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LA CONCILIAZIONE NELLE CONTROVERSIE DI LAVORO Avvocati di Monza e della Brianza... · 3 Ciò detto,...
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LA CONCILIAZIONE NELLE CONTROVERSIE DI LAVORO
Premessa
Il processo del lavoro è caratterizzato dall’obbligo per il giudice di tentare al-
la udienza di discussione la conciliazione e ciò anche quando sono falliti i
tentativi di conciliazione stragiudiziale e persino il tentativo di conciliazione
ex art. 410 c.p.c.
Nel rapporti di lavoro infatti la conciliazione, sia essa giudiziale sia essa stra-
giudiziale, si ritiene la modalità ottimale di risoluzione dei conflitti sia
nell’interesse delle parti ad un celere giudizio sia nella prospettiva della de-
flazione delle cause.
Per una serie di motivi lo strumento del tentativo obbligatorio di concilia-
zione, introdotto dalla legge 108/90, non ha però dato i risultati sperati in
termini deflattivi del contenzioso lavoristico e, anzi, è stato foriero di con-
tenzioso per es. sulla procedibilità della domanda (art. 412 bis. c.p.c) e co-
munque è stato vissuto per lo più come un inutile ostacolo burocratico alla
celere risoluzione giudiziale del conflitto.
Per farla breve sono i giudici del lavoro in realtà a dovere sostenere l’onere
essenziale della conciliazione nelle cause di lavoro.
Nel frattempo anche nei campi del diritto civile (e penale) si è affermata la
tendenza a cercare soluzioni alternative al processo per la risoluzione dei con-
flitti con evidente finalità deflattiva.
In tale contesto viene in rilievo il Decreto Legislativo n. 28 del 4.3.2010 che
ha introdotto lo strumento della mediazione che permette alle parti in lite di
raggiungere un accordo in modo rapido, economico e riservato con l’ausilio
del mediatore (terzo imparziale) in grado di facilitare ai contendenti il rag-
giungimento di una soluzione condivisa, senza decidere il merito della con-
troversia.
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Gli avvocati sono così obbligati a informare il cliente della possibilità di e-
sperire la mediazione, mentre i giudici potranno sempre valutare l’opportunità
di invitare le parti a tentare di risolvere la lite dinanzi al mediatore.
Il tentativo di mediazione è obbligatorio (è cioè condizione di procedibilità
del giudizio) solo per alcune controversie, tassativamente indicate dall’art. 5
del D. Lgs. 28/2010 come quelle in materia di condominio, successione ere-
ditaria, locazioni, mentre per tutte le altre materie sussiste solo una facoltà di
adire l’organo di mediazione.
Limite di carattere processuale al tentativo di mediazione, pur nelle materie
in cui è esso è obbligatorio, è rappresentato da alcune tipologie di procedi-
menti come i procedimenti possessori o di ingiunzione.
Infine il limite generale che impedisce l’accesso all’istituto in esame è dato
dalla indisponibilità del diritto controverso.
Sia gli enti pubblici che gli enti privati potranno gestire stragiudizialmente le
controversie purché iscritti ad un apposto registro tenuto dal Ministero della
Giustizia.
Con riferimento alla materia del lavoro non è previsto l’ausilio paragiudizia-
rio del mediatore e viene invece in rilievo il Collegato Lavoro alla manovra
finanziaria 2010 (Disegno di Legge n. 1167 – B) ancora in fase di esame par-
lamentare dopo che il Presidente della Repubblica ha chiesto alle Camere una
nuova deliberazione della legge, ravvisando alcune criticità nelle norme ivi
contenute.
Il Collegato Lavoro - in controtendenza rispetto alle linee-guida che hanno
indirizzato l’azione del legislatore con il cit. D. Lgs. n. 28/2010 - abolisce
l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione nel settore laburistico, in cui,
stante la preminente rilevanza del dato economico, sarebbe in potenza più fa-
cile pervenire ad accordi.
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Ciò detto, l’intento della relazione è quello di illustrare gli strumenti concilia-
tivi a disposizione per le controversie di lavoro con alcuni cenni agli inter-
venti del Collegato Lavoro
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SOMMARIO
A – LA CONCILIAZIONE NEGOZIALE: art. 2113 cod. civ.
B – CONCILIAZIONE AMMINISTRATIVA E SINDACALE
-- 1) Il tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c. nel settore privato
-- 2) La conciliazione sindacale (art. 411 co. 3 c.p.c)
-- 3) Il TOC nel settore pubblico
-- 4) Il Collegato Lavoro (cenni)
-- 5) la cd. conciliazione monocratica (cenni)
-- 6) ulteriori tentativi di conciliazione (cenni)
C - CONCILIAZIONE GIUDIZIALE
-- 1) Struttura ed effetti della conciliazione giudiziale
-- 1 bis) Il tentativo di conciliazione giudiziale nel Collegato Lavoro
-- 2) Aspetti fiscali della conciliazione (cenni)
-- 3) Tentativo di conciliazione giudiziale e spese di giudizio
-- 4) La conciliazione giudiziale e le sue tecniche
D) – ARBITRATO E CONCILIAZIONE NEL COLLEGATO LAVORO
-- 1) L’arbitrato in generale
-- 2) Arbitrato durante la procedura di conciliazione avviata presso la Com-
missione di conciliazione della DPL
-- 3) Altre modalità di conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione
collettiva (art. 412 ter c.p.c.): arbitrato e conciliazione in sede sindacale
-- 4) Altre modalità di conciliazione (art. 412 quater c.p.c.)
