La dama di Panhüntzer

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La dama di Panhüntzer

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Una ragazza che vive ora, in Italia, può trovarsi in comunicazione con una pari età estone vissuta diversi secoli fa? È possibile? Sinceramente non credo, però provare a immaginare il loro contatto, mediato da una vecchissima scacchiera, può essere una buona scommessa.

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La Dama di Panhüntzer

«Giovanotto, ma come puoi permetterti, toccando le corde più segrete, di penetrare in un'esistenza umana che ti è restata estranea, che doveva restarti estranea?» (E.T.A. Hoffmann, il Consigliere Krespel)

Aveva occhi sottili – da russo, ho sempre pensato – di un azzurro allegro, occhi che parecchi dei miei amici avrebbero dato un braccio per avere, che ti seguivano e sapevano che prima o poi avresti combinato qualcosa di memorabile.

– Che cosa c'è scritto?– P... sarà una P? Forse è un'H. Boh, ci rinuncio, non lo so. É

scritto in gotico. Si abbassò a guardare personalmente. Sapeva di tabacco dolce, da pipa. Lo teneva nella tasca del cardigan color castagna, in una busta con un disegno scozzese e un pezzetto di carta dorata a chiuderlo. La scritta era tracciata sui bordi della scacchiera, lungo i quattro lati, piccola ma perfettamente leggibile, a patto di saperla leggere. Elegante, non c'è dubbio, ma comprensibile quanto il testo di un manga.

– Non è gotico, è runico. – Mi guardò con aria certa e solida. Ricambiai lo sguardo non proprio convinta. Sorrise con metà bocca. – Credo.

– Come, credo.Spinse in fuori le labbra come uno che chiama il gatto. – Novanta su cento è runico. Sennò può anche essere paleoslavo. – Mi considerò, treccine, maglia di un clone di Missoni, jeans tagliuzzati, scarpe con le zeppe, come se fino a quel momento non si fosse accorto del mio

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abbigliamento. – Ma come ti sei vestita?– Non cambiare discorso. Dopo vado a una festa. Se va bene a

mio padre... – A tuo padre va bene tutto quello che fai. – E non aggiunse,

come mi aspettavo: bel pirla tuo padre, cioè mio figlio.– Senti, Bruno. – Odiava che lo chiamassi nonno. – Ma tu sai

giocare a dama? – Chi, io? No, o almeno non troppo bene. – E allora che te ne fai? – Indicai la scacchiera con le sue

sessantaquattro caselle bianche–nere–bianche–nere.– É un bell'oggetto. L'ho portato a casa dalla Finlandia dopo

l'ultima guerra. L'avevo barattata con della gente che abitava in una casa su un lago gelato e mi è costato dieci razioni di carne in scatola É stata una trattativa a gesti e urla, ma alla fine l'ho spuntata. Poi ho mangiato niente o quasi per una settimana, ma ne valeva la pena. A tuo padre piaceva parecchio e così quando si sposò gliela lasciai, ma adesso, visto che l'aveva chiusa in un armadio in soffitta, me la sono fatta restituire. Bruno, con la sua aria poco nonnesca e i suoi modi da attaché diplomatico era l'unico delle famiglie dei miei a piacermi davvero. Con i baffetti bianchi disegnati con un pennarello a punta fine e capelli candidi tagliati a spazzola sembrava un ambasciatore alieno uscito da una puntata di Star Trek. Da giovane doveva caricare come un maledetto, un po' per via dei famosi occhi mezzi teneri e mezzi furbi e un po' per la sua capacità di raccontare fenomenali palle senza nemmeno un'esitazione.

– Cos'ha di straordinario? Non sai nemmeno leggere quello che c'è scritto.

– É un oggetto antico. Non che me ne intenda, ma dev'essere stata fabbricata almeno sei o sette secoli fa. E non è minimamente consumata. Lo vedi? Non è saltata via neppure una casella e le pedine ci sono tutte. Pedine e tessere sono fatte di ambra – un'ambra particolare, chiarissima – e ossidiana, il che mi fa sospettare che in realtà venga da

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molto più lontano. – E che cosa ci faceva in una fattoria finlandese? – Ah, questo non lo so. Non era proprio Finlandia, allora, cioè lo

era stata per un po', dal 1920 al 1939. Prima doveva essere terra dello Czar e prima ancora, probabilmente, un possesso svedese o danese. Era un angolo di terra piuttosto conteso, per quanto poco valesse, vicino al mare, più o meno a metà del golfo di Finlandia. La scacchiera può essere stata la preda di qualche cavaliere téutone, o il ninnolo di un boiardo o magari lo svago di un pope fuggito da San Pietroburgo. In tutti i casi la scritta potrebbe essere in runico. E ciò potrebbe significare che in realtà questo gioco di dama proviene dall'Islanda, tra l'altro l'unico posto dove l'ossidiana è comune come la paglia.

– Ma l'hai fatta vedere a qualche antiquario? A qualcuno che ne capisca qualcosa?

– No.– E allora come fai a...?

Sorrise. – Mi piace pensare che sia così, tutto qui. A te non capita mai? –Boh. Forse sì, ma non vuoi provarla? In fondo giocare a dama

con un oggetto tanto antico dev'essere un bel brivido. – Un bel brivido... Sì, forse hai ragione. – Si accarezzò la punta

del naso con un dito. – Dovrebbe proprio essere un brivido.

La festa, quella sera, fu un aborto. Innanzitutto Gianni non era potuto venire, e quindi per quanto mi riguardava si partiva subito con il piede sbagliato. E poi Diana, teoricamente la mia migliore amica, era di un umore tanto nero da non poterci nemmeno scambiare due parole. I genitori di Eva avevano chiuso a chiave il salotto e quindi dovemmo schiacciare la festa tra la sua camera e il balcone sottile e lungo che faceva il giro di mezza appartamento. Non essendoci Gianni, Paolo si mise d'impegno a ronzarmi intorno come un tafano. E a me faceva lo stesso effetto, di un tafano, intendo. Il problema era che non lo

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sopportavo a pelle, nemmeno per farci due chiacchiere. Magari si trattava di un problema di odore o di feromoni, o del tentativo di apparire insieme paterno e poco raccomandabile, fatto sta che tutte le volte che mi sfiorava mi veniva da spostarmi. Una cosa imbarazzante.

Siccome tutti si annoiavano a morte qualcuno ebbe la bella idea di scendere nel supermercato di fronte a comprare del whisky. Io ne assaggiai appena un sorso nonostante le insistenze di Paolo, che esibiva un sorriso saputo, lui credeva da Macchia Nera mentre al massimo era da bagnino.Com'era ovvio, dopo un'ora i virili bevitori facevano la fila davanti al bagno per riemergerne – dopo rantoli e grugniti – pallidi e gravi. Dopo poco più di un'ora di faticose battute e chiacchiere a vuoto, nella camera della padrona di casa era già calato il buio. Mi era capitato di passarci, giusto il tempo di stabilire che stavano facendo il ballo della mattonella, almeno quelli che non limonavano e si strusciavano sul divano–letto di Eva schiacciandole tutti i peluche. In completa paranoia mi misi a scrutare nella sua libreria, sistemata in una nicchia del corridoio, dove al termine di un'accurata indagine ripescai una scacchiera da viaggio. Le pedine della dama non erano più grandi delle monetine dei pirati del Lego e tutta la scacchiera era grande come una piastrella della cucina. L'odore di plastica ancora nuova mi assicurò che comunque non si trattava di uno dei giochi preferiti della padrona di casa. Feci perdere le mie tracce e, autoesiliata a un'estremità del balcone in compagnia di tre piante di geranio e dei giocattoli da spiaggia di Eva seienne, ospitati in un grosso sacchetto di nailon rigido e opaco, cominciai a disporre le pedine. Terminata l'operazione le considerai con attenzione scettica. Mio padre giudicava la dama un gioco cretino e preferiva gli scacchi, anche se poi era una schiappa pure con quelli. Mia madre aveva più considerazione per la cosa, ma non perdeva mai tempo in cose futili come i giochi di società. A scala quaranta giocava volentieri, ma solo quando non c'era in

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giro nemmeno una riga stampata alla quale appendersi. Così io sapevo appena appena le regole e forse nemmeno tutte. Ci si muoveva in diagonale e per mangiare si saltava il gettone (o la pedina?) dell'avversario. Una volta approdati dall'altro lato della scacchiera si faceva dama e questa, formata da due gettoni sovrapposti, diventava il superman o l'arma segreta della situazione rendendo la partita un massacro. Cominciai a muovere. Sullo sfondo prima Morcheeba (buono), seguita da Backstreet Boys (carini, ma come musica il più delle volte fanno vomitare, se non balli), qualche riciclato – originale o remix – degli anni '60, di quelli che fanno ridere i miei e, infine, un mix autostradale di mariachis, latino–americani macho, che non penso andassero troppo d'accordo con i limonatori sul divano–letto. Mixate sullo sfondo anche le chiacchiere a volume altissimo di amici, conoscenti e compagni di scuola: un gruppo di sedici–diciottenni ancora troppo impegnati a tentare di divertirsi per sentire la fatica. Non mi isolo volentieri. Mi piace di più sentirmi cretina in compagnia che furbissima da sola, ma la colpa era della miseria della festa, scarsissima, e di Bruno e delle sue bugie. Mentre muovevo i pezzi cercando di ricordare qualcosa del gioco, misericordiosamente dimenticata da Paolo e da tutti gli altri, immaginavo di essere una principessa russa finita chissà come in una festa di provincia e circondata da nobilotti ubriachi, rozzi e maneschi e da contadine rubizze pronte a sollevare in un colpo solo tutte le dodici sottane. Una nobildonna rifugiatasi nella biblioteca in attesa che tutti risalissero sulle loro slitte e se ne andassero fuori dai piedi. Concentrai l'attenzione sulle mie mani che scivolavano sulla scacchiera e mi rammaricai di non avere unghie lunghissime e la pelle più chiara.Ho una predilezione per il colore nero, che è cominciata dall'infanzia e che sicuramente va d'accordo con la mia simpatia per le cause perse. Nelle rivista di enigmistica di mia nonna – la madre di mia madre, non la moglie di Bruno – era sempre il bianco a muovere e a vincere in tre,

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quattro o al massimo cinque mosse. E perché? mi chiedevo, perché sempre il bianco? Così, per una volta che controllavo la situazione, cominciai a far fare al bianco grosse stupidaggini, aprendo le file come le valve di una cozza, in modo che i miei fidi neri si infilassero in mezzo mangiando tutto quello che capitava. Alla fine, come previsto, furono i neri ad arrivare a Dama e allora si scatenò il finimondo. I bianchi fuggivano come pecore inseguite da un branco di lupi, ma le mie dame nere se li pappavano come tanti pac–man tarantolati da un sovraccarico di tensione. Ero talmente presa che nemmeno mi accorsi di Paolo, scivolato alle mie spalle. Ebbe la bella idea di afferrarmi per un braccio e dirmi qualcosa come: "chi vince?" Oppure "Ti diverti?" Che fesso. Tutto sommato ancora adesso non riesco a provare dispiacere per quello che successe dopo.

– Con le unghie? E dove le hai tu le unghie?Bruno sorrideva senza esagerare. E soprattutto senza sfottere. I miei invece l'avevano presa malissimo e insieme mi avevano riscaldato una porzione di rammarichi e sagge considerazioni da bastarmi per un anno e passa.

