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AISRE XIX CONFERENZA NAZIONALE DI SCIENZE REGIONALI L’AQUILA, 7-9 OTTOBRE 1998 LA CONTINUITA’ AMBIENTALE NELLA PIANIFICAZIONE DEI TERRITORI NATURALI Pierluigi Properzi, Bernardino Romano, Giulio Tamburini DAU – Università dell’Aquila Monteluco di Roio- 67100 L’AQUILA Riassunto L’affermazione dei concetti legati alla continuità ambientale, intesa come esigenza di mantenere una connessione tra i capisaldi naturalistici del paese in accordo con gli orientamenti e con le indicazioni provenienti dagli organismi europei, provoca la necessaria revisione di alcuni comportamenti metodologici e procedurali rispetto alle forme di pianificazione. E’ evidente che pressochè in tutte le manifestazioni di piano esiste motivo di confronto con gli aspetti della continuità ambientale, ma di certo la pianificazione dei parchi e delle aree protette rappresenta l’occasione principale per rivisitare alcune forme tradizionali di controllo d’uso del territorio. Il contributo si prefigge di sintetizzare le linee tendenziali tecnico-scientifiche correnti sull’argomento, gli indirizzi della ricerca, ed alcune esperienze contestualizzate di notevole significato esemplificativo sulla struttura del piano in presenza di aree protette e reti ecologiche. Introduzione La costituzione del sistema delle aree protette italiane, ben oltre l’approccio semplicistico associabile alla frequente citazione dello slogan, si preannuncia quale iniziativa di notevole complessità tecnico-scientifica ed amministrativo-procedurale. Nel percorso concettuale e politico che, negli ultimi quindici anni, ha visto l’ambiente guadagnare sensibilmente posizioni nella scala delle priorità nazionali, dopo i principi manifestati con la legge 431/85, con la legge 183/89 e con la 394/91, l’ipotesi di delineare una struttura reticolare naturale complessiva del paese, nella quale controllare, con opportuni strumenti, trasformazioni ed evoluzioni, appare come un ulteriore salto logico di grande portata. In sostanza ci si avvicina sempre di più all’obiettivo di inserimento della istanza ambientale nel processo delle decisioni e delle programmazioni alla scala nazionale, almeno in forma paritetica, ma tendenzialmente prevalente (apparato fondativo strutturale a matrice ambientale del piano (Masè, 1997), rispetto ad altre istanze tradizionalmente ivi collocate, quali quelle residenziali, infrastrutturali, industriali, agricole. La rete ecologica italiana può pertanto essere riguardata come il mezzo irrinunciabile per estendere efficacemente la politica di tutela ambientale all’intero territorio senza i condizionamenti e le inefficienze dovute agli interventi isolati e frammentari, calibrati essenzialmente sulle esigenze di conservazione di singoli beni documentati o autorevolmente referenziati, come insito nei criteri della vecchia legge 1497/39, ma anche in parte della più recente 394/91. In questo esito vengono innegabilmente a confluire molti altri temi che hanno segnato il dibattito disciplinare, scientifico e politico sulla pianificazione e sulla sua evoluzione gestionale. Argomenti ormai classici di interesse dell’INU, oltre che in qualche caso oggetto dei recenti provvedimenti di riforma istituzionale (legge Bassanini), come la riforma urbanistica, la diversa impostazione del piano (piano strutturale e piano operativo), la perequazione immobiliare, la sussidiarietà tra gli attori della programmazione, il ruolo del piano alle diverse scale, i rapporti tra livelli di

