calda da accompagnare alpiatto principale, a pranzo o a cena, ecco una ricetta che potetepreparare in anticipo e conservare in frigorifero, pronta da riscaldare.Potete usarla anche come spuntino per superare un pomeriggioindaffarato seguito da una cena a tarda ora.

Ingredienti per 4-6 persone3 cucchiai di olio d’oliva1 grossa cipolla, tritata3 scalogni, tritati1 spicchio d’aglio, tritato1 litro di brodo di pollo biologico1 kg di cime di broccoli, tagliate a pezzettiSale e pepe q.b.4 cucchiaini di foglie di timo fresco260 ml di latte di coccoUna manciata di semi di zucca come guarnizionePer la crema di anacardi:110 gr di anacardi crudi, non salati200 ml d’acquaSale q.b.

In una grande pentola da zuppa riscaldare l’olio d’oliva a fiamma medio-alta.Unire la cipolla, gli scalogni e l’aglio e far cuocere per circa 4 minuti, finchédiventeranno semitrasparenti.Aggiungere il brodo, i broccoli, sale e pepe. Portare a ebollizione, poiabbassare la fiamma e lasciare sobbollire per circa 10 minuti, fino adammorbidire i broccoli.Togliere dal fuoco e versare la zuppa in un frullatore con il timo. Frullare finoa ottenere un composto omogeneo, quindi versare di nuovo il tutto nellapentola e aggiungervi mescolando il latte di cocco. Scaldare a fuoco lento.Passare nel frullatore gli ingredienti per la crema di anacardi. Servire la zuppacon sopra un filo di crema di anacardi e, se lo si desidera, una manciata disemi di zucca.

INSALATE

Insalata agli aromi con vinaigrette all’aceto balsamico

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Quest’insalata è diventata un piatto base per me. Può essere usatacome contorno o da sola, come piatto unico per pranzo o cena, conl’aggiunta di proteine (per esempio fette di pollo, pesce o filetto cotti).Dato che ricorro a quest’insalata per tutta la settimana, mi piace avereun po’ di condimento di scorta, così ne preparo spesso una dosedoppia e lo conservo in un contenitore sottovuoto in frigorifero.

Ingredienti per 6 persone300 gr di insalatine verdi miste25 gr di prezzemolo fresco25 gr di erba cipollina, tritata25 gr di erbe aromatiche fresche, tritate (per esempio crescione,

coriandolo, dragoncello, salvia, menta)70 gr di noci, tritatePer 250 ml di vinaigrette all’aceto balsamico:60 ml di aceto balsamico2-3 spicchi d’aglio, tritato½ scalogno, tritato1 cucchiaio di senape di Digione1 cucchiaio di rosmarino (fresco o essiccato)Il succo di 1 limone1 cucchiaino di sale1 cucchiaino di pepe120 ml di olio d’oliva

Mettere in una terrina gli ingredienti per l’insalata. Mescolare tutti gliingredienti della vinaigrette eccetto l’olio, poi aggiungerlo poco a pocoottenendo un’emulsione. Versare infine ½ tazza di vinaigrette all’acetobalsamico sull’insalata, mescolare e servire.

Insalata nizzarda

Questa ricetta è ispirata a quella classica francese originaria di Nizza,ma senza le patate, e potete usare qualsiasi tipo di pesce cotto. Anchese richiede un po’ di tempo in più per la preparazione, dato cheoccorre tritare diversi ingredienti e cuocere in anticipo le uova e il

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pesce, alla fine mettere insieme il tutto è un’operazione rapida e privadi difficoltà.

Ingredienti per 6 persone4 pomodori sodi e maturi, tagliati a dadini1 peperone verde, pulito e tagliato a pezzetti3 cipollotti, tagliati sottili220 gr di rucola o insalate verdi miste3 uova sode, tagliate a fettine170 gr di pesce cotto (per esempio lampuga, salmone, merluzzo

nero)12 filetti di acciuga, sgocciolati50 gr di olive nere o olive di Kalamata125 gr di fagiolini, spuntati e sbollentati10 foglie di basilico, tritate1 piccolo cetriolo, sbucciato e tagliato a cubettiPer la vinaigrette:1 cucchiaio di senape di Digione2 cucchiaini di aceto di vino rosso6 cucchiaini di olio d’olivaSale e pepe q.b.

Unire gli ingredienti dell’insalata in una terrina. Mescolare insieme in un’altraciotola gli ingredienti per la vinaigrette. Versare il condimento sopral’insalata, mescolare e servire.

Insalata con olio di noce e noci tostate

Potete condire qualsiasi insalata con l’olio di noce e le noci tostate,celebrando il gusto deciso di questo frutto. Anche se in questaparticolare versione ho proposto il formaggio di capra, sentitevi liberidi provare un altro formaggio che si sbriciola con facilità, come la fetao il parmigiano.

Ingredienti per 2 persone1½-2 buste di insalata verde già lavata (per esempio mistodi insalate, misticanza, spinaci novelli)

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4 cucchiai di formaggio di capra sbriciolato70 gr di noci tostate, tritate3 cucchiai di mirtilli o mirtilli rossi disidratatiPer il condimento:2 cucchiai di olio di noce1 cucchiaio di aceto balsamico o di aceto di vino rosso½ cucchiaino di senapeSale e pepe q.b.

Sistemare l’insalata verde mista in una terrina e cospargere con il formaggiodi capra, le noci e i mirtilli disidratati. Sbattere insieme gli ingredienti delcondimento in una ciotola fino a ottenere un composto omogeneo, versarlosopra l’insalata, mescolare e servire.

Rucola al limone con Parmigiano Reggiano

Quest’insalata ha pochi ingredienti, ma il sapore della rucolamescolata al formaggio forte e all’intenso gusto dell’olio d’oliva leconferisce una particolare nota piccante. Mi piace accompagnarla aqualsiasi piatto di ispirazione italiana.

Ingredienti per 2 persone300 gr di rucola novella45 gr di semi di girasole crudi, non salati8-10 scaglie di Parmigiano ReggianoIl succo di 1 limone6 cucchiai di olio d’olivaSale e pepe q.b.

Mettere la rucola, i semi di girasole, il formaggio e il succo di limone in unaterrina. Condire con un filo di olio d’oliva, mescolare, aggiungere sale e pepeq.b. e servire.

Insalata di cavolo riccio alla Sea Salt con feta, peperoni arrosto, olive nere,carciofi e condimento a base di latticello

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Quando vado a pranzo al Sea Salt ho l’abitudine di ordinarequest’insalata: si sposa benissimo con qualsiasi piatto.

Ingredienti per 6 persone2 mazzi di cavolo riccio, privato dei gambi e con le fogliespezzettate grossolanamente280 gr di feta, sbriciolata3 peperoni arrosto, a fette100 gr di olive nere, denocciolate e tagliate a metà12 carciofini marinati, tagliati a metà225 gr di latticello120 ml di olio d’oliva1 cucchiaio di aceto di vino rossoSale e pepe q.b.

Mescolare in una terrina il cavolo, la feta, i peperoni, le olive e i carciofi. Inuna ciotola a parte sbattere insieme il latticello, l’olio d’oliva e l’aceto di vinorosso. Versare il condimento sopra l’insalata, mescolare e condire con sale epepe.

CONTORNI

Verdure arrosto di stagione

Questa ricetta va bene in qualsiasi periodo dell’anno. Scegliete tra iprodotti di stagione e accertatevi di usare il migliore olio d’oliva cheriuscite a trovare, le erbe aromatiche più fresche e pepe nero appenamacinato. Un filo di aceto balsamico alla fine della preparazionerenderà il tutto ancora più delizioso.

Ingredienti per 4-6 persone900 gr di verdure di stagione (per esempio asparagi, cavolinidi Bruxelles, peperoni, zucchine, melanzane, cipolle)85 ml di olio d’olivaSale e pepe q.b.10 gr di erbe aromatiche fresche, tritate (facoltative; per esempio

rosmarino, origano, prezzemolo, timo)

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Aceto balsamico invecchiato (facoltativo)

Preriscaldare il forno a 220 °C. Tagliare a pezzetti la verdura, disporla in unateglia con il fondo coperto di carta stagnola. Cospargere con olio d’oliva leverdure e mescolarle con le mani pulite, in modo che l’olio sia ben distribuito.Aggiungere sale, pepe ed erbe aromatiche secondo i gusti. Una voltainfornate, mescolare ogni 10 minuti, facendo cuocere le verdure per 35-40minuti o finché saranno ben cotte e rosolate. Appena prima di servire versare,se lo si gradisce, un filo di aceto balsamico.

Fagiolini con condimento all’aglio

Qualsiasi verdura verde può essere condita in questo modo, con aglioed erbe aromatiche.

Ingredienti per 4-6 persone900 gr di fagiolini, spuntatiPer il condimento:2 cucchiai di olio d’oliva1 cucchiaio di succo di limone1 cucchiaio di senape di Digione2 spicchi d’aglio, tritati½ cucchiaino di scorza di limoneSale e pepe q.b.55 gr di mandorle, tritate1 cucchiaio di timo fresco

In una ciotola sbattere insieme tutti gli ingredienti per il condimento. Portare aebollizione abbondante acqua salata in una pentola, sbollentare i fagiolini per4 minuti o finché saranno appena teneri, quindi scolarli. Mescolare in unagrossa ciotola i fagiolini, le mandorle e il timo insieme al condimento e servire.

«Cuscus» al cavolfiore

Per un gustoso sostituto di preparazioni ricche di amido come lapurea di patate, il riso o il tradizionale cuscus, provate questo piatto a

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base di semplice cavolfiore.

Ingredienti per 2 persone1 testa di cavolfiore2 cucchiai di olio d’oliva2 spicchi d’aglio, tritato fine35 gr di pinoli tostati12 gr di prezzemolo fresco, tritato

Passare in un frullatore le cime del cavolfiore finché somiglieranno a granelli osminuzzarlo con una grattugia per il formaggio (a fori grossi) finché l’interatesta di cimette sarà stata grattata e non resterà che il gambo da scartare.Versare l’olio d’oliva in una grande padella e scaldarlo a fuoco medio.Quando sarà caldo, aggiungere il cavolfiore, l’aglio, i pinoli e il prezzemolo ecuocerli al salto, mescolando spesso, fino a quando il cavolfiore comincerà arosolare. Per rendere questa ricetta più saporita, durante la cottura potresteaggiungere al cavolfiore olive denocciolate e tritate o 25 gr di parmigiano.

Spinaci al salto con aglio

Qualsiasi verdura a foglia verde saltata in padella con aglio e oliod’oliva è squisita. Il piatto descritto è la versione standard con glispinaci, ma sentitevi liberi di sperimentare con altre verdure.

Ingredienti per 2 persone4 cucchiai di olio d’oliva2 buste di spinaci novelli già lavati6 spicchi d’aglio, affettato fineIl succo di 1 limone1-2 cucchiaini di peperoncino a scaglieSale e pepe q.b.

Versare l’olio in una padella grande per la cottura al salto e scaldarlo afiamma viva. Quando sarà bollente, aggiungere gli spinaci e mescolare dicontinuo per 1-2 minuti, finché cominceranno ad appassire. Unire l’aglio econtinuare a cuocere mescolando in fretta per un altro minuto circa, poitogliere la padella dal fuoco.Spremere il succo del limone sopra gli spinaci e aggiungere il peperoncino, il

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sale e il pepe. Mescolare bene e servire.

