La Crisi. Puo La Politica Salvare Il Mon - Alberto Alesina Francesco Giavazzi

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Alberto Alesina Francesco Gavazzi

LA CRISIPu la politica salvare il mondo?

il Saggiatore

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Si ringraziano Dorian Carloni e Giampaolo Lecce per l'eccellente aiuto nel reperire i dati.

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Sommario

Introduzione Problemi difficili non hanno soluzioni facili 1. La crisi finanziaria: che cosa successo 2. A cosa serve la finanza 3. I vantaggi della globalizzazione 4. L'euro non il diavolo 5. Non ci sono miracoli 6. Il mondo salvato dalla politica?

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Introduzione Problemi difficili non hanno soluzioni facili

Lo ripeteva spesso Rudiger Dornbusch, uno dei pi grandi economisti del dopoguerra, prematuramente scomparso: i problemi difficili hanno soluzioni facili. Peccato siano quasi sempre sbagliate. Lo stiamo sperimentando oggi. Di fronte alla grave crisi finanziaria che ha travolto l'America e poi l'Europa, si sono subito fatte largo analisi e soluzioni semplicistiche: il capitalismo finito, lo stato deve tornare a guidare l'economia, la finanza va imbrigliata, la globalizzazione frenata. In altre parole, rimettiamo le cose in mano ai politici e affidiamoci alla loro benevolenza, onest e chiaroveggenza. Sembra all'improvviso irrilevante che in molti paesi - e certamente in Italia - i politici spesso rispondano a pressioni di specifiche lobby e a interessi economici particolari, ragionino sul breve periodo a scapito delle future generazioni, in qualche caso siano perfino corrotti, che il settore pubblico sia spesso inefficiente e sperperi il denaro dei contribuenti, che pi

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stato significhi anche pi tasse. Restituiamo allo stato un ruolo egemone perch il capitalismo finito. Ecco una soluzione semplice, peccato che, appunto, sia sbagliata. Una delle pochissime modernizzazioni avvenute in Italia dal dopoguerra a oggi risale agli anni novanta, e consiste nell'aver reso l'economia autonoma dalla politica. Dopo decenni di intervento pubblico nell'economia, oggi Iri, Efim, casse di risparmio e il Ministero delle partecipazioni statali ci sembrano istituzioni di un altro secolo. Dall'inizio degli anni novanta imprese e banche sono state sottratte all'influenza diretta della politica e lo stato ha affidato la regolazione dei mercati ad autorit indipendenti, cos come avviene in ogni economia di mercato: Antitrust, Banca d'Italia, Consob, Autorit per l'energia. Oggi l'autonomia dell'economia dalla politica di nuovo in pericolo. La crisi finanziaria attuale pi grave del previsto. Sui rischi del mercato immobiliare americano moltissimi economisti avevano lanciato campanelli d'allarme gi nel 2005-2006; per rendersene conto basta sfogliare le pagine dell'Economist o del Financial Times di quel periodo. Da tempo economisti e organizzazioni internazionali come il Fondo monetario internazionale e la Banca dei regolamenti di Basilea - avevano individuato nello scarsissimo risparmio delle famiglie americane e nell'accumulo di risparmio in Cina e in altri paesi asiatici un potenziale pericolo per il sistema finanziario globale. Ogni anno infatti una quantit enorme5

Introduzione

di risparmio asiatico doveva essere investita negli Stati Uniti: il 6 per cento del reddito totale americano. E ci si interrogava sulla possibilit che questi trasferimenti potessero continuare in modo ordinato. Non certo la prima volta nella storia che alcuni paesi risparmino poco, altri molto, ovvero che il risparmio si concentri in una parte del mondo, gli investimenti in un'altra. Come vedremo, risparmio e investimenti sono parte del meccanismo di crescita: se tutte le economie fossero chiuse, il risparmio non potrebbe dirigersi verso le possibilit di investimento pi produttive. Quando risparmio e investimento sono distanti, il sistema finanziario assume un ruolo di fondamentale importanza: deve raccogliere risparmio in un paese e utilizzarlo per finanziare investimenti in un altro. In altri periodi storici - negli anni cinquanta tra Europa e Stati Uniti, negli anni ottanta tra Stati Uniti e Giappone -un grande divario a livello internazionale tra risparmi e investimenti non ha creato problemi; oggi invece, a causa di una serie di fattori concomitanti che analizzeremo, il sistema finanziario non riuscito a riciclare il risparmio in modo ordinato. Di fronte a quello che succede, la domanda che assilla l'opinione pubblica : che cosa accadr in Italia e nel mondo? Allo stato attuale le risposte purtroppo possono muoversi solo nel campo del probabile, perch impossibile prevedere le evoluzioni di una situazione tanto complessa. E probabile che questa crisi venga superata a prezzo di una recessione americana, forse mondiale, al massimo di qualche punto di Pil; di una ristrutturazione (non eliminazione) della finanza; di un aumento del debito pubblico in Europa e negli Stati Uniti. E anche molto probabile che nel giro di qualche anno l'economia americana riprender a crescere a gonfie vele grazie a un sistema finanziario meglio organizzato, dopo aver perso in tutto tre o quattro punti di Pil. Se si pensa che dai

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primi anni ottanta l'economia americana cresciuta di quasi il 3,5 per cento all'anno, non poi un dramma. Tuttavia un rischio c' e consiste nel fatto che errori di politica economica trasformino questa crisi in qualcosa di paragonabile a quella del 1929. Come vedremo, un rischio remoto ma bisogna mantenere alta la guardia perch la retorica statalista che circola di questi tempi e la difesa a oltranza della superiorit della politica ricordano molto da vicino le logiche che negli anni trenta portarono il presidente Herbert Hoover a far degenerare una crisi finanziaria nella Grande depressione. La crisi del '29 spesso invocata oggi come esempio dei danni che il libero mercato pu arrecare all'economia reale. Ma in realt, oggi come allora, vero il contrario, e cio che sono gli errori della politica a portare al collasso. Oggi il nazionalismo economico sembra tornato di moda; sono rinate tendenze protezionistiche, come spesso accade nei periodi difficili. E una concezione che va a colpire le funzioni vitali dei mercati finanziari, ignorando le leggi dell'economia. Sono soluzioni facili appunto, alcune populiste e in gran parte sbagliate. L'obiezione che sorge spontanea che persino gli Stati Uniti, patria del libero mercato, stanno nazionalizzando e salvando con denaro pubblico banche e istituti finanziari; in parte cos ma, nonostante la retorica un po' grossolana utilizzata da Nicolas Sarkozy alle Nazioni Unite nel settembre 2008, questo non significa che stiamo assistendo alla fine del capitalismo. Mentre scriviamo (met ottobre 2008) non ancora del tutto chiara la natura complessiva dell'intervento pubblico americano; per ora basti dire che sar temporaneo. Lo stato inizialmente si indebiter per acquistare azioni di alcune banche in difficolt e titoli svalutati derivanti dal mercato immobiliare. Superata la crisi li

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Introduzione

rivender: il contribuente potrebbe anche guadagnarci, come avvenne in Svezia negli anni novanta in seguito a un'operazione analoga. Si tratter di un intervento temporaneo dello stato, che in un certo senso diverr l'assicuratore del sistema. Non c' dubbio che se avessimo potuto fare a meno di questo intervento massiccio, ne avremmo giovato tutti. Lo stato interviene anche perch in qualche misura corresponsabile del problema. Infatti, buona parte della responsabilit di questa crisi ricade sul settore pubblico, su regolamentazioni errate che hanno favorito eccessivamente i prestiti edilizi, per realizzare forse il pi ambizioso dei sogni americani: una casa di propriet per tutti. Un obiettivo politico, per sventolare in campagna elettorale la percentuale di americani proprietari di case. La crisi americana dovuta principalmente alla commistione tra mercato e stato, tra regolatori e regolati. Scagliarsi contro il mercato e il capitalismo inutile, oltre che pericoloso. Crisi altrettanto gravi si sono verificate anche in paesi che non si possono certo definire capitalisti selvaggi, come la Svezia, che all'inizio degli anni novanta vide fallire tutte le sue banche. Un'osservazione sull'Europa. Spesso gli europei si vantano della loro governance che giudicano migliore di quella americana. Si compiacciono della loro economia sociale di mercato (che cosa si intenda con questa espressione non ci mai stato spiegato) che giudicano superiore al capitalismo di stato. Pu essere. Questa governance sar anche migliore, ma non ha protetto l'Europa dalla crisi.

L'Italia e la crisi La crisi internazionale si somma alle difficolt specifiche del nostro paese. L'economia italiana soffre infatti di due malattie concomitanti ma indipendenti: una crescita8

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inferiore alla media europea che dura ormai da pi di vent'anni e un periodo di difficolt, ciclico, dovuto alla crisi finanziaria internazionale e al prezzo di alcune materie prime. La seconda una malattia comune a molti paesi Ocse; la prima un malessere tutto italiano, quindi le sue cause vanno ricercate solo ed esclusivamente all'interno del nostro paese. E importante sottolinearlo, perch nel dibattito economico-politico contemporaneo spesso le due malattie si confondono, offuscando sia la diagnosi della malattia sia la cura. Il perch chiaro: comodo per i politici incolpare speculatori americani e produttori cinesi per nascondere le mancanze della politica economica italiana. Da tempo, la vulgata che va per la maggiore questa: l'Italia in crisi a causa della sua esposizione al processo di globalizzazione dell'economia mondiale e, in particolare, per l'emergere di nuove potenze industriali come Cina e India. Inoltre, la crescente sofisticazione dei mercati finanziari ha causato grande instabilit e ha contribuito a creare le condizioni per una crisi grave. L'adozione dell'euro non ha aiutato l'economia italiana, anzi, ha complicato e ostacolato ulteriormente le esportazioni. La Banca centrale europea, ossessionata dal controllo dell'inflazione, ha frenato la crescita dei paesi europei. Di fronte a questo stato di cose la risposta difensiva. Bisogna cio difendersi dal mercato, restituendo allo stato la funzione di motore dell'economia. Il liberismo economico fondato sulla centralit del mercato ha fallito. Pertanto, le ricette per uscire dalla crisi sono il protezionismo commerciale e il nazionalismo economico. Questo significa difendere le imprese nazionali dalla competizione internazionale anche a spese dei consumatori e dei contribuenti, e tener fuori, almeno temporaneamente, i paesi emergenti dal processo di globalizzazione. Significa la fine delle privatizzazioni; di pi, ristatalizzazione. Lo stato deve

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Introduzione

far valere la sua forza politica, anche militare se necessario, per imporre i propri interessi economici. Globalizzazione, mercati finanziari, speculatori, privatizzazioni, l'euro e la Bce sarebbero i diavoli responsabili della crisi. Noi crediamo che siano finti diavoli, che questa analisi sia profondamente errata e che possa avere conseguenze molto pericolose per l'Italia. Se si procedesse sulla scorta di queste convinzioni, la situazione dell'economia italiana peggiorerebbe e se le si applicasse globalmente, nel mondo si scatenerebbero guerre commerciali; e, come noto, da l alle guerre tout court il passo breve (per fortuna all'infuori dell'Italia e della Francia non sono in molti a pensarla cos). L'Italia ormai da anni il fanalino di coda dei paesi Ocse sia nei momenti di recessione globale che in quelli di boom. Ha quindi bisogno di una cura particolare per le sue specifiche difficolt, senza scorciatoie n miracoli. Innanzitutto bisogna lavorare di pi, ma difficile per un politico sostenerlo senza diventare immediatamente impopolare; meglio incolpare la Cina. La verit che bisogna lavorare meglio, che pi persone lavorino e che aumenti la produttivit. In secondo luogo non vanno adottate misure protezionistiche: il protezionismo si ritorcerebbe contro le esportazioni, che sono un traino fondamentale della nostra economia. In terzo luogo il ritorno dello stato come imprenditore non farebbe certo aumentare la produttivit. Non smpre vero, ma in linea generale il settore pubblico meno efficiente di quello privato. Il motivo semplice: se l'azienda appartiene allo stato, la certezza che eventuali perdite vengano assorbite dai contribuenti d forza ai sindacati e non incentiva adeguatamente i manager a massimizzare l'efficienza e la produttivit. E questo un mix esplosivo. E ci che ha fatto crollare l'economia pianificata sovietica e da noi ha portato al fallimento dell'Iri.