"Mi sta sulle palle quel cretino. Non ho il diritto di togliermelo dai piedi?"Giusto, giustissimo, aveva detto mia madre – mio padre preferiva non esprimersi sui miei gusti personali in fatto di sesso forte – ma, cribbio, gli hai scavato la mano. Hanno dovuto persino portarlo al pronto soccorso. Non bastava mandarlo a c... al diavolo?Mia madre non parlava meglio di me, quando aveva la mia età, ma una volta passati due volte gli anta, anche se la seconda volta di poco, si preoccupava di più di non sembrare una ragazzina invecchiata troppo in fretta. "É stata un'esagerazione. Qualcuno troppo bevuto si è attaccato al telefono. E comunque il Poveropaolo ferito è stata la cosa più divertente della festa."

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I miei si sono guardati. Hanno un discreto grado di complicità e penso che mi considerino parecchio. E poi si commuovono quando sfodero i miei sarcasmi. Ho dovuto sgranare un po' gli occhi per riconquistarli. Mi hanno spedito a letto con il divieto formale di accendere la TV o di attaccarmi ad Internet, ma senza altre rappresaglie. Ho ubbidito in modo da riuscire ad ascoltare i loro commenti al fatto del giorno, ma i furbastri parlavano troppo piano perché riuscissi a distinguere qualcosa.

Bruno stava sempre aspettando una risposta alla cortese domanda, così tornai in diretta. – Non lo so. Ho sollevato la mano che teneva una dama nera e ho fatto per togliermi di dosso la pinna di Paolo il tricheco. Ma è successo qualcosa. E diventato tutto bianco e nero, come in un vecchio film. Mi sono sentita molto forte e molto arrabbiata. E l'ho artigliato. – Mi guardai ancora una volta la mano colpevole di artigliamento: unghie piatte e corte, tinte di smalto verde mela.

– Come una dama importunata da un bifolco. Mi piaci, Gaia. Parlo sul serio. Era il massimo di sorriso gli avessi mai visto esibire: il sorriso di Nonno Artiglio.

– Già. Ma tutta la storia suona pazzesca. Paolo ha visto il suo sangue e si è messo a urlare come un bambino che si scotti con il ferro da stiro. Sono arrivati tutti di corsa, qualcuno gli ha fasciato la mano e Eva mi ha guardato come se avessi portato un lavavetri alla sua festa. Io non mi sentivo affatto pentita e nemmeno confusa o incazzata. Anzi, ho rimesso a posto la scacchiera con tutta la calma necessaria, non ho detto nulla, non ho provato a spiegare e me ne sono andata a casa. Se tu ci capisci qualcosa...

Bruno spinse in fuori le labbra, chiamando il suo invisibile micio e si sistemò nella sua leggendaria poltrona bergère, accerchiata da pile di romanzi gialli.

– Non me lo spiego, sui due piedi. Ma adesso proviamo un po'... ti dispiacerebbe prendere il mio tavolino veneziano? Ecco, portalo qui,

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davanti a me. E mettiti qui anche tu. Ah, già, e prendi la dama, quella che ti ho mostrato due giorni fa.

– Ma io non ho mica più voglia di giocare alla dama. Chissà cosa può capitarmi la prossima volta che gioco...

– Non ti preoccupare. Fai quello che ti dico. Ubbidii. La dama di Nonno Artiglio dava un sacco di punti alla piastrella da cucina di Eva. Lucida ed elegante nonostante l'età, aveva l'aria naturalmente autorevole che posseggono soltanto gli oggetti davvero belli. Sedotta, la sfiorai con la punta delle dita: i pezzi e la scacchiera erano freddissimi, come se avessero conservato la temperatura del luogo di origine.

– Cazzo, ma sono gelati.Ha inarcato un sopracciglio sospirando. Ha un concetto sorpassato delle donne e non sopporta il turpiloquio pronunciato da coralline labbra femminili. – É vero, è curioso. Dev'essere una caratteristica della pietra con la quale sono stati costruiti. Non ero tanto convinta ma lasciai perdere. Il freddo mi si era appiccato alla punta delle dita e non mi sentivo troppo bene. La voglia di giocare mi era passata di colpo.Finì lui di disporre le pedine e mi fece segno di cominciare.

– Io gioco con il nero. – Gli comunicai. Lui prese atto e mosse per primo. In capo a dieci mosse avevo già praticamente perso, ma avevo freddo, troppo freddo per ragionare su quello che facevo.

– Cosa capita? – Niente, un po' di brividi. – Siamo a maggio, quasi giugno. Posso chiudere la porta–

finestra del balcone, se vuoi. – Non è quello. – Già, ma allora cos'era? Un'influenza in arrivo,

un attacco di malaria? Nonno Artiglio mi guardò perplesso a arrivò a Dama. Adesso una dama bianca se ne stava impettita in fondo alla scacchiera, dalla mia parte, tronfia come una tacchina.

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La fissai con antipatia. Era di un bianco appena dorato come il cielo di una di quelle giornate nelle quali nevica dall'alba al tramonto. Rabbrividii e mi presi in mano il mento tenendo il gomito puntato contro il ginocchio, tanto per darmi un contegno. Non guardavo né Bruno né la stanza, concentrata sulla scacchiera. Lui aspettava una risposta e io non sapevo quale dei miei muovere senza farlo massacrare dai suoi fottuti bianchi in attesa. Prendevo tempo come fanno i campioni di scacchi, anche se non avevo grandi possibilità né grandi progetti. A un certo punto ho alzato la testa lasciando correre lo sguardo all'infinito, oltre la spalliera della poltrona di Nonno Artiglio.

C'era una finestra con un'armatura a croce, in fondo alla stanza. Era la prima volta che la vedevo. Non ebbi il coraggio di distogliere lo sguardo nel timore di vederla scomparire com'era apparsa. Non era una finestra di quelle che usiamo adesso, era fissa, senza battente, stretta e alta e lasciava entrare una luce candida che non aveva proprio nulla in comune con la luce di mezzo pomeriggio di una fine primavera in Italia. La fissai per un po', poi un brivido più forte mi obbligò a guardare altrove. Bruno si era acceso la pipa e mi guardava in tralice, fingendo di essere assorbito dalla partita. L'una dopo l'altra mi accarezzai il dorso delle mani sottili e pallide e quindi, con un gesto improvviso, spazzai la scacchiera facendo precipitare a terra tutte le pedine.

– Non mi interessa più giocare. Dovevo aver detto così, o forse "non mi frega più giocare", ma ne dubito perché mi controllavo parlando con Bruno. Ma lui sobbalzò come avessi tirato giù un bestemmione e gridò: – COS'HAI detto? Guardai le pedine sparse per terra e la scacchiera messa di sghimbescio e mi sentii un verme. – Scusa, Bruno. Mi dispiace, davvero...

– Lascia perdere. Cos'hai detto? Sei capace di ripeterlo? – Eh? Beh, ho detto "Non mi interessa più giocare" e poi ho fatto

questo macello...– Non preoccuparti, non si è rotto niente. – Guardò di fianco,

come si aspettasse di veder scritta una spiegazione sul muro, quindi mi

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puntò di nuovo. – Il fatto è, Gaia, che tu non hai detto nulla del genere. O perlomeno non l'hai detto in italiano né, per quanto ne capisco, in inglese, che poi è l'unica altra lingua che mastichi per motivi scolastici, vero?

– Anche per le canzoni. – Va bene, anche per le canzoni. Conosci qualche altra lingua? – Alle medie ho fatto il tempo prolungato e so un po' di francese. – Non era francese, quella roba.

Avevo smesso di avere freddo ed ero tornata in possesso delle mie mani, mediamente abbronzate e mica tanto sottili e delicate. Un brivido di tutt'altro genere mi diede un bello scossone. Sollevai le mani davanti a me le mostrai a Bruno. – Guarda.Scosse la pipa ormai spenta nel portacenere, uno di quei portacenere con il fondo di pelle a soffietto che si vedono solo nei salotti dei film anni '40. – Vedo. E allora?

– Sono normali, no? – Abbastanza.

Nonno Artiglio non sorrise e così passò un esame non da poco, almeno per me.

– Mentre giocavamo erano pallide, con dita più sottili. Sull'anulare della sinistra avevo un piccolo anello con una pietra verde.

– Tu non porti mai anelli. – Osservò lui.– Infatti. – Faceva solo finta di non vedermi, Bruno, ma era un

tipo attento. Sorrisi sentendomi all'improvviso più vecchia e quasi donna. Ci si può illudere di esserlo perché c'è un brufolo–positivo che ti guarda le tette, certo, ma un uomo di una certa età che ti guarda le mani è davvero tutta un'altra cosa. – E c'è un'altra stranezza... – Dissi "strane–ezza" in un modo nuovo per me, strascicando le sillabe come Greta Garbo. E non finii la frase perché avevo incominciato a chiedermi come mai mi fosse venuta in mente Greta Garbo. Forse perché era l'unica diva del bianco e nero che conoscessi un pochino. E perché anche lei aveva in un film mani pallide e unghie lunghe e pericolose.

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– Quale stranezza? Non è che nonno Artiglio avesse un tono scazzato. Probabilmente era solo teso e cominciava giustamente ad essere stufo della sottoscritta.

– Scusa, comincio a delirare. Sulla parete dietro di te, c'era una finestra. Fuori dalla finestra doveva esserci la neve. C'era proprio quella luce... sai quella di quando nevica e non ha intenzione di smettere. Si girò senza fretta, lo dico perché al posto suo mi sarei slogata le cervicali per l'impressione. Alle sue spalle, a non più di due metri di distanza, c'era il vecchio contromobile di castagno che conoscevo da quando avevo tre anni, con sopra appeso uno stucchevole paesaggio alpino dipinto dal cognato, una vera crosta, buona da regalare a una festa di beneficenza.

– La stanza era più lunga, molto più lunga e la finestra era sul fondo. Più lunga che larga, appuntita in cima. E avevo freddo, un sacco di freddo. Dopo qualche secondo di silenzio si alzò a raccogliere le pedine. Lo guardai farlo senza nemmeno prendere in considerazione la possibilità di aiutarlo. Ma a lui raccattare il mio disastro serviva a raccogliere le idee, mentre a me serviva a cercare di mettere ordine nel caos che avevo in testa. Finita la sua raccolta mi guardò una sola volta, piuttosto a lungo. – Gaia?

– Sì?Annuì e prese in mano la scacchiera. Me la cacciò sotto il naso, dal lato della scritta incisa. – Cosa c'è scritto, qui? Stavo per mandarlo al diavolo. Voleva mica prendermi in giro? Ma qualcosa di diverso nei caratteri agganciò la mia attenzione e mi sforzai di leggere.

– É latino questo, non vado mica tanto bene di latino, io. – Cos'è?– É latino, non vedi? I caratteri non lo sono, sono strani, ma

sono parole latine.

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– Sicura? – Iram Vitoldii Panhuentzeris time... – Avevo attaccato bene,

non c'è che dire, avrebbe dovuto sentirmi quella strega della Moffo, ma mi impiantai quasi subito. Non distinguevo più un tubo e tutta la scritta mi sembrava una collezione di scarabocchi, di quelli che si fanno su un pezzo di carta mentre al telefono qualcuno ti asfissia con una storia d'amore infelicissima. Bruno si accorse del mio naufragio e mi accarezzò una spalla. Gli franai sul petto, io con tutta la mia tenuta rigorosamente nera da fanatico. Se non mi ricordo male devo anche aver pianto, ma non saprei proprio dire perché.