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AISRE XIX CONFERENZA NAZIONALE DI SCIENZE REGIONALI

L’AQUILA, 7-9 OTTOBRE 1998

LA CONTINUITA’ AMBIENTALE

NELLA PIANIFICAZIONE DEI TERRITORI NATURALI

Pierluigi Properzi, Bernardino Romano, Giulio Tamburini

DAU – Università dell’Aquila Monteluco di Roio- 67100 L’AQUILA

Riassunto L’affermazione dei concetti legati alla continuità ambientale, intesa come esigenza di mantenere una connessione tra i capisaldi naturalistici del paese in accordo con gli orientamenti e con le indicazioni provenienti dagli organismi europei, provoca la necessaria revisione di alcuni comportamenti metodologici e procedurali rispetto alle forme di pianificazione. E’ evidente che pressochè in tutte le manifestazioni di piano esiste motivo di confronto con gli aspetti della continuità ambientale, ma di certo la pianificazione dei parchi e delle aree protette rappresenta l’occasione principale per rivisitare alcune forme tradizionali di controllo d’uso del territorio. Il contributo si prefigge di sintetizzare le linee tendenziali tecnico-scientifiche correnti sull’argomento, gli indirizzi della ricerca, ed alcune esperienze contestualizzate di notevole significato esemplificativo sulla struttura del piano in presenza di aree protette e reti ecologiche. Introduzione La costituzione del sistema delle aree protette italiane, ben oltre l’approccio semplicistico associabile alla frequente citazione dello slogan, si preannuncia quale iniziativa di notevole complessità tecnico-scientifica ed amministrativo-procedurale. Nel percorso concettuale e politico che, negli ultimi quindici anni, ha visto l’ambiente guadagnare sensibilmente posizioni nella scala delle priorità nazionali, dopo i principi manifestati con la legge 431/85, con la legge 183/89 e con la 394/91, l’ipotesi di delineare una struttura reticolare naturale complessiva del paese, nella quale controllare, con opportuni strumenti, trasformazioni ed evoluzioni, appare come un ulteriore salto logico di grande portata. In sostanza ci si avvicina sempre di più all’obiettivo di inserimento della istanza ambientale nel processo delle decisioni e delle programmazioni alla scala nazionale, almeno in forma paritetica, ma tendenzialmente prevalente (apparato fondativo strutturale a matrice ambientale del piano (Masè, 1997), rispetto ad altre istanze tradizionalmente ivi collocate, quali quelle residenziali, infrastrutturali, industriali, agricole. La rete ecologica italiana può pertanto essere riguardata come il mezzo irrinunciabile per estendere efficacemente la politica di tutela ambientale all’intero territorio senza i condizionamenti e le inefficienze dovute agli interventi isolati e frammentari, calibrati essenzialmente sulle esigenze di conservazione di singoli beni documentati o autorevolmente referenziati, come insito nei criteri della vecchia legge 1497/39, ma anche in parte della più recente 394/91. In questo esito vengono innegabilmente a confluire molti altri temi che hanno segnato il dibattito disciplinare, scientifico e politico sulla pianificazione e sulla sua evoluzione gestionale. Argomenti ormai classici di interesse dell’INU, oltre che in qualche caso oggetto dei recenti provvedimenti di riforma istituzionale (legge Bassanini), come la riforma urbanistica, la diversa impostazione del piano (piano strutturale e piano operativo), la perequazione immobiliare, la sussidiarietà tra gli attori della programmazione, il ruolo del piano alle diverse scale, i rapporti tra livelli di

pianificazione non possono considerarsi estranei e distaccati rispetto all’obiettivo di una presenza preminente delle componenti ambientali nei momenti decisionali di assetto dei suoli e, quindi, rispetto alla riconduzione delle esigenze ambientali ad un regime di ordinarietà (“territorializzazione” delle politiche ambientali) (Gambino, 1997). Del resto alcune questioni, come quella di ampliare il campo visuale della pianificazione operativa rispetto all’ottica meramente comunale, anch’essa testimone del criterio di azione per “isole”, sono contenute in forma più o meno esplicita nella legislazione riferita all’ambiente; la stessa legge quadro sulle aree protette del 1991 introduce, come è ben noto, un piano del parco che viene definito onnicomprensivo e sostitutivo delle altre presenze strumentali, delineando così un piano operativo a scala ampiamente intercomunale di cui però non si chiariscono i meccanismi procedurali e di azione (Properzi & Seassaro, 1996). E’ senz’altro vero che questa configurazione del piano è stata più dettata da uno spirito di “sfiducia” verso i piani tipicamente urbanistici, ritenuti storicamente rei di cospicue malefatte ambientali, più che dalla intenzione di introdurre una modalità realmente alternativa di programmazione integrata delle trasformazioni territoriali (che avrebbe avuto implicazioni ben più complesse di quelle elaborabili con il previsto, datato sistema zonale al quale viene attribuita la funzione di dirimere interferenze natura-insediamento) (Monticelli, 1993). Resta il fatto che i problemi ambientali eccedono la dimensione comunale (Gambino, 1996) e pertanto la pianificazione pregressa dovrà confrontarsi con strumenti diversi, e ha iniziato a farlo, nell’immediato futuro. Alcuni settori della ricerca territoriale si sono attivati già da qualche tempo sull’argomento della continuità ambientale, in seguito anche a sollecitazioni di matrice europea (programma EECONET, Direttiva Habitat, progetto Natura 2000). Più precisamente sono state prodotte iniziative soprattutto ad opera di alcune sedi universitarie con tradizione pluriennale di lavoro nel campo della pianificazione ambientale e anche, più recentemente, di alcuni enti istituzionali, quale l’Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (ANPA) e alcune derivazioni regionali (ARPA). Qualche prodotto è disponibile e riguarda la struttura delle componenti ambientali alla scala europea e nazionale, con molteplici indicazioni sulle polarità naturalistiche, le loro caratteristiche e la loro evoluzione gestionale (Peano, 1997), oltre a rassegne di esperienze internazionali sul tema delle connessioni ecologiche (ANPA, 1997). Al livello nazionale si stanno affrontando problemi di pianificazione della rete ecologica attraverso il coinvolgimento di spazi territoriali idonei per la formazione della maglia di continuità ambientale, cercando di analizzare e risolvere le difficoltà derivanti da una fitta presenza di barriere infrastrutturali che, di fatto, frammentano sensibilmente gli assi significativi della ecoconnessione1. Oltre a ciò, proprio la collaborazione tra gruppi di ricerca e commissioni dell’INU, sta comportando attenzioni al tema delle ecoconnessioni anche nella stesura di testi legislativi urbanistici regionali, quale quelli della Basilicata e del Molise. Si tratta di primi passi per l’Italia, che conta ancora poche esperienze, rispetto ad altri paesi, quali l’Olanda, la Slovenia, la Gran Bretagna, il Belgio, la Spagna (Gambino, Negrini & Peano, 1997, Pungetti G., 1998). La ricognizione delle unità geografiche bio-permeabili (intendendo come tali le porzioni di territorio con capacità di ospitare, almeno transitoriamente, ovvero farsi attraversare, da forme di vita prevalentemente animale, ma non solo, presentando a ciò un disturbo limitato e un livello almeno minimo di biodiversità propria) (Romano, 1996), la conoscenza del loro stato di efficienza, il riconoscimento delle eventuali potenzialità per interventi di ripristino, i criteri tecnici di realizzazione di opere di by-pass infrastrutturale, la normativa di garanzia per mitigare frammentazioni future, il regime di governo dei corridoi ecologici, il ruolo degli strumenti urbanistici locali, le modalità di disponibilità delle aree utilizzabili in tal senso, il progetto degli interventi circostanziati sugli spazi connettivi sono solamente alcuni degli aspetti che vengono a