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Il capitalismo di stato in Italia (e nel resto d'Europa) ha fatto il suo corso. Ha funzionato relativamente bene negli anni cinquanta e sessanta, in un periodo di ricostruzione dopo la devastazione bellica in cui le grandi imprese operanti in settori tradizionali si limitavano ad adottare tecnologie importate dall'estero, soprattutto dagli Usa. E in cui concorrenza e innovazione non erano cruciali come lo sono ora. Ma dagli anni ottanta in poi l'Italia e l'Europa sono cresciute solo innovando, espandendo il settore dei servizi e dell'alta tecnologia (e il migliore made in Italy certamente appartiene all'alta tecnologia). Le grandi industrie pesanti pubbliche (per fare un esempio) non servono pi. Non si pu tornare indietro: in tutti i paesi Ocse dai due terzi ai tre quarti dell'economia concentrato nel settore dei servizi. Rispetto agli altri paesi l'Italia fa fatica ad abbracciare questa trasformazione e ci ha contribuito alla scarsa crescita del nostro paese negli ultimi due decenni. Le economie industrializzate saranno sempre pi paesi come Messico, Cina, India, Cile; un dato di fatto che non si pu ignorare, piaccia o meno. Stando alla concezione statalista, l'Italia dovrebbe tornare a poggiare sull'industria, proteggendosi dalla concorrenza di quei paesi. E impossibile, una battaglia donchisciottesca contro una realt che non si pu cambiare e ricorda un po' la diatriba tra settore agricolo e industriale dopo la Rivoluzione industriale in Gran Bretagna. A quel tempo era in atto un grande processo di spostamento del baricentro economico verso l'industria pesante. Un secolo dopo, chi aveva sostenuto la supremazia dell'agricoltura tradizionale aveva perso il treno della storia; ben prima di cent'anni succeder lo stesso a chi oggi sostiene la supremazia dell'industria tradizionale e si scaglia contro servizi e finanza. La superiorit della politica sull'economia un refrain molto in voga oggi in Italia. L'economia deve sottostare

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Introduzione

alla politica e le scelte economiche si devono conformare alle esigenze politiche. Cosa significhi questo non ben chiaro. E ovvio che spetta ai rappresentanti politici democraticamente eletti prendere le decisioni per il paese. Ma in realt con l'espressione superiorit della politica spesso si intende il ritorno dello stato al centro del sistema economico; e questo un punto nodale su cui non siamo affatto d'accordo, come avremo modo di spiegare. La politica ha il diritto e il dovere di fissare le regole, ma come ogni croupier imparziale, non deve mai sedersi al tavolo da gioco. Un altro aspetto di questo nuovo statalismo, basato sulla superiorit della politica, la visione secondo cui i rapporti di forza tra paesi detterebbero la supremazia economico-politica in un gioco in gran parte a somma zero: la ricchezza di un paese a scapito di quella di un altro. Paesi Ocse contro Cina, paesi cristiani contro paesi di religione diversa, l'italianit di certe aziende contro acquisizioni internazionali. Che cosa c' di nuovo in questo approccio? Nulla; tutto gi visto. Nei periodi di crisi tipico ricorrere al desiderio di protezione statale, di fuga dal mercato. La domanda di protezionismo commerciale aumenta sempre durante le recessioni, e le rende solo pi gravi. L'economia di mercato non un gioco a somma zero. L'idea del commercio come lotta tra nazioni per accaparrarsi le risorse disponibili tutt'altro che nuova. E un'idea vecchissima, che risale al mercantilismo pre Adam Smith secondo cui commercio significava soggiogare con la forza il concorrente e conquistare una fetta della ricchezza del pianeta. Una visione anacronistica di questo tipo non pu che portare a scelte economiche errate e a un approccio bellicoso dei rapporti internazionali, anche tra potenze che dovrebbero essere amiche, con conseguenze potenzialmente drammatiche. Non a caso la risposta protezionistica alla crisi del 1929 sfoci nella Seconda guerra mondiale. 12

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E innegabile che a partire dal secondo dopoguerra il clima internazionale sia particolarmente teso. Gli esempi sono numerosi: negli anni cinquanta abbiamo assistito alla guerra di Corea, alla guerra fredda, alla crisi di Suez nel 1956. Poi ci sono state le rivolte indipendentiste dei paesi africani, la guerra d'Algeria, la guerra del Vietnam, la crisi missilistica di Cuba, la Cina comunista in conflitto con la Russia sovietica. Nonostante ci, il processo di globalizzazione continuato, anzi, ha aiutato a trasformare la Cina in un paese a tutti gli effetti ex comunista e meno minaccioso perch troppo integrato economicamente con il resto del mondo; ha contribuito a far crollare il blocco sovietico e a spostare paesi del centro Europa verso l'Occidente, attirati proprio dal libero scambio e dal mercato. Commercio e globalizzazione contribuiscono al mantenimento di relazioni pacifiche tra i paesi. La centralit del mercato per non significa che lo stato non debba giocare alcun ruolo nell'economia. Del resto, il capitalismo europeo di oggi non certo quello spietato della Londra della Rivoluzione industriale. Oggi lo stato ha un ruolo molto esteso. La pressione fiscale in Europa sfiora il 50 per cento del Pil e non crediamo ci sia bisogno di aumentarla. E difficile far crescere il ruolo dello stato in economia senza far crescere parallelamente le sue sostanze, ovvero senza aumentare le imposte. Lo stato ha compiti e doveri numerosi e importanti. La domanda di sicurezza economica sacrosanta ed dovere dello stato fornirla con vari meccanismi di assicurazione sociale. E dovere dello stato evitare che le fluttuazioni dell'economia di mercato si trasformino in tragedie private di chi perde il lavoro o vede fallire la propria impresa. E dovere dello stato regolamentare l'immigrazione cos che il mercato del lavoro possa assorbire in modo adeguato chi arriva dall'estero. dovere dello stato combattere l'immigrazione di 13

Introduzione

clandestini e criminali. E dovere dello stato cercare il consenso intorno ad alcune misure vantaggiose per la collettivit. E dovere dello stato aiutare entro certi limiti le categorie che nel breve periodo siano svantaggiate da riforme che aumentino il benessere generale. E dovere dello stato accertarsi che il mercato non crei eccessiva disuguaglianza e correggerla con l'imposizione fiscale, cercando di minimizzare le distorsioni fiscali (vale a dire: si tolga pure ai ricchi per dare ai poveri, ma con un sistema fiscale che non sia punitivo per chi produce ricchezza). E dovere dello stato garantire che il mercato funzioni, che le imprese non abusino della loro posizione nel mercato per tenere lontani concorrenti o per colludere a danno dei consumatori. E dovere dello stato fornire un'educazione scolastica adeguata a chi non se la pu permettere. E dovere dello stato evitare che una crisi finanziaria si trasformi in una profonda recessione. Molti economisti hanno sicuramente perso di vista i doveri dello stato e sono rimasti intrappolati in una visione troppo semplicistica dell'economia di mercato. Non c' dubbio che qualche eccesso della scuola di Chicago abbia sottovalutato il ruolo dell'intervento pubblico. Sicuramente molti economisti hanno dimenticato come la politica economica sia impregnata di politica tout court e hanno dimenticato che dovere dello stato ridurre povert e disuguaglianza. Ma non si pu rifiutare in toto l'economia liberale di mercato

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per correggere qualche eccesso di zelo e rifugiarsi nello stato padre padrone. Vi sono almeno due declinazioni differenti dell'idea di stato. Una quella di uno stato che parte integrante del sistema produttivo, dell'offerta di beni e servizi, uno stato cio che agisce estensivamente nell'economia di mercato, nazionalizzando e operando come monopolista in vari settori, come nel caso del trasporto aereo e ferroviario, o in certi rami dell'energia. L'altra quella liberale e socialdemocratica di uno stato che rimane il pi possibile fuori, ma protegge i deboli e regola con mano leggera (con un colpo di pollice, avrebbe detto Talleyrand) i mercati per garantirne la concorrenza, la trasparenza e le concentrazioni monopolistiche che danneggiano il consumatore. Questo in definitiva ci di cui si discute oggi: il ruolo dello stato. C' chi vuole tornare al capitalismo di stato e chi crede che voltarsi indietro non sia n possibile n, tantomeno, auspicabile.

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1. La crisi finanziaria: che cosa successo

Di fronte alla crisi finanziaria che ha sconvolto gli Stati Uniti e poi si riversata sull'Europa, i messaggi che vengono trasmessi ai cittadini da politici e organi di stampa sono sostanzialmente due: stiamo assistendo a un altro 1929; e questa crisi segna la fine del capitalismo fondato su liberismo e concorrenza. Entrambi i messaggi sono sbagliati.

Un altro 1929? Innanzitutto errato paragonare la situazione attuale a quella degli anni trenta. La crisi del 1929 si tramut in una tremenda recessione dell'economia reale per una serie di clamorosi errori di politica economica: nulla lascia pensare che simili errori vengano ripetuti oggi (o almeno ce lo auguriamo). La crisi finanziaria attuale avr sicuramente conseguenze reali per l'economia, ma nulla di paragonabile a quello che accadde dopo il 1929, quando il Pil americano scese del 30 per cento e un cittadino su quattro perse il posto di lavoro. Anche le previsioni pi pessimistiche sull'economia americana parlano di qualche trimestre di crescita negativa dell'I o 2 per cento. L'ordine di grandezza totalmente diverso da quello del 1929.

