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Francesco Lamendola
La conversione ecologica è il nuovo Vangelo
della Chiesa di papa Bergoglio?
Avevamo sempre saputo, o creduto di sapere, che l’essenza della Buona Novella portata da Cristo
agli uomini fosse un invito alla conversione; più precisamente, una conversione dell’anima a Dio,
ad un Dio preciso: quello insegnato da suo Figlio.
Ora veniamo a sapere che il rappresentante di Cristo sulla terra, il pontefice in persona, nella sua
enciclica Laudato si’, ultimata nella ricorrenza della Pentecoste del 2015, e pubblicata il 18 giugno
successivo – un vero e proprio trattato ecologico, politico, sociale, culturale, di quasi 200 pagine e
246 paragrafi – esorta tutti gli uomini, e specialmente i fedeli, ad una “conversione ecologica” e ad
un “cambiamento nello stile di vita”, i cui frutti saranno gioia e pace.
Riportiamo la Sezione terza, intitolata La conversione ecologica (§ 216-221), del capitolo sesto,
Educazione e spiritualità ecologica, sfrondata delle pochissime note:
216. La grande ricchezza della spiritualità cristiana, generata da venti secoli di esperienze
personali e comunitarie, costituisce un magnifico contributo da offrire allo sforzo di rinnovare
l’umanità. Desidero proporre ai cristiani alcune linee di spiritualità ecologica che nascono dalle
convinzioni della nostra fede, perché ciò che il Vangelo ci insegna ha conseguenze sul nostro modo
di pensare, di sentire e di vivere. Non si tratta tanto di parlare di idee, quanto soprattutto delle
motivazioni che derivano dalla spiritualità al fine di alimentare una passione per la cura del
mondo. Infatti non sarà possibile impegnarsi in cose grandi soltanto con delle dottrine, senza una
mistica che ci animi, senza «qualche movente interiore che dà impulso, motiva, incoraggia e dà
senso all’azione personale e comunitaria». Dobbiamo riconoscere che non sempre noi cristiani
abbiamo raccolto e fatto fruttare le ricchezze che Dio ha dato alla Chiesa, dove la spiritualità non
è disgiunta dal proprio corpo, né dalla natura o dalle realtà di questo mondo, ma piuttosto vive con
esse e in esse, in comunione con tutto ciò che ci circonda.
217. Se «i deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così
ampi», la crisi ecologica è un appello a una profonda conversione interiore. Tuttavia dobbiamo
anche riconoscere che alcuni cristiani impegnati e dediti alla preghiera, con il pretesto del
realismo e della pragmaticità, spesso si fanno beffe delle preoccupazioni per l’ambiente. Altri sono
passivi, non si decidono a cambiare le proprie abitudini e diventano incoerenti. Manca loro dunque
una conversione ecologica, che comporta il lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con
Gesù nelle relazioni con il mondo che li circonda. Vivere la vocazione di essere custodi dell’opera
di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno
un aspetto secondario dell’esperienza cristiana.
218. Ricordiamo il modello di san Francesco d’Assisi, per proporre una sana relazione col creato
come una dimensione della conversione integrale della persona. Questo esige anche di riconoscere
i propri errori, peccati, vizi o negligenze, e pentirsi di cuore, cambiare dal di dentro. I Vescovi
dell’Australia hanno saputo esprimere la conversione in termini di riconciliazione con il creato:
«Per realizzare questa riconciliazione dobbiamo esaminare le nostre vite e riconoscere in che
modo offendiamo la creazione di Dio con le nostre azioni e con la nostra incapacità di agire.
Dobbiamo fare l’esperienza di una conversione, di una trasformazione del cuore».
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219. Tuttavia, non basta che ognuno sia migliore per risolvere una situazione tanto complessa
come quella che affronta il mondo attuale. I singoli individui possono perdere la capacità e la
libertà di vincere la logica della ragione strumentale e finiscono per soccombere a un consumismo
senza etica e senza senso sociale e ambientale. Ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie,
non con la mera somma di beni individuali: «Le esigenze di quest’opera saranno così immense che
le possibilità delle iniziative individuali e la cooperazione dei singoli, individualisticamente
formati, non saranno in grado di rispondervi. Sarà necessaria una unione di forze e una unità di
contribuzioni». La conversione ecologica che si richiede per creare un dinamismo di cambiamento
duraturo è anche una conversione comunitaria.