1 Una delle occasioni di studio del tema della continuità ambientale nazionale è il progetto Murst 40% PLANECO (Planning in Ecological Network) rivolto alla definizione delle funzioni della pianificazione nei contesti naturali e connettivi semi-naturali. Le sedi universitarie coinvolte sono quelle dell’Aquila, di Camerino (sede di Ascoli Piceno) e di Chieti.

configurare una condizione di complessità ben più consistente di quella rilevabile nelle stesse aree protette considerate quali organismi “chiusi”. Oltre a ciò, proprio con riferimento a queste ultime entità, la presenza di istanze connettive influisce decisamente sui criteri di impostazione metodologica della pianificazione dei parchi, obbligando gli operatori a guardare ben al di là dei confini dell’area protetta e, soprattutto, a gettare questo sguardo in maniera ben diversa da quanto, tradizionalmente, veniva fatto con le semplici elaborazioni di “inquadramento territoriale”. Nel contesto del presente lavoro si illustra una esperienza di riflessione su questo ultimo argomento, utilizzando il riferimento costituito dall’insieme delle aree protette dell’Appennino Centrale ed una occasione di pianificazione incipiente di un grande parco regionale di recente istituzione, contraddistinto da rilevanti implicazioni connettive. La continuità ambientale nazionale e le articolazioni locali L’analisi della struttura ambientale nazionale pone in luce alcuni aspetti interessanti che denotano però, in maniera inequivocabile, il limitato interesse profuso nel passato verso la naturalità diffusa, anche se residuale, nelle fasi di programmazione complessiva dei grandi interventi e delle localizzazioni infrastrutturali. Se risulta accettabile che la ristretta visuale della pianificazione locale, che ha del resto prodotto per sommatoria la maggior parte delle trasformazioni territoriali del paese, non abbia mai guardato al di là delle bordature amministrative all’interno delle quali, di volta in volta, si esplicava, è ben più difficile giustificare una miopia generalizzata degli estensori dei programmi strategici nazionali rispetto al tema della continuità geografica, morfologica e, di conseguenza ambientale di grandi unità naturali quali l’arco alpino e la dorsale appenninica. Eppure, mentre erano pur presenti pressioni e spinte culturali per realizzare riserve e parchi (la prima proposta di legge-quadro sui parchi alla Camera dei Deputati risale ai primi anni ’60) l’incremento della viabilità nazionale e degli interventi connessi, frammentava irrimediabilmente il tessuto naturale del paese con esiti che forse mai nessuno saprà valutare appieno. La sensibilità degli organismi di gestione infrastrutturale ai problemi ambientali è cosa estremamente recente, in primo luogo in ordine ad alcuni aspetti di mitigazione degli impatti da disturbo (inquinamento, barriere antirumore, arredi verdi) e solamente in qualche caso manifestata in merito alla deframmentazione ambientale, come nella foresta di Tarvisio (Autostrade S.p.A., 1997). Eppure fin dagli anni ’70 alcuni studi estesi al territorio nazionale, in particolare quello montano, consentivano di visualizzare il livello di continuità geografica dei suoli naturali e semi-naturali (Ministero Agricoltura e Foreste, 1976), nonché gli effetti ormai avanzati che utilizzazioni produttive di varia tipologie e, soprattutto, l’incremento della rete di mobilità veicolare, comportava sulla contiguità ambientale. Dalla lettura comparata di questi elementi (definiti quali spazi “bio-permeabili” e barriere) utilizzando tecniche GIS, è emersa la situazione riportata nelle Figg. 1 e 2, dove è evidente come, a fronte di una configurazione abbastanza continua delle aree con biopermeabilità almeno minima, ricavata attraverso la selezione delle categorie Corine Land Cover, la presenza della maglia infrastrutturale genera fratture importanti, frazionando l’area appenninico-alpina in una dozzina di macrozone all’interno delle quali sarebbe ancora possibile ottenere risultati efficaci sul fronte della ecoconnessione con impegni economici e tecnici sostenibili. Gli interventi di deframmentazione nei casi di barriere più consistenti, quelle definite “complesse” si presentano al contrario di impegno tecnico-economico rilevante e, attualmente, di scarsa condivisibilità sociale. Aver posto in evidenza gli elementi della continuità ambientale sostanzia in maniera decisiva l’opinione secondo la quale il mantenimento a oltranza delle “isole protette” (parchi e riserve), senza un supporto di azione teso a garantire la permanenza di almeno un minimo di qualità