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Molti furono gli errori di politica economica che seguirono il crac del 1929, da cui bisogna guardarsi anche oggi. Il primo, e pi direttamente collegato al sistema finanziario, fu compiuto dalla Federal Reserve che, anzich fornire liquidit alle banche, la tolse. La Fed, relativamente giovane e inesperta (era stata creata nel 1913, solo quindici anni prima della crisi), scambi la causa con l'effetto: poich vedeva che le banche avevano smesso di erogare prestiti, pens che non avessero pi bisogno di liquidit. Un grave errore di teoria economica che la Fed di oggi e la Bce (nonostante la sua altrettanto giovane et) sono ben lontane dal ripetere. Oggi le banche centrali hanno fornito abbondante liquidit alle banche perch potessero continuare le loro operazioni creditizie: questo non ha risolto la crisi, ma ha certamente evitato il collasso immediato del sistema del credito. Il secondo fu un clamoroso errore dei politici: nel 1930 il presidente Herbert Hoover non pose il veto alla legge proposta dal deputato Willis C. Hawley e dal senatore Reed Smoot che, nel vano tentativo di proteggere i produttori americani, introduceva dazi sulle importazioni e scaten cos una guerra commerciale tra gli Usa e il resto del mondo, soprattutto l'Europa. Hoover ignor una raccolta di firme di ben 1.028 economisti, compresi tutti i pi famosi dell'epoca, che lo scongiuravano di impedire un ritorno al protezionismo. Industriali come Henry Ford e banchieri come Thomas Lamont, capo della J.P. Morgan, lo pregarono di mettere il veto, ma la politica prevalse sull'economia. Il risultato fu il collasso delle esportazioni americane con pesanti conseguenze sulla crescita e sull'occupazione. La guerra commerciale estese la crisi al resto del mondo, in particolare all'Europa, che adott politiche protezionistiche in risposta a quelle statunitensi. Proprio per questo adesso pu essere molto pericoloso appellarsi al nazionalismo economico, ovvero al 17

1. La crisi finanziaria: che cosa successo

l'idea che in un momento di crisi lo stato debba proteggere la propriet nazionale delle aziende indipendentemente dalla loro efficienza: meglio un'azienda di propriet italiana anche se inefficiente che un'azienda italiana posseduta da uno straniero ma produttiva. Un errore gravissimo, sia politico che economico. Hoover commise un altro errore: adott una strategia punitiva contro gli speculatori di Wall Street. Introdusse regole pesanti che limitavano le operazioni finanziarie, con il risultato di ostacolare, invece che facilitare, la stabilizzazione dei mercati finanziari. Anche oggi si respira un'aria simile. Alle critiche - pi che legittime - verso chi ha contribuito alla crisi dei subprime, si sommano slogan un po' superficiali su speculatori e regolamentazione dei mercati finanziari tout court. Anzich sfruttare la crisi come un'occasione per capire come migliorare il funzionamento dei mercati, la si utilizza come scusa per aggredire l'economia di mercato. Hoover intervenne poi nelle contrattazioni salariali, impedendo alle imprese di tagliare le retribuzioni. In un periodo di recessione e di deflazione, cio di diminuzione dei prezzi, molte imprese non riuscirono a mantenere costanti i salari e fallirono. L'interventismo nel mercato del lavoro fin per rivelarsi controproducente: invece di mantenere il potere d'acquisto dei salari e cos sostenere la domanda, la ridusse, aumentando disoccupazione e miseria. Infine Hoover non cap che in periodi di recessione necessario consentire che il deficit pubblico salga: cerc al contrario di evitarlo, aumentando in modo consistente le imposte e dando cos un altro duro colpo all'economia. I paesi che in passato sono stati pi virtuosi oggi hanno lo spazio per far salire il deficit e dovrebbero consentirlo, come stanno facendo gli Stati Uniti; quelli come l'Italia, che hanno gi un debito elevato, sono pi in difficolt. Una cosa comunque

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certa: non il momento di alzare le tasse; il momento di ridurle controllando la spesa. La crisi del 1929 ci insegna che furono politiche economiche errate a trasformare una crisi finanziaria in una profonda depressione. Oggi si cita spesso Franklin Delano Roosevelt, il presidente che fece uscire l'America dalla Grande depressione grazie al programma di intervento statale noto come New Deal. A questo proposito vanno per chiariti due punti. Primo, senza gli errori interventisti di Hoover e il suo protezionismo, la Grande depressione non ci sarebbe stata. Secondo, le dimensioni del settore pubblico americano ai tempi di Roosevelt erano minime rispetto a quelle dello stato sociale odierno. Prima del New Deal non esisteva sostanzialmente alcun sistema di sicurezza sociale e, al di fuori del settore militare, in America lo stato era pressoch inesistente. Oggi siamo in una situazione ben diversa, lo stato ha gi un ruolo rilevante. Invocare un maggior intervento statale rifacendosi a Roosevelt denota scarsa conoscenza della storia.

I consumi degli americani pagati dai cinesi Da almeno quindici anni gli Stati Uniti spendono pi di quanto non producano. Questo possibile perch altri paesi, in primis la Cina, hanno un surplus di risparmio. Non una novit e non va cercata qui la radice della crisi. In qualunque paese del mondo vi sono debitori e creditori. C' chi spende pi di quanto guadagna (almeno per un po' di tempo) e chi fa l'opposto. In un'economia chiusa tutti questi flussi si compensano e il paese nel suo complesso in pareggio con il resto del mondo. Anche in un'economia chiusa ovviamente il sistema finanziario al centro di questi trasferimenti di risparmio, e collega i debitori e i creditori. A maggior

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1. La crisi finanziaria: che cosa successo

ragione svolge questa funzione quando le economie non sono chiuse: alcuni paesi spendono pi di quanto producono e lo fanno indebitandosi nei confronti di altri paesi che invece risparmiano. Le nazioni che si indebitano sono quelle che riescono a convincere le altre a investire nei loro progetti con la , promessa che ripagheranno i debiti. Trasferire risparmio da un paese all'altro sempre stato uno dei motori della crescita perch fa s che il risparmio non venga sprecato in progetti poco redditizi, ma finanzi quelli pi interessanti che non sempre sono localizzati l dove il risparmio si crea. E esattamente ci che accaduto negli anni recenti tra Stati Uniti e Cina. I cinesi, grazie alle esportazioni che crescevano a ritmo vertiginoso, accumulavano risparmi e li investivano in America e in parte in Europa. Questo accaduto perch non avevano sufficienti opportunit di investimento a casa loro: in Cina, cio, nonostante una crescita vorticosa, non vi erano occasioni di investimento sufficientemente ampie e interessanti da esaurire il risparmio delle famiglie cinesi. Non c' nulla di male nel fatto che alcuni paesi si indebitino con altri. Come abbiamo gi accennato, la possibilit di sganciare il risparmio dall'investimento uno dei motori della crescita. Ovviamente nessuna persona e nessun paese si pu indebitare all'infinto. Anche un paese che ha grandi possibilit di investimento prima o poi esaurisce la propria scorta. Prima o poi una persona, cos come un paese, deve spendere meno e ridurre i propri debiti. Ecco perch dopo periodi di forte indebitamento, un paese deve ridurre i consumi, rallentare l'investimento e la crescita. In questi frangenti una svalutazione della moneta, facilitando le esportazioni, aiuta a ridurre l'accumulo di debiti esteri. Succede da secoli nella storia di molti paesi. Accadde negli Stati Uniti negli anni cinquanta e poi ancora negli

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anni ottanta. In quel decennio l'America si indebit, soprattutto nei confronti di Giappone e Germania. I deficit commerciali americani erano un po' pi bassi di quelli degli anni pi recenti in rapporto al Pil, ma l'ordine di grandezza era simile. In quel caso in America a indebitarsi non furono tanto le famiglie - che comunque non hanno mai risparmiato molto, almeno da qualche decennio in qua - quanto soprattutto il settore pubblico. Erano gli anni in cui la spesa militare cresceva rapidamente e in cui l'America vinse definitivamente la Guerra fredda. I meno giovani ricorderanno che in quel periodo sembrava che i giapponesi volessero comprare tutta Manhattan. Erano anche i tempi del grande successo delle esportazioni tedesche. Come and a finire? All'inizio degli anni novanta l'economia americana rallent un po', il dollaro si svalut e gli squilibri si aggiustarono. Negli ultimi anni stavamo assistendo a un aggiustamento simile. Il dollaro aveva cominciato a svalutarsi dalla primavera del 2001, il deficit della bilancia commerciale americana si stava riducendo, i cinesi avevano iniziato a consumare un po' di pi. Tutto pareva funzionare come da libro di testo, l'eccesso di risparmio cinese si riduceva e diminuiva anche la forbice tra risparmi e spese negli Stati Uniti. Quindi, visto che la separazione tra paesi risparmiatori e paesi investitori non affatto nuova, non pu essere da sola la causa della crisi. Qualcos'altro deve essere andato storto, qualcosa si inceppato. Quello che non ha funzionato, diversamente dal passato, il mercato finanziario che a un certo punto non pi riuscito a riciclare il risparmio in modo ordinato. O meglio, lo ha fatto, ma gettando le basi dei disastri finanziari che sono scoppiati in questi due anni. Per capirlo occorre partire dalle banche e vedere come sono cambiate le banche americane negli ultimi trent'anni.

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1. La crisi finanziaria: che cosa successo

La trasformazione delle banche americane Cerchiamo innanzitutto di capire come siamo arrivati alla crisi dei subprime. Dall'inizio della crisi finanziaria fino al settembre 2008, le perdite subite dalle banche americane ammontano a circa 600 miliardi di dollari, il che equivale a una caduta del 4 per cento dei prezzi delle azioni quotate a Wall Street. Una caduta della Borsa del 4 per cento non particolarmente grave n rara: nel famoso luned nero, il 19 ottobre 1987, Wall Street cadde del 20,4 per cento, ma il crollo non ebbe praticamente alcun effetto sull'economia americana. Anzi, l'anno successivo, la crescita del reddito acceler, avvicinandosi al 4 per cento, un punto in pi dell'anno precedente. Perch allora perdite tutto sommato modeste hanno innescato una crisi tanto grave? Per capire che cosa abbia amplificato uno shock di proporzioni contenute occorre fare un passo indietro. Fino agli anni settanta le banche americane avevano vita facile. Le banche di investimento detenevano il monopolio dell'acquisto e della vendita di titoli: commissioni fisse, nessuna concorrenza. Le banche commerciali non potevano muoversi oltre i confini dello stato, alcune addirittura non potevano aprire pi di uno sportello, quindi anche per loro la concorrenza era scarsa: raccoglievano i depositi dei clienti e facevano prestiti alle famiglie e alle imprese dello stato. A pagare evidentemente erano i consumatori, famiglie e imprese: l'assenza di concorrenza rendeva i servizi delle banche molto costosi. Le banche erano anche fragili non solo a causa della loro dimensione lillipuziana (tranne qualcuna di New York): non potendo espandersi al di l di un singolo stato, erano particolarmente esposte al rischio di eventuali shock negativi nella regione in cui operavano.