– Cazzo, ma è una storia fichissima. Gianni è un ragazzo eccezionale, secondo me. Ha una fantasia che io non avrei nemmeno se mi facessi di hascisc dal mattino alla sera, ma ha un grosso buco nel cervello nella zona dove dovrebbe stare la sensibilità. Da lui non mi aspettavo una recensione alla mia storia, ma almeno una pacca sulla spalla, o addirittura un abbraccio e un bacio. Almeno un bacetto sulla guancia.

– Fa cento. – Eh?– Ti sei divertito? Bene, allora paga il copyright.

Mi guardò allocchito. E sì che non è mica scemo. – Ma dai, Gaia, vuoi mica dirmi che ti è capitata sul serio una cosa così?

– Certo che mi è capitata. E non mi sono affatto divertita. – Cazzo, ma allora...

Mi aspettavo qualche altra considerazione entusiasta, se non proprio una fila di pallini e asterischi, ma riuscì a sorprendermi un'altra volta. Mi prese le mani tra le sue e le strinse forte. – Hai avuto paura? Era il primo a chiedermelo. – Sì. – Non mi era accorta di preciso di cosa fosse quella specie di ansia che mi aveva preso, ma adesso che qualcuno aveva pronunciato la parola, la riconobbi. – Ho avuto una paura fottuta,

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una cosa che non avevo mai provato in vita mia. Ma ero anche eccitata, attirata, come penso capiti dopo una riga di coca. Come se avessi dovuto attraversare la cripta dei fantasmi per arrivare al posto più bello del mondo.

– Come in un videogioco.– Già. Sono scarsa a paragoni. E la sai un'altra cosa strana? Le

mani, quelle mani che si muovevano sulla scacchiera erano illuminate in un altro modo. Come nei fotomontaggi venuti male, dove tutto è illuminato in un modo e un particolare, solo un particolare, nell'altro. Ero presissima nella partita e così non davo peso alla cosa, ma lo sapevo. Non so se il nonno se ne sia accorto o se abbia notato qualcosa di strano, mi è mancato il coraggio di chiederglielo. Mi sembrava già abbastanza scombussolato così.

Mi guardava e oscillava sul busto come Ray Charles. Continuava a tenermi le mani, forse per evitarmi altre metamorfosi.

– Se non ci sono scacchiere in giro non capita nulla. – Mi sentii in dovere di spiegargli. Abbandonò l'oscillazione per grattarsi con gli indici il cranio appena sopra le orecchie. Faceva così quando era nervoso o sospettava di essere sul punto di fare una brutta figura. Lo lasciai a grattarsi le idee per un'occhiata panoramica alla sua stanza, che comunque conoscevo piuttosto bene. C'erano le solite quattro serissime baggianate che si tengono appese ai muri alla nostra età, più alcune altre unicamente sue, come foto di tifoni, terremoti, eruzioni vulcaniche, maremoti. I maremoti erano la sua passione. L'idea di onde alte trenta o quaranta metri lo mandava particolarmente su di giri, e, in generale, qualunque evento catastrofico naturale lo interessava allo spasimo. Mio padre considerava normale per la nostra generazione questo feticismo per i disastri, in fondo eravamo abituati fin dalla più tenera età a sentir parlare dei guasti irrimediabili inferti al pianeta, ma io non mi sono mai sentita troppo attratta dall'Apocalisse. Sicuramente i miei lo

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sono di più, altrimenti perché darmi il nome di una moribonda?– Senti, fai attenzione. Non ti capita di sentirti strana anche in

altri momenti? Non avverti la sensazione che ci sia un'altra personalità che tenta di impadronirsi di te? Se questo era il risultato del massaggio al cuoio capelluto, chissà di cosa era capace quando si faceva uno shampoo. – Senti, Fox Mulder, non sono un X–files e quindi puoi anche evitarti queste scemenze. Non mi sento posseduta da nulla e da nessuno. So solo che mi capita di vedere cose che non ci sono e questo mi fa venire i brividi. Ma siccome mi succede solo quando gioco a dama, d'ora in poi saggiamente eviterò qualsiasi tipo di scacchiera e sarò a posto.

– Ne sei proprio sicura? – Non sfotteva, aveva persino tirato fuori una voce grave, da ESP–esperto o da psicanalista. – Tieni un bloc–notes accanto a te sul comodino, nelle prossime notti. Secondo me sognerai. Non sapevo se prenderlo sul serio o mettermi a ridere. Dopo un po' di indecisione optai per la prima possibilità. In fondo stava dimostrando di preoccuparsi davvero per me e, dopo i miei, era il primo a farlo. Non l'avrei creduto possibile, prima, e così baciarlo venne assolutamente naturale e anche meglio del solito.

– Come va? Paolo ostentava la mano fasciata come un riccone ferito durante la regata.

– Male, grazie. Si aspettava giusto due parole da me e allora perché negargliele? – Mi dispiace. – Declamai, bella e pura come un'eroina di Marion Zeta Bradley.

– Va bene, va bene. Ma cosa ti è successo? Ti avevo solo toccata, volevo soltanto chiederti se ballavi e tu...Cascava male. Mi ero persino sfatta le treccine per non avere un'aria frivola ed ero scesa fino al primo piano per avere il piacere di entrare

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nella sua quinta a chiedergli scusa. E lui faceva il povero figlio maltrattato dalla bella–e–crudele, anzi dalla carina/carogna. Avrebbe dovuto dire cose tipo "non importa" o "non preoccuparti" e invece eccolo lì, con l'espressione da cuoricino della mamma scherzato dai ragazzacci. É vero che gli avevo arato una mano, ma se lui fosse stato appena meno appiccicoso forse la cosa non sarebbe finita così. Ma tutto sommato mi faceva un piacere con la sua espressione da Pierrot di porcellana: mi ricordava perché non lo sopportavo. Così presi fiato e gli dissi: – Lo so. Ma io non avevo voglia di ballare con te. Feci marcia indietro cambiando tipo di sorriso nella speranza di risultare meno stronza di quanto non fossi, ma sospetto che il mio tentativo non sia stato notato. Un paio di suoi compagni che fingevano di leggere il libro di filosofia si soffiarono il naso un po' troppo fragorosamente e lui non rispose al mio saluto.

Nel pomeriggio squillò il telefono e fu mia madre a rispondere. Partì piana e gentilissima come fa lei quando ha a che fare con gente che non le piace, ma in capo a un minuto la sua voce era già arrivata allo zero assoluto, dando la sensazione di poter scendere ancora. Purtroppo non potevo orecchiare troppo vistosamente perché, vedendomi, mi avrebbe incenerito sui due piedi, ma riuscii lo stesso a cogliere un «... cosa vuole, anch'io sono piuttosto esigente in fatto di uomini.» e un «... ma le belve basta lasciarle in pace, non crede? Mio marito lo capisce benissimo quando è il caso di girare a largo. Forse è solo una questione di esperienza...»"Evvai, mamma!" Avrei voluto dirle, ma mi limitai a pensarlo. Sul momento non avrebbe apprezzato.

1.07Di solito a quell'ora dormo come un angioletto con tutti i miei bellissimi capelli sparsi sul guanciale, ma quella notte non funzionava come doveva.

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Tutta colpa di un pensiero molesto che ne aveva generati altri, altrettanto molesti se non di più. Il pensiero molesto riguardava ancora quell'impedito di Paolo. É vero che sono anche capace di essere perfida, in caso di necessità, ma questa volta avevo la sensazione di aver passato la misura. E perché? E come mai? La ridicola domanda di Gianni sulla possessione a quel punto era tornata d'attualità, dandomi una sensazione di smarrimento che la prima volta non era esistita. E così il problema diventava: cosa è tipicamente mio, quali modi, gesti e impulsi, e cosa non lo è? Una domanda non da poco. Personalmente non conoscevo nessuno che almeno una volta non abbia stupito tirando fuori difetti o pregi imprevisti. Quindi, se anch'io avevo dimostrato insensibilità, crudeltà e violenza, avrebbe anche potuto non esserci nulla di troppo strano. Per consolarmi mi ricordai di quando, a sei anni, avevo piegato all'indietro un dito a un bambino più piccolo facendolo piangere come una fontana e avevo minacciato di picchiarlo se avesse detto qualcosa ai suoi. O di quanto, a otto anni, avevo nascosto la bicicletta nuova a mia cugina che si rifiutava di farmela provare. Abbastanza criminali, come atti, ma facilmente scusabili con l'età. Ma adesso avevo 17 anni, cioè quasi il triplo e più del doppio, rispettivamente, e tra sei mesi sarei stata maggiorenne. Se in me si annidava una sadica pericolosa avrei fatto bene a scoprirlo in fretta. Mentre conducevo la mia autoanalisi mi giravo e rigiravo nel letto, sempre meno disponibile all'abbraccio di Morfeo. Era una notte tiepidina, quasi calda per essere solo all'inizio di giugno, e così dopo un po' di capriole e soste angosciose non ne potevo più del tepore del letto. Decisi di trasferirmi sul pavimento di marmo, sia pure in linea provvisoria. Arrivai anche ad architettare la possibilità di tirare fuori il sacco a pelo dall'armadio, ma lasciai perdere per non allarmare i miei senza necessità.

Curioso come a volte sia sufficiente cambiare letto perché cambi anche la linea dei pensieri. Cominciai a immaginare di essermi nascosta di fianco al letto per gioco, che portavo sciarpa e berretto ed era una

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giornata fredda di febbraio e che i miei o degli amici mi stavano cercando. Nel mio angoletto avevo freddo ma ero introvabile, praticamente invisibile e sto bene, sono finalmente tranquilla se rimarrò abbastanza a lungo nascosta smetteranno di cercarmi, si dimenticheranno finalmente di me nel cortile, a un passo dal mio nascondiglio, posso sentire il respiro dei cavalli, i passi strascicati dei servi, i richiami e le bestemmie, il clangore dei paioli trascinati fuori dalle cucine per essere lavati nessuno mi sta cercando, per il momento, o forse mi cercano fuori dalla Casa, nelle pianure solo la condensa del fiato può tradirmi, e così respiro piano, cercando di nascondere il vapore nella manica del vestito ho freddo ma non me ne importa, mi sento meglio di come non mi sentivo da giorni

ogni tanto mi alzo in punta di piedi per guardare fuori dalla finestra solo per un attimo, per non essere vista mio fratello, nella casa dei nostri genitori, probabilmente sta ancora dormendo e mio marito deve essere andato a caccia con i suoi compari, a uccidere le poche lepri magre che ancora volano sulla neve pesante di febbraio

li odio entrambi, di un odio che so di non riuscire a nascondere darei qualunque cosa per vederli uccisi dai tèutoni o per

ucciderli con le mie mani ma ho soltanto mani di donna, mani deboli, fatte per cucire, accarezzare, scompigliare i capelli ai bambini che restano immobili quando lui giace sopra di me che non sanno tenere un'arma né usarla perché sono nata in un corpo di femmina?

il loro Dio che tutto sa non sapeva forse che la mia natura mi avrebbe condotto al peccato? perché non soffocare presto esistenze come la mia, destinate alla dannazione? per loro lo sto bestemmiando, ingiuriando, ma le domande non mi lasciano mai anche in questo momento Lui sicuramente mi sta ascoltando, per nulla stupito dei miei sentimenti è Lui il colpevole Lui a volere la mia dannazione Lui il complice di mio fratello e di mio marito loro lo venerano e si presentano profumati al Suo cospetto, come dovessero appartarsi con la loro puttana preferita ho freddo qui le mani sono

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bianche come la cera delle candele mi sento male, svuotata come un vecchio tronco ucciso dal gelo, scuro sulla neve pulita vorrei essere un albero dimenticato nell'inverno nessuno verrebbe mai più a disturbarmi nessuno potrebbe più chiamarmi perché non avrei più nome nessuno mi cercherebbe più

– Gaia, ma cosa fai per terra? – Nulla, nulla. – Risposi senza essere del tutto sveglia. Mi alzai a

sedere irrigidita dal freddo, la maglietta arrotolata fin sotto al seno. Mia madre tirò dritto per andare ad aprire la finestra. Non fece commenti ma aprì l'armadio per prendermi la vestaglia. – Tirati giù la maglia. – Mi disse, come faceva quando ero bambina. Mi alzai in piedi e l'abbracciai. Aspirai il suo odore e sentii le sue braccia tenermi stretta.