ambientale agli spazi contigui, non può sortire effetti con positività incrementale sul lungo periodo. Ciò è tanto più vero in presenza di estensioni superficiali dei singoli parchi come quelle italiane, non più modestissime ma pur sempre dell’ordine dei 200.000 ettari come limite massimale (comprese le aree a vario titolo insediate) e quindi sempre esigue rispetto agli home range medi stimati per individuo di molte specie animali, nei confronti delle quali la comunità scientifica italiana e gli organi di governo detengono la responsabilità planetaria di sopravvivenza. In questo contesto problematico emerge quindi l’importanza strategica, nell’ottica ambientale, di molti territori che la cultura comune, ma anche il mondo della pianificazione, hanno relegato con troppa facilità alla condizione del “non intervento” o della potenzialità elevata per trasformazioni insediative, in base alla equazione “carenza di qualità ambientali esplicite e localizzate”= “limitato impatto ambientale delle opere preventivate”. E’ il caso tipico degli incolti, dei suoli a vario titolo degradati, dei suoli “ex”-qualcosa (ex coltivi, ex pascoli, ex foreste), generalmente poco considerati nella composizione conoscitiva dei quadri delle qualità ambientali, attenta soprattutto a rilevare valenze di picco o, comunque, valori diretti, contestualizzati e “leggibili”. Questi luoghi sono invece quelli dei valori “relazionali”, ma la loro importanza, appunto per questa caratteristica, emerge esclusivamente da una lettura di insieme, lontana pertanto dalla logica della “emergenza ambientale” (intesa quale singolarità) o del “sito di rilevanza xxxx”. In sostanza, il da più parti richiamato ed auspicato “sistema nazionale delle aree protette” non può essere realizzato senza il coinvolgimento degli spazi a naturalità minimale, residua o “semi-naturali” in una politica di tutela articolata e misurata, ma, pur sempre, di tutela. Deriva da queste considerazioni che, necessariamente, la dimensione territoriale minima di trattazione del tema della continuità ambientale è quella peninsulare, almeno per l’Italia, il che fornisce al tema della pianificazione, oltre ad un obiettivo aggiuntivo rispetto a quelli pregressi e tradizionali, un quadro operativo (e non semplicemente di “inquadramento” problematico) vasto e responsabilizzante. Un quadro operativo nel quale le esigenze di conservazione ambientale si “territorializzano” realmente e nel quale, inoltre, la pianificazione di unità geografiche circoscritte, quali i parchi o le stesse aree insediate, deve confrontarsi operativamente con un sistema reticolare la cui efficienza, in base alla legge della “resistenza della catena”, è condizionata da quella del componente più debole. In questo senso la citata ricerca in corso di sviluppo sulla pianificazione nelle reti ecologiche ha evidenziato come, nella situazione attuale, non tutte le aree protette hanno uguali caratteristiche nei confronti della struttura della continuità ambientale nazionale, in quanto le modificazioni subite dal territorio hanno comportato alcune alterazioni in merito alla condizione geografica teorica che si potrebbe evincere dal semplice esame cartografico a scala ampia delle situazioni territoriali. In primo luogo le stesse aree protette, considerate quali unità chiuse e ambientalmente omogenee, non presentano sempre condizioni di continuità scontata; alcuni parchi nazionali e regionali sono internamente frammentati a causa della presenza di infrastrutture di rilievo o di concentrazioni produttive a sviluppo longitudinale (tipico il caso del Pollino, attraversato da un consistente asse infrastrutturale costituito dalla Autostrada Salerno-Reggio Calabria, dalla ferrovia e dalla S.s. 92., ma anche altri parchi hanno occlusioni interne della biocontinuità, pur se di peso più limitato). In qualche caso l’area protetta, pur se di dimensioni rilevanti, è tagliata parzialmente o totalmente fuori da possibilità di ecoconnessione con spazi biopermeabili limitrofi (è il caso del Parco nazionale Cilento-Vallo di Diano, a causa della barriera nord-orientale formata dalla Autostrada A3, affiancata alla ferrovia e alla viabilità ordinaria e delle concentrazioni produttive della Valle del Calore, oppure, in forma ancora più eclatante, del Parco del Gargano, totalmente estromesso da possibilità di ecoconnessione, che non siano quelle con il mare, dalle direttrici e dalle polarità infrastrutturali lineari e stellari occidentali, oltre che dalla utilizzazione produttiva intensiva della Piana del Tavoliere ). In casi ancora diversi, alcuni contatti geografici e anche amministrativi, si rivelano come solamente apparenti sul piano biologico. Accade almeno due volte nei parchi dell’Appennino Centrale: la contiguità tra il Parco Nazionale dei Monti Sibillini e quello del Gran Sasso-Monti della Laga è