SALSE

Guacamole

Troverete numerose versioni di guacamole che rispettano i criteri delmio protocollo, sentitevi liberi di sperimentarle. La seguente ricetta èispirata a quella di Alton Brown su FoodNetwork.com. Mi piace moltoil modo in cui usa le spezie per dare più gusto. Come tutte le salsepresentate in questa parte, potete conservarla in frigorifero in uncontenitore sottovuoto anche fino a una settimana. Usatela per glispuntini con verdure crude già tagliate, per esempio peperoni,bastoncini di sedano e ravanelli, o aggiungetene una cucchiaiata aipiatti per insaporirli quando opportuno.

Ingredienti per 4 persone2 avocado Hass grandi e maturi, privati del semeIl succo di 1 lime1 cucchiaino di sale¼ di cucchiaino di cumino macinato¼ di cucchiaino di pepe di Caienna½ cipolla rossa piccola, tagliata a dadini½ peperoncino verde messicano, privato dei semi e tritato2 pomodori un poco acerbi, tagliati a dadini1 cucchiaio di coriandolo fresco1 spicchio d’aglio, tritato

Schiacciare la polpa dell’avocado insieme al succo del lime in una grandeciotola. Aggiungere sale, cumino e pepe di Caienna. Incorporare la cipolla, ilpeperoncino verde messicano, i pomodori, il coriandolo e l’aglio. Lasciareriposare a temperatura ambiente per un’ora e servire.

Salsa tahini di avocado

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Questa salsa è una via di mezzo tra guacamole e hummus. Provatelacon verdure crude già tagliate o con pollo precotto tagliato a cubetti.

Ingredienti per 350 gr115 gr di rucola già lavata1 cucchiaio di olio d’oliva1 avocado Hass grande e maturo, privato del seme75 gr di tahiniIl succo di 1 limone½ cucchiaino di cumino macinato2 cucchiai di prezzemolo fresco tritato o di coriandolo

Versare l’olio d’oliva in una grossa padella o casseruola e cuocervi la rucola afiamma medio-alta fino a farla appassire. Passare la rucola in un frullatoreinsieme agli altri ingredienti fino a ottenere un composto omogeneo.Aggiungere 60 ml d’acqua o più e frullare finché la miscela assumerà unaconsistenza di media densità. Servire subito o conservare in un contenitoresottovuoto in frigorifero per un massimo di due giorni.

Salsa cremosa agli anacardi

Gli anacardi sono molto saporiti. Oltre a servire come salsa per leverdure crude, questa ricetta si presta come guarnizione per moltezuppe e piatti a base di pollo.

Ingredienti per 250 gr75 gr di anacardi2 cucchiaini di miso leggero65 ml di succo di limone fresco¼ di cucchiaino di noce moscata macinata250 ml d’acquaSale q.b.

Passare nel frullatore gli anacardi, il miso, il succo di limone, la noce moscatae metà dell’acqua fino a ottenere una purea omogenea. Aggiungere poco apoco il resto dell’acqua fino a ottenere una miscela dalla consistenza dellapanna montata. Se si preferisce una consistenza più fluida, aggiungere altra

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acqua. Condire con sale a piacere. Conservare in frigorifero in un contenitoresottovuoto per un massimo di quattro giorni.

Hummus

Lo hummus è una delle salse più versatili e può essere usato insvariati modi: è delizioso come spuntino con le verdure e può essereimpiegato per aggiungere intensità a piatti di carne.

Ingredienti per 4 persone450 gr di ceci4 cucchiai di succo di limone1½ cucchiaio di tahini2 spicchi d’aglio2 cucchiai di olio d’oliva, più un filo d’olio come guarnizione½ cucchiaino di sale12 gr di prezzemolo fresco, tritato

Scolare i ceci e conservare ¼ del liquido della lattina. Mettere in un frullatore iceci, il succo di limone, il tahini, l’aglio, i 2 cucchiai di olio d’oliva e il sale.Versarvi sopra il liquido dei ceci tenuto da parte e frullare per 3 minuti abassa velocità fino a ottenere un composto omogeneo. Svuotare l’hummus inuna ciotola da portata e aggiungere un filo di olio d’oliva. Guarnire con ilprezzemolo e servire.

CONDIMENTI

Di seguito trovate altri tre condimenti con cui sbizzarrirvi in cucina. Seli preparate in anticipo, conservateli in contenitori sottovuoto infrigorifero per una settimana al massimo.

Crema di aneto da spalmare

Quando sarete a corto di idee per cucinare il pesce, provate questa

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crema da spalmare su qualsiasi pesce fresco preparato al forno o allagriglia.

Ingredienti per 125 gr3 ciuffi di foglie fresche di aneto1 ciuffo di foglie di prezzemolo fresco2 spicchi d’aglio3 cucchiai di olio d’oliva2 cucchiai di senape di Digione1 cucchiaio di succo di limoneSale e pepe q.b.

Passare tutti gli ingredienti in un frullatore o in un robot da cucina fino aottenere un composto omogeneo. Spalmare sul pesce prima di cuocerlo alforno o alla griglia.

Pesto al pecorino

Ecco un’altra crema da spalmare sul pesce.

Ingredienti per circa 125 gr50 gr di mandorle, noci o pinoli2 spicchi d’aglio40 gr di foglie di basilico fresco30 gr di pecorino grattugiatoSale e pepe q.b.50 gr di olio d’oliva

Passare in un robot da cucina tutti gli ingredienti tranne l’olio d’oliva, chedovrà essere incorporato poco a poco attraverso l’apposita apertura; il pestodovrebbe essere saporito, cremoso e spalmabile.

Sofrito

Il sofrito è un condimento saporito a base di pomodoro usato spessonella cucina latinoamericana. Assai versatile, può essere aggiunto a

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pollo arrosto, stufati e uova strapazzate, e anche al pesce alla griglia oal forno.

Ingredienti per 1 kg2 cucchiai di olio d’oliva1 cipolla media, tritata fine1 peperone verde, pulito e tritato fine2 spicchi d’aglio, tritati800 gr di polpa di pomodoroLe foglie di 1 ciuffo di coriandolo fresco, tritate1 cucchiaino di papricaSale e pepe q.b.

Versare l’olio d’oliva in una grossa padella con il fondo pesante e farloscaldare a fuoco medio. Far rosolare la cipolla. Unire il peperone verde e farcuocere per 5 minuti, mescolando spesso. Aggiungere l’aglio e far rosolare perun altro minuto, quindi versare la polpa di pomodoro, il coriandolo e lapaprica e mescolare bene. Continuare a far cuocere per circa 10-15 minuti.Aggiustare infine di sale e pepe.

DESSERT

Tartufi al cioccolato

Sono una fantastica prelibatezza come dessert o da servire a cena congli amici. Più alta è la qualità del cioccolato, meglio sarà. Sperimentatediversi aromi, a seconda dell’umore del momento.

Ingredienti per 30-40 tartufi120 ml di panna da montare1 cucchiaino di aroma di mandorla, arancia, vaniglia o nocciola230 gr di cioccolato fondente (con almeno il 70% di cacao),tagliato a pezzettiniCacao in polvere o nocciole tritate per la copertura

Far sobbollire la panna da montare in una piccola casseruola. Aggiungerel’aroma, mescolare, poi versare il liquido sopra il cioccolato in una ciotola a

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parte. Lasciare riposare qualche minuto, quindi mescolare fino a ottenere uncomposto omogeneo. Far raffreddare e poi mettere in frigorifero per due ore.Formare delle palline da 2,5 centimetri di diametro usando un cucchiaino efacendole rotolare veloci tra i palmi delle mani. Metterle su un vassoioricoperto di carta da forno e riporlo in frigorifero per la notte.Far rotolare le palline nella polvere di cacao o nelle nocciole tritate.Conservare i tartufi in un contenitore sottovuoto in frigorifero per unasettimana al massimo.

Mousse di cioccolato al cocco

Vi serve un dessert pronto in pochi minuti? Tenete in frigorifero unaconfezione di latte di cocco, così sarà a disposizione quando avretevoglia di concedervi una prelibatezza peccaminosa.

Ingredienti per 2 persone1 lattina di latte di cocco3 cucchiai di cacao in polvere1-2 cucchiaini di stevia (a seconda del grado di dolcezza desiderato)Farina di cocco, burro di mandorle, cannella (facoltativi)

Far raffreddare in frigorifero per diverse ore o per la notte la lattina di latte dicocco sigillata.Vuotare la crema in una ciotola e sbatterla energicamente con una frusta o conuno sbattitore elettrico finché non sarà morbida (non si deve liquefare).Aggiungere il cacao e la stevia e continuare a sbattere fino a ottenere unamousse leggera e soffice. Guarnire con una spolverata di farina di cocco, unpezzetto di burro di mandorle o un pizzico di cannella e servire.

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EpilogoLa mesmerizzante verità

Nel XVIII secolo un medico tedesco che studiava a Vienna fondò unaclinica in cui, basandosi sul cosiddetto magnetismo animale che avevasuscitato il suo interesse, i pazienti venivano sottoposti a un sistema ditrattamento mediante ipnosi di sua invenzione. Tale sistema vennechiamato mesmerismo, ispirandosi al nome del suo fondatore: FranzAnton Mesmer. Mesmer sosteneva di potere curare i problemi delsistema nervoso avvalendosi del magnetismo. A suo avviso, la salutedel corpo dipendeva dal giusto equilibrio di un «fluido sottile».Questo fluido era all’origine anche di altri fenomeni quali il calore, laluce e la gravità, e fluttuava in tutto l’universo. Mesmer teorizzò ilmagnetismo animale concentrandosi sui poli magnetici del corpo, cheriteneva contribuissero a indirizzare questo fluido. In base alla suateoria, i poli dovevano essere allineati in maniera adeguata perfunzionare e mantenere un flusso corretto, dolce e armonioso. Sequesto equilibrio veniva disturbato, una persona poteva sviluppare«sofferenze nervose» e avere bisogno di essere «mesmerizzata»(ipnotizzata) per riallineare i poli e riequilibrare il fluido.

In poco tempo Mesmer fece parlare molto di sé, nel bene e nel male.Suscitò grande interesse e incuriosì molte persone, istruite e non. Lacomunità medica e scientifica lo temeva; il governo era preoccupatodalla segretezza e dal carattere sovversivo del suo seguito in crescitacostante. Nel 1777 fu espulso da Vienna e si recò a Parigi, dove tornòad affermarsi.

Negli anni Ottanta del XVIII secolo aveva raccolto nuovi discepoli efondato con loro laboratori nella capitale francese. Questi seguaci«mesmerizzavano» le persone affermando di individuare i loro poli eregolare il loro fluido. Si può immaginare la scena teatrale dello

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scienziato pazzo che alza le braccia in aria, raccogliendo i suoi poteri eincanalandoli nel contatto con i disgraziati colpiti da «sofferenzenervose», quasi tentasse di scacciare i loro demoni con il suo tocco.Divenne popolare in parte per il mistero che lo avvolgeva e in parteperché farsi curare da Mesmer e dai suoi adepti si trasformò in unamoda. L’attrezzatura usata era assai complessa, con tanto di tubimesmerici, bottiglie di acqua mesmerizzata e sbarre di ferro cheveicolavano il sottile fluido. Queste cure si svolgevano in aree isolate,per questo acquistarono un’aura di mistero e una cattiva fama.

