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LA COMUNITÀ DI SETTIMO STORIA E MEMORIA COMUNE DI CINTO CAOMAGGIORE

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LA COMUNITÀ DI SETTIMOSTORIA E MEMORIA

COMUNE DI CINTO CAOMAGGIORE

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…la considerazione della gente verso una persona non era legata alla sua situazione fi-nanziaria perché per tutti il nemico comune era la povertà. Godeva di considerazione il saper far bene un certo lavoro, o gioco. C’era chi emergeva nel taglio del fieno, chi nel siste-marlo sul carro, chi catturava più passere con il diavolon, o rane con la fiocina, o anguille e pesci “seccando” i fossi, chi si arrampicava meglio sul palo della cuccagna o sugli alberi, chi attraversava più volte le cave grandi, chi si tuffava da una maggiore altezza dal pioppo nelle cave, chi lanciava più lontano il cibè.Questi erano gli eroi e di loro si parlava molto; erano rispettati e citati come esempio. Oggi lo status sociale dipende dalla cilindrata della propria automobile, dal vestito firmato; dipen-de dall’apparire e non dall’essere.

Come è cambiato il mondo in 50 anni! Ma, per fortuna, Settimo è sempre Settimo e spero che continui a rimanere così.GRAZIE SETTIMO Il Sindaco Luigi Bagnariol

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LA COMUNITÀ DI SETTIMOSTORIA E MEMORIA

Luigi Bagnariol•

Giorgio Fratte•

Gian Piero Del Gallo•

Marcello De Vecchi•

Livio Marcorin•

Mario Miorin•

Adriano Pescarollo•

Franco Rossi•

Luigi Zanin

COMUNE DI CINTO CAOMAGGIORE

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Iniziativa realizzata con il contributo della Regione del Venetoe della Fondazione Santo Stefano

Coordinamento e ideazione grafi ca:Marcello De Vecchi

Impaginazione e fotolito:Studio 7 srl - Fiume Veneto (PN)

Stampa:Grafi che Risma srl - Roveredo (PN)

Si ringraziano quanti hanno reso possibile la stesura di quest’opera mettendo a disposizione ricordie documenti fotografi ci, fra i quali: Annamaria Paissan, la famiglia del maestro Trevisan, Adriano Daneluzzi, Paolo Simonato, Luciano Arreghini, Sergio Basso, Claudio Giubilato, Agostino Nogarotto, Oscar Liut,Loredana Toffolon, Daniela Calgaro, Alida Sonza, Renato Querini e tanti altri. Un particolare ringraziamentoad Ornella Boattin della Biblioteca comunale per il contributo dato alla realizzazione dell’opera.

© Comune di Cinto Caomaggiore - 2006

In prima copertina “Il martirio di San Sebastiano” affresco della chiesa San Giovanni Battista attribuito a Gianfrancesco da Tolmezzo.In ultima di copertina la chiesa di Settimo nei primi anni del Novecento.In prima pagina elaborazione da scritture e disegni di Pre Paulo de Filiberti, cappellano di Settimo nei primi decenni del Cinquecento.In ultima pagina elaborazione da testi e schizzi di Angelo Cesselon.Le foto inserite nel testo appartengono all’Archivio della Memoria, alla Parrocchia di Settimo e a quanti hanno collaborato a questo libro.

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Presentazione del sindaco Luigi Bagnariol ....................................................................... pag. 7

Introduzione di Franco Rossi direttore dell’Archivio di Stato di Treviso .................................. 11

Reperti Archeologici trovati a Settimo di Livio Marcorin ....................................................... 15

La Villa di Settimo nella strategia di popolamento dei Gastaldi di San Vitodi Luigi Zanin ............................................................................................................................... 29

Un Veloce sguardo ai secoli X e XI ed una congettura sulla nascita di Settimo .................. 29Il popolamento della foresta di Settimo ................................................................................ 33Alcune osservazioni generali sui rapporti tra Settimo e i gastaldi di San Vito ..................... 38

La Cappellania di Settimo. Fondazione, giuspatronato e funzioni religiosedi Marcello De Vecchi .................................................................................................................. 43

La Comunità di Settimo durante la giurisdizione patriarcale di Marcello De Vecchi .................................................................................................................. 59

Il Capitanato di San Vito e l’amministrazione della giustizia ............................................... 60La comunità di Settimo e gli homeni de Comun ................................................................... 63Le Vicinie di Settimo ............................................................................................................ 65Gli ultimi boschi ................................................................................................................... 67Il Palù di Settimo .................................................................................................................. 68Jacomo e Jacometo Ragazzoni ............................................................................................. 70I Sagredo a Settimo ............................................................................................................... 75La sagra di San Giovanni Battista (nei primi anni del Seicento) .......................................... 76La questione fra Zamaria Muto e Tonio Zanoto ................................................................... 79Sposarsi a Settimo ................................................................................................................. 82Alcune note sul secolo XIX .................................................................................................. 86

Archivio dei ricordi. Settimo tra “prai, ciasa, cesa e curtivo” di Gian Piero Del Gallo ............................................................................................................... 95

Il calendario del contadin ..................................................................................................... 96El magnar de na volta ......................................................................................................... 113La compagnia teatrale ......................................................................................................... 116Nascere a Settimo e murir xè l’ultima capea che fa l’omo ................................................. 117Ricordi di Maria fi glia di Basso Giacomo detto Bullo ....................................................... 126Ostarie, ombre e qualcos’altro ........................................................................................... 128Streghe, maghi ed eretici .................................................................................................... 130

INDICE

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Memorie di Luigi Bagnariol e Giorgio Fratte .................................................................. pag. 133

Il ’900 a Settimo di Mario Miorin ............................................................................................ 145Settimo: un secolo di vita paesana ...................................................................................... 145La latteria di Settimo .......................................................................................................... 154

La parrocchia S. Giovanni Battista di don Adriano Pescarollo ............................................. 157

Unione Sportiva Settimo. Un sogno diventato realtà di Gian Piero Del Gallo .................... 163

Indice delle tavole a colori tav.

Gli affreschi della chiesa di Settimo foto Claudio Mansuti ....................................................I/XVIPietra di confi ne del 1606 foto Livio Marcorin .......................................................................XVIIL’incrocio del cesiol, elaborazione da mappa del 1682 ........................................................ XVIIIBoschetta di Settimo, elaborazione da mappa del 1682 ........................................................... XIXMappa del Palù di Settimo ......................................................................................................... XXDocumento del 1926 per la bonifi ca del Palù ........................................................................... XXIImmagini del Palù di Sergio Basso e altri ....................................................................XXII/XXXIImmagini del Melon di Sergio Basso ....................................................................................XXXIIArtisti di Settimo: Antonio Paissan ..................................................................................... XXXIIIArtisti di Settimo: Angelo Cesselon .....................................................................XXXIV/XXXVIIArtisti di Settimo: Luciano Cesco .............................................................................. XXXVIII/XLVedute di Settimo: Gioia Boccardi - Venezia ............................................................................ XLIVedute di Settimo: Marcello De Vecchi - Cinto Caomaggiore ................................................ XLIIVedute di Settimo: Lenci Sartorelli - Portogruaro ..................................................................XLIIIVedute di Settimo: Eddy Nociforo - Padova ...........................................................................XLIVVedute di Settimo: Julia Populin- Udine ................................................................................. XLVVedute di Settimo: Rita Albertario - Portogruaro ................................................................ XLIVIVedute di Settimo: Francesco Marcorin Bogdanovich - Cinto Caomaggiore .......................XLVIIVedute di Settimo: Orietta Celant - Settimo ........................................................................ XLVIII

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Quando nel 1997 mi è stato chiesto di impegnarmi a Cinto quale Presidente della Pro Loco, dopo 20 anni di attività politica svolta fuori dal Comune sia nel Veneto orientale che in Provincia di Venezia, ho accettato di buon grado, perché il mio istinto ha avuto sempre la meglio sul raziocinio e la passione ha sempre vinto sul calcolo.

I primi problemi che abbiamo affrontato come Pro Loco sono stati l’ambiente, la storia del paese, le memorie del paese e le tradizioni; in quest’ottica abbiamo organizzato dal ’97 la Festa dello Sport, nel tentativo di valorizzare l’attività ed i i risultati degli atleti cintesi, premiando i più meritevoli.

Nel ’99, eletto Sindaco, ho continuato ad impegnarmi sui temi della cultura locale e, grazie all’impegno di Marcello De Vecchi, è sorto l’Archivio della Memoria, un’isti-tuzione culturale molto vivace ed attiva attorno alla quale si sono uniti ricercatori locali e appassionati che, con il loro lavoro, hanno permesso la pubblicazione di varie opere su Cinto.

I primi volumi editi sono stati gli Annali e la Storia di Cinto, due volumi raccolti in un cofanetto che hanno ottenuto il fi nanziamento dalla Comunità Europea. In quella oc-casione ho avuto modo di affermare che questo lavoro doveva essere un punto di partenza e non uno studio fi nale come spesso accade in quelle amministrazioni che intendono la cultura come momento di bilancio del proprio operato.

Così è stato e, vedendo la piccola pila di opere che in questi anni l’amministrazione ha patrocinato e contribuito a fi nanziare, posso dirmi soddisfatto dei risultati raggiunti.Si tratta di:

• Cinto Caomaggiore. Annali• Cinto Caomaggiore e la sua storia• Siepi e Dintorni• San Gaetano• La neve e il Sahara• Scarpe Gialle• Nelle terre degli Abati• Flora e Fauna nel Comune di Cinto Caomaggiore• Cronache di vita agreste• Gli anabattisti di Cinto. Esodo e vicissitudini• Il centesimo di Napoleone

PRESENTAZIONE

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• Cinto Caomaggiore 1946-2004. Tutti gli Amministratori del Comune• La Fraterna del Miglior Viver• Cinto Contadina• Calendario degli anni 2000, 2001, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006 e 2007

Con piacere presento ora il volume dedicato alla storia di Settimo, opera che mi sta particolarmente a cuore perché in questa località sono nato e, salvo un periodo vissuto all’estero e poi a Pordenone, vi ho sempre abitato e lì ho i ricordi della mia vita e special-mente della mia infanzia.

I miei ricordi incominciano con la 2a Guerra mondiale, le incursioni di Pippo (così venivano chiamati i bombardamenti notturni fatti dagli alleati) i partigiani, i fascisti, le “SS”, un periodo di molte paure ed insicurezze, ma anche di tradizioni vive come quella del porsel de S.Antonio e di ricordi indimenticabili come la fi gura di Don Ernesto Lin-guanotto.

Ricordo le scuole nell’attuale oratorio, e quando, dopo la fi ne delle lezioni, si gioca-va sulla strada (non essendoci le automobili) con il cibè, le balute, busa, riga, el mucio, botoni, ect.

In maggio, dopo il rosario, si andava tutti in piazza a giocare alla cavaletta, a scondi cuc, ed in inverno con la slitta o i socui con le broche sotto a scivolare sul ghiaccio lungo i fossi. D’estate ci trovavamo invece tutti a nuotare sulle cave e sul canal (Caomaggiore),mentre i bambini più piccoli giocavano nelle cave piccole e nel canalut. Alla domenica eravamo anche più di 50.

I più grandi seccavano i fossi che una volta erano pieni di acqua e di pesci, i più piccoli andavano a nidi e in giro nei campi a giocare agli indiani: insomma, tutta un’altra vita.

Alla domenica, prima di Vespero, ci trovavamo tutti nel brolo del Prete a giocare a calcio ma, di fatto, solo i più grandi giocavano mentre i più piccoli facevano i raccattapal-le e solo se si dimostravano impegnati nel ruolo, in premio potevano ottenere di entrare in campo per qualche minuto di gioco.

I bambini, ma soprattutto le bambine, dovevano andare a “passon” con le mucche, le oche, le anatre e anche controllare le galline e i pulcini che potevano perdersi o essere divorati dalle puiane. Ricordo le scorribande dei giovani e dei meno giovani a cogliere frutta, ciliegie, mele, angurie e uva, tutto per divertimento, e poi tutti nei punti di ritrovo di ogni borgata, la Via Marignana, la Bassa, L’Alta, il Melon, la Boschetta...

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Ho accoratamente voluto, sollecitando autori e ricercatori nella sua stesura, que-st’opera che ora accolgo con favore. Oltre alle ricostruzioni storiche e studi specialistici, in queste pagine sono raccolte memorie e testimonianze di usi e costumi di un tempo che si sono tramandati immutati fi no a metà del ’900, per essere completamente stravolti e dimenticati in questi ultimi 50 anni.

Noi dobbiamo confrontarci con la vita di adesso, con i suoi ritmi, le sue regole e i suoi stress, la conoscenza del nostro passato dovrà servire ad aiutarci ad affrontare meglio il presente. Un grazie a Ornella Boattin bibliotecaria, a Marcello De Vecchi, fondatore e coordinatore dell’Archivio della Memoria, per il costante impegno. Desidero poi ringrazia-re Luigi Zanin, Gian Piero Del Gallo, Mario Miorin, Franco Rossi, Livio Marcorin, Gior-gio Fratte e Don Adriano Pescarollo per aver contribuito alla realizzazione di questa opera che costudisce le nostre memorie e spero servirà ad avvicinarci e rendere più unito il paese affi nché tutti assieme possiamo migliorare la qualità della vita della nostra comunità.

IL SINDACO

Luigi Bagnariol

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La bibliografi a relativa all’agro cintese, che oramai vanta una non disprezzabile con-sistenza, si arricchisce di un nuovo contributo, sempre grazie alle fatiche di Marcello De Vecchi, capace ancora una volta di unire, fondere e plasmare in armonico accordo le ener-gie sfuggenti di un coro altrimenti a rischio di stridenti dissonanze e virtuosistici ma sterili refrains.

Nell’occasione l’attenzione di Marcello De Vecchi e degli autori che lo hanno affi an-cato nell’impresa – Gian Piero Del Gallo, Giorgio Frate, Livio Marcorin, Mario Miorin, Adriano Pescarolo e Luigi Zanin – si è appuntata sulla frazione di Settimo, oggi imprescin-dibile appendice del capoluogo comunale, ma un tempo borgata del tutto disgiunta dal cen-tro maggiore, terra separata per giurisdizione dal restante contesto territoriale e per questo appartata e lontana nei suoi risvolti istituzionali, amministrativi, giudiziaria, e più ancora nell’epopea degli uomini che ne hanno intessuto e resa tenace e consistente la trama lungo il fl uire incessante degli anni.

Non si aspetti il lettore un disegno storico perseguito con scolastica diligenza assecon-dando la stringente falsariga del dipanarsi cronologico degli avvenimenti. Non vi sarebbe stata certo materia in quantità per lo meno suffi ciente. Non vi sarebbero state testimonianze documentarie in grado di supportare uno sforzo che alla resa dei conti avrebbe potuto rive-larsi affatto sproporzionato ai risultati conseguibili. Questo purtroppo è il limite penaliz-zante delle microstorie, o delle storie di paese, come meglio si dovrebbe dire. Microstorie la cui somma assai raramente riesce a tradursi in un ordito storico sistematico e coeso. Ma non per questo si tratta di storie da abbandonare all’oblio dei secoli come altrettante croci di un negletto cimitero di periferia. Quello che è diffi cile è proprio l’attribuzione del giusto peso, dell’esatto valore, del reale signifi cato, a queste storie, a queste vicende, a questi fatti, a questi episodi.

E questo è invece quanto sono riusciti a mettere assieme Marcello De Vecchi e compa-gni d’avventura, capaci, ognuno nel settore di specifi ca competenza, di superare di slancio i limiti del bozzetto e dell’episodio chiuso in se stesso, e di proporre alla resa dei conti un mosaico, che visto dalla giusta distanza e nella corretta angolatura, tessera dopo tessera, riesce ad esprimere un fi lo conduttore – il mitico fi lo rosso, tanto per intenderci – affatto sorprendente e persuasivo, al di là della differente profondità d’indagine che anima nello specifi co ogni singolo contributo, al di là del rigore metodico non sempre omogeneo che anima le storie, le vicende, i fatti, gli episodi ricostruiti e proposti all’attenzione del lettore.

INTRODUZIONE

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Che poi sono storie, vicende, fatti, episodi di uomini e donne, spesso più intrisi di soffe-renze e di dolori quotidiani, grandi e piccini, che di gioie, più ricchi di ombre e di chiaroscu-ri, quando non anche di tenebre, che di luce. Storie, vicende, fatti, episodi di uomini e donne che di generazione in generazione hanno seppur involontariamente trasmesso la loro eredità spirituale e materiale, costantemente irrobustita e impreziosita di nuovi apporti, attraverso una ininterrotta sequenza di testimoni fedeli e docili fi no ai nostri giorni.

Del resto la grande storia, la storia che sovente si compiace, si inorgoglisce, si inebria di uomini eccezionali, di nobili imprese, di eventi eclatanti, di fatti clamorosi, di battaglie epiche, di trattati immemorabili, che puntualmente ritornano travisati e incompresi nel loro portato più profondo in tutti i manuali scolastici, non ha mai avuto troppa simpatia per que-ste contrade. Piuttosto le ha sfi orate da molto lontano, le ha lasciate vivere nella loro lenta, dimessa e sonnacchiosa tranquillità, le ha del tutto trascurate con ostentata superbia.

Eppure anche una comunità, modesta e umbratile come quella di Settimo, borgo stretta-mente apparentato per toponimo ed etimo agli esempi fi nitimi di Sesto, di Cinto, di Annone, e quindi legato, per quanto è dato di cogliere nelle esili e frammentarie testimonianze che i secoli trascorsi ci hanno consegnato, all’innegabile romanità del vicino contesto concor-diese, poteva reclamare con giustifi cato fondamento il suo buon diritto a vedersi descritta, raffi gurata, celebrata e quindi di fatto nobilitata nella pagina scritta.

I testi che seguono vengono allora a colmare, legittimamente, una lacuna alla quale era più che doveroso porre sollecito rimedio, sviluppando e assecondando più che degnamente una robusta architettura strutturale che dalle fondamenta del substrato archeologico, attra-verso gli infi di guadi dell’età di mezzo, così carica di leggende e di mistifi cazioni costruite ad arte, e dell’evo moderno, segnato da queste parti più dalle ombre che dalle luci, giunge fi n quasi a sfi orare più da presso ai nostri giorni le note della cronaca coeva.

Un percorso, occorre aggiungere, non sempre agevole, lungo il quale era sin troppo faci-le trovare innumerevoli occasioni per abbandonare la strada maestra e sviare nella comoda e attraente scorciatoia del bozzetto o dell’episodio fi ne a se stesso, pericolo sempre in agguato soprattutto in un lavoro miscellaneo e a più voci, con il rischio di perdere di vista il traguardo prefi ssato. Traguardo che è stato invece raggiunto e felicemente tagliato soprattutto grazie all’apprezzabile ricorso al supporto documentario, per quanto consentito dalla documenta-zione supersite, sopravissuta agli insulti dei tempi e all’incuria degli uomini. Ancora una volta, infatti, la ricerca archivistica, paziente e metodica, è riuscita a far maturare i suoi frutti migliori, a dare solido appoggio alle vicende narrate, ai protagonisti evocati sulla scena.

Per questo, credo, che Settimo possa fi nalmente vantare con giustifi cato orgoglio una propria storia scritta, e non solo tramandata e raccontata di generazione in generazione. Una storia che costituisce ad un tempo innegabile momento d’arrivo e solida base per ulteriori e parimenti approfondite ricerche.

Franco Rossi

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Interno della chiesa San Giovanni Battista negli anni ’30.

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Nei primi secoli dell’era cristiana Settimo, insieme a Cinto, faceva parte dell’agro concordiese; lo si può affermare con sicurezza perché nel corso degli ultimi vent’anni, grazie alle ricerche fi nalizzate alla stesura della Mappa Archeologica del Veneto Orientale, sono stati individuati diversi siti che hanno restituito reperti di epoca romana. Per quanto riguarda i millenni precedenti, mentre per Cinto non esiste documentazione, da Settimo provengono tre reperti che testimoniano come in questo territorio ci fossero insediamenti antropici già quaranta o cinquanta secoli prima della colonizzazione romana; si tratta di due asce in pietra verde e di un bulino in selce risalenti alla metà del quinto millennio avanti Cristo. Per dare un termine di paragone, Oetzi, l’uomo di Similaun, la mummia ri-trovata in un ghiacciaio nel 1991 al confi ne italo austriaco nel massiccio dell’Otztal, è più “giovane” di 1300 anni.

La prima ascia, rinvenuta dallo scrivente in località Boschette nel 1989 nel sito di un insediamento di epoca romana, è lunga circa 10 centimetri; la seconda, ritrovata tre o quattro anni fa da Nicola Morettin a circa un chilometro in linea d’aria verso nord, è leg-germente più piccola. Entrambe hanno la parte tagliente ottenuta levigando la superfi cie precedentemente sbozzata con un utensile appuntito.

Il terzo reperto, proveniente anche questo dal sito di Boschette e ritrovato da France-sco Marcorin, è una selce di qualche centimetro, appuntita ed affi lata sui due lati, defi nita un bulino, ossia un utensile che, fi ssato su un corno di cervo o su un pezzo di ramo, sarebbe servito per praticare piccoli fori o incisioni (foto 1).

Gli studiosi affermano che la pietra verde da cui si sono state ricavate queste asce proviene dalle Alpi occidentali, segno che già allora esisteva una forma di commercio o di baratto con aree anche lontane grazie ad una rete di sentieri che percorrevano l’alta pianura, sentieri a cui in un secondo tempo si sono sovrapposte le strade romane. Nel libro Cinto Caomaggiore e la sua storia l’archeologo dottor Vincenzo Gobbo così si esprime nei confronti del sito di ritrovamento dell’ascia più grande:

“[…] il sito d’età neolitica di Boschette si confi gura come una delle aree archeo-logiche più interessanti del Veneto orientale […]”.

REPERTI ARCHEOLOGICI TROVATI A SETTIMOLivio Marcorin

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Reperti archeologici trovati a Settimo

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Il Neolitico è un periodo della Preistoria, per l’esattezza l’ultimo dei tre che costitui-scono l’Età della Pietra (assieme al Paleolitico, diviso in inferiore, medio e superiore, e al Mesolitico). Inizia verso il 9000 a.C. e si protrae circa fi no al II millennio a.C.; l’appros-simazione è dovuta al fatto che la specie umana non si è sviluppata in modo uniforme: in alcuni luoghi l’uomo era già padrone delle tecniche di lavorazione che contraddistinguono il Neolitico, mentre altrove l’evoluzione era ferma al Mesolitico; analogamente la fi ne del Neolitico si sovrappone a quella che per alcune popolazioni era già l’Età dei metalli, in particolare del rame. Etimologicamente il termine “Neolitico” è formato dalle due parole greche “neo”= nuova e “litos”= pietra.

Il periodo fu contraddistinto da notevoli innovazioni nella tecnica della lavorazione della pietra, soprattutto la levigatura degli strumenti litici, e dalla nascita dell’agricoltura e dell’allevamento nella cosiddetta Mezzaluna fertile, l’odierno Medio Oriente. Sempre a questo periodo è fatta risalire la scoperta dell’argilla e, di conseguenza, della ceramica.

In base ai reperti venuti alla luce, si può affermare che il territorio di Settimo era già abitato nel quinto millennio avanti Cristo. Successivamente si registra un vuoto cronolo-gico fi no a circa il V secolo a. C., tarda Età del Ferro, a cui risalgono alcuni frammenti di ceramica grigia grossolana; i reperti sicuramente databili all’età romana infi ne ci docu-mentano la presenza antropica dal I al III secolo d. C.

Varie sono le testimonianze di epoca romana e qui di seguito sono riportate quelle più interessanti.

Anfore

Va chiarito subito che nessuna anfora è arrivata fi no a noi integra o in parti di una certa consistenza, né tantomeno sono state ritrovate le pignate piene de schei, rinvenute invece a Cinto. Sono però emersi dalla campagna molti frammenti: pareti, manici, puntali, fram-menti di fondo e qualche bordo. In particolare sono stati catalogati due pezzi di manico di anfora defi nita di tipo Rodio, usata come contenitore per il vino, manici di anfora Dressel 2-4, anch’essa usata per il vino, e alcune parti (frammenti di manico e del bordo e la punta) di un’anfora Dressel 6, anfora diffusa nella Venetia e nell’Istria ed usata per il trasporto di vino o di olio.

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Reperti archeologici trovati a Settimo

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Foto 1

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Reperti archeologici trovati a Settimo

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Foto 2

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Reperti archeologici trovati a Settimo

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Lucerne

Le lucerne servivano per l’illuminazione; fabbricate in terracotta e lunghe una decina di centimetri, erano costituite da un serbatoio rotondo contenente il combustibile (olio) e dal canale di alimentazione alla cui estremità c’era il foro da cui usciva la fi amma. Spesso erano decorate sulla parte superiore con fi gure in rilievo.

Nel sito di Boschette sono state trovate alcune parti di lucerna: un pezzo del canale di alimentazione e tre frammenti del serbatoio dell’olio.

Metalli

Oltre ad alcuni chiodi con sezione quadrata ci sono stati alcuni ritrovamenti interes-santi: una chiave in ferro, una stanghetta di serratura in bronzo ed un oggetto di un paio di centimetri a forma di gabbia esagonale, sempre in bronzo, che si presume essere un pendente, forse un orecchino o parte di collana (foto 2).

Monete

Nel sito di Boschette è stata ritrovata anche una moneta di bronzo, di diametro varia-bile tra 30 e 32 millimetri e molto rovinata, tanto da risultare quasi illeggibile. Al diritto sembra di riconoscere – ma resta solo un’ipotesi – il ritratto dell’imperatore Alessandro Severo, Marcus Aurelius Severus Alexander (vedasi confronto nella foto 2), che ha gover-nato l’impero dal 222 al 238; il rovescio della moneta è invece più leggibile e riporta la raffi gurazione di Nettuno (anche qui si rimanda alla foto 2).

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Reperti archeologici trovati a Settimo

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Vetri

Sono emersi alcuni frammenti di vetro azzurro ed uno di vetro blu decorati con bacel-lature (costole in rilievo) disposte obliquamente, probabilmente parti di coppa; altro reper-to è un fondo di balsamario, la tipica ampollina destinata a contenere unguenti o profumi, generalmente alta tra i dieci e i quindici centimetri e larga tra i due e i tre.

a - Balsamario (frammento del fondo e ricostruzione)b - Coppa in vetro azzurro (frammento e ricostruzione di parte della decorazione)c - Coppa in vetro blu (frammento e ricostruzione di parte della decorazione).

a c

b

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Laterizi con bollo

Sono state ritrovate alcune parti di tegulae recanti il bollo impresso nella fornace: EVARISTI, ..PRIS…, …RENTI (L. TERENTI ossia Luci Terenzi), …COELI (T.COELIossia Titi Coeli), TER FVS (ossia Terenzi Fusci).

Le tegulae erano dei laterizi rettangolari usati per la copertura dei tetti. Di grandi dimensioni, circa 40 x 60 centimetri con spessore di 3, avevano un bordo rialzato sui due lati lunghi; la fessura che rimaneva tra le tegulae affi ancate veniva coperta da una fi la di coppi.

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Terra sigillata

Si defi nisce terra sigillata una particolare ceramica rossa che reca delle decorazioni in rilievo eseguite a stampo (sigillum). Dal sito di Boschette provengono due frammenti di particolare interesse: in uno si può riconoscere la fi gura di un cervo che volge indietro la te-sta mentre corre, nell’altro è appena leggibile la coda di un pesce. La terra sigillata era usata per decorare bordi di piatti e pareti di coppe e quindi denota vasellame di un certo pregio.

Pesi da telaio

Interessante è una serie di pesi da telaio di forma troncopiramidale, con profi li abba-stanza simili tra loro, ma misure diverse. Due sono del tipo più comune: la base misura cm 9 x 4,5, l’altezza 15 e il piano superiore è di cm. 5,5 x 4. La faccia trapezoidale di uno dei pesi è decorata con una A formata da due linee tratteggiate che partono dagli angoli della base e all’intersezione della linea di sinistra con il tratto orizzontale c’è impresso un cerchio con quattro raggi. Un frammento della parte superiore di un peso simile a questo reca impresso un cerchio che però ha otto raggi. Un altro esemplare ha egualmente forma di piramide tronca con base rettangolare, ma ha misure inusuali: la base è leggermente più lunga, 10,5 centimetri, mentre l’altezza è inferiore di un centimetro rispetto agli altri pesi. Infi ne è stata rinvenuta la parte superiore di un peso che ha l’estremità arrotondata anziché piatta. Una delle due facce è decorata con tre linee tratteggiate che si incrociano e che sono state forse ottenute, vista la loro regolarità, con l’ausilio di una rotella dentata sottile. Tutti i pesi hanno un foro passante di circa un centimetro di diametro, posto nella parte più stretta, che serviva per appenderli ai fi li del telaio.

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Tessere di mosaico

Provengono dai pavimenti dei locali dell’ abitazione.Sono stati rinvenuti diversi tipi di tessere di mosaico: le più semplici sono piccoli ele-

menti in cotto in forma di parallelepipedo o, più raramente, di cuneo; altre, sempre in cot-to, sono vere e proprie mattonelle e hanno forma esagonale. Di queste ultime sono emersi due esemplari diversi fra loro: una mattonella semplice ed una con un foro centrale in cui era quasi certamente incastonata una piccola tessera in marmo.

Sono state ritrovate infi ne tessere del tipo più noto (confrontabili, per fare un esem-pio, con quelle dei mosaici concordiesi) in marmo bianco o nero, di circa un centimetro di lato e due di altezza. Si ipotizza che gli edifi ci da cui provengono fossero fattorie con alcune stanze adibite ad abitazione (e quindi in parte decorate) ed altre ad uso magazzino o laboratorio.

a - Mattonella esagonale in cottob - Mattonella esagonale in cotto con foro per tessera in marmoc - Ttessera cuneiforme in cottod - Tessere semplici in cottoe - Tessere in marmo (bianco e nero)

a b c

d e

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Elementi di pozzo

Nel sito noto come K10 è stato ritrovato un elemento di pozzo, conservato ora al Mu-seo Nazionale Concordiese di Portogruaro. E’ fatto di argilla come i normali mattoni, ma ha la forma di un segmento di corona circolare. Grazie alla integrità del reperto si sono potute stabilire le seguenti misure, espresse in centimetri: diametro interno del pozzo 82, diametro esterno 114, spessore della parete 16 centimetri ed altezza di ciascun giro di mat-toni 9,5. Avendo ogni elemento l’arco maggiore di 71 centimetri, ne occorrevano cinque per completare un giro.

Non disponendo della riproduzione di tale reperto, nel disegno che segue è stato rico-struito un giro di mattoni del pozzo inserendo un elemento frammentario di uguali dimen-sioni, ma proveniente da un sito di Villotta.

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La centuriazione

Settimo faceva parte della centuriazione di Concordia. La centuriazione è la suddi-visione del territorio in appezzamenti secondo uno schema che seguiva il metodo ben codifi cato dell’edifi cazione delle nuove colonie, che a sua volta riproponeva l’impianto dell’accampamento militare.

La città era divisa in quattro quadrati dai due assi viari principali, il cardo massimocon direzione sud-nord, e il decumano massimo con direzione ovest-est; questi settori a loro volta erano suddivisi in piccoli isolati quadrati o rettangolari da cardi e decumaniparalleli ai due principali.

Per la suddivisione del territorio i magistrati agrimensori tracciavano per primo il car-do massimo, con andamento rettilineo generalmente da sud verso nord, ma che poteva an-che essere leggermente inclinato verso ovest o verso est per adattarsi ad eventuali ostacoli naturali come fi umi, zone paludose od altro; successivamente veniva tracciato il decumano massimo e quindi gli altri cardi e decumani. In questo modo si creavano due sistemi di strade parallele, ortogonali fra loro, che formavano quadrati di 710 metri di lato, le centu-rie, che a loro volta erano suddivise in quattro parti di 50 iugeri ciascuna. La centuria al suo interno era attraversata da un reticolo di sentieri e canali di drenaggio che rispettavano l’orientamento di cardi e decumani.

Una centuria aveva la superfi cie di circa 50 ettari, lo iugero misurava circa 2500 metri quadrati ed era l’estensione di terreno che una coppia di buoi (jugum) riusciva ad arare in una giornata di lavoro.

Gli storici sono concordi nel ritenere che la fondazione della colonia di Iulia Concor-dia sia nata dalla necessità di ricompensare con l’assegnazione di lotti di terreno i veterani delle guerre civili che avevano terminato il servizio militare.

Il Bosio, nello studio La centuriazione dell’agro di Iulia Concordia, identifi ca il cardo massimo della centuriazione dell’Agro concordiese con il rettilineo della ex statale 251 tra Portogruaro e Cinto Caomaggiore, dando quindi al sistema un’inclinazione di circa 39 gradi verso ovest; P. Baggio, in Interazione tra uomo e territorio antico: l’esempio di Iulia Concordia, Veneto Orientale, interpretando foto satellitari, corregge questa inclinazione portandola a circa 29 gradi.

Prima di decidere a quale delle due teorie dare la preferenza, è stato fatto un passo in-dietro nella storia: era consuetudine in periodo romano erigere capitelli votivi agli incroci di cardi e decumani; è noto anche che a volte con l’avvento della cristianità tali simboli pagani sono stati sostituiti da simboli cristiani dando così continuità alla sacralità del luogo. Come passo successivo si è immaginato che la chiesetta dell’Immacolata Concezione fosse stata edifi cata su di un precedente luogo di culto a sua volta sorto al posto di un capitello pagano. Su una cartina, ponendo in quel punto un incrocio del reticolo, si è provato ad orientare la nostra ipotetica centuriazione secondo le due diverse inclinazioni proposte dagli studiosi.

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Accettando la tesi proposta dal Bosio si possono individuare a Settimo alcune strade che ricalcano le vecchie suddivisioni della centuriazione. Via Melon e la parte nord di via Basedat distano 710 metri e il rettangolo formato da via Melon, via Adige, via Basedat e la ex statale 251 corrisponde esattamente a mezza centuria, che oltretutto è divisa a sua volta in due parti uguali da una strada campestre. Anche la disposizione interna degli appezza-menti segue l’orientamento delle strade principali.