-- 5) Lavoro pubblico
-- 6) La clausola compromissoria pattuita dalle parti del rapporto di lavoro
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-A-
La conciliazione negoziale: art. 2113 cod. civ.
Ai sensi dell’art. 2113 c.c. primo comma non sono valide le rinunce e transa-
zioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni
inderogabili della legge o dei contratti collettivi, tranne che non siano conte-
nute nei verbali di conciliazione amministrativa, sindacale o giudiziale cioè
realizzate nelle forme (tassativamente) previste dagli artt. 185, 410 e 411
c.p.c., che si riferiscono agli atti dispositivi avvenuti davanti al giudice, alla
DPL o secondo le modalità previste dalla contrattazione collettiva e ritenute
idonee a tutelare adeguatamente i diritti del lavoratore.
Ciò dimostra che nel sistema delle tutele del lavoratore non esiste una preclu-
sione assoluta per la disponibilità dei diritti, ma piuttosto la necessità che il
lavoratore sia posto in condizione di decidere consapevolmente e liberamente
sui propri diritti, anche su quelli derivanti da norme inderogabili.
L’impugnazione delle rinunce e transazioni invalide, nel senso
dell’annullabilità, deve essere proposta per iscritto a pena di decadenza, entro
sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o
transazione se queste sono successive alla cessazione.
Se la rinuncia o transazione (invalida) non è impugnata per tempo allora di-
venta definitiva.
In linea generale Cass. 12 febbraio 2004 n. 2734 ha stabilito che diritti indi-
sponibili del lavoratore non devono ritenersi solo quelli di natura retributiva o
risarcitoria correlati alla lesione di diritti fondamentali delle persone atteso
che la ratio dell’art. 2113 cod. civ. consiste nella tutela del lavoratore quale
parte più debole del rapporto di lavoro, la cui posizione in via ordinaria viene
disciplinata attraverso norme inderogabili, salvo espressa previsione contraria.
Fuori dal campo di applicazione dell’art. 2113 cod. civ. si pongono i diritti li-
beramente disponibili e cioè quei diritti che nascono da norme di legge o di
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contratto collettivo derogabili e tutte le condizioni di miglior favore pattuite
nei contratti individuali.
Per es. la retribuzione pattuita in sede individuale in misura superiore alle
previsioni del CCNL applicabile potrà, col consenso delle parti (art. 1372 cod.
civ.), essere ridotta o rinunziata dal lavoratore senza possibilità di futuri pen-
timenti (sul superminimo e sulla sua totale disponibilità cfr. Cass. n.
5655/1985).
L’annullamento ex art. 2113 c.c. è un rimedio che si aggiunge e non si sosti-
tuisce ai normali mezzi di impugnazione dei contratti e atti unilaterali e,
quindi, nei confronti di eventuali vizi dei negozi transattivi (per es. vizi del
consenso, indeterminatezza dell’oggetto, simulazione, errore di fatto ecc.) re-
stano esperibili le ordinarie azioni di nullità e quelle di annullamento.
Sul piano generale i presupposti sostanziali per la valida conclusione di tran-
sazioni e rinunce sono ravvisabili nelle reciproche concessioni fatte per pre-
venire o estinguere la lite (transazione) e nel consapevole e deliberato abban-
dono da parte di un soggetto di un diritto (rinuncia).
In entrambi i casi occorre che ricorra il requisito essenziale dell’esatta deter-
minazione o determinabilità dell’oggetto della rinuncia o della transazione
(Cass., 18.8.2000, n. 10963).
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-B-
Conciliazione amministrativa e sindacale
1) Il tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c. nel settore privato
Prima di procedere in sede giudiziale, in relazione ad uno dei rapporto previsti
dall’art. 409 c.p.c. (sia dal lavoratore che dal datore di lavoro), a pena di im-
procedibilità, è necessario esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione
in sede amministrativa presso la competente commissione di conciliazione
(art. 410 c.p.c.).
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°°°
La questione di costituzionalità del tentativo obbligatorio di conciliazione è
stata dichiarata manifestamente infondata dalla sentenza della Corte Cost.
13.7.2000 n. 276.
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Il contenuto dell’istanza va desunto sulla base del collegamento tra il primo
ed il secondo comma dell’art. 410 c.p.c..