220. Tale conversione comporta vari atteggiamenti che si coniugano per attivare una cura
generosa e piena di tenerezza. In primo luogo implica gratitudine e gratuità, vale a dire un
riconoscimento del mondo come dono ricevuto dall’amore del Padre, che provoca come
conseguenza disposizioni gratuite di rinuncia e gesti generosi anche se nessuno li vede o li
riconosce: «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra […] e il Padre tuo, che vede nel
segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,3-4). Implica pure l’amorevole consapevolezza di non essere
separati dalle altre creature, ma di formare con gli altri esseri dell’universo una stupenda
comunione universale. Per il credente, il mondo non si contempla dal di fuori ma dal di dentro,
riconoscendo i legami con i quali il Padre ci ha unito a tutti gli esseri. Inoltre, facendo crescere le
capacità peculiari che Dio ha dato a ciascun credente, la conversione ecologica lo conduce a
sviluppare la sua creatività e il suo entusiasmo, al fine di risolvere i drammi del mondo, offrendosi
a Dio «come sacrificio vivente, santo e gradito» (Rm 12,1). Non interpreta la propria superiorità
come motivo di gloria personale o di dominio irresponsabile, ma come una diversa capacità che a
sua volta gli impone una grave responsabilità che deriva dalla sua fede.
221. Diverse convinzioni della nostra fede, sviluppate all’inizio di questa Enciclica, aiutano ad
arricchire il senso di tale conversione, come la consapevolezza che ogni creatura riflette qualcosa
di Dio e ha un messaggio da trasmetterci, o la certezza che Cristo ha assunto in sé questo mondo
materiale e ora, risorto, dimora nell’intimo di ogni essere, circondandolo con il suo affetto e
penetrandolo con la sua luce. Come pure il riconoscere che Dio ha creato il mondo inscrivendo in
esso un ordine e un dinamismo che l’essere umano non ha il diritto di ignorare. Quando leggiamo
nel Vangelo che Gesù parla degli uccelli e dice che «nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a
Dio» (Lc 12,6), saremo capaci di maltrattarli e far loro del male? Invito tutti i cristiani a
esplicitare questa dimensione della propria conversione, permettendo che la forza e la luce della
grazia ricevuta si estendano anche alla relazione con le altre creature e con il mondo che li
circonda, e susciti quella sublime fratellanza con tutto il creato che san Francesco d’Assisi visse in
maniera così luminosa.
Quello che più colpisce, nella lettura di questo documento, è la sua impostazione generale: la sua
pretesa di dare una lettura esaustiva, globale, dei fenomeni umani, economici, sociali, ambientali, la
quale, sovente, sconfina in una dimensione specialistica e quasi accademica; e, come conseguenza,
la sua fondazione di nuovi ambiti della spiritualità, come, appunto, quella “ecologica”. Credevamo
di sapere che la spiritualità è la spiritualità, e basta; ora apprendiamo che c’è una spiritualità
ecologica; e che, evidentemente, chi non possiede un orientamento di questo tipo, non ha neppure
una vera spiritualità.
Sorprendete è l’affermazione, al termine del § 216, che la spiritualità non è disgiunta dal proprio
corpo, né dalla natura o dalle realtà di questo mondo, ma piuttosto vive con esse e in esse, in
comunione con tutto ciò che ci circonda. No, non siamo d’accordo: pensiamo a grandi mistiche,
come Teresa Neumann, Marthe Robin, Maria Valtorta, Benedetta Bianch Porro: tutte segnate da
una condizione corporea di estrema sofferenza; la Robin doveva stare anche al buio, oltre ad essere
immobilizzata su un letto; sia lei che Teresa Neumann non assumevano, da moltissimi anni, alcun
genere di alimento, né solido, né liquido (tranne il pane dell’Eucarestia). Eppure erano dotate di una
spiritualità semplicemente sublime: quanti le avvicinavano, ne rimanevano conquistati.
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Non è vero, pertanto, che la spiritualità vive con il corpo e nel corpo, nella natura e con la natura; al
contrario: la spiritualità è un superamento della natura; è una anticipazione dello stato in cui vivono
le anime dopo essersi sciolte dal corpo. È vero, verissimo, che il cristianesimo non nega il corpo, né
lo disprezza; infatti, esso predica la resurrezione della carne: però sia ben chiaro che stiamo
parlando della “carne” trasfigurata dalla condizione soprannaturale. E dove sta scritto che l’anima
deve vivere in comunione con tutto ciò che la circonda, intendendo l’espressione in senso fisico e
materiale? Ciò che circonda l’anima, è la realtà dell’Assoluto: ed è lì che l’anima attinge i tesori
della spiritualità. L’anima spirituale cerca Dio, non il mondo. Il mondo della natura è bello, ma non
ha nulla di spirituale, ed è destinato a perire. L’anima non deve attaccarsi al mondo; se lo fa,
s’incatena da se stessa in quel luogo d’esilio che è la vita terrena. La vera patria dell’uomo non è la
terra, per quanto ci sia “sorella” o “madre”; del resto, sarebbe meglio lasciare simili espressioni
zuccherose a un poeta come Francesco d’Assisi (che è così grande da poterlo fare, senza scivolare
nella retorica), oppure ai melensi banditori dei nuovi culti della New Age. L’uomo ha una sola
patria ultima, il Cielo; e un solo genitore: Dio, che gli è padre e madre.