Nella mappa del barone von Zach, la Kriegskarte del 1804 conservata a Vienna, la zona è tuttavia indicata come paludosa ed incolta, e quindi l’attuale orientamento di campi e strade è recente. Per riavvalorare la vecchia teoria bisogna ipotizzare che traccia dell’an-tica suddivisione fosse rimasta riconoscibile nonostante il degrado ambientale sopravve-nuto. In caso contrario si tratterebbe solo di una strana, ma casuale, coincidenza. Nella stessa mappa però l’area compresa tra i paesi di Cinto, Pramaggiore, Salvarolo, Chions, Basedo, Villotta, Banduzzo, Marignana e Settimo è delimitata e suddivisa da una serie di strade, carrarecce e fossati tutti orientati secondo un asse con inclinazione 39 gradi verso ovest. Fa eccezione una limitata superfi cie compresa tra via Treviso, la ex statale 251 e via Friuli in cui le delimitazioni degli appezzamenti hanno l’ inclinazione di 29 gradi ovest.

A questo punto forse non è azzardato ipotizzare che ci sia stata una prima centuriazio-ne con inclinazione di 29 gradi, ormai identifi cabile quasi esclusivamente dalle foto satel-litari, a cui si sarebbe sovrapposta in epoca più tarda una successiva centuriazione avente una maggiore inclinazione, di cui sarebbero rimaste tracce fi no al diciannovesimo secolo e, in rarissimi casi, fi no ai giorni nostri.

In conclusione, per quanto riguarda gli oggetti sopra descritti, va detto che le asce sono conservate presso il Museo Nazionale Concordiese di Portogruaro, così come i reperti pro-venienti dal sito K10 (coordinate UL 2720-7930): tegola con bollo TER- FVS, l’elemento di pozzo, ceramiche varie. Tutti gli altri reperti nominati in questo lavoro provengono dal sito di Boschette (coordinate UL 2730- 7790), sono conservati presso la Biblioteca Comu-nale di Cinto Caomaggiore e sono visibili al pubblico. Per uno studio più approfondito del-la storia antica del territorio comunale, si rimanda all’opera di AAVV. Cinto Caomaggiore e la sua storia, edita dalla Pro Loco di Cinto Caomaggiore nell’anno 2000.

L’elaborazione delle foto e i disegni sono di Francesco Marcorin.

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Reperti archeologici trovati a Settimo

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Premessa

A ormai cinque anni passati dal lavoro sui due volumi dedicati alla storia e agli annali di Cinto Caomaggiore può avere qualche utilità tornare ancora una volta sul breve profi lo storico che venne dedicato in quel lavoro a Settimo per mettere qualche ulteriore tassello, alla luce di una più recente bibliografi a e di un nuovo spoglio archivistico, su quel primo ed incompleto quadro d’insieme. In quella sede il discorso su Settimo medievale veniva affron-tato legando tra loro quegli scarni documenti di età patriarchina concernenti l’attribuzione di benefi ci e rendite fondiarie ad alcuni esponenti di una famiglia locale, che individuammo come i ministeriali “di Settimo”. Pur considerando, anche per la natura tutto sommato ab-bastanza nota del genere di documentazione, ancora valida quella impostazione, riteniamo ora di soffermarci su alcuni nuovi aspetti attraverso congetture e ragionamenti che a nostro avviso potranno completare quel quadro a cui siamo tuttavia costretti a frequenti rimandi e ragionamenti.

Un veloce sguardo ai secoli X e XI ed una congettura sulla nascita di Settimo

Per capire più chiaramente il contesto dei ragionamenti, occorre volgere uno sguardo al passato per breve premessa sulla condizione del territorio di Settimo, Basedo, Cinto e Sesto nell’altomedievo, precisamente nei secoli a cavallo del Mille. Diciamo subito che non avrebbe senso per noi andare ancor oltre a questo termine temporale, perché tra il X ed il XI secolo gran parte della situazione politica del territorio è in fase di stabilizzazione, e questo per il nostro contesto locale conta, come vedremo, molto. La prima cosa a pesare è l’orientamento dell’impero nell’Italia nord orientale. Immaginiamoci questa zona come un bosco sconfi nato che ha come limiti la Livenza e l’Isonzo, una grande macchia indistinta, impenetrabile, a tratti paludosa, ed interrotta solo da alcuni piccoli villaggi (villae) e da centri monastici come Sesto in silvys (l’abbazia tra i boschi) e Summaga (l’abbazia sopra il fi ume, nella fattispecie la Reghena). Su questo grande valdo regna sovrana la volontà dell’imperatore, che a partire da Carlomagno è, quasi sempre, nello stesso tempo anche re d’Italia e patrizio romano. Tanto importante era il controllo di questa immensa selva che perfi no imperatori come il friulano Berengario, che pure regnò a lungo, preferirono non in-taccarne il reddito complessivo, pure indugiando in una politica caratterizzata da svariante concessioni a privati, chierici e monasteri, che per la sua apparente disorganizzazione venne

LA VILLA DI SETTIMO nella strategia di popolamento dei Gastaldi di San Vito

Luigi Zanin

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La villa di Settimo

defi nita frammentazione dell’impero. Berengario basa proprio in Friuli ed in Veneto il ful-cro del suo potere, ed imposta qua e là una larga politica di concessioni. Oltre alle conferme dei possedimenti ai monasteri che rientrano nel solco dei suoi aurei predecessori, sempre interessati per molti motivi a mantenere vive queste isole di immunità religiosa, ci sono privilegi concessi a privati come la conferma di alcune aziende agricole al cognato Unroch (890), quella di un manso al diacono Vitaliano nel comitato di Cividale (902) e soprattutto consistenti addendi ai diritti dei vescovi di Ceneda, Belluno, e al patriarca di Aquileia. Nel-l’ambito della cospicua attività diplomatica di Berengario non abbiamo dunque prove che la grande foresta della pianura veneto friulana venisse seriamente intaccata da politiche di alienazione. Gli stessi organici possedimenti dei monaci di Sesto si situano in modo eccen-trico rispetto ad essa: si noti infatti come la parte sostanziale delle massericiae dei bene-dettini è posta al suo esterno (Lorenzaga, le corti sulle prealpi etc…) mentre San Quirino è una villa collocata sopra la Stradalta che i diplomi successivi indicano chiaramente come confi ne settentrionale della selva patriarcale, ma su questo torneremo fra poco.

C’è un altro aspetto importante cui occorre tener presente, le scorribande ungariche. Per quanto si possa revisionarne l’entità, è indubbio che questo territorio venne periodicamente sconvolto da questi razziatori provenienti dai confi ni slavi. Se ad Aldo A. Settia spetta il merito di aver precisato che non tutti i castelli dell’Italia nord orientale furono edifi cati in chiave anti-ungarica a partire da questi secoli, bisogna continuare a guardare alle pagine di Carlo Guido Mor per farsi un’idea di quanto peso ebbero queste scorribande nello sviluppo successivo di queste regioni. Si tratta di un vero e proprio stillicidio di ondate organizzate che dilagavano attraverso la pianura dall’Isonzo al Piave per poi giungere a razziare tutti i fi orenti territori delle città padane, come Verona, Brescia e la capitale Pavese, giungendo fi no a distruggere importanti patrimoni come l’abbazia di Nonantola disperdendone in se-guito il suo ricchissimo archivio. Gli ungari sono un pericolo condizionante che si riproduce nel territorio per decenni e spesso più volte nel corso dello stesso anno. A poco valgono politiche di difesa organizzata, perché in questi anni lo stato semplicemente sembra non riuscire ad avere una politica unitaria. Nell’899 e nel 900 si susseguono in particolare alcune cruente scorribande che toccano il medio Friuli e si esauriscono nell’Italia padana e nelle Venezie, dove dopo un primo successo sul Brenta, la cavalleria pesante italica viene sbara-gliata cedendo il passo per un secolo abbondante ai saccheggi e alle stragi di quei barbari. Gli ungari giungono in Italia con la loro caratteristica cavalleria leggera, atta, come per tutte le popolazioni nomadi eurasiatiche, agli spostamenti di massa con estrema velocità di mano-vra anche grazie all’utilizzo delle staffe che consentono una maggiore solidarietà tra cava-liere e cavallo. I caratteri delle incursioni/invasioni ungariche non rivestono tuttavia una importanza comune a tutta l’area interessata, ma appaiono, se seguiamo le fonti diplomati-che, fortemente legate alla presenza delle strade. È proprio attraverso le arterie ancora esi-stenti che le ondate si spostano su un asse preferenziale partendo dalla Slovenia ed attraver-

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sando velocemente tutta l’alta pianura padana friulana e veneta giungendo poi alle città pa-dane. La loro strategia di rapina e razzia non consente forme di insediamento stanziale, se non mediante accampamenti e acquartieramenti isolati, documentati nell’area toponomasti-ca friulana e lombardo veneta. Nella marca friulana, entro cui c’è Settimo, il loro è un pas-saggio veloce, anche se non privo di tragiche conseguenze. Si snoda attraverso la Stradalta (o Callalta, o Strada Ungaresca Strata Ungarorum) che a dispetto delle mille collocazioni delle toponomastica sappiamo fosse orientata nella direzione Motta – Aquileia ma si svolge-va più a settentrione del supposto sviluppo della strada consolare Postumia tracciato dal Bosio1. Se insomma l’archeologia riuscisse a mettere la parola fi ne all’annosa querelle sultracciato della Postumia, che di tanto in tanto torna fuori, stabilendone l’ultima parte del suo tracciato con tappa ad Annone, allora la Strada Ungaresca si staccherebbe indicativamente dal tracciato della consolare nei pressi della Livenza e salendo vigorosamente a Nord, for-merebbe un alto raggio attraverso l’alta pianura fi no a toccare Codroipo (Quadrivium). Que-sta considerazione sembra essere confermata dalle carte altomedievali, in cui sia il discorso della selva di appartenenza demaniale, che l’esistenza della strada degli ungari viene messa sovente in relazione. Il 29 aprile 967, Ottone I di Sassonia, l’imperatore che dopo decenni di anarchia riesce a mettere a freno le esuberanze degli italici, concede una fondamentale do-nazione al patriarca di Aquileia comprendente il castello di Farra d’Isonzo, alcuni beni nella pianura, il diritto di spolio dei morti senza eredi (che signifi cava reclamarne i beni, un dirit-to regale) e fi nalmente il possesso di tutta la grande selva che va dalla Livenza e le Due So-relle (una località sita nei pressi di San Giorgio di Nogaro), e che ha come limiti a nord la viapubblica della strada degli Ungari e a sud il mare2. La foresta che costituiva il più importan-te patrimonio della marca friulana integrata nel Regnum italiae, diviene con questo impor-tante conferimento un bene del patriarca, fedele vassallo imperiale, ma anche il centro del suo futuro comitato. D’altra parte una concessione così larga al presule di Aquileia si spiega con diversi motivi. Politicamente il Friuli in questi anni si trova inglobato nel grande ducato bavarese, sotto il controllo dell’infl uente e ambizioso Enrico (il Leone) fratello di Ottone. Senza l’appoggio del fratello, Ottone non avrebbe potuto coronare il suo sogno imperiale, ma d’altra parte le concessioni ad Enrico erano state di tale entità da mettere in crisi le stes-se basi del potere imperiale scontentandone perfi no il fi glio pretendente alla successione.

1 L. BOSIO, Le strade romane della Venetia e dell’Histria, Padova 1997 (rist.). Il tracciato della Postumia collega invece Oderzo e Concordia passando per Annone Veneto; da Concordia la strada procede per Aquileia. Recen-temente è stata proposta una alternativa del tracciato più a nord, passando per Pasiano di Pordenone e Zoppola; questa seconda ipotesi è suggestivamente collegata alla relazione di un proto archeologo del XIX secolo, un conte Panciera di Zoppola. L’interesse di questa seconda tesi, a mio avviso, sta nel fatto che vi sono alcune possibili assimilazioni del tracciato con la Via Ungaresca, ma è una questione ancora sostanzialmente aperta su cui occor-rerà ragionare con ben altri strumenti! Su questa seconda ipotesi, M. BUORA – L. PLESNICAR GEC, Aquileia– Emona, Udine 1989.2 MGH, Dipl. reg. Imp. Germ, I, Conradi I, Heinrici I et Ottonis I Diplomata, Hannoverae 1879-1884, doc. 431.

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Dopo il matrimonio tra Ottone e la moglie dell’ex re d’Italia, Adelaide, Enrico ottiene l’espansione del suo ducato sin al Trentino, Friuli, e all’intera marca Veronese diventando il più importante suddito dell’impero. Altro fronte aperto era quello veneziano, dove sotto il doge Pietro IV Candiano la città è interessata ad un momento di grande sviluppo commer-ciale in Adriatico, rintuzzata in questo da Bisanzio che alimenta non pochi problemi di sicu-rezza e di stabilità nei rapporti, imponendo anche una diffi coltosa politica di dazi. Ottone da parte sua riesce dove i suoi predecessori ed i suoi successori non sarebbero più riusciti: im-pone un trattato con Venezia in cui per la prima volta le condizioni della città sono di chiaro vassallaggio rispetto al Tedesco. Si paga un tributo in moneta imperiale (e non più venezia-na), si riconosce poi l’infl uenza dell’impero, vale a dire dei vescovi di Treviso, Ceneda e Belluno, sui corsi d’acqua nella bassa, da sempre sotto l’infl uenza dei veneziani. Di fronte al rafforzamento di poteri regionali con queste caratteristiche, destinati a crescere e ad raffor-zarsi, Ottone investe su una politica alternativa destinando la maggior parte della sua attività al rafforzamento del patriarcato e dei vescovi che da sempre erano i più fedeli alleati dell’im-peratore nella politica italiana. Il disegno non è facile, anche perché l’istituzione comitale è tutt’altro che scomparsa in questi territori, ma Ottone lo persegue con costanza e senza esi-tazioni mettendo le basi alla costruzione dello Stato Patriarcale (conclusa da Enrico IV nel 1077). L’avvio del processo di formazione regionale dello Stato patriarcale vede dunque Settimo all’interno della più corposa donazione. Tra i motivi per cui si giunge a questa deci-sione, c’è ancora il ristoro per i danni subiti dalle incursioni ungare. I documenti parlano chiaro: le donazioni sono concesse per risarcire danni e, in una nuova ottica di popolamento e sfruttamento economico, si concede per la prima volta al patriarca quelle ville che erano state fondate a seguito delle incursioni degli Ungari. C’è chi ha visto tra queste Codroipo, sita probabilmente a ridosso della via Ungaresca3, ma proprio la posizione a diretto contatto con la strada che continuerà ancora per secoli ad essere percorsa da popolazioni dell’Europa orientale sembra sconsigliare una ipotesi del genere, almeno in questo periodo così arroven-tato per la storia del Friuli centrale. Ci pare più probabile l’ipotesi che ad essere fondati o rifondati siano piuttosto ville e villaggi posizionati in zone più inesplorate della grande selva patriarcale. Si trattava magari di zone in cui la popolazione si era ritirata durante il duro pe-riodo delle invasioni Ungare; in effetti l’assenza di punti di difesa organizzata, come cente e castelli documentati in periodo altomedievale comporterebbe proprio la ricerca di rifugio delle popolazioni nei boschi, e ricordiamo, per uscire dall’indeterminatezza delle ipotesi e fornire un esempio concreto, che non erano passati molti secoli da quando gli abitanti del litorale, minacciati dalle orde Unne e Gote, avevano preferito dar vita alle fi orenti città insu-lari di Torcello, Grado, Rialto e Caorle lasciando la comoda via Annia e gli altri percorsi di penetrazione della pianura in mano ai pericolosi invasori. Siamo dunque del parere che Set-

3 Cfr. W. PAGNUCCO, Note su Codroipo medievale, in Ce fastu?, LXXXII (2006) I, p.44 con riferimento ad una testi del Menis.

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timo, al di là di quello che ci può essere stato nell’antichità e di cui comunque bisognerà tener senz’altro presente, si sia formato in questo contesto di isolatezza che caratterizza an-che le altre ville del territorio. A parte Sesto, dove sappiamo i particolari della fondazione longobarda, il territorio è caratterizzato chiaramente da una frammentarietà di piccoli centri che, documentati nella maggior parte dei casi tra i secoli X e XI, ci parlano col nome della loro origine silvestre: Fagnigola, Salvarolo, Teglio, Gruaro, i vari Giai e via discorrendo, con vari riferimenti all’incolto e al boschivo. Se seguiamo questo ragionamento comprendiamo bene anche perché è proprio a partire dal secolo XI che incontriamo più frequentemente nei documenti le loro menzioni. Non si tratta di comparse senza senso, nel giro di qualche de-cennio si precisa sempre più la coscienza dell’appartenenza di questi territori nel contesto di uno stato sovrano dotato di effettivi poteri, evolvendo dalla situazione precedente in cui for-se non c’era nemmeno una chiara coscienza di appartenenza. Non sarà un caso quindi che gli stessi diplomi rispetto alle conferme dei secoli precedenti diventino sempre più precisi nella descrizione del territorio, delle sue pertinenze e delle giurisdizioni. Tale evoluzione si perfeziona nel caso di San Vito in modo abbastanza lento, mentre ad esempio la foresta pa-triarcale di Cinto viene gestita direttamente dal patriarca attraverso i gastaldi ed i saltarii o forestarii che da semplici ministeriali della Chiesa Aquileiese diventano spesso fi gure social-mente eminenti nel territorio in virtù del ruolo di delega del potere centrale. In questa pro-spettiva anche la bolla del 996 a Benzone andrà collocata in modo più opportuno. Le dona-zioni riguardano infatti non tutta la selva tra Livenza e Tagliamento ma alcune sue frazioni, in particolare quelle comprese tra Meduna e Fiume e tra il Loncon ed il Lemene. Si tratta senza dubbio di parti importanti, anzi, fasce centrali, ma certamente non come possono sem-brare oggi. È indubbio infatti che Settimo non rientra nel territorio dei vescovi, come sap-piamo dai documenti; in effetti lo stesso fi ume Loncon è defi nibile solo nel suo tratto termi-nale, dall’odierno comune di Pramaggiore in giù verso il mare. E lo stesso si dica del Le-mene. Ecco pertanto che, a dispetto delle idee del Degani sull’argomento, le “isole” vesco-vili nella selva patriarcale sono senz’altro da ridimensionare. Ed in questo la storiografi a locale sembra concorde.

Il popolamento della foresta di Settimo

Per comprendere fi no in fondo fi no a che punto possa dirsi inospitale una foresta, ba-sterebbe aver sott’occhio qualche foto delle operazioni di disboscamento che vennero ap-prontate con una certa sistematicità qualche anno prima della Grande Guerra, e nel decennio immediatamente a seguire, sotto le varie Opere per gli ex combattenti. Nel medioevo la foresta era uno spazio intercluso alla vita normale, non solo per la presenza di uomini che vivevano ai margini della società (banditi, lebbrosi o i porcari, allevatori di maiali associati dalla communis opinio agli stessi suini) ma soprattutto perché al suo interno pullulavano

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paurose presenze capaci di minacciare la stessa sopravvivenza dei villaggi che sorgevano ai margini4. I lupi sono forse l’aspetto più eclatante della pericolosità della foresta: e sappiamo anche da testimonianze della zona come non fossero infrequenti episodi di attacco delle case isolate da parte dei branchi affamati; gli statuti comunali non raramente istituivano l’uccisio-ne dei cuccioli. Meno si sa sui serpenti, eppure chi ha avuto modo di vedere queste terribili creature ne rilascia testimonianze turbate ed impressionanti. Sono animali di una grandezza incomparabile con i serpenti autoctoni, dalle nere sembianze, che si muovono vorticosamen-te non strisciando sulla terra, ma caricando tra gli alberi quasi fossero una ruota; il loro nome comune è carbonazzi, a causa del loro colore bruno. Il dissodamento dei residui delle antiche foreste avveniva nei primi anni del Novecento con strumenti se non all’avanguardia quanto meno adeguati al lavoro. Nel medioevo non c’erano nemmeno quelli, almeno da quanto ne sappiamo dagli studi sulla cultura materiale e dall’iconografi a, miniature in particolare. E al contrario di quanto era accaduto durante l’impero romano quando lo Stato disponeva di una accurata organizzazione e di un piano preciso di centuriazione, le strategie organizzative del territorio sotto i patriarchi risultavano di ben più diffi cile realizzo.

Pare in prima analisi che Aquileia non intendesse intaccare le caratteristiche di foresta signorile, ma preferisse gestirla in modo unitario attraverso i propri funzionari. Un’analisi delle giurisdizioni sorte nel territorio durante il XII ed il XIII secolo sembra confermare questa impostazione di ricerca5, perché le nuove signorie locali, animate dapprima da pic-cole concessioni e poi via via riconosciute nella loro nuova importanza, seguono gli stessi confi ni ad ovest ed a nord della foresta. Il gastaldo patriarcale di Cinto, nel 1218, diventa signore di alcuni terreni nella paludosa Panigai e lì fonda le basi per il suo potere; un secolo prima i Frattina ottengono una concessione importante sempre fuori dalla foresta presso i confi ni occidentali della Patria. Sempre rimanendo nel territorio verifi chiamo come fossero nettamente estranee a questo ambito le giurisdizioni purliesi e pratesi (del resto con tutta probabilità coeve a quelle patriarcali), mentre gli stessi Sbrojavacca intersecano la selva su investitura dell’abate di Sesto, ma la loro futura giurisdizione è un territorio che sfi ora l’alta pianura e quindi la selva. Il nuovo assetto territoriale ha invece inizio con lo scadere del XII secolo, dopo oltre un secolo dalla formale creazione del comitato/stato patriarcale (1077).

Furono diversi i metodi utilizzati dai patriarchi per mettere a regime dal punto di vista

4 Il riferimento è alla ricca bibliografi a di V. FUMAGALLI, Terra e società nell’Italia padana. I secoli IX e X,Torino, 1976; ID. Uomini e paesaggi medievali, Bologna, Bologna, 1989; ID. L’uomo e l’ambiente nel Medioe-vo, Bari, 1992; ID. Società e ambiente nella Pianura Padana durante il Medioevo, in Per Aldo Gorfer: studi, contributi artistici, profi li e bibliografi a in occasione del settantesimo compleanno, Trento, 1992, p. 475-484; ID. Paesaggi della paura. Vita e natura nel Medioevo, Bologna, 1994; ID. Ambiente naturale, uomini e orga-nizzazioni sociali nell’Italia padana dell’alto Medioevo, in Pievi della pianura novarese (Atti del Convegno di Borgolavezzaro, settembre 1995), a cura di G. Andenna, Novara, pp. 25-36. 5 E’ una considerazione su cui bisogna comunque ancora verifi care molti aspetti seguendo un piano di compara-zione con altri casi di gestione di patrimoni ecclesiastici in area tedesca.

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economico quest’area, primo fra tutti il ricorso a forme di trasferimento della popolazione da altre aree, prima fra tutte da quella slava. Ci sono ancora toponimi che documentano questa stagione che portò all’inserimento nel territorio di nuove popolazioni estranee al-l’ambito locale6. Loncon, ad esempio, è un nome di origine slava legato proprio alla grande stagione di apertura verso quel mondo operato dai patriarchi per consentire un maggiore popolamento dell’area occidentale della Patria del Friuli ed avvallare il dissodamento dei territori meridionali. La toponomastica slava è molto presente in zona, e Loncon, voce che compare nel documento più antico a partire dal 996, ne è una chiara testimonianza. Loncon, Loncone (996) (sl. LO[N]KA «palude, prato paludoso») si colloca infatti in un’area molto distante da quella caratterizzata dalla Strada degli Ungari, e per questo c’è da credere che la voce toponimica sia da relazionarsi ad una vera e propria sedimentazione del toponimo conseguente allo stanziamento, già in epoche assai antiche, di popolazioni slave nell’area. Ma in generale troppo poco sappiamo dell’inserimento di questi nuovi ceppi di popolazione nel territorio. Probabilmente la strategia si limitava ad interessare aree di recente conquista che i friulani non riuscivano a controllare saldamente, come i territori della “bassa” stretti tra la Piave e la Livenza e da secoli oggetto dello scontro con i veneziani che abusivamente se ne servivano per la caccia ed altre attività, compresa la tratta degli schiavi proibita da-gli accordi internazionali con l’Impero. Conosciamo un diploma dell’imperatore Corrado (1034) che strappando ai veneti le ingerenze sul territorio lo riafferma stabilmente nelle mani del patriarca Popone, consentendogli lo sfruttamento economico di campi, selve e quant’altro fosse utilizzabile, ed aprendo in questo modo il patriarca al suo rafforzamento nel territorio cenedese che lo porterà ben presto alla fortifi cazione di Cessalto e Motta7. In questo territorio, come in quello sempre litoraneo di affaccio alla laguna di Grado, o a quel-la di Caorle, gli inserimenti di queste nuove presenze sono giustifi cabili, e non solo dalla toponomastica, data la possibilità di ricostruire i contorni di origine di alcuni protagonisti.

Ma il popolamento della grande selva venne perseguito non solo con il ricorso ed ele-menti estranei al territorio, ma anche con il puntuale stanziamento di personaggi fi dati, come si è già visto affrontando nel concreto il caso dei ministeriali della foresta di Cinto. A Settimo compaiono in un contratto feudale del 1214 ben cinque funzionari patriarcali differenziati dagli altri abitatori e dagli stessi nobili grazie al titolo di forestarii. Oltre a Patessio, fi glio di Woldarico di Settimo, ci sono infatti Warnerio di Annone, Marcabruno di San Vito, Dusio di Rivignano e Fencio di Marignana8, tutti servi de ministerio e quindi non collocabili con precisione in contesti dinastici, ma piuttosto legati ad accurate consegne territoriali. In pa-

6 Sull’argomento, confrontando pure la bibliografi a, M. PUNTIN, A proposito dall’assimilazione delle colonie slave medievali nel Friuli centrale: il caso di Turrida di Sedegliano, in Sot la Nape, I-II, 2006, pp. 37-42.7 MGH, Die Urkunden Konrad II mit nach tragen zu den Urkunden Enrichs II, Hannover und Seipzig, 1909, n. 205.8 L. ZANIN, Cinto e Settimo nella storia medievale, in AA. VV., Caomaggiore e la sua storia, Spoleto 2000, pp. 75 e ss.

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role povere questi funzionari del patriarca risiedono stabilmente nel territorio stabilito dal loro predicato dove si occupano di curare gli interessi del rispettivo dominus. In apparenza il loro è un lavoro isolato da qualsiasi contesto sociale, tant’è che menzioni alla villa di ap-partenenza non ce ne sono. Eppure, già nel primo documento9, compaiono altre tracce che fanno presagire una variegata presa di possesso del territorio, si parla infatti di terreni del vescovo di Concordia su una signoria territoriale del patriarca, di benefi ci agli Sbrojavacca già tenuti dai di Fossalta e poi trasferiti ai Degnano: tutti indizi di un controllo accurato dei redditi locali. Quindi una situazione tutt’altro che isolata su cui però il patriarca esercita uno strettissimo riscontro: come leggere infatti la presenza dei suoi fi dati funzionari alla stesura di un atto tutto sommato privato – quello del 1214 – che si svolge a Settimo?

I patriarchi iniziano proprio dai primi decenni del XIII secolo ad avere sempre più chia-ra la mappa dei loro possessi. Nelle Rendite della Camera Patriarcale stese ad Aquileia nel-la primavera del 1211 si intravede un primo esempio per quanto riguarda la gestione diretta, e si assiste ad una minuta tassazione in natura per ogni singola concessione di diritti e di terreni. L’ambito di prelievo indicato da questo antico, e ancora molto rozzo documento fi -scale, è ancora molto prossimo ad Aquileia, certamente Settimo è parte estranea al prelievo organizzato. Anzi, c’è da credere (come attestano una serie di documenti locali del biennio 1218-1220) che non ci fosse ancora una chiara defi nizione degli ambiti di infl uenza. Ecco perché nella gestione dei suoi interessi tra Tagliamento e Livenza il presule sceglie di affi -darsi a servi de ministerio come Patessio di Settimo, servi che si limitano in questa fase alla tutela dei suoi diritti di natura demaniale ottenendo in cambio alcuni mansi di terreno.

Abbiamo già parlato dell’investitura che Patessio ottiene dall’eutourage sanvitese del patriarca, e del fatto che essa avvenga nella sua domus, una abitazione che certamente si distingueva dalle altre della villa di Settimo10; quelle che occorre focalizzare sono, a que-sto punto, le sembianze dei rapporti tra Settimo e San Vito nel XIII secolo, e in che modo questo villaggio si relazioni alla sua amministrazione. Iniziamo col dire che la crescente importanza della cittadina friulana nel contesto locale si percepisce nei documenti a partire dalla seconda metà del Duecento, in un periodo in cui la selva è oramai ben controllata dal patriarca e dagli altri grandi signori della zona. Contestualmente al miglior sfruttamento delle sue risorse si aprono nel territorio nuove strade per lo sviluppo commerciale, settore in cui San Vito diventa sempre più un riferimento regionale come si evince da una memoria del 1291 in cui la cittadina è richiamata come tappa fi ssa dei traffi ci tra Caorle, Concordia e Portogruaro verso Venzone, ed è proprio in questo contesto che vengono emanate norme di sgravio dai dazi per le merci che circolano in direzione di Tolmezzo, verso l’area ca-rinziana (attraverso passo Monte Croce Carnico), o verso Pontebba/Tarvisio via Moggio.

9 G. BIANCHI, Documenti per la storia del Friuli, Udine 1877; i manoscritti (in BCU) sono ora pubblicati in cd rom; cfr. alla data 1214. 10 ZANIN, cit.

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San Vito diventa un passaggio obbligato dei traffi ci provenienti da Portogruaro in virtù di un collegamento diretto tra le due città che sappiamo attivo nel basso medioevo11, e questa condizione favorevole è la chiave del suo sviluppo commerciale. I mercati, prima stagionali ed episodici, si trasformano in permanenti anteriormente al 1325, quando sono sempre più documentati i fl ussi di derrate verso la città, tant’è vero che qualche decennio più tardi, nel 1380, San Vito assieme a Meduna e Portogruaro è una delle città autorizzate ad importare grano nei diffi cili frangenti della guerra di Chioggia. In seguito all’acquisita ricchezza ar-riva naturalmente anche il riconoscimento politico che si concretizza, nel XIV secolo, con l’inclusione della città tra le voci del parlamento della Patria del Friuli, ovvero con l’assun-zione di un ruolo che, come ha evidenziato Donata Degrassi, indica principalmente il valore giuridico in rapporto agli obblighi di natura fi scale e militare cui le comunità erano chia-mate a contribuire12. Ciò comportava la costruzione di una sempre più precisa burocrazia nei rapporti interni tra San Vito e le ville sottoposte, in una prospettiva di sempre maggiore controllo del territorio stabilito dai patriarchi, che verso la fi ne del Trecento facevano pog-giare proprio su San Vito, San Daniele ed Aquileia la base più importante dei loro redditi. E a Settimo le cose iniziano a cambiare, come si vede anche dal controllo amministrativo che i Sanvitesi fanno pesare in modo sempre più ricorrente anche nell’espletamento degli atti meno importanti. Muta perciò anche il rapporto col territorio. Nel 1230 da un atto di confi -nazione13 apprendiamo che tra i beni dei saltarii (cioè sorveglianti del bosco) di Settimo e quelli dell’abate di Sesto c’è una proprietà dove i fi gli di Coneppo (?) stanno disboscando, chiara menzione all’attività di dissodamento che era stata avviata a partire dal XIII secolo e che fa progressivamente diminuire l’importanza della foresta patriarcale a benefi cio delle aree messe a coltivo. Lo stesso documento è in realtà l’appendice di una lite tra l’abate ed i saltarii patriarcali che avevano occupato i boschi della chiesa di Sesto e che poi il patriarca, dietro pagamento di 150 lire di denari veronesi, fi nirà con l’assegnare allo stesso abate. Ed è interessante vedere a questo punto da chi sia composta la camera arbitrale che stabi-lisce i confi ni all’interno della selva. Si tratta dei massimi esperti locali del settore foreste(diremmo noi mutuando i termini della moderna burocrazia), quelli che nel Seicento si sarebbero appellati pubblici periti, ma che nella prima metà del Duecento sono gli uomini di fi ducia del Patriarca nel territorio, e che si avviano rapidamente verso il consolidamento della rispettiva posizione sociale. I nomi sono sempre gli stessi, già visti nei documenti cintesi del 1218: il gastaldo di Cinto Varnerio, il forestario Curto, Falcomario di Panigai ed Arpone di San Vito. Nell’ordine però più importanti di tutti sono Falcomario ed Arpone che rappresentano in questo documento gli interessi del patriarca. Arpone è anche presente tra

11 D. DEGRASSI, L’economia del tardo medievo, in P. CAMMAROSANO (a cura di), Il medioevo. Storia della società friulana, Tavagnacco 1988, p. 324.12 Ibidem, p. 356.13 Archivio Parrocchiale di Settimo, carte non numerate, doc. e trascrizione alla data 1230.

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i testi, insieme a Luopoldo di Gruaro e Ulvino di Sbrojavacca, che probabilmente in questa vertenza “tengono” per Sesto, mentre tra gli incaricati alla puntualizzazione dei confi ni ipotizziamo che Curto “tenga” per l’abate. Nella successiva confi nazione troviamo invece sostituito Arpone con il ministeriale Patessio di Settimo e con Stefano, giurato di Settimo, che rappresenta la comunità.

Alcune osservazioni generali sui rapporti tra Settimoe i gastaldi di San Vito

Il 10 giugno 1330 nel castello di San Vito, alla presenza del suo gastaldo Giovanni di Cusano, il patriarca di Aquileia, intendendo migliorare le condizioni generali delle sue terre e, quindi della sua chiesa, assegna il terreno nella Tavella denominato Pratum Gaianum aZanino fi glio di Patessio di Settimo. Si tratta di una porzione di terreno posta tra i Comunalidi Basedo e le terre di Sesto, e la durata del contratto è fi ssata per quindici anni. Più che l’investitura particolare, ci interessano stavolta le motivazioni che spingono il patriarca alla determinazione, e che appaiono molto chiaramente dal breve atto.

Il patriarca infatti viene informato dal suo gastaldo che in quegli anni il territorio di Settimo non era adeguatamente coltivato, o quantomeno non garantiva le rese che il solerte gastaldo si aspettava: quindi era necessario metterlo in produzione. Nello stesso tempo Giovanni di Cusano sembra cosciente che la resa di quel terreno sarebbe stata dura da con-solidarsi, oppure che le spese per il disboscamento ed il dissodamento che Zanino avrebbe dovuto affrontare erano molto consistenti. In effetti già il padre ed il nonno di Zanino aveva-no avuto in concessione feudale dei terreni a Settimo, ma nel complesso le cose non dove-vano andare particolarmente bene. E fu così che il gastaldo di San Vito prepara al patriarca Pagano della Torre un dispositivo che consente, oltre all’investitura, anche la concessione di una sorta di sgravio fi scale per i primi cinque anni (come si vede le moderne politiche di sostegno economico non sono poi così distanti da quelle attuate in quello che si continua a chiamare il “buio medioevo”)14.