L’istanza di conciliazione deve contenere gli elementi formali della domanda
giurisdizionale e, pertanto, deve indicare l’azione che la parte intende propor-
re ed il diritto invocato, nonché identificare lavoratore e datore di lavoro quali
parti del futuro giudizio, di modo che il giudice del successivo giudizio potrà
verificare se i soggetti e l’oggetto del TOC corrispondano a quelli del giudi-
zio.
L’istanza di conciliazione va presentata da chi intende proporre il giudizio
(direttamente o tramite associazione sindacale) innanzi alla Commissione di
Conciliazione che poi provvede a convocare le parti.
°°°°°°°°
Per quanto concerne la competenza, la Commissione di conciliazione va indi-
viduata in base ai criteri dettati dall’art. 413 c.p.c.
°°°°°°°°
Riguardo agli effetti della proposizione del tentativo di conciliazione si osser-
va:
a) si interrompono i termini della prescrizione (da quando il datore di lavoro
riceve la comunicazione, Cass. 967/2004);
b) si sospende il decorso di ogni termine di decadenza per la durata del tenta-
tivo di conciliazione e per i 20 giorni successivi.
Gli effetti di cui all’art. 410 c.p.c. si producono con la comunicazione della ri-
chiesta di conciliazione: con questa espressione, prevalentemente, si intende il
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momento in cui la controparte abbia avuto la materiale ricezione dell’atto
(Cass. n. 20153/05). Si obietta che la parte interessata ad impedire la deca-
denza sarebbe dipendente dal fatto del terzo (ufficio postale, ufficiale giudi-
ziario).
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La procedura non si applica:
- al lavoratore distaccato che presti attività lavorativa in Italia (art. 6 del D.
Legislativo n. 72 del 25.2.2000);
- ai procedimenti d’urgenza e cautelari (art. 412 bis c.p.c.);
- alle domande riconvenzionali, per il principio della ragionevole durata dei
processi (cfr Trib. Milano 10.2.2001 LNG 2001, 997), ma per Cass. n.
10017/2003 il tentativo di conciliazione è necessario a pena di improponibili-
tà;
- ai procedimenti monitori (cfr. Corte Costituzionale n. 276/2000 che, con
sentenza di rigetto, ha interpretato nel senso che il tentativo di conciliazione è
collegato al processo fondato sul contraddittorio pieno fin dall’inizio) ed al re-
lativo procedimento di opposizione. Sarebbe infatti contraddittorio ipotizzare
che una procedura, che si fonda sul principio della possibilità di potere avere
un provvedimento favorevole inaudita altera parte, dovesse essere preceduta
da una fase amministrativa a contraddittorio completo.
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In sede giudiziale, la carenza del tentativo obbligatorio di conciliazione deve
essere sollevata nella memoria di costituzione (art. 412 bis c.p.c.), ed è rile-
vabile d’ufficio non oltre l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c., intendendosi la
“prima udienza” (Cass. n. 10089/2000).
Cass. n. 10089/2000 e Cass. n. 15956/2004 hanno ritenuto che, se la improce-
dibilità, ancorché segnalata dalla parte, non venga rilevata dal giudice nella
prima udienza, la questione non può essere riproposta.
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Se il tentativo non è stato proposto il giudizio va sospeso, con termine di 60
giorni per la sua proposizione (art. 412 bis c.p.c.); entro 60 giorni dalla pre-
sentazione dell’istanza il tentativo si considera espletato (art. 410 bis c.p.c.);
nei successivi 180 giorni il giudizio può essere riassunto.
Se non viene rispettato il termine (180 gg) per la proposizione dell’istanza di
riassunzione, secondo Cass. n. 6326/2004 il giudice, con sentenza, dichiara
l’improcedibilità del giudizio.
In mancanza di riassunzione, anche d’ufficio, il processo va dichiarato estinto.
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Dall’esperimento del TOC possono sortire i seguenti risultati:
a) se esso è positivo, viene redatto processo verbale, sottoscritto dalle parti e
dal Presidente del Collegio; il verbale viene depositato presso la Cancelleria
del Tribunale nella cui circoscrizione è stato formato, e poi viene dichiarato,
con decreto, esecutivo previo controllo della regolarità formale,
b) se negativo, viene redatto verbale di mancato accordo o indicato
l’eventuale accordo parziale. In relazione a quest’ultimo, l’atto acquista effi-
cacia di titolo esecutivo.
§§§
2) La conciliazione in sede sindacale (art. 411 co. 3 c.p.c.)
In alternativa alla conciliazione amministrativa, ci si può avvalere delle pro-
cedure di conciliazione previste dai contratti e accordi collettivi, che non de-
vono essere necessariamente nazionali (ipotesi prevista invece per la facoltà
di ricorso all’arbitrato irrituale dall’art. 412 ter c.p.c.).
La determinazione delle modalità di composizione dell’organo conciliativo
sindacale deve intendersi devoluta alla contrattazione collettiva.
In questo caso, il verbale di conciliazione che viene posto in essere va deposi-
tato presso la DPL, che, dopo le verifiche di autenticità, provvede a depositar-
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lo presso il Tribunale competente per la dichiarazione di esecutività (art. 411,
comma 3, c.p.c.).