Mesmer non resistette molto a lungo neppure a Parigi. Furonoavviate delle indagini, e il suo studio indipendente fu esaminato dauna commissione governativa del re che annoverava nomi comeAntoine-Laurent Lavoisier e Benjamin Franklin. Nel 1785 Mesmerlasciò Parigi per Londra, poi ripartì per l’Austria, l’Italia, la Svizzera einfine la Germania; tornò in un paese vicino al luogo in cui era nato enel 1815 morì. Ovunque andasse, tentò di conquistare il plausouniversale che riteneva di meritare per le sue terapie.

È ormai opinione comune che Mesmer curasse disturbipsicosomatici e che approfittasse molto della credulità delle persone.Con il senno di poi, le sue teorie e pratiche appaiono ridicole, ma adire il vero la sua storia somiglia a molte storie di oggi. Non è poi cosìridicolo immaginare la gente vittima di prodotti, procedure eindicazioni sulla salute commercializzati con grande abilità. Ognigiorno sentiamo qualche notizia sulla salute, siamo bombardati dimessaggi sulla nostra salute: positivi, negativi e anche contraddittori,il che genera confusione. E siamo letteralmente mesmerizzati daquesti messaggi. Anche il consumatore intelligente, istruito, cauto escettico subisce questa suggestione. È difficile separare la verità dallafinzione e distinguere tra ciò che è salutare e ciò che è dannosoquando le informazioni e le testimonianze provengono da «esperti».

Se prendete in considerazione alcuni dei consigli dispensati nelloscorso secolo da questi cosiddetti esperti, non tarderete a renderviconto che molte volte l’apparenza inganna. Capita spesso di assisterea completi voltafaccia circa la validità di un dato di fatto, affermazioneo prassi. Verso la fine del XIX secolo il salasso era ancora diffuso.

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Pensavamo che le uova fossero dannose e la margarina magica, maora sappiamo che le uova sono uno degli alimenti più ricchi dinutrienti al mondo e che la margarina contiene grassi trans letali.Verso la metà del XX secolo i dottori posavano per la pubblicità dellesigarette, e in seguito cominciarono a sostenere che gli alimenti perneonati fossero molto meglio del latte materno per i bambini. E anchese oggi è difficile immaginarlo, non molto tempo fa pensavamo che ladieta non avesse alcun effetto sulle malattie. Ora sappiamo che non ècosì.

Quando immagino il mondo tra cinquant’anni, mi domando qualiaffermazioni oggi accettate da molti di noi saranno state dichiaratefalse e abbandonate dalla società. E mi domando anche se, dato il miolavoro, avrò contribuito in qualche misura a cambiare le opinionidistorte delle persone su carboidrati, grassi e colesterolo. Senzadubbio i nostri punti di vista attuali sono spalleggiati da potenti forze.Entrate in qualunque supermercato e vi troverete davanti a dozzine dimotivi per mangiare questo o quello: asserzioni che spessoperpetuano falsità e finte promesse. Questo vale soprattutto per cibietichettati come cereali integrali «sani», prodotti a basso contenuto digrassi e senza colesterolo. Oltre a dirvi che queste mercirappresentano il vostro biglietto per una vita più lunga e più attiva, iproduttori di alimenti li legano in qualche modo a un minor rischio dicancro, cardiopatie, diabete e obesità. Ma voi conoscete la verità.

Viviamo un periodo elettrizzante per la medicina; abbiamofinalmente a portata di mano la tecnologia utile a diagnosticare, curaree guarire molte malattie che solo pochi decenni fa accorciavano la vita.Tuttavia, viviamo anche in un periodo in cui le persone che muoionoper malattie croniche sono il doppio di quelle che muoiono permalattie infettive (incluse HIV/AIDS, tubercolosi e malaria), patologiematerne e perinatali e deficit nutrizionali messi insieme. 1 È noto che ilsistema sanitario statunitense ha bisogno di riforme. I costi dellasanità sono esorbitanti: spendiamo quasi il 20% del nostro prodottointerno lordo nella sanità e il premio delle assicurazioni sanitarie perla famiglia media è in continuo aumento, con un costo superiore aquindicimila dollari all’anno. E anche se oggi siamo al primo posto nel

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mondo per la spesa sanitaria, secondo l’Organizzazione Mondialedella Sanità siamo trentasettesimi in termini di prestazionicomplessive del sistema sanitario, e ventiduesimi per aspettativa divita tra i trenta paesi industrializzati. 2

Cosa salverà il nostro sistema e le generazioni future? Nonpossiamo attendere che il sistema sanitario, con le sue enormicomplicazioni, si sistemi da solo, né aspettarci che il cambiamentoavvenga con la rapidità di cui abbiamo bisogno. E non possiamoaffidarci ai farmaci per mantenerci in vita e in forma. Come horaccontato in questo libro, spesso i farmaci comportano un ulterioreallontanamento dal nostro obiettivo di salute. Ognuno di noi devepartire da piccoli mutamenti nelle abitudini quotidiane, checorrispondono a grandi guadagni nel nostro indice di salute sia oggisia in futuro.

Nonostante alcuni considerino il cuore pulsante il fulcro della vita(in fondo è il battito cardiaco che cerchiamo nelle prime settimane divita), al centro del palcoscenico si trova in realtà il cervello. Il nostrocuore non batterebbe senza il cervello, ed è il nostro cervello apermettere la sperimentazione del mondo a ogni livello: la sensazionedi piacere e dolore, di amare e di imparare, di prendere decisioni e dipartecipare alla vita nei modi che la rendono degna di essere vissuta!

Fino a quando non affrontiamo un problema di salute che riguardala funzionalità del cervello, tendiamo a dare per scontate le nostrefacoltà mentali. Immaginiamo che la nostra mente ci accompagneràovunque andremo. E se non fosse così? Se potessimo assicurarci per ilfuturo la nostra capacità mentale e il nostro intelletto solocominciando a nutrire il cervello nei modi che ho descritto in questepagine? Tutti noi apprezziamo il diritto alla libertà di parola, allariservatezza e al voto. Sono fondamentali per il nostro modo di vivere.Ma che dire del diritto a una lunga vita, libera dal declino cognitivo edalla malattia mentale? Oggi potete rivendicare questo diritto. Speroproprio che lo facciate.

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Note

Il seguente elenco riporta testi e studi scientifici che potreste trovare utili perapprofondire alcune delle idee e dei concetti espressi in questo libro. Questimateriali possono anche aprire la strada a ulteriori ricerche e indagini. Peraccedere ad altri studi e a un elenco sempre aggiornato di fonti, siete invitati avisitare il sito www.DrPerlmutter.com.

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Introduzione1 MetLife Foundation, What America Thinks: MetLife Foundation Alzheimer’s

Survey, studio condotto da Harris Interactive, febbraio 2011,https://www.metlife.com/assets/cao/foundation/alzheimers-2011.pdf.

2 Annie L. Culver et al., Statin Use and Risk of Diabetes Mellitus inPostmenopausal Women in the Women’s Health Initiative, in «Archives ofInternal Medicine», CLXXII, 2, 2012, pp. 144-52.

3 Åsa Blomström et al., Maternal Antibodies to Dietary Antigens and Risk forNonaffective Psychosis in Offspring, in «American Journal of Psychiatry»,CLXIX, 2012, pp. 625-32.

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I. La pietra angolare delle malattie al cervello1 Eric Steen et al., Impaired Insulin and Insulin-like Growth Factor Expression and

Signaling Mechanisms in Alzheimer’s Disease – Is This Type 3 Diabetes?, in«Journal of Alzheimer’s Disease», VII, 1, 2005, pp. 63-80.

2 R.O. Roberts et al., Relative Intake of Macronutrients Impacts Risk of MildCognitive Impairment or Dementia, in «Journal of Alzheimer’s Disease»,XXXII, 2, 2012, pp. 329-39. Sulla relazione tra diabete e Alzheimer si vedaanche: http://www.doctoroz.com/article/alzheimers-diabetes-brain.

3 Mark Bittman, Is Alzheimer’s Type 3 Diabetes?, in «New York Times», 25settembre 2012, http://opinionator.blogs.nytimes.com/2012/09/25/bittman-is-alzheimers-type-3-diabetes. Il pezzo di Bittman offre un’ottimaspiegazione sul diabete di tipo 3.

4 http://www.webmd.com/diabetes.5 http://aiafoundation.org/patients-families/facts-figures.6 Mark Bittman, Is Alzheimer’s Type 3 Diabetes?, cit.7 http://www.cdc.gov/mmwr/preview/mmwrhtml/mm6145a4.htm).8 http://www.framinghamheartstudy.org.9 Penelope K. Elias et al., Serum Cholesterol and Cognitive Performance in the

Framingham Heart Study, in «Psychosomatic Medicine», LXII, 1, 2005, pp.24-30.

10 Nicolas Cherbuin et al., Higher Normal Fasting Plasma Glucose Is Associatedwith Hippocampal Atrophy: The PATH Study, in «Neurology», LXXIX, 10,gennaio/febbraio 2012, pp. 1019-26. DOI: 10.1212/WNL.0b013e31826846de.

11 http://www.sciencedaily.com/releases/2012/09/120904095856.htm.12 Walter F. Stewart et al., Risk of Alzheimer’s Disease and Duration of NSAID

Use, in «Neurology», XLVIII, 3, marzo 1997, pp. 626-32. Sugli effetti degliantinfiammatori si veda anche: Angelika D. Wahner et al., NonsteroidalAnti-inflammatory Drugs May Protect Against Parkinson’s Disease, in«Neurology», LXIX, 19, 6 novembre 2007, pp. 1836-42.

13 Jose Miguel Rubio-Perez et al., A Review: Inflammatory Process in Alzheimer’sDisease, Role of Cytokines, in «Scientific World Journal», 1 aprile 2012. DOI:10.1100/2012/756357.

14 William Davis, La dieta zero grano, Milano, Mondadori, 2014, p. 46.

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II. La proteina collosa1 Keith O’Brien, Should We All Go Gluten-Free?, in «New York Times», 25

novembre 2011, http://www.nytimes.com/2011/11/27/magazine/Should-We-All-Go-Gluten-Free.html?pagewanted=all&_r=0.

2 Chris Chase, Is Novak Djokovic’s New, Gluten-free Diet Behind His Win Streak?,in «Yahoo! Sports», 17 maggio 2011,http://sports.yahoo.com/tennis/blog/busted_racquet/post/Is-Novak-Djokovic-8217-s-new-gluten-free-diet-?urn=ten-wp706.

3 Per una rassegna completa di definizioni basilari sul glutine e i suoi effettisul corpo, potete consultare le risorse disponibili alla pagina internethttp://www.healthspringholistic.com.

4 Ibidem.5 David Perlmutter, Gluten Sensitivity and the Impact on the Brain,

http://www.huffingtonpost.com/dr-david-perlmutter-md/gluten-impacts-the-brain_b_785901.html, 21 novembre 2010.

6 David Perlmutter e Alberto Villoldo, Ottieni il massimo dal tuo cervello. Gliorizzonti della neuroscienza, Cesena, BIS, 2011.