Da questo documento apprendiamo due cose. La prima è che l’istituto del feudo di abi-tanza, di cui per Settimo si è già parlato a suffi cienza15, non era limitato a forme di custodia di un territorio per sole ragioni militari, ma era anche un procedimento attraverso il quale i patriarchi promuovevano lo sviluppo agricolo del territorio. La seconda è che le attenzioni del patriarca mediante il gastaldo di San Vito continuano a concentrarsi su Settimo per fare in modo che la località “fruttasse” il più possibile. In entrambi i casi sono le concessioni del patriarca ad essere lo stimolo necessario alla crescita economica del territorio, e non è esclu-

14 BIANCHI, Documenti, cit., alla data 1330.15 ZANIN cit., con riferimento però a quanto aveva già scritto CG. MOR, I feudi di abitanza in Friuli, in Studi in onore di Manlio Udina, II, Udine s.d., p. 1675.

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so che proprio il vincolo alla dimora prolungato per quindici anni fosse una risposta all’at-trazione esercitata in questi decenni dai centri economici più importanti quali Portogruaro ed appunto San Vito. Il documento si colloca in un periodo, grossomodo tra il 1320 ed il 1335, in cui il territorio friulano godeva fi nalmente di un periodo di pace, mercè soprattutto la politica espansionistica degli Scaligeri che costringeva il nemico trevisano a pensare ai fatti di casa propria. In quegli stessi anni anche il conte di Gorizia, altra storica spina nel fi anco patriarcale, era impegnato sul fronte veneto essendo alleato degli Scaligeri, e di conseguenza il patriarca della Torre, da poco reduce dalla sistemazione delle sue faccende milanesi, po-teva fi nalmente riprendere il lungo lavoro di defi nizione territoriale iniziato più di un secolo prima dal suo predecessore Bertoldo di Andechs – Merania. Abbiamo due indizi indiretti della riorganizzazione del territorio di Settimo che avviene nei primi decenni del Trecento. Si tratta della “messa in possesso” di un maso detto “braida” (campo chiuso) a Giacomo della Frattina che avviene formalmente ad opera di Viberto di Candido di Summaga, il quale agisce a sua volta su delega del decano di San Vito Giovanni, di ser Matteo fu Otussio di San Vito e di ser Viberto di Sacile che abita a Summaga16. Il secondo documento evidenzia poi la presenza dei di Ragogna in virtù di un lascito del 1390 da Odorico alla nipote Simonatta di Ragogna concernente alcuni terreni in Settimo17. Ma un elenco dei possidenti locali lo si ottiene pure da un lungo documento del 1384: Giovanni detto Rosso di Azzano, Zanino del fu Pietro di Cinto, il fi glio del fu Giovanni di Sbrojavacca, Odorico di Latisana, Giovanni del quondam Rodolfo: tutti presenti ad una vendita di beni di Aganeta fi glia del fu Bortolis-sino detto Tis di Settimo. L’antico bosco iniziava insomma a pullulare di un numero sempre maggiore di proprietari, con una fetta di terreno messo a coltura crescente, in cui vantavano diritti nobili, preti e possidenti locali. Sappiamo comunque che il disboscamento era già in atto da tempo, come ci indica pure un bel documento datato 14 gennaio 132818 con cui il patriarca concede a Bortolo di Sbrojavacca il diritto di godimento, che ne prevede il taglio, di alcuni boschi nel territorio di San Vito e più propriamente di Banno (superiore e inferiore) sito per l’appunto a Cinto sotto la gastaldia della Meduna.

Mentre i possidenti organizzavano i loro interessi nelle modalità descritte, alla comuni-tà rimaneva l’uso dei cosiddetti beni comunali, su cui era possibile effettuare le operazioni di sfalcio periodico o il pascolo degli animali di allevamento. Al riguardo, come è stato a suo tempo rilevato19, si giunse ad un importante accordo tra le comunità di Cinto (distretto di Meduna) e Settimo (distretto di San Vito) nel 1447 sullo sfruttamento del paludo del

16 BCU, TEA alla data 1309.17 Ibidem. 18 BIANCHI, Documenti, cit., n. 483 alla data 14 gennaio 1328. 19 Riferimento ancora a AA. VV., Caomaggiore e la sua storia, Spoleto 2000; sull’argomento dei boschi pure M. DE VECCHI, Cronache di vita agreste. Vicende cintesi dal XV al XVIII secolo, Cinto C., 2005 e alla bibliografi a correlata dello stesso autore.

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Planchio tra Cinto e Summaga, dove la gente di Settimo ottiene di pascolare i buoi per tre-dici giorni consecutivi prima della festa di San Giorgio (23 aprile) e di raccogliere strame e patusso ogni anno dopo la festa agostana di Santo Stefano. In defi nitiva quindi era sui beni comuni che doveva sostenersi l’economia della maggior parte dei villici non possidenti, oltre naturalmente che sui fi tti stipulati con i proprietari diversi. Anche il bosco continuava ad essere la naturale riserva di caccia, su cui però si estendeva il severo controllo dei fore-stali patriarcali. Dal punto di vista amministrativo Settimo, assieme ad Azzano, Basendo, Bannia, Villutta, Tajedo e Villa Franca, erano sottoposte alle norme degli statuti di San Vito. Non si sa molto del lungo periodo di gestazione di questa normativa; probabilmente gli statuti sanvitesi cominciarono a strutturarsi nel corso del Cinquecento, mentre prima erano vigenti norme a se stante raccolte in modo disordinato dopo l’emanazione della comunità. Quel che è certo, è che la prima formulazione organica ed uffi ciale avviene sotto i rettori della gastaldia solo a partire dal Settecento, seguendo anche modelli uffi ciali più autorevoli. Tra le legislazioni sicuramente preesistenti c’era quella sulla difesa dei boschi, perenne-mente minacciati dalla popolazione locale.

Sin da antichissime consuetudini era attivo il placito del gastaldo che avveniva anche in modo itinerante, mentre sono abbastanza defi niti nei rotoli della contabilità patriarcale gli obblighi che i popolani avevano nei confronti della gastaldia. Si tratta di tasse vere e proprie (dette angarie) e di corvèes. Tra queste ultime si trova ad esempio l’obbligo – este-so all’intera comunità – di trasportare foraggi da Portogruaro al palazzo patriarcale di San Vito, obbligo bandito uffi cialmente dal gastaldo con l’indicazione dell’ora e del giorno in cui svolgere l’attività. Doveva trattarsi di obblighi onerosi ed umilianti, il cui peso diven-tava sempre più insopportabile giustifi cando forme di protesta. Uno dei principali centri per la gestione della gastaldia era il “barco” di Azzano, un magazzino del patriarca dove si concentrava gran parte dei raccolti afferenti la sua giurisdizione. Qui gli uomini di Settimo dovevano ad esempio recarsi su istanza del Conduttor del barco patriarcale d’Azzano sottopena, nel 1681, del pagamento di 25 ducati, con i cariaggi adeguati per trasportare foraggi ed altri prodotti agricoli, oppure ammassare i prodotti per il pagamento delle imposte ri-chieste dalla Dominante. Altre forme di servigio richieste dal gastaldo patriarcale riguar-davano il serviggio della stalla di San Vito, per cui era prevista una somma annua ripartita grossomodo con le seguenti proporzioni tra la villa di Azzano (45 per cento), Bannia (15 per cento) Villutta, Tajedo e Villa Franca (15 per cento), Settimo (15 per cento) e Basendo per la parte rimanente. Altre forme di corvèes erano poi il servizio da effettuare nella stalla di San Vito, servizio che prevedeva anche il reperimento ed il trasporto di strame e paglia tanto quanto occorre20. A questo si dovevano sommare ancora gli oneri per la conduzione dell’orto patriarcale di San Vito per il quale si pagavano in totale ancora nel 1668 168 lire,

20 Archivio Parrocchiale di Settimo, carte non numerate, copia del rotolo patriarcale.

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da versarsi in tre rate: la prima alla Madonna di marzo, la seconda al San Giacomo di luglio, la terza al San Michele di novembre, e quelli per la manutenzione dei canali e delle fosse del palazzo patriarcale.

A chiosa delle notizie frammentarie riportate e dei ragionamenti esposti, è senz’altro necessario segnalare che per giungere ad una valutazione complessiva sulle condizioni del-la vita della gente di Settimo sotto i patriarchi occorrerebbe un’analisi molto più approfon-dita e metodica della documentazione esistente21. Quello che si è voluto dare, nell’ultimo paragrafo è solo un esempio delle condizioni cui i villici erano sottoposti dall’arbitrio di una amministrazione che nel corso dell’età moderna era molto meno sollecita alla realtà dei bisogni della popolazione e alle stesse rese del suo patrimonio rispetto a quanto lo fossero gli antichi amministratori patriarcali. Sembra un paradosso, ma pur nella povertà della do-cumentazione, il raffronto fra le strategie di popolamento e la gestione del territorio di cui abbiamo labile memoria fi no al XIV secolo e l’ampia documentazione sulla gestione dei gastaldi patriarcali dal XVI secolo in poi evidenzia una proliferazione di obblighi, tassazio-ni ed arbitrarie angherie che hanno come unico risultato quello di impoverire la situazione dei contadini e tutto sommato di non arricchire molto quella dei loro padroni. Il fardello della burocrazia, base dello Stato moderno, affatica le classi più povere e stronca sul na-scere quella sorta di sviluppo economico ed agricolo che si vede in controluce attrraverso alcuni documenti del Trecento. Certo non era una situazione generale: la crisi ad esempio dell’abbazia di Sesto e delle grandi strutture signorili è ben documentata a livello regionale ad esempio dai rapporti degli ambasciatori veneziani, ma ci sono zone in cui le cose vanno ancora bene, e questi sono i momenti in cui fruttano i commerci e si formano le basi per le future strutture patrimoniali che sotto Venezia risentiranno dei nuovi gravami fi scali. È stato scritto che lo splendore di Venezia è il prodotto delle depredazioni di Bisanzio e della fame patita nei territori delle sue periferie. Se dovessimo giudicare questa frase dal punto di vista di Settimo, sarebbe diffi cile dimostrare il contrario.

21 Aspetti che per il Friuli si vedono in F. BIANCO, Contadini e popolo tra conservazione e rivolta ai confi ni orientali della Repubblica di Venezia tra ’400 e ’800. Saggi di storia sociale, 2002, e nella ricca bibliografi ca sull’argomento dello stesso autore.

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1458: l’atto di fondazione della chiesa

Nell’estate del 1458, nel palazzo vescovile di Cordovado, allora residenza estiva del vescovo di Concordia, davanti al prelato reverendo Antonio Feletto, si presenta Danielquondam Toffoli abitante di Settimo, che a nome suo e della comunità, “avendo molto a cuore la salute dell’anima”, inoltrò la richiesta di poter edifi care una chiesa, come testi-monia un documento del notaio Guilielmus Laurenti datato 6 luglio. Da questa scritturasi capisce che l’incontro fra il Toffoli ed il Vescovo non è casuale ma è solo punto d’arrivo di una lunga serie di rapporti e contatti precedenti.

Settimo, in quegli anni, viveva una situazione politica e religiosa particolarmente complessa, dovendo far riferimento a più autorità, spesso in confl itto fra loro, per non essere ancora ben defi niti i limiti delle loro competenze.

Pur essendo passati oramai quasi quarant’anni (1420) dalla conquista della Patria del Friuli da parte di Venezia, Settimo come le altre comunità della Giurisdizione di S. Vito, aveva trovato solo da qualche anno una collocazione amministrativa più defi nita. Mentre Ludovico di Teck, il Patriarca del Friuli che aveva dovuto subire l’invasione veneziana, si era rifi utato di venire a patti con la Serenissima Signoria e aveva cercato con ogni mezzo di ritornare in possesso della sua autorità temporale, dopo la sua morte (1439) fra la santa sede e Venezia fu aperta una concreta trattativa. Con l’ausilio di un papa veneziano1 e grazie ai negoziati di Lodovico Trevisan, arcivescovo di Firenze, anche lui veneziano, si arrivò nel 1445 ad un accordo.

Venezia, in cambio del riconoscimento della sua autorità politica, concedeva al pa-triarca la piena giurisdizione ecclesiastica, permettendo il libero godimento dei beni pos-seduti e impegnandosi altresì di pagare annualmente 5000 scudi d’oro dai redditi ottenuti nella Patria del Friuli. Di quest’ultimi, circa 2000 scudi erano calcolati quale rendita diretta di tre Terre della Patria, che con questo accordo venivano assegnate al governo temporale del patriarca: la città d’Aquileia e i Capitanati di San Vito e S. Daniele. L’inte-sa, proprio a causa di discordanti opinioni sul modo di computare le entrate in questi tre territori, entrò in vigore solamente nel 1451.

D’altro canto, l’accordo fra Venezia e il Patriarca del Friuli non risolse del tutto le contese, ma diede vita negli anni successivi da incessanti dispute e controversie, fornendo

LA CAPPELLANIA DI SETTIMO Fondazione, giuspatronato e funzioni religiose

Marcello De Vecchi

1 Papa Eugenio IV al secolo Gabriele Condulmer (Venezia nel 1383 - Roma nel 1447).

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La cappellania di Settimo

linfa vitale ai solicitator di cause, agli avocati, ai periti pertigatori, ai procurtori, ai no-dari e a tutta quella genia industriosa che si affaccendava intorno ai tribunali.

Giovanni Battista Bianchini

Settimo ora, aveva bisogno di una persona che mettesse a disposizione del progetto la sua autorevolezza, facilitando i contati con i canonici del capitolo di Concordia, agevo-lando la risoluzione delle questioni che potevano sorgere con il parroco di Cinto, e anche abbastanza facoltosa da poter appianare possibili interferenze che avrebbero potuto sor-gere con il ripristinato governo temporale del Patriarca.

Questo compito fu svolto da Johanne Baptista quondam Biachiani, possidente di San Vito, che offrì alla comunità la possibilità di disporre di un sedime, cioè di quel pezzo di terra in prossimità dell’abitato, dove sarebbe stata eretta la chiesa richiesta. Il suo ruolo attivo di promotore oltre che di donatore, emerge anche dalla decisione della comunità di dedicare la chiesa a honore di S. Johannis Baptiste.

Daniel Toffoli e la costruzione della chiesa

A margine delle immagini di santi che sono rappresentati nei bei affreschi rinascimen-tali che contornano l’abside della chiesa di Settimo, è inserito in un piccolo tondo, il profi lo di un volto chiamato comunemente “Ritratto di dignitario”. Si tratta forse di una persona vissuta a Settimo che ebbe a che fare con l’edifi cazione e la decorazione della chiesa.

Pur non avendo certezze, possiamo ritenere che il ritratto rappresenti Daniel Toffoli abitante di Settimo, che più di altri contribuì alla costruzione della chiesa, mettendo a di-sposizione un campo attiguo a quello del Bianchini, e di un podere in modo da contribuire con stara cinque di frumento et orne cinque di vino al sostentamento del sacerdote offi -ciante. Inoltre nello stesso documento il Toffoli prometteva di devolvere alla chiesa altre sostanze dopo la sua morte, a condizione che la comunità di Settimo si fosse sollecita-mente impegnata alla costruzione della chiesa ed al mantenimento del prete. Ottenne per se e i suoi eredi la facoltà (Jus Patronato) di scegliere il nome del sacerdote offi ciante.

La comunità di Settimo, presente all’incontro di Cordovado con tre membri, (il po-destà di allora Francesco de Lamigo e due giurati de comun: Bartholussinus de Lami-go et Gasparinus Benvenisti) si fece garante della supplica del Toffoli e si impegnò ad adempiere alle condizioni proposte. Ottenuto l’assenso del pievano di Cinto Giovanni di Marostica, il vescovo accordò il suo benestare con l’obbligo che questa nuova chiesa non andasse in alcun modo a pregiudicare i diritti e le entrate della pieve e plebani de Cintho.Fu istituita una Capellania perpetua provvista di dote per il mantenimento in loco del sacerdote.

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La cappellania di Settimo

Nel 1460, su iniziativa del Co-mune di Settimo, incominciarono i lavori di costruzione della chiesa e Daniel Toffoli, visti i buoni propo-siti del comune e considerato che Pasca, sua prima moglie non have-va fi glioli maschi, lasciò per testa-mento lo Juspatronato al Comun, et huomini di Settimo, i quali have-vano principiata la Chiesa. Nello stesso atto donava il resto di tutta la sua robba alla fabbrica di detta Chiesa2.

La costruzione della chiesa non fu nè facile nè breve, furono necessari dieci anni perché potesse adempiere alla sua funzione. Non si trattava di un fabbricato molto im-ponente, la struttura a quel tempo non doveva essere molto più grande dell’attuale abside, ma dovendo do-tare la costruzione di altari e di in-coraggiare la devozione dei creden-ti con qualche affresco sulle pareti, la costruzione comportò molto più tempo del previsto.

Padre Bortolomio della Guardia

Ultimata la chiesa, un nuovo documento venne redatto nel bel mezzo dell’estate 1468, precisamente il 4 agosto, nel quale viene fatto un aggiustamento fra il Comune e il Toffolo riguardo le entrate annuali assegnate al cappellano: la consistenza fu computata in frumento stara 13, vino orne 15, meglio stara 2, sorgo stara 2. Ammontavano dunque a 32 misure, di cui 22 a carico del Toffolo e 10 a carico del Comune.

2 ACAU b. 1089. Da questa riga alla fi ne del testo le parti in corsivo senza nota fanno riferimento a documenti contenuti in questa busta.

“Ritratto di dignitario”.Affresco della chiesa San Giovanni Battista.

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La cappellania di Settimo

In quello stesso giorno le due parti, congiuntamente, all’interno della nuova chiesaS. Giovanni Battista, presentarono a Settimo come primo Cappellano, padre Bortolomiodella Guardia di Napoli. L’investitura fu approvata dal vescovo Antonio Feletto il 6 agosto 1468 nel palazzo vescovile di Portogruaro, con il consenso di Giovanni di Marostica, pie-vano di Cinto. Padre Bortolomio della Guardia non ebbe molta fortuna, il suo apostolato a Settimo si concluse nel breve spazio di un anno: nell’autunno del 1469 dovette subirel’imponderabile e fatale destino di ogni vita.

Pre Giacomo de Stefano e Pre Gio Batta da Cinto

Il 4 novembre 1469, essendo mancato di vita detto primo Capellano fu eletto da Da-niel Toffolo quale nuovo offi ciante della chiesa di Settimo Pre Giacomo de Steffano di S. Giovanni di Casarsa. Il secondo cappellano svolse a Settimo il suo incarico per sette anni, e poi, anche lui, dovette fare i conti con l’imponderabile. Alla sua morte Daniel Toffolo si assunse l’incarico di presentare un terzo sacerdote, Pre Gio Batta di Cinto, che con l’as-senso del vescovo fu investito della cappellania il 6 ottobre 1476.

Pre Gio Batta fu l’ultimo cappellano eletto da Daniel Toffolo, magnanimo fondatore della chiesa di Settimo, che venne a morte nel corso del 1481. Durante la sua vita mainaquero contese riguardo le sue prerogative di Jus Patronato e tutti i sacerdoti da lui eletti trovarono consenso e appoggio da parte della popolazione e della Vicinia.

Le ultime volontà di Daniel Toffolo

Il Toffolo, negli anni antecedenti alla sua dipartita, essendo già defonta Pasca sua prima moglie, aveva sposato in seconde nozze una vedova di nome Tosca, che aveva avu-to un fi glio di nome Jampiero dal suo primo marito, un certo Zovato. Questo Jampierohaveva due fi glioli, alli quali s’era posto industriosamente il nome all’uno Daniel, et all’altro Toffolo con l’intento di accattivarsi la benevolenza del Padrigno. Sembra che in questo progetto di accaparrarsi le sostanze del Toffolo fu abilmente aiutato dalla madre Tosca, la quale intorbidò le cose, et rivolse con l’aiuto di frati compiacenti la mente di detto Toffoli.

Il 30 giugno del 1481, prima di morire, Daniel Toffolo faceva redigere un nuovo testa-mento, dove, oltre a chiedere di venire sepolto nella chiesa di Settimo e confermare il bene-fi cio per il cappellano, designava Toffolo e Daniel3, nipoti e fi glioli del suo fi gliastro, eredi di tutti i suoi beni. Scompaiono dal testamento ogni riferimento al Juspatronato e a ciò che avrebbe dovuto lasciar per fabricar la Chiesa, disattendendo le aspettative del comune.

3 Secondo un documento del Comune di Settimo. Altra fonte notarile riporta invece il nome Giovanni Battista.

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La cappellania di Settimo

Pre Paulo de Filiberti

Non ci sono notizie certe sui sacerdoti che si succedettero nei decenni successivi. Così, non è dato sapere per quanto tempo Pre Gio Batta da Cinto abbia adempiuto al suo apostolato e se dopo di lui la cappellania sia stata retta da qualche altro sacerdote. Si sa solo che durante i primi decenni del Cinquecento, a svolgere le funzioni di cappellano troviamo Pre Paulo de Filiberti, che oltre che adoperarsi nelle funzioni di religioso era attivo anche come nodaro.

Il Filiberti era un prete sposato, come succedeva allora a diversi religiosi, nonostan-te fi n dall’epoca della riforma gregoriana le norme ecclesiastiche vietavano ai religiosi questa condizione. Il matrimonio e il concubinato del clero erano abbastanza radicati nel costume del clero di dell’epoca, e in parte tollerato dalle gerarchie, che si limitavano a lievi sanzioni di carattere morale.

Pre Filiberti fu intestatario della cappellania fi no al 6 settembre del 1539, giorno in cui la rinuncia viene accettata e laudata da Giovanni Battista Zovato4. Fu cappellano a Settimo negli anni in cui la Riforma, dopo essersi propagata in Germania, cominciava trovare consensi in altre parti d’Europa, grazie al diffondersi della stampa, ai predicatori itineranti e ai viaggi dei mercanti. I principi della Riforma, nelle sue varie espressioni, tro-vano consensi anche in una parte del clero italiano che comincia a divulgarli direttamente, usando a questo scopo i pulpiti delle chiese. L’esistenza di una consistente comunità ana-battista5 a Cinto, fa ritenere che Pre Paulo fosse uno di questi sacerdoti.

Qualcuno doveva aver preparato il terreno ai predicatori anabattisti Francesco della Sega di Rovigo e Giulio Gherlandi di Treviso. Ciò poteva essere successo grazie all’ap-porto critico di qualche autorità del posto. E quale autorità ha in campo religioso maggior seguito di quella di un prete? Pre Paulo6, può essere stata la persona che ha preparato il campo all’eresia. C’è un ulteriore indizio che ce lo fa credere:

il 3 marzo 1562 nell’uffi cio dell’Inquisizione di Venezia si presenta un huomo vestito alla forestiera di alta statura, et magro nel volto et con poca barba di età d’anni 40; abi-tante allora a Venezia nelle case del magnifi co messer Zuan Moresinj in corte de ca’ Gra-denigo e che di mestiere fa solicitador de cause in palazzo, il quale dichiara di aver nomeCamillo de Filimbertj nato appresso Portogruer a Cinto, et mio padre hebbe nome Paulo.Si tratta del fi glio di Pre Paulo, presente nell’uffi cio dell’inquisizione per essere sentito in qualità di testimone essendo stato trovato il suo nome fra le carte di Giulio Gherlandi, arrestato perché ministro anabattista. Camillo dichiara di non conoscere il Gherlandi e

4 Cfr. nota precedente.5 AA. VV., “La fraterna del miglior vivere”. Comune di Cinto Caomaggiore 2005.6 Abitava a Cinto e aveva svolto funzioni religiose anche nella chiesa di Pramaggiore. Nella chiesa di Cinto, dopo la rinuncia alla cappellania di Settimo, ebbe l’incarico di sostituto pievano.

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La cappellania di Settimo

nega ogni coinvolgimento nell’attività della setta eretica, dichiarando che in casa alloza forestieri di tutti i tipi per il solo scopo di guadagno.

L’interrogatorio non avrà nessun seguito. Ci sono però due circostanze che possono far dubitare della dichiarazione di estraneità di Camillo: la prima in riferimento al paese di origine, Cinto, villaggio dove l’eresia anabattista era piuttosto radicata fra la popo-lazione; la seconda è che anche Giulio Gherlandi era fi glio di prete. Perciò è possibile che Camillo, rimasto sempre in buoni rapporti con il padre Paulo, facesse parte di quella nutrita schiera di eretici chiamati nicodemisti perché professavano le loro idee religiose di nascosto.

Canto liturgico del ’500. Manoscritto di Pre Paulo de Filiberti.

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I

Gli affreschi della chiesa San Giovanni Battista

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II

Gli affreschi della chiesa San Giovanni Battista

L’antica chiesa di Settimo, eretta nel corso del XV secolo, era di dimensio-ni più contenute rispetto all’attuale. L’ampliamento avvenuto all’inizio del secolo scorso non ha però intaccato l’antico presbiterio e la zona absidale, anzi sembra che proprio grazie a questi lavori d’ampliamento si è potuto scoprire i dipinti che oggi adornano la chiesa. Nel corso degli anni settanta e ottanta del secolo scorso, sotto la direzione della Sovrintendenza alle Belle Arti e con l’intervento di tecnici esperti, sono stati completati i restau-ri. Possiamo così apprezzare compiutamente alcune opere significative di maestri dell’arte friulana e veneta. A Gianfrancesco del Zotto da Tolmezzo (1450-1510) e ai suoi discepoli sono stati attribuiti gli affreschi più antichi dell’arco absidale e delle pareti del presbiterio, che raffigurano S. Antonio Abate con un santo vescovo, il Martirio di San Sebastiano, l’Adorazione dei Magi, l’Annunciazione, il Sa-crificio di Caino e Abele e frammenti di S. Martino.La Madonna del latte con i due donatori inginocchiati è invece attribuita a Giovanni Maria Zaffoni detto il Calderari (1500-1563), artista pordenonese allievo di Giovanni Antonio de’ Sacchis detto il Pordenone.Nell’abside sono invece presenti alcuni affreschi di Cristoforo Diana (1553-1636), artista di S. Vito al Tagliamento, allievo di Pomponio Amalteo. Sul soffito voltato a crocera sono affrescati gli Evangelisti e Padri della Chiesa,sulla parete di sinistra erano illustrati alcuni episodi della vita di S. Giovanni Battista, sono rimaste visibili solo due brani: la nascita e la predicazione del santo. Sulla parete destra è visibile l’affresco Il Profeta, la scena di Abacuc e Daniele nella fossa dei leoni. Da segnalare che dopo la realizzazione degli affreschi ci furono delle controversie fra il pittore Diana e il cammerarodella chiesa di Settimo sull’entità del compenso, con strascichi giudiziari davanti al Capitano di San Vito (13 novembre 1587, atti notaio Annoniani Giacomo di San Vito).Particolare menzione merita infine la pala posta al centro dell’abside e raffi-gurante Vergine con bambino e santi Battista e Marco, opera di AlessandroVarotari detto il Padovanino (1588-1648).

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III

Santo vescovo e S. Antonio Abate Gianfrancesco da Tolmezzo e discepoli

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IV

San Martino Gianfrancesco da Tolmezzo e discepoli

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V

Martirio di San Sebastiano Gianfrancesco da Tolmezzo e discepoli

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VI

Annunciazione (particolare) Gianfrancesco da Tolmezzo e discepoli

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VII

Annunciazione (particolare) Gianfrancesco da Tolmezzo e discepoli

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VIII

Sacrificio di Caino e Abele

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IX

Gianfrancesco da Tolmezzo e discepoli

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X

Adorazione dei Magi Gianfrancesco da Tolmezzo e discepoli

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XI

Madonna del latte Giovanni Maria Zaffoni detto il Calderari

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XII

Il Profeta Abacuc e Daniele nella fossa dei leoni Cristoforo Diana

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XIII

Santi Evangelisti e Padri della Chiesa Cristoforo Diana

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XIV

Nascita di San Giovanni Battista Cristoforo Diana

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XV

Predicazione di San Giovanni Battista Cristoforo Diana

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XVI

Vergine con bambino e santi Battista e Marco A. Varotari (Il Padovanino)

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La cappellania di Settimo

Don Pietro Albinoni di Trecio e Pre Girolamo Ronconi

Successe nell’anno 1539, in vacanza del Benefi cio, il Commun in ordine all’Instru-mento di fondatione 1468 presentò per Capellano il Reverendo Gerolamo Ronconi, che fu investito dall’eminentissimo cardinale Grimani patriarcha, ma insorgendo i descendenti di questa Tosca, di quel Jampiero fi gliastro, pretendendo il detto Juspatronato si fecero chia-mar Toffoli, se ben son li Zovati, et presentando un tal Pre Piero Trezzo, questo fu instituido dal Nonzio Aphostolico Voralli, che diede occasione ad una lite ardua, et longa anco fra detti due prelati.

Nell’anno 1539, fra il Comune di Settimo e la famiglia Zovato detta Toffolo nascono i primi contrasti. Giovanni Battista Zovato quondam Pietro de Daniel Toffolo dopo aver lau-data e confi rmata in data 6 settembre la renuncia di Pre Paulo de Filiberti, decise di investire quale nuovo cappellano Pre Pietro Albinioni di Trecio habitante in Venetia con il consenso del nonzio aphostolico Voralli. La Vicinia di Settima, facendosi forza di una interpretazione favorevole dell’atto di fondazione della chiesa, il 17 ottobre presentaron anch’essi un prete, Girolamo Ronconi, con l’appoggio e l’investitura di Monsignor Grimani, patriarca d’Aqui-leia. Così per la stessa cappellania ci si trova ad avere due sacerdoti. La contesa verteva da un lato sull’applicazione del Juspatronato cioè su chi aveva la facoltà di scegliere il cappellano, dall’altro, sull’ente religioso che aveva l’autorità di convalidare questa scelta.

Chiesa di Settimo negli anni ’30.

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La cappellania di Settimo

Quando Pre Pietro Albinioni si presentò nella chiesa di Settimo per prendere possesso della cappellania, dovette fronteggiare una vera e propria sollevazione popolare. Seppure non ci sono pervenuti particolari della sommossa, dato il periodo storico e la particolare condizione economica del villaggio, si può immaginare che i partecipanti al tumulto non fossero scesi in piazza tenendo in mano mazzi di fi ori. Pre Pietro fu scacciato da Settimo in malo modo dalli communi suditi del cardinale, appoggiati dal Patriarca del Friuli.

La questione si presentava molto ingarbugliata, sia per l’autorevolezza degli enti re-ligiosi implicati (l’Albiniani che fu investito dal Nontio, era protetto dal medesimo, e il Ronconi che fu investito da Monsignor Patriarca era protetto dal medesimo) che per l’in-gerenza concreta della comunità che si opponeva apertamente ad una nomina e contrapo-neva a questa un suo candidato. Al di la di ogni cavillo giuridico la volontà degli abitanti doveva essere tenuta in debito conto pena il rischio di mettere in discussione i presupposti economici che avrebbero garantito il sostentamento del cappellano.

Fu dunque deciso di portare la vertenza nel tribunale di più alto grado nelle materie religiose: la Sacra Rota di Roma.

La contesa dimorò in Roma circa sei anni ove naquero ben tre sentenze favorevoli alle ragioni presentate dai legali della famiglia Zovato, in vigor delle quali il Pre Pietro Albiniani fu restituito nel suo possesso della cappellania e fu condannato Pre Girolamo Ronconi alla restituzione del spoglio con li frutti7. Ma la questione non si concluse con la sentenza della Sacra Rota di Roma, mentre si contendeva a Venetia in Nonciatura, sopra li frutti, il Ronconi e il Commun di Settimo non si diedero per vinti, e, dopo l’improvvisa morte di Gio Batta e Hieronimo Zovati, presentarono istanza all’Avogadria di Venezia con nova cavillatione. L’esito fu favorevole e, in data 3 marzo 1548, Pre Pietro Albiniani Treciofu invitato a rinunciare all’investitura della Capella di S. Gio Batta della Villa di Settimo.La sentenza Avogaresca, confi rmata in seconda istanza dall’Avogador Barbo (3 Maggio 1551), fu defi nitivamente tagliata dal Consiglio dei Quaranta il 5 novembre 1551.

Dopo circa dodici anni d’istanze giudiziarie, di memoriali e cavilli legali, il reverendo Pre Piero Albinioni deTrecio fu defi nitivamente riposto in possesso della sua Capellania di Settimo e da allora offi ciò nella chiesa S. Giovanni Battista tutto il tempo di sua vita come dalle carte appar, fi n che poi morì nell’anno 1599 (il costo degli atti giudiziari a carico del Ronconi e del Commun di Settimo fu stimato in 114 ducati)8.

7 ...così parla la prima sentenza dell’Auditor Paolo Tolomeo .... S’apellò Ronconi, ma fu però laudata detta sententiadal secondo Auditore che fu Jacomo Pozzi, come si legge dalla lettera della Curia Romana ... 1546, 26 febbraio ... Appellò Ronconi e poi conscio del torto si rimosse dall’appellatione, con patto gli fossero rimessi li frutti e spese in fi ne lite...8 ...come ciò risulta dalle lettere compressorie Pappali dirette alla Serenità del Principe Veneto dell’anno 1546 li 26 febraro...

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La cappellania di Settimo

Pre Gio Batta Venetiani e il reverendo Bernardino Mandola

Il confl itto rimase assopito per quasi mezzo secolo, riprendendo vigore solo nel 1599, quando, dopo la morte di Don Piero Albinioni, si dovette proporre un nuovo titolare della cappelania In questo caso il primo a muoversi fu il Commune di Settimo che, persistendo nella sua ostinazione, il 28 settembre 1599, presentò Pre Gio Batta Venetiani di Settimo9

alla sede episcopale di Concordia, al che gli heredi Toffoli detti Zovati con qualche giorno di ritardo ma non impreparati, presentarono a loro volta il Reverendo Bernardino Mando-la di S. Vito (3 ottobre 1599).

Così si principiò nova lite e, per evitare le costose lungaggini della contesa precedente, il Monsignor Vicario Generale convinse le due parti ad un compromesso. In cambio della rinuncia da parte del Commun alla nomina di Gio Batta Venetiani, sarebbe stata intrapresa una verifi ca dei titoli di Juspadronato pretesi dalla famiglia Zovato. Li Zovati avrebbero dovuto giustifi car d’esser heredi della famiglia del Toffoli davanti allo stesso Vicario.