Tutte le suindicate formalità previste dall’art. 411 co. 3 cod. civ. costituiscono
adempimenti successivi rispetto all’essenza negoziale della conciliazione (in
sede sindacale) che, pertanto, risulta inoppugnabile ai sensi degli artt. 2113
c.c., indipendentemente dal loro compimento diretto esclusivamente a dare
autenticità all’atto e a conferire efficacia esecutiva al decreto (Cass.
23.4.1998, n. 4205).
Gli effetti sono gli stessi della conciliazione amministrativa o comunque del
tentativo del suo raggiungimento.
Si ritiene che il lavoratore non necessariamente debba essere iscritto
all’organizzazione stipulante il contratto collettivo, in quanto la funzione del
sindacato è quella di garante della formazione della volontà (Cass. n.
827/1992).
Delicato è il problema dell’effettiva assistenza che in tale sede il rappresen-
tante sindacale deve fornire al lavoratore. Cass. 13217/08 ha stabilito il prin-
cipio che al fine di verificare che l’accordo sia stato raggiunto con una effetti-
va assistenza del lavoratore da parte di esponenti della propria organizzazione
sindacale, occorre valutare se in base alle concrete modalità di espletamento
della conciliazione, sia stata correttamente attuata quella funzione di supporto
che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa.
§§§
3) Il TOC nel settore pubblico
Il tentativo di conciliazione in materia di pubblico impiego è disciplinato da-
gli artt. 65 e 66 d. lgs. n. 165/2001.
È simile a quello relativo al settore privato, ma con delle differenze.
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Esso è promosso dal lavoratore o dalla P.A., secondo le previsioni contrattuali
(ove sussistenti), oppure innanzi a un apposito Collegio di Conciliazione della
DPL nella cui circoscrizione si trova l’ufficio del lavoratore.
Copia dell’istanza di conciliazione deve essere spedita o consegnata
all’amministrazione di appartenenza, che entro 30 giorni può depositare os-
servazioni.
La comparizione delle parti viene fissata nei 10 giorni successivi al deposito.
Se si raggiunge l’accordo, l’atto ha efficacia di titolo esecutivo.
Non si applicano le disposizioni di cui all’art. 2113, co. 1, 2 e 3, cod. civ.
La domanda giudiziale è procedibile dopo 90 giorni dalla proposizione del
tentativo.
Se il giudizio è iniziato in carenza di tale requisito, si procede alla sua sospen-
sione, con termine di 60 giorni per la sua effettuazione.
Passati 90 giorni il giudizio può essere riassunto entro 180 giorni.
Se tutto ciò non si verifica, il giudice, anche d’ufficio, dichiara l’estinzione
del processo.
§§§
4) Il Collegato Lavoro (cenni)
Con l’art. 31 del Collegato Lavoro (Ddl 1167-B) è stata ridisegnata la sezione
del codice di procedura civile recante le disposizioni generali in materia di
conciliazione (e arbitrato) nelle controversie individuali di lavoro privato e
pubblico.
In estrema sintesi la disposizione (art. 31) trasforma il tentativo di concilia-
zione, prima obbligatorio, in una fase meramente eventuale, introduce una
pluralità di mezzi di composizione delle controversie di lavoro alternativi al
ricorso al giudice e rafforza la competenza delle commissioni di certificazione
dei contratti di lavoro di cui all’art. 76 del D. Lgs. 276/2003.
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In particolare il comma 1 dell’art. 31 sostituisce integralmente l’art. 410
c.p.c. relativo al tentativo obbligatorio di conciliazione rendendolo facoltati-
vo, fatta eccezione per il ricorso avverso la certificazione di un contratto di
lavoro di cui al titolo VIII del D. Lgs. 276/2003 (art. 31, comma II).
Lo strumento del tentativo di conciliazione viene poi definitivamente “affos-
sato” dalla previsione secondo cui la controparte, se accetta la procedura di
conciliazione, entro un termine di soli 20 gg deve fare una memoria completa
di difese/eccezioni/ domande riconvenzionali. Ove ciò non avvenga – ossia
sempre, perché è difficile pensare ad un’azienda che scelga la tattica “suicida”
della costituzione in tempi così brevi – ognuna delle parti è libera di adire il
giudice.
Per quanto riguarda la composizione delle commissioni di conciliazione isti-
tuita presso la DPL l’art. 31, comma 1, riconosce la nomina, tra gli altri, di
rappresentati sindacali nell’ambito di organizzazioni rappresentative a livello
territoriale.
La procedura del tentativo di conciliazione viene completamente riscritta e
ricalca, per certi versi, quanto già era previsto per le controversie di lavoro al-
le dipendenze della PA.
Se non sono rispettate le formalità della procedura o se la conciliazione non
riesce, la domanda diventa procedibile.
Alla commissione di conciliazione sono affidati compiti di mediazione.