7 Il dott. Alessio Fasano del Boston’s Center for Celiac Research andTreatments, che fa parte del Massachusetts General Hospital, ha scrittomolto sul tema della sensibilità al glutine e sui numerosi modi in cui puòmanifestarsi nelle persone, talvolta simulando altri disturbi. Potete visitareil suo sito e accedere alle sue pubblicazioni alla pagina internethttp://www.celiaccenter.org.

8 Marios Hadjivassiliou et al., Does Cryptic Gluten Sensitivity Play a Part inNeurological Illness?, in «Lancet», CCCXLVII, 8998, 10 febbraio 1996, pp.369-71.

9 Marios Hadjivassiliou et al., Gluten Sensitivity as a Neurological Illness, in«Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry», LXXII, 5, maggio2002, pp. 560-63.

10 Ibidem.11 Bernadette Kalman e Thomas H. Brannagan III, Neurological Manifestations

of Gluten Sensitivity, in Neuroimmunology in Clinical Practice, Oxford, Wiley-Blackwell, 2007. Questo libro fornisce un eccellente resoconto della storiadel morbo celiaco.

12 Marios Hadjivassiliou et al., Gluten Sensitivity: From Gut to Brain, in «TheLancet Neurology», IX, 3, marzo 2010, pp. 318-30. Questo articolo offreun’altra splendida panoramica della celiachia nel corso dei secoli.

13 T. William et al., Cognitive Impairment and Celiac Disease, «Archives of

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Neurology», LXIII, 10 ottobre 2006, pp. 1440-46. Si veda anche: Mayo Clinic,Mayo Clinic Discovers Potential Link Between Celiac Disease and CognitiveDecline, in «ScienceDaily», 12 ottobre 2006,http://www.sciencedaily.com/releases/2006/10/061010022602.htm.

14 Mayo Clinic, Mayo Clinic Discovers Potential Link Between Celiac Disease andCognitive Decline, op. cit.

15 Marios Hadjivassiliou et al., Gluten Sensitivity: From Gut to Brain, cit.16 Il seguente sito web permette di accedere al lavoro e alle pubblicazioni del

dott. Vojdani: http://www.yourmedicaldetective.com/public/148.cfm.17 Rodney P. Ford, The Gluten Syndrome: A Neurological Disease, in «Medical

Hypotheses», LXXIII, 3, settembre 2009, pp. 438-40.18 Gianna Ferretti et al., Celiac Disease, Inflammation and Oxidative Damage: A

Nutrigenetic Approach, in «Nutrients», IV, 4, aprile 2012, pp. 243-57.19 Ibidem.20 http://www.healthspringholistic.com.21 Christine Zioudrou et al., Opioid Peptides Derived from Food Proteins (the

Exorphins), in «Journal of Biological Chemistry», CCLIV, 7, 10 aprile 1979,pp. 2446-49.

22 William Davis, La dieta zero grano, op. cit., p. 67.23 http://www.healthspringholistic.com.

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III. Attenzione, carboidratodipendenti e grassofobici1 Vedi il sito di Craig Weller, http://www.barefootfts.com.2 R.O. Roberts et al., Relative Intake of Macronutrients Impacts Risk of Mild

Cognitive Impairment or Dementia, cit.3 M. Mulder et al., Reduced Levels of Cholesterol, Phospholipids, and Fatty Acids in

Cerebrospinal Fluid of Alzheimer Disease Patients Are Not Related toApolipoprotein E4, in «Alzheimer Disease and Associated Disorders», XII, 3,settembre 1998, pp. 198-203.

4 P. Barberger-Gateau et al., Dietary Patterns and Risk of Dementia: The Three-city Cohort Study, in «Neurology», LXIX, 20, 13 novembre 2007, pp. 1921-30.

5 P.M. Kris-Etherton et al., Polyunsaturated Fatty Acids in the Food Chain in theUnited States, in «American Journal of Clinical Nutrition», LXXI, 1, gennaio2000, S179-S188. Si veda anche: http://chriskresser.com/how-too-much-omega-6-and-not-enough-omega-3-is-making-us-sick.

6 Rebecca West et al., Better Memory Functioning Associated with Higher Totaland Low-density Lipoprotein Cholesterol Levels in Very Elderly Subjects Withoutthe Apolipoprotein e4 Allele, in «American Journal of Geriatric Psychiatry»,XVI, 9, settembre 2008, pp. 781-85.

7 L.M. de Lau et al., Serum Cholesterol Levels and the Risk of Parkinson’s Disease,in «American Journal of Epidemiology», CLXIV, 10, 11 agosto 2006, pp.998-1002.

8 X. Huang et al., Low LDL Cholesterol and Increased Risk of Parkinson’s Disease:Prospective Results from Honolulu-Asia Aging Study, in «MovementDisorders», XXIII, 7, 15 maggio 2008, pp. 1013-18.

9 H.M. Krumholz et al., Lack of Association Between Cholesterol and CoronaryHeart Disease Mortality and Morbidity and All-cause Mortality in Persons OlderThan 70 Years, in «JAMA», CCLXXII, 17, 2 novembre 1994, pp. 1335-40.

10 H. Petousis-Harris, Saturated Fat Has Been Unfairly Demonised: Yes, in«Primary Health Care», III, 4, 1 dicembre 2011, pp. 317-19.

11 www.survivediabetes.com/lowfat.html.12 A.W. Weverling-Rijnsburger et al., Total Cholesterol and Risk of Mortality in

the Oldest Old, in «Lancet», CCCL, 9085, 18 ottobre 1997, pp. 1119-23.13 Ibidem.14 L. Dupuis et al., Dyslipidemia Is a Protective Factor in Amyotrophic Lateral

Sclerosis, in «Neurology», LXX, 13, 25 marzo 2008, pp. 1004-09.15 Ibidem.16 P. W. Siri-Tarino et al., Meta-analysis of Prospective Cohort Studies Evaluating

the Association of Saturated Fat with Cardiovascular Disease, in «American

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Journal of Clinical Nutrition», XCI, 3, marzo 2010, pp. 535-46.17 Michael I. Gurr et al., Lipid Biochemistry: An Introduction, 5ª ed., New York,

Wiley-Blackwell, 2010.18 A. Astrup, et al., The Role of Reducing Intakes of Saturated Fat in the Prevention

of Cardiovascular Disease: Where Does the Evidence Stand in 2010?, in«American Journal of Clinical Nutrition», XCIII, 4, aprile 2011, pp. 684-88.

19 Per un parere interessante e di carattere generale sulle nostre abitudinialimentari nel corso dell’ultimo secolo, si veda la nota del dott. Donald W.Miller Jr. sul sito di Lew Rockwell alla paginahttp://www.lewrockwell.com/miller/miller33.1.html.

20 http://www.choosemyplate.gov.21 http://www.lewrockwell.com/miller/miller33.1.html.22 International Atherosclerosis Project, General Findings of the International

Atherosclerosis Project, in «Laboratory Investigation», XVIII, 5, maggio 1968,pp. 498- 502.

23 http://www.cdc.gov/diabetes/pubs/pdf/diabetesreportcard.pdf24 R. Stocker e J. F. Keaney Jr., Role of Oxidative Modifications in Atherosclerosis,

in «Physiology Review», LXXXIV, 4, ottobre 2004, pp. 1381-1478.25 Y. Kiyohara, The Cohort Study of Dementia: The Hisayama Study, in «Rinsho

Shinkeigaku», LI, 11, novembre 2011, pp. 906-09. Si noti che l’articolo è inlingua giapponese. Si veda anche la trattazione di Ann Harding di questostudio per «CNN Health» alla paginahttp://edition.cnn.com/2011/09/19/health/diabetes-doubles-alzheimers.

26 D. Jacobs et al., Report of the Conference on Low Blood Cholesterol: MortalityAssociations, in «Circulation», LXXXVI, 3, settembre 1992, pp. 1046-60.

27 Duane Graveline, Lipitor, Thief of Memory. Statin Drugs and the MisguidedWar on Cholesterol, USA, Duane Graveline, 2006.

28 Annie L. Culver et al., Statin Use and Risk of Diabetes Mellitus inPostmenopausal Women in the Women’s Health Initiative, op. cit.

29 http://people.csail.mit.edu/seneff/alzheimers_statins.html.30 Iowa State University, Cholesterol-reducing Drugs May Lessen Brain Function,

Says Researcher, in «ScienceDaily», 26 febbraio 2009,http://www.sciencedaily.com/releases/2009/02/090223221430.htm.

31 Center for Advancing Health, Statins Do Not Help Prevent Alzheimer’sDisease, Review Finds, in «ScienceDaily», 16 aprile 2009,http://www.sciencedaily.com/releases/2009/04/090415171324.htm. Si vedaanche: B. McGuinness et al., Statins for the Prevention of Dementia, in«Cochrane Database of Systematic Reviews», 2, 2009.

32 Ibidem.33 Stephanie Seneff, APOE-4: The Clue to Why Low Fat Diet and Statins May

Cause Alzheimer’s, 15 dicembre 2009,

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http://people.csail.mit.edu/seneff/alzheimers_statins.html.34 Ibidem.35 Ibidem.36 La National Library of Medicine (http://www.nlm.nih.gov) ospita

pubblicazioni di ricerche in peer review (con valutazione paritaria) su più di300 effetti negativi noti associati all’uso delle statine. Per un riassunto dialcuni dei principali studi, si veda la seguente pagina:http://www.greenmedinfo.com/toxic-ingredient/statin-drugs.

37 G. Charach et al., Baseline Low-density Lipoprotein Cholesterol Levels andOutcome in Patients with Heart Failure, in «American Journal of Cardiology»,CV, 1, 1 gennaio 2010, pp. 100-104.

38 K. Rizvi et al., Do Lipid-lowering Drugs Cause Erectile Dysfunction? ASystematic Review, in «Journal of Family Practice», XIX, 1, febbraio 2002, pp.95-98.

39 G. Corona et al., The Effect of Statin Therapy on Testosterone Levels in SubjectsConsulting for Erectile Dysfunction, pt. 1, in «Journal of Sexual Medicine»,VII, 4, aprile 2010, pp. 1547-56.

40 C. J. Malkin et al., Low Serum Testosterone and Increased Mortality in Men withCoronary Heart Disease, in «Heart», XCVI, 22, novembre 2010, pp. 1821-25.

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IV. Un’unione infruttuosa1 R.H. Lustig et al., Public Health: The Toxic Truth About Sugar, in «Nature»,

CDLXXXII, 7383, 1 febbraio 2012, pp. 27-29.2 Gary Taubes, Good Calories, Bad Calories. Challenging the Conventional Wisdom

on Diet, Weight Control, and Disease, New York, Knopf, 2007.3 Gary Taubes, Is Sugar Toxic?, in «New York Times», 13 aprile 2011.

Disponibile online alla paginahttp://www.nytimes.com/2011/04/17/magazine/mag-17Sugar-t.html?pagewanted=all&_r=0.

4 R.H. Lustig, Sugar: The Bitter Truth, http://youtu.be/dBnniua6-oM, 2009. Sitratta di un’interessante panoramica sul metabolismo degli zuccheri.

5 Gary Taubes, Perché si diventa grassi (e come fare per evitarlo), Milano,Sonzogno, 2014, p. 171.

6 Ibidem, p. 176.7 K. Yaffe, et al., Diabetes, Glucose Control, and 9-year Cognitive Decline Among

Older Adults Without Dementia, in «Archives of Neurology», LXIX, 9,settembre 2012, pp. 1170-75.