Il 5 novembre 1599 la famiglia Zovato presentò nella curia vescovile di Concordia vari instrumenti et capitolia e due testimonianze dal cui esame si provò che Toffoli e Zo-vati è una casa istessa. Il Vicario, esaminate le carte le ritenne valide: confi rmò et laudò la presentazione del cappellano fatta dalla famiglia Zovato et detto reverendo Pre Bernar-dino Mandola offi ciò detta capella sino al 23 aprile dell’anno 1640.

Pre Horatio Bella e Pre Pietro Meneguzzi

La contesa si ripresentò nel 1640, quando Don Bernardino Mandola rinunciò al be-nefi cio. Il Commun di Settimo prese nuovamente l’iniziativa e presentò Pre Horatio Belladi Meduna, anticipando la nomina di Pre Pietro Meneguzzi candidato dei Zovato.

Mentre la causa s’incamminava negli uffi ci competenti, Pre Horatio Bella si traferì a Settimo e, alloggiato dal podestà Menego Tidolo, offi ciò nella chiesa San Giovanni Bat-tista per un anno e mezzo, ottenendo successivamente dal Commun di Settimo 27 ducati quale compenso.

Il 10 gennaio 1642 una sentenza del reverendo vicario di Concordia revocò l’elettione et presentazione fatta dal Commune e fu laudata la presentazione de Toffoli detti Zovatti,così Pre Pietro Meneguzzi poté a sua volta insediarsi nella cappellania di Settimo.

9 Pre Giovanni Battista Venezian di Settimo, dopo aver dovuto rinunciare forzatamente alla cappellania di Set-timo, fu nei primi anni del Seicento rettore della chiesa di Taiedo e successivamente (22 aprile 1617) nominato pievano della Chiesa S. Andrea di Cordovado, dove vi offi cio per 25 anni fi no al giorno della sua morte.. Morì l’11 maggio del 1642, e fu sepolto in un sepolcro scavato nella chiesa parrocchiale l’anno precedente e destinato ai sacerdoti di Cordovado. La lapide ancora oggi visibile riporta il suo nome: IOANNE BAPTISTA . / DE . VE-NETIANIS . / VICARIO . CURATO.

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La cappellania di Settimo

Il Commun non si diede per vinto e, per iniziativa del nuovo podestà Domenico Fran-zon detto Zotto, convocò il giorno 15 gennaio una Vicinia strardinaria10 per far causa presso la magistratura veneziana contra Giacomo Zovatto et consorti rispetto al Ius pa-tronatus. La nuova istanza, non portò a nessun cambiamento, eccetto l’ulteriore allegge-rimento delle tasche degli homeni de commun di Settimo.

Pre Girolamo Zovato di Settimo

Nel 1655, per la prima volta un prete nato e cresciuto a Settimo, Pre Girolamo Zovato,fu eletto a reggere la cappellania. Curiosamente il primo prete di Settimo eletto a Settimo era fi glio del titolare del Juspatronato ossia di Giacomo Zovato, che lo aveva nominato e così la scelta del cappellano si trasformò in questo caso in un affare di famiglia. Alla mor-te del padre si verifi cò che lo stesso sacerdote era depositario del diritto di elezione alla cappellania, avverandosi la situazione un po’ paradossale di essere tutore di una preroga-tiva che non aveva nessun interesse di mettere in pratica. Dal suo testamento risulta che non ne fece mai una questione personale, ma solo di casata, e solo che mancasse la des-sendenza della linea Zovata mascolina avrebbe lasciato tale facoltà alli podestà comun et

huomini dilla villa di Settimo dimodo che possino loro eleggersi in capellano chi a loro parerà e piacerà.

Non ci sono notizie di conte-se fra la famiglia Zovato e la co-munità di Settimo sull’elezione e sull’uffi cio di Pre Girolamo.Aveva 27 anni quando diventò cappellano e vi rimase fi no alla morte 32 anni più tardi. Dai regi-stri della parrocchia di Cinto:

10 “...Costituiti personalmente serDomenego Franzon detto Zotto Podestà della villa di Settimo, ser Christin Bur-lutto, ser Zan Batta Sottino, ser Zan Maria Franzon, ser Domenego Tidulo, ser Andrea Dreotto, Domenego Sottil, Batista Baldassino, Zuane Bortolusso, Antonio Sottano, Settemin Pavan, Batista Temporino, et Antonio Fiorino, tutti vicini et huomini del Comun della villa di Settimo, et la maggior parte d detti vicini appresentando anco tutti li altri … absenti … hanno fatto … procuratore generale illust.mo sigr Paolo Colpi solicitador di Palazzo nel-l’inclita Città di Venetia …in tutte, et cadaune loro cause … specialmente … contra Giacomo Zovatto et consorti della medesima Villa di Settimo per causa, et occasione del ius patronabus di rapresentar il Capellano della Venda

Chiesa di S. Gio Batta di essa Villa.” AS Pn , Ar. Not. b. n° 1072, reg 7469, not Zanino, S. Vito.

Ex casa Zovatto situata oggi in via Udine.

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La cappellania di Settimo

Adì 10 Marzo 1687. Il reverendo Pre Gerolamo Zovato Cappellano in Settimo in età d’ani 59 passò hieri all’altra vita doppo undeci giorni di febre maligna munito prima delli santissimi sacramenti, confessione, communione et oglio santo; il suo cadavere fu sepellito nella chiesa di Settimo entro l’arca de sacer-doti, hoggi11.

La contesa fra Gio Batta Zibioli e Pre Antonio Schinella

Dopo la morte di Pre Girolamo Zovato si riprese a litigare per eleggere il prossimo sacerdote. Il 20 marzo gli eredi Zovati presentarono Pre Zuane del Ben12 di Chios che non raccolse il consenso del Commun e dalla popolazione. Successero disordini per impe-dire a Pre Zuan d’insediarsi. Lo Zuan alcu-ni giorni rinunciò alla nomina a causa delle gran turbolenze successe a Settimo13. In quei giorni la popolazione non solo si oppose solo a Pre del Ben, ma anche al Reverendo econo-mo mandato dal Vescovo di Concordia come sostituto per le funzioni religiose14.

La famiglia Zovato dopo la rinuncia di del Ben designa il chierico Giovanni Battista Zibioli di professione notaio15, mentre il co-mune propone Antonio Schinella da S. Vito. Inizialmente le parti si accordano di portare la questione davanti al Vescovo di Concor-dia, quale materia ecclesiastica.

11 Arch. Parrocchiale Cinto, Reg. canonico dei Morti, 1674/1703. M. De Vecchi, Cronache di vita agreste, Ed.Comune di Cinto Caomaggiore 2003.12 AS Tv, Arc. Not. I s., b. 2016, minutario 1687/89.13 “A messer Domenego Marzenotto, Settimo. Messer Domenego carissimo per le gran turbolenze di Setimo ri-solvo non voler più venire (...) et ringrazio tutti gli amici imparticolar li Zovatti, et ancor lei perché vedo le cose confuse...” AS Tv, Arc. Not. I s., b. 2016, minutario 1687/89.14 Ci fu un proclama del capitano di San Vito: “...si comette al Commun, et huomini della detta Villa di Settimo, che in penna di ducati 100, bando, prigione, gallera, che a vista del presente debbano permetter il detto Reve-rendo Economo possi che vogli ad ogni suo piacere cellebrar la Santa Messa nella Chiesa, per il cui effetto sotto detta penna li doverà dal Podestà Commun et Huomini sudetti darli immediate le chiavi e della Sacrestia e della Casa Presbiterale ad ogni sua richiesta, acciò possi valersi per suoi bisogni et esercitar l’offi tio suo ...” As Tv, Ar not. I. s, b. 200915 Era nato a Sesto ma sua madre era di Settimo, Cecilia Venezian, e aveva abitato per un certo periodo a Settimo svolgendo la professione di avvocato e di notaio. Frequentava sovente la casa Pre Girolamo Zovato e fu lo stesso Zibioli redigere il testamento del prete.

Sigillo notarile di Gio Batta Zibioli.

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La cappellania di Settimo

Il notaro Zibioli riesce in questa sede a spuntarla ed ottenne l’approvazione del vica-rio episcopale in data 20 giugno. L’elezione fu comunicata immediatamente al podestà e a tutti i capi di famiglia.

Tutto ciò fu inutile, e, come ricorda il pievano di Cinto16, in una lettera del 21 luglio17,nessuno a Settimo intendeva accettare il nodaro come cappellano: assolutamente gli huo-mini di Settimo ne’ vecchi, ne’ giovini, nè piccioli nè grandi non lo vogliono, perché per la sua professione, era impicciato nelle liti e senthenze e per essere stato in combutta con la famiglia Zovato.

La comunità di Settimo non si arrese e ritenendo la questione di materia laicaledecise di rivolgere una supplica al Pien Colleggio di Venezia18. La supplica ottenne la ci-tazione in giudizio degli eredi Zovati ma creò qualche imbarazzo presso la giurisdizione patriarcale. Le regole pattuite fra il Patriarca del Friuli e lo stato veneziano stabilivano che le comunità sottoposte alla giurisdizione patriarcale avrebbero dovuto far riferimento in controversie di materia laicale solo alle magistrature patriarcali. I Zovati fecero interve-nire il Patriarca del Friuli che, in una lettera diretta al Serenissimo Principe, ritenne tale condotta in contrasto con la pratica di più secoli e dunque di infi nito pregiudicio per i ca-pitoli della transazione concordati fra la Serenissima Signoria e il Patriarcato del Friuli.

...Settimo è villa Patriarcale membro della Giurisditione di S. Vido consignata alli Patriarchi e contenuta sempre intatta, con distinta indipendenza, alla quale sono così il Commun attual come li Zovati suoi sottoposti in tutte le sentenze Laicali; qualità, che si ci fosse stata nella supplica espressa mi persuado non sa-rebbe stata ricevuta... La causa è stata ventilata di comun delle parti al foro eccle-siastico di Concordia [in quanto] la villa di Settimo è soggetta a quella Diocesi, ma riducendosi la cognitione al foro Laico il Giudice proprio è il Patriarca...19

16 Pre Pascasio Pasconi.17 Acau b. 1089, c. 45418 “Serenissimo Principe. La fondazione e dotazione fatta dal Commune di Settimo sotto San Vido della sua chie-sa sotto il titolo di S. Gio Batta hanno stabilite nello stesso Commun le raggioni di elleger il suo Parocco.Hanno preteso alcuni signori Zovati per le asserite rappresentanze di un tal Daniel qm Toffol di escluder il Com-mun da detto Jus, e con lite contestata nell’eclesiastico contro le leggi, li pubblici instituti si è preteso questo Jus patronato laicale farlo decider da Giudice non suo. La qualità della materia, le persone contendenti rappresen-tanti il predetto Commun da motivo cagionato allo stesso di capitar a’ piedi di Vostra Serenità, perché abilitato alla presentatione della presente nella Cancelleria, habbi ad esser da questo Serenissimo Consesso deciso, e sta-bilito questo Jus patronato al medesimo Commun esser dovuto, ne poter li predetti Zovati sotto veruno pretesto intorbidare il Dominio, e sua ragione. Grazie. 13 luglio1687...” AS Ve, Colleggio VI, b. 67119 Acau, Atti Civili, b. 1064, p. 45320 “Eminentissimo ....... Son stato a parlar con il messer Piovano di Cinto in conformità de comandi de Vostra Eminenza, prima de mostrarli la littera li ho discorso sopra l’interesse del Commun di Settimo, sul principio lo

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La cappellania di Settimo

Per aggiustare la cosa, il patriarca delegò il conte Carlo Altan, Capitano di San Vito, a trattare con il pievano di Cinto Pascasio Pasconi20, che difendeva le ragioni del Commundi Settimo.

La questione, dopo essersi trascinata con alterne vicende per parecchi mesi fu risolta grazie alla rinuncia di Gio Batta Zibioli21 e all’intervento diretto del Patriarca. Pre Anto-nio Schinella fu presentato a Settimo come cappellano il 31 ottobre 1687 con l’approva-zione d’entrambe le parti. Fu redatto un documento in cui si stabilì una volta per tutte che l’elezione del cappellano, d’ora in poi, sarebbe dovuta avvenire con il consenso delle due parti o, mancando questo, per sorteggio.

Le funzioni religiose a Settimo

Nell’atto di fondazione della chiesa di Settimo era stabilita l’intangibilità degli in-teressi e delle facoltà del pievano di Cinto. Il cappellano di Settimo aveva il compito di celebrar messa in tutte le feste di precetto senza ingerire in alcuna cosa pertinente al governo delle anime. Né poteva farsi sostituire senza il permesso del pievano al quale continuavano ad andare i proventi delle messe dei legati e delle confraternite.

Negli anni in cui la cappellania fu affi data a Pre Girolamo Zovato, ci furono pressanti richieste per poter offi ciare altre funzioni religiose. Pre Giorolamo giunse a celebrarle di sua iniziativa, non senza l’appoggio della popolazione, anche se privo di mandato uffi cia-le, incorrendo nella diffi da del vicario episcopale. Fu minacciato di sospensione a divinis nel caso avesse perseverato a cantar solenemente le messe, consacrare le ceneri, le palme

trovato un poco interesato per la parte di detto Commun, alla fi ne poi li ho letto la littera di V. Em. mi ha scrito, et anco lui la litta più d’una volta, è restato molto confuso, et mi ha pregato voglia scusarlo appresso L’Em.za V. che lui non li ha consegliati di andar in Eccmo Colleggio, ma che li Procuratori dil Commun sono andati a Ve-netia a consegliar con l’Avocato Albrici, et che questo li ha fatto la scrittura di comparsa nell’Ecc.mo Coleggio, et ha promesso per l’avenire di non intricarsi in alcuna cosa, et di voler viver humilissimo servitore dell’Em.za Vostra. Me discorse poi che sarebbe bene per tutto il Commun, che li Zoatti facessero un compromesso in Vostra Eminenza, acciò giudicasse questa causa, et che fosse mai più che dire tra loro, io li risposi che non so se Vostra Eminenzaza havesse voluto acettare, per che questa causa va distintamente al suo foro, che essa pol giudicare senza compromesso et far che le parti stijno al prudentissimo suo giuditio, senza mai più renovare litijci fra loro, con tanti dispendij, et rovina del Commun, a questi ultimi discorsi fu presente un Procuratore del Commun, cioè quel Gastaldo dell’ecc.ma Casa Sagredo et questo pareva molto contrario ma voleva proseguire la causa a Co-leggio, li rapresentai che mai haverbbero visto il fi ne, et sarebbe stato l’esterminio del Comune, si aquato, et non disse altro. In questo punto che scrivo a V. Em.za capita il Zibiolo per darmi una lettera del Vicario di Concordia, acciò le relassasse mandato al Comun de Settimo, lo detto che sospenda il tutto, per veder se si potesse agiustar, et che venissero avanti vostra Eminenza per terminare il tutto, senza havere altre litte. ...San Vido 27 luglio 1687, Carlo Altan. 21 Gio Batta Zibioli negli anni successivi riuscirà ad ottenere un benefi cio e diventare curato della chiesa di San Cristoforo di Portogruaro.

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e le candelle, a benedir le case, le done dopo il parto e l’acqua nel giorno dell’epifania.Inoltre gli fu proibito di usar la stola giudicionale, di cellebrar gli diversi offi ci della set-timana santa e anche di far procession.

Il 2 giugno 1665 il pievano di Cinto e la comunità di Settimo stesero un documento22

nel quale erano concordate alcune regole. Si ribadiva di rispettare gli impegni presi dal Comun di Settimo duecento anni prima

all’atto della fondazione della chiesa S. Giovanni Battista, gli abitanti e il cappellano an-dar il giorno del Santissimo Corpo in Chiesa con le croci alla Pieve di Cinto ad accom-pagnar il Santissimo in processione e, analogamente, ripetere la processione alla pieve il venerdì santo di sera. La prima domenica d’ottobre erano tenuti ad accompagnare devotamente in processione l’immagine della Beata Vergine del Rosario, allora situata presso l’altare maggiore della chiesa di Cinto. Il 25 aprile, giorno di San Marco, doveva-no, con le croci in mano, portarsi alla pieve di Cinto ed insieme ai fedeli cintesi recarsi in processione alla chiesa di Pramaggiore per visitar il Glorioso S. Marco, protettore della Serenissima Signoria, pregando quel glorioso santo d’ intercer appresso all’Altissimo per la gloria del doge e dello stato veneziano.

Il Cappellano di Settimo doveva essere presente nella chiesa di Cinto durante la festi-vità di San Biasio, il sabato santo e la seconda domenica di Giugno, a quel tempo giorno della sagra del paese.

A fronte di questi obblighi era concesso al cappellano di Settimo di cantar messa nei giorni solenni e nelle festività di San Giovanni Battista, di Sant’Antonio e di San Rocco. Era permesso anche di cantar li vesperi nei giorni festivi e di far le procession di S. Rocco e di S. Antonio da Padova, doi volte al mese, una per ogni santo di cui la chiesa disponeva un altare. Infi ne il pievano dava licenza al cappellano di Settimo di benedir le ceneri le candelle le palme e l’acqua il giorno dell’Epifania; cellebrar gli offi ci il mercordi, il gio-vedì et venerdì santi. L’accordo avrebbe dovuto essere rinnovato ogni cinque anni.

Diciassette anni più tardi, il 1 aprile del 1682, Pascasio Pasconi nuovo pievano di Cinto, alla presenza di Don Girolamo Zovato e di due rappresentanti del Commun di Settimo23, fa redigere un nuovo testo che in più punti modifi ca il documento precedente. Il pievano concede per mera cortesia che il cappellano possa il sabato far processione da una croce all’altra24 sino al Glesiuto, senza stola, permettendo di recitare l’oratione in

22 AS Tv, Ar Not I. s,. B. 2011. Il documento fu redatto dal notaio Gio Batta Zibioli, allora abitante a Settimo, alla presenza del pievano Ciro Varotari, del podestà di Settimo Zuan Bortolusso e dei seguenti huomini di Comun: Ja-como Zovato, Menego Tidulo, Gerolamo Brain, Zamaria Zovato, Girolamo Borluto, Antonio Franzon, Francesco Borluto, Iseppo Sotil, Daniel Franzon detto Zotto.23 Antonio Pedrinelli e Domenego Marzinotto24 Si intende il periodo che andava dal 3 Maggio, giorno detto della “Croce”, sino al 14 Settembre, giorno del-l’esaltazione della croce e vigilia della Madonna addolorata.

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cimitero, ad eccezione della settimana della commemoratione di tutti i morti, in quanto ché il pievano in quel periodo riservava a se stesso la funzione e i relativi emolumenti.

Inoltre poteva benedire l’acqua nelle pittelle della chiesa usando la stola, benedire e scongiurare i cattivi tempi in occasione de nembi o pericolo di tempesta, ma non doveva benedire l’acqua durante l’Epifania perché i fedeli di Settimo, per averla, erano obbligati recarsi nella chiesa parrocchiale. Il cappellano aveva la facoltà di accompagnare senzastola la gente di Settimo durante la processione delle Rogazioni, di leggere anco gl’evan-geli alle crocette, ma senza ricever l’emolumenti delli pollastrelli, riservati al pievano, a conto della benedizione, ed evangeli.

Infi ne, a proposito della benedizione degl’ovi e altre cose comestibili nel giorno di Pasqua se per qualche cattivo tempo fosse stato disagevole portarli nella chiesa di Cinto, il pievano concedeva volentieri la licenza per benedirli in quella Settimo.

Con questo nuovo accordo, la comunità di Settimo dovette accettare qualche restri-zione rispetto agli accordi stabiliti con il pievano precedente, ma ciò che era ritenuto mag-giormente discutibile era la proibizione di cantar vespari et compieta25. Durante l’estate di quell’anno si diffuse fra la gente di Settimo una generale disapprovazione a tale veto e il Commun fu costretto a convocare sull’argomento una riunione straordinaria della Vici-nia. L’8 ottobre 1682, adunati al loco solito sotto il tiglio, gli huomini dilla villa di Settimo decisero di eleggere due procuratori da mandare in delegazione al pievano di Cinto per supplicarlo volessi far la grazia di lasciarli cantar anco Vesperi et Compieta26, che otten-nero una revisione dell’accordo.

Il pievano concedeva licenza al cappellano di Settimo di far cantar per sua devozione nella chiesa di Settimo il Vespero et Compieta tutte le domeniche e nelle feste di precetto,mentre al sabato poteva intonare la Compieta e recitare le litanie della santissima Beata Vergine, però, con espressa condizione che sia sonato il terzo ed ultimo segno, sibi boto della campana dopo il segno del mezo giorno della parrocchiale e con l’obbligo che dettiVesperi et Compieta venissero effettuati almeno un hora avanti si principij il vespero, Compieta, et altri fontioni nilla Parochiale, in modo che anco a quelli di Settimo fossedata la possibilità di poter venir alle fontioni della chiesa parocchiale di Cinto.

25 L’ultima ora di preghiera dell’uffi cio divino con la quale si conclude la giornata liturgica.26 As Tv, Ar not I s., b.2015, f. 1682/83. Alla riunione erano presenti: il podestà messer Valentin Zotto, Pietro Grando et Osgualdo Gobatto, Iseppo Zotto, Valentin Zovato, Menego Marzinoto, Menego Bascherato, Cornelio Pelizzari, Francesco Francescon, Pietro Simeon, Batta Mutto, signor Antonio Pidrinelli, Armilio Borluto, Valen-tin Bidon, Sgualdo Franzon et messer Pietro Dario. Con l’approvazione di Pre Girolamo Zovato furono eletti come procuratori Antonio Pedrinelli e Pietro Dario.

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Anche, con l’insediamento del nuovo pievano di Cinto, Pre Sebastiano Pristia, nel1692, fu seguita nei confronti del cappellano di Settimo27 la solita prassi e gli fu proibito di cantar messa e compieta non solo con la stolla ma anco senza stolla, di poter vegliare sopra il cimiterio, far processioni per la villa, attorno al cimiterio, cantar litanie il sab-bato, cantar passij da una croce all’altra.

Anche in questo caso si arrivò nuovamente a ridisegnare le nuove norme alle quali avrebbe dovuto attenersi il cappellano di Settimo. Si acconsentiva che possa liberamente celebrar in cadaunn giorno la santa messa a hora competente e secondo le specifi cate ordinationi dei defunti, veniva poi concesso agli abitanti di Settimo di continuare una loro particolare consuetudine devozionale, principiata sino ai secoli passati e non mai inte-rotta, ossia di leggere prima della Santa Messa il Passio di nostro signore Iddio, a partire dalla domenica della Santa Croce di maggio sino a quella di settembre.

Il pievano permetteva anche la celebrazione di un’altra pratica religiosa tradizionale a Settimo: il sabato, dopo aver recitato la Compieta, il portarsi alli due capitelli in capo alla villa, cioè all’inizio del paese, da un lato e dall’altro della strada maestra. I fedeli, in processione, si recavano a settimane alterne ora all’uno e ora all’altro, recitando il rosa-rio e le litanie, e dicendo l’evangelio, scongiurando e benedicendo il tempo avanti detti capitelli. Queste cerimonie avevano lo scopo di propiziarsi gli eventi atmosferici e tener lontane le malattie e le pestilenze.

Si permetteva anche al cappellano in conformità ai lasciti e alle volontà espresse dai defunti, di recitare ogni domenica orationi per i morti sopra il Cimiterio che allora si trovava intorno alla chiesa di Settimo. Per le Rogationi si dava facoltà agli abitanti di Settimo e al loro cappellano di continuar nell’antica consuetudine di far la processionenella lor campagna ma solo il terzo giorno, dovendo li due primi giorni delle Rogationi gli stessi abitanti partecipare alle processioni guidate dal Piovano de Cinto, il quale nel primo giorno andava con la sua processione fi no a Sumaga28.

27 Pre Antonio Schinella eletto cappellano di Settimo nell’anno 1687, dopo la morte di Pre Girolamo Zovato.28 Si intende probabilmente il confi ne con Summaga. Gli anziani di Cinto ricordano che nei tre giorni delle Rogazioni che si tenevano a Cinto fi no ai primi anni del 1960, continuava l’antica consuetudine di dedicare la processione del primo giorno al percorso che andava a S. Biagio fi no ai confi ni con Summaga. Nel secondo giorno invece la processione arrivava fi no alla chiesetta della Concezione, dove si cellebrava la messa. Nel terzo giorno la processione si dirigeva in Persiana e la messa si cellebrava nella chiesa dell’Annunziata, che un tempo era adiacente al Palazzo della Persiana.

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Ormai da più di duecento anni Cinto e Settimo sono un’unica entità politica, ma, nonostante ciò, permangono all’interno delle due comunità alcuni aspetti che le differen-ziano, seppure oggi in modo sempre meno marcato.

A volte si ha la sensazione che la linea di confi ne fra Friuli e Veneto, tracciata per esigenze amministrative da burocrati napoleonici, sia diversa da quella attuale e passi piuttosto lungo i confi ni del palù e della boschetta che lungo il Reghena e il Melon. Que-sta diversità si nota soprattutto nel “far comunità”, in un maggior legame e compattezza sociale rispetto alla realtà più frammentata di Cinto. Settimo dimostra maggiore adesione e partecipazione alle tradizioni e a tutte le manifestazioni che ribadiscono l’identità del paese. L’orgoglio delle proprie origini crea fra la gente una rete di “complicità” che per-mette di sostenere e dare maggior impulso alle iniziative in campo sociale e religioso.

Le ragioni che hanno concorso a creare questa diversità sono molteplici ma in questo capitolo saranno prese in esame solo quelle antiche che si possono trovare indagando un periodo di tempo in cui la comunità di Settimo fu distinta da quella di Cinto perché sotto-posta a giurisdizione patriarcale.

Quando le armate veneziane nell’anno 1420, approfi ttando di alcune congiunture fa-vorevoli, decisero di invadere la Patria del Friuli, Settimo era l’ultima propaggine meri-dionale del Capitanato di San Vito, che allora comprendeva anche i villaggi di Azzano, Bannia, Taiedo, Villutta, Villafranca e Basedo.

La Serenissima, dopo trattative protrattesi per venticinque anni, concesse il Capitana-to di San Vito e quello di S. Daniele al Patriarca di Aquileia, così Settimo si trovò sotto la giurisdizione patriarcale29.

LA COMUNITÀ DI SETTIMOdurante la giurisdizione patriarcale

Marcello De Vecchi

29 Una sintesi dell’accordo la possiamo trovare nel seguente documento. “Nell’anno 1445, 16 Giugno si stipulò con esso una solenne transazione, e si capitulò nella seguente maniera. Che tutta la Giurisdizione Episcopale, ed Ecclesiastica ed ogni superiorità nel spirituale fosse delli Patriarchi. Che la Città d’ Aquileja, e li Castelli di S. Daniele, e di S. Vito con ducati 5 d’entrata, computato in essi li Feudi d’esse terre con tutte le sue pertinenze, e territorj insieme con l’onnimoda Giurisdizione, mero, e misto Impero, ed ogni dominio Temporale fossero del Patriarca, e che in essi per alcuna maniera non potesse ingerirsi la Serenissima Repubblica, ma che il total dominio, amministrazione, governo, e tutto l’Iperio restasse appresso esso Patriarca, eccettuate però le cose infrascritte. Primo li Feudi (...). Secondo, che tutti quelli che sono tenuti, o personalmente, o con cavalli servire ala custodia della Patria, siano d’ogni Luoco, ed ancorché abitassero nella detta città, e Castelli, sempre quan-do porterà il bisogno, e parerà al Serenissimo Dominio, a quello ubbidiscano, et alli suoi offi zi. Terzo, che non

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La comunità di Settimo

Questa nuova condizione avrebbe comportato differenze sia giuridiche che politiche rispetto ai villaggi limitrofi appartenenti ad altre giurisdizioni, Cinto in primis. Il territorio governato dal Patriarca aveva una sua autonomia amministrativa, i dazi e le tasse facevano parte delle rendite accordate dalla Repubblica di Venezia ai Patriarchi, mentre il resto del territorio friulano pagava le imposte al Luogotenente di Udine. Se questo stato comporta-va alcune facilitazioni e qualche benefi cio in fatto di tasse da pagare, c’era la contropartita di fornire alcune servitù in favore del Patriarca.

Le comunità che facevano capo a San Vito dovevano foraggiare la stalla patriarcale con diciotto carri di fi eno complessivi e strame e paglia secondo le necessità, c’era il do-vere di coltivare anche all’orto patriarcale di San Vito inviando manodopera o pagando una sovvenzione annuale. Gli abitanti delle ville dovevano esser disponibili anche per in-combenze straordinarie: scavare fosse intorno al palazzo patriarcale e trasportare legna-me e fassine dai boschi alle rive d’imbarco. A carico delle comunità era anche il trasporto delle robbe e dei bagagli privati del patriarca durante i suoi viaggi in queste terre.

Tale situazione comportava delle differenze anche in campo giuridico, nell’ammini-strazione della giustizia il patriarca era esente dal rendere conto al Luogotenente di Udine ma si rapportava direttamente al Doge, al Senato e al Consiglio dei Dieci. Il giudizio di prima istanza aspettava alle comunità giurisdizionali che per Settimo era il Capitanato di San Vito, mentre la seconda istanza era prerogativa del Luogotenente di Udine, tranne nelle giurisdizioni patriarcali dove questo compito spettava allo stesso prelato.

Il Capitanato di San Vito e l’amministrazione della giustizia

Le origini del Capitanato di San Vito si perdono nei meandri della storia, i documenti rimasti sono rari e perciò è diffi cile stabilire date e illustrare eventi con attendibile certez-za. Si ritiene essere stato fondato durante il periodo Patriarcale30 forse nato dalla divisione del territorio anticamente sottoposto al castello di Meduna.

A confortare questa ipotesi vi è un documento dell’anno 136431, redatto sotto la loggia di Settimo, nel luogo ove si soleva anticamente tenere il placito di giustizia, alla presenza dalle massime autorità della zona. Si tratta di una delibera sui diritti degli abitanti della giurisdizione di Meduna e di quella di San Vito di comugnare, pascolare, segare, falciare

permetta il Patriarca, ne possa in quei Luoghi esser usato sale d’altra natura, che quelle delle Camere pubbliche che saranno nella Patria deputate. Quarto che nei medesimi non possano esser ricevuti contrabandi, ribelli, nè banditi, ma in caso siano consegnati. Quinto, che in quelle Terre abbino ad esser mantenute, e diffese dalle armi pubbliche contro li suoi inimici (...).” Acau, Giurisdizione Criminale e Roveri, b. 1089.30 Qualcuno ipotizza che sia stato fondato dal patriarca Raimondo della Torre, a cui si deve l’edifi cazione delle torri Raimonda e Scaramuccia, nella seconda metà del secolo XIII.31 AA VV, Borghi Feudi Comunità, Chons 1985, pp. 67, 68.

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assieme nei e sui pascoli delle comugne e dei boschi di dette gastaldie. Gli intervenuti dichiararono che ai tempi antichi, le gastaldie della Meduna e di San Vito erano un solo dominio ed un solo garrito e che secondo gli anziani il Capitanato di San Vito proveniva dalla gastaldia della Meduna.

Il Capitano della giurisdizione di San Vito era eletto dal patriarca e lo rappresentava nel governo della giurisdizione, con i compiti di tutelare la sicurezza, i diritti patriarcali e le possessioni della Chiesa, di esigere affi tti e livelli delle terre, pubbliche gravezze.

Altra funzione del Capitano era amministrare la giustizia al civile e al criminale mi-nore, coadiuvato di tre32 astanti detti anche circostanti, perché gli sedevano a fi anco e da due giudici eletti dalla Comunità di San Vito. Le udienze e le sentenze erano registrate da un cancelliere, di norma lo stesso che annotava le deliberazioni della comunità, mentre per stridar le contumacie era addetto un bidello o fante anche questo stipendiato dalla comunità. Fuori della porta della cancelleria, durante le udienze, vigilava uno sbirro33

attento all’andirivieni delle persone e pronto a ricevere le disposizioni del Capitanio. Ecco dunque tratteggiata una delle tante cancellerie che pullulavano nella Patria del

Friuli di quell’epoca, istituite durante il Patriarcato e mantenute tali e quali dalla Repub-blica di Venezia. Considerando che le giurisdizioni erano settanta, e più il luogotenente veneziano Antonio Grimani scriveva in una lettera che ogni due miglia si muta signore34.A fronte di una popolazione di contadini poveri che per lo più attendono governar le viti et il sorgo su terreni sterili, che vivono in abitazioni fatiscenti fatte solo di sassi e paglia, più di duemila fra cancellieri e giurisdicenti rendevano ragione in nome del patriarca e del serenissimo doge, lucrando l’inverosimile.

Nonostante le povertà ma non mancavano le contese anche fra i contadini, il Grimanili rappresenta sempre dediti alle liti, a controversie, lì uni contra gli altri: non si giunge in un luoco, che non si veda li contadini al tribunale arrabiati, come le vespe. Su di loro guadagnavano i cancellieri soldi 4 per lira, il datio degli instrumenti, e s’inventavanomille altri incovenienti per angustiarli: succedeva che in causa di tre ducati ne facevanospender vinti in termini, et scritture, mercedi estorte da cancellieri et fanti.

32 Provenivano da famiglie nobili e godevano di quell’uffi cio per investitura feudale, da tre furono ridotti a due nel corso del XVIII secolo. G. Rezasco. “Dizionario del Linguaggio italiano storico ed amministrativo”. Firenze 1881.33 La Terra di San Vito disponeva allora di due sbirri, uno stipendiato dalla comunità ed uno pagato dal Patriarca, che avevano il compito di contrastare i crimini, intervenendo con prontezza nei casi gravi e tentando l’arresto dei ladri che si trovassero con il corpo del delitto, e così di quelli che con armi gravemente offendessero, e molto più che ucidessero le Persone. Fra gli alri loro compiti c’era anche quello di portare all’incanto i beni requisiti e far recapitare in cancelleria le denunzie dei casi criminosi leggeri.34 AS Ve, Senato Dispacci Rettori, Udine, b. 10.

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La comunità di Settimo

Guardando i registri del tribunal di San Vito spesso troviamo coinvolti in litigi anche gli abitanti di Settimo. A volte per questioni di confi ne, come il cappellano di Settimo in disputa con il fabbro Francesco Venetiano per avergli disfatto la palada che faceva da confi ne. Il fabbro fu condannato a dover rifare la palada et stroppar il cortivo del reve-rendo35.