Del resto, è curioso l’accostamento di termini come “mistica” e “spiritualità” alla “passione per la
cura del mondo”: credevamo che “mistica” e “spiritualità” si riferissero alla passione per l’altro
mondo. La stessa definizione di “mistica” ci lascia perplessi: un “qualche” movente interiore che dà
impulso, motiva, incoraggia e dà senso all’azione personale e comunitaria. Ci lascia perplessi
perché utilizza elementi esclusivamente umani e incentra ogni cosa sull’uomo; ma questa è una
impostazione, nel migliore dei casi, propria dell’etica, non della mistica o della spiritualità. Sia la
mistica che la spiritualità si rivolgono a Dio e cercano in Dio il senso dell’azione umana; non solo:
ricevono da Dio un modo nuovo di essere, di sentire, di operare. Non è l’uomo che si dà una mistica
o che vive una spiritualità; l’uomo non fa altro che offrirsi a Dio, rinunciando a se stesso, morendo a
se stesso. Solo all’uomo che sappia morire a se stesso, che sappia recidere i propri legami con l’io,
viene concessa la Grazia divina di rinascere trasfigurato. Questa è la mistica, questa è la spiritualità.
O, almeno, così credevamo, prima di leggere Laudato si’. E apprendere che le cose stanno
altrimenti: che è l’uomo a darsi una spiritualità o una mistica; e che se le deve dare, per poter amare
degnamente e adeguatamente il mondo di quaggiù.
Il concetto della “conversione ecologica” viene ribadito, e ulteriormente precisato, al § 217, di
modo che non resti margine a dubbi di sorta, laddove papa Bergoglio – citando San Francesco, ma,
secondo noi, a sproposito, o, quanto meno, in maniera ambigua – afferma che i Vescovi
dell’Australia hanno saputo esprimere la conversione in termini di riconciliazione con il creato.
Questa formula è, secondo noi, pericolosissima: pare che, per convertirsi, sia necessario riconciliarsi
con il creato. Invece, lo ripetiamo, la conversione è tale, se avviene rispetto a Dio; una volta che si
converte a Dio e in Dio, l’anima si riconcilia con il reale, compreso il creato: ma questo sarà,
semmai, l’effetto, la conseguenza, non certo la condizione e tanto meno la causa. Pare invece,
stando a quel testo, che chi si converte all’ambientalismo, diventi una persona migliore: il che non è
affatto vero. Si può essere ambientalisti al 100%, e rimanere delle brutte persone; si può amare il
creato, la natura, gli animali e i fiorellini, ma essere delle anime dannate, demoniache. C’è bisogno
di ricordare il grande amore di Hitler per gli animali, e specialmente per il suo cane pastore,
Blondie? Prima di suicidarsi, egli volle che anche Blondie fosse portato fuori da questa valle di
lacrime, ossia che non cadesse vivo nelle mani del nemico. Inoltre, Hitler era vegetariano e non
voleva assaggiare neppure il brodo di carne: lo definiva – e giustamente, dal punto di vista
vegetariano - “sudore di cadavere”. Ma Hitler era quello che era: non c’è bisogno di ricordare le sue
tremende responsabilità nella sofferenza e nella morte d’innumerevoli persone innocenti.
Conclusione: le persone diventano migliori quando si convertono a Dio, non quando si riconciliano
con il creato o con le creature. E quando si convertono a Dio, diventano anche rispettose e
amorevoli nei confronti del creato e delle altre creature. Se no, no.
Tuttavia – ammonisce l’enciclica, al § 219 - non basta che ognuno sia migliore per risolvere una
situazione tanto complessa come quella che affronta il mondo attuale. E qui, finalmente, ci
aspetteremmo che se ne deduca: perché l’uomo ha bisogno di Dio, ha bisogno del dono della sua
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Grazia. Invece no: la conclusione è che ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie.