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Per esempio, quando a met anni ottanta il prezzo del petrolio croll, in Texas - uno stato la cui economia vive soprattutto dell'industria petrolifera - ci fu una recessione. Poich le banche texane facevano prestiti solo a clienti texani, quando questi si trovarono in difficolt e cominciarono a non restituire i prestiti, tutte le casse di risparmio dello stato fallirono. Negli anni ottanta e novanta il mercato finanziario fu aperto: l'abrogazione del Glass-Steagall Act nel 1999 fece definitivamente cadere il divieto di spingersi oltre i confini dello stato e venne meno la separazione fra banche commerciali e banche di investimento. L'apertura del mercato fu in parte una scelta politica dell'amministrazione Reagan, in parte l'inevitabile risposta ai progressi della tecnologia. Innanzitutto la riduzione dei costi di comunicazione e la loro crescente rapidit consentiva alle banche di aggirare le barriere geografiche. Inoltre lo sviluppo di nuovi strumenti finanziari consentiva loro di diversificare il rischio senza bisogno di espandersi al di l della propria regione. La liberalizzazione ebbe diversi effetti positivi. Il mercato si concentr: molte banche minuscole scomparvero e vennero acquistate da banche che ora potevano espandersi oltre il loro stato. Pi grandi e meno esposte ai rischi li una particolare regione, le banche divennero presto pi stabili. La liberalizzazione e la tecnologia, consentendo loro di diversificare il rischio, resero pi solido, non pi fragile, il mercato finanziario americano. Il risultato fu un'accelerazione della crescita, e questo avvenne per due motivi. Innanzitutto la frequenza e l'entit delle fluttuazioni dell'economia si attenuarono. Dagli anni cinquanta fino alla met degli anni ottanta ogni quattro o cinque anni si assisteva a una recessione in cui il Pil americano scendeva tra l'I e il 2 per cento in un anno. Allora sembrava normale;

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1. La crisi finanziaria: che cosa successo

oggi una recessione del genere sarebbe il segno di una crisi profonda. Studi sull'evoluzione del ciclo economico americano mostrano che questa maggior stabilit anche il risultato di un sistema finanziario che funziona meglio. Inoltre la liberalizzazione dei mercati finanziari uno dei fattori che spiega l'aumento della produttivit negli Stati Uniti a cominciare dagli anni novanta. Per esempio, essa consent a investitori audaci (barbari li definirono Bryan Burrough e John Helyar in I barbari alle porte, Sperling & Kupfer 1991) di comprare aziende a debito, smontarle come i pezzi di un meccano e poi rivenderle lasciando che il mercato le rimontasse in modo pi efficiente. Senza i leveraged buyouts degli anni ottanta ovvero operazioni tramite le quali un imprenditore si indebita per acquistare un'azienda - i guadagni straordinari di produttivit degli anni novanta non si sarebbero mai realizzati: tra i due decenni la crescita negli Stati Uniti acceler di un punto, dal 3 al 4 per cento, mentre l'Europa continentale rallentava dal 2,5 al 2,2 per cento. Si trasformarono anche le banche di investimento: perduto il monopolio sulla compravendita di titoli e la comoda rendita delle commissioni fisse, dovettero inventarsi mestieri nuovi, come finanziare le aziende che sfruttavano internet. Fenomeni come Google o Yahoo difficilmente sarebbero nati senza le banche di investimento e i venture capitalists, che scommisero su queste aziende quando ancora non facevano alcun profitto. Banche fragili corrotte dalla politica Ci che ha determinato la crisi del 2008 non stata la liberalizzazione del mercato, n la tecnologia, ma una regolamentazione assente o sbagliata. Le regole, anzi che essere studiate per rendere pi stabili i mercati, a un certo punto sono passate in mano a politici finanziati, e

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quindi influenzati, dalla lobby dell'industria finanziaria. E la Sec (Securities and Exchange Commission), l'agenzia alla quale il Congresso aveva assegnato la responsabilit di vigilare sul mercato - una sorta di Consob americana - non vigil. Tutti i settori industriali fanno pressioni sui politici per ottenere normative favorevoli, non vi nulla di nuovo o di particolare. Lo fa anche l'industria finanziaria, ma data la sua dimensione e il suo impatto sull'economia, nel suo caso le relazioni fra politici e regolatori possono avere effetti dirompenti sull'intero sistema. Un esempio chiarissimo dell'influenza dell'industria finanziaria americana sulla politica rappresentato dalle regole che determinano quanto capitale proprio deve avere una banca per poter fare alcune operazioni finanziarie. Come abbiamo visto, quando le banche di investimento persero il monopolio sulla compravendita di titoli per i loro clienti, si resero conto che per guadagnare dovevano cambiare mestiere e che quello pi redditizio era investire in proprio. Continuavano a vendere servizi ai loro clienti (assistenza alle aziende nelle operazioni sui mercati finanziari, assistenza agli stati nelle privatizzazioni e nel collocamento di titoli pubblici ecc.), ma i profitti venivano sempre pi da quel settore della banca che si era trasformato in un fondo hedge, cio che investiva in proprio. Questi investimenti sono tanto pi redditizi quanto inferiore il capitale che deve essere impiegato per farl i , cio tanto pi elevata la leva finanziaria. Se per acquistare titoli non devo usare il capitale della banca, ma posso semplicemente indebitarmi a brevissimo termine, guadagnare facile. Infatti, usare il capitale della banca costoso perch gli azionisti pretendono rendimenti elevati; invece indebitarsi a breve termine costa poco, so-

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prattutto se la banca centrale, come fece Alan Greenspan, governatore della Fed per oltre un decennio, tiene basso il costo del denaro. Se le cose vanno bene, un guadagno di 100 dollari su un capitale investito di 1 solo dollaro produce un rendimento straordinario. Ma quando le cose vanno male, se l'investimento perde pi di 1 dollaro, significa essere nei guai perch la banca pu non avere abbastanza capitale per assorbire la perdita. Questo esattamente ci che successo in America. I rischi anzi erano ancora pi alti perch le banche di investimento, diversamente da quelle commerciali, non potevano prendere a prestito liquidit dalla banca centrale: se le cose andavano male dovevano cavarsela da sole. Per quasi un ventennio, i mercati sono andati bene, le banche di investimento e i loro dipendenti hanno guadagnato cifre da capogiro e nessuna fallita. Due leggi proposte all'inizio di questo decennio dal senatore repubblicano Phil Gramm - che negli anni stato ricompensato dall'industria finanziaria con 4,6 milioni di dollari di contributi elettorali - furono determinanti nel consentire che le banche ricorressero con tanta audacia alla leva finanziaria: il Gramm-LeachBliley Act del 1999, che elimin la separazione fra banche commerciali e banche di investimento, e assegn molte responsabilit per la sorveglianza delle banche alla Sec, e una seconda legge che liberalizz i prodotti derivati, consentendo che le banche investissero in derivati anche se non avevano un capitale sufficiente per assorbire eventuali perdite. La responsabilit per non fu solo del senatore Gramm: entrambe le leggi passarono con il voto favorevole di molti democratici e la prima fu firmata dal presidente Clinton. Da sei, sette anni a questa parte, il Comitato di Basilea e il Financial Stability Forum ripetono che le banche di investimento sono fragili perch hanno troppo poco capitale in

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rapporto ai rischi cui si sono esposte. Ma questi allarmi sono caduti nel vuoto o sono stati ignorati di proposito. Con il passare del tempo e con il silenzio della Sec, l'esempio delle banche si diffuse sul mercato. Altre istituzioni, come le compagnie di assicurazioni e anche Fannie Mae e Freddie Mac su cui torneremo, cominciarono a esporsi a grandi rischi con poco capitale, sperando che i prezzi continuassero a salire. Il mercato finanziario americano cominci ad assomigliare a una piramide rovesciata: un volume incredibile di investimenti rischiosi si reggeva su un piedistallo di capitale troppo esiguo perch banche e altre istituzioni potessero sopravvivere a una caduta dei prezzi di mercato. Non sorprendente quindi che quando il mercato ha smesso d i crescere si siano dimostrate istituzioni molto fragili; nel momento in cui il mercato immobiliare crollato e i l valore dei mutui in cui avevano investito sceso, hanno cominciato a perdere senza avere per capitale sufficiente per farvi fronte. La responsabilit di tutto questo, bene non scordarlo, di chi ha concesso di correre rischi cos elevati con un capitale tanto scarso. Perch a un certo punto il mercato ha cambiato direzione, evidenziando la fragilit dei bilanci delle banche? Per capirlo dobbiamo partire da un dato: su uno stock di circa 26.000 miliardi di dollari di obbligazioni in circolazione negli Stati Uniti, un po' pi della met, circa 13.000 miliardi, sono mutui immobiliari. Di questi, circa 6.000 sono detenuti da istituzioni che hanno finanziato questo investimento indebitandosi. Poich il valore di un mutuo dipende dal valore della casa che stata acquistata grazie ad esso, si capisce perch i prezzi delle case siano tanto importanti nel mercato finanziario americano. Non tutti i mutui sono uguali. Una piccola parte, per un valore di circa 1.400 miliardi, cio poco pi del 10 per cento, sono stati concessi a famiglie che avevano

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una probabilit relativamente elevata di non riuscire a pagare le rate: si tratta dei famosi mutui subprime. Questi mutui non sono rimasti nelle banche che li avevano erogati ma sono stati venduti ad altri investitori: una met, per un valore di 600 miliardi, poi finita nei bilanci di banche che li hanno acquistati a leva, cio indebitandosi. La perdita cui abbiamo accennato all'inizio concentrata soprattutto qui. Risulta quindi chiaro come mai una perdita relativamente piccola possa aver provocato un danno di queste proporzioni. Se 6.000 miliardi di mutui sono stati comparati con una leva di 30, il capitale di soli 200 miliardi, troppo poco per assorbire una perdita di 600 miliardi. Ecco perch tante banche di investimento sono fallite.

mutui subprime, una scintilla nel fienile Un professore un po' burlone del Boston College, un'ottima universit del Massachusetts, un giorno volle capire fino a che punto si era spinto il mercato dei mutui americani. Egli possedeva una casa che aveva comprato con i suoi soldi. Per questo era un cliente particolarmente attraente per chi vendeva mutui sulla casa anche a persone che, come lui, non ne avrebbero avuto bisogno. Accendendo un mutuo sulla sua casa infatti il professore avrebbe potuto per esempio comprarsi un'auto nuova o andare in vacanza. Non appena ricevuta la telefonata di un promotore finanziario che gli offriva un prestito a fronte del valore della sua casa rispose di essere molto interessato, ma di temere che la sua casa non valesse granch. Raccont infatti di vivere in una miniera: la casa era confortevole e abbastanza grande, ma il sole raramente arrivava laggi, e nei

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giorni di pioggia tornare a casa era complicato. Quante stanze? chiede il promotore. Sei e tre bagni. Ottimo, risponde il promotore, penso di poterle offrirle un prestito di 300.000 dollari a un tasso molto interessante. Il collega del Boston College, che non nuovo a simili imprese e si diverte a registrare queste telefonate, ringrazia e chiede alcuni giorni per riflettere sull'interessante offerta. C' un ultimo dettaglio, chiede il promotore, dovrei sapere che lavoro fa e quanto guadagna. Sono un piccolo imprenditore, fabbrico cerniere di ottone per le porte. Gli affari non vanno benissimo, il mese scorso ho venduto solo due cerniere, ma confido che le cose migliorino. Nelle settimane successive il promotore telefon pi volte all'incerto cliente, dicendo che le condizioni del mutuo forse sarebbero potute migliorare. Il collega lasci cadere l'offerta, pago di aver collezionato alcune strabilianti registrazioni. Se ci fossero ancora dubbi sugli eccessi del mercato dei mutui americani, questo esempio documentato e registrato dovrebbe bastare a fugarli. Ci sono diverse spiegazioni del perch si sia arrivati a questi eccessi. Come abbiamo visto, la possibilit per le banche di diversificare il rischio vendendo i prestiti una buona cosa, ma se la banca vende tutti i prestiti, poi non ha alcun incentivo a selezionare i clienti. Inoltre se una banca vende un prestito deve venderlo davvero. Quando scoppiata la crisi si scoperto che molti di questi contratti contenevano una clausola che obbligava la banca a riacquistare il prestito se le cose fossero andate male. Cio molte banche si erano illuse di essersi protette dal rischio mentre in realt erano rimaste esposte. Aumentare il numero di americani proprietari di casa era anche un obiettivo politico (per realizzare l'american dream, come ha spesso ripetuto il presidente George Bush) e per raggiungerlo le banche

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sono state indotte a chiedere anticipi molto bassi. Durante l'amministrazione Clinton fu anche approvata una legge che obbligava le banche a destinare una certa percentuale di prestiti a cittadini poveri e a minoranze etniche. Non bisogna per dimenticare un punto importante. I mutui subprime hanno provocato gravi danni, ma hanno anche consentito a moltissime famiglie, soprattutto immigrati recenti che prima non avevano accesso al credito, di acquistare una casa. Comprare una casa significa entrare a far parte del tessuto sociale, integrarsi, e questo non pu che essere positivo per una societ come quella americana basata sulla progressiva assimilazione di ondate di immigrati. Come ben sappiamo, anche le societ europee stanno affrontando problematiche relative all'immigrazione. In questo senso il mercato immobiliare possiede valenze che vanno ben al di l dell'economia pura e semplice. Essere proprietari di una casa significa diventare pi sensibili al problema del crimine, dell'ordine e della pulizia del proprio quartiere, per esempio, significa cio diventare cittadini attenti e non rimanere ai margini. Va detto poi che l'ipotetico inquilino della miniera non era assolutamente obbligato ad accettare il prestito, soprattutto a tassi variabili, sapendo che il reddito derivante dalla vendita di improbabili cerniere di ot-1 tone non sarebbe stato poi cos alto. Insomma, la mancanza di educazione finanziaria ha fatto i suoi danni. Va anche ricordato che spesso queste case sono state comprate versando un anticipo bassissimo, talvolta addirittura senza alcun anticipo: perderle equivale a perdere molto poco, come mostra anche il sito www.youwalkaway.com, in cui si spiega come lasciare una casa semplicemente andandosene. Nel frattempo per si vissuti in una casa gratis o al pi pagando l'affitto alla banca sotto forma di mutuo. Questo non si-

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gnifica che non vi siano state molte situazioni drammatiche, ma spesso si dimentica che la perdita della casa azzera un grosso debito con la banca. Il danno psicologico forte, ma a conti fatti, la perdita economica non cos grande. Vale la pena ripeterlo: il vero danno non stato provocato dai mutui subprime che, data la loro entit, non avrebbero dovuto causare una crisi cos colossale. Il problema stata l'eccessiva leva finanziaria con la quale sono stati acquistati, ovvero la bassa capitalizzazione delle banche. La colpa pi grave dei regolatori e. dei politici che hanno permesso alle banche di investimento di operare senza il capitale sufficiente. II fiasco di Fannie Mae e Freddie Mac Per sostenere lo sviluppo del mercato immobiliare il governo americano garantiva la maggior parte dei mutui attraverso due istituzioni dal nome curioso, Fannie Mae e Freddie Mac, acronimi delle rispettive sigle. Questa non una novit, accade dagli anni trenta ed una delle ragioni per cui negli Stati Uniti la propriet delle case si diffusa tanto rapidamente con i benefici sociali di cui abbiamo parlato. Se per lo stato si accolla un rischio, deve essere anche consapevole degli effetti che questo comporta: la ragione per cui le banche concedevano prestiti con tanta facilit non consisteva solo nel poterli vendere sul mercato dopo poche ore, ma nella convinzione che, nell'eventualit di una crisi, sarebbero state protette dalla garanzia dello stato. Evidentemente il governo degli Stati Uniti riteneva che assumersi questo rischio fosse giustificato dal beneficio di un mercato immobiliare in rapidissima espansione. E fin qui nulla di male. Purtroppo per furono commessi due errori gravi. Il primo riguarda il modo in cui le due istituzioni vennero privatizzate, cosa che accadde durante l'am-

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ministrazione Johnson negli anni sessanta: invece di controllarle direttamente, lo stato le abbandon a manager che si comportarono come se gestissero istituzioni private combinando un mucchio di guai. Innanzitutto gestirono il bilancio delle aziende come se queste fossero fondi hedge, alzando la leva finanziaria fino a 25-30, cio assumendosi enormi rischi. Poi si arricchirono con il consenso di buona parte dei politici di Washington. Le amicizie nel Congresso di Fannie Mae e Freddie Mac infatti erano proverbiali e servivano per far chiudere un occhio a chi avrebbe dovuto vigilare. Il secondo errore fu dimenticare che, nell'eventualit di una crisi, la garanzia offerta dalle due istituzioni avrebbe comportato un aumento del debito pubblico. Un'eventualit che non fu mai presa in considerazione; il Congresso si illuse che l'entit del debito pubblico fosse relativamente modesta; questo non lo incentivava particolarmente a controllare la spesa pubblica. Da questa vicenda l'Europa pu imparare una lezione. Il vecchio continente pieno di istituzioni simili a Fannie e Freddie: lo sono per esempio le Casse Depositi e Prestiti presenti in molti paesi, le cui quote di maggioranza sono di propriet pubblica ma il cui bilancio non consolidato nel bilancio dello stato. Ci consente ai governi di usarle per finanziare spese (soprattutto investimenti in infrastrutture) senza influire sul bilancio dello stato. Le Casse si finanziano indebitandosi e costruiscono opere pubbliche. Finch tutto va bene, non ci sono problemi, ma quando un investimento va male - per esempio perch si costruita un'opera pubblica per accontentare alcuni elettori e vincere le elezioni - la Cassa perde e la perdita finisce sul bilancio dello stato proprietario della Cassa. Alcuni politici europei che considerano il fallimento di Fannie Mae e Freddie Mac un esempio del fallimento del capitalismo americano, sono gli stessi che

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poi propongono di usare le Casse Depositi e Prestiti per finanziare investimenti in infrastrutture, proprio perch in tal modo queste spese non peserebbero sul bilancio dello stato.

Le colpe delle agenzie di rating Un altro aspetto di questa vicenda, che in ultima analisi rappresenta una perdita di vista collettiva del rischio finanziario, riguarda le agenzie di rating. Alcuni investitori istituzionali, per esempio i fondi pensione, per regolamento potevano investire solo in attivit finanziarie con un rating AAA (la tripla A espressione della massima qualit creditizia). Immaginatevi quindi la pressione sulle agenzie di rating per essere generose. Questo ha portato a concedere troppi rating AAA, e di conseguenza gli investitori istituzionali non si sono pi sentiti in dovere di esaminare il rischio legato a ci che stavano comprando. Anche in questo caso, un regolamento dei mercati finanziari, che sulla carta dovrebbe indurre alla prudenza, sortisce l'effetto opposto. Non facile regolare le agenzie di rating. Forse senza questi rating gli investitori avrebbero fatto pi attenzione. Gli stipendi da favola dei banchieri Negli anni settanta i banchieri ricevevano uno stipendio fisso e il loro mestiere era considerato piuttosto noioso. Dopo la liberalizzazione gestire una banca divent molto pi complicato e per essere sicuri che i banchieri si impegnassero al meglio, gli azionisti cominciarono a remunerarli in funzione dei risultati raggiunti. Ma gli incentivi associati alla remunerazione dei banchieri non hanno funzionato. E interessante osservare come invece abbiano funzionato piuttosto bene gli incentivi dei 33

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gestori di fondi hedge, che spesso guadagnano anche pi dei banchieri. La differenza rispetto ai manager delle banche che i gestori dei fondi hedge possiedono una quota rilevante del fondo che gestiscono (per i fondi che lo dichiarano, non sono tutti, la media dell'investimento dei manager il 16 per cento, una percentuale alta, considerando che questi fondi spesso sono molto grandi). Questo uno dei motivi per cui, durante la crisi, i fondi hedge si sono comportati molto meglio delle banche: i casi di fallimento sono rari. Invece la retribuzione dei banchieri, essendo legata al rendimento di breve periodo, e spesso anche al rendimento di un particolare dipartimento della banca, non teneva conto del fatto che i rischi legati agli investimenti di quel dipartimento si potessero trasferire sulla banca nel suo complesso. Le colpe di Greenspan Dalla met degli anni novanta in poi, la Federai Reserve di Alan Greenspan mantenne i tassi di interesse particolarmente bassi. Per continuare a guadagnare, gli investitori si spostarono verso strumenti finanziari pi rischiosi proprio perch i rendimenti sui titoli sicuri erano scesi. L'aumento della domanda di titoli rischiosi ne ha fatto scendere i rendimenti. Come abbiamo visto questo un fattore che ha indotto le banche ad alzare la leva finanziaria assumendosi pi rischi. Greenspan si anche sempre opposto a regolare i mutui subprime, in particolare ha sottovalutato il rischio che comportava concedere mutui con tasso di interesse variabile - in pratica mutui su cui non si paga nulla per i primi tre anni, ma poi le rate salgono vertiginosamente. E ci, nonostante un altro membro del consiglio della Fed, Edward Gramlich, avesse messo in guardia i suoi colleghi (almeno stando a quanto riport il Wall Street

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Journal'A 9 giugno 2007, prima che scoppiasse la crisi) contro i rischi che si stavano accumulando nei bilanci delle banche per effetto della vendita aggressiva di mutui subprime, e avesse chiesto che la Fed inviasse i suoi ispettori per controllare i contratti con i quali questi mutui venivano prima concessi e poi venduti ad altri investitori sul mercato. Alcuni politici e commentatori tendono ad avere la memoria corta. Qualche anno fa Greenspan era descritto come un eroe perch, tenendo cos bassi i tassi di interesse, aveva fatto crescere l'economia americana. A confronto, dicevano molti politici europei, la Bce era una sciagura: mantenendo tassi eccessivamente elevati strozzava la crescita dell'area euro. I politici che allora osannavano Greenspan sono gli stessi che oggi predicano contro gli eccessi del mercato finanziario americano.

Profitti privati, perdite pubbliche Per ricapitolare, sono stati compiuti numerosi errori gravi, dai politici, dai regolatori, dagli operatori finanziari e anche dai cittadini, alcuni dei quali si sono indebitati troppo. I guai di oggi li dobbiamo all'insieme di questi fattori. E allora, stato un errore salvare alcune banche private e Fannie e Freddie con il denaro pubblico? La domanda lecita, soprattutto perch di salvataggi si parla tanto anche in Italia e perch non tutti sono buoni. Un pilastro dell'economia di mercato il principio secondo cui chi sbaglia paga. Manager che fanno errori - o che semplicemente sono meno abili dei concorrenti - giusto che perdano il posto; solo cos si giustificano i loro stipendi stratosferici. E gli azionisti che hanno investito male giusto che perdano: la Borsa non una gallina dalle uova d'oro. Per le imprese

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inefficienti non c' spazio sul mercato; devono far posto a chi sa produrre meglio e generare pi reddito. E stato questo darwinismo economico a creare la ricchezza di cui tutti godiamo, dalla Rivoluzione industriale in poi. Certo, i fallimenti fanno perdere posti di lavoro e creano disoccupati: ma lo stato deve difendere i lavoratori, non i posti di lavoro. Ci che indispensabile (e che in Italia non esiste: chiss quando il sindacato si sveglier e si impegner in questa battaglia!) un'efficace assicurazione contro la disoccupazione, non la protezione di imprese che non riescono pi a stare sul mercato. Difendendo i posti anzich i lavoratori si finisce per creare un problema infinitamente pi costoso. Si preferisce mantenere in vita aziende in perdita, manager incapaci in un sistema da vecchio capitalismo di stato, spedendo poi il conto al contribuente. In un mondo ideale i salvataggi non esisterebbero, esisterebbero buone assicurazioni pubbliche. Tuttavia c' salvataggio e salvataggio. Se fallisce un'impresa che produce automobili, poco male: i consumatori possono acquistare una marca diversa, i lavoratori sono protetti (almeno per un po' di tempo) dall'assicurazione pubblica e a perderci sono solo manager e azionisti, i responsabili del fallimento. Ma se un'istituzione finanziaria fallisse, potrebbe trainare con s imprese perfettamente sane e dar luogo a un credit crunch ovvero a un crollo dell'offerta di credito. In un caso simile, un intervento dello stato (e della Banca centrale) nell'interesse nazionale perch evita che gli effetti del fallimento vengano amplificati provocando una recessione. E appunto il rischio di un'amplificazione degli effetti del fallimento ci che rende efficiente salvare una banca, ma non un'impresa automobilistica o una linea aerea. Ovviamente il rischio quello di creare incentivi sbagliati: confidando nei salvataggi, le banche sviluppano la tendenza ad assumersi troppi rischi. Ecco perch ai salvataggi non si

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dovrebbe mai arrivare e se ci si arriva, significa che qualcosa andato storto. Dopo il salvataggio di Fannie e Freddie, e il fallimento di Lehman Brothers (che ex post probabilmente stato un errore non salvare), e visto che la crisi non accenna ad attenuarsi, anzi si aggrava di settimana in settimana, il Congresso degli Stati Uniti ha deciso di affrontare il problema alla radice intervenendo con un aiuto pubblico alle banche pari al 6 per cento del prodotto interno lordo. Questa rete di protezione verr in parte usata per ricapitalizzare le banche, in parte per togliere dai loro bilanci un po' di mutui e sostituirli con titoli garantiti dallo stato, in parte per garantire i prestiti fra banche, un mercato che scomparso perch venuta meno la fiducia di una banca nell'altra. Si pensa anche di sussidiare in qualche modo le famiglie che si sono indebitate eccessivamente per comprare una casa, e lo hanno fatto a tassi variabili, prima molto bassi ma che poi sono saliti. Interventi di questo tipo sono stati introdotti in Italia e sicuramente aiuteranno, mentre negli Stati Uniti sono in discussione. Va ricordato che in tutti e tre i casi si tratta di interventi temporanei dello stato. Sia i sussidi alle famiglie indebitate, sia gli acquisti di titoli, sia la ricapitalizzazione delle banche sarebbero operazioni che utilizzerebbero denaro pubblico solo per un certo numero di anni allo scopo di far riprendere il regolare funzionamento dei mercati finanziari. Parte di questa spesa di denaro pubblico, se non tutta, potrebbe essere recuperata quando i mercati si calmeranno. Al momento (met ottobre 2008) non ancora chiaro se questo intervento straordinario riuscir a porre fine alla crisi. E possibile che ne servano altri. Sono scelte necessarie ma tristi, giornate nere del capitalismo americano recente. Ma non si dica che la crisi finanziaria americana imputabile all'assenza di regole, cio a un eccesso di mercato; questa un'altra delle favole che ci

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raccontano gli statalisti europei. E vero il contrario e lo ripetiamo: le colpe vanno attribuite a regole sbagliate, a politici influenzati dalle lobby, alle amicizie politiche di Fannie e Freddie, alle pressioni sulle agenzie di rating e ai loro errori. Un eccesso di cattiva politica, non un eccesso di mercato. Ma vero anche che regole perfette non esistono e che crisi cicliche sono una delle caratteristiche del capitalismo. Il beneficio una crescita pi elevata. La crisi del 2007-8 coster s alcuni punti di Pil, ma avvenuta dopo quindici anni di crescita ininterrotta, la pi lunga nella storia degli Stati Uniti d'America. Un solo punto di crescita in pi per un quindicennio significa guadagnare quasi 20 punti di Pil, pi che sufficienti per compensare le perdite che provocher questa crisi. E alla fine il salvataggio delle banche potrebbe anche essere un buon affare per i contribuenti. In Svezia all'inizio degli anni novanta tutte le banche fallirono. Lo stato le nazionalizz e per salvarle spese una cifra simile: il 6 per cento del Pil. Ma dopo alcuni anni, quando il governo rivendette le banche a privati, incass pi o meno quanto aveva speso. E, come abbiamo detto, le migliori regole di cui l'Europa spesso si vanta quando pone sotto accusa gli Stati Uniti, non hanno impedito che le banche europee finissero nei guai. N va dimenticato che il sistema finanziario americano negli ultimi quindici anni ha sostenuto un compito quasi immane: riciclare e gestire gli enormi flussi finanziari determinati dalla separazione tra risparmio (accumulato in Cina e altri paesi emergenti) e investimento finanziario sulla piazza americana. Se questo non fosse avvenuto, imprese come Google non sarebbero mai nate. Inoltre, nel momento in cui si verificata la crisi di liquidit che ha colpito il mercato americano l'accumulo di risparmio asiatico servito: i flussi non si sono prosciugati. Allora stata la

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Cina a salvare il sistema finanziario americano? l'orse sar questa la conclusione che trarremo quando la crisi si sar risolta. Sbaglia anche chi pensa che sarebbe meglio tornare indietro, a un sistema finanziario non liberalizzato. Il vecchio mondo antico non era poi cos ideale. Prima che nascesse il mercato dei prestiti bancari, quando le banche tenevano in bilancio i prestiti fino a scadenza e lontano dagli Stati Uniti d'America, le crisi bancarie sono state frequenti e molto costose: una caduta (cumulata) del 4 per cento del Pil e un aumento del deficit pubblico del 6,5 per cento del Pil in Svezia fra il 1991 e il 1994; una caduta del 3,2 per cento del Pil e un aumento del deficit del 5,4 per cento del Pil negli Stati Uniti negli anni ottanta, quando fallirono molte vecchie casse di risparmio; una caduta del 20 per cento del Pil e un aumento del deficit del 27,7 per cento del Pil in Giappone fra il 1992 e il 2000. Se ne deduce che le vecchie banche tradizionali come le conoscevamo fino alla met degli anni novanta non erano poi tanto sicure. Oggi in Italia si tessono le lodi della politica che ha salvato la finanza cattiva. Ma quanto costata in passato ai contribuenti italiani l'interferenza della politica nelle solide vecchie banche? Un punto di Pil solo il salvataggio del Banco di Napoli negli anni novanta, e poi c' stato il Banco di Sicilia, la Cassa di Risparmio della Calabria... E un po' presto per concludere che la vecchia finanza era migliore.

Idee buone e proposte pericolose Cominciamo da quanto abbiamo scritto nel paragrafo precedente: la crisi certamente il risultato di cattive regole, corrotte da interessi particolari. Ma regole ideali, capaci di evitare qualunque crisi, non esistono. Esistono

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solo nella mente di burocrati che hanno una visione un po' semplicistica dei mercati. Se esistessero, non consentirebbero ai mercati di operare, perch capitalismo significa assumersi rischi; regole che rendono impossibile, o troppo costoso, assumersi rischi sarebbero la negazione del capitalismo, e potrebbero funzionare solo in un sistema sovietico, che non ha prodotto buoni risultati. Paradossalmente la crisi in corso scoppiata mentre i regolatori sperimentavano nuovi sistemi, Basilea 2 e regole contabili che obbligano le banche a valutare i titoli che posseggono ai prezzi di mercato (il cosiddetto mark-to-market). Queste regole erano state pensate per rendere pi solide le istituzioni finanziarie, e invece hanno finito per indebolirle. La prima cosa quindi l'umilt: accettare che regole perfette, capaci di eliminare le crisi non esistono e che ogni regola, come Basilea 2 e le nuove regole contabili, pu rivelarsi controproducente. Fatta questa premessa non scontata (la maggior parte dei regolatori e molti politici non l'accetterebbero), vi sono certamente alcune iniziative che possono migliorare il sistema ed evitare che simili guai si ripetano. 1. Obbligare le banche a detenere pi capitale. Ha cominciato a farlo lo stato ricapitalizzando le banche; prima o poi necessario che allo stato si sostituiscano di nuovo privati l dove gi non avvenuto. In qualche modo la trasformazione dell'industria finanziaria innescata dalla crisi lo sta gi facendo: la fine delle banche ili investimento e la loro trasformazione in banche commerciali fa s che alcune operazioni che prima svolgevano e oggi non potranno pi svolgere, si stiano spostando ai fondi hedge, i quali, pur non essendo regolati, sono pi cauti perch, come abbiamo visto, i gestori ne possiedono quote rilevanti e sono motivati a fare attenzione.

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2. Impedire che la diversificazione arrivi al punto che la banca perda ogni incentivo a controllare la qualit dei suoi prestiti. Il motivo per cui esistono le banche proprio questo: essere incentivate a selezionare le imprese cui concedono i prestiti. Se l'incentivo viene meno, cade la ragione della loro esistenza: le imprese potrebbero finanziarsi rivolgendosi direttamente ai singoli risparmiatori. 3. Allineare gli incentivi dei manager (ovvero la loro remunerazione) ai rischi che fanno assumere alla banca. Cio: se faccio assumere un rischio decennale, la mia remunerazione deve dipendere dai risultati della banca su un orizzonte decennale, non dai risultati del prossimo trimestre. Non facile, ma si potrebbe pensare a regole fiscali capaci di allineare rischi e incentivi. Altre proposte sono semplicemente sbagliate: una X regolamentazione eccessiva che finisce per impedire al mercato di funzionare, l'errore in cui casc Hoover. X Proibire le vendite di titoli allo scoperto e solo per alcune aziende: le vendite allo scoperto sono un modo per ridurre la possibilit che si creino bolle speculative, e la proibizione selettiva un invito alla corruzione, cosa che sta gi accadendo. Limitare per legge lo stipendio dei manager: cos i migliori andranno via o sposteranno la sede della banca in paesi che non impongono questi limiti. Chiudere i mercati e quindi impedire che si formino i prezzi. I prezzi, per quanto volatili, contengono informazione importante. Ostacolare, come il presidente della Consob si affrettato a proporre, le scalate ostili, che sono il mezzo attraverso il quale il mercato sostituisce manager e azionisti inefficienti con altri pi efficienti. L'elenco delle proposte pericolose potrebbe essere molto lungo. Infine, per quanto riguarda l'Europa vi un aspetto politico importante. Molte banche europee hanno di-

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mensioni enormi rispetto al Pil del loro paese, come per esempio la banca Svizzera Ubs che ha attivit pari a 4 volte il Pil della Svizzera. Quindi interventi di aiuti alle banche potrebbero non essere alla portata di un singolo paese. In ottobre l'Europa ha coordinato gli interventi di salvataggio delle banche e di garanzia dei prestiti fra banche, e questo bene. Meglio sarebbe se in futuro eventuali salvataggi avvenissero attraverso un fondo europeo sovranazionale, anzich mediante interventi nazionali: questo infatti ridurrebbe il rischio che un singolo salvataggio sia troppo costoso per un singolo paese; ridurrebbe anche il rischio di interferenze politiche nazionali sulle banche ricapitalizzate con denaro pubblico.

u n po' di ottimismo Come abbiamo detto, le crisi sono una caratteristica endemica del capitalismo. Ma alla fine i benefici sono pi dei costi: il benessere generato dal capitalismo superiore a qualsiasi altro sia stato prodotto da sistemi diversi fin qui sperimentati. Nella storia degli Stati Uniti le crisi sono state ricorrenti: negli anni cinquanta, ai tempi dello Sputnik, la paura di essere superati dall'Urss, negli anni ottanta dai giapponesi; nel 1975 il Watergate e la sconfitta in Vietnam; nel 2002 lo scandalo di Enron, oggi lo smarrimento di un paese preoccupato per l'economia e per il valore delle proprie case. Ma ogni volta l'America reagisce, supera la crisi e ricomincia a crescere, ad attrarre le migliori intelligenze dal resto del mondo, a creare aziende che cambiano il mondo (abbiamo gi ricordato Google che senza la bolla del Nasdaq probabilmente non esisterebbe). Ha osservato lEconomist nel luglio 2008:

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Cos come il capitalismo americano favorisce il fallimento delle aziende decotte e la loro pronta sostituzione con imprese nuove, con altrettanta rapidit reagisce il sistema politico. In Europa i leader emergono a fatica e durano a lungo; negli Stati Uniti le primarie consentono a faville sorte quasi dal nulla di trasformarsi in men che non si dica in coscienza collettiva e talvolta in presidenti.

2. A cosa serve la finanza

La finanza sotto assedio, accusata non solo di aver provocato la crisi economica pi grave dagli anni trenta, ma anche di aver spinto alle stelle il prezzo delle materie prime e in particolare del petrolio, una fiammata durata peraltro poche settimane. In parte queste critiche sono giustificate: come abbiamo visto, la finanza e chi ha il compito di regolarla hanno commesso molti errori. Alcune autorit preposte alla sorveglianza dei mercati sono state catturate da interessi politici o dalle stesse istituzioni sulle quali dovevano vigilare, troppi operatori hanno assunto rischi eccessivi, spesso a causa di sistemi di remunerazione distorti o per troppo ottimismo. Ma accusare la finanza con slogan grossolani, predicando con evidente soddisfazione la fine del capitalismo finanziario, se non del capitalismo tout court, non solo populista, anche sbagliato e molto pericoloso.

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1. La crisi finanziaria: che cosa successo

La finanza serve. Innanzitutto consente di trasformare le buone idee in imprese, posti di lavoro, occasioni di sviluppo e di crescita. Un tempo le banche finanziavano solo chi offriva garanzie reali, un giovane con una buona idea ma senza qualche bene al sole rimaneva a spasso. Basta visitare i sobborghi di Cambridge in Gran Bretagna o percorrere la strada 128 che circonda Boston, sede di Harvard e del Mit, o la Silicon Valley sorta accanto all'universit di Stanford per rendersi conto di come la buona finanza abbia trasformato le idee nate nei laboratori delle universit in brevetti e poi in imprese. Una delle ragioni per cui in Europa spesso c' meno innovazione rispetto al mondo anglosassone la presenza di un sistema finanziario fino a poco fa dominato da banche tradizionali meno adatte a finanziare le idee. Una seconda importante funzione della finanza redistribuire il rischio, cio evitare che il rischio rimanga concentrato in pochi individui o istituzioni. La finanza permette anche che ciascuno di noi si esponga al rischio a seconda delle proprie condizioni e delle proprie preferenze. Il risultato che la buona finanza consente di investire e di crescere di pi. Lo dimostrano numerose ricerche empiriche che rivelano come l'economia di un paese cresca in relazione allo sviluppo e al funzionamento del suo sistema finanziario. Mercati finanziari che funzionano bene non sono un buon affare solo per i ricchi: aiutano anche i pi poveri, perch sono i poveri le persone pi esposte alle fluttuazioni dell'economia. E la buona finanza stabilizza l'economia. Ci rendiamo conto che a questo punto nel lettore possa nascere qualche perplessit: ci che successo in questi mesi sembrerebbe contraddire quanto detto. Per questo ci preme chiarire alcuni punti fondamentali: perch la finanza aiuta i poveri; perch diversificare il

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rischio consente di crescere di pi; perch la finanza consente di risolvere il problema politico che si pone quando un paese vuole evitare che le sue aziende siano vendute allo straniero, ma allo stesso tempo non vuole subire il costo del possibile fallimento di un'azienda nazionale; perch la speculazione non un diavolo, ma spesso aiuta proprio a evitare che il mercato sbandi e si sviluppino bolle speculative; infine perch per il buon funzionamento dei mercati finanziari - non servono solo trasparenza, buone regole, autorit che non dormono, o peggio, si fanno blandire da coloro sui quali dovrebbero vigilare, ma serve soprattutto una conoscenza finanziaria ili base da parte dei cittadini. Come vedremo, in Italia scarsissima e, anzich tuonare contro la finanza, si potrebbe partire da qui.

La finanza aiuta anche ipoveri Pensate per un momento agli agricoltori nei paesi poveri del mondo, in Africa o in India. Questi agricoltori non riescono a risparmiare: vivono del raccolto dell'anno. Se il raccolto va bene, la loro famiglia ha cibo sufficiente, avanza anche un po' di denaro per far continuare a studiare i figli, e soprattutto pu acquistare le sementi pi adatte per preparare il raccolto dell'anno successivo. Se il raccolto va male, diventa un problema arrivare alla fine dell'anno. Ma si aggiunge un'aggravante: poich il reddito di questi agricoltori molto incerto, cio fluttua da un anno all'altro, le banche non li finanziano perch li considerano (giustamente) clienti pericolosi. E cos gli agricoltori raramente riescono ad acquistare sementi diverse, e se anche vi riuscissero, non riuscirebbero ad acquistare il fertilizzante, e cos a un cattivo raccolto ne segue spesso uno peggiore, che li inchioda a una vera e propria trappola di povert.

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2. A cosa serve la finanza

Per risolvere i loro problemi, questi agricoltori avrebbero bisogno di tre diversi prodotti finanziari. Innanzitutto un'assicurazione contro le fluttuazioni nella produzione, dovute a eventi verificabili, come una pioggia torrenziale o una siccit. Poi un mercato a termine sul quale vendere al momento della semina una quantit certa (grazie all'assicurazione) e a un prezzo certo. A questo punto, conoscendo con sicurezza il reddito di cui disporranno al momento del raccolto, possono presentarsi alla banca locale e chiedere un finanziamento per acquistare la semente che ritengono pi adatta. Questi tre strumenti finanziari (l'assicurazione, il mercato a termine e la banca) consentono all'agricoltore di separare il reddito di un anno da quello dell'anno precedente e quindi di evitare la trappola della povert. Gli agricoltori ricchi non hanno di questi problemi: possono contare sempre su un ampio credito, anche se la produzione e i prezzi sono incerti, perch la loro ricchezza una garanzia sufficiente per la banca che fa loro credito per acquistare sementi e fertilizzanti. Per gli agricoltori ricchi assicurazioni e mercati a termine non sono essenziali. In India, fino al 1990 i mercati finanziari erano sostanzialmente proibiti. La liberalizzazione finanziaria, iniziata negli anni novanta, stata uno dei fattori che ha contribuito alla crescita dell'India negli ultimi dieci, vent'anni.

benefici della diversificazione del rischio Per una famiglia comune, utilizzare strumenti finanziari che le consentano di diversificare il rischio spesso mol-lo difficile. Per moltissime famiglie la casa rappresenta la quasi totalit della ricchezza di cui

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dispongono. Pensate a che cosa accade durante una recessione che colpisce in modo particolare la regione in cui una famiglia vive, per esempio una crisi del porto di Genova o dei mercati agricoli a Mantova. In simili frangenti, non solo il capofamiglia rischia di perdere il posto di lavoro, ma si riduce anche il valore della sua casa perch durante una recessione i prezzi delle abitazioni scendono. Se per superare il momento di difficolt, il capofamiglia chiede un prestito alla banca, questa gli lesiner il credito, sostenendo che il valore delle sue garanzie, cio della sua casa, sceso. Quindi, affinch la ricchezza di una famiglia possa funzionare come un'assicurazione che protegge il reddito durante una recessione, necessario che non sia investita in beni il cui valore scende proprio durante la recessione. Questo per esattamente ci che succede alla casa. Quando il porto di Genova va male e il valore degli immobili a Genova scende, i lavoratori del porto dovrebbero possedere case non a Genova ma, per esempio, a Milano, dove invece l'economia va bene e il valore delle case tiene. Una soluzione sarebbe affittare la casa, anzich acquistarla. Ma non necessariamente una buona soluzione. E vero che l'affitto non espone al rischio di fluttuazioni nel prezzo delle case, ma non consente neppure di investire in un bene che a lungo termine spesso si rivelato un buon investimento. Inoltre possedere una casa d una sicurezza alla quale molte famiglie non sono disposte a rinunciare. Nonostante il grande sviluppo dei mercati finanziari, non esistono ancora strumenti che consentano alle famiglie di diversificare il rischio concentrato nella propria casa. Il primo tentativo di aprire un mercato che permetta la diversificazione del rischio immobiliare stato fatto da Robert J. Shiller, un economista dell'universit di Yale, autore di libri di grande successo come Euforia irrazionale. Analisi dei boom di Borsa (il Mulino

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2. A cosa serve la finanza

2000). Shiller ha aperto un mercato online che consente di vendere la propria casa a termine. Il ricavato pu essere investito, per esempio, in un fondo immobiliare che possiede pacchetti di abitazioni localizzate in regioni o paesi diversi. Evidentemente questi mercati devono essere molto ben regolati: per una famiglia perdere la casa molto pi grave che perdere un po' dei propri risparmi investiti in Borsa. Ma il punto rimane: diversificare il rischio immobiliare consentirebbe di attenuare il costo di una recessione. Ecco un esempio di come un contratto finanziario relativamente sofisticato potrebbe aiutare persone comuni.

Finanza e confini politici Pensate ora al Cile. La gran parte del reddito nazionale cileno legato a una singola attivit economica: l'estrazione del rame. Non vi dunque da sorprendersi se in Cile esiste una fortissima correlazione fra l'andamento del reddito nazionale e il prezzo del rame: quando il p rezzo del rame alto i cileni sono ricchi, ma quando scende, diminuisce anche il loro reddito. Per stabilizzarlo occorre svincolarlo dalle fluttuazioni del prezzo del rame. Una soluzione sarebbe vendere una buona parte delle miniere cilene a stranieri e investire il ricavato nell'acquisto di aziende in altre parti del mondo: imprese elettroniche a Taiwan, o case automobilistiche tedesche, attivit il cui valore non cambia quando il prezzo del rame oscilla. Ma questa soluzione si scontra con un potente ostacolo politico, perch il parlamento cileno si sempre opposto alla vendita delle proprie miniere di rame a stranieri. Il risultato, anche in questo caso, che la diversificazione non avviene e i cileni rimangono esposti alle fluttuazioni del prezzo del rame.

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E qui che la finanza pu venire in soccorso consentendo di aggirare l'ostacolo politico. Per proteggere il reddito cileno dalle fluttuazioni del prezzo del rame non necessario vendere le miniere: basta che il governo cileno, che le possiede, usi i mercati finanziari sottoscrivendo un contratto cosiddetto di swap, cio di scambio. Ecco come potrebbe funzionare. Il Cile continua a possedere le proprie miniere, ma sottoscrive un contratto, per esempio con grandi fondi pensione inglesi, che lo libera dal rischio di fluttuazioni nel prezzo del rame. Ogni anno il Cile paga al fondo pensione un rendimento che dipende da come va il prezzo del rame; in cambio riceve un rendimento che dipende, per esempio, dall'andamento della Borsa di New York. La propriet delle miniere non cambia, ma il Cile si protetto dalle fluttuazioni nel prezzo del rame. Contratti simili possono essere usati per diversificare anche i rischi delle banche, senza venderle. Dieci anni fa il governo di Lisbona cerc di bloccare l'acquisto da parte di una banca spagnola, Santander, di una banca portoghese, Champalimaud. Il governo portoghese sentenzi che il paese non poteva perdere le proprie banche, perch gli spagnoli avrebbero raccolto il risparmio delle famiglie di Lisbona e lo avrebbero impiegato per finanziare imprese spagnole. Anche qui la finanza aiuta: i prodotti derivati consentono infatti a una banca di diversificare i propri rischi impacchettando i prestiti che ha fatto e vendendoli. Per esempio la banca di Lisbona avrebbe potuto vendere i prestiti erogati alle famiglie portoghesi a investitori finlandesi e con il ricavato acquistare prestiti erogati da banche finlandesi. La propriet nazionale delle banche salva, ma anche i benefici della diversificazione (come abbiamo gi visto, la diversificazione non deve arrivare al punto che la banca portoghese perda ogni incentivo a controllare la qualit dei suoi prestiti).

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Ricapitolando: diversificare il rischio sempre una buona cosa, ma la diversificazione spesso si scontra contro potenti ostacoli politici. E qui che la finanza pu aiutare: consente di diversificare il rischio senza perdere la propriet delle risorse nazionali, come il rame cileno, o delle banche nazionali - se per qualche motivo un paese non intende venderle. Chi pi dovrebbe sostenere i prodotti finanziari derivati sono proprio quei politici che non accettano che le aziende della nazione siano vendute allo straniero.

Limportanza dell'educazione finanziaria Abbiamo pi volte sottolineato che le cose funzionano quando in campo c' la buona finanza. I prodotti finanziari sono spesso complessi e non facile per le famiglie, oltre che per molte imprese - che pure trarrebbero un gran beneficio dalla diversificazione - capire che cosa acquistano. Una buona regolamentazione deve innanzitutto imporre trasparenza, ma la trasparenza serve se gli investitori hanno una solida conoscenza di base dei principi che regolano gli investimenti. L'educazione finanziaria molto scarsa sia in Italia sia nel resto d'Europa sia negli Stati Uniti. Uno studio di Tito Boeri e Luigi Zingales rivela che pi della met degli italiani non conosce la differenza tra un'obbligazione e un'azione. Pi della met crede che sia meno rischioso investire in un solo titolo invece che in un fondo comune, e la maggior parte ignora che cosa sia un tasso di interesse composto. Come evidenzia la ricerca di Annamaria Lusardi, problemi simili esistono anche negli Stati Uniti e in Danimarca, paese con un tasso di istruzione elevato. Una maggiore informazione fondamentale, e un investimento pubblico in questa direzione, a cominciare dalle scuole, ma non solo,

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sarebbe assolutamente necessario. Infatti, chi pi soggetto ai rischi che derivano da una scarsa informazione sono i meno ricchi, coloro per i quali un cattivo investimento pu essere fatale. Per capire come muoversi molte volte gli italiani si ! rivolgono alla loro banca; spesso purtroppo i consigli che ricevono non sono adeguati o, nei casi peggiori, sono orientati unicamente verso l'interesse della banca. Non dimentichiamo quando le banche italiane invogliavano ad acquistare titoli Cirio e Parmalat pochi mesi prima del loro tracollo. Lo stesso accaduto per i titoli argentini. Vietare la speculazione? Da qualche tempo a questa parte non si parla d'altro che di speculatori, ma chi siano e che cosa facciano spesso piuttosto oscuro. Chiaramente sono i cattivi: nell'opinione comune il loro nome ha una decisa connotazione negativa. Ma chi uno speculatore? Il cittadino che compra titoli in Borsa - direttamente o indirettamente attraverso un fondo comune - in base alle sue aspettative sull'andamento della Borsa uno speculatore? Tutti (o quasi) direbbero di no. Ma allora che differenza c' tra il cittadino investitore (il buono) e lo speculatore (il cattivo)? La domanda non ha una risposta facile, se non vogliamo accontentarci di slogan un po' moralistici sulla sete di denaro. Una categoria particolare di speculatori cattivi comprenderebbe coloro che vendono allo scoperto, cio senza possedere i titoli che vendono e contando di acquistarli un minuto prima della consegna a un prezzo pi basso. Vietare le vendite allo scoperto renderebbe i mercati pi instabili, non pi stabili. Pensate a ci che accade quando gli investitori, come talvolta succede, si invaghiscono di un'azienda o di un prodotto o di un

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paese e cominciano a investire in modo irrazionale, acquistando azioni di quell'azienda o di quel paese senza chiedersi - anche quando il prezzo ha raggiunto livelli insensati - se continuino a riflettere realistiche prospettive di guadagno. Spesso i soli investitori che riportano un po' di ragionevolezza in quei mercati sono proprio i cosiddetti speculatori: vendendo allo scoperto dimostrano che, a differenza della maggioranza, c' chi pensa che quei prezzi folli non dureranno a lungo. Svolgono quindi un ruolo importante, quello di ridurre la possibilit che si sviluppino bolle ingiustificate. Se si proibiscono vendite allo scoperto - come accaduto nell'ottobre del 2008 in molti paesi tra cui l'Italia nell'illusione che questo serva a stabilizzare i mercati, si finisce per ottenere l'effetto opposto, cio introdurre pi volatilit nei prezzi.

L'aumento del prezzo del petrolio: colpa della speculazione? Un'altra accusa che si muove alla finanza di aver spinto alle stelle, peraltro solo per qualche settimana, il prezzo di molte materie prime. Per comprendere se si tratti di un'accusa fondata, dobbiamo stabilire che cosa determina il prezzo delle materie prime. Lo faremo con l'esempio di cui si pi discusso, vale a dire quello del petrolio. > Che cosa determina il prezzo del petrolio? Innanzitutto la quantit estratta e cio le decisioni dei produttori e in particolare del loro cartello, l'Opec (l'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio). Certo, se ci fosse pi concorrenza nell'offerta, sarebbe tanto di guadagnato, ma cos non . Se l'Opec decide di tagliare la produzione, si crea un eccesso di domanda e il prezzo sale. La politica dell'Opec probabilmente ci che pi

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condiziona il ciclo del petrolio. Tenendo conto dell'inflazione, e cio misurandolo con i prezzi attuali, il petrolio fino al 1973 costava 20 dollari il barile. Nel 1973, dopo la guerra del Kippur, balz a 50 dollari e nel 1979 fece un altro salto arrivando a 100 dollari. Da allora scese senza interruzione: nel 1986 un barile era tornato a costare 20 dollari e nei vent'anni successivi, fino al 2005, oscill tra i 20 e i 30 dollari. Perch negli anni settanta l'Opec abbia spinto in su i prezzi comprensibile: il cambiamento dei rapporti di forza in Medioriente sfociato nel conflitto tra Israele e i paesi arabi. Perch poi abbia consentito che per vent'anni rimanessero tanto bassi rimane (almeno per noi) un mistero. Ma il punto che oggi siamo tornati a un livello in qualche modo normale. Sulle decisioni dell'Opec influiscono certamente le stime di quanto petrolio si potr estrarre nei prossimi mesi o anni. Fino a poco tempo fa vi era un diffuso ottimismo sulla rapidit con la quale la produzione sarebbe potuta aumenta