Un’altra istanza chiedeva la restituzione di un attrezzo vitale come la caldiera dellapolenta, sequestrata dal cappellano a Antonio Satiro per i debiti che aveva accumulato con la chiesa di Settimo36. Il Satiro doveva essere una persona molta vivace a cui piacevano le burle e gli sberleffi ma che fatti in certi ambiti potevano esser offensivi e di cattivo gu-sto. Zuan Maria Gobbato era diventato il bersaglio preferito e per difendersi si rivolse ai giudici. La sentenza impose ad Antonio Satiro di contenersi: non doveva più offenderlo, ne farlo offender in fatti, né in parole in casa né fuori in campagna in alcun loco, ma lasciarlo liberamente far lì fatti suoi, tagliar le sue herbe, biade, et governar le sue terre senza impedirlo o molestarlo. In caso contrario poteva incorrere in una pena di 100 lire e rischiare il bando37.

Qualcuno dalle offese passava alle insolenze, minacciando anco di voler dar il fuoco alle case e allora si faceva intervenire il tribunale anche se il reo, Zuane Corazza, non era persona assennata ma voltato di cervello. I giudici imposero a due fratelli di Zuane di aver miglior custodia del reo e di impedirgli che facesse altre insolenze nel villaggio di Settimo38.

In alcuni casi le contese riguardavano danni inferti a viti o ad animali, ne è un esem-pio il contenzioso fra Iseppo Franzon detto Zotto e Pietro Grandi. Tra i due confi nanti non scorreva buon sangue, in particolare Iseppo provava molto risentimento nei confronti del giovane Francesco, famiglio e pastore del Grandi, per aver questi approfi ttato nottetempo delle delizie di un suo ceresero. Avendolo notato mentre attendeva gl’ animali in pros-simità delle sue terre, il Zotto si mise a correre dietro a Francesco per darli una lezione, ma il pastore, più giovane ed agile, riuscì a fuggire. Però gli animali, rimasti incustoditi, decisero di propria iniziativa di attraversare il fatidico confi ne e di saggiare le qualità ali-mentari delle viti. Il Zotto ritornato nella sua terra senza aver potuto togliersi il prurito alle mani, si trovò in aggiunta le viti danneggiate, così decise di far ricorso al tribunale39.

35 10 febraro 1642. ASC S.Vito, b.25. Rip MDV, Cronache di vita agreste, Cinto 2003 p. 148.36 2 maggio 1642. ASC S.Vito, b.26. Rip. MDV, Cronache di vita agreste, Cinto 2003 p. 149.37 14 luglio 1645, ASC S. Vito, b. 27 Rip. MDV, Cronache di vita agreste, Cinto 2003 p. 153.38 22 maggio 1663, ASC S.Vito, b.34. Rip. MDV, Cronache di vita agreste, Cinto 2003 p. 153.39 Dopo qualche udienza per evitare ulteriori spese i due contendenti decisero di trovare un’accordo amichevole. Luglio 1685, ASC S.Vito, b. 44. Rip. MDV, Cronache di vita agreste, Cinto 2003 p. 154.

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La comunità di Settimo

I casi citati sono solo i più curiosi, per lo più si registra una aperta confl ittualità fra possidente e massaro sia mezzadro che fi ttavolo. Così si sfrattava una famiglia o si proibi-va di lavorare certe terre, si chiedeva il sequestro di beni per il pagamento di debiti e si for-mulavano istanze intimidatorie che i gastaldi o i fattori utilizzavano per ricattare i villici.

La comunità di Settimo e gli homeni de Comun

Quale sia stata la sua iniziale confi gurazione, com’è sia nato e si sia sviluppato l’ag-glomerato di case che ha dato vita al villaggio di Settimo, non è dato sapere. Si possono fare solo congetture basandosi sui rari documenti disponibili, che testimoniano un forte legame con la Terra de San Vido e con il Pariarca del Friuli. Il popolamento della co-munità di Settimo fu favorito dalla politica del patriarca del Friuli che intendeva rendere coltivabili vaste zone incolte e boschive.

Nel corso del XIII e XIV secolo Settimo è già una realtà ben defi nita, gli abitanti si riconoscono in comunità e, pur non disponendo di una chiesa, sono dotati di una loggia dove si riunisce la Vicinia e dove tenevano placido di giustizia i funzionari della giurisdi-zione di San Vito.

La Vicinia, adunanza dei vicini di casa, era l’assemblea elettiva degli homeni de co-mun, il consiglio comunale di quel tempo. A Settimo si radunava ogni anno il 25 aprile per votare l’elezione di un podestà, di tre giurati, di un cammeraro e di sette consiglieri.

Anticamente l’elezione del podestà di Settimo avveniva per sorteggio e fu solo nel corso del Settecento, con decreto del cardinale Dolfi n, che si fece a rotolo cioè a rotazione tra le famiglie della comunità. L’elezione era suggellata con la consegna della frasca ainuovi eletti, i quali accettandola davano pubblicamente la loro approvazione. Non tutte le famiglie partecipavano alla votazione, solitamente potevano intervenire in Vicinia conun proprio rappresentante solo quelle che avevano di proprio o che lavoravano come mezzadri o fi ttavoli di una possessione con non meno di dodici campi, disponendo anche di un carro e di animali da poter impiegare per li Pioveghi (manutenzione delle strade). Dunque la Vicinia era formata da soli masieri e signori ma era esclusa ai sottani, cioè le famiglie senza terra o che lavoravano meno di dodici campi, e non disponevano di carri e di animali. Quelle famiglie che lavoravano più possessioni avevano diritto a più voti e partecipavano alla Vicinia con più rappresentanti. Nel 1741 la comunità di Settimo di-chiarava la presenza di 22 masserie più qualche casone di sotani, mentre la popolazione ammontava a 295 persone40.

40 ASC S. Vito b. 67.

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La comunità di Settimo

Il podestà di Settimo aveva diversi compiti da svolgere in collaborazione con gli ho-meni del comun eletti con lui: coordinare la raccolta delle tasse e pagare puntualmente le gravezze pubbliche, far pervenire alla cancelleria di San Vito le denoncie di latrocinij, e dei fatti di sangue, indire le riunioni straordinarie della Vicinia ogni qual volta fosse necessario e, insieme al degano della Villa far applicare i sequestri di beni sentenziati dalle magistrature. Doveva inizialmente giurare fedeltà davanti al Capitano di San Vito e alla fi ne del suo mandato documentare con ricevute il dinaro entrato, ed uscito. Come compenso godeva una codetta di ben prativo, su cui può fare un piè di fi eno, ed una por-zione di Palludo, da cui raccoglieva un carro di strame circa. In caso di qualche viaggio il comune rimborsava al podestà le spese del vitto.

Senza godere benefi cio alcuno collaboravano con il podestà tre giurati due grandi euno piccolo. I primi erano addetti a riscuotere le tanse ed affi tti del Comune; a portare gli inviti per le riunioni ordinarie e straordinarie delle Vicinie e a stimare i danni provocati ai beni comunali. Il giurato piccolo era invece il corriere del comune ed aveva anche l’ob-bligo di far da guida ai soldati che dovevano attraversare il territorio Settimo.

Il cameraro doveva amministrare le rendite della chiesa S. Giovanni Battista, spesso al centro di dispute, ed esercitava sotto la direzione di un procuratore. Infi ne, i sette con-siglieri avevano un compito più che altro di controllo e in particolare dovevano tenere in soggezione il podestà ammonendolo quando non teneva fede ai suoi impegni.

Altra fi gura importante era il degano col compito di coadiuvare il podestà nelle de-nuncie di fatti criminosi e di praticando il sequestro di beni ordinate dai tribunali. Il dega-no non era eletto ma aveva un’investitura di tipo feudale, che a Settimo veniva conferita dal Patriarca. In realtà chi avesse voluto svolgere questa funzione doveva avere delle pro-prietà, dei magazzini spaziosi dove tenere i beni sequestrati e perciò disporre di una casa dominicale. A Settimo la degania era stata conferita ai Sagredo, che la facevano esercitare dai loro gastaldi.

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Pietra di confine tra Settimo e Marignana posta nel 1606 dalla Repubblica di Venezia.Nelle pagine successive due mappe elaborate da una pianta del 1682:

tav. XVIII, l’incrocio del Cesiol e tav. XIX, la boschetta di Settimo.

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XVIII

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XIX

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Il Palù di Settimocon l’antica suddivisione in prese per lo sfalcio dello strame.

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XXI

1926: l’ufficiale sanitario del comune di Cinto chiede la bonifica del Palù

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Paesaggio estivo del Palù Foto Sergio Basso

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XXIII

Paesaggi estivi del Palù Foto Sergio Basso

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XXIV

Il Caomaggiore nei pressi della ponta del Palù Foto Sergio Basso

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XXV

I laghi di Cinto visti dal Palù Foto Sergio Basso

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XXVI

Il Caomaggiore nel 1962 Foto Luigi Bagnariol

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XXVII

Palù allagato nel 1968 Foto Luciano Arreghini

Tramonto sul Palù Foto Adriano Daneluzzi

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XXVIII

La quercia del Palù Foto Sergio Basso

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XXIX

Prati stabili e canneti del Palù Foto Sergio Basso

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XXX

Sentiero del Palù in autunno Foto Sergio Basso

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XXXI

Alberi del Palù in autunno Foto Sergio Basso

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XXXII

Flora e Fauna sul Melon Foto Sergio Basso

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La comunità di Settimo

Le Vicinie di Settimo

Oltre al tempo prefi sso del dì 25 Aprile si fa la Vicinia in ogni altro, che portas-se il bisogno, o per conciliar disparità, o per metter tanse, o per pagar macina, e dazij, o per deliberar intorno agli affari della Chiesa, o per incantar gli affi tti, ed in somma nel modo, che stilla ogni altro ben regolato Comune41.

Solo la Vicinia del 25 aprile in cui si eleggeva il nuovo podestà era prestabilita le altre riunioni erano indette a seconda delle urgenze e delle necessità. Dai documenti più antichi risulta che la comunità disponeva inizialmente di una loggia dove i capifamiglia potevano sostare in piedi e al riparo di un tetto per tutta l’adunanza, ma negli ultimi tempi della giu-risdizione patriarcale ad accogliere i rappresentanti delle famiglie sono solo le sole fronde di un tiglio, ambiente più bucolico per ripararsi dal sole o dall’intemperie.

A titolo di esempio si riportano in calce la documentazione di tre Vicinie rispettiva-mente tenute a circa un secolo di distanza una dall’altra, al fi ne di illustrare la diversità delle questioni discusse e i cambiamenti e le continuità delle famiglie partecipanti.

La prima Vicinia è datata 17 agosto 1517 ed indetta su questioni religiose in Septimosub platea comunis ossia nella loggia comunale su questioni ordinarie. Vi partecipano i seguenti capifamiglia:

...ser Domenicus de la Macha potestatis dicti comunis, Daniel illor de Lami-go, Dominicus de la Mantrona Jurati Comunis predicti, Mateus de Lamico, Angelus de Campagna, Evangelista de Campagna, Leonardus de Campagna, Daniel Salvatoris de Campagna, Jacobus Joannes illor Coradinj, Dominicus Bartolomeus illor Coradinj, Baptista illor de la Mantrona, Silvester quondam Zanetj Vicentinj, Dominicus Zovat, Marcuncius quondam Colaj Trivisinj, Bap-tista quondam Antonij Mianj, Baptista Rubens, Mateus illor Clementis, Joan-nes Fortunasij, Jacob Asquim, ser Antonius Venetus, Jeronimus illor Joannis Bertolusij, Leonardus quondam Stefani illor de Lamigo, Angelus illor de La-migo, Sebastianus illor de Lamigo, Marchionus quondam Blasij de la Macha, Isach de la Macha, Baptista illor de la Forbula. (...)42.

Il 25 maggio 1626, oltre cento anni più tardi, ci troviamo di fronte ad un’altra vici-nia, questa volta indetta in fretta e furia per far fronte alle minacce del bandito Jacometo Regazzoni, che spalleggiato da una buona scorta di bravi chiedeva la restituzione di 150 ducati, a saldo di un prestito a livello accordato al comune dai suoi avi43.

41 Esposizione del Podestà del Comune di Settimo Florido Muto al Luogotenente della Patria del Friuli, 14 Mag-gio 1762. AS Ve, Rev. pubbliche entrate in zecca, n. 951.42 AS Tv, Ar. Not. Io s., b. 387.43 Episodio inserito nel capitolo Jacomo e Jacometo Regazzoni di questo stesso libro.

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... in villa Septimi domo messer Claudio Favorlino [...]. Dove personalmente costituidi domine Agnolo Forbolato, podestà procuratore della villa di Settimo (con messer Anastasio Favorlino procuratore di esso comune) et Zuan Maria Sutile, Francesco Franzon di Menego detto Zotto, mastro Iseppo Fabro, Iseppo Venetian quondam Gabriel, Thonut Clement, Zan Domenego dell’Amigo, Me-nego Brain, Francesco Bidon, Cristian Burlut, Zuan Maria Battistel, Menego Scuffon, Menego Coradin, Toni Satiro, Menego Mestrual, Oliviero Zovat, Da-niel Zovat, Piero Bidon, Marcuzo Pavan, Jacomo Zovat, Hieronimo Venetianquondam Menego, Francesco Trivisan et Zan Maria Franzon et altri absenti delli quali esso Podestà disse haver la comissione[...] hanno dato, venduto, alie-nato [...] al magnifi co sigr Gasparo Pedrinelli ivi presente per nome suo, et delli magnifi ci signori Anzolo, et Antonio suoi fratelli [...] una responsion livellaria di capitale de ducati 160 da lire 6 soldi 4 a ragion di ducati 7 per cento giusto le parti del Serenissimo Dominio Veneto, da esser pagato ogn’anno per detto Comune alla Madonna d’agosto, sino alla francatione, in et sopra il paludo [...] confi na a sol levado un prado dell’ eccelentissimo Regazzoni, a mezo dì l’acqua detta Cao maior, a sol a monte la Roiuzza, parte il eccelentissimo sig.r Mar-co Antonio Tiepolo et fratelli, et parte li signori Pedrinelli, et alli monti pradi di più particulari de Villa [...]detti Podestà, Commun, et Huomini si obligano francarsi, et liberarli tal livello [...] nelli anni cinque prossimi, pagando la rata del livello [...] promettono mantinir et osservar sotto obligation generalmente di tutti li loro beni Communali [...]. Presenti il magnifi co sig.r Agustin Ludovicis et Marco Molinaro di Cinto testij44.

Non c’è più la loggia comunale ad accogliere i capifamiglia ma ci sì da appuntamen-to presso l’abitazione di Andrea Favorlini, incaricato della degania di Settimo, il quale presumibilmente svolse il ruolo di mediazione fra le pretese del bandito e le offerte del podestà di Settimo. Centocinquanta ducati erano una somma piuttosto consistente per l’economia dell’epoca, mettere insieme tanto denaro non era facile in un villaggio come Settimo, nemmeno se si fosse sequestrata la totalità delle monete esistenti. La comunità di fronte alle minacce e alle violenze del bandito decise di rivolgersi ai Pedrinelli, mer-canti veneziani che possedevano molti terreni fra Cinto e Settimo. I Pedrinelli detti anche casaroli per un negozio di formaggi che possedevano a Rialto, a quel tempo si occupava-no della distribuzione del sale in Friuli con magazzini a Pordenone e Udine. Secondo la memoria di Francesco Bortolusso di Settimo, che a quel tempo era fattore della famiglia Pedrinelli, dopo molte insistenze Anzolo Pedrinelli abitante a Settimo acconsentì al pre-stito mandando un corriere a prendere tale somma da Armenio Michelini che vendeva il sale a Pordenone.

44 AS Pn, Ar. Not., b. 1070.

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La comunità di Settimo e di San Vito rimasero sotto la giurisdizione patriarcale fi no al 13 marzo 1762, giorno della morte di Daniel Dolfi n ultimo patriarca della Patria del Friuli per passare poi soto il governo del luogotenente di Udine. Nel 1779 una Vicinia di Setti-mo fu convocata per deliberare su un pubblico proclama del luogotenente di Udine che proponeva la fondazione di un consorzio per limitare i danni dovuti dalle piene del Taglia-mento. Le famiglie rappresentate erano ventinove e non si mostrarono particolarmente interessate alla proposta poiché il comune non aveva subito danni e comunque, a dimo-strazione del credito che godevano le magistrature veneziane, si ritenne che un istituto del genere fosse più terribile e micidiale della stessa suposta irruzione del Tagliamento.

Adì 9 Xbre 1779, Settimo. Convocata la Vicinia locco, et in ore solito, nella quale intervenero:Giacomo Mistron Podestà, Francesco Zovato, Pietro Roncheto, Giacomo Go-batto, Giacomo Zovatto, Sigr Marco Cremon, Osgualdo Battiston, Sigr Giaco-mo Pedrineli, Sigr Gasparo Pedrineli, Battista Bidon, Otavio Mistron, Pietro del Zan, Francesco Burtulusso, Fiorito Mutto, Osgualdo Franzon, Osgualdo Zucu-lin, Pelegrin Marzinoto, Osgualdo Zotto, Pietro Lusandro, Bortolo Bravo, Pie-tro Franzon, Francesco Franzon, Andrea Mistron, Giacomo Marzinoto, Antonio Marzinoto, Francesco Gobatto, Antonio Carodia, Antonio Candusin, Giacomo Venezian tutti in n° 29. Et ivi detto Podestà rese noto à tutto il Comun il rispetta-bile pubblico proclama à stampa primo 7bre 1779 dell’ecc.mo sig. Locotenente Generale della Patria del Friuli (...) col quale si diffonde un circondario di luoghi e ville come pretesi soggeti à danni del Tagliamento nel qual circondario è com-preso anche questo villaggio. Riuscito di sorpresa tale venerato proclama allo stesso podestà il qual rifl ettendo che in verun tempo da questo comune fu umi-liata alcuna suplica per union di Consorzio, (...) presa ancora informazione della preliminare difesa che stano per usare gli altri comuni in esso compresi (...) siano umiliati al eccelentissimo magistrato (...) li motivi, che si credono valevoli à so-spendere la massima di tale consorzio e con seguente riparo (...) e che anzi nelle sue conseguenze sarebbe più terribile, e micidiale della stessa suposta irruzione del Tagliamento. (...). Qual parte ballottata riportò voti n° 29 (...). Io Domenico Mistron scrivano del sudetto Comune45.

Gli ultimi boschi

Dell’antica zona boschiva che ricopriva interamente Settimo nel primo millennio ben poche e limitate zone erano rimaste nel XVI secolo, dopo che i patriarchi nel XII e XIII secolo si erano prodigati a favorire il disboscamento e rendere la terra coltivabile attra-verso la divisione in masi e la concessione feudale per lo sfruttamento agricolo. A tale politica patriarcale si devono probabilmente i primi insediamenti a Settimo.

45 AS Pn, Ar. Not., b. 1111.

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Nel corso del secolo XVII fra i pochi boschi ancora rimasti a Settimo tre erano situati ai confi ni fra Cinto e Basedo: i boschi Lecata, Pradusetti e Persiana. Erano comugne ossia terreni collettivamente usufruiti per il pascolo e per far legna dagli abitanti dei due villaggi. Questi boschi avevano perso il loro aspetto di un tempo e apparivano ridotti piuttosto male ai censori rurali46. Il Capitano di San Vito emanò un proclama per fermare i danni e le devastazioni e denunciare l’incuria e l’abbandono. Gli abitanti dei due villaggi con carri,versori e animali li avevano resi infruttiferi, tracciando perfi no delle strade all’interno per tagliare più comodamente il legname. Il proclama minacciava la pena di ducati 100 per chiunque avesse causato nuovi danni e proibiva il pascolo all’interno dei boschi.

Si era convocata a Settimo una Vicinia47 per eleggere due guardiani a difesa dei bo-schi,. A quel tempo c’era una un particolar controllo anche per andare a far fassine di rami e sterpi secchi: era consentito solo in certi periodi dell’anno limitatamente a persone bisognose. I guardiani dovevano invigilare e impedire l’abuso delle fassine, si doveva tol-lerarne qualcuna solo per miserabili persone, che raccolgono una fassina di seccumi per iscaldarsi, durante l’inverno, dovendo sempre impedire alle persone oziose, ai sottani che hanno campi, e più alli masieri di poter raccoglierle. Le fassine dovevano essere proibite anche ai miserabili se si rileva che le vendono, o che vadino più d’una volta al giorno, e se i miserabili frequentano detto uso anche nei mesi d’Aprile, maggio, Giugno, Luglio, Agosto, e Settembre, nei quali doveva cessare ogni raccolta.

Il comune utilizzo di questi boschi da parte degli abitanti Settimo e di Basedo faceva sì che gli uni denunciavano gli altri per i danni inferti e viceversa, dando vita a lunghe schermaglie processuali davanti alla corte giurisdizionale di S. Vito, con sperpero di risor-se in avvocati e periti di parte, e di queste cose sono pieni i registri giudiziari dell’epoca.

Il Palù di Settimo

La pianura friulana era in epoche arcaiche soggette a devastanti allagamenti. In perio-di di piena, fi umi a carattere torrentizio dilagavano nella pianura travolgendo ogni cosa e rendendo i terreni acquitrinosi per diversi mesi dell’anno. Dopo aver operato una capillare opera di disboscamento gli abitanti dei primi insediamenti agricoli si trovarono di fronte alla necessità di proteggere la terra roncata dalle acque stagnanti.

I fi umi erano importanti nell’economia contadina, approvvigionavano il paese d’ac-qua potabile, consentivano d’irrigare le terre e fornivano la forza motrice per i mulini. Ma le acque dovevano essere vive e correnti, per evitare la formazione d’acque morte, perciò era necessario scavare canali per convogliare rapidamente le acque nei fi umi.

46 Responsabili giurisdizionali dei boschi e delle comugne.47 Furono eletti Gasparo Pedrinelli e Gio Batta Mutto: quale compenso per il loro compito ricevevano mezzapresa di strame da tagliar. As Tv, Ar not, b. 2015.

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Questo lento e paziente lavoro protrattosi per diversi secoli sta alla base anche della formazione del Palù di Settimo, che inizialmente era parte di zona più vasta comprenden-te il Bandoscudelle48, confi ne fra cinque diverse comunità: Settimo, Cinto; Sesto, Mari-gnana, e Giai. A partire dal XVI secolo, con la bonifi ca attuata dai patrizi Tiepolo rimase l’unica zona a mantenere inalterate le caratteristiche della palude49.

Il Palù di Settimo, durante la giurisdizione patriarcale, era un bene comunale, il più im-portante che poteva disporre la comunità di Settimo, forniva una volta all’anno un discreto raccolto di piante palustri utilizzate come strame per il bestiame. Al momento dello sfalcioveniva diviso in portioni o prese ma non tutte le famiglie di Settimo potevano usufruirne ma solo quelle dei massari, i più poveri detti sottani ne rimanevano esclusi. Tali divisioni provo-cavano spesso malumori e litigi con strascichi davanti al tribunale di San Vito.

Nel luglio del 168550, in una di queste liti, si trovarono contrapposti Iseppo Franzon detto Zotto e Valentin Zovato allora podestà di Settimo. Il comune si rifi utava di riconoscere Iseppo quale massaro o masiero ribadendo non poter un semplice sottano aver la pretesa d’haver la portion di palludo. Iseppo dal canto suo affermava che il cortivo per il quale chiedeva una debita presa di strame aveva tutti i requisiti per ospitare un colono con animali per lavorare li campi con titolo di masiero e non come sottano e se momentaneamente man-cava del colono ne aveva comunque diritto disponendo del carro e degli animali, poiché il comune aveva così praticato anco con gl’altri. A questo punto il Zotto rincarava la dose de-nunciando il comune d’illeciti favoritismi. La denuncia non doveva essere del tutto campata in aria se il capitano di San Vito diede ragione alle istanze di Iseppo e costrinse il comune ad assegnargli pertiche quindici de palludo, e da considerarlo come gl’altri masieri.

Secondo una memoria del 1741 e riguardante un processo sull’uso promiscuo dei beni comuni fra Settimo e Basedo, si depone che il Palù veniva annualmente diviso in ventidue parti e che ogni parte poteva dare circa quattro carri di strame. Di solito il comu-ne tendeva a favorire i piccoli proprietari rispetto ai coloni dei possidenti e spesso subiva intimazioni da parte del tribunale di San Vito su richiesta dei nobili Tiepolo e Sagredo51.Il Palù come bene comunale poteva essere usato quale garanzia per poter ottenere un pre-stito in caso di necessità52.

48 L’attuale zona dei Laghi di Cinto.49 La palude è un paesaggio umido, caratterizzato da risorgive, esondazioni, impaludamenti. Fungevano da luoghi di mantenimento dell’umidità e contribuivano a prevenire l’inaridimento delle falde acquifere. I “palù” erano contraddistinti da culture prative, circondate da siepi ed arbusti, da macchie saltuarie di bosco. È solitamente un ambiente di confi ne fra due o più comunità, un luogo disabitato ma percorso, frequentato e sfruttato. Le zone paludose offrivano utili risorse alle deboli economie delle popolazioni contadine di un tempo quali il legname, il pascolo, il foraggio e lo “strame”.50 29 Luglio 1685, ASC S.Vito, b.44.51 19 Agosto 1642. ASC S.Vito, b.26.52 La Vicinia del 1626, riportata precedentemente, si ipoteca il Palù per poter assolvere alle richieste del Regazzoni.

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Jacomo e Jacometto Regazzoni

Nella seconda metà del Cinquecento e nei primi decenni del Seicento il villaggio di Settimo fu coinvolto nelle vicende della nobile famiglia veneziana dei Regazzoni.

Era questa una famiglia di mercanti che nel corso del Cinquecento aveva accresciuto in maniera considerevole il proprio patrimonio grazie ai traffi ci e alle capacità diplo-matiche di Jacomo, primogenito di Benedetto e Isabella Ricci, nato a Venezia nel 1528. Secondo il suo biografo53, Jacomo cominciò a commerciare appena uscito alla puerizia et entrato nell’adolescentia, che fu l’anno 14 compito, quando fu inviato con una nave cari-ca di mercantie nell’Inghilterra.

In terra foresta si dimostrò subito molto abile nelle contrattazioni e nella compravendita delle mercanzie acqui-sendo rispetto e considerazione anche fra i mercanti veneziani più esperti; con uno di questi, il nobile Jacomo Foscarini che aveva negozio a Londra, entrò in familiarità e fondò a Londra un’importante società mercantile. Ja-como rimase a Londra per sedici anni ottenendo appoggio e considerazione anche dalle più alte cariche, parteci-pando alla vita di corte di Enrico VIIIe di Odorico VI. Ebbe in quest’ambito un ruolo importante nelle trattative intercorse fra l’Inghilterra e la Spagna per il matrimonio di Maria la cattolica con Filippo II.

Ritornò a Venezia, nel 1558, lasciando a Londra a gestire gli affari di famiglia il fra-tello Placido. I Regazzono disponevano di una loro fl otta che nel 1563 fu ampliata con il varo di tre grandi vascelli. Stando alle stime del biografo la sua società mercantile occu-pava allora ben duemilacinquecento persone.

Nel 1571 Jacopo fu inviato a Costantinopoli per saggiare la disponibilità dei turchi a trattare la pace. La missione non fu portata a termine a causa dei diversi orientamenti esi-stenti all’interno dello schieramento cristiano. Jacomo ritornò a Venezia con un viaggio avventuroso mentre era in fase di allestimento la fl otta della lega cristiana che avrebbe sconfi tto i turchi nelle acque di Lepanto. Il Regazzoni contribuì alla lega offrendo a pro-prie spese una nave da guerra con cento armigeri e, in cambio, suo fratello Placido ebbe l’incarico di provvedere in Sicilia al vettovagliamento della fl otta.

53 Giuseppe Gallucci, La vita del Clarissimo sig. Jacomo Ragazzoni conte di S. Odorico, Venetia MDCX.

Jacomo Regazzoni con Enrico VIII.Da affresco di Palazzo Flangini di Sacile.

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Come molti altri mercanti veneziani a quell’epoca, i Regazzoni investirono gran parte dei proventi acquistando terreni agricoli nelle zone di Sacile, Noventa e Settimo. Il doge li investì54 del feudo di Sant’Odorico, situato nei pressi di Sacile, dove già possedevano fondi e palazzi55. Anche nelle ville di Settimo et Basedo sotto San Vido i Regazzoni acqui-starono 238 campi con tutte sue fabbriche e con una casa dominicale situata a Settimo.

Dopo la morte del fratello Placido, Jacomo, ormai giunto in veneranda età, decise di ritirarsi dai traffi ci mercantili e di vivere quietamente i suoi ultimi anni, dedicandosi ai beni e alle dimore che possedeva in campagna. Il biografo lo presenta così nei suoi ultimi anni di vita:

Il Jacomo corse tutte le età dell’uomo era pervenuto alla decrepita (benché ne gli altri noiosa e diffi cile) con lui però era piacevole, e grata quando che si sen-tiva con la solita robustezza degli anni a dietro, con il medesimo gusto nel man-giare, e con l’istessa dispotezza della vita a caminare, che per ciò non lasciava di attendere al governo delle cose di casa ristretteze nelle entrate de beni stabili, e de alcune poche faccende le quali per fuggir l’otio si haveva serbate dopo l’estinzione de traffi chi generali: passava le stagioni calde a Noenta, a Settimo, a Sacile e S. Odorico, luoghi di sua tenuta in Padoana e nel Friuli...56

In tarda età si dedicò scrupolosamente al governo delle cose di casa, spinto anche dal rispetto et amore che provava al loco et alle persone che vi abitavano. Nonostante le ristretteze nelle entrate che si avevano nei fondi agricoli in confronto ai profi tti mercantili, Jacomo non tralasciò mai d’investire in bellezza e comodità57, restaurando e ricostruendo i rovinosi fabbricati dei suoi coloni e facendo decorare riccamente le dimore padronali.

Gli affreschi scoperti recentemente nella casa “Chiaradia” di Settimo, si devono pre-sumibilmente all’attività e alla sensibilità di Jacomo Regazzoni, che dopo una vita rile-vante ed avventurosa trovò sollievo e compiacenza nel frequentare periodicamente la casa dominicale nel villaggio di Settimo.

Jacomo si era sposato a Venezia nel 1561 ed aveva avuto 15 fi gli dalla moglie IsabellaPagliarini: tre maschi e dodici femmine. Morì a 82 anni ed ebbe la sorte di sopravvivere a suo fi glio Benedetto, unico maschio coniugato. I beni dei Regazzoni furono ereditati da Ja-cometto, orfano minorenne di Benedetto, con la clausola di dover sottostare inizialmente alla tutela dello zio Monsignore Vettor, fratello di Benedetto, a quel tempo vescovo di Zara.

54 Nell’anno 1577. Giorgio Zoccoletto, “Il feudo di Sant’Odorico presso Sacile”, Città di Sacile 2000.55 Fra i quali l’attuale palazzo Flangini-Belia.56 Giuseppe Gallucci, La vita del Clarissimo sig. Jacomo Ragazzoni conte di S. Odorico, Venetia MDCX.57 Giuseppe Marchesini, “Annali per la storia di Sacile”, Sacile 1957.

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Jacometo, forse per non aver avuto un’educazione adeguata o per ragioni che ci sfug-gono, fi n da giovane mostrò irrequietezza e poca considerazione verso le regole sociali: preferiva la bella vita che conduceva con persone rissose e di facili costumi. Alla morte dello zio vescovo, potendo disporre completamente dell’eredità, mise tutte le sostanze a disposizione delle sue bravate.

Doveva essere un personaggio simile al “Don Rodrigo” descritto dal Manzoni nel li-bro “I promessi sposi”, circondato da un nugolo di bravi sempre pronti alle minacce, alle molestie e alle ruberie. Per organizzare le sue feste necessitava sempre di nuovi introiti che otteneva vessando e minacciando i propri coloni. Le dimore di campagna che avevano accolto le oculate meditazioni di Jacomo furono in quegli anni occupate da turbe concita-te ed irascibili che banchettavano e si dedicavano a pratiche licenziose. Jacometo fu visto bravare e a far baccani nella casa dominicale di Settimo: anche in quelle sale affrescate si diffondeva un “frastuono confuso di coltelli , di bicchieri, di piatti, e sopra tutto di voci discordi, che cercavano a vicenda di soverchiarsi”: [Jacometo stava] “in capo di tavola circondato d’amici e di compagni di libertinaggio e di soverchieria”.58

Una condotta di vita un po’ sopra le righe può prima o dopo comportare qualche inci-dente di percorso, soprattutto quando ci si trova a dover far fronte a persone dello stesso ceto. Tale evento capitò nell’anno 1623 a causa di una sanguinosa lite che coinvolse il conte Nicolo Florido di Prata quale antagonista di Jacometo. Il Consiglio dei Dieci do-vette in questo caso intervenire e decretare tre anni di confi no da scontare a Zara, come pena. Ma il Regazzoni da sempre abituato a comportarsi con arroganza, si guardò bene dal rispettare la sentenza e il Consiglio dei Dieci in data 10 maggio 1624 rincarò la dose con il raddoppio della pena: Jacometo fu condannato a 6 anni di confi no da scontare a Corfù.

Jacometo abbandonò Corfù e come se niente fosse riprese i suoi traffi ci in terra vene-ziana, spalleggiato da un buon numero di bravi. Il consiglio dei Dieci il 17 ottobre 1625 emanò una terza sentenza, questa volta drastica ed esemplare: tutti i suoi beni furono se-questrati e Jacometo fu bandito in perpetuo dal territorio veneziano, con taglia de ducati 3000 de suoi beni per la cattura o l’uccisione in caso di mancato rispetto del bando.

Questa volta Jacometo decise di usare più prudenza e di mettersi sotto la protezione imperiale, prese alloggio nella villa di Gradiscutta nei pressi di Codroipo, che allora aveva giurisdizione imperiale e, pur essendo circondata da terre veneziane, la Serenissima non poteva far valere nessuna autorità. Ovviamente non era da solo ma insieme alla solita tep-paglia armata di coltelli ed archibugi, più che una residenza era un covo che attirava altribanditi, gente tarchiata et arcigna avvezza alle armi e alle scorrerie.

Jacometo soffriva di nostalgia nei confronti delle sue terre e delle sue rendite e, per alleviare questo suo patimento, organizzò nei primi mesi del 1626 alcune scorribande a

58 Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”, Roma 1999.