La norma dispone che se la conciliazione non riesce o le parti non accettano la
proposta di bonario componimento della lite formulata dalla Commissione,
senza giustificato motivo, ciò avrà un peso nel futuro giudizio di merito nel
senso che il giudice ne può tenere conto in sede di giudizio (e non solo ai fini
delle spese).
Anche questa previsione potrebbe scoraggiare le parti ad affidarsi al conci-
liatore.
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§§§
5) La cd. conciliazione monocratica (cenni)
Nell’ambito del più generale riordino dei servizi ispettivi con il D. Lgs. n.
124/2004 è stato introdotto l’istituto della conciliazione monocratica (art. 11)
che si chiama così perche si svolge davanti ad un unico funzionario della DPL
e non davanti a un collegio.
Si tratta di uno strumento direttamente volto a risolvere le controversie di ca-
rattere patrimoniale insorte tra datore di lavoro e lavoratore, che può essere at-
tivato nelle ipotesi di richiesta di intervento ispettivo e in quelle di normale
accertamenti ispettivo, qualora emergano elementi per una soluzione conci-
liativa della lite.
La conciliazione monocratica viene svolta da un funzionario della DPL, me-
diante procedura informale che, in caso positivo, da luogo ad un accordo con-
sacrato in un verbale al quale non si applica l’art. 2113 cod. civ. con la conse-
guenza che l’accordo è inoppugnabile come per le conciliazioni giudiziali,
amministrative e sindacali.
Non vi è collegamento tra tale procedura ed il processo del lavoro: la conci-
liazione monocratica serve solo ad estinguere la procedura attivata in sede i-
spettiva.
§§§
6) Ulteriori tentativi di conciliazione (cenni)
Presso le DPL sono state previste ulteriori ipotesi di conciliazione delle con-
troversie individuali di lavoro.
Si ricorda la conciliazione (con tentativo che rimane obbligatorio anche nella
previsione del Collegato Lavoro) avanti la commissione di certificazione dei
rapporti di lavoro, qualora il rapporto “validato” ai sensi degli artt. 75 e ss. del
D. Lgs. n. 276/2003, sia stato oggetto di contestazione (art. 80, comma 4, D.
Lgs. n. 276/03), nonché il componimento delle controversie per i lavoratori
esposti all’amianto con riferimento al rilascio e contenuto dei curricula lavo-
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rativi dai quali risulti l’adibizione ad una delle attività lavorative comportanti
l’esposizione all’amianto.
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-C-
CONCILIAZIONE GIUDIZIALE
1) Struttura ed effetti della conciliazione giudiziale
Ai sensi dell’art. 420 c.p.c. il giudice, nell’udienza di discussione, dopo ave-
re interrogato liberamente le parti presenti, esperisce il tentativo di concilia-
zione
Il tentativo di conciliazione giudiziale, ancorché obbligatorio pur in presenza
di questioni pregiudiziali ostative ad una pronuncia nel merito, non è previsto
a pena di nullità, restando affidato al potere discrezionale del giudice di valu-
tare, anche in relazione agli assunti delle parti, se sussista o meno una qual-
che, anche remota, possibilità di esito favorevole.
Se l’effetto del tentativo di conciliazione è positivo, il relativo verbale (sepa-
rato rispetto a quello d’udienza ex art. 88 disp. att. c.p.c.) ha efficacia di titolo
esecutivo (art. 420, comma, 4 c.p.c.), una volta sottoscritto dalle parti, dal
giudice e dal cancelliere.
Le parti possono conferire ad un loro rappresentante la procura (generale o
speciale) anche per la sottoscrizione del verbale di conciliazione.
In tal caso la procura, conferita con atto pubblico o scrittura privata autentica-
ta, deve attribuire al procuratore il potere di conciliare o transigere la contro-
versia e, qualora sia conferita con scrittura privata, essa può essere autentica-
ta anche dal difensore della parte, così da doversi ritenere sufficiente la forma
della procura ad litem (art. 185 c.p.c.).
E’ stato osservato che il verbale di conciliazione giudiziale non può essere po-
sto a base dell’esecuzione degli obblighi di fare o di non fare, per i quali la
legge richiede una “sentenza di condanna” (Cass. 258/1997).
Gli effetti di tali conciliazioni sono duplici:
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- sostanziale, in quanto le parti definiscono il regolamento dei loro interessi;
- processuale, in quanto il giudice, preso atto della conciliazione intervenuta,
dichiara estinto il procedimento e dispone la cancellazione della causa dal
ruolo (Cass. 3958/1984).
Il verbale di conciliazione costituisce titolo esecutivo, ma non è assimilabile
ad una sentenza irrevocabile.
Tutto ciò determina che, in caso di inadempimento di una delle parti, se ne
potrà chiedere la risoluzione, con la possibilità di riproporre le questioni in
precedenza conciliate.
Infine si rammenta che il verbale di conciliazione giudiziale non è impugnabi-
le per via dell’art. 2113 cod. civ., salva la sua nullità (per es. per riguardare di-
ritti futuri, Cass. 26 maggio 2006 n. 12561, o per l’indeterminatezza
dell’oggetto).