8 R.O. Roberts, et al., Association of Duration and Severity of Diabetes Mellituswith Mild Cognitive Impairment, in «Archives of Neurology», LXV, 8, agosto2008, pp. 1066-73.

9 Amy Dockser Marcus, Mad-cow Disease May Hold Clues to Other NeurologicalDisorders, in «Wall Street Journal», 3 dicembre 2012. Disponibile online allapaginahttp://online.wsj.com/article/SB10001424127887324020804578151291509136144.html.

10 J. Stöhr et al., Purified and Synthetic Alzheimer’s Amyloid Beta (Aß) Prions, in«Proceedings of the National Academy of Sciences», CIX, 27, 3 luglio 2012,pp. 11025-30.

11 L.C. Maillard, Action of Amino Acids on Sugars. Formation of Melanoidins in aMethodical Way, in «Comptes Rendus Chimie», CLIV, 1912, pp. 66-68.

12 P. Gkogkolou e M. Böhm, Advanced Glycation End Products: Key Players inSkin Aging?, in «Dermato-Endocrinology», IV, 3, 1 luglio 2012, pp. 259-70.

13 Q. Zhang et al., A Perspective on the Maillard Reaction and the Analysis ofProtein Glycation by Mass Spectrometry: Probing the Pathogenesis of ChronicDisease, in «Journal of Proteome Research», VIII, 2, febbraio 2009, pp. 754-69.

14 Sonia Gandhi e Audrey Abramov, Mechanism of Oxidative Stress inNeurodegeneration, in «Oxidative Medicine and Cellular Longevity», 2012.

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15 C. Enzinger et al., Risk Factors for Progression of Brain Atrophy in Aging: Six-year Follow-up of Normal Subjects, in «Neurology», LXIV, 10, 24 maggio 2005,pp. 1704-11.

16 M. Hamer et al., Haemoglobin A1c, Fasting Glucose and Future Risk of ElevatedDepressive Symptoms over 2 Years of Follow-up in the English LongitudinalStudy of Ageing, in «Psychological Medicine», XLI, 9, settembre 2011, pp.1889-96.

17 C. Geroldi et al., Insulin Resistance in Cognitive Impairment: The InCHIANTIStudy, in «Archives of Neurology», LXII, 7, 2005, pp. 1067-72.

18 M. Adamczak e A. Wiecek, The Adipose Tissue as an Endocrine Organ, in«Seminars in Nephrology», XXXIII, 1, gennaio 2013, pp. 2-13.

19 E. L. de Hollander et al., The Association Between Waist Circumference andRisk of Mortality Considering Body Mass Index in 65- to 74-year-olds: A Meta-analysis of 29 Cohorts Involving More Than 58.000 Elderly Persons, in«International Journal of Epidemiology», XLI, 3, giugno 2012, pp. 805-17.

20 F. Item e D. Konrad, Visceral Fat and Metabolic Inflammation: The PortalTheory Revisited, pt. 2, in «Obesity Reviews», XIII, dicembre 2012, pp. S30-S39.

21 C. Geroldi et al., Insulin Resistance in Cognitive Impairment, cit.22 C.A. Raji et al., Brain Structure and Obesity, in «Human Brain Mapping»,

XXXI, 3, marzo 2010, pp. 353-64.23 R.A. Whitmer et al., Central Obesity and Increased Risk of Dementia More Than

Three Decades Later, in «Neurology», LXXI, 14, 30 settembre 2008, pp. 1057-64.

24 http://www.internalmedicinenews.com/single-view/weight-loss-through-dieting-increases-insulin-sensitivity/dd3b525509b3dad9b123535c7eb745b5.html.

25 C.B. Ebbeling et al., Effects of Dietary Composition on Energy ExpenditureDuring Weight-loss Maintenance, in «JAMA», CCCVII, 24, 27 giugno 2012, pp.2627-34.

26 R. Estruch et al., Primary Prevention of Cardiovascular Disease with aMediterranean Diet, in «New England Journal of Medicine», 25 febbraio2013.

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V. Il dono della neurogenesi e il controllo1 Nicholas Wade, Heart Muscle Renewed over Lifetime, Study Finds, in «New

York Times», 2 aprile 2009. Disponibile online alla paginahttp://www.nytimes.com/2009/04/03/science/03heart.html.

2 Santiago Ramón y Cajal, Cajal’s Degeneration and Regeneration of the NervousSystem, History of Neuroscience, New York, Oxford University Press, 1991.

3 David Perlmutter e Alberto Villoldo, Ottieni il massimo dal tuo cervello. Gliorizzonti della neuroscienza, cit.

4 Charles C. Gross, Neurogenesis in the Adult Brain: Death of a Dogma, in«Nature Reviews Neuroscience», I, 1, ottobre 2000, pp. 67-73. Si vedaquesto articolo per una sintesi sul modo in cui siamo arrivati a capire laneurogenesi nei mammiferi.

5 P.S. Eriksson et al., Neurogenesis in the Adult Human Hippocampus, in «NatureMedicine», IV, 11, novembre 1998, pp. 1313-17.

6 David Perlmutter e Alberto Villoldo, Ottieni il massimo dal tuo cervello. Gliorizzonti della neuroscienza, cit.

7 Norman Doidge, Il cervello infinito. Alle frontiere della neuroscienza: storie dipersone che hanno cambiato il proprio cervello, Milano, Ponte alle Grazie, 2007.

8 J. Lee et al., Decreased Levels of BDNF Protein in Alzheimer Temporal Cortex AreIndependent of BDNF Polymorphisms, in «Experimental Neurology», CXCIV,1, luglio 2005, pp. 91-96.

9 David Perlmutter e Alberto Villoldo, Ottieni il massimo dal tuo cervello. Gliorizzonti della neuroscienza, cit.

10 A.V. Witte et al., Caloric Restriction Improves Memory in Elderly Humans, in«Proceedings of the National Academy of Sciences», CVI, 4, 27 gennaio,2009, pp. 1255-60.

11 M.P. Mattson et al., Prophylactic Activation of Neuroprotective Stress ResponsePathways by Dietary and Behavioral Manipulations, in «NeuroRx», I, 1,gennaio 2004, pp. 111-16.

12 H.C. Hendrie et al., Incidence of Dementia and Alzheimer Disease in 2Communities: Yoruba Residing in Ibadan, Nigeria, and African AmericansResiding in Indianapolis, Indiana, in «JAMA», CCLXXXV, 6, 14 febbraio 2001,pp. 739-47.

13 http://calorielab.com/news/2005/11/24/americans-eat-523-more-daily-calories-than-in-1970.

14 http://www.forbes.com/sites/bethhoffman/2012/07/30/the-olympics-of-overeating-which-country-eats-the-most.

15 Riguardo al consumo medio di zucchero le fonti differiscono. È

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interessante notare che nel 2012 il ministero dell’Agricoltura statunitense harivisto i dati usando una nuova metodologia che ha ridotto la sua stima dicirca 9 chili, abbassando i valori risultanti a meno di 35 chili all’anno (siveda: http://www.nytimes.com/2012/10/27/business/us-cuts-estimate-of-sugar-intake-of-typical-american.html?pagewanted=all). Valutare ilconsumo di zuccheri, tuttavia, è difficile, e molti sostengono che siano piùrealistici dei valori al di sopra dei 45 chili annui.

16 A.V. Araya et al., Evaluation of the Effect of Caloric Restriction on Serum BDNFin Overweight and Obese Subjects: Preliminary Evidences, in «Endocrine»,XXXIII, 3, giugno 2008, pp. 300-304.

17 R. Molteni et al., A High-fat, Refined Sugar Diet Reduces Hippocampal Brain-derived Neurotrophic Factor, Neuronal Plasticity, and Learning, in«Neuroscience», CXII, 4, 2002, pp. 803-14.

18 S. Srivastava ed M.C. Haigis, Role of Sirtuins and Calorie Restriction inNeuroprotection: Implications in Alzheimer’s and Parkinson’s Diseases, in«Current Pharmaceutical Design», XVII, 31, 2011, pp. 3418-33.

19 Y. Nakajo et al., Genetic Increase in Brain-derived Neurotrophic Factor LevelsEnhances Learning and Memory, in «Brain Research», MCCXLI, 19 novembre2008, pp. 103-09.

20 Per una storia della dieta chetogenica, si veda http://www.news-medical.net/health/History-of-the-Ketogenic-Diet.aspx. Si veda anche: C.E.Stafstrom e J.M. Rho, The Ketogenic Diet as a Treatment Paradigm for DiverseNeurological Disorders, in «Frontiers in Pharmacology», III, 2012, p. 59; M.Gasior et al., Neuroprotective and Disease-modifying Effects of the KetogenicDiet, in «Behavioral Pharmacology», XVII, 5-6, settembre 2006, pp. 431-39;Z. Zhao et al., A Ketogenic Diet as a Potential Novel Therapeutic Intervention inAmyotrophic Lateral Sclerosis, in «BMC Neuroscience», VII, 3 aprile 2006, p.29.

21 T.B. Vanitallie et al., Treatment of Parkinson Disease with Diet-inducedHyperketonemia: A Feasibility Study, in «Neurology», LXIV, 4, 22 febbraio2005, pp. 728-30.

22 M.A. Reger et al., Effects of Beta-hydroxybutyrate on Cognition in Memory-impaired Adults, in «Neurobiology of Aging», XXV, 3, marzo 2004, pp. 311-14.

23 Mary Newport, What If There Was a Cure for Alzheimer’s Disease and No OneKnew?, www.coconutketones.com/whatifcure.pdf, 22 luglio 2008.

24 I. Van der Auwera et al., A Ketogenic Diet Reduces Amyloid Beta 40 and 42 in aMouse Model of Alzheimer’s Disease, in «Nutrition & Metabolism», II, 17ottobre 2005, p. 28.

25 D.R. Ziegler et al., Ketogenic Diet Increases Glutathione Peroxidase Activity inRat Hippocampus, «Neurochemical Research», XXVIII, 12, dicembre 2003,

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pp. 1793-97.26 K.W. Barañano e A.L. Hartman, The Ketogenic Diet: Uses in Epilepsy and

Other Neurologic Illnesses, in «Current Treatment Options in Neurology», X,6, novembre 2008, pp. 410-19.

27 Gary Taubes, Perché si diventa grassi (e come fare per evitarlo), cit., pp. 214-15.28 G.L. Xiong e P.M. Doraiswamy, Does Meditation Enhance Cognition and Brain

Plasticity?, in «Annals of the New York Academy of Sciences», MCLXXII,agosto 2009, pp. 63-69. Si veda anche: E. Dakwar e F.R. Levin, The EmergingRole of Meditation in Addressing Psychiatric Illness, with a Focus on SubstanceUse Disorders, in «Harvard Review of Psychiatry», XVII, 4, 2009, pp. 254-67.

29 K. Yurko-Mauro et al., Beneficial Effects of Docosahexaenoic Acid on Cognitionin Age-related Cognitive Decline, in «Alzheimer’s and Dementia», VI, 6,novembre 2010, pp. 456-64.

30 M.C. Morris et al., Consumption of Fish and n-3 Fatty Acids and Risk of IncidentAlzheimer Disease, in «Archives of Neurology», LX, 7, luglio 2003, pp. 940-46.