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Settimo. In due memorie più tarde59, si afferma di averlo visto e sentito in quell’anno di-verse volte nel paese a bravar in Commun per ottenere la restituzione di un debito di 150 ducati, concessi a livello da suo nonno Jacomo. Jacometo minacciò in caso contrario a far levar dai suoi bravi tutto l’armento della villa di Settimo. Legalmente doveva ritenersi un bene requisito dal Consiglio dei Dieci e quindi la richiesta doveva essere considerata illegittima ma considerato la reputazione di Jacometo si decise di non tergiversare e gra-zie ad un prestito accordatogli dalla famiglia Pedrinelli, si affrancò prontamente il debito. Jacometo dopo aver incassato i 150 ducati promise che sarebbe tornato per levar il for-mento delle sue terre e minacciò gli abitanti di Settimo che avrebbero pagato con la vita qualsiasi tentativo di resistenza.

Di fronte alle scorribande e alle minacce del Regazzoni, il Senato veneziano decise di mobilitare una compagnia di Capelleti guidata dal capitano Marco Suliman, che fu disposta parte a Belgrado e parte a Settimo per opporsi alle sue infi ltrazioni con l’intento di prenderlo vivo o morto. La compagnia prese posizione nel giugno 1626 e vi rimase fi no a metà luglio, quando furono richiamati a Udine per la periodica ispezione da parte del luogotenente. Fu solo questione di qualche giorno, ma suffi ciente a permettere a quattro bravi di ritornare a Settimo. Una lettera del Luogotenente di Udine illustra dettagliata-mente come si erano svolti i fatti.

Io ho procurato... di venir in cognizione de quei quattro satteliti del Ragazzoni bandito che si lasciarono vedere nel luogo di Settimo, mentre li capelletti erano venuti in questa città per la resegna, nè si è potuto ritrovare altro, se non che uno si chiami il Caporalino, e un’altro l’Alfi ero, perchè essendo forastieri non sono conosciuti. Erano a cavallo armati d’archibusi lunghi, e corti, andarono alla casa di Anastasio Favorlin già affi ttuale del Ragazzoni, si fecero dar la merenda, rin-frescando anco i cavalli, e poi partirono, venendo deto, che siano banditi. Furono anco da Francesco Bidon, dove si faceva festa con occasione de una novizza, tre smontarono da cavallo ballando alcune danze e poi licenziandosi. Menego Brain, che lavora una possessione dei beni del sig. Ragazzoni in essa villa, afferma, che fussero anco à dimandarlo alla sua casa, e che non lo havendo ritrovato, lo incon-trassero poi per la strada, e che il caporalino lo ricercasse se havesse ancora battu-to et havendoli risposto di no, seguitassero il loro viaggio. Si sa anco che fossero da Oliviero Zovato al quale il Ragazzoni l’aprile passato fece condur via un paro de manzi, perchè li andasse debitore ma che non lo trovarono, onde spaventatosi per dubbio, che fussero venuti à qualche altro mal fi ne, ricorse a dolersi dal claris-simo sig. Marc’Antonio Tiepolo suo padrone, che allora si trovava in villa... Di Udene àdi 8 di Agosto 1626 Geronimo Ciurà luogotenente

59 3 Giugno 1641, testimonianze di Francesco Bortolusso e Antonio Sottano, ambedue di Settimo. ASC S. Vito, b. 25,

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Dunque, quattro forestieri minacciosi, montati a cavallo armati di tutto punto, si mise-ro tranquillamente a sfi lare per le strade di Settimo passando in rassegna le case dei coloni di Jacometo. Approfi ttarono per far merenda e per rinfrescare i cavalli, non senza disde-gnare di partecipare ad una festa di fi danzamento in casa di Francesco Bidon, esibendosianche nelle danze rituali.

Dopo questa sortita Jacometo non si diede per vinto e dal suo rifugio di Gradiscutta continuò a minacciare ed infi erire nelle terre della Serenissima, depredando le biave neipaesi vicini, commettendo ogni giorno novi delitti, insolenze, sbari d’archibugiate, e’ ten-tativi di amazzar nelle proprie case con tirraniche pretentioni.

Anche l’anno seguente il Senato prorogò la mobilitazione di una compagnia di Ca-pelleti di Palmanova contro il Regazzoni con l’intento di perseguitarlo con tutti i suoi seguaci, eccitando anco i communi, ma senza nessun risultato. In compenso arrivarono le lamentele della popolazione per il comportamento dei soldati che non era poi tanto diffe-rente da quello dei banditi, dai quali avrebbero dovuto difenderli.

La questione si risolse per via diplomatica grazie ad un accordo con il Capitano di Gorizia60: Jacometo fu considerato anche dagli imperiali persona indesiderata. Si rifugiò a Mantova, forse con l’intenzione di arruolarsi nelle milizie mercenarie che si davano battaglia nella seconda guerra di successione e in questa città morì poco eroicamente nel settembre 1628, a causa di una banale rissa scoppiata in un’osteria.

Nel frattempo i suoi beni erano già stati venduti all’incanto e le proprietà di Settimo furono acquistate dal patrizio veneziano Zaccaria Sagredo.

60 Ci fu una compensazione reciproca attraverso uno scambio di favori riguardo banditi dell’una e dell’altra parte rifugiatosi nei territori confi nanti.

Palazzo Regazzoni Sagredo in via Udine.

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I Sagredo a Settimo

Giorgio Zoccoletto nel libro dedicato al feudo di Sant’Odorico di Sacile61 descrive dettagliatamente le vicissitudini che subirono i beni del bandito Jacometo Regazzoni, dopo essere stati sequestrati e venduti all’incanto. Fra i tanti creditori di Jacometo c’erano anche Domenico Tiepolo e Zaccaria Sagredo e i due non essendo ai primi posti della lunga lista, decisero di mettersi in società e di usare qualche stratagemma per spingere le offerte al rialzo, unica maniera per poter riavere il loro credito. Per ciò usarono tal Giacomo Caldoni che, alla terza chiamata d’asta, giunse ad offrire cinquantamila cinquecento ducati, al che non essendoci alcun rilancio, il Caldoni fu costretto ad aggiudicarsi le intere sostanze dei Regazzoni. Quando l’offerta fu accolta, l’acquirente dichiarò di essere prestanome dei due patrizi, cosi essi si ritrovarono, senza volerlo, proprietari dell’ingente patrimonio.

Fra i beni acquisiti dal Regazzoni c’erano anche 238 campi posti nelle ville di Setti-mo, et Basedo sotto S. Vido tenuti alla parte da diversi coloni, con tutte sue fabbriche62 e la casa dominicale.

Con l’acquisto il Tiepolo e il Sagredo non poterono rientrare in possesso dei loro cre-diti e per quel che riguardava ile proprietà acquisite affermavano in una supplica dell’ot-tobre 1628 che era notoria la mala qualità et sterilità dei Beni del Friuli ma a causa della pessima tutela del Jacometo Regazzoni molti di quei fondi erano diventati inculti, o come si dice in Friuli pustoti. A tale desolatione si aggiungevano le tempeste dell’anno 1627 ele acque straripate. I gravi danni ai raccolti costrinsero così i nuovi proprietari a ulteriori spese per le semine e il mantenimento dei coloni63. Oltre a tutto questo non andarono a buon fi ne le iniziative per ottenere il feudo di San Odorico, allora i due compratori cerca-rono di liberarsi dei fondi acquistati, anche se il cavaliere e procuratore Zaccaria Sagredo decise di mantenere il possesso dei beni di Settimo e Basedo.

Nel 1633 Zaccaria estese i suoi possedimenti a Settimo acquistando altri 55 campi da Claudio da Cordovado64 e varie altre terre verranno negli anni successivi, diventando il possidente più facoltoso di Settimo. Dopo la morte di Zaccaria, i suoi fi gli continuarono l’opera del padre acquistando nuove terre65. L’ex casa dominicale dei Regazzoni venne ampliata e trasformata in Ca Sagredo, per circa un secolo e mezzo centro vitale dell’eco-nomia di Settimo. È documentata in quegli anni la presenza a Settimo del patrizio Marco Sagredo e i buoni rapporti che s’istituirono fra la comunità di Settimo e monsignor LuigiSagredo, a quel tempo patriarca di Venetia.

61 G. ZOCCOLETTO, Il feudo di Sant’Odorico presso Sacile, Città di Sacile 2000.62 AS Ve, Avogadria di Comun Civile b. n° 142 c 27.63 AS Ve, Provveditori sopra Feudi b. 375.64 AS Pn, Arch. Not. b. n° 1071 reg 7462.65 Il Procurator Nicolò Sagredo con gli altri fi gli di Zaccaria acquistano altri fondi da Francesco Roncali nel 1666 - AS Tv, Ar Not I. s, b. 2011.

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Nonostante le diverse generazioni che subentrarono nei decenni successivi, le posses-sioni con fabbriche rusticali, e dominicali in villa di Settimo e Basedo rimasero legati alla famiglia Sagredo quali beni di primogenitura e dunque ritenuti come indispensabili per una corretta tutela delle proprie sostanze. Nella seconda metà del Settecento la famiglia Sagredo abbandonò l’amministrazione diretta ai fondi e l’affi dandola ad un conduttore in cambio un affi tto annuo. Negli anni ultimi decenni del XVIII secolo troviamo ad am-ministrare le possessioni Pietro Sartori da Sacile, al quale in seguito succederà il fi glio Giovanni Battista.

La sagra di San Giovanni Battista (nei primi anni del Seicento)

La parola sagra deriva da latino sacrum e fa generalmente riferimento al patrono della chiesa principale del paese. Era consuetudine per le comunità durante la ricorrenza del santo, dopo le rituali funzioni devozionali, festeggiare con adeguati riti profani, a cui erano invitati partecipare anche gli abitanti dei paese vicini. La sagra rappresentava un avvenimento molto importante per le piccole comunità, modo per distinguersi e ribadire la propria identità, per i meno abbienti il simbolo del santo patrono assumeva lo stesso valore del blasone di famiglia per i nobili.

Anche Settimo dopo aver costruito la chiesa dedicata a S. Giovanni Battista, poteva dunque organizzare la sagra. Alcuni documenti seicenteschi danno un’idea della consi-stenza della festa, attraverso la descrizione di alcuni episodi.

La festa era richiamo per moltitudini di persone che, eccitata dai balli e dal vino, erano facili alle liti con pessime conseguenze per l’ordine pubblico. Per contrastare e prevenire questi eventi giungevano a Settimo le massime autorità giurisdizionali, che vigilavano e facevano in modo che tutto si svolgesse rispettando le norme della convivenza sociale.

Durante la sagra di San Giovanni Battista del 1602, il Capitano di San Vito, avendo a disposizione la carrozza patriarcale, invitò alcuni gentiluomi del loco ad accompagnarlo e se n’ando con quella compagnia in carozza a Settimo, usando per il traino i cavalli della scuderia patriarcale. In quell’anno durante la sagra non ci furono particolari inconvenienti e anche il Capitano e la sua compagnia poterono godere delle gaie opportunità che offriva Settimo in quel giorno.

Tornarono a casa allegri e giocosi, cantando e suonando com’era consuetudine in quell’epoca, ma questo loro rilassamento fu contagioso anche per il vetturino, che sicura-mente aveva dato il suo contributo al buon esito della festa, e così, forse a causa dell’ec-cessiva velocità o per l’imperizia della guida, quando arrivarono nel porton del castello di San Vito i cavalli andarono giù del ponte e fecero rivoltare la carozza nella fossa dellemura, con tutte le persone dentro.

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Date le autorità coinvolte fu subito mandato a chiamare il medico chirurgico di Udenema la mano del signore fu benevola con i malcapitati e così gli effetti dell’incidente si rivelarono meno gravi di quanto temuto, non restando offeso ne homini ne cavalli, trannequalche contusione. L’unico ad aver subito qualche danno fu un certo dottor Marosticache fu colpito sulla fronte e ricevette una forte percossa nella spalla destra che non sipoteva mover dal letto. Ben maggiore patimento soffrì il Capitano di San Vito nel dover rendere conto al Renverendissimo Monsignore dell’incidente accorso con i cavalli delle corte patriarcale. Perciò chiese l’intervento di un suo zio, alto prelato che conosceva bene l’arte diplomatica, e che scrisse al Patriarca una lettera accorata e ossequiosa dove si giustifi cava la licenza presa illegittimamente da suo nipote con l’intendimento di far cosa utile, avendo quei cavalli bisogno di un poco d’esercizio66...

Un altro piccolo evento successo durante la sagra di Settimo del 1607 ci è pervenuto grazie ad una supplica di Marchiora della Mota67, donna a quel tempo forse di non inte-gerrimi costumi, che visse per certo tempo a San Vito sottoposta all’arbitrio di un’amicocon la speranza che egli potesse diventar un giorno suo marito. Ma altra fu, a quanto scrive Marchiora, la dispositione di Dio: fece levar questo dal mondo e la lasciò a dover provvedere da sola ad una puttina. Dove il signore prima ferisse poi sana, così pensava Marchiora, perchè morto il primo trovò consolazione in un secondo. Mastro Pietro Fabro della villa di Chions l’accolse come sua legittima sposa. Ma quando le sue tribolazioni sembrarono essere fi nalmente terminate, il suo legitimo marito venne bandito a causa di un litigio durante la sagra di Settimo, dovette dunque fuggir contumace.

Durante le tradizionali danze, mastro Piero venne con un compagno di ballo a parole di tono e contenuto poco edifi cante, si accese una contesa piuttosto concitata e Piero si trovò a far fronte da solo ad un gruppo di persone con un fare minaccioso. Per fuggir il pericolo della vita fu costretto a metter mani alle armi e a dar cipiglio ad un’archibugioche aveva con se, essendo in quell’anno soldato, arruolato nella compagnia delli cavalli leggieri. Sembra che mastro Piero si limitasse ad usare l’archibugio solo per intimidazio-ne senza sparare nessun colpo: la situazione dopo qualche momento di tensione si distese senza che seguisse mal alcuno ne all’una, ne all’altra parte e tutto si ridusse a poco stre-pito di parole.

Se le liti nelle sagre erano allora abbastanza comuni era invece tassativamente proibi-to e duramente represso l’utilizzo di armi. Donna Marchiora nella sua supplica, afferma che dopo l’alterco seguì subito la pace, et furono come prima buoni amici. convinta che

66 Acau, Filza n. 318.67 ASC S. Vito, Acta Patriarcalia b. 3 c. 965.

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un fatto del genere non possa aver determinato la condanna ma che il marito fu denuncia-to solo per l’astio del Decano di Settimo.

Dopo tre anni decorsi nell’obedienza del bando di mastro Piero, erano ora tre le per-sone sconsolate e supplicanti ai piedi del Patriarca per chiedere il condono del resto della pena: la puttina nata dal morto padre e la misera moglie pregnante con la non ancor nata creatura. Per onor del vero si deve precisare che la supplica ebbe esito favorevole...

Un altro episodio simile accade quattro anni dopo, sempre nel giorno di S. Giovanni Battista. Questa volta ad esserne protagonista è un nobile, il conte Ottavio Altano delcastello di Salvarolo. In una sua supplica68 fatta pervenire al Patriarca per chiedere la liberazione dal bando contro di lui proclamato, illustra la sua versione dei fatti successi a Settimo nel 1611.

Si trovava quel giorno a Settimo per godere delle opportunità di quella sagra, come era consuetudine fare ogni anno, quando ebbe modo d’incontrarsi con Domenico Cordovanaro da Sacile, persona astiosa e poco raccomandabile che era stata già stata bandita dalla sua terra per delitto di archibuggiata seguita nella chiesa della Santissima Trinità di Polcenigoe che poco dopo fu anco bandito da tutte le terre, et lochi del Serenissimo Dominio.

Fra l’Altan e il Domenico esisteva qualche attrito per enteresse d’honore che, nel linguaggio più attuale e prosaico, è una questione di donne. Il conte Ottavio che a Settimo disponeva di maggiore credito rispetto al rivale, sfruttò l’occasione della sagra per fare un poco di resentimento contra Domenico Cordovanaro. L’esplicitazione concreta del resen-timento non viene specifi cata, è dato solo sapere che l’Altan fu agevolato nella sua azione da un archibugio che seppe mettere bene in mostra nel momento opportuno.

L’ostentazione di armi quali l’archibugio durante una sagra poteva essere motivo suf-fi ciente per essere bandito e così il conte Ottavio fu proclamato dal Capitanio di San Vito e poi bandito quale contumace da tutte le Terre Venete. I Nobili friulani messi al bando, fuggivano generalmente verso l’Ungheria, dove trovarono rifugio nei reggimenti mercenari. Questo fu anche il destino del conte Ottavio che però, dopo tre anni di questa vita, decise di tornare a casa libero dal bando, chiedendo il condono della pena affi nché potesse vivere quietamente il resto della vita.

Oltre questi piccoli episodi che in qualche modo fanno rivivere frammenti della vita di quattrocento anni fa, al centro rimane la sagra di San Giovanni Battista, invasa da un gran numero di persone dei paesi vicini, gente di ogni ceto sociale ma per la maggior parte contadini. Potevano dedicarsi fi nalmente alle danze e magari fare qualche piacevole conoscenza, il ballo era anche allora un modo per favorire l’incontro fra i giovani e av-viarli sulla strada del matrimonio. Ma anche il piacere di riempire la pancia trovava molti

68 ASC S. Vito, b. 3.

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consensi e molti si dedicavano al limite delle proprie possibilità alle libagioni. Altra attra-zione erano le mercanzie dagli ambulanti: il vestiario, le pentole, le stoviglie domestiche, le stampe miniate dei santi e tante altre cose curiose che fuoriuscivano dalle carrette. Tutto destava l’interesse della gente, dagli spettacoli dei saltimbanchi agli imbrogli venduti dalla miriade di ciarlatani che queste feste attiravano.

La sagra non era certo il paese della cuccagna tanto agognato dove dagli alberi pende-vano i salami e dalle fontane sgorgava il vino, ma permetteva alla gente di poter prendere visione di un universo che a loro sembrava molto simile al proverbiale bengodi. Insomma i contadini avevano modo di vivere per un giorno un piccolo rovesciamento della loro vita dove potevano vedere il mondo dalla parte di chi consuma e non solo da quella chi produce, come succedeva per tutti gli altri giorni dell’anno.

La questione fra Zamaria Muto e Tonio Zanoto

Un tempo per i fi gli dei braccianti e dei senza terra, l’unica maniera di poter integrare dei genitori era quello di andare a fare il famiglio presso qualche proprietario terriero. Il famiglio non era solo fare il servo di casa ma veniva impiegato in una miriade di lavori, dal follar i vini in cantina alla cura delle granaglie nei solai, dal governar le bestie da cor-tile a seguire al pascolo le pecore e tante altre piccole mansioni a seconda delle stagioni e delle necessità. All’inizio, questi ragazzi guadagnavano ben poco oltre il mero sosten-tamento, anche questo non sempre suffi ciente, ma, dopo qualche anno, se imparavano e se si adattavano avevano la possibilità di guadagnarsi qualche cosa diventando bovari osvolgendo altri compiti ritenuti più qualifi canti.

Questa condizione di vita era molto dura e poco redditizia, gli inconvenienti come malattie ed incidenti erano all’ordine del giorno, solo chi fosse stato di costituzione robu-sta e d’animo paziente avrebbe potuto mettere da parte qualche soldo da impiegare per il matrimonio, quando l’età l’avrebbe consentito.

Le cose erano ancora più complicate se tra il datore del lavoro e il famiglio c’era un grado di parentela, perché allora diventava molto più diffi cile poter valutare adeguata-mente il prezzo del proprio lavoro.

Una disputa del genere successe a Settimo verso la metà del XVII secolo, quando sorse una questione fra Tonio Zanoto e Zamaria Muto, rispettivamente quali nonno e ni-pote. Zamaria Muto, giunto all’età di 22 anni chiese di avere un venale riconoscimento del suo contributo lavorativo ma il nonno non apprezzò con il dovuto affetto la richiesta del nipote. Sussistendo diversissime diffi coltà et prettese uno dall’altro decisero di farcompromesso e trattare la questione secondo antiche regole comunitarie che delegavano la questione a due persone autorevoli con autorità et facoltà di poter deffi nire terminare sentenziare sul loro contenzioso.

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I contendenti presentarono delle scritture nelle quali ciascuno illustrava il proprio pun-to di vista. Zamaria pretendeva di esser pagato per famiglio dal nonno Tonio e dagli zii per tutto il tempo che era stato con loro; lui dichiarava allora anni vintidoi e, tolti i primi quiattro nei quali era stato nutrito dalla madre, conteggiava ben diciotto anni da remune-rare d’anno in anno secondo la valutazione di un huomo compito. Chiedeva inoltre che gli fossero restituiti alcuni danari che la madre aveva dato al nonno per comprar una manza69

come pure la sua parte di profi tti per i vitelli nati da questa. Infi ne chiedeva la restituzione di una caldiera e sosteneva di aver ancora qualche diritto sulla dote della madre.

Di fronte a tali pretese Tonio replicò70 di aver già sostenuto molteplici spese avendolo tolto in casa at anni doi in circa insieme con sua madre senza portare con se cosa alcuna oltre ad una caldiera di tenuta di un sechio et vechia. Anche il nonno pretendeva di essere risarcito per avere vestito da novo dal capo ai piedi sia sua madre che il putto Zamaria. A quel tempo sua madre gera patrona resolutta e non vi era altre donne presenti in casa, perchè la sua consorte gera morta. Lei si mostrava molto abile nel far la patrona e gover-nava li suoi fi gli a modo suo, mentre Tonio le comprava pan et altro che fava bisogno et non gli importava altro. Sua madre quale patrona resolutta che dominava il tutto rimase nella sua casa per quattro anni e se n’andò solo dopo essersi nuovamente maritata.

Zamaria invece restò nella casa del nonno e vi rimase fi no all’anno 1656, per circa sedi-ci anni. In tutto questo tempo fu d’aiuto per sei anni nel condurre i bovi e solo per un anno si rese disponibile a lavorar. Secondo Tonio il nipote faceva quello che voleva e mai in alcun tempo ha voluto andar a far una criuola di erba per li animali ed era sempre inobediente e faceva di testa sua, sel voleva lavorar el lavorava et se non voleva non ocoreva dirli altro.

Tonio si rimetteva del tutto e per tutto alla coscienza de doi homini preposti al giudi-zio avendo vestito et calzato et haverli usato tutto quel governo come se fusse stato suo fi glio. Precisava che la dote della madre gli era già stata consegnata e che non intendevano dargli altro, mentre si dichiarava pronto a restituire £ 22 ricevute dalla fi glia ma negava di aver con queste comprato animali per suo conto. Infi ne Tonio sollevava una questione ri-guardante un fratello di Zamaria di nome Fiorito, fi no a quel momento mai citato ma che aveva anche lui usufruito dell’ospitalità del nonno. Questo Fiorito aveva avuto bisogno dell’intervento del medico e tutte le spese erano state sostenute dai Zanoti, perciò Tonio ne chiedeva il rimborso a Zamaria e al fratello.

69 “... la qm mia madre li diede al sudetto Antonio alcuni danari per comprar una manza, et fu comprata et data alla parte da Batta Bigatto di Pramazore et essendoli venutto un puocho di male la tornò alla casa di detto mio nono, et guarita et esso la tenuta per spatio di anni 10 dico diece... pretendo la mia parte tanto alla detta manza come dei vedeli che di detta soceda sono nasutti di anno in anno” AS Tv, Ar Not I s., b. 2009.70 “Laus deo 1656 adi 15 9bre. Pretese fatte da me Tonio Zanotto et fi gli con ser Zamaria fi gliolo del quondam Batta Mut come qui segue et prima. Pretendemo di esser pagatti per averlo tolto in casa anni doi in circa insieme con sua madre et non portorno seco cosa alcuna in casa nostra solo che una caldiera di tenuta di un sechio in

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In una nota allegata sono scrupolosamente indicate le spese sostenute con il medico cerusico Nicolò Ralli per l’ammontare di £ 213 e soldi 10, somma non fu pagata in denaro ma con parte del raccolto71. Inoltre andavano aggiunte £ 22.12 per l’acquisto di medicine nella farmacia Bonaldi di Portogruaro e in quella di Carlo Panigai di San Vito.

In un’altro allegato era elencato il vestiario che aveva con se Zuan Maria al momento che abbandonò la casa del nonno: doi camise sotili lavorate era usade, et doi altre camise di giorno di lavoro, quatro para de braghesse di più sorte, cioe un paro de frostagno fo-derate et con passamani turchisi, con li scarselli suso, un paro de mezo raso et doi para di tela uno sotile et l’altro grossa. Tre para di calze [mutandoni], uno rosse di stameto, uno di raso bianco, l’altro di tela di lino. Una besantina [giacca?] usada con Passamani. Inoltre una camisiola rossa nova, un paro de scarpe de marochino, un vestido usado vec-chio, una camisiola di meza lana vechia e un capello fornito. Era tuta roba fatta in casa del Zanoto che di valore ammontava a £ 87 e il nonno dunque ne richiedeva la restituzione oppure di esser bonifi cate.

Lette queste scritture e visto le pretese di Zamaria fi ol de Battista Muto et da Tonio Zanoto suo nono et avendoli scoltati in vose, Antonio Franzon e Anzolo Sovina qualihomeni conpiti e de coscenza giudicarono che Tonio doveva pagar Zamaria come fame-gio per anni sete con una somma di ducati diese, di lire sei e soldi quattro per ducato. Il nonno doveva anche restituire la caldiera al nipote e remunerarlo con altri dieci ducati per l’armenta acquistata con i soldi della madre. In compenso Zamaria doveva bonifi car tuto quelo che aveva ricevuto di vestiario neli sudeti anni ecetuato quelo che sia sta fato con la dote di sua madre e rimborsare insieme al fratello, delle spese sostenute da Tonio per medico e medicine.

circa et vechia et subito aver vestito detta sua madre insieme con il detto putto da novo dal capo ai piedi et esta gera Patrona resolutta che non ve era altre donne di presente in casa per esser abile di far la Pattrona, et che mia consorte gera morta, dove governava li suoi fi gli a modo suo io li comprava Pan et altro che fava bisogno et non mi impurtava altro, in casa alcuna dona che gera. Patrona resolutta et dominava il tutto, et questo fu in circa di anni quattro et poi se maritò et il detto Zamaria resto in casa, et vi è stato sino il presente anno 1656 che sono anni sedici in circa dopo che detta sua madre si maridò, et quando la si maridò, aveva anni 6: il detto putto, et in questi anni sedici non è stato altro che anni sie a menar li buò, et un anno a lavorar in circa, ma el faceva quello al voleva che in alcun tempo non à mai voluto andar a far una criola di erba per li animali et esser stato sempre inobediente al possibile sel voleva lavorar el lavorava et se non voleva non ocoreva dirli altro dove del tutto e per tutto remetemo in coscienza di doi homini, et averlo sempre sfamato vestito et calzato et haverli usato tutto quel governo come se fusse stato mio fi gliolo. Proprio dove che esso pretende esser pagatto per famiglio si remetemo, ma intendemo ne sia bonifi cato tutto quello avemo speso per lui si del vestirlo come del spesarlo intanto che non è stato buono da niente et anco dopo bon da qual che cosa, ne sia pagato tuto quello si à speso in vestirlo....” AS Tv, Ar Not I s, b. 2009.71 Così quantifi cato: vin orne 7 val £ 119.10, frumento stara 2 val £ 35, sorgo turco stara 2 val £ 20, sorgo rosso stara 4 val £ 22, segala stara 1 val £ 11 e £ 6 di avena per aver usato sei giorni il loro cavallo. AS Tv, Ar Not I s., b. 2009.

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Fatti i debiti conti Zamaria poteva inizialmente contare su un introito di lire 124, ma dovendo bonifi car il vestiario e contribuire alle spese mediche ben poco gli rimaneva, anzi si ritrovava ad essere debitore di suo nonno. Alla fi ne Zamaria abbandonando la casa di suo nonno, dove aveva vissuto e lavorato per 22 anni, si trovò a possedere solo una caldiera, vecchia e trista...

Sposarsi a Settimo

Il primo matrimonio celebrato a Settimo di cui si dispone di documentazione risale a cinquecento anni fa e riguarda due famiglie di Settimo che in modo o nell’altro hanno attraversato tutta la storia della comunità, giungendo fi no ai nostri giorni. Lo sposo è Battista Zovato detto Toffolo fi glio di Zuan Pietro Zovato e nipote di Daniel Toffolo fon-datore della chiesa di S. Giovanni Battista. La sposa è Venera, fi glia di Antonio Vinitian (Venezian), altra famiglia rimasta attaccata alla terra di Settimo per più di mezzo millen-nio. A quel tempo erano due famiglie di piccoli proprietari terrieri con poderi e fabbricati che permettevano loro di avere introiti discreti se equiparati a quelli di altri proprietari e massari. Era un matrimonio fra famiglie che a Settimo contavano qualcosa. Questo fatto è confermato dalla presenza di un intermediario, detto anche missete, che svolgeva questo ruolo per mestiere, al quale ci si rivolgeva solo quando nei matrimoni le questioni patri-moniali erano predominanti rispetto agli affetti personali.

Il documento pervenutoci è comune nei matrimoni di un tempo, si tratta dell’inventa-rio del corredo della sposa, parte importante della dote, la quale doveva rimanere distinta dai beni dello sposo e poteva essere assegnata in eredità solo ai fi gli. Nel caso di morte prematura della sposa in mancanza di eredi la dote ritornava al padre. Perciò nel momento del matrimonio si redigeva un inventario minuzioso del corredo che veniva consegnato dal padre della sposa al futuro genero. Questa lista, compilata da persone competenti nella stima dei beni, era registrata da un notaio.

Il documento, datato 20 novembre 1504, inizia così: sia noto chomo ser Antonio Vi-nitian fa notar tuto quello lui da per nome de dote a so fi ola, Venera la qual da per mojer a Batista fi ol de Zuan Piero de Daniel de Tofol72. Sta a signifi care che il padre della sposa rende pubblicamente noto che ha fatto annotare la lista del vestiario dato in dote alla fi -glia, da lui stesso concessa in moglie a Battista Zovato detto Toffolo. A questo preambolo segue la lista:

72 AS. Tv, Ar. Not. Io s., b. 387.

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et prima un per de lenzuoli estimadi ................................................... £ .12 s 10item 2 per de lenzuoli de braza 25 de tela el par est ........................... £ ........ 25item 2 varnazi de lo raso di pianula est. .............................................. £ .......... 9item 1 varnaza negra stimata. ............................................................. £ .......... 3item un chamexot negro ....................................................................... £ ........ 10item un chamexot biancho ................................................................... £ .......... 2item un chamexot biancho ................................................................... £ .......... 2item un pignulado stimado .................................................................. £ ........ 15item una traversa stimada ................................................................... £ .......... 5item una varnaza de stopa frusta ......................................................... £ .......... 2item 2 par de tovarteli stimadi ............................................................. £ .......... 5item 2 chamexi de lin stimadi .............................................................. £ .......... 5item 10 chamexi de stopa stimadi ........................................................ £ ........ 18item 2 chamexi frusti stimadi ............................................................... £ .......... 2item 3 para de manigi, uno de garza biancha, l’altro de piagnuola,la terza de brun .................................................................................... £ .......... 6item 5 lenzoleti de lin e de bombaso estimadi ..................................... £ .......... 7item 1 lenzolet de lin estimato ............................................................. £ .......... 1item 5 fazuoli de lin estimadi ............................................................... £ ..... 2.10item 2 fustagani estimadi ..................................................................... £ ..... 0.14item 8 fazuoleti de lin estimati ............................................................. £ .......... 2item 3 tovaioli lavoradi ........................................................................ £ ..... 1.10item un par de manigi col busto .......................................................... £ ..... 0.15item 9 fazuoleti .................................................................................... £ ....... 2.1item 9 fazuoleti .................................................................................... £ .......... 1item 3 fazuoleti de bombaxo ................................................................ £ ....... 2.1item 2 di stopa stimadi ......................................................................... £ .......... 4

Annotando i quattro responsabili delle stime, due di fi ducia per ognuna delle parti (Zanet Vixentin da Septimo e Antonio de Menego da Sesto per Baptista e mastro Natale Sartor e Zuan di Bortolus da Setimo per Antonio Vinizian), alla fi ne dell’atto si precisa che ser Antonio Vinizian se obliga a dare a Venera so fi ola un leto colla coltra chavazal et un par de cusini (era consuetudine il letto fosse fornito dal padre della sposa), una go-nela furnida e un vistido de bisso. Il documento terminava indicando i tre testimoni che abitavano a Settimo (Jacubus Machor de la macha et Isach de la Macha e Lenardo de Chimenti) e Agnolo de Minighin da Cinto l’intermediario del matrimonio.

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Nel corso del Seicento altri documenti simili a questo, che riguardano gli abitanti di Settimo, si possono trovare negli atti dei notai, ad esempio quelli che riguardano le sorelle Paula e Justina Bravin73, ma non sono molto diversi da quello riportato sopra.

Più singolare è il contratto di matrimonio redatto il 17 gennaro 170574 fra il padre di Lugrezia Mutto di Settimo e Ottavio Amadio di Cinto. Nel testo si mette in rilievo che bramando l’Amadio congiungersi in matrimonio con donna Lugrezia chiede al padre dell’amata che voglia compiacersi di dar sua fi glia per legittima sua sposa e Gio Batta Mutto volendo compiacere alle richieste e brame di Ottavio, fa solenne promessa di dar per sua legittima sposa la fi glia Lugrezia con impegno di far seguir li sponsali secondo quanto è prescritto dalla Santa Chiesa. Per la dote, il padre della sposa mette le mani avanti, dichiarando che sarà confacente congrua e suffi ciente rispetto alle sue forze et al suo stato e che lo sposo dovrà contentarsi e non pretendere altro oltre a quello che lui potrà offrire. Il Muto esige che comunque dopo il matrimonio sia mantenuta essa dote giusto al prescritto della legge della Patria e che debba essergli ritornata se Lugrezia morirà senza aver avuto fi gli.