§§§
1bis) Il tentativo di conciliazione giudiziale nel Collegato Lavoro
Ai sensi dell’art. 420 c.p.c come modificato dal Collegato Lavoro ancora in
esame al Parlamento, il giudice, nell’udienza di discussione, dopo avere in-
terrogato liberamente le parti presenti, esperisce il tentativo di conciliazione e
formula alle parti una proposta transattiva.
La mancata comparizione personale delle parti o il rifiuto della proposta tran-
sattiva del giudice, senza giustificato motivo, costituiscono comportamento
valutabile dal giudice ai fini del giudizio.
Con le modifiche apportate al testo dell’art. 420 in sostanza si è maggiormen-
te strutturato il tentativo di conciliazione giudiziale e potenziato i suoi effetti
prevedendo la formulazione da parte dal giudice di una proposta transattiva
il cui rifiuto, senza un giustificato motivo, può essere valutato dal giudice ai
fini del giudizio, costituendo, se del caso, un argomento di prova non auto-
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sufficiente per decidere, ma tale da poter fondare il giudizio di fatto in con-
corso con altri elementi di prova da raccogliere nel corso del giudizio.
§§§
2) Aspetti fiscali della conciliazione (cenni)
Al riguardo ci si limita al richiamo di alcune massime della Suprema Corte
che però delineano alcuni principi cui far riferimento quando si pensa alle
conseguenze fiscali di una conciliazione:
- Cass. n. 11455/2002: “In tema di Irpef, l’indennità supplementare per licen-
ziamento ingiustificato del dirigente non rientra tra i redditi soggetti a tassa-
zione, avendo essa carattere risarcitorio e non retributivo(…)” (vedi anche
Cass. n. 8876/09 la quale ribadisce che l’indennità supplementare per licen-
ziamento ingiustificato del dirigente non costituisce reddito imponibile fisca-
le);
- Cass. sez. 5 n. 24432/08: “In tema di imposte sui redditi, le somme attribui-
te al lavoratore, a titolo risarcitorio, in luogo delle retribuzioni che avrebbe
percepito qualora non si fosse verificata l’illegittima mancata assunzione da
parte del datore di lavoro, vanno assoggettate alle trattenute fiscali, posto
che ai sensi dell’art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 917 del 1986, esse sono quali-
ficate come redditi della stessa categoria di quelli illegittimamente non corri-
sposti, e pertanto hanno natura sostitutiva del reddito non conseguito piutto-
sto che riparatoria del decremento subito a causa della mancata assunzione.
(In applicazione di tale principio , la S.C. ha ritenuto assoggettabile a tratte-
nuta fiscale l’indennità percepita dal ricorrente, in sede di conciliazione giu-
diziale nell’ambito di una controversia dal medesimo instaurata nei confronti
di una società che aveva rifiutato di assumerlo, nonostante fosse stato avviato
al lavoro come orfano di guerra)”.
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§§§
3) Tentativo di conciliazione giudiziale e spese di giudizio
La prima parte del comma 1 dell’art. 91 c.p.c. (rimasta immutata dopo
l’intervento della legge 69/09) detta, in tema di spese di giudizio, la regola
generale secondo cui la parte soccombente subisce il carico delle proprie spe-
se e deve rimborsare alla parte vittoriosa le spese da questa anticipate.
Con la legge n. 69/09 è stata apportata una modifica significativa a questa re-
gola, in quanto nella seconda parte del primo comma dell’art. 91 c.p.c. è stata
introdotta la seguente previsione: “Se accoglie la domanda in misura non
superiore all’eventuale proposta conciliativa, il giudice condanna la parte
che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spe-
se del processo maturate dopo la formulazione della proposta salvo il dispo-
sto dell'art. 92 comma 2”.
La ratio della norma è chiara. Si vuole indurre le parti a conciliare, nell’ottica
di una più incisiva deflazione del contenzioso giudiziario, e si vuole evitare
che conciliazioni concretamente possibili siano rifiutate dagli avvocati, che
nella prassi talvolta non acconsentono alla transazione della lite proprio a
causa di un mancato accordo sulle spese processuali.
Il legislatore così attribuisce al giudice il potere di condannare alle spese la
parte che sebbene risulti vittoriosa all’esito del processo, abbia rifiutato nel
corso dello stesso una proposta conciliativa di portata equivalente, o addirittu-
ra superiore alla misura del diritto poi accertato.
La condanna in tal caso riguarderà solo le spese processuali maturate succes-
sivamente alla proposta proveniente direttamente dalla controparte o dal
giudice stesso.