fortemente ostacolata dalla presenza della marcata linea infrastrutturale e insediativa della Valle del Tronto, mentre il contatto tra quest’ultimo parco e il Parco nazionale della Majella non ha efficienza ecofunzionale a causa della solita concentrazione di assi viari e ferroviari, ma anche per la presenza di uno svincolo, di un’area industriale e di una sfavorevole morfologia dei versanti vallivi del fiume Pescara, qui rocciosi ed estrememente acclivi. Lo studio sulla dislocazione degli spazi naturali residuali ha evidenziato invece che le direzioni di minore resistenza teorica agli spostamenti biologici (Boitani, 1997) sono invece altri e coincidono con linee di contiguità che non possono essere trascurate dalla incipiente azione di pianificazione dei parchi (Fig. 3). Considerazioni sulle linee di pianificazione dei parchi in presenza della “rete ambientale” L’indagine svolta nell’ambito del programma di ricerca PLANECO ha sortito un primo risultato parziale evidenziando, come sopra accennato, alcune linee più significative di altre in termini di connessione ecologica tra i capisaldi del network formati dalle aree protette. Ne è derivata la constatazione che, in particolare, tra i parchi dell’Appennino Centrale, il parco regionale Sirente-Velino, un’area protetta estesa per circa 60.000 ettari che interessa uno sdoppiamento occidentale del crinale appenninico principale, riveste un ruolo nodale nello smistamento ecologico a livello di questo settore nazionale, soprattutto a causa di quelle discontinuità effettive tra i parchi nazionali di cui si è dato conto in precedenza (Fig. 3). La funzione connettiva del Sirente-Velino è molto pronunciata, oltre che verso le are protette in posizione di maggiore prossimità, come il Gran Sasso-Laga, la Majella e il Parco Nazionale d’Abruzzo, anche verso parchi più distanti, come i Monti Sibillini e i Simbruini. Per questi motivi è in corso un approfondimento degli studi territoriali su questa area2, per cercare di sviluppare criteri e forme più adeguati di pianificazione rispetto ad una funzione che travalica abbondantemente i tradizionali presupposti di politica “introspettiva” della conservazione a cui esponenti anche autorevoli dell’ambientalismo scientifico si sono generalmente applicati. Uno degli argomenti privilegiati nel programma di lavoro, alle sue battute iniziali, è quello della indagine tematica (faunistica, vegetazionale, geologica, territoriale) fortemente orientata ad evidenziare corrispondenze, rapporti, legami di effetto, potenzialità e scenari, nell’ottica di allestire strumenti di interpretazione ai fini dell’articolazione zonale il più possibile strutturati in senso relazionale. La discussione pregiudiziale della tipica, e utilizzatissima, concezione dello zoning ambientale costituisce infatti un momento chiave di rilettura metodologica nel perseguimento di un obiettivo di integrazione progressiva e, soprattutto, incrementale, dell’area protetta nel suo contesto, nonché di traslazione effettuale degli esiti della politica ambientale interna al parco verso il territorio esterno. Rimandando l’approfondimento delle questioni legate al criterio zonale dei parchi ad alcune occasioni di confronto (Gambino, 1994, Romano, 1993, 1994) resta il fatto che, di fronte alla logica ecoconnettiva, l’applicazione della “struttura zonale concentrica” presenta alcune debolezze costitutive ben intuibili. Lo schema formato dalle unità di tutela ad anelli con pressione vincolistica centripeta, utilizzato in molti parchi del mondo, e riproposto dalla normativa-quadro italiana (l. 394/91) oltre che da numerose leggi regionali di recepimento, quale contenuto primario del piano del parco, si lega concettualmente in modo univoco all’immagine “insulare” dell’area protetta. Il nucleo naturalistico essenziale del parco, quello che, tra l’altro, giustifica l’esistenza del parco stesso, viene difeso dall’influenza esterna dagli anelli di protezione. Ciò comporta un effetto di mantenimento efficace della naturalità del nucleo, ma una scarsa, o nulla, relazione biologica con l’esterno delle peculiarità ambientali dello “scrigno”.