Dall’impostazione del documento viene da pensare che Lugrezia era una gran bella don-na oppure disponeva di altre particolari virtù, per permettere a suo padre, piccolo e “meschi-no” contadino, di ostentare un atteggiamento così deciso e distaccato nei confronti di OttavioAmadio, persona di un certo rango nella gerarchia sociale della Cinto di quel tempo. Ottavio era fi glio di Gian Francesco Amadio, discendente di una famiglia di mercanti veneziani, e di Nida Altan fi glia di Ottavio conte di Salvarolo. L’Amadio, a quell’epoca quarantacinquenne,viveva con il fratello Alvise e nipoti, nella casa dominicale situata nel Bosco del Forestier75.Lo sposo per dare prova del suo affetto sottoscrive una dichiarazione singolare:

E perchè detta sposa maggiormente conosca l’affetto che li porta [Ottavio] pro-mette e s’obliga inanzi di sposarla e anco inanzi di darli la mano di licentiar et a’ mandar fuori di casa donna Venere Brini che hora s’atrova in sua casa, et abbandonar assolutamente la pratica di quella con absentarla lontana dogni so-

73 I due inventari sono stati pubblicati nel libro: M. De Vecchi,“Cronache di vita agreste”, Comune di Cinto C. 2003, pag. 13.74 AS. Tv, Ar. Not. Io s., b. 2927.75 Nella dichiarazione dei redditi ai Savi delle Decime di Venezia nel 1661 Gian Francesco Amadio, che si pre-senta come cittadino di Venezia abitante a Cinto, afferma possedere Campi cinquanta in circa parte A. P. V. et parte prativi con casa domenicale, cortivo, horto e brolo il tutto nel Comun del Bosco del Forestier, quali quali come lui disse fa lavorar in casa. (As Ve, Savi alle Decime, r 462, Catastico Friuli) Inoltre affi ttavano terreni di altri possidenti quali i Tiepolo che facevano lavorare e altre rendite pervenivano da alcuni alcuni negozi che avevano a Venezia.

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spetto perchè più sempre resti confermata cintata et eletta la fede matrimoniale a consolatione d’essa sposa, delli parenti della stessa, et a gloria del signore, seguendo in questo i precetti di Santa Madre Chiesa.

Se era comune nelle famiglie altolocate avere una convivenza prematrimoniale con qualcuna delle donne di servizio era meno usuale che un fatto come questo venisse rimar-cato ed abiurato in un contratto di matrimonio. In questo caso il documento fa riferimento ad una donna ben conosciuta anche fuori dalle mura di casa. Situazione non facilmente accettabile per chi è in procinto di diventare sposa e nemmeno per la famiglia, che, seppur di modeste condizioni, era di buoni principi morali. Perciò lo sposo fu costretto a pro-mettere solennemente che d’ora in poi sarebbe stata sua cura evitare qualsiasi licenzioso connubio.

Tale dichiarazione, di così rilevante ossequio nei confronti di Lucretia e dei precetti di Santa Madre Chiesa, non è suffi ciente per ottenere il consenso di Gio Batta Mutto, il pa-dre della sposa desidera anche un particolare impegno di Ottavio verso la famiglia Ama-dio, presumibilmente non molto favorevole al matrimonio con Lugrezia. Dovrà lo sposo inanzi che resti celebrato matrimonio fare in modo che resti quetato l’anemo da tutti li sua di casa, cioè dal signor suo fratello nepotti et altri parenti acciò che sempre abbino tutti a trattar con buona corrispondenza da veri parenti. In breve, la famiglia Mutto non voleva subire torti ed umiliazioni ma essere trattata con le giusta considerazione come è consuetudine fra congiunti.

Fa piacere vedere che un piccolo contadino di Settimo, attraverso un comune contrat-to di matrimonio, possa imporre con perentorietà precise regole di comportamento e di rispetto ad una famiglia di origine veneziana, imparentata con gli Altan, e “di casa” con gli Sbrojavacca e i Tiepolo. Questo documento dimostra che nemmeno a quel tempo il potere dei soldi poteva sempre aver ragione della dignità delle persone: chi disponeva di buoni principi e di qualche “grazia” poteva tener testa anche ai “siori”.

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Alcune note sul secolo XIX

Dopo la morte dell’ultimo patriarca del Friuli, nel 1762, il territorio giurisdizionale di San Vito in generale, ma più particolarmente Settimo, subirono inevitabili modifi che amministrative. Già prima dell’invasione napoleonica era in atto negli enti preposti dalla Serenissima una nuova organizzazione amministrativa, in cui Settimo si trovava inserita nella Comunità-Mandamento76 di Cinto.

Nel 1797, durante la prima occupazione da parte delle armate napoleoniche77, il vil-laggio di Settimo ebbe l’avventura, per la prima volta nella sua storia, di venire accorpato alla Municipalità di Sesto.

L’esperienza durò solo pochi mesi e quale unico segno tangibile di quel periodo rima-se la costruzione della strada postale che da Latisana portava a Motta, passando per Sesto e Marignana, e Settimo, dove, svoltando a destra, si inoltrava verso il Melon78.

La Postale fu costruita in regime militare, senza tener conto delle terre confi nanti, sifurono tagliati tutti gli alberi antistanti le rive, gelsi inclusi, si rovinarono gli argini dei campi attigui, giungendo a demolire parte delle case adiecenti. La costruzione della strada divenne l’emblema di quei fatidici mesi di sconvolgimento e di soppraffazione militare, esperienza che non permise agli abitanti di apprezzare le qualità della democrazia.

Settimo, dopo questa esperienza, si troverà defi nitivamente unito a Cinto. Un ultimo sussulto d’autonomia si ebbe dal 1806 al 1808, quando, con la nuova occupazione delle armate napoleoniche e la costituzione del Regno d’Italia, gli abitanti di Settimo poterono nuovamente dichiararsi una comunità a se stante. Per la prima volta fu aperto un uffi cio anagrafe dove l’uffi ciale di Stato civile (Antonio Battiston che non sa scrivere) con l’aiuto di un segretario (Eugenio Pedrinelli) redasse 31 atti di nascita, 11 atti di morte e 9 atti di matrimonio con relative pubblicazioni79.

Nel 1810 il territorio di Settimo assieme a quello di Cinto fu per la prima volta cat-tasticato nel senso che fu redatta una mappa topografi ca. Il territorio era suddiviso in piccolissime frazioni, numerate progressivamente nel Sommarione (libro censuario), ogni

76 Così si legge in un censimento promosso dalla Serenissima Signoria nel 1790 in cui si contava1010 abitanti: Comunità della Contadinanza e Patria del Friuli di là del Tagliamento. Comunità - Mandamento Cinto, Settimo, Bando Scudelle, Bosco di San Biagio, Bosco del Forastier, Ronche con Jesuati (...). AS Ve, Deputati Aggiunti b. 210.77 Già da me ampiamente trattato nel capitolo Libertà ed egualianza nel libro Il Centesimo di Napoleone, Comu-ne e Pro loco di Cinto Caomaggiore, Spoleto 2005.78 Da un censimento delle strade di Cinto del 1809: la strada Postale parte da Marignana e conduce a Basedo, lasua lunghezza è di 1160 piedi e larga circa 18. Era già allora in stato mediocre. AS Tv, Preffettura I°s., b. 867. 79 As Ve, Stato Civile della Provincia di Venezia Registro n. 688. Tali atti sono stati da me sinteticamente pubbli-cati nel fascicolo Alle origini della Municipalità di Cinto, Archivio della Memoria Cintese 2004. Nel 1809 invece l’uffi cio anagrafe fu centralizzato a Cinto.

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numero era seguito il nome del possessore, da indicazioni sulla qualità e l’estensione dei terreni misurata in pertiche censuarie (1/10 di ettaro).

Questo documento è fondamentale per chi oggi vuole oggi avere un quadro esatto degli insediamenti e delle proprietà di quell’epoca, però allora non fu redatto con questo intento ma per poter aumentare le entrate erariali.

La nuova politica tributaria, che non rispettava più i privilegi dei nobili, spinse i Sagre-do a vendere le proprietà che detenevano a Settimo. Ne approfi ttò il conduttore Giovanni Battista Sartori di Sacile per acquistare i fondi ad un prezzo vantaggioso. D’altro canto i Sartori, avendo aderito ai nuovi ideali democratici (assunse l’incarico di podestà di Sa-cile), sapeva come mettere a buon frutto anche in tempi di subbuglio i suoi interessi. Da allora un ramo della famiglia Sartori si trasferì a Settimo e ne divenne residente stabile.

Dal 1871 al 1979, dopo l’unifi cazione nazionale, troviamo quale sindaco di Cinto Giuseppe Sartori, primo sindaco del paese residente a Settimo.

Durante il suo mandato, la sede del Comune fu spostata provvisoriamente a Settimo, dove venne ripristinato l’uffi cio di stato civile: il primo documento registrato in comune è datato 7 settembre 1871 e riguarda un atto di nascita (Luigi Bagnariol di Settimo).

Allora, il consiglio comunale era formato da 15 consiglieri, eletti solo da quella pic-cola parte di popolazione maschile che aveva diritto di voto in base all’entità dei contributi corrisposti all’erario. A Cinto, alle elezioni del 1875, che confermarono sindaco GiuseppeSartori, gli iscritti erano 110 ma esercitarono il voto solo 68 di loro.

È un periodo molto importante per il comune di Cinto, da un lato si registra un note-vole incremento della popolazione (in soli undici anni la popolazione del paese aumenterà di quasi 300 abitanti, passando in undici anni da 1619 (anno 1868) a 1907 (anno 1879); dall’altro una complessa fase economica favorirà un fenomeno positivo d’emigrazione-immigrazione che interesserà una parte considerevole della popolazione (si contarono 622 emigranti a fronte di 687 immigrati).

C’è infi ne da segnalare, nei primi anni del ’900, la costituzione a Settimo di una Societa Operaia Cattolica dedicata a S. Antonio Abate, che nel corso del 1913 contava più di settanta soci, in gran parte giovani ed emigranti80. Disponeva di un vessillo e ogni anno i soci si riunivano il giorno del santo per dibattere e festeggiare. Si tratta della prima associazione di mutuo soccorso presente nel nostro paese.

80 Periodico diocesano La Concordia del 26/1/1913.

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Settimo: incrocio del Cesiol e Borgo S. GiovanniI possidenti secondo il Sommarione Napoleonico del 1810

Numero Toponimo Qualita dei terreni Superfi cie Possidenticatastale o tipo di fabbricato in pertiche

censuarie15 Alla chiesa Casa di legno da Massaro 0.03 Cappellania di S.Giobatta in Settimo25 Casale Prato 2.74 Zorzi Giovanni fu Pietro26 Casale Aratorio 2.94 Zorzi Giovanni fu Pietro27 Casale Aratorio vitato 3.48 Marassi Antonia vedova Piceni28 Casale Casa da massaro con corte 1.76 Chiesa S.Giobatta in Settimo29 Casale Orto 0.10 Chiesa S.Giobatta in Settimo30 Casale Casa da massaro con corte 0.64 Chiesa S.Giobatta in Settimo31 Casale Orto 0.59 Chiesa S.Giobatta in Settimo33 Casale Casa dirocata 0.12 Zorzi Giovanni fu Pietro34 Casale Casa da massaro con corte 0.80 Zorzi Giovanni fu Pietro35 Casale aratorio vitato 3.50 Zorzi Giovanni fu Pietro38 Casale Prato 0.50 Linzini Luigi fu Giacomo60 Casale Aratorio 2.07 Marzinotto Francesca fu Antonio ved. Salvador 63 Casale Casa da massaro e corte 0.04 Marzinotto Osvaldo fu Pellegrino65 Casale Casa con corte di propria abitazione 0.31 Venezian Osvaldo fuAntonio67 Casale Orto 0.80 Sartori Giobatta fu Pietro68 Pragrasso Casa da massaro con corte 1.87 Sartori Giobatta fu Pietro71 Casale Casa con corte di pr.a abitazione 0.45 Venezian Daniele fu Giuseppe73 Casale Pascolo con moroni 0.04 Venezian Domenico fu Antonio74 Casale Aratorio vitato con moroni 0.61 Venezian Domenico fu Antonio75 Casale Aratorio con moroni 0.77 Venezian Daniele fu Giuseppe82 Pra grasso Orto 1.29 Sartori Giobatta fu Pietro83 Casale Orto 0.58 Favela Francesco84 Casale Casa di propria abitazione con corte 0.22 Favela Francesco 85 Casale Orto 0.51 Chiesa S.Giobatta in Settimo86 Casale Casa con corte da massaro 0.78 Chiesa S.Giobatta in Settimo88 Centolini Aratorio vitato 25.45 Marassi Antonia vedova Piceni191 Comugna Pascolo 1.79 Comune di Settimo aggregato a Cinto192 Comugna Pascolo 11.58 Comune di Settimo aggregato a Cinto

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Centro Settimo I possidenti secondo il Sommarione Napoleonico del 1810

Numero Toponimo Qualita dei terreni Superfi cie Possidenticatastale o tipo di fabbricato in pertiche

censuarie3 Casale Prato 0.51 Cremon Luigi fu Pietro4 Casale Aratorio vitato con moroni 24.65 Cremon Luigi fu Pietro5 Casale Casa diroccata 0.05 Battiston Pasquale fu Osvaldo 6 Casale Pascolo con moroni 0:31 Battiston Pasquale fu Osvaldo7 Casale Casa da massaro con corte 0.88 Sartori Giobatta fu Pietro8 Casale Aratorio vitato con moroni 2.80 Sartori Giobatta fu Pietro12 Casale Orto 0.25 Cappellania di S.Giobatta in Settimo14 Casale Casa con corte di propria abitazione 1.16 Cappellania di S.Giobatta in Settimo Goduto da Gio Batta Dini prete16 Piazzetta Pascolo con moroni 0.96 Sartori Giobatta fu PietroA B Chiesa S.Giobatta e Cimiterio 0.61 17 Casale Casa da massaro con corte 0.40 Chiesa S.Giobatta in Settimo18 Casale Casa da massaro con corte 1.29 Linzini Luigi fu Giacomo19 Casale Zerbo 0.05 Linzini Luigi fu Giacomo21 Casale Pascolo con piante dolci 0.81 Linzini Luigi fu Giacomo32 Casale Casa da massaro di legno 0.10 Zorzi Giovanni fu Pietro46 Casale Pascolo con moroni 0.66 Marzinotto Francesca fu Antonio ved. Salvador47 Casale Orto 0.55 Marzinotto Angelo fu Andrea48 Casale Casa di propria abitazione 0.07 Marzinotto Francesca fu Antonio ved. Salvador49 Casale Casa con corte ad uso di osteria 0.44 Sgardua Francesco fu Antonio50 Casale Casa da massaro con corte 0.57 Cremon Alvise fu Pietro53 Prato Aratorio con moroni 5.76 Sartori Giobatta fu Pietro60 Casale Aratorio 2.07 Marzinotto Francesca fu Antonio ved. Salvador61 Casale Casa da massaro 0.04 Marzinotto Osvaldo fu Pellegrino63 Casale Corte ad uso promiscuo 0.53 Marzinotto e Francesco e Giovanni 339 Alla chiesa di Settimo Orto 0.85 Cremon Luigi fu Pietro340 Alla chiesa di Settimo Orto 0.24 Salvador Domenico fu Giacomo341 Alla chiesa di Settimo Casa da massaro con corte 1.24 Cremon Luigi fu Pietro342 Alla chiesa di Settimo Zerbo 0.56 Pinali Giovanni fu Antonio344 Alla chiesa di Settimo Casa di proprio uso 0.04 Chiesa S.Giobatta in Settimo345 Alla chiesa di Set. Casa da massaro con corte 0.68 Salvador Domenico fu Giacomo Livellario Chiesa S. Gio Batta di Settimo347 Alla chiesa Ripa boscata dolce 0.16 Pedrinelli Gasparo fu Francesco348 Alla chiesa Pascolo con moroni 1.26 Pedrinelli Gasparo fu Francesco349 Alla chiesa Andito ad uso promiscuo 0.68 Cestari Sebastiano e Pedrinelli Francesco 350 Alla chiesa Casa da massaro 0.05 Cestari Sebastiano 351 Alla chiesa Orto 0.31 Cestari Sebastiano 352 Alla chiesa Orto 0.37 Pedrinelli Francesco fu Giacomo353 Alla chiesa Casa ad uso di stalla 0.03 Pedrinelli Francesco fu Giacomo354 Alla chiesa Porzione di casa a pian terreno 0.05 Pedrinelli Francesco fu Giacomo di propria abitazione355 Alla chiesa Casa di propria abitazione 0.48 Pedrinelli Gasparo fu Francesco358 Alla chiesa Aratorio 1.21 Pinali Giovanni fu Antonio359 Zoccolata Casa da massaro con corte 1.39 Pinali Giovanni fu Antonio360 Zoccolata Orto 0.44 Pinali Giovanni fu Antonio382 Centolina Aratorio vitato I0.26 Pedrinelli Gasparo fu Francesco Livellario dell’Ospitale di Pordenone383 Armentaressa Aratorio con moroni 2.02 Moretti Girolamo 384 Casale Orto 0.60 Sartori Giobatta fu Pietro

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Settimo: Viale e “Castello” I possidenti secondo il Sommarione Napoleonico del 1810

Numero Toponimo Qualita dei terreni Superfi cie Possidenticatastale o tipo di fabbricato in pertiche

censuarie375 Casale Orto 0.88 Zovatto Giobatta fu Giacomo376 Casale Casa di propria abitazione 0.02 Zovatto Giobatta fu Giacomo377 Casale Casa da massaro 0.05 Pedrinelli Veronica di Gaspardo ved. Zovatto 378 Casale Casa con corte da massaro 0.29 Galegana Maria fu Antonio ved. Zovato 388 Viale Aratorio con moroni 5.24 Sartori Giobatta fu Pietro389 Viale Orto 1.56 Sartori Giobatta fu Pietro391 Viale Casa di villeggiatura con corte 3.43 Sartori Giobatta fu Pietro392 Viale Casa da massaro 0.24 Sartori Giobatta fu Pietro395 Viale Pascolo 4.45 Sartori Giobatta fu Pietro396 Viale Aratorio vitato 10.21 Sartori Giobatta fu Pietro397 File Pascolo boscato forte 6.71 Sartori Giobatta fu Pietro405 Campagnolo Aratorio vitato 27.43 Sartori Giobatta fu Pietro428 Di sopra Casa con corte da massaro 1.21 Sartori Giobatta fu Pietro430 Di sopra Casa di legno da massaro 0.29 Sartori Giobatta fu Pietro432 Di sopra Casa di propria abitazione 0.08 Cremon Antonio fu Marco433 Di sopra Casa di propria abitazione 0.03 Cremon Vincenzo fu Marco434 Di sopra Casa di propria abitazione 0.04 Cremon Giuseppe fu Marco435 Di sopra Casa di propria abitazione 0.04 Cremon Marc’Antonio fu Marco440 Di sopra Aratorio 0.42 Cremon Giuseppe fu Marco441 Di sopra Aratorio 0.40 Cremon Marc’Antonio fu Marco442 Di sopra Aratorio 0.39 Cremon Vincenzo fu Marco443 Di sopra Aratorio 0.43 Cremon Antonio fu Marco444 Roscaledo Corte ad uso promiscuo 3.47 Cremon445 Di sopra Casa ad uso di stalla 0.04 Cremon Marc’Antonio fu Marco446 Di sopra Casa ad uso di stalla 0.04 Cremon Giuseppe fu Marco447 Di sopra Casa ad uso di stalla 0.08 Cremon Vincenzo fu Marco448 Olmera Aratorio 2.49 Cremon Marc’Antonio fu Marco453 Roscaledo Aratorio vitato 9.17 Riva Angelo fu Giovanni454 Di sopra Aratorio vitato con frutti 0.97 Riva Angelo fu Giovanni455 Olmera Aratorio vitato 1.58 Cremon Antonio fu Marco 486 Roscaledo Aratorio vitato con frutti 1.06 Marassi Antonia vedova Piceni

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Questi ricordi della sapienza contadina, sono il frutto di racconti e testimonianze di gente di Settimo, di quanti in gioventù sono stati protagonisti di uno spaccato storico che ha contrassegnato un lungo periodo della vita del paese con le tradizioni dell’epoca per-sonalmente vissute o apprese dai loro genitori che gliele hanno tramandate oralmente.

Leggere e scrivere infatti, erano doti in possesso esclusivo del pievano, dei grandi proprietari terrieri, dei loro contabili, ed in minima parte del “paron de casa”, una fi gura che si imponeva sugli altri componenti della famiglia come un secondo padrone.

Usi e costumi che hanno costituito un vero e proprio codice comportamentale delle famiglie dell’epoca interessata da questi ricordi. Regole non scritte ma rispettate da tutti, anche se a Settimo, a differenza di Cinto, erano quasi tutti proprietari o fi ttavoli, pochi i mezzadri, i Toffolon, i Fantin, i Gumiero nel dopoguerra.

La continua evoluzione, le scoperte, i cambiamenti e le riforme fatte sullo stesso calendario, l’ultima lo scorso secolo negli anni ’70/’80, che ha trasformato in giornate qualsiasi, festività religiose, veri capisaldi di riferimento, hanno infl uito sulla progressiva scomparsa del sistema interpretativo delle feste dei Santi, dei segni meteorologici, delle consuetudini e usanze anche folcloriche, dei modi di dire e di fare.

Sono stati tolti riferimenti importanti per capire come comportarsi, oggi pochi sanno interpretare le varie fasi della luna, la sua infl uenza su qualsiasi lavoro, dalla potatura della vite, al taglio della legna, alla semina dei campi che doveva essere effettuata prima dei San-ti. Ora non ci sono più regole, la storia scorre inarrestabile cambiano i tempi con una tale velocità che non si fa nemmeno in tempo a capire qualcosa che è già cambiato tutto; “sefosse qua me pare” hanno ripetuto più volte gli stessi anziani ai quali va il mio grazie per la loro disponibilità, girerebbe subito le spalle ad un mondo agricolo che non è più tale.

Con questi ricordi a più voci, abbiamo tentato di far rivivere almeno sulla carta, alcuni importanti momenti della vita contadina. Ne è nato un romanzo di vita, i cui ingredienti principali sono stati l’affetto, la solidarietà che non era un’optional come oggi, ma un vero stile di vita ed il rimpianto per un passato irripetibile fatto di miseria comune a tutti e come tale, era un mezzo gaudio.

“Se godevimo co gnente, ricordano Maria Basso, Bepi Fantin e conferma Mario Celant, in cuo gavemo tuto ma ne manca quel gnente de na volta”.

ARCHIVIO DEI RICORDI Settimo tra “prai, ciasa, cesa e curtivo”

Gian Piero Del Gallo

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Quel “gnente” era l’insieme dei valori che comprendevano amicizia, rispetto, onestà, serietà, quando la parola data era più di una fi rma apposta in calce ad un documento. Questa raccolta di ricordi di vita vissuta è stata possibile per la freschezza mentale e squisita disponibilità di Maria Basso, di Giuseppe Fantin “Bepi” e de so mujer “Bepa”Giuseppina De Gasperi, di Ugo Valvasori “Gial”, di Mario “Ciccetta” Celant e de so mujer “Gigetta de Seno” Luigia Battiston, ai quali si è aggiunta la collaborazione di Danilo Zorzi, Jolanda Nogarotto, Arnaldo Valvasori, Dorino Toffolon e famiglia, Romeo Battiston, Daniel Missana, Giuseppe Gumiero, Antonietta Furlan, Ada Sartori.

Il caldenario del Contadin

11 Novembre. San Martin, ogni mosto l’è diventà vin

Il calendario agricolo non concedeva alternative: terminava il 10 novembre ed inizia-va l’undici, il giorno di San Martino, scadenza tradizionale dei contratti e questi ricordi partono proprio da quel giorno, da sempre croce per quelle povere famiglie che venivano cacciate dalla terra, speranza di sopravvivenza invece per chi sarebbe rimasto.

Fare San Martin in quei periodi, assumeva una drammaticità autentica, palpabile. Per tutto l’anno era una spada di Damocle sospesa sulla testa del colono come un incubo ed il “varda de far pulito” era il comandamento quotidiano che gli uomini di fi ducia del “paron”impartivano al contadino. Bastava un niente, perché un’intera famiglia si fosse ritrovata sulla strada, scacciata da un padrone servito per anni con fedeltà e dedizione.

Tenere conigli a sua insaputa, procedere al taglio di qualche albero anche piccolo, magari necessario per scaldare la casa, erano considerati un grave affronto punibile con la disdetta e c’è ancora qualche anziano che ricorda i carri dei contadini, carichi di misere cose, che si fermavano lungo la strada del cimitero per riposarsi.

Per quelle famiglie che rimanevano invece, fare San Martin era un giorno di festa con il vino nuovo e le castagne portate nelle case dalle “furlane” che le barattavano con il granoturco. “Tanciu per tanciu”, tanti chili di “biava” per altrettanti di castagne.

Ma era anche il giorno in cui si facevano i conti con il padrone, gli si portavano le “onoranse”; “dindiati”, capponi, “rasse” e “vovi”; gli uomini dovevano andare da lui per spaccare la legna, le donne per fare le grandi pulizie e lavare i vetri. Poi c’erano le regalie al dottor, a la comare, al piovan. Si saldavano i debiti col “muliner” con il “casolin”, e con il “bechér”, (la prima macelleria è stata aperta da Vincenzo Bigattin nella stalla del Mulino a Cinto nel 1935) praticamente tutta l’economia paesana dipendeva da quel giorno. La vigilia di San Martin a mezzogiorno, il nuovo boer (responsabile delle bestie), prendeva possesso della stalla e la sera era a cena con il padrone per mangiare il galletto di San Martin.

Passato il periodo critico, gli animi si predisponevano alle ricorrenze soprattutto religiose in quanto erano l’unica occasione per riunirsi, conoscersi e celebrare matrimo-

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ni che per ragioni di tranquillità di lavoro, nei campi ormai gli impegni erano stati soddisfatti, si tenevano in questo periodo in quanto a San Martin se marida la fi a del contadin, sempre con il permesso del padrone in quan-to non si andava “fora de casa”senza il suo assenso perché ne avrebbe sofferto la forza lavo-rativa, cioè il numero di braccia che erano state garantite. “Noi

giovani ci recavamo alla festa della Madonna della Salute a Basedo, racconta Danilo Zorzi, per incontrare le ragazze che partecipavano numerose alla processione”. Il gruppo era composto da lui, da Enzo Liut, Benito Valvasori, Giovanni Rigo Ninuti, Amleto Gobat, Cesare Zorzi Ninetto; i sei inseparabili compagni di giochi ma anche di scherzi memora-bili che illustreremo strada facendo.

“La mia famiglia coltivava 60 ettari ed eravamo fi ttavoli di Osvaldo Mian da Fanna, più fortunati quindi dei mezzadri, ricorda Maria Basso, ed a San Martin, a volte anche dopo a seconda de come andava il tempo, ci recavamo a Fanna in bicicletta per portarghe le onoranse, rasse, capponi, la brisiola ed ogni ben di Dio e lui ci riempiva un piccolo canestro di pomùs come fossero reliquie e ce ne tornavano a Settimo con tante grazie, ma tutto sommato era un bravo cristian”.

30 Novembre. Festa di Sant’Andrea

A Settimo è sopravvissuta fi no agli anni ’60, negli ultimi anni di don Duilio Rambal-dini, l’antica usanza del porsel” di Sant’Antonio o porsel de le anime. Una volta era il parroco che provvedeva a farlo “copar”proprio in questo giorno o subito dopo, a seconda del tempo; fatti gli insaccati di rito, ma della bestia non si buttava nulla nemmeno il pel, una parte del suo grasso veniva conservata e dopo una benedizione particolare, serviva per la cura del “fogo di Sant’Antonio”. Dal dopoguerra invece il porsel costituiva il primo premio di una lotteria il cui ricavato andava per le opere parrocchiali, a discrezione del parroco.

Da alcuni ricordi fu proprio don Duilio che, benedetto il maialino, lo liberò per la strada in gennaio, il giorno di Sant’Antonio. La bestiola girava casa per casa, da qui è nato il detto “te son come el porsel de Sant’Antonio” riferito a chi va sempre in giro, e la gen-te aveva l’obbligo di nutrirlo senza disturbarlo. Per una strana conoscenza geografi ca, il maialino non usciva mai dai confi ni stabiliti dai due capitelli: quello di San Floriano, (una

Giuseppe Gumiero davanti casa.

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volta San Michele) posto all’ingresso di via Udine all’incrocio con viale Pordenone e quel-lo dedicato alla Madonna del Rosario situato all’uscita del paese nella terra dei Celant.

Entrambi i capitelli sono stati abbattuti nel 1953 per l’ampliamento della strada. In cambio, la Parrocchia di San Giovanni Battista ebbe, dall’allora sindaco Angelo Furlan,il fabbricato delle vecchie scuole, l’attuale oratorio, che venne restaurato da GiuseppeFantin, Augusto Celant, Abele Liut, Piero Infanti, Enrico Vidal, Umberto Furlan “Pin”ed altri di cui non sono stati trovati i nomi, mentre i serramenti, pagati dal comune, furono opera di Enrico Morettin.

Ma a Sant’Andrea si uccidevano più “rasse” che oche, queste ultime dopo averle “imbocconae” con grani di biava messi a mollo nell’acqua perché potessero scivolare meglio nel “cantarel”. L’anatra era un altro animale da cortile destinato più alle onoran-ze padronali che alla sopravvivenza invernale della famiglia che poteva contare solo sul maiale per sfamare l’esercito dei “fi oi”. Quando le cose cambiarono, ed anche il contadi-no riuscì ad alzare la testa, qualche oca rimaneva nella dispensa di famiglia e dopo averla uccisa e sezionata, le carni venivano cotte e conservate sotto il loro stesso grasso.

Ma questo era soprattutto il periodo del “pursiter”, che giustifi cava l’assenza da scuola per quel giorno, dello “stamp de i salami”; ciò consisteva nel mandare il più ingenuo a casa di un vicino in precedenza avvisato, per prelevare l’arnese e il povero si ritrovava a portare quattro pesanti mattoni chiusi in un sacco, suscitando l’ilarità dei presenti: “Svejabaucchi”gli dicevano. All’epoca era norcino Ugelmo Fantin che passò il testimone a Giovanni Sartori per anni rimasto il “Pursiter” per eccellenza, richiesto da tutte le famiglie di Settimo. Il suo impegno iniziava poco dopo San Martin e si concludeva nei giorni che precedevano la Settimana Santa. Anche Giuseppe Anese “Bepi” ha avuto un ruolo importante nella norcineria settimina, ricercato per quel suo saper fare simpatico e comunicativo, molto spesso sanguigno, una dote che l’ha portato a confrontarsi senza ti-more in indimenticabili scontri con i blasonati “capoccioni”di palazzo, ricoprendo inoltre la carica di presidente della latteria che ha saputo rivestire con capacità e maestria.

2 Dicembre. Santa Bibiana

Giorno indicatore per eccellenza della meteorologia contadina perché “se piove aSanta Bibiana piove quaranta dì ed una settimana”, viceversa se fa bel tempo.

Inizia la famosa “quarantìa” (40 giorni) di Santa Bibiana che termina il 12 gennaio, ma può durare anche fi no al 20. Festeggiata la Madonna Immacolata dell’8 dicembre, ecco al 13 Santa Lucia, protettrice della vista. Insieme a San Nicola in alcune famiglie, era affi dato ai due Santi il compito di portare qualche regalo ai bambini che dovevano però andare a letto presto e dormire per non rischiare di ricevere la sabbia negli occhi. La mattina dopo ai più bravi, un’arancia, qualche mandarino, “carobole e stracaganase”.

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24 Dicembre. La Vigilia, se magna de magro (come sempre)

Per eccellenza il giorno più importante per la religiosità della gente cattolica in gene-rale, ma particolarmente più sentita da quella semplice dei campi che aveva l’usanza di procurarsi un grosso ceppo detto appunto “nadalin”, preparato per tempo, che una volta messo sul focolare doveva ardere dalla sera della vigilia fi no a tutto il giorno di Natale.

Nella famiglia Toffolon è ancora viva l’usanza di riservare una parte del ceppo con le cui “bronse” accendere la Casera del 5 gennaio. Sulla tavola della vigilia, rigorosamente rispettata da tutti, “bigui co ’e sardee”, fagioli con aglio e prezzemolo, polenta tanta e baccalà poco, e si aspettava la mezzanotte bevendo vin brulè, giocando a carte nella stalla, l’unico locale riscaldato a dovere, da dove poi si partiva in gruppo per andare alla SantaMessa durante la quale si consolidava sempre più l’attaccamento alla religione ed alle tradi-zioni e tutto veniva fatto in funzione di Qualcuno o qualcosa che, al di sopra di tutti, avrebbe potuto dare quella protezione e quell’aiuto che in terra al “poro can” nessuno avrebbe dato anzi “chi che nasse desgrasià, ghe pioverà sempre sul cul anca a star sentà”. Si cantavano le nenie natalizie davanti al Presepe o all’albero di Natale, imbastito alla meglio su un “canton” della cucina, e si guardava al domani con maggior fi ducia.

“Era molto più freddo di oggi, l’unica fonte di calore proveniva dalla stalla e dal fo-gher quando c’era legna da ardere, ricorda Bepi Fantin, non c’era abbondanza di nulla anzi tutt’altro, ma la vita a quei tempi era contrassegnata da momenti così intensi di signifi cato che, per chi come me li ha vissuti, la trasformazione non è riuscita a cancellare. Oggi non manca nulla, ma le parole sono superfl ue, non c’è più dialogo se non attraverso le macchi-ne, i computer, i giovani corrono, i vecchi ansimano, le nonne non possono più raccontare le favole, sono tramontate anche loro, sostituite da un pulsante su un computer. L’anziano oggi è un peso, una volta era lo scrigno del sapere, della conoscenza, di vita vissuta”.

25 Dicembre. Natale

Una giornata che si trascorreva in casa, ognuno con la propria famiglia con il detto “Natale con i tuoi Pasqua con chi vuoi”. Le visite ad amici e parenti erano rimandate al giorno dopo, quello di Santo Stefano. I più piccoli si alzavano presto perché la nascita di Gesù Bambino signifi cava qualche piccola strenna, sempre poche cose, ma in una miseria stabile anche la possibilità di sbucciare e mangiare un mandarino poteva signifi care un momento di particolare gioia. “Ci accontentavamo di poco, ricorda Maria Basso, anche perché era poco per tutti”.

Ultimo e primo giorno dell’anno. Notte di San Silvestro

Solo i grandi rimanevano alzati almeno fi no a mezzanotte, si ritrovavano nelle stalle più spaziose, giocavano alle carte, a tombola, bevevano vino e mangiavano qualche frutta

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secca in attesa dell’arrivo dell’anno nuovo. I piccoli a letto presto perché sarebbe passato “l’oselut” dispensatore di regali che, anche se sempre magri oltre che uguali, avevano il sapore di un premio per i più bravi: i soliti bagigi, stracaganasse, carobole, fi chi secchi, e soprattutto mandarini, perché essendo più piccoli delle arance si accontentavano più bambini. La mattina del primo gennaio, di solito un freddo terribile, si andava per le case ad augurar buon anno. I più ardimentosi lo cantavano: “Sen vignui agurar bon anno, mile anni de felicità, prima al capo dea fameja e po’ a tutta la società”. Una fortuna ricevere qualche centesimo, il più delle volte le solite stracaganasse, carobole, qualche fetta di un dolce povero fatto in casa, cucinato sotto le “bronse” del fogher o nel forno dello “spo-ler”; la stufa economica che rivoluzionò il “riscaldamento” della cucina, non era ancora giunta a Settimo, vi arriverà dopo gli anni trenta. Era considerato un anno sfortunato se i primi auguri era una donna a porgerli, ecco perchè evitavano di uscire di casa.