– Gaia, cosa c'è? Scossi la testa senza staccarmi da lei. Non sapevo cosa c'era, ma c'era qualcosa.

– Doveva avere la mia età, ma era già sposata. Odiava il marito, lo odiava a morte. Ho sentito la sua nausea nel ricordare le notti che aveva già trascorso con lui e il disgusto per quelle che sarebbero venute. Era orfana di entrambi i genitori, ed era il fratello maggiore a occuparsi delle terre, lo stesso che l'aveva data in moglie a un uomo ricco ma di un'altra fede e di un'altra lingua.

Gianni era seduto sulla sedia della scrivania e teneva il gomito appoggiato sul bordo in equilibrio instabile, un'altra delle sue buffe abitudini. Non aveva ancora detto altro che ciao come stai quando ero arrivata. Mi ascoltava immobile e serio come un investigatore, senza farmi domande e, incredibilmente, senza perdere l'equilibrio.

– E c'è ancora una cosa, un ricordo. Lei era già stata incinta, si ricordava di aver sentito qualcosa che le si muoveva nel ventre. Quei movimenti invece di rallegrarla la turbavano. Odiava i sorrisi delle altre

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donne della casa, le loro risatine e le loro frasi incomprensibili, né riusciva a sopportare l'idea di vedere il suo corpo mutare. L'ha fatto uccidere. Non voleva mettere al mondo un figlio di lui. É andata da una donna molto anziana, un donna che puzzava e non parlava. Le ha tolto il bambino spargendole una polvere rossa sul ventre. Quella sera quando è tornata a casa, il marito la voleva ma lei stava male. Ha avuto un'emorragia, ha riempito di sangue le lenzuola e le coperte di pelliccia. Il marito l'ha picchiata, poi però si è spaventato e ha chiesto aiuto alle serve. Il sangue nella luce delle candele era nero, sgocciolava sul pavimento e lei si sentiva debole e leggera. Ma era felice, so che era felice, perché anche se non era mai riuscita a uccidere lui, sarebbe morta e non l'avrebbero mai più ritrovata. «Vorrei essere un albero dimenticato nell'inverno. Nessuno verrebbe mai più a disturbarmi, nessuno potrebbe più chiamarmi perché non avrei più nome, nessuno mi cercherebbe più.» Nel sogno c'erano queste parole, le ricordo così, anche se per me i suoi pensieri non erano fatti di frasi e parole, ma fili che partivano da lontano e finivano nel nulla, fili ritorti, densi, come una vecchia ragnatela. Era certa che il loro Dio tanto potente e pieno di rabbia l'avrebbe dimenticata, cancellata come si cancella un brutto errore. E invece è sopravvissuta, all'aborto, e quando io l'ho incontrata era nuovamente incinta.

– E la dama? Lo guardai con una punta di ammirazione. Non mi sarei aspettata nulla di meno. Un altro mi avrebbe porto la spalla perché potessi piangerci su, ma non era questo ciò che volevo da lui, in quel momento.

– Non lo so. Ho delle ipotesi, ma non so quanto valgano. Posso immaginare che la dama fosse il gioco preferito da lui e che lei fosse felice di batterlo, di umiliarlo, almeno nella finzione del gioco.

– Ma lui doveva essere un tipo violento. Probabilmente si incazzava nero quando perdeva. Scossi la testa. – Chissà? Certo non doveva essere un angelo, ma forse non era peggiore della media degli altri uomini della sua epoca. Ne

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sapevano delle donne come dei gatti o dei cinesi. E nessuno lo trovava strano.

– Ma lui pensava di avere dei diritti su di lei. Avrà dovuto cedere qualcosa per averla in moglie.

– Certo, era stato un matrimonio per contratto. Ma fino a un secolo fa o anche meno i matrimoni decisi a tavolino erano normali e la gente tirava avanti lo stesso. L'amore è un invenzione recente. Prima c'era solo la passione, che veniva tollerata purché non mettesse in pericolo i matrimoni.

Mi guardò, tra l'inorridito e l'ammirato. Non gli dissi che quella era un'osservazione di mio padre, uno che era felice quando poteva demolire un pregiudizio. – Preferisco non fare altre ipotesi, però. Altrimenti finirò per farla ragionare come me. E non penso che abbiamo molto in comune, a parte l'età e il sesso. – Alzai lo sguardo con un movimento improvviso per sorprenderlo. Nulla, non aveva l'aria scettica e furbetta che mi aspettavo. Corrugai le sopracciglia e parlai con tono di sfida, per impedirgli qualunque commento idiota. – Non è lei a possedermi, comunque, semmai sono io a raggiungerla. Stanotte mi sono trovata nel suo cervello e ho sentito quello che sentiva lei, ma sapevo di essere io a farlo, non c'erano confusioni. Chiaro?

– Certo, chiarissimo. É chiaroveggenza, non possessione. E comunque l'avevo imbroccata, con il sogno.

– Come no. E la prossima volta cosa devo aspettarmi? Un'apparizione, uno spettro, materiale ectoplasmatico, scrittura automatica? Visto che sei un esperto, tanto vale che mi consigli.

– Non scherzare, Gaia. Sono cazzate, queste, ma chissà perché sono anche cose serie. Perché è serio il modo in cui la gente le prende.

– Cribbio, com'è vero. E vieni a dirlo a me? – Scusa, hai ragione. Comunque non lo so. Non ho idea di come

entrerai ancora in contatto con lei. Né se accadrà ancora. – Si voltò e aprì un libro sulla scrivania. Chiuse gli occhi e puntò un dito sulla pagina. Li riaprì e lesse: – Laghi.

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– Laghi?– Proprio così, laghi. É scritto qui.– Devo andare su un lago, la incontrerò così?

Si strinse nelle spalle. – Speravo in qualcosa di più evocativo, ma questo c'era. Si chiama qualcosamanzia e tutto quello che serve è un libro e un dito. Certo, probabilmente la Bibbia va meglio, ma in casa non ne ho. Ti accontenti? Doveva essere un modo per rilassarmi e come tale decisi di prenderlo. – Sei un fattucchiero? Si strinse nelle spalle e mi raggiunse sul divano. – No. Ma non sono neppure un marito. Ricordatelo quando siamo intimi.

– Me lo ricorderò. Avrei voluto dire qualcosa di più cretino, qualcosa che sollevasse un po' l'atmosfera ma non mi venne altro. Lasciai che cominciasse ad accarezzarmi, ma restai immobile come se non me importasse nulla, il che non era proprio da me. A un certo punto gli fermai la mano con un sorriso impacciato. – Lascia perdere. Ho la testa da un'altra parte. Corrugò la fronte e si alzò a sedere girandomi la schiena. – Se vuoi. – Aveva la schiena ritta, rigida, una schiena carica di frustrazione. Proprio come un bambino al quale porti via il gioco. Probabilmente avrei fatto bene a tirar su i miei quattro stracci e cancellare gli ultimi quindici minuti dalla mia vita, ma non ci riuscivo. Mi guardavo il ventre solo parzialmente scoperto come non l'avessi mai visto prima. Lo vedevo vibrare al ritmo del respiro: chiaro e morbido, desiderabile – come immagino dovesse apparire a un uomo – ma anche fragile, vestito solo di pelle sottile. "Piena di grazia... Frutto del ventre tuo..." Avevo imparato l'Ave Maria da bambina, ma non riuscivo a ricordarla. Mi venivano in mente solo frasi sparse, miste ad altre che probabilmente non c'entravano nulla. Tutte parlavano della figa senza mai nominarla.

– Che fai? – Niente. – Sei bella, sai?

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– No, non sono bella. Sono una ragazza mezza nuda a gambe aperte e tu mi trovi bella. Normale, no? Avrebbe dovuto incazzarsi, sarebbe stato appena logico e invece no: si mise a ridere. – Hai ragione, cazzo se hai ragione. Ma non riuscirai a farmi sentire in colpa. Hai voglia di fare due passi? Tanto oggi non è giornata.

– D'accordo.

Non so come si chiama, lei. Non so nemmeno come si chiama il suo paese, qual'è la fede alla quale tiene tanto e che ha dovuto abbandonare per sposarsi. Di lei conosco le mani e un angolo dei pensieri. E non sono affatto sicura che Lei non mi influenzi. Il mondo visto attraverso i suoi occhi è più nitido, più preciso. Ciò che mi dava fastidio prima, adesso è intollerabile. É come se tutto fosse diventato più chiaro: di qui le cose e le persone importanti, di là il resto. Non ho più voglia di ascoltare le mie compagne che si lamentano dell'ultimo ragazzo idiota che si sono caricate o che si vantano di "tenerli sulle spine". Mi viene da ridere, adesso, a sentirle. Loro non capiscono e dicono male di me. Ma io mi siedo più in là e sorrido al cielo fuori dalla finestra. E mi vesto di nero anche più di prima, come lei, perché lei porta il lutto per la sua bambina non nata e vuole che la credano pazza, che la lascino stare. Dice di sentirla piangere, di notte, ed esce nella neve a cercarla. Loro si segnano e la guardano dalla finestra della casa. Poi i servi vanno a riprenderla e la chiudono a chiave in camera. Suo marito in

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quelle notti la lascia stare: ha paura. Sempre più spesso si porta a casa qualche contadina: le sente ridere e uggiolare mentre lui le prende.Mi addormento aspettando che torni, e se mi sveglio di notte cerco di ricordare i miei sogni, ma sono sogni stupidi, banali. Sono passate tre notti e non ci siamo più incontrate, ma so di non aver perduto il contatto. Mi guardo allo specchio più spesso e mi vedo forte. Nera e forte.

– Ho delle notizie. Possibile che Bruno stesse aspettandomi? Eppure lo trovai sistemato sulla poltrona come fosse in attesa. Posai la borsa e sedetti di fronte a lui.

– Fai una partita? – Come no. Però prima stammi a sentire. Sono andato da un

antiquario, anzi da una dozzina di antiquari. Ne ho trovato solo uno che abbia saputo dirmi qualcosa di serio sulla scacchiera. Poi sono andato alla Biblioteca Nazionale e ho messo insieme qualche altra notizia. Ma quasi tutte le informazioni le ho trovate al consolato lituano.