31 E.J. Schaefer et al., Plasma Phosphatidylcholine Docosahexaenoic Acid Contentand Risk of Dementia and Alzheimer Disease: The Framingham Heart Study, in«Archives of Neurology», LXIII, 11, novembre 2006, pp. 1545-50.

32 M.P. Mattson et al., Prophylactic Activation of Neuroprotective Stress ResponsePathways by Dietary and Behavioral Manipulations, cit. Si veda anche: M.P.Mattson et al., Modification of Brain Aging and Neurodegenerative Disorders byGenes, Diet, and Behavior, in «Physiological Reviews», LXXXII, 3, luglio 2002,pp. 637-72.

33 Parte di questo materiale è stato ripreso da David Perlmutter e AlbertoVilloldo, Ottieni il massimo dal tuo cervello. Gli orizzonti della neuroscienza, cit.,e in un articolo di Perlmutter intitolato Free Radicals: How They Speed theAging Process, in «Huffington Post» (http://www.huffingtonpost.com), 25gennaio 2011.

34 D. Harman, Aging: A Theory Based on Free Radical and Radiation Chemistry,«Journal of Gerontology», XI, 3, luglio 1956, pp. 298-300.

35 D. Harman, Free Radical Theory of Aging: Dietary Implications, in «AmericanJournal of Clinical Nutrition», XXV, 8, agosto 1972, pp. 839-43.

36 W.R. Markesbery e M.A. Lovell, Damage to Lipids, Proteins, DNA, and RNA inMild Cognitive Impairment, in «Archives of Neurology», LXIV, 7, luglio 2007,pp. 954-56.

37 L. Gao et al., Novel n-3 Fatty Acid Oxidation Products Activate Nrf2 byDestabilizing the Association Between Keap1 and Cullin3, in «Journal ofBiological Chemistry», CCLXXXII, 4, 26 gennaio 2007, pp. 2529-37.

38 U. Boettler et al., Coffee Constituents as Modulators of Nrf2 NuclearTranslocation and ARE (EpRE)-dependent Gene Expression, in «Journal of

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Nutritional Biochemistry», XXII, 5, maggio 2011, pp. 426-40.39 http://www.nia.nih.gov.

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VI. Esaurimento cerebrale1 http://www.cdc.gov/ncbddd/adhd/data.html.2 http://www.cdc.gov/nchs/slaits/nsch.htm.3 Alan Schwarz e Sarah Cohen, A.D.H.D. Seen in 11% of U.S. Children as

Diagnoses Rise, in «New York Times», 31 marzo 2013. Accessibile allapagina http://www.nytimes.com/2013/04/01/health/more-diagnoses-of-hyperactivity-causing-concern.html?pagewanted=all&_r=0.

4 Jerome Groopman, Come pensano i dottori, Milano, Mondadori, 2008.5 Alan Schwarz e Sarah Cohen, A.D.H.D. Seen in 11% of U.S. Children as

Diagnoses Rise, op. cit.6 Express Scripts, America’s State of Mind (pubblicato in origine da Medco

Health Solutions, Inc.), http://apps.who.int/medicinedocs/en/d/Js19032en.7 N. Zelnik et al., Range of Neurologic Disorders in Patients with Celiac Disease, in

«Pediatrics», CXIII, 6, giugno 2004, pp. 1672-76. Si veda anche: M. Percy edE. Propst, Celiac Disease: Its Many Faces and Relevance to DevelopmentalDisabilities, in «Journal on Developmental Disabilities», XIV, 2, 2008.

8 L. Corvaglia et al., Depression in Adult Untreated Celiac Subjects: Diagnosis bythe Pediatrician, in «American Journal of Gastroenterology», XCIV, 3, marzo1999, pp. 839-43. Si veda anche: James M. Greenblatt, Is Gluten Making YouDepressed? The Link between Celiac Disease and Depression, in «TheBreakthrough Depression Solution» (blog), «Psychology Today», 24 maggio2011, http://www.psychologytoday.com/blog/the-breakthrough-depression-solution/201105/is-gluten-making-you-depressed.

9 American Academy of Pediatrics, Gastrointestinal Problems Common inChildren with Autism, in «ScienceDaily»,http://www.sciencedaily.com/releases/2010/05/100502080234.htm. Si vedaanche: L.W. Wang et al., The Prevalence of Gastrointestinal Problems inChildren Across the United States with Autism Spectrum Disorders from Familieswith Multiple Affected Members, in «Journal of Developmental andBehavioral Pediatrics», XXXII, 5, giugno 2011, pp. 351-60.

10 T.L. Lowe, et al., Stimulant Medications Precipitate Tourette’s Syndrome, in«JAMA», CCXLVII, 12, 26 marzo 1982, pp. 1729-31.

11 M.A. Verkasalo et al., Undiagnosed Silent Coeliac Disease: A Risk forUnderachievement?, in «Scandinavian Journal of Gastroenterology», XL, 12,dicembre 2005, pp. 1407-12.

12 S. Amiri et al., Pregnancy-related Maternal Risk Factors of Attention-deficitHyperactivity Disorder: A Case-control Study, in «ISRN Pediatrics», 2012, doi:10.5402/2012/458064.

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13 A.K. Akobeng et al., Effect of Breast Feeding on Risk of Coeliac Disease: ASystematic Review and Meta-analysis of Observational Studies, in «Archives ofDisease in Childhood», XCI, 1, gennaio 2006, pp. 39-43.

14 S.J. Blumberg et al., Changes in Prevalence of Parent-reported Autism SpectrumDisorder in School-aged U.S. Children: 2007 to 2011-2012, in «National HealthStatistics Report», 65, 20 marzo 2013. Disponibile alla paginahttp://www.cdc.gov/nchs/data/nhsr/nhsr065.pdf.

15 S.J. Genuis et al., Celiac Disease Presenting as Autism, in «Journal of ChildNeurology», XXV, 1, gennaio 2013, pp. 114-19.

16 P. Whiteley et al., A Gluten-free Diet as an Intervention for Autism andAssociated Spectrum Disorders: Preliminary Findings, in «Autism», III, 1,marzo 1999, pp. 45-65.

17 K.L. Reichelt e A.M. Knivsberg, Can the Pathophysiology of Autism BeExplained by the Nature of the Discovered Urine Peptides?, in «NutritionalNeuroscience», VI, 1, febbraio 2003, pp. 19-28. Si veda anche: A.E.Kalaydjian et al., The Gluten Connection: The Association BetweenSchizophrenia and Celiac Disease, in «Acta Psychiatrica Scandinavia», CXIII, 2,febbraio 2006, pp. 82-90.

18 C.M. Pennesi e L.C. Klein, Effectiveness of the Gluten-free, Casein-free Diet forChildren Diagnosed with Autism Spectrum Disorder: Based on Parental Report,in «Nutritional Neuroscience», XV, 2, marzo 2012, pp. 85-91. Si veda anche:«ScienceDaily»,http://www.sciencedaily.com/releases/2012/02/120229105128.htm.

19 C.J.L. Murray e A.D. Lopez, The Global Burden of Disease: A ComprehensiveAssessment of Mortality and Disability from Diseases, Injuries and Risk Factors in1990 and Projected to 2020, Organizzazione Mondiale della Sanità, Ginevra,Svizzera, 1996. Si veda anche:http://www.cdc.gov/mentalhealth/basics.htm.

20 J.W. Smoller et al., Antidepressant Use and Risk of Incident CardiovascularMorbidity and Mortality Among Postmenopausal Women in the Women’s HealthInitiative Study, in «Archives of Internal Medicine», CLXIX, 22, 14 dicembre2009, pp. 2128-39.

21 J.C. Fournier et al., Antidepressant Drug Effects and Depression Severity: APatient-level Meta-analysis, in «JAMA», CCCIII, 1, 6 gennaio 2010, pp. 47-53.

22 J.Y. Shin et al., Are Cholesterol and Depression Inversely Related? A Meta-analysis of the Association Between Two Cardiac Risk Factors, in «Annals ofBehavioral Medicine», XXXVI, 1, agosto 2008, pp. 33-43.

23 http://www.naturalnews.com/032125_statins_memory_loss.html.24 James Greenblatt, Low Cholesterol and Its Psychological Effects: Low Cholesterol

Is Linked to Depression, Suicide, and Violence, in «The BreakthroughDepression Solution» (blog), «Psychology Today», 10 giugno 2011,

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http://www.psychologytoday.com/blog/the-breakthrough-depression-solution/201106/low-cholesterol-and-its-psychological-effects.

25 R.E. Morgan et al., Plasma Cholesterol and Depressive Symptoms in Older Men,in «Lancet», CCCXLI, 8837, 9 gennaio 1993, pp. 75-79.

26 M. Horsten et al., Depressive Symptoms, Social Support, and Lipid Profile inHealthy Middle-aged Women, in «Psychosomatic Medicine», LIX, 5,settembre-ottobre 1997, pp. 521-28.

27 P.H. Steegmans et al., Higher Prevalence of Depressive Symptoms in Middle-aged Men with Low Serum Cholesterol Levels, in «Psychosomatic Medicine»,LXII, 2, marzo-aprile 2000, pp. 205-11.

28 M.M. Perez-Rodriguez et al., Low Serum Cholesterol May Be Associated withSuicide Attempt History, in «Journal of Clinical Psychiatry», LXIX, 12,dicembre 2008, pp. 1920-27.

29 J.A. Boscarino et al., Low Serum Cholesterol and External-cause Mortality:Potential Implications for Research and Surveillance, in «Journal of PsychiatricResearch», XLIII, 9, giugno 2009, pp. 848-54.

30 Sarah T. Melton, Are Cholesterol Levels Linked to Bipolar Disorder?,«Medscape Today News, Ask the Pharmacists», 16 maggio 2011 (articoloscaricabile tramite login, http://www.medscape.com/viewarticle/741999.

31 C. Hallert e J. Aström, Psychic Disturbances in Adult Coeliac Disease, in«Scandinavian Journal of Gastroenterology», XVII, 1, gennaio 1982, pp. 21-24.

32 C. Ciacci et al., Depressive Symptoms in Adult Coeliac Disease, in«Scandinavian Journal of Gastroenterology», XXXIII, 3, marzo 1998, pp.247-50. Si veda anche: James M. Greenblatt, Is Gluten Making You Depressed?The Link Between Celiac Disease and Depression, cit.

33 J.F. Ludvigsson et al., Coeliac Disease and Risk of Mood Disorders – A GeneralPopulation-based Cohort Study, in «Journal of Affective Disorders», XCIX, 1-3,aprile 2007, pp. 117-26.

34 J.F. Ludvigsson et al., Increased Suicide Risk in Coeliac Disease – A SwedishNationwide Cohort Study, in «Digest of Liver Disorders», XLIII, 8, agosto2011, pp. 616-22.

35 M.G. Carta et al., Recurrent Brief Depression in Celiac Disease, in «Journal ofPsychosomatic Research», LV, 6, dicembre 2003, pp. 573-74.

36 C. Briani et al., Neurological Complications of Celiac Disease and AutoimmuneMechanisms: A Prospective Study, in «Journal of Neuroimmunology», CXCV,1-2, marzo 2008, pp. 171-75.