Sotto il profilo della congruità e della serietà dell’offerta si pongono vari
problemi di seguito esaminati:
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- offerta in linea capitale congrua senza accessori: la proposta a mio avviso
deve contenere anche gli interessi e la rivalutazione e se cosi non è si potrà
procedere eventualmente alla compensazione delle spese;
- offerta di poco inferiore al diritto accertato in sentenza: anche in questo ca-
so si potrà procedere alla compensazione delle spese;
- offerta che interviene tempestivamente all’inizio del processo: in tal caso es-
sa non deve necessariamente contenere le spese per essere ritenuta congrua;
- offerta che intervenga alla fine del processo: ritengo che in tal caso per esse-
re ritenuta congrua debba comprendere almeno una parte apprezzabile delle
spese di giudizio.
- offerta che contiene una rateizzazione o proveniente da soggetto della cui
solvibilità si possa dubitare: in tal caso si dovrà cercare la soluzione caso per
caso in base alla valutazione delle singole situazione per verificare se queste
possono integrare e gli estremi di un giustificato motivo di rifiuto e salvo
sempre la possibilità di operare la compensazione ai sensi del comma 2
dell’art. 92 c.p.c.
§§§
4) La conciliazione giudiziale e le sue tecniche (cenni)
- fini deflattivi;
- tempo dedicato e valutazione costi/benefici
- atteggiamento delle parti verso la conciliazione
- metodo sequenziale nella trattazione delle cause
- tempo dei rinvii in pendenza di trattative
- conoscenza della causa nei suoi aspetti giuridici
- rapporto del giudice del lavoro con le parti e difensori
- la pretesa insoddisfatta
- la neutralità del giudice e l’emotività conflittuale delle parti
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- la consapevolezza delle dinamiche psichiche (rimozione, identificazione,
proiezione, compensazione) nella conduzione della trattativa
- importanza delle variabili “personali” delle parti, del giudice e dell’avvocato
- il compito del giudice: ricerca della soluzione più equa
- il compito dell’avvocato: ricerca della soluzione più vantaggiosa per il pro-
prio cliente
- la reazione al fallimento del tentativo di conciliazione
- la direttività nella mediazione
- il rapporto con le parti e con gli avvocati
- il colloquio coram populo o separato con le parti, ai fini conciliativi
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- D -
ARBITRATO e CONCILIAZIONE NEL “COLLEGATO LAVORO”
1) L’arbitrato in generale
In via generale si osserva che con l’arbitrato i due litiganti, per evitare i tempi
e i costi di una causa in tribunale, designano congiuntamente un arbitro e al
suo parere si attengono anche se non sono d’accordo, viceversa con la conci-
liazione i litiganti cercano di addivenire ad un accordo trattando tra di loro
oppure chiedendo l’intervento di un terzo facilitatore (giudice, organismo di
conciliazione, ecc.).
L’arbitrato è uno strumento alternativo rispetto alla giurisdizione dell’AGO.
Esso può essere rituale con valenza di provvedimento giudiziario o irrituale
(libero) che invece ha la valenza di un atto negoziale.
La volontà di compromettere in arbitri la causa si manifesta con il compro-
messo o con la clausola compromissoria.
Il compromesso è un contratto con cui le parti stabiliscono di far decidere ad
arbitri una controversia già insorta.
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La clausola compromissoria è una clausola contenuta nel contratto o in atto
separato con cui le parti stabiliscono, in anticipo, che siano decise da arbitri le
controversie che potrebbero, in futuro, nascere dal contratto stesso.
L’intera materia dell’arbitrato è stata recentemente sottoposta a revisione legi-
slativa con il D. Lgs. 40/2006 e l’art. 31 del Collegato Lavoro ridisegna
l’impianto delle disposizioni codicistiche in materia di conciliazione e di
arbitrato nelle controversie di lavoro, introducendo una pluralità di rimedi al-
ternativi al ricorso giudiziale.
§§§
2) Arbitrato durante la procedura di conciliazione avviata presso la Commis-
sione di conciliazione della DPL
Il tema dell’arbitrato libero è disciplinato nei commi 5 – 8 dell’art. 31.
Il comma 5 riscrive l’art. 412 c.p.c. introducendo una prima possibilità di ri-
corso all’arbitrato irrituale durante la procedura di conciliazione (facoltativa)
davanti alla DPL.
Le parti, infatti, hanno la facoltà di ricorrere all’arbitrato irrituale durante
questa fase per risolvere la lite già insorta per la quale sia pendente o sia falli-
to il tentativo di conciliazione e possono autorizzare la commissione di conci-
liazione istituita preso la DPL, a decidere secondo equità (nel rispetto dei
principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, an-
che derivanti da obblighi comunitari).
Proprio la possibilità della Commissione di decidere secondo equità ha susci-
tato le forti perplessità del Presidente della Repubblica, per fugare le quali si
è proposto di escludere la possibilità di clausole compromissorie aventi ad
oggetto la risoluzione del rapporto.
Comunque, solo se il compromesso lo disponga gli arbitri possono avvalersi
dei poteri equitativi loro conferiti.
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La norma (comma 5 dell’ art. 31) dispone inoltre che le parti devono indicare
nel compromesso le norme invocate a sostegno delle loro pretese e
l’eventuale richiesta di decidere secondo equità.