– Bene. Sono tutta orecchi. Rise. – Decisa eh? In quanti ti hanno detto che ultimamente sei strana, Gaia?

– É una domanda? – No, solo un commento. Ma torniamo alle cose serie. La dama è

stata costruita a Vilnius nella seconda metà del 1300, da un artigiano di origine tedesca, Witold Panhüntzer. Questa non è l'unica, ce ne sono un'altra dozzina sparse per l'Europa Orientale.

– Vale molto?

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– No, non moltissimo. Ma è preziosa per un altro motivo. Lo sai dov'è Vilnius?

– Me ne guardo bene. – Adesso, ma anche allora, era la capitale della Lituania, la più

meridionale delle Repubbliche Baltiche.– Lituania, Lettonia ed Estonia. – Esatto. Non sei così ignorante, per la tua età.– Erano in un gioco di parole incrociate geografiche. L'ho fatto

con un atlante in mano. – E poi dicono che l'enigmistica è una perdita di tempo. – Aprì il

contromobile di castagno e ne estrasse la scacchiera. – Stavolta ci mettiamo sul tavolo frattino, così non vedrai più la finestra. Ci spostammo e lui dispose i pezzi, schierando davanti a me le pedine nere. Nel frattempo continuava a parlarmi. – Witold Panhüntzer aveva una vera passione per la dama. Oltre ad essere un eccellente artigiano era anche un ottimo giocatore e corrispondeva con altri giocatori in Polonia, in Boemia e in Italia. Scriveva in latino, l'unica lingua internazionale, all'epoca. Probabilmente l'aveva imparato nel corso dell'addestramento dai Cavalieri Portaspada. Ma a diciassette anni disertò l'Ordine e fuggì a Vilnius, cioè dai nemici dei cavalieri, e lì trovò lavoro e moglie.

– Chi diavolo erano i Cavalieri Portaspada? – Sono più famosi con il nome di Cavalieri dell'Ordine

Teutonico. Witold era tedesco da parte di padre e quindi avrebbe potuto essere ordinato Cavaliere. Ma evidentemente la vita dell'Ordine era troppo rigida per lui. E poi Vilnius, all'epoca, doveva essere una città davvero interessante. Vi coabitavano pacificamente cattolici, maomettani, ebrei, pagani, ortodossi. Ma verso la fine del XIV secolo, con l'unificazione dei troni lituano e polacco e la conversione al cattolicesimo del Granduca di Lituania, Ladislao Jagellone, la convivenza terminò. Gli ortodossi e i pagani si rivolsero allo zio del granduca per conservare i propri diritti, ma questi venne trucidato e

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furono in molti a dover abbandonare la città. Anche l'ormai anziano Witold, che pure teoricamente era cattolico, dovette fuggire. Ed è probabile che i suoi problemi nascessero proprio dalle scacchiere. Le scritte che vi aveva inserito, infatti, celebravano la grandezza e la magnanimità degli dei pagani, venerati dalla nobiltà lituana. Il Dio del Tuono e gli dei dei boschi, delle fonti, dei fiumi e dei laghi...

– Laghi? – Laghi. Probabilmente l'apprendistato presso i cavalieri

Portaspada aveva reso Witold un po' meno ricettivo verso la Parola di Cristo. – Bruno sorrise. – Muovo?

– No, aspetta ancora un momento. Dove le hai trovate tutte queste notizie?

– In una cronaca della città scritta nei primi anni del 1400 da un sacerdote polacco per conto di una famiglia nobile di Brest, imparentata con i lituani. Ovviamente nella cronaca si presentava Witold come un abisso di abiezione, tanto più per le sue scacchiere, dove le scritte, in latino, erano state vergate utilizzando gli alfabeti paleoslavo, runico, ebraico e gotico. Quelle scacchiere erano maledette, secondo padre Krakow, "maleolenti arche di dannazione, suggerite dal Principe Lucifero in persona all'apostata Witold Panhüntzer, per sempre maledetto nel sacro Nome del Signore."

– Una bella tirata. Ma te la sei imparata a memoria? – No. Ma credo che le parole fossero più o meno queste. E mi

riempie di gioia possedere un oggetto sfuggito all'intolleranza cattolica. – Ma tu, Bruno, sei anticlericale? – No. Ma i cattolici possono essere gente pericolosa. Come dite

voi giovani? Incazzosi, ecco. – Già, incazzosi. Ma mi spieghi come c'entra la Dama di

Panhüntzer con quella ragazza, quella che ho sognato? – Questo non posso saperlo, naturalmente. Posso dirti che nel

museo di stato di Vilnius c'è una copia identica di questa scacchiera, donata al Granduca Keistut, lo zio traditore del re di Lituania e Polonia,

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da Witold in persona. Insomma, direi che il nostro artigiano ha davvero fatto il possibile per farsi perseguitare. Dev'essere fuggito verso il nord, verso l'Estonia. – Si alzò – Torno subito.

Rimasta sola non potei fare a meno di osservare ancora una volta la scacchiera. Era indiscutibilmente un bell'oggetto ma non possedeva alcuna aura maligna. Anzi, le pedine del bianco, scavate nell'ambra chiarissima avevano qualcosa di leggero, armonioso, quasi celestiale. In contrasto, il nero – lucido, quasi plastico – dava una sensazione di forza e di limpida rettitudine. Ma forse anche la scelta dei materiali e il modo di lavorarli erano frutto delle convinzioni di Panhüntzer. Ne so poco di storia, ma in tempi come quelli avere delle idee personali doveva essere un bene inestimabile e pericolosissimo. Soprattutto quando le città dove la gente vive in pace, ciascuna con la sua fede, diventano un macello.Accarezzai un lato della scacchiera sentendo sotto le dita il rilievo delle parole scritte in quattro diversi alfabeti. C'era qualcosa di eccitante e di assurdo nel suo lavoro, qualcosa di molto bello e coraggioso, ma anche di tanto strano da essere giudicato diabolico.

– Ho terminato il tabacco, devo assolutamente uscire. Ti dispiace rimandare la partita? – Bruno riapparve con addosso l'inseparabile giacca di velluto grigio. Scossi la testa. Questa volta nessun rumore, avevo eliminato le treccine. – Non ha importanza. In fondo non avevo voglia di giocare.

– Era solo una scusa per rivedere la scacchiera, vero? Ma io non ti trovo strana. A proposito, lo sai come si chiamava la religione alla quale erano devoti gli antichi lituani?

– Paganesimo, me l'hai detto.– Esiste un nome più specifico, che va molto di moda in tempi di

New Age. Druidismo, ovvero il più antico avversario del cristianesimo.

Pagani. Me li ero sempre immaginati con le toghe degli antichi romani, a scambiarsi l'un l'altro confidenze sulle ultime avventure di Giove o a sacrificare mucche, anzi giovenche, sull'altare di Marte. Mai

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mi sarei sognata che alla fine del 1300 ne circolassero ancora, non solo, che fossero ancora considerati nemici della cristianità. In quanto ai druidi l'unico che conoscevo era Panoramix, l'inventore della bevanda magica di Asterix. Mi venne da ridere pensando che in qualche strano modo Nonno Artiglio gli assomigliava.

Abitava – Bruno non Panoramix – a meno di un chilometro da casa dei miei e in genere arrivare da lui era più o meno una passeggiata. Attraverso il piccolo quartiere formato dalle case popolari dei ferrovieri, costruite all'inizio del secolo, tapinavo sul cavalcavia che supera d'un balzo un fascio di linee ferroviarie dirette alla stazione principale ed ero arrivata. Le vie sono ombreggiate da vecchi platani e per quanto abbastanza sporche hanno un loro fascino. Mia madre diceva che era per via delle decorazioni rozzamente Art Decò, molto di moda all'epoca. Io, ancora piuttosto ignorante, ero solo incuriosita dai buffi disegni delle ringhiere dei balconi e dei tetti. Conoscevo la strada molto bene, dovevo averla fatta almeno un due o trecento volte, sia da sola che insieme ai miei, e non sarei riuscita a perdermi nemmeno andando in giro bendata.

Non era una bella giornata, il cielo era pesante di nubi che, disposte su più strati, roteavano come immani foglie. Camminavo veloce per evitare il classico acquazzone che, visto il mio abbigliamento – nerissimo ma leggero – mi avrebbe inzuppata come un pavesino. Mentre camminavo tenevo la testa bassa e inseguivo sottili sensazioni e ricordi confusi, probabilmente della mia prima infanzia. C'era qualcosa di strano nella luce, come se il sole, invisibile dietro le nubi, avesse percorso un bel pezzo di strada nel cielo senza rispettare l'orologio. Ma questa sensazione, tanto assurda da essere quasi ignorata, la ricostruii solo dopo un po'. Sul momento mi limitai a rallentare il passo e sollevare lo sguardo. Ero certa di aver già superato il tracciato delle ferrovie e di essere discesa dall'altro lato del cavalcavia. Subito

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dopo avrei dovuto girare a sinistra, superare tre viuzze e infilarmi nella via principale del quartiere. Invece mi trovavo su una piccola altura coperta di erba corta e coriacea ed erica. Davanti a me un sentiero fangoso scendeva dolcemente verso le sponde sassose di uno specchio d'acqua, scuro e mosso da una leggera brezza. Non c'era un'anima e neppure, stranamente, un albero. L'aria aveva un odore molto diverso, sapeva di fumo e di acqua ferma, con una leggerissima traccia di salsedine, segno che il mare non era lontano. Nelle acque del lago si specchiavano il cielo limaccioso e le curve arrotondate delle colline basse e grigie. Le nebbie ne nascondevano l'estremità più lontana. Avrei dovuto essere terrorizzata, in preda al più cieco panico, ma in quel paesaggio c'era qualcosa di familiare. Non avrei saputo dire se familiare a me o a Lei, anche se la risposta era, credo, abbastanza ovvia. Ma forse no, forse non era così ovvia. Tutti abbiamo sognato una luce, un luogo, un insieme di colori che non appartengono a nessuno dei posti che abbiamo conosciuto e conserviamo in fondo alla coscienza il loro ricordo. Ero preda di un'intensissima sensazione di deja–vu che mi impediva di scegliere se sentirmi atterrita o felice.Cominciai a scendere il sentiero. Camminavo facendo attenzione a dove mettevo i piedi. Non era una strada molto battuta e le pozzanghere e i tratti fangosi erano molto frequenti. Scendendo la sensazione di familiarità andava impallidendo, si rarefaceva. Se osservavo troppo a lungo un particolare del paesaggio ne ricevevo una forte sensazione di estraneità, di sorniona ostilità. Le rive del lago erano vicine e potevo distinguere le forme tondeggianti delle pietre chiare, pietre di fiume o forse pietre che avevano dormito per secoli sotto la superficie marina. Ciuffi di canne basse crescevano nelle piccole insenature o sulle secche piegandosi leggermente alla brezza, come in un respiro disordinato. Arrivai dove il sentiero scompariva e, caparbiamente, percorsi i pochi passi che mi separavano dall'acqua. Avevo riconosciuto le sensazione che mi accompagnava: attendevo qualcosa. Lei comparve di fronte a me, sull'altra sponda. Teneva per mano un

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bambino molto piccolo. Come me era vestita di nero, ma il suo abito era formato da un corpetto decorato e da una sottana molto ampia che cadeva sugli stivaletti, graffiati e sporchi. Il bambino sapeva a malapena camminare ma non piangeva. Arrivarono alla riva. Le loro figure si specchiavano rovesciate, scure e ferme. Passarono alcuni secondi d'immobilità, il bambino fissava la leggera risacca del lago. Lei, la madre, guardava verso di me. Non lasciava cadere la mano al piccolo, anche se il loro cammino era terminato, e non gli parlava. Trascorsero secondi, forse minuti. Il lago cullava le nostre immagini contro il riflesso del cielo senza profondità. Non volevo restituirle lo sguardo, ma le acque ci univano, come due figure dello stesso quadro.Poi la minuscola figura rovesciata del bambino scomparve e Lei rimase sola. Le acque scure si agitarono solo per un istante prima di ritornare alla loro quiete. Non la vidi fare nessun gesto né riuscii a farne io. Si voltò e si allontanò. Mi aveva riconosciuto e quindi non aveva nulla da temere, da me.