37 James M. Greenblatt, Is Gluten Making You Depressed? The Link BetweenCeliac Disease and Depression, cit.

38 http://www.scientificamerican.com/article.cfm?id=gut-second-brain.39 M. Siwek et al., Zinc Supplementation Augments Efficacy of Imipramine in

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Treatment Resistant Patients: A Double Blind, Placebo-controlled Study, in«Journal of Affective Disorders», CXVIII, 1-3, novembre 2009, pp. 187-95.

40 James M. Greenblatt, Is Gluten Making You Depressed? The Link BetweenCeliac Disease and Depression, cit.

41 H. Karlsson et al., Maternal Antibodies to Dietary Antigens and Risk forNonaffective Psychosis in Offspring, in «American Journal of Psychiatry»,CLXIX, 6, giugno 2012, pp. 625-32.

42 Grace Rattue, Schizophrenia Risk in Kids Associated with Mothers’ GlutenAntibodies, in «Medical News Today», 2012. Accessibile alla paginahttp://www.medicalnewstoday.com/articles/245484.php.

43 B.D. Kraft ed E.C. Westman, Schizophrenia, Gluten, and Low-carbohydrate,Ketogenic Diets: A Case Report and Review of the Literature, in «Nutrition &Metabolism», London, 6, febbraio 2009, p. 10.

44 http://www.webmd.com/migraines-headaches/default.htm.45 A.K. Dimitrova et al., Prevalence of Migraine in Patients with Celiac Disease

and Inflammatory Bowel Disease, in «Headache», LIII, 2, febbraio 2013, pp.344-55.

46 Ibidem.47 M. Hadjivassiliou e R. Grünewald, The Neurology of Gluten Sensitivity:

Science vs. Conviction, in «Practical Neurology», IV, 2004, pp. 124-26.48 http://www.celiaccenter.org.49 S.M. Wolf et al., Pediatric Migraine Management, in «Pain Medicine News»,

settembre/ottobre 2003, pp. 1-6.50 E. Lionetti et al., Headache in Pediatric Patients with Celiac Disease and Its

Prevalence as a Diagnostic Clue, in «Journal of Pediatric Gastroenterology andNutrition», XLIX, 2, agosto 2009, pp. 202-07.

51 D. Ferraro e G. Di Trapani, Topiramate in the Prevention of Pediatric Migraine:Literature Review, «Journal of Headache Pain», IX, 3, giugno 2008, pp. 147-50.

52 E. Bakola et al., Anticonvulsant Drugs for Pediatric Migraine Prevention: AnEvidence-based Review, in «European Journal of Pain», XIII, 9, ottobre 2009,pp. 893-901.

53 B.L. Peterlin et al., Obesity and Migraine: The Effect of Age, Gender, andAdipose Tissue Distribution, in «Headache», L, 1, gennaio 2010, pp. 52-62.

54 M.E. Bigal et al., Obesity, Migraine, and Chronic Migraine: Possible Mechanismsof Interaction, in «Neurology», LXVIII, 27, 22 maggio 2007, pp. 1851-61.

55 M.E. Bigal e R.B. Lipton, Obesity Is a Risk Factor for Transformed Migraine butNot Chronic Tension-type Headache, in «Neurology», LXVII, 2, 25 luglio 2006,pp. 252-57.

56 L. Robberstad et al., An Unfavorable Lifestyle and Recurrent Headaches AmongAdolescents: The HUNT Study, in «Neurology», LXXV, 8, 24 agosto 2010, pp.

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712-17.

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VII. Le abitudini alimentari ottimali per il cervello1 David Perlmutter e Alberto Villoldo, Ottieni il massimo dal tuo cervello. Gli

orizzonti della neuroscienza, cit. Si veda anche un articolo degli stessi autoridal titolo Size Does Matter!, pubblicato alla pagina http://healyourlife.com,25 aprile 2011.

2 G.F. Cahill e R.L. Veech Jr., Ketoacids? Good Medicine?, in «Transactions of theAmerican Clinical and Climatological Association», CXIV, 2003, pp. 149-61.

3 M.P. Mattson e R. Wan, Beneficial Effects of Intermittent Fasting and CaloricRestriction on the Cardiovascular and Cerebrovascular Systems, in «Journal ofNutritional Biochemistry», XVI, 3, marzo 2005, pp. 129-37.

4 G. Zuccoli et al., Metabolic Management of Glioblastoma Multiforme UsingStandard Therapy Together with a Restricted Ketogenic Diet: Case Report, in«Nutrition & Metabolism», London, 7, 22 aprile 2010, p. 33.

5 J.A. Baur e D.A. Sinclair, Therapeutic Potential of Resveratrol: The In VivoEvidence, in «Nature Reviews Drug Discovery», V, 6, giugno 2006, pp. 493-506.

6 D.O. Kennedy et al., Effects of Resveratrol on Cerebral Blood Flow Variables andCognitive Performance in Humans: A Double-blind, Placebo-controlled, CrossoverInvestigation, in «American Journal of Clinical Nutrition», XCI, 6, giugno2010, pp. 1590-97.

7 T.P. Ng et al., Curry Consumption and Cognitive Function in the Elderly, in«American Journal of Epidemiology», CLXIV, 9, 1 novembre 2006, pp. 898-906.

8 K. Tillisch et al., Consumption of Fermented Milk Product with ProbioticModulates Brain Activity, in «Gastroenterology», pii: S0016-5085(13)00292-8.doi: 10.1053/j.gastro.2013.02.043 (1 marzo 2013). Si veda anche: J.A. Bravo etal., Ingestion of Lactobacillus Strain Regulates Emotional Behavior and CentralGABA Receptor Expression in a Mouse Via the Vagus Nerve, in «Proceedings ofthe National Academy of Sciences», CVIII, 138, 20 settembre 2011, pp.16050-55; A.C. Bested et al., Intestinal Microbiota, Probiotics and MentalHealth: From Metchnikoff to Modern Advances: Part I – AutointoxicationRevisited, in «Gut Pathogens», V, 1, 18 marzo 2013, p. 5. Del medesimorapporto si vedano anche le parti II e III.

9 J.F. Cryan e S.M. O’Mahony, The Microbiome-Gut-Brain Axis: From Bowel toBehavior, in «Neurogastroenterology and Motility», XXIII, 3, marzo 2011,pp. 187-92.

10 Michael Gershon, Il secondo cervello, Torino, UTET, 2006.11 Per ulteriori informazioni sul legame tra intestino e cervello, dare uno

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sguardo all’opera del dott. Emeran Mayer, direttore del Center forNeurobiology of Stress (Centro per la neurobiologia dello stress) allaUniversity of California, Los Angeles. In particolare, «The Globe and Mail»lo presentava in un articolo di Chantal Ouimet (The Gut Has a Mind of ItsOwn) pubblicato il 31 dicembre 2002. È possibile accedervi alla paginahttp://www.ibs.med.ucla.edu/Articles/PatientArticle001.htm.

12 L. Packer et al., Neuroprotection by the Metabolic Antioxidant Alpha-lipoic Acid,in «Free Radical Biology & Medicine», XXII, 1-2, 1997, pp. 359-78.

13 Per tutto ciò che volete sapere sulla vitamina D, inclusa l’analisiapprofondita di questi studi, si veda il testo fondamentale del dott. MichaelHolick, The Vitamin D Solution: A 3-Step Strategy to Cure Our Most CommonHealth Problems, New York, Hudson Street Press, 2010.

14 http://blogs.scientificamerican.com/observations/2010/07/13/vitamin-d-deficiency-linked-to-parkinsons-disease-cognitive-decline.

15 C. Annweiler et al., Higher Vitamin D Dietary Intake Is Associated with LowerRisk of Alzheimer’s Disease: A 7-year Follow-up, in «Journals of GerontologySeries A: Biological Sciences e Medical Sciences», LXVII, 11, novembre 2012,pp. 1205-11.

16 D.J. Llewellyn et al., Vitamin D and Risk of Cognitive Decline in ElderlyPersons, in «Archives of Internal Medicine», CLXX, 13, 12 luglio 2012, pp.1135-41.

17 S. Simpson Jr. et al., Higher 25-hydroxyvitamin D Is Associated with LowerRelapse Risk in Multiple Sclerosis, in «Annals of Neurology», LXVIII, 2,agosto 2010, pp. 193-203. Si veda anche: C. Pierrot-Deseilligny et al.,Relationship Between 25-OH-D Serum Level and Relapse Rate in MultipleSclerosis Patients Before and After Vitamin D Supplementation, in «TherapeuticAdvances in Neurological Disorders», V, 4, luglio 2012, pp. 187-98.

18 R.E. Anglin et al., Vitamin D Deficiency and Depression in Adults: SystematicReview and Meta-analysis, in «British Journal of Psychiatry», CCII, febbraio2013, pp. 100-107.

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VIII. Medicina genetica1 C.W. Cotman et al., Exercise Builds Brain Health: Key Roles of Growth Factor

Cascades and Inflammation, in «Trends in Neuroscience», XXX, 9, settembre2007, pp. 464-72. Si veda anche: University of Edinburgh, Exercise the Bodyto Keep the Brain Healthy, Study Suggests, in «ScienceDaily», 22 ottobre 2012,http://www.sciencedaily.com/releases/2012/10/121022162647.htm; L.F.Defina et al., The Association Between Midlife Cardiorespiratory Fitness Levelsand Later-life Dementia: A Cohort Study, in «Annals of Internal Medicine»,CLVIII, 3, 5 febbraio 2013, pp. 162-68.

2 Gretchen Reynolds, How Exercise Could Lead to a Better Brain, in «New YorkTimes Magazine», 18 aprile 2012. Accessibile alla paginahttp://www.nytimes.com/2012/04/22/magazine/how-exercise-could-lead-to-a-better-brain.html?pagewanted=all&_r=0.

3 A.S. Buchman et al., Total Daily Physical Activity and the Risk of AD andCognitive Decline in Older Adults, in «Neurology», LXXVIII, 17, 24 aprile2012, pp. 1323-29.

4 D.M. Bramble e D.E. Lieberman, Endurance Running and the Evolution ofHomo, in «Nature», CDXXXII, 7015, 18 novembre 2004, pp. 345-52.

5 D.A. Raichlen e A.D. Gordon, Relationship Between Exercise Capacity and BrainSize in Mammals, in «PLOS ONE», VI, 6, 2011.

6 Gretchen Reynolds, Exercise and the Ever-Smarter Human Brain, in «New YorkTimes», 26 dicembre 2012. Disponibile alla paginahttp://well.blogs.nytimes.com/2012/12/26/exercise-and-the-ever-smarter-human-brain. Si veda anche: D.A. Raichlen e J.D. Polk, Linking Brains andBrawn: Exercise and the Evolution of Human Neurobiology, in «Proceedings ofthe Royal Society B: Biological Sciences», CCLXXX, 1750, 7 gennaio 2013,pp. 2012-50.

7 Gretchen Reynolds, How Exercise Could Lead to a Better Brain, cit.8 P.J. Clark et al., Genetic Influences on Exercise-induced Adult Hippocampal

Neurogenesis Across 12 Divergent Mouse Strains, in «Genes, Brain andBehavior», X, 3, aprile 2011, pp. 345-53. Si veda anche: R.A. Kohman et al.,Voluntary Wheel Running Reverses Age-induced Changes in Hippocampal GeneExpression, in «PLOS ONE», VI, 8, 2011, e22654.

9 K.I. Erickson et al., Exercise Training Increases Size of Hippocampus andImproves Memory, in «Proceedings of the National Academy of Sciences»,CVIII, 7, 15 febbraio 2011, pp. 3017-22.