Le “calendre” di gennaio, è il periodo compreso dall’1 al 24 ed i giorni venivano detti “endegari” indicatori del tempo per tutto l’anno. La prima fase “calante”termina il 12 con la quarantìa di Santa Bibiana ( 2 dicembre) ed il 13 inizia il periodo “crescente”. E qui servirebbe un altro libro per spiegare le interpretazioni della meteorologia contadi-na, con San Paolo dei segni e con Sant’Antonio che insieme a San Biagio e San Valentin,sono chiamati i Santi Forti, capaci di portare grandi nevicate e freddo intenso.

5 Gennaio. La Casera e Pasqua Epifania che tutte le feste se porta via

Si raccoglievano sterpi, legna scarta, guai toccare la buona, rovi, canne di granoturco e si faceva una catasta ammucchiando il tutto intorno ad un “pal de cassia” o di qualsiasi altro legno, (un riferimento all’antica sacra quercia che usavano i Celti, così come celtica è l’usanza della notte del 30 aprile), con una croce in cima o un fantoccio ad impersonare la “vecia”, quella miseria che le fi amme dovevano distruggere. Nel pomeriggio in chiesa il parroco procedeva alla benedizione dell’acqua, del sale e delle mele il cui consumo seguiva un rituale ben preciso: la stessa sera si usava il sale nel mangiare degli uomini ed una “presina de sal” anche in quello delle bestie in stalla. Le mele invece dovevano essere conservate fi no al 3 febbraio, giorno di San Biagio, protettore dei mali della gola e mangiate la mattina a digiuno. Se rimaneva il torsolo, non si doveva gettare per nessun motivo, ma darlo agli animali o gettarlo nel fuoco, come d’altronde si usava fare, ma lo si fa tuttora, con le immagini dei Santi.

L’acqua invece veniva messa nelle “pinele”, ai lati del letto, per segnarsi la mattina e la sera quando ci si coricava, recitando il Pater Noster picinin” seguito da l’Ave Maria che a Settimo, ma c’era qualche variante, recitava così. “Pater Noster picinin, su l’altar xè l’oselin, l’oselin el gera verto e San Piero discoverto. Varda in qua varda in là, varda quela fi nestrella, ghe xè ‘na colomba bianca e bela. Cosa la gà in beco: ‘na bronsa de

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fogo benedetto. Ne casca ’na giossa su quela piera rossa, piera rossa s’ciopetava, tuto il mondo illuminava. Illuminava Santa Maria, co’ tre angeli in compagnia, un Batista ed un Lorenzo, ch’el portava bon incenso. Aqua de mar, pomolo de l’altar, beata quell’anema che la pol imparar”.

Seguiva l’Ave Maria: “Ave Maria picinina, ricordeve a la matina, ricordeve de ben far, ricordeve el digiunar, e d’andar a la pileta per tor l’aqua benedetta, per bagnar le man e il viso, per andar in Paradiso. Paradiso è bela cosa, chi ghe va sempre riposa, a l’inferno è mala gente, chi ghe va, ghe va per sempre”.

Appena calato il sole si dava fuoco alla casera ed anche in questa occasione il rituale era un connubio tra sacro e profano; un rituale comunque che ha resistito nel tempo e viene ancor oggi seguito e rispettato quasi integralmente dalla Famiglia Toffolon Dorino,e dal fratello Felice quando era ancora in vita, autentici Templari di questa tradizione.

Il più anziano aspergeva di acqua benedetta il cumulo di legna, mentre il più giovane provvedeva ad appiccare il fuoco, prelevato dal “nadalin” il ceppo conservato in parte a la “mare del fogo” e mentre le fi amme si levavano alte, i presenti usavano emettere le “ucciade”, grida che avrebbero avuto il potere, secondo la credenza, di scacciare tutti quei problemi che avevano resistito ai “botti col carburo” dell’ultimo dell’anno. Da una parte le donne recitavano preghiere e litanie, mentre gli uomini davanti al fuoco lanciavano in aria con la forca le canne ridotte ormai a “bronse” “sigando”: “tanta ua, tanti fasioi, tanto frumento, tanta polenta tanta galeta e pan e vin, tanti morosi per ed aggiungevano il nome della bella di turno”. I più anziani osservavano la direzione che prendeva il fumo ed emettevano con aria solenne le loro previsioni: “se il fum el va in marina t’impinisse el graner de farina, ma se va al Garbin…” qui si fermavano sospirando ed aggiungendo sottovoce, “tempesta sicura”.

Le donne della famiglia Toffolon, riportavano una parte delle “bronse dea Casera sulfogher” perché avrebbero portato fortuna per le prime covate delle “coche”. Si mangia-va pinsa, il dolce povero per eccellenza, fatto con la farina della polenta e qualche “fi go e gran de ua” che i “scrunciava” sotto i denti, si beveva vin brulè e qualche “bicer de graspa de fosso”. La mattina presto gli anziani giravano nei campi e usavano benedire le capezzagne con un “scovet” bagnato con l’acqua benedetta il giorno prima, recitando una breve preghiera che avrebbe favorito il raccolto, in quanto sotto la coltre di neve, a quei tempi “nevegava ben” ricorda Maria Basso, riposava il frumento ed il granoturco.

17 Gennaio. Sant’Antonio del porsel e de la barba bianca se no nevega poco ghe manca

“Festa granda, ricorda Danilo Zorzi, se non c’era brutto tempo, noi che se abitavavicino alla chiesa, se portava fora le bestie per la benedizione, e chi abitea lontan da la ciesa, portava “na branca de fi en” che poi dea da magnar a la bovaria in stala”. Il parro-

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co impartiva la benedizione anche al maialino che veniva poi liberato per le strade, come abbiamo già ricordato il 30 novembre, giorno di Sant’Andrea. Nel suo girovagare, aveva però uno o due luoghi dove trascorrere la notte. Uno viene ricordato da Bepi Fantin, tra il muretto e la siepe della famiglia Sartori, a pochi metri dalla chiesa.

21 Gennaio. Sant’Agnese de le putele

Era la festa delle giovani ragazze che in questo giorno si ritrovavano in chiesa per chiedere alla Santa protezione ed aiuto nel trovare un buon partito. A Settimo era una giornata di festa particolarmente rispettata e non era diffi cile avere una bella giornata tan-to che insieme a San Sebastiano il 20 e Sant’Agnese il 21, si diceva “la piccola estate dei Santi freddi”, per ritornare subito il giorno dopo con San Vincenzo della gran freddura.

25 Gennaio. San Paolo dei segni, San Pauli scur, pan e vin sigur

Questo giorno era particolarmente tenuto in considerazione in quanto il tempo di San Paolo chiamato appunto de i segni, delle previsioni, dava le indicazioni per tutto l’anno agricolo. Ci sono solo lontani ricordi dell’antica usanza di mettere a terra dodici cipolle, una per ogni mese dell’anno, con qualche “gran de sal grosso de sora”; se si squagliava sarebbe stato un mese di pioggia, se invece il sale rimaneva asciutto un pe-riodo di bel tempo.

29/30/31 Gennaio. I giorni de la merla

“I merli i xè nel camin e i ghe resterà par un tochetin” a signifi care che questi erano i giorni “de la mèrla”, di gran freddo, e nelle serate di fi lò nella stalla le nonne raccontavano ai piccoli la leggenda a tante versioni dei merli che da bianchi diventarono neri perché per tre giorni, tanto tempo fa, non furono nemmeno in grado di volare per il gran freddo. Rimasero al riparo di un camino dal quale usciva il fumo che annerì le loro piume e da quel giorno diventarono neri.

2 Febbraio. La Madonna Candelora la zeriola

Candelora, candelora de l’inverno semo fora, ma se piove e tira vento de l’inverno semo dentro, ma se’l sol scalda le prese ghe n’avemo par un mese, però se tira un fi à de bora, co’ tre salti ’ndemo fora”. Ci si recava in chiesa a prendere la candele benedette che venivano appese ai lati del letto, sopra le “pinele”per scacciare le malattie e favorire una morte dolce. Venivano accese in occasione dei brutti temporali estivi di una volta per esor-

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cizzarli, ed in quelli più forti si bruciava con la fi amma della “zeriola” le foglie dell’uli-vo, affi nchè non cadesse la grandine.

3 Febbraio. San Biagio.Ultimo barbon mercante di neve

La mattina a digiuno, a protezione della gola di cui San Biagio è protettore, dopo la preghiera di ringraziamento per aver supe-rato la notte, si baciava la mela benedetta la vigilia dell’Epifania, se la mangiava con devozione, ma lo si fa ancora oggi, ed in caso, peraltro molto raro, che non venisse mangiata tutta, la si portava da mangiare ai conigli o se la gettava tra le fi amme del “fo-gher”, mai gettata via. Nell’ora della messa ci si recava in chiesa dove il parroco, impar-tiva la benedizione della gola con le cande-le incrociate appoggiate sul collo, una volta erano quelle della Candelora, oggi con due grossi ceri.

11 Febbraio. Festa de la Madonna di Lourdes, Ritorno e festa degli emigranti

Settimo è stato un paese che, come tanti altri, ha conosciuto una forte emigrazione anche oltre oceano a metà del 1800; Brasile, Argentina, Venezuela, Canadà e solo nel dopoguerra Belgio, Svizzera, Francia. Nei paesi europei la maggior parte degli emigranti di Settimo erano quasi tutti stagionali, impiegati cioè nel ramo dell’edilizia e quindi con contratto a termine che scadeva ogni anno ai primi freddi, quando il cantiere edile veniva chiuso perché era impossibile lavorare e rinnovato poi per l’anno successivo.

Fino al 1966, la parrocchia ha organizzato la loro festa in questa ricorrenza della Madonna di Lourdes, poi in considerazione che molti stavano rientrando per sempre in paese, che l’economia era in continua crescita, che posti di lavoro se ne trovavano anche qua, la festa dell’emigrante è stata spostata in occasione dei Festeggiamenti di San Gio-vanni Battista a giugno.

Cave del Palù ghiacciate (si pattina).

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14 Febbraio. San Valentin metà caneva e metà fienil

Protettore del mal caduto o epilessia. Degli innamorati lo hanno fatto i commercianti In questo giorno, per invocare la protezione del Santo su questo tipo di malattia all’epoca abbastanza comune, le donne di casa facevano il pane ed un panetto lo portavano a bene-dire in chiesa, convinte che in caso di necessità avrebbe aiutato il malcapitato colpito a superare le diffi coltà. Si usava dire “San Valentin sghirlando, quaranta dì al so comando, se no venta chel dì, quaranta dì de pì”.

Carneval. Ogni scherzo val. A frisse col stec

C’era l’usanza di mascherarsi senza grandi pretese, un po’ di fuliggine, un vecchio vestito e l’atmosfera trasgressiva e magica era subito creata. I più anziani non hanno ricordi di grandi mascherate, erano gli anni della miseria e non c’era grande libertà nem-meno tra i grandi preoccupati più per procurare il mangiare per il giorno dopo che per il divertimento. A Settimo c’erano loro, gli inseparabili compagni di scherzi e burle: Lucia-no Cesco, Danilo Zorzi, Giovanni Rigo “Ninuti”, Amleto Gobat, Benito Valvasori, Enzo Liut, Cesare Zorzi “Nineto”, Antonio Berlato. Era sempre Luciano Cesco ad organizzare e condurre il carro trainato da cavalli, ricorda Danilo Zorzi, noi ci vestivano “co quattro strasse”e si andava in giro per le case cantando e suonando la fi sarmonica. A fi ne della mascherata avevamo raccolto un paio di damigiane di vino che poi se lo beveva tutti in-sieme in varie occasioni. Il giovedì grasso in casa si mangiava la gallina perché si diceva che: Se no te magna la gialina a carnaval, te la magnerà par mal.

Quaresima. Le Ceneri

Di regola digiuno e astinenza, dopo “l’abbondanza” del carnevale. Fatta la pulizia della camera con le “scoasse” portate fuori dal “confi n” perché non venissero i pidocchi, si andava in chiesa per l’imposizione delle Ceneri. La scarsità di cibo si accentuava in questo periodo, chiamando a giustifi cazione le regole religiose che imponevano il digiu-no; l’obesità dei bambini era inesistente. Solo le preghiere erano abbondanti.

Marzo. Cul al sol

Avere la pelle abbronzata era sinonimo di gente di campagna, obbligata a lavorare la terra sotto il sole, per questo le giovani donne delle famiglie contadine avevano l’usanza di chiudersi in camera, aprire la fi nestra e mostrare il “cul” al sole nascente di Marzo re-citando: Mars si, mars no, vardame el cul ma il mustas no, a signifi care che il sol avrebbe potuto abbronzare quella parte anatomica del corpo ma non il viso. “Mia zia Veronica,

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ricorda Bepi Fantin, celebrava questo vecchio rituale girando intorno all’orto di casa”. Al 19 ricorreva San Giuseppe, padre putativo del Signore, festa grande con Santa Messa cantata perché protettore per la buona morte, chi non ricorda la giaculatoria prima di cori-carsi: “Gesù, Giuseppe e Maria ve raccomando il cuore e l’anima mia”. In questo giorno la “sisila la passa il tet” mentre al 21, giorno di San Benedetto (il nuovo calendario lo festeggia però all’11 di luglio e forse per questo che le sisile no se ritrova) la rondine è già sotto il tetto per iniziare la ristrutturazione del vecchio nido e ricominciare il ciclo inarrestabile della prosecuzione della specie.

Ed iniziavano anche i lavori nella campagna, si piantavano le patate, le bietole e se il tempo lo consentiva s’iniziava con lo zappino per smuovere la terra..

Aprile. Ad april fiorisse anca el manego del badil

In questo mese la campagna era in fermento ed i lavori in grande ripresa, dimenticate le sere d’inverno trascorse a far fi lò nella stalla.

Non viene persa di vista la quaresima con relativa astinenza sempre troppo lunga, che faceva invocare l’arrivo delle feste pasquali più per colmare quel vuoto che premeva sullo stomaco che per il desiderio di riposo vero e proprio anche perché, le vacche le faceva latte anche il giorno di Pasqua quindi era necessario mungerle e governarle.

Prima della settimana Santa, iniziavano le grandi pulizie di primavera: si faceva la lissia, si lavavano a fondo i pavimenti, mobili e quant’altro. “Se lustravano le cadene del fogher, ricorda Danilo Zorzi, ma anche i pie perché se le strascinava su par la gera e no se podeva rovinar scarpe o socui per quel lavoro. Diese centesimi a cadena, venti per il capezal del fogher, oppure vovi colorai”.

Con la domenica delle Palme, inizia ancora oggi, la Settimana Santa; ci si reca-va in chiesa per l’ulivo benedetto che veniva appeso sopra l’ingresso principale della casa, ed un altro rametto, sopra l’entrata posteriore o una fi nestra perché non entrassero disgrazie. Più di qualche famiglia però, usava appenderlo sulla crocetta dell’olmo per proteggere il raccolto dalla grandine. Il lunedì iniziavano le quarant’ore di preghiera e di adorazione fi no al Gloria del Giovedì Santo, quando venivano “legate” le campane che avrebbero fatto risentire il loro suono gioioso solo il Sabato Santo, giorno della Resurre-zione di Cristo. Durante le prime tre sere della Settimana Santa, si recitava il mattutino del giorno successivo, composto da nove salmi e tre letture.

Il Venerdì Santo, dalle 15 pomeridiane, che ricordavano la morte di Gesù Cristo, ci si recava a baciare la croce deposta ai piedi dell’altare, e la sera, nel corso della Via Cru-cis, non c’era famiglia che non avesse provveduto ad illuminare fi nestre e balconi, con vasetti di creta contenenti olio e stoppino, sostituiti poi con lumini e candele, lungo tutto il tragitto coperto dalla processione. Durante la funzione religiosa in chiesa, al termine di

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ogni salmo, veniva spenta una candela ed alla conclusione della celebrazione, tutte le luci. A questo punto iniziava il concerto delle “crassole”, ma guai a cominciarlo prima che l’ul-tima candela non fosse spenta.

E qui Danilo ed i suoi compagni, mettevano in atto i dispetti. “Ci portavamo chiodi e martello e durante la confusione che noi aiutavamo a far aumentare, battendo anche gli zoccoli conto i banchi in legno, inchiodavamo i “tabari” dei più anziani e qualche volta siamo riusciti anche con gli zoccoli, quelli più consumati. Uno spasso per noi ragazzini, ma guai a farsi scoprire, erano dolori”. Il giorno dopo, Sabato Santo, il parroco benediva il fuoco e l’acqua, poi sciolte le campane al Gloria, ci si bagnava gli occhi con l’acqua benedetta a protezione della vista. “Il giorno di Pasqua, focacce e uova colorate e dopo il pranzo più ricco del solito con gallina in brodo o pollo in tecia, ricorda Danilo Zorzi, i giovani sullo spiazzo erboso del Palù,si divertivano a lanciare le uova lesse in aria, chia-mando chi avrebbe dovuto prenderle al volo”.

E si giunge al 25 Aprile, San Marco giorno in cui si usava fare la prima delle quattro rogazioni, le altre tre nei giorni precedenti l’Ascensione). Ci si recava poi sugli argini del canal, mai sui prati per non rovinare il taglio dell’erba. Frittata con il salame, oltre a for-maggio e vino ed alla prima insalatina dell’orto. Ma nei campi, al detto che ogni erba che “varda in su la g’ha la so’ virtù”, le donne raccoglievano bruscandoi, rece de lievro, ra-dicele; lessate e passate in “farsora” erano una valida alternativa ed in più facevano bene alla salute, soprattutto al “fi gà” ha sentenziato Bepi Fantin, perché lo depurava, anche se a - quei tempi non era proprio tanto “ingolfà”.

30 Aprile - 1 Maggio. La notte di Walpurga

I maghi burloni di Settimo hanno mantenuto viva questa tradizione fi no a pochi anni fa ed era, insieme a Sarone di Caneva, l’unico paese veneto dove si celebrava questo rito, considerato fastidioso dalle persone colpite per questo ancor più temuto. Anticamente que-sta era la notte, insieme a quella del 2 febbraio e del primo agosto, in cui si teneva il sabba e le streghe banchettavano in piazza con il diavolo, tra urla e grida di terrore delle vittime.

Chiaramente con il tempo gli ingredienti sono cambiati e le vittime sacrifi cali sono tutta una serie di attrezzature, fi oraie, cancelli e porte, sottratti nottetempo a quelle perso-ne che non rientravano nelle simpatie dei maghi.

Era un’organizzazione complessa, in quanto per far colpo e far credere che in qualche modo qualcosa di magico fosse realmente accaduto, quanto veniva sottratto era sempre qualcosa di grosso, voluminoso, pesante che veniva poi appeso a qualche albero, soprat-tutto al grosso “morer” di via Treviso, e l’operazione richiedeva l’uso di sollevatori, magari sottratti anche quelli. A proprie spese i legittimi proprietari avrebbero potuto ri-prendersi il maltolto, il giorno dopo 1° maggio, con relative benedizioni nei confronti de-

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gli ignoti autori. Questa festa dei burloni, era contemplata negli antichi riti con cui i Celti festeg-giavano, nella notte dei tempi, il risveglio della primavera. Come sia giunta a Settimo è un mistero che non si è riusciti mai a chiari-re. Ma questa era anche la notte dei simboli correlati a particolari “riconoscimenti”: davanti alla porta di una ragazza chiacchie-rona una foglia di aro o “lenguade vaca”; per le fanciulle facili,

una “forcada de fi en o erba medica”; per quelle smorfi ose “grassa” (letame); a quelle famiglie che tenevano le ragazze rinchiuse in casa spariva “el portel de l’orto”.

Purtroppo anche le tradizioni fi niscono per essere stravolte, qualche mago ha deviato dalle regole canoniche ed a causa di questi comportamenti è sfumato lo spirito celtico della notte di Walpurga, una notte da sogno, inserita del Faust di Goethe e da qualche anno a Settimo non viene più celebrata. Santa Walpurga era una monaca anglosassone, Badessa del monastero di Heidenheim da dove nell’871 le sue reliquie furono traslate ad Eichstadt, sede di un’abbazia a lei dedicata. In epoca cristiana, si cominciò a dedicare la notte del sor-tilegio a riti propiziatori, elevando la Santa Walpurga a protettrice contro le arti magiche.

Maggio. Se piove su la Crose, (la vigilia dell’Ascensione) bon el gran trista la nose,ma se lo fa su la Sensa, tanta paia e poca semensa

In questo periodo inizia il tempo dei “cavalieri” i bachi da seta. Se ne acquistavano le uova perché costavano meno, e le donne più “fornite”, per facilitarne la schiusa, le teneva-no al caldo nel petto, avvolte in un piccolo telo bianco. A Settimo una donna è riuscita a “covare” tre uova che l’oca aveva abbandonato un paio di giorni prima della schiusa. Si è messa in letto tenendoli al caldo, riuscendo a far nascere i tre “ochi”, suscitando l’ilarità per la trovata, ma l’ammirazione per la riuscita.

La maggior parte delle famiglie che facevano questa coltura dei bachi da seta, si ri-forniva presso la Cooperativa Agricola di Villotta, mentre i mezzadri dovevano recarsi in-vece dal “paron” che provvedeva a consegnarli loro in soccida, cioè lui metteva i bachi e la foglia, il mezzadro il lavoro, garantendosi metà del ricavato netto. La raccolta della fo-glia avveniva almeno due volte al giorno, anche per prevenire giorni di maltempo; infatti se conservata in luoghi freschi e non ventilati, resisteva almeno tre giorni. Si tagliavano i

I maghi burloni, in basso: Cesare e Danilo Zorzi, Enzo Liut.In alto: Benito Valvassori, Giovanni Rigo e Amleto Gobat.

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rami raccogliendoli in fascine che si caricavano sul carro trainato dai buoi e chi non aveva gelsi di proprietà, doveva comperare la foglia anche fuori paese, visto che ogni famiglia a quei tempi, aveva di queste colture. Per far capire l’importanza dei gelsi, basti pensare che un campo con “moreri” valeva il doppio di uno senza, considerando poi il fatto che servivano come sostegno alla vite.

L’oncia, circa trenta grammi, era l’unità di misura dei bachi ed ogni famiglia ne acquistava in proporzione alle braccia disponibili per preparare la foglia che, per i primi giorni veniva tagliata con la “britola” come il “patuss pa’i ochi” e somministrata ogni tre ore, dalle cinque della mattina, alle dieci della sera. Più dura per i mezzadri che ave-vano invece l’obbligo di procedere ininterrottamente all’alimentazione dei bachi, giorno e notte, per facilitarne una maturazione anticipata e quindi ogni momento della giornata era dedicato a questa attività.

Dopo la prima “durmia”, si provvedeva alla loro divisione, si aumentava il numero delle “grisiole”, e si nutrivano i bachi con una foglia tagliata più grossolanamente col “tasson”. Avanti così fi no alla quarta ed ultima “muda”, quando le “grisiole”, ad im-palcature di cinque o sei, avevano invaso ormai ogni spazio libero della casa. Iniziavano i giorni della frenesia alimentare e sui graticci venivano distribuiti quintali di foglia che coprivano l’intera colonia dei bachi, ma, data la loro rumorosa voracità, il tutto spariva in poco tempo. Diventavano sempre più grossi e lucidi, e quando erano ormai prossimi alla fi latura, si mettevano ricci di paglia o frasche di salice secche che, essendo più ramifi cate, consentivano ai bachi una migliore distribuzione per costruirsi il bozzolo. Quando anche gli ultimi avevano fatto il bozzolo, si toglievano dalle frasche uno alla volta e si passavano nello “spelagnador”, un attrezzo che girato a mano li ripuliva delle impurità, la “spela-gna” appunto che comunque veniva conservata.

Si riempivano sacchi da 25 chili che erano consegnati alla stessa cooperativa e da qui, dopo il passaggio all’essiccatoio, prendevano la via della fi landa. Per ogni oncia di uova si consegnavano 85/90 chili di bozzoli. L’importante per questa coltura era la temperatura costante che doveva mantenersi sempre sopra i venti gradi, per il corretto sviluppo del baco. Molto temute erano le formiche ed i topi, ma soprattutto le variazioni climatiche di questo periodo che passava come “l’inverno dei cavalieri”, un calo della temperatura avrebbe potuto rovinare l’intera coltura.

Le donne della famiglia contadina, visto che proprio su di esse gravava l’onere mag-giore della coltivazione, fantasticavano su quello che avrebbero potuto fare con i proventi del raccolto dei bozzoli, prima ed unica fonte di denaro liquido che entrava nelle loro famiglie. Gli scarti non commerciabili, come le “falope”, i doppioni, le “bavele” e la “spelagna”, venivano fatti bollire, ed eliminata la crisalide, si mettevano ad asciugare per essere poi dipanati ed i batuffoli ottenuti fi lati con il fuso o la “gorleta”. Si facevano calze e maglie, poi fatte bollire in una capiente “caldiera” dove in precedenza era stata sciolta

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la tinta desiderata che non offriva molte scelte: rosso bordeaux o bleu scuro. “Mi ricordo di averne fatti molti sia per i miei fratelli che per Aldo, ricorda la Maria Basso, e quando gli ho regalato un paio di calzettoni ho tenuto a precisare che erano stati fatti con le mie mani. Benedetta gioventù, ci accontentavamo di poco, ma pieno di signifi cato”.

Ma Maggio è uno dei mesi in cui si aveva una ricca liturgia interamente dedicata alla Madonna; nelle famiglie contadine, dopo la frugale cena serale, si usava girare la sedia per inginocchiarsi e recitare il fi oretto che altro non era che il Rosario con le litanie Lauretane. I bambini dovevano fare la loro buona azione quotidiana: ubbidire agli ordini, aiutare i grandi, rinunciare a qualche piccolo desiderio. “Pensa che de zioba vien sempre la Sensa”, si mangiava “el lingual co’i primi bisi” e nei tre giorni che la precedevano si facevano le rogazioni, processioni penitenziali di propiziazione per l’agricoltura.

Subito dopo il suono dell’Ave Maria, i fedeli si ritrovavano davanti la chiesa di SanGiovanni Battista, oppure ai due capitelli quello di San Floriano o l’altro della Madonna,da dove poi partiva la processione che, cercando di estendere la benedizione ovunque, effettuava degli ampi giri verso il Palù, il Melon e la Boschetta. Durante la processione si usava piantare, parroco don Ernesto Linguanotto, una piccola croce sull’olmo di ogni “stradon grando” per implorare protezione contro le disgrazie del tempo; fermata ad ogni incrocio, benedicendo ed implorando grazie, mentre i fedeli cantavano le litanie dei Santi, concludendo la preghiera con “a fulmine et tempestate libera nos Domine”.

Giugno. La falce in pugno, ma mai scuminziar de venere

Passata la festa del Corpus Domini con la “procession granda” con la strada coperta di petali di fi ori, con un salto si è San Giovanni Battista, patrono del paese. Una volta in questa ricorrenza si teneva una grande sagra con giostre, bancarelle ed altre attrazioni poi quasi scomparsa del tutto fi no a quando nel 1978 ritornò alla grande grazie all’Unione Sportiva di cui parleremo con un capitolo a parte.

La vigilia di San Giovanni le donne raccoglievano non solo erbe odorose che lasciate alla rugiada contribuivano a mantenere la pelle giovane, ma la mattina dopo, anche le erbe offi cinali, prime fra tutte la camomilla, pianta considerata la panacea di tutti i mali, che cresceva rigogliosa nei prati stabili e le noci per il nocino; la trasgressione alcolica con la “graspa”. Più di qualche famiglia usava esporre le coperte di lana per farle bagnare dalla ru-giada contro le tarme, così come per l’aglio e le cipolle che sarebbero durate più a lungo.

Ma la Chiesa di San Giovanni detiene un primato: da tempo immemorabile si cele-bra ancora oggi una messa in onore di Santa Eurosia, protettrice dei frutti della terra. Èl’unica celebrazione che si tiene in tutta la Diocesi di Concordia Pordenone.

Questo era il periodo buono per gli appassionati di pesca; i primi temporali che por-tavano le “bisate” a muoversi e fi nire nei “bertoveli”, la scuola era ormai terminata ed i

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più scaltri si cimentavano nella loro cattura. “Il Palù era la nostra zona di caccia e pesca, ricorda Daniel Missana, ma pochi batteva-no me e l’amico Enzo Valvassori, all’epoca avevamo dodici anni, eravamo dei fuìns.Per una sigaretta a testa, ci arrampicavamo sul grande albero alto almeno dodici metri, ci tuffavamo in acqua e dal Canalut, al con-fi ne con Marignana, si arrivava a nuoto fi no alle bove del Mulin de Zadro, nudi come vermi. Certi giorni eravamo un esercito de fi oi e quelli che non sapevano nuotare, ve-nivano obbligati dai più grandi, ad imparare in poche ore. Poi si giocava a cavalletta, a sc’iavi, a crosago, tutti giochi che nessuno fa più perché richiedono una certa prestan-za fi sica”.

In questo mese nel mondo agricolo era anche il periodo dei grandi cambiamenti: si prendeva possesso della “bovaria” e del foraggio per le bestie, correva l’obbligo di dare il solfato al vigneto senza però vendemmiare, ma solo per garantirsi il raccolto succes-sivo; in pratica si gettavano le basi per far sì che a San Martino, al momento di prendere possesso della terra e della casa, tutto sarebbe stato già concordato.

La mietitura del grano, seppur iniziata in questo mese, dopo Sant’Antonio, si pro-lungava fi no alla prima decade di luglio, quando si procedeva alla trebbiatura dei covoni del grano accatastati sulla corte. Prima dell’arrivo della falciatrice meccanica trainata dai buoi, la mietitura veniva fatta a mano, iniziando alle prime luci dell’alba per terminare al tramonto. Normalmente si rispettava una pausa alle otto per la colazione ed a mezzo-giorno per il pranzo portato sul campo dalle donne di casa. Con il suo arrivo le cose cam-biarono, ma si doveva preparare la strada ai “bò”, per poi seguire la macchina e legare i “mannolini” che venivano accatastati in croce con le spighe rivolte verso l’interno. Alla trebbiatura grande festa, “se disnizava l’osacol” debitamente conservato per questa oc-casione e “se copava i poastri”.

Al 29 l’è San Pietro e Paolo, periodo di tempo incerto, di grandi temporali, di gran-dinate causate dalla “Mare de San Piero” che la “vigniva fora de casa” facendo un gran clamore. I vecchi usavano prendere una caraffa con dentro l’acqua che era stata fuori nella notte di San Giovanni e vi mettevano un uovo “sensa scorsa”; prima di mezzanotte posavano la caraffa sull’erba e se al mattino dopo la chiara dell’uovo faceva le vele ed il rosso prendeva la forma di una barca, sarebbe stato un anno buono.

Benito Valvassori “coe bisate”.

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Luglio. San Giacomo busiero, San Martin veritiero

Non c’erano grandi ricorrenze durante la stagione estiva, perciò tutto l’impegno era per i raccolti, ma a San Giacomo (25 luglio), giusto a metà dell’anno produttivo, scadeva la prima rata del canone o della mezzadria,si presentava la lista delle “onoranse” che, anche se abolite nel 1947 con il Lodo De Gasperi, in questa zona hanno resistito fi no a non molti decenni fa e comprendevano: “caponi a Nadal, la brisiola co se copea el porsel co’i fi gadei, vovi ogni mese ed a Pasqua se raddoppiava, galletti a San Piero, le rasse per i Santi Morti ed in più spacar legne e netar vieri”. Non era facile mettersi d’accordo sia per la valutazione dell’affi tto della terra che sui criteri delle prestazioni gratuite come quella appunto “de netar i vieri” e “spacar legne”.

Agosto. A la festa de sera, se ’ndava a la melonera

In questo mese si aprivano le prime “melonere”, angurie e meloni accompagnavano un periodo particolarmente caldo che come il freddo oggi non è più quello di una volta. A Settimo c’era quella di Giuseppe Doro, l’altra di Bepi Anese in via Basedat, un’altra ancora molto frequentata era la “melonera” dei Basso in via Boschetta, dove si levavano cori passati alla storia, in quanto quasi tutti i Basso erano e sono, la Maria ne è la confer-ma, degli ottimi cantori.

A fi anco scorreva sempre un corso d’acqua che serviva per tenere le angurie ed i meloni al fresco, tenuti sempre sotto controllo dal proprietario che a volte dormiva tra le quattro “tole” e la panca del “cason”; il furto di angurie peraltro già raccolte erano una tentazione. Una notte toccò proprio al cason dei Basso: fu dato alle fi amme da sconosciuti, che rubarono anche le angurie ed i meloni. A quei tempi c’erano grandi mangiatori di an-gurie, ma pochi battevano Paolo Zorzi, mediatore, che ne aveva sempre una corposa scorta in camera. Una volta, ricorda il nipote Danilo, ne mangiò 17 chili alla sagra di Villotta.

Era anche il tempo dei fi lò estivi, perciò la sera tutti fuori sotto il portego, seduti su lunghe panche, i grandi a “contarsela”, i “putei” a “zogar”. Dopo l’Assunta, ci si pre-parava per i grandi raccolti di Settembre.

Settembre. L’ua è fatta ed il figo pende

Dopo l’ultimo sfalcio si raccoglievano le bietole, si preparavano i terreni per la semi-na, si cominciava la vendemmia che coinvolgeva tutta la famiglia ed anche i vicini. Una volta si pigiava l’uva con i piedi nelle grandi “brente” sotto il portico, tra canti e suoni, una poesia che oggi non si recita più, è tutto meccanizzato.

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Ottobre. Cavessa curta guida anca ’na bovaria longa disea “Bullo” Basso

Con questo mese, dopo la Madonna del Rosario, si dà l’ultimo colpo alla vendemmia del raboso, si comincia la raccolta del granoturco e si semina il frumento che come regola recitava “per i Morti Santi il formento nei campi”. Ci si predisponeva per la ricorrenza dei Santi e dei Morti, ma per quelle famiglie che avevano