Fu la pioggia a portarmi via da lì, a nascondermi alla vista il breve tratto d'acqua dove il bambino era scomparso per sempre. Lei non aveva riso e non aveva pianto, assorta e incolore era tramontata alle spalle della piccola altura specchiata nel lago. E io non avevo detto una sola parola né fatto un gesto che non fosse stato già immaginato o deciso prima. Per tutto il tempo che ero rimasta là non avevo udito alcun rumore se non il leggero risucchio del mio passo sul fango del sentiero e il sommesso rotolare del lago sulle pietre. Senza curarmi della pioggia marciai verso casa e vi arrivai fatalmente fradicia.

– Gaia, sei tu? La voce di mio padre. Non risposi e andai dritta in bagno. Mi spogliai completamente e mi sedetti sulla ciambella del water. Mio padre bussò leggermente alla porta. – Gaia, tutto bene?

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– Sì, papà, tutto bene. – Sicura?– Sì, sì. – Avevo voglia di uscire ed abbracciarlo, nascondermi

nelle sue braccia, ficcare la testa contro il suo petto e spingere, prenderlo a pugni sul petto e sulle spalle. Lui mi diceva di smettere, quand'ero piccola, ma io approfittavo di ogni occasione per ricominciare a svolazzargli intorno come una mosca ubriaca, e cercare di rubargli una fetta dell'attenzione che dedicava a mia madre. Nascosi il viso tra le mani e cominciai a singhiozzare senza riuscire a piangere. Lui dovette sentirmi ma preferì non chiedermi altro. Dopo qualche minuto lo sentii armeggiare in cucina. Probabilmente mi stava preparando qualcosa di caldo. Era fatto così: tra gesti e parole sceglieva sempre i gesti.Uscii dal bagno e raggiunsi la mia camera. Mi infilai nel pigiama, mi pettinai e lo raggiunsi.

– Ho preparato del caffè, ne vuoi? – Grazie.– La mamma è andata a una premiazione per conto della rivista.

– Sogghignò. – Avrei dovuto accompagnarla ma mi ha risparmiato. Probabilmente non rientrerà neppure per cena. Cosa vuoi da mangiare?

– Cosa stavi facendo? – Niente, leggevo. – Cosa?

Corrugò la fronte e si grattò una spalla. – Un libro.Tipico. Leggeva più o meno un centinaio di libri l'anno, per divertimento o per lavoro, ma non ricordava mai un titolo. E se lo ricordava era sbagliato.

– Sei andata dal nonno? – Da Nonno Artiglio?

Rise. – Bello, nonno Artiglio, da dove viene fuori? – Da quella volta che ho artigliato Paolo. Mi sembra di averne

guadagnato in stima, perlomeno con lui.

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– Che ne sai? Magari è sempre stato il mio sogno avere per figlia una donna pericolosa.

– Papà Artiglio? – Il caffè era caldo, ben zuccherato e tutto sembrava normale: la tovaglia con il disegno dei velieri, lo spot puntato contro il soffitto che illustrava la necessità di una bella riverniciatura, i mobili di cucina giallo senape che avevano comprato dopo un'infinità di discussioni. Ero a casa, ma non mi era mai sembrato di esserne stata tanto lontana. La vedevo con occhi diversi, come una appena ritornata dopo un viaggio di anni e che teme di dover ripartire presto e senza preavviso.

– Non suona mica tanto bene, papà Artiglio. E poi io ho delle responsabilità, non posso essere libero e incosciente come mio padre.Non ho mai capito quale fosse il loro rapporto. Si parlavano a monosillabi e papà, quando lo vedeva, inalberava un'aria ferocemente scazzata mentre Bruno, in sua presenza, sorrideva parecchio ma senza convinzione, come se non trovasse più l'interruttore per smettere. Eppure per molte cose si assomigliavano, anche se non l'avrebbero mai ammesso.

– Hai preso la pioggia, tornando? Si era alzato a lavare le tazze e mi voltava le spalle. Era uno dei suoi famosi passi di avvicinamento, che non obbligavano a nulla ma davano una possibilità.

– Sì. – Non sono mai stata a corto di parole, ma il groppo era davvero troppo grande per riuscire a scioglierlo tutto insieme. E poi non mi sentivo mica tanto certa di trovarmi lì per davvero. Certe cose, per raccontarle, bisogna aspettare che siano finite.

– Visto il tuo abbigliamento direi che stasera non hai intenzione di uscire. Hai steso la tua roba?

– No. – Bene, allora vai. Io intanto invento una cena.

– Sto leggendo un romanzo. La storia di uno che scopre di essere

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innamorato di una donna, mentre pensava si trattasse di un travestito. – Com'è?– Mediamente tossico. Ogni tanto la tipa cambia nuovamente

sesso e il protagonista le ritrova in mezzo alle gambe l'amato ciondolino. É tutto un via vai di sessi, odori, sudori, fumo, alcool e pere. Uno di quei romanzi scritti perché si parli dell'autore, a un pelo dalla pornografia, ma senza il fegato di farne davvero.

– Non ti è piaciuto. – No. Sarà il decimo del genere che leggo negli ultimi due anni.

Bevve un lungo sorso di birra e si alzò ad attaccare il microonde. In fatto di sesso in casa siamo piuttosto espliciti e poi non conosco nessuno come mio padre che sia meno imbarazzato dal tema. Sarà per via di tutto il sesso letterario che ha digerito o per via dello zodiaco, ma in confronto a lui i padri delle mie amiche in presenza delle figlie sembrano degli imbranati terrificanti

– ... E poi i personaggi non esistono. Sopravvivono incollati alle loro parole, ma appena smettono di parlare te li dimentichi. Ma non è mica il solo. Di veri personaggi, memorabili, ne ho incontrati pochi, ultimamente.

– Anch'io sto leggendo una storia. – Com'è?– Acchiappa. C'è uno dei personaggi che mi fa paura, ma davvero

una paura esagerata. – Non deve essere male. É un uomo o una donna? – Una donna. Cioè sarebbe una ragazza della mia età, più o

meno, ma è già sposata. Ed ha avuto almeno un figlio. Ma è morto. Era alle prese con una pesca, una delle prime della stagione, compatta come una zucca e con lo stesso colore. Sembrava completamente immerso nell'operazione di sbucciatura ma ero sicura che mi stesse ascoltando con tutte le orecchie che aveva, quelle ai lati del cranio e quelle che aveva dentro.

– Come è morto, il bambino?

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– É morto annegato. Tutti in casa diranno che si è allontanato da solo e daranno la colpa alla bambinaia. Ma è stata lei. L'ha portata sulla riva di un lago e l'ha spinto dentro una buca. É affogato senza nemmeno un singhiozzo e lei non si è fermata neppure per un momento. Se ne è tornata a casa, preparandosi a una scena di dolore incontenibile. Nessuno l'ha vista uscire con il bambino e così nessuno potrà dire come è andata davvero tutta la storia.

– Mi ricorda... Nulla, nulla, lascia perdere. Lo vuoi un altro caffè? No? Dev'essere raccontata decentemente, la tua storia, perché direi che ti ha preso molto. E perché ha ucciso una povera creatura innocente, oltretutto carne della sua carne e sangue del suo sangue, lo spiega il tuo narratore? Probabilmente moriva dalla voglia di sapere quale storia gli stessi in realtà raccontando, ma aveva il buon senso di rispettare la mia finzione. E poi non sapeva bene dove sarei andata a parare, così doveva stare al gioco per forza. A chiunque altro sarebbe parso tranquillo, ma io lo conosco bene: ha qualcosa del gatto, ho sentito la mamma dirglielo un'infinità di volte, e penso sia vero. Capace, come un felino, di seguire con apparente disinteresse il volo di una mosca e poi prenderla al momento giusto, quando avresti giurato che ormai non gliene fregava più nulla.

– Non voleva figli, non da lui. L'ha ucciso in odio al marito. Un marito che le hanno imposto e che lei non voleva.

– Ne voleva per caso un altro?– Papà non ti racconto mica Kiss me Licia. É una storia seria. – Certo, scusami. Allora non c'è un altro. O perlomeno il

narratore non dice se c'è.– No. Non c'è. Ne sono sicura.

Coma facevo ad esserne tanto certa? Eppure lo sapevo. Non amava più nessuno, Lei, e se anche aveva amato, qualsiasi ricordo era stato annullato, relegato in un angolo inaccessibile della sua mente.

– Com'era il lago?

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– Eh?– Ti ho chiesto del lago, com'era il lago? Coperto dalla nebbia e

circondato da canne e neri salici? O freddissimo e circondato dalla neve? – C'erano delle canne, scure e sottili, ma solo in qualche punto

delle rive. C'erano molti sassi, sassi chiari e rotondi, come quelli che ci sono sulla riva del mare. E c'era un po' di nebbia, ma lontano. Lei se ne stava in piedi sull'altra riva e si vedeva benissimo. Era un lago lungo e stretto, ci avrei messo un paio d'ore a girarlo tutto a piedi. L'acqua doveva essere fredda, molto fredda, perché era un posto del Nord, ma non c'era ghiaccio e neppure neve, probabilmente si era sciolta da poco. Infatti c'era molto fango, sul sentiero.

Si versò il caffè e mi si sedette di fronte. – Curioso. Ho quasi la sensazione che tu l'abbia visto, quel posto. E anche tutta la scena. Molto recentemente. – Bevve un sorso. – Strano vero, come funziona la letteratura? Sembra quasi un sogno o una visione, se si è capaci di maneggiarla con cura. O forse sono i sogni e i ricordi a dargli sostanza. – Sorrideva e fissava un punto della tovaglia più o meno a metà tra di noi. – Sarai stanca Gaia. – Alzò lo sguardo. – Sei stanca, vero?

– Sì. Sono esausta. – Lo immaginavo. Devi aver corso come una matta per evitare la

pioggia. Il nonno mi ha telefonato cinque minuti dopo che eri uscita da casa sua e un attimo dopo sei arrivata. Devi avere corso come se ti inseguisse uno spettro.

Non mi sentivo all'altezza del suo umorismo, ma feci ugualmente il possibile. – Effettivamente mi inseguiva uno spettro, ma pensavo che ti saresti impressionato, a dirtelo.

Rise. – Già, è proprio così. Vieni qui. Feci il giro del tavolo per raggiungerlo.