2 Gli approfondimenti sull’area del Parco regionale Sirente-Velino vengono effettuati nell’ambito di una convenzione in corso tra l’Ente Parco e l’Università dell’Aquila tesa alla elaborazione degli “Studi preliminari al piano del parco” e al relativo allestimento del Sistema Informativo Territoriale.

Senza contare che, generalmente, le attività consentite negli anelli esterni del parco possono anche sortire ulteriori effetti-barriera non trascurabili (si può citare il caso ampiamente dibattuto sulla cronaca nazionale nel 1993 dell’esercizio dell’attività venatoria nella zona di protezione esterna del Parco Nazionale d’Abruzzo, oppure alcune attività regolarmente consentite nella zona di riserva generale e nella zona di protezione dello stesso parco, tra cui quelle agricole, forestali, con miglioramenti e adeguamenti annessi), ma che in ogni caso, come esito tendenziale, contribuiscono, nella migliore delle ipotesi, a mantenere il differenziale ambientale con il territorio circostante, ma certamente non ad equilibrarlo a favore di quest’ultimo. Oltre a ciò, la mancata considerazione della valenza ambientale “relazionale” della matrice territoriale che contiene i parchi può condurre a riversare in queste aree periferiche iniziative insediative e infrastrutturali, anche di servizio o di supporto alla fruizione del parco, ma che non possono più essere normativamente accettate negli anelli zonali interni, con il risultato di accentuare la condizione di insularità naturale. Uno dei criteri ipotizzati in sede di ricerca, certamente da sottoporre ad una verifica disciplinare accurata, è quello dell’allestimento di una struttura zonale “ramificata” (branched zoning structure) in grado di porre in comunicazione l’area protetta con l’esterno, salvaguardando le continuità ambientali interne e le ecoconnessioni esistenti e potenziali. E’ chiaro come, in vista del raggiungimento di un obiettivo di tale genere, il parco va riguardato come tassello della macrocontinuità nazionale e, pertanto, le scelte di organizzazione interna vanno riferite realmente, ed in modo verificabile a posteriori, ad una strategia complessiva che dovrebbe avere quale documento fondativo la Carta della Natura, ovviamente allestita secondo i criteri citati. I presupposti di continuità ambientale condizionano certamente la geografia delle unità di tutela, o almeno di quelle a regime vincolistico più incisivo (riserve naturali integrali e generali). Per esse dovrebbe divenire importante in primo luogo il collegamento reciproco all’interno dell’area protetta, conseguito anche mediante interventi mirati di rimozione delle cause di frammentazione degli habitat (strade, barriere insediative, fonti di disturbo visuale e sonoro). In secondo luogo le stesse riserve dovrebbero avere delle ramificazioni verso i bordi del parco, in corrispondenza di ambienti esterni con caratteristiche di residualità naturale accettabile, sia in relazione alla stanzialità eventuale delle specie, sia, almeno, alla possibilità di una presenza transitoria nell’economia di probabili trasferimenti (corridoi ecologici). Da queste considerazioni emerge la possibilità, ed anche l’esigenza, di operare forme di gestione sofisticata delle connessioni ecologiche, sia nel merito del rapporto con le altre componenti territoriali, quale le diverse manifestazioni dell’insediamento, sia riguardo alle opportunità di favorire o meno, in base a valutazioni scientifiche, movimenti biologici tra zone limitrofe, superando necessariamente forme introverse di applicazione disciplinare. Gli aspetti appena elencati ricadono infatti senz’altro nella sfera delle applicazioni tipiche della ecologia del paesaggio e del progetto ambientale contestualizzato, nel quale studiare sia opportunità reali di movimento biologico (che non sempre può rivelarsi vantaggioso), sia altri elementi specifici, come eventuali barriere artificiali di inibizione dei movimenti biologici, oppure, per motivi di mitigazione della frammentazione, arredi verdi incentivanti i trasferimenti, ripristini vegetazionali, schermature, attraversamenti infrastrutturali, tecniche di monitoraggio. Ma altri aspetti, quali quelli del rapporto e dell’inserimento delle aree protette nella struttura ambientale generale, delle articolazioni decisionali in merito a ruoli sovralocali delle unità di tutela, delle limitazioni o delle compartecipazioni che le comunità sociali e la struttura insediativa possono avere nel conseguimento di obiettivi di continuità ambientale, della regolamentazione complessa degli spazi con funzione ecologica all'interno dell’ormai corposo pacchetto normativo istituzionale, della funzione operativa dei diversi livelli di strumenti stratificati in merito al problema della continuità ambientale, sono senza dubbio a carico della pianificazione e rappresentano, insieme alla elaborazione degli strumenti dei parchi, un ulteriore, interessante spunto sperimentale per compiere un ulteriore, decisivo passo per la soluzione della “questione ambientale”.