10 N. Kee et al., Preferential Incorporation of Adult-generated Granule Cells intoSpatial Memory Networks in the Dentate Gyrus, in «Nature Neuroscience», X,

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3, marzo 2007, pp. 355-62. Si veda anche: C.W. Wu et al., Treadmill ExerciseCounteracts the Suppressive Effects of Peripheral Lipopolysaccharide onHippocampal Neurogenesis and Learning and Memory, in «Journal ofNeurochemistry», CIII, 6, dicembre 2007, pp. 2471-81.

11 N.T. Lautenschlager et al., Effect of Physical Activity on Cognitive Function inOlder Adults at Risk for Alzheimer Disease: A Randomized Trial, in «JAMA»,CCC, 9, 3 settembre 2008, pp. 1027-37.

12 J. Weuve et al., Physical Activity, Including Walking, and Cognitive Function inOlder Women, in «JAMA», CCXCII, 12, 22 settembre 2004, pp. 1454-61.

13 A. Yavari et al., The Effect of Aerobic Exercise on Glycosylated HemoglobinValues in Type 2 Diabetes Patients, in «Journal of Sports Medicine andPhysical Fitness», L, 4, dicembre 2010, pp. 501-05.

14 A.S. Buchman et al., Total Daily Physical Activity and the Risk of AD andCognitive Decline in Older Adults, cit. Si veda anche: Rush UniversityMedical Center, Daily Physical Activity May Reduce Alzheimer’s Disease Riskat Any Age, in «ScienceDaily», 18 aprile 2012,http://www.sciencedaily.com/releases/2012/04/120418203530.htm.

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IX. Buona notte, cervello1 Per una panoramica generale sul rapporto tra sonno e salute, potete visitare

la paginahttp://www.ninds.nih.gov/disorders/brain_basics/understanding_sleep.htm. Inoltre, si vedano le opere del dott. Michael Breus, celebre autorità inmateria di medicina del sonno: http://www.thesleepdoctor.com.

2 Benedict Carey, Aging in Brain Found to Hurt Sleep Needed for Memory, in«New York Times», 27 gennaio 2013. Accessibile alla paginahttp://www.nytimes.com/2013/01/28/health/brain-aging-linked-to-sleep-related-memory-decline.html. Si veda inoltre: B.A. Mander et al., PrefrontalAtrophy, Disrupted NREM Slow Waves and Impaired Hippocampal-dependentMemory in Aging, in «Nature Neuroscience», XVI, 3, marzo 2013, pp. 357-64.

3 C.S. Möller-Levet et al., Effects of Insufficient Sleep on Circadian Rhythmicityand Expression Amplitude of the Human Blood Transcriptome, in «Proceedingsof the National Academy of Sciences», CX, 12, 19 marzo 2013, pp. E1132-41.

4 Per volumi di dati sul sonno e statistiche su quanto dormiamo, si veda laNational Sleep Foundation alla pagina http://sleepfoundation.org.

5 Ann Luktis, Sleep’s Surprising Effects on Hunger, in «Wall Street Journal»,«Health», 17 dicembre 2012. Accessibile alla paginahttp://online.wsj.com/articles/SB10001424127887324296604578175681814776920.

6 T. Blackwell et al., Associations Between Sleep Architecture and Sleep-disorderedBreathing and Cognition in Older Community-dwelling Men: The OsteoporoticFractures in Men Sleep Study, in «Journal of the American Geriatric Society»,LIX, 12, dicembre 2011, pp. 2217-25. Si veda anche: K. Yaffe et al., Sleep-disordered Breathing, Hypoxia, and Risk of Mild Cognitive Impairment andDementia in Older Women, in «JAMA», CCCVI, 6, 10 agosto 2011, pp. 613-19;A.P. Spira et al., Sleep-disordered Breathing and Cognition in Older Women, in«Journal of the American Geriatric Society», LVI, 1, gennaio 2008, pp. 45-50.

7 Y. Zhang et al., Positional Cloning of the Mouse Obese Gene and Its HumanHomologue, in «Nature», CCCLXXII, 6505, 1 dicembre 1994, pp. 425-32. Siveda anche: E.D. Green et al., The Human Obese (OB) Gene: RNA ExpressionPattern and Mapping on the Physical, Cytogenetic, and Genetic Maps ofChromosome 7, in «Genome Research», V, 1, agosto 1995, pp. 5-12.

8 Nora T. Gedgaudas, Primal Body, Primal Mind: Beyond the Paleo Diet for TotalHealth and a Longer Life, Rochester, Vermont, Healing Arts Press, 2011.

9 K. Spiegel et al., Brief Communication: Sleep Curtailment in Healthy Young MenIs Associated with Decreased Leptin Levels, Elevated Ghrelin Levels, and Increased

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Hunger and Appetite, in «Annals of Internal Medicine», CXLI, 11, 7 dicembre2004, pp. 846-50.

10 S. Taheri et al., Short Sleep Duration Is Associated with Reduced Leptin, ElevatedGhrelin, and Increased Body Mass Index, in «PLOS MEDICINE», I, 3, dicembre2004, e62.

11 W.A. Banks et al., Triglycerides Induce Leptin Resistance at the Blood-BrainBarrier, in «Diabetes», LIII, 5, maggio 2004, pp. 1253-60.

12 Ron Rosedale e Carol Colman, The Rosedale Diet, New York, WilliamMorrow, 2004.

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X. Un nuovo stile di vita1 J. Gray e B. Griffin, Eggs and Dietary Cholesterol – Dispelling the Myth, in

«Nutrition Bulletin», XXXIV, 1, marzo 2009, pp. 66-70.2 Per ulteriori informazioni e studi sulle uova, visitare la pagina

http://www.incredibleegg.org; si veda anche l’articolo di Janet Raloff,Reevaluating Eggs’ Cholesterol Risks, in «Science News» (edizione per il web,2 maggio 2006) alla paginahttp://www.sciencenews.org/view/generic/id/7301/description/Reevaluating_Eggs_Cholesterol_Risks.

3 C N. Blesso et al., Whole Egg Consumption Improves Lipoprotein Profiles andInsulin Sensitivity to a Greater Extent Than Yolk-free Egg Substitute inIndividuals with Metabolic Syndrome, in «Metabolism», LXII, 3, marzo 2013,pp. 400-10.

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XI. Nutrirsi bene per un cervello sano1 Whole Foods è una società statunitense con sede a Austin che gestisce

supermercati di alimenti e prodotti biologici e di origine controllata. I suoipunti vendita sono presenti non solo su territorio americano, ma anche inCanada e nel Regno Unito. All’interno di alcuni negozi è disponibile unservizio da asporto di cibi pronti (NdR).

2 Pomodori di varietà antiche, tramandate di generazione in generazione,come i Marmande (NdT).

3 Cipolla tipica della Georgia, sostituibile con la nostra varietà dorata (NdT).4 Cfr. nota 2.5 Cfr. nota 3.

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Epilogo1 The World Health Organization,

http://www.who.int/chp/chronic_disease_report/media/Factsheet1.pdf.2 Ibidem.

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Ringraziamenti

Come ben sa chiunque ne abbia scritto uno, dare forma a un libro richiede illavoro di un esercito di persone creative, brillanti e instancabili. E proprioquando credete di avere finito, entra in scena un’altra squadra di personealtrettanto intelligenti che aiuta a portare a termine l’impresa, affinché unlettore come voi possa immergersi nella primissima pagina.

Se potessi fare come più mi aggrada, elencherei tutti coloro che hannocontribuito alla formazione del mio pensiero e mi hanno sostenuto in ognimomento della mia vita e della mia carriera. Poiché ciò implicherebbecentinaia di persone e molte pagine, sarò breve e conciso. Sono in debito contutti gli scienziati e i colleghi che hanno lavorato per comprendere i misteridel cervello e del corpo umano. E sarò sempre grato ai miei pazienti, che ognigiorno mi insegnano qualcosa e mi permettono di capire cose che nonpossono essere scoperte in altro modo. Questo libro è tanto vostro quantomio.

Ringrazio il mio amico e agente letterario, Bonnie Solow. Il fatto che tuabbia compreso l’importanza del messaggio contenuto in queste pagine èstato l’elemento catalizzatore del progetto. Più di ogni altra cosa, però, sonograto che da questo progetto sia nata la nostra amicizia. Grazie per la tuaguida benevola e l’attenzione ai dettagli. So che hai fatto ben più del dovuto,tutelando, guidando e aiutando il mio libro a raggiungere il pubblico.

A Kristin Loberg: se il contenuto di questo lavoro rappresenta la mia ricercae la mia esperienza professionale, è solo merito della tua competenza creativase il nostro messaggio ha trovato la sua voce.

All’infaticabile squadra della Little, Brown Book Group, che ha sostenutoquesto libro fin dal nostro primo incontro. Un ringraziamento speciale a TracyBehar, la mia editor, dotata dell’incomparabile dono di sapere assicurarsi cheil messaggio resti pratico, chiaro e conciso. Il talento e il genio checaratterizzano il tuo lavoro hanno consentito di limare e migliorare moltoquesto libro. Un ringraziamento anche a Michael Pietsch, Reagan Arthur,Theresa Giacopasi, Nicole Dewey, Heather Fain e Miriam Parker. È stato unpiacere lavorare con un gruppo così attento e professionale.

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A Digital Natives, la mia squadra di tecnici esperti, che ha il merito di averedato vita al mio sito web affiancato al libro.

All’intera équipe presso la nostra clinica, il Perlmutter Health Center, per laloro dedizione.

A mia moglie, Leize. Grazie per tutto il tempo e l’impegno dedicati apreparare con amore queste ricette. La mia gratitudine per la tua presenzanella mia vita è sconfinata. Grazie anche a Dee Harris, dietologaprofessionista, per l’intelligente contributo in campo nutrizionale.

Desidero infine ringraziare i miei figli, Austin e Reisha, che non hanno maismesso di incoraggiarmi e sostenermi lungo questo cammino.

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Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non puòessere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato,licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modoad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzatodall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato oda quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasidistribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così comel’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritticostituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e saràsanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dallaLegge 633/1941 e successive modifiche.

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La dieta intelligentedi David PerlmutterCopyright © 2013 by David Perlmutter, MDThis edition published by arrangement with Little Brown andCompany, New York, New York, USA. All rights reserved© 2015 Mondadori Libri S.p.A., MilanoTitolo dell’opera originale: Grain BrainTraduzione di Francesca M. GimelliRealizzazione editoriale: studio pym/MilanoEbook ISBN 9788852060786

COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | GRAPHICDESIGNER: PINO SARTORIO | ART DIRECTOR: GIACOMOCALLO | ELABORAZIONE DA IMMAGINE © GETTY IMAGES ESHUTTERSTOCK

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Indice

Il libroL’autoreFrontespizioLa dieta intelligenteIntroduzione. Contro i cerealiAutovalutazione. Quali sono i vostri fattori di rischio?Parte I. LA VERITÀ SUI CEREALI INTEGRALI

IIIIIIIVVVI

Parte II. RIABILITARE IL CERVELLOVIIVIIIIX

Parte III. DIRE ADDIO ALLE VECCHIE ABITUDINI ALIMENTARIXXI

Epilogo. La mesmerizzante veritàNoteRingraziamentiCopyright