– Hai bisogno di qualcosa per dormire? Vuoi un sorso di whisky o di qualcosa del genere?

– No, grazie. Si morse la punta dell'indice, molto pensieroso. – Vuoi una piccola luce

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accesa, quella di paperino che usavi da piccola? É nel primo cassetto dietro di te, prendila. La presi. Mi strinse forte, senza parlare, e mi accarezzò i capelli. Mi lasciai coccolare, ero debole, confusa, stanchissima.

– Buonanotte, Gaia. Io resto sveglio ad aspettare la mamma. Riposa e se hai bisogno, basta un fischio.

– Stai tranquillo. – Sono tranquillo, con te.

Lo disse con solennità, come se ne fosse davvero convinto. L'ho letto in un libro che mi ha passato lui. Probabilmente l'ha fatto apposta. "...E i papà? Sembrano sempre da un'altra parte, assorbiti dalle loro cose. E poi te li trovi vicino quando sei convinto di essere rimasto solo, e scopri che di te sapevano anche ciò che nemmeno tu sapevi."

– Voglio giocare. Bruno mi sembrava più serio del solito. Non parlò né protestò, fece un cenno di assenso e mise la scacchiera sul tavolo.

– Tu giochi con il nero, giusto? – Chiese. – Con la dama nera?Erano ormai giorni che stavo al gioco della Dama nera. Ma non potevo lasciare sempre a lei l'iniziativa. Stavolta il primo passo l'avrei fatto io. L'idea di ritrovarmi nella sua testa o di fronte a lei mi terrorizzava ma il nostro contatto era come l'ottovolante, ne avevo una paura fottuta ma insieme avevo voglia di tornarci.

– Tocca a te, muovi. – Dissi a Bruno. Ubbidì. Se era turbato dai miei modi stava molto attento a non farmelo notare. Attaccai con la terza pedina a sinistra schierandola di fronte alla seconda e bloccandolo. Mosse un'altra pedina alle spalle della prima fila. Aveva aperto un varco, era solo questione di tempo e sarei passata.

Vinsi la prima partita, poi la seconda, la terza e anche le altre. Bruno non faceva commenti. Ogni volta schierava nuovamente i pezzi e

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ricominciavamo. Prevedevo senza fatica le sue mosse e conducevo le mie con un'abilità della quale non mi sarei mai creduta capace. Le mie mani correvano sulla scacchiera candide come uccelli invernali, sicure ed eleganti, con una precisione che non era mai stata mia.

– Adesso basta, Gaia. Alzai gli occhi, rapida ed eccessiva come una diva del muto.

– Gioca, gioca ancora. – Ho detto basta. Adesso basta, per favore.

Non era la voce di Bruno, e quella frase non era stata pronunciata in italiano.

– Non sei ancora stanca di uccidere? Uccidere? La parola giusta non era mangiare? Mangiare le pedine, giungere a dama, uccidere il nemico cosa mi restava altrimenti?

era un conto tra il loro Dio e me lui non c'entrava più mi avrebbe toccato ancora No, non dormiva più con me da settimane o mesi o forse anni ma Dio stesso mi avrebbe toccato ancora e mi avrebbe condannato a portare un'altra vita

– Non sei stanca? Non vuoi ritirarti a riposare? Non riposo, non dimentico di notte cammino, attraverso distese interminabili di neve, ma gli alberi, le case, i corvi sono sempre gli stessi giro intorno a un lago, una lago nero coperto di ghiaccio Sotto il ghiaccio mi chiamano mi cercano nuotano sorridono giocano si nascondono in mezzo alle alghe scure scivolano tra le pietre respirano l'acqua gelida l'acqua santa dove devo tuffare la mano per sposarmi lascio che nuoti nelle mie acque che fanno ondeggiare i peli del mio ventre neri e lunghi e lenti e senza rumore il mio cavaliere il mio uomo non li teme e respira acqua come un pesce e mi chiama di giorno e di notte mi chiama perché ha paura di me e vuole che lo consoli che lo stringa tra le braccia lo conduca al lago ancora al lago a gettare le pietre nell'acqua che muovono il cielo sopra di noi

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– Gaia? Senza nemmeno aprire gli occhi capii che mi aveva sdraiato sul suo caro, vecchio divano, ricoperto da una lunga pezza di seta decorata a rombi. Mi piaceva la sensazione della seta, sotto le dita. Mi era sempre piaciuta, anche da piccola, quando Bruno mi sembrava altissimo e non riuscivo a smettere di guardargli i baffi.

– Come stai? Aprii gli occhi. Torreggiava sopra di me come il Bruno di allora.

– L'ha ucciso. Come ha ucciso tutti i figli che ha avuto da lui. – Ne sei certa?

Mi venne da ridere. Era incredibile come tutti, Bruno ma anche Gianni o i miei, mi avessero ormai accreditata nel mio ruolo di corrispondente da un passato e un luogo indefiniti.

– Sì, ne sono certa. Ora vive con il suocero e non la perdono mai di vista. Non sanno di preciso e sospettano, ma la temono. La Dama Nera. Non ha mai abbandonato il lutto per la sua famiglia e da anni nessuno la vede vestita di un altro colore. Solo il padre del suo sposo ha pietà di lei, chissà perché, e gioca ancora con lei. Proprio come noi due: una ragazza e un uomo anziano seduti uno davanti all'altra, e in mezzo la scacchiera. Tutto ciò che le è concesso è giocare, per nessun altro motivo può abbandonare la sua stanza, neppure per le funzioni religiose alle quali, comunque, non andrebbe mai. Mi alzai a sedere. Mi girava la testa e avevo il colletto della polo fradicio. Bruno notò il mio gesto. – Hai sudato molto. E mi hai fatto un lungo discorso. Ma non ne ho capito neppure una parola.

– Certo. – Osservai, seria ma assurda. – Dov'è la scacchiera? – Sul tavolo. Ma non...– Non voglio giocare ancora. Io sono una schiappa, a dama.

Se si rese conto di come avevo calcato la voce su quell'Io decise che comunque questo non meritava commenti.

– É ancora sul tavolo.Mi avvicinai soffocando una violenta sensazione di nausea. Ma il mondo

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intorno mi sembrava abbastanza stabile e la nausea doveva essere del tutto mia. Mi limitai a guardare la scacchiera e a scorrere i caratteri scritti sulle quattro facce verticali. Nulla, nebbia, silenzio. Questo mi avrebbe dovuto tranquillizzare. Lei sapeva leggere quelle frasi, e chissà quante volte le aveva lette mentre giocava con il suocero. Io, viceversa, no. Perché Lei sicuramente aveva giocato con la Dama di Panhüntzer, la dama pagana, maledetta dalla chiesa del Papa. Ma gli dei non potevano aiutarla, erano impotenti. Era prigioniera di un altro Dio meschino e brutale, che le aveva imposto figli e matrimonio, a Lei che non desiderava né l'uno né gli altri, e che cercava di riempirla ancora di un'altra vita. Lei che non avrebbe mai voluto crescere né cambiare, diventare madre e invecchiare davanti al fuoco, ciabattare tra le camere il cortile e le cucine, morire poco alla volta seppellita in fondo alla pianura, contando i lunghi inverni e le brevi estati mentre la sua pelle diventava grigia e rugosa. Lei, la Strana, l'estone che non parlava la loro lingua, che aveva occhi neri come i corvi, che fingeva di sputare quando incontrava il prete e dormiva seduta davanti alla finestra, come un uccello rinchiuso.

Erano gli ultimi giorni di scuola e, per fortuna, nel resto dell'anno me l'ero cavata decentemente, altrimenti difficilmente sarei approdata alla quinta. L'incidente di Paolo mi aveva reso interessante ma, suppongo, un po' spaventosa. Quando mi avvicinavo a un gruppo le conversazioni diradavano e dopo un paio di minuti tutti se ne tornavano al loro posto. Anche gli insegnanti avevano uno strano ritegno nel parlarmi, come se fossi diventata fragile e pericolosa come un pezzo di vetro. Avrei dovuto sentirmi una paria, una diseredata, e invece mi sentivo benissimo. Continuavo a vestirmi di nero, indossavo soltanto biancheria nera, portavo orecchini e braccialetti neri e mi ero tagliata i capelli cortissimi. I miei non avevano fatto commenti, com'era nelle loro abitudini, mentre Gianni era diventato serio e cauto, troppo attento a ogni minima frase o

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gesto. Ogni tanto, se lo guardavo troppo a lungo, nasceva in me un inaspettato fastidio, un'insofferenza per il suo sorriso e per le sua voce. Cercavo di resistere ma finivo per non parlare quasi, tollerando appena la sua presenza senza dare né poter ricevere nulla.

La solitudine tanto desiderata mi rendeva forte come non ero mai stata, ma non appena mi fermavo avvertivo per intero le dimensioni del vuoto che lentamente cresceva in me. Raggelata e affascinata insieme, lo contemplavo, aridamente soddisfatta. Adesso avevo paura di addormentarmi e rimanevo alzata fino a tardi a leggere, installata in salotto sotto l'alogena, seduta per terra, con la schiena appoggiata al divano. Ogni tanto a farmi compagnia c'era mia madre, una lettrice furiosa o forse una furiosa insonne. Ma ci scambiavamo in tutto dieci parole e non era certo una come lei a poter trovare strano il mio comportamento. O forse non era così e semplicemente non sapeva che pesci pigliare con me. Fin dalla festa di Eva.Non ero più passata da Bruno ed il tempo era pessimo. Contai sei giorni di seguito di pioggia. Andavo a scuola solo quando ne avevo voglia, cioè un giorno su tre. I miei non commentavano e compilavano le giustificazioni. In fondo mancava solo una settimana alla fine della scuola.

Non ero nervosa ma neppure tranquilla. Ero diversa: intensa, lontana. Attendevo, semplicemente, e sapevo che presto ci saremmo incontrate ancora.

I miei avevano un piccolo appartamento in montagna. Era un rifugio per quando non ne potevano più del mondo. Qualche volta andavo con loro, più spesso restavo a casa e invitavo Gianni, in un anticipo di vita matrimoniale.

– Noi andiamo in montagna, vieni anche tu?

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Probabilmente mi avrebbe fatto bene un fine settimana a guardare vecchi film in TV, cazzeggiare, nuotare nel loro grande letto, mangiare porcherie comprate al banco gastronomia del supermercato senza pensare a nient'altro, sempre che ci fossi riuscita, ma c'era qualcosa di più urgente.

– Vengo, sono pronta tra dieci minuti. I miei mi sembrarono perplessi ma non scontenti. Mia madre arrivò in camera a controllare che avessi preso tutto quello che mi serviva, come quando avevo dieci anni. Non mi offesi, sotto c'era un po' di apprensione per me, il desiderio di non perdermi di vista.