Fig. 1 – Configurazione degli spazi bio-permeabili in Italia – Linee evolutive Nota sulle fonti dei dati: la presente configurazione dei suoli deriva da una elaborazione delle informazioni cartografiche in scala 1:500.000 tratte da: MINISTERO

DELL’AGRICOLTURA E FORESTE, Carta della Montagna, Geotecneco 1976. E’ in corso un approfondimento sulla base delle indicazioni del Corine Land Cover.

La "bio-permeabilità" e stata definita nell’ambito della ricerca come la capacità di una porzione di territorio di ospitare, almeno transitoriamente, ovvero farsi attraversare, da forme di vita prevalentemente animale, ma non solo, presentando a ciò un disturbo limitato e un livello almeno minimo di biodiversità propria. Nella Figura è evidente l’inviluppo delle seguenti categorie di uso del suolo, corrispondenti a livelli di biopermeabilità decrescente:

Aree forestali Ambiente generalmente di elevata valenza ecologica, ndubbiamente elettivo per la maggior parte delle specie faunistiche, in relazione alla diffusa presenza di ripari e nascondigli e alla limitata entità del disturbo antropico, almeno nelle ore nutturne e nei periodi in cui non si attuano interventi di taglio. In linea preliminare a questa categoria di uso del suolo è stato riconosciuto il livello più elevato di biopermeabilità. Pascoli, pascoli degradati, incolti Gli incolti, generalmente anche cosparsi di vegetazione residuale delle coltivazioni (soprattutto specie arboree da frutto ed arbustive da siepe gradite anche alla fauna selvatica), sono stati considerati ad un secondo livello di biopermeabilità, tenendo conto che non sono presenti generalmente né occlusioni fisiche al transito biologico, né cause di disturbo diurno o notturno, in quanto non ci sono motivazioni per attività umane continuative. Il pascolo è stata ritenuta la tipologia di uso del suolo che corrisponde al minimo livello di bio-permeabilità accettabile ai fini della continuità ambientale. In molti casi è possibile che le condizioni di diversità vegetazionale siano migliori nei pascoli che non negli incolti e nei suoli degradati. Però nelle zone di pascolo è certamente più accentuato il disturbo dovuto alle attività di gestione (falciature stagionali e presenza umana e di animali domestici, anche se non continuativa). Possono inoltre essere presenti occlusioni fisiche della continuità ambientale, quali barriere di delimitazione della proprietà, anche se di tipo facilmente superabile e precario (steccati in legno di altezza limitata, spesso con parti mancanti o deformate). Rocce affioranti e altri suoli degradati

Nota: Aree agricole - Non sono state considerate come spazi idonei in termini di continuità ambientale le aree agricole. In queste, infatti, soprattutto nelle forme intensive e specializzate, ma non solo, la presenza di edifici, anche se radi, comporta movimento di persone, illuminazione notturna, rumori. La biodiversità vegetazionale è molto limitata, le barriere di delimitazione della proprietà sono più solide e difficilmente superabili (recinzioni in legno, muratura, rete metallica), ma anche in mancanza di queste i movimenti umani sono quotidiani e danno luogo ad un disturbo continuativo. La rete infrastrutturale, inoltre, anche se solo rurale, è sempre fitta e diffusa. Il livello di biopermeabilità di questo tipo di aree è stato ritenuto troppo basso ai fini di un eventuale inserimento in corridoi ecologici, fermo restando che alcune tipologie di conduzione agricola, soprattutto montane, potrebbero anche risultare compatibili con la mobilità biologica.

SIT – Sistema Informativo Territoriale Elaborazione maggio 1998

1) Alpi Marittime e Cozie, Val Sesia, Val d'Isere (Parco Regionale dell’Argentera, Parco Regionale Orsiera-Rocciavrè, Parco Regionale Monte Avic, Parco Nazionale Ecrins, Parco Nazionale della Vanoise, Parco Nazionale del Gran Paradiso);

2) Alpi Pennine e Lepontine, Alpi Bernesi (Riserva naturale di Grimsel, Parco Nazionale della Val Grande);

3) Alpi Orobiche, Alpi Retiche, Valtellina , Val Venosta (Parco Regionale delle Orobie, Parco Regionale Adamello-Brenta, Parco Gruppo di Tessa, Parco regionale Alto Garda Bresciano, Parco Nazionale dello Stelvio, Parco Nazionale dell’Engadina);

4) Dolomiti, Alpi Aurine (Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, Parco di Paneveggio-Pale di S.Martino, Parco dello Sciliar, Parco Puez-Odle, Parco Fanes-Sennes-Braies, Parco Vedrette di Ries, Parco delle Dolomiti di Sesto, Parco delle Dolomiti d'Ampezzo);

5) Alpi Carniche, Alpi Giulie, Slovenia (Parco Regionale delle Prealpi Carniche, Parco Regionale delle Alpi Giulie, Parco Regionale Dolomiti di Sesto-d’Ampezzo, Parco Nazionale di Triglavski);