Trattasi di lodo irrituale che ha efficacia di un contratto tra le parti ex art.
1372 c.c. e, seguito di delibazione del giudice, acquisisce efficacia di titolo
esecutivo.
§§§
3) Altre modalità di conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione
collettiva (art. 412 ter c.p.c): arbitrato e conciliazione in sede sindacale
Una diversa modalità di composizione stragiudiziale della controversia me-
diante l’arbitrato o la conciliazione, alternativa alla precedente, è quella pre-
vista (in sede sindacale) dai contratti collettivi di qualsiasi livello purché sot-
toscritti dalle associazioni maggiormente rappresentative: tale modalità è di-
sciplinata dal comma 6 dell’art. 31, che riscrive l’art. 412 ter del c.p.c..
Trattasi di novità dirompente perché l’attuale 412 ter c.p.c., come detto sopra,
prevede la possibilità dell’arbitrato solo ove i contratti collettivi nazionali
prevedano tale facoltà.
§§§
4) Altre modalità di conciliazione e arbitrato (art. 412 quater)
Altra ipotesi di risoluzione arbitrale o conciliativa della controversia è previ-
sta dall’art. 412 quater c.p.c. riscritto completamente dal comma 7 dell’art.
31.
La norma dispone che le parti hanno la facoltà di avvalersi in alternativa
all’autorità giudiziaria, di uno speciale collegio di conciliazione e arbitrato
irrituale, costituto da un rappresentante nominato direttamente da ciascuna
delle parti e da un terzo membro in funzione di presidente che è scelto di co-
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mune accordo tra i professori universitari di materie giuridiche e tra avvocati
ammessi al patrocinio dinanzi alla Corte di Cassazione.
Trattasi di un inedito tertium genus di procedura arbitrale (irrituale) perché in
tal caso non vi è alla base né una clausola compromissoria né un compromes-
so.
La parte ricorrente con la presentazione del ricorso al collegio di conciliazio-
ne e arbitrato può richiedere che la lite sia decisa dagli arbitri secondo equità,
(nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori
della materia, anche derivanti da obblighi comunitari).
Se la parte convenuta intende accettare la procedura di conciliazione e arbitra-
to nomina il proprio arbitro.
La norma disciplina in modo dettagliato la procedura arbitrale.
Gli arbitri alla prima udienza tentano la conciliazione. Se questa non riesce
decidono la controversia con lodo che produce gli effetti di ci agli artt. 1372 e
2113, comma 4, cod. civ.
§§§
5) Lavoro pubblico
Il comma 8 dell’art. 31 estende la possibilità di compromettere in arbitri le
controversie in materia di lavoro pubblico e conferma la facoltatività del ten-
tativo di conciliazione anche per tali categorie di controversie attraverso
l’abrogazione delle corrispondenti norme sul tentativo obbligatorio di conci-
liazione nel settore pubblico.
§§§
6) La clausola compromissoria pattuita dalle parti del rapporto di lavoro
Il comma 9 dell’art. 31 introduce infine la possibilità di pattuire clausole
compromissorie che rinviino alle modalità di esecuzione dell’arbitrato di cui
agli art. 412 c.p.c. (presso la commissione di conciliazione della DPL) e 412
quater c.p.c. (presso il collegio di conciliazione e arbitrato irrituale).
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La clausola compromissoria deve essere prevista da accordi interconfederali
o da contratti collettivi (nazionali) stipulati dalle organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
I maggiori dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal Quirinale al testo
del DDL n. 1167 - B si sono espressamente appuntati proprio sulla possibilità
di inserire clausole compromissorie al momento dell’assunzione quando è
massima la debolezza contrattuale del lavoratore.
Un emendamento al testo originario della norma prevede così che la clauso-
la compromissoria possa essere pattuita solo una volta dopo il periodo di
prova, ove previsto, o decorsi trenta giorni dall’assunzione.
Essa, nel testo emendato, non può riguardare controversie relative alla risolu-
zione del contratto di lavoro (i licenziamenti).
Davanti alla commissione di conciliazione le parti possono farsi assistere da
un legale o da un rappresentante sindacale.
Prima di attuare un intervento suppletivo, decorsi 12 mesi dalla entrata in vi-
gore della legge, il ministero convoca le parti collettive per promuovere un
accordo e solo se ciò non possibile, decorsi sei mesi dalla convocazione, in-
dividua - con decreto in via sperimentale tenendo conto delle risultanze del
confronto sindacale - le modalità di attuazione della norma.
E’ fatta salva la possibilità che i contratti collettivi integrino o deroghino, in
un momento successivo, le disposizioni ministeriali di attuazione della nor-
mativa sull’arbitrato.
E’ ancora oggetto di dibattito parlamentare se la clausola compromisso-
ria/compromesso possa essere stipulata solo con riferimento a una specifica
controversia già in atto (“insorta”) oppure anche per ogni controversia futura.
giugno 2010
Domenico Di Lauro
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