Arrivammo dopo un'oretta di viaggio, passata a discutere di politica internazionale e di nuovi cantanti. Ci tuffammo volentieri in quella parentesi di normalità prosaica, che ci fece sentire almeno per poco una famiglia normale. Del primo argomento ne sapevo poco ma non così poco come la media dei miei compagni di scuola, mentre sul secondo ero preparata, ma, maledizione, lo erano anche loro. Era difficile che li sorprendessi con un nome nuovo e non tanto più facile sorprenderli con una canzone. Guardavano MTV, alle volte anche dopo che io ero andata a letto, e non perdevano occasione per fare commenti caustici su qualcuno dei miei idoli. In compenso talvolta avevamo entusiasmi comuni, tanto che i soldi dei miei CD alle volte li mettevano loro. Il tempo non era dei migliori. Aveva tutta l'aria di aver smesso di piovere da cinque minuti e che tra cinque minuti – o anche meno – avrebbe ripreso. Salimmo fino a casa e sistemammo bagagli e frigorifero. Praticamente c'eravamo solo noi, e non si sentiva un solo rumore o una sola voce. Un Eden per mia madre, che era diventata sempre più insofferente al casino. Mangiammo dopo aver acceso il riscaldamento, alzandoci a turno a spiare come buttava il cielo. Finito di mangiare, comunque, non aveva ancora ripreso a piovere.

– Scendo un attimo al bar.

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Mia padre fece un cenno di assenso, mentre la mamma aprì la bocca come per dire qualcosa ma poi sembrò rinunciarci. Ma venne alla porta dopo che ebbi infilato le scarpe e mi guardò.

– Gaia...– Dimmi.

Non sapeva quale parole usare, ma sicuramente sapeva che cosa voleva dirmi. La baciai. – State tranquilli. Faccio solo un giro.

– Va bene.

Evitai il bar e mi infilai nel bosco di faggi e betulle in fondo alla discesa. Camminai per un quarto d'ora, poi scelsi accuratamente un pietrone liscio e coricato, meno umido degli altri e mi sedetti. Gli alberi sopra di me avevano foglie leggere, di quel verde chiaro che c'è solo all'inizio della stagione. L'autunno mi piaceva di più, le foglie cambiavano colore e diventavano gialle, rosse o brune, ma anche la luce grigia di un giugno piovoso mi faceva sentire bene. Mia madre era capace di passare un'ora seduta in un bosco, senza muoversi né parlare, ma io non ero come lei, anche se, come mio padre, la invidiavo. Un vento leggero agitava le foglie giovani e dava un'illusione di movimento. Era tutto talmente lento e solitario che sembrava di stare in un film russo. Mi distesi sulla pietra fino ad appoggiare la nuca. Sopra di me i rami si incurvavano a formare una cupola. Come in una chiesa. Attraverso la stoffa della felpa sentivo il freddo della roccia, il gelo della terra che non si è ancora liberata dall'inverno.

Mentre gli altri sono in chiesa

Non mi mossi. Lasciai che lo sguardo si perdesse nel movimento delicato dei rami, nel cielo incolore e remoto. Sapevo che era l'ultima volta, che non avrei saputo altro di Lei.

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Esco dalla mia stanza e scendo le scaleSento i maledetti burattini cantare in coro per il loro Dio l'orizzonte è lontanissimo e meravigliosocammino veloce mi sento forterespiro aria fredda senza odore e finalmente il silenzioc'è ancora la neve e il sole è bianco dietro le nuvole

Inspiro profondamente e ascolto. Come un sogno o un ricordo. C'è del sollievo, del desiderio in Lei. É tutto più calmo, tutto finito.

Il lagoGhiaccio spezzato sottile trasparenteSotto gli abiti neri la mia pelle è rimasta chiara e morbida la stoffa mi ha protetto mi ha lasciata com'ero lontano abbaiano caniil ghiaccio si illumina è giusto e sicuro come un padrené Dio né loro mi troveranno più sarò acqua fango terra erba corvi foglie neve ghiaccio li circonderò li stringerò li assedierò e li vedrò invecchiare e morireavrò un cuore di ghiaccio e non cambierò più

Mi distesi completamente sulla roccia per sentirne il freddo sulla pelle. Rabbrividivo e sorridevo, guardavo il cielo cercando di non chiudere gli occhi neppure per un istante. Graffiavo la pietra e il muschio con la punta della dita e le annusavo. Odore di vento, di tempo. Un tuono cresceva dal profondo della terra sotto di me, la roccia vibrava. Respirava.

Scendo nel ghiaccio– troveranno i miei abiti e avranno paura –l'acqua scura raggiunge le ginocchia

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nasconde il ventrel'onda trema e ansima come un amante timidovela il seno accarezza la gola bacia la bocca e gli occhifisso il buio e la luce ritagliata nel ghiaccionel lenzuolo d'acqua sopra di meil mio nome fugge da me come vapore come respiro sono un'ombra bianca che scivola verso il fondo come il ventre di un pesce

ora sono ciò che non potrete mai più riconoscereciò che non si potrà mai più nominare

Mi aveva abbandonato. Intirizzita, stordita mi alzai dal mio letto di pietra e tornai a casa. Trovai i miei sulla porta, pronti a uscire.

– Sono sola, adesso. Se n'è andata. Mi fecero entrare e mio padre mi versò un bicchierino di grappa nel tè bollente. Non mi chiesero altro, mi diedero una coperta e accesero la stufetta elettrica.

– Riposati, adesso. Io e la mamma facciamo una partita a carte. – Si abbassò su di me. Sapeva di tabacco e di liquirizia, come sempre. – Dovevi farlo da sola, vero? Annuii.

– Capisco. Dormi, adesso.

Dormii per quindici ore e qualcosa. Ogni tanto i miei dicono di avermi chiamata per chiedermi se desideravo qualcosa, ma non desideravo nulla, a quanto pare, solo dormire.

Un mese. Tanto vicine da essere come due gocce che scivolano accanto su un vetro. Avevo avuto solo Lei e ora mi sentivo vuota, come se la testa e

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il corpo fossero pieni soltanto d'aria. Parlavo troppo forte, ridevo troppo forte, tutto di me mi sembrava eccessivo o forse nuovo. Non sapevo come giudicare il mio passato, tanto breve. Tolleravo Gianni e nulla di più. Non l'avrei definito amore neppure prima, ma ostinatamente continuavo a cercarlo e a vederlo. Mi sentivo esposta, fragile come non mi era mai accaduto prima. Evitai la cena della classe dopo la fine dell'anno scolastico: anche un gruppo di tre o quattro persone era divenuto per me una folla. Passavo molto tempo a prendere appunti disordinati nelle pagine non usate dei vecchi quaderni delle elementari. Quelle righe grandi, ordinate mi davano un senso di quieta libertà. Scrivevo di me, enumeravo tutti i piccoli fatti che ricordavo, i nomi dei compagni di scuola delle elementari e delle medie, inventariavo i miei parenti e mi ascoltavo, pronta ad afferrare anche la minima eco risvegliata da un episodio, da un nome e cognome. Mi svolgevo come una figura geometrica cercando le regole per costruirmi. Non ne trovavo e ogni giorno dovevo inventarle. Continuai per più di un mese, confusa ma non infelice.

Rividi Bruno soltanto dopo le vacanze in montagna. Ci eravamo sentiti per telefono, ma erano state conversazioni neutre, cariche di domande non fatte e risposte non date.

– Tutto bene? – Bene. Strana, penso, ma bene.

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– É finita? – Sì. Siamo separate. E non tornerà.– Mi piacerebbe sapere come fai a esserne sicura. – Scosse la

testa, ma era scaramanzia, la sua, non vera preoccupazione. – Siediti sul divano, non credo che tu abbia ancora voglia di giocare a dama. A proposito, ho pensato di venderla. Un antiquario francese mi ha telefonato, c'è un collezionista che sarebbe disposto a pagare un mare di denaro per averla. Tu cosa ne dici?

– No, tienila. Fa parte della mia eredità.Produsse uno dei suoi sorrisi diplomatici e tamburellò le dita sul bracciale della poltrona. – Ben detto. Vuoi portarla via già ora?

– No. Sta bene qui da te. – Almeno finché sarò in circolazione. Hai provato a cercare

qualche spiegazione per quello che ti è successo? – Me l'ha chiesto anche Gianni. No, non ho nessuna spiegazione.

So solo che prima c'era e ora non c'è più. Mio padre mi ha regalato un vecchio libro: "La donna dai tre volti" e mi ha scritto come dedica: "Leggilo, l'ha letto anche Alfred Hitchcock". Ma non credo pensi che sia una vera schizzo. E in quanto alle spiegazioni paranormali continuo a credere che spettri, fantasmi, possessioni eccetera siano stronzate. Strinse le labbra, coerente. – Penso anch'io che siano stupidaggini, però a te qualcosa è accaduto. Indicai il contromobile di castagno che conteneva la scacchiera. – Dev'essere colpa di Panhüntzer. E dei suoi druidi.

– Scherzi? – Certo, scherzo. Ma me lo sono chiesta. Come mi sono chiesta

se in realtà non esista nessuna spiegazione. Non so perché proprio a me è toccato rivivere una vita consumata secoli fa, ma se ci penso non so neppure perché proprio io debbo vivere questa, di vita. O interpretarla, se preferisci. Perché non posso essere troppo diversa da me, qualunque cosa significhi me, io, te. Ogni tanto le carte si rimescolano, le identità si confondono. C'è un motivo vero perché rimangano per sempre separate

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o no, in realtà non c'è nessun motivo? E come lo vogliamo chiamare, questo motivo? Dio, destino, caso, sfiga nera? Lei è morta da tanto tempo mentre io sono ben viva e il tempo adesso ci separa di nuovo come un braccio di mare. Ma come io sono stata lei, lei forse è stata me e non posso sapere chi di noi è penetrata per prima nei sogni dell'altra. Se il tempo è un oceano non esistono né un prima né un dopo ma solo un qui ed un là, veri nello stesso momento.

Se Bruno era il tipo da profondi interrogativi filosofici non l'aveva mai dato a vedere. Ma anch'io, in fondo, non ero mai parsa troppo appassionata dal tema dell'identità. Comunque resse bene e non si nascose dietro il fumo della pipa.

– Ho capito, credo. Ma il passato è irraggiungibile e tu sei anche ciò che ognuno di noi conosce di te.

– Già, è vero. Ma non mi basta, non basta a nessuno. Nessuno è fatto di riflessi, nessuno riesce a vivere soltanto di ciò che gli altri dicono di lui. Io no, e neppure lei. Vagava per la sua camera, per molte ore del giorno e della notte. Cercava di non pensare, stava seduta oscillando il capo e ripeteva le stesse poche parole fino a quando la testa non le girava e la mente non diveniva asciutta. Ma i ricordi, la paura trovavano sempre la strada per ritornare da lei. Poco alla volta il suo destino è diventato nulla, un punto. Il suo unico potere stava nella paura superstiziosa che riusciva a incutere negli altri. Allora rideva, rideva quando i servi le portavano da mangiare e fuggivano e rideva quando qualcuno dei suoi parenti incontrandola cercava di evitarla o si faceva il segno della croce. Le risuonavano nella testa, quelle risate, come i conati di vomito di chi non ha più nulla da vomitare. Vivere era addormentarsi sperando di non svegliarsi più. – Sentivo su di me lo sguardo di Bruno, intenso come un raggio di sole. Ma non riuscivo a fermarmi. – Lei era un'assassina, una creatura disperata e pazza, ma ho vissuto con Lei, o di Lei. Ho interrotto la sua solitudine e Lei mi ha regalato la sua. Sono stata la sua complice e la sua unica compagna. Non preoccuparti, lo so bene: mi passerà. Diventerò finalmente adulta e allora tutto mi

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sembrerà piccolo e opaco. Tutto, piccolo e opaco. E sarà in quel momento, non ora, che sarò davvero diventata un'Altra.