6) Appennino Ligure (Parco Regionale del Magra, Area protetta del Bric-Tana, Monte di Portofino, Monte Antola);

7) Appennino Emiliano -Toscano (Parco Regionale delle Alpi Apuane, Parco Regionale dell’Alto Appennino Reggiano);

8) Appennino Toscano - Umbro - Marchigiano - Abruzzese - Laziale - Molisano (Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Parco nazionale dei Monti Sibillini, Parco nazionale Laga-Gran Sasso d'Italia, Parco nazionale della Maiella, Parco nazionale d’Abruzzo, Parco Regionale del Sirente-Velino, Parco Regionale dei Simbruini-Ernici, Parco Regionale Monte Cucco, Parco Regionale Monte Subasio, Parco Regionale Monti Lucretili, Parco Monti del Matese);

9) Promontorio del Gargano (Parco nazionale del Gargano) 10) Appennino Campano (Parco dei Monti Picentini) 11) Murge 12) Appennino meridionale Lucano - Calabrese (Parco nazionale

del Cilento-Vallo di Diano, Parco nazionale del Pollino); 13) Appennino Calabrese (Parco nazionale della Calabria,); 14) Appennino Calabrese (Parco nazionale dell’Aspromonte); 15) Sicilia (Parco Regionale dell’Etna, Parco Regionale delle

Madonie, Parco regionale dei Nebrodi); 16) Sardegna (Parco nazionale del Gennargentu). 17) Maremma Tosco-laziale

Fig. 3 – Struttura della continuità ambientale nell’Appennino Centrale Nella figura sono riportati i suoli biopermeabili già esaminati nella Fig. 1 (toni di grigio), le aree protette (con bordi neri e pallini in nero pieno quelle di estensione inferiore ai 1.500 ha), i maggiori insediamenti urbani (rombi neri) e i principali assi infrastrutturali. I due cerchi indicano i contatti geografici tra i parchi che non possono considerarsi però bioconnessioni, a causa di condizioni morfologiche, di addensamenti insediativi e infrastrutturali localizzati. Sono invece state poste in evidenza in bianco le linee potenziali di connessione ecologica dalla dislocazione delle quali si evince il ruolo importante di smistamento biologico svolto dal parco del Sirente-Velino, area protetta regionale di 60.000 ha posta tra l’area-sorgente del Parco nazionale d’Abruzzo e gli altri capisaldi naturalistici della rete ecologica dell’Appennino Centrale. 0 40km

MS – Parco Nazionale dei Monti Sibillini GSL – Parco Nazionale Gran Sasso – Laga MA – Parco Nazionale della Maiella PNA – Parco Nazionale d’Abruzzo SV – Parco regionale Sirente –Velino SI – Parco Regionale dei Monti Simbruini (laziali) LU – Parco Regionale dei Monti Lucretili

SIT – Sistema Informativo Territoriale Elaborazione maggio 1998

Fig. 4 – Influenze sulla zonazione delle correlazioni esterne: il caso del parco Sirente-Velino L’immagine evidenzia la struttura interna dei suoli del parco (in nero le aree forestali, in grigio chiaro le rocce, in grigio più scuro gli incolti e i pascoli, in bianco i suoli produttivi) in relazione alle principali direttrici di connessione ecologica con l’ambiente esterno (in toni di grigio i suoli biopermeabili definiti nella Fig. 1). Sono poste in risalto le due connessioni occidentale e meridionale favorite dalla presenza di gallerie autostradali che interrompono l’occlusione infrastrutturale. Lo schema della zonazione interna del parco dovrà tenere conto delle esigenze di funzionalità dei corridoi ecologici adiacenti.

Elaborazione: Parco Sirente-Velino, Università dell’Aquila, SIT degli Studi preliminari per il piano del parco, maggio 1998.

Parco Nazionale Gran Sasso - Laga

Parco Nazionale della Majella

Parco Nazionale d’Abruzzo

Fig. 5 – Le discontinuità ambientali interne al parco Anche all’interno delle aree protette possono essere presenti delle soluzioni di continuità ambientale, come l’esempio mostrato del parco regionale Sirente-Velino. Il corrispondenza di un altopiano (a sinistra) e di un settore vallivo fluviale (a destra) la concentrazione insediativa (in nero i centri abitati), viaria e produttiva (in grigio le aree agricole diffuse), comporta l’interruzione della biocontinuità. Ovviamente in questo caso si tratta di occlusioni non totali, dovute in massima parte al disturbo del traffico veicolare (soprattutto turistico estivo ed invernale). Il piano del parco dovrà intervenire attraverso una indicazione complessiva diretta soprattutto ad orientare i contenuti degli strumenti comunali in modo da non accentuare, bensì mitigare, l’entità della frammentazione.

0 10 km Elaborazione: Parco Sirente-Velino, Università dell’Aquila, SIT degli Studi preliminari per il piano del parco, maggio 1998.

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