Dunque, ancora sociologismo; ancora strategie politiche; ancora l’agire dell’uomo come risposta
integrale ed efficace ai problemi umani. Di Dio, neanche l’ombra; del necessario aiuto di Dio, della
sua ispirazione, del suo sostegno costante, niente. Al posto di Dio, una rete di soggetti sociali che
agiscono collettivamente e sinergicamente. Benissimo. La conversione ecologica che si richiede per
creare un dinamismo di cambiamento duraturo è anche una conversione comunitaria. Come ai bei
tempi di Marx, la filosofia non deve interrogare il mondo; deve cambiarlo. L’enciclica è un invito a
“cambiare il mondo”, attraverso un agire comunitario e solidale. Ci permettiamo solo una piccola
domanda: che c’entra tutto ciò, con la fede in Cristo? E a che scopo “salvare il mondo”,
“riconciliarsi con il creato”, “convertirsi all’ecologismo”, se l’uomo perde la propria anima? E che
la perda non è una possibilità, ma una certezza, ogni qual volta si mette in testa di potere e di dovere
far da sé; ogni volta che pensa il reale a partire dal mondo di quaggiù, e non dal mondo di lassù. E
questo, almeno questo, la storia stessa ce lo ha mostrato, non una volta, ma parecchie: perfino dalla
prospettiva di chi la considera in senso puramente immanentistico. La storia dell’uomo che vuole
salvare il mondo diventa l’Inferno, né più, né meno. Di questi Inferni ne abbiamo già visti
abbastanza, solo nel corso del XX secolo.
Nel § 220 si sviluppa ancor più il concetto che la “conversione ecologica” si esprime in vari
atteggiamenti, la cui caratteristica comune è quella di far crescere le capacità peculiari che Dio ha
dato a ciascun credente. Finalmente si parla di Dio: ma se ne parla per dire che gli uomini devono
ben adoperare, sempre in senso ecologista, le “capacità peculiari” di ogni singolo individuo. Strano
linguaggio, strana teologia. A noi era sempre stato detto che Dio dona all’uomo delle doti naturali,
le quali, però, non bastano, perché l’uomo deve attingere alla sorgente perenne della Grazia; e che,
per attingervi, deve rivolgersi interamente a Dio mediante i sacramenti e mediante l’azione salvifica
della sua Chiesa. Qui, invece, non si parla né della Grazia, né della Chiesa, e neppure della vita
soprannaturale. Si direbbe che si parli di una nuova religione, ove a Dio, al “vecchio” Dio cristiano,
è riservato, sì, un palchetto d’onore, ma in una cornice puramente rappresentativa, e, per così dire,
onorifica; ma adesso è l’uomo che pone al centro se stesso, che valorizza se stesso, che impegna al
massimo se stesso. Non si parla di “doni” della Grazia; non si parla più di “ricevere dall’Alto” quel
che l’uomo, da se stesso, non possiede, in quanto creatura: si parla, al contrario, di tutta una serie di
cose che gli uomini devono fare, sia individualmente, sia collettivamente, per prendersi cura
amorevolmente del creato. Da custode del creato, si direbbe che l’uomo si sia promosso, da se
medesimo, al rango di proprietario ed unico responsabile. Che cosa resta da fare a Dio, in un simile
contesto? Praticamente nulla: il mondi sarà salvato dall’uomo, non da Lui. E forse Egli sarà
contento così; forse era proprio questo ciò che desiderava: che l’uomo, divenuto “adulto” (come
voleva il protestante Bonhoeffer), faccia come se Dio non esistesse, etsi Deus non daretur. Ma è
ancora la dottrina cattolica, questa? Un naturalismo “ambientalista”, verniciato vagamente da
deismo, dove la parola ”cristiano” praticamente diviene superflua? Dove Gesù Cristo non è più
l’Alfa e l’Omega, e, tutto sommato, non è proprio niente, perché tanto l’uomo, divenuto adulto, non
ha più bisogno di essere da Lui redento?
Ma ecco che nel § 221, finalmente, si parla di Dio e si parla di Cristo. Era ora. Solo che non si
trovano le espressioni che un cattolico è in diritto di aspettarsi: non si parla del bisogno di Dio che
l’uomo naturalmente ha; né della redenzione di Cristo, senza la quale ogni altra cosa è vana. No: si
dice che ogni creatura riflette qualcosa di Dio e ha un messaggio da trasmetterci, concetto che non
è specificamente cristiano, né cattolico, ma che potrebbe andar bene per qualsiasi religione e anche
per qualsiasi setta o credenza New Age; o che Cristo ha assunto in sé questo mondo materiale e
ora, risorto, dimora nell’intimo di ogni essere, circondandolo con il suo affetto e penetrandolo con
la sua luce; per concludere con una nuova, e ancor più sciropposa, citazione di san Francesco
d’Assisi, in perfetto stile Zeffirelli. Ma è un concetto ambiguo, come gli altri. Certo, che Cristo ha
assunto su di sé il mondo materiale: ma per trascenderlo, non per potenziarlo. Non è stato un
maestro di naturalismo: ha mostrato agli uomini la via del Cielo. Che passa attraverso di Lui: la sua
Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione. Io sono la Via, la Verità e la Vita (Giovanni, 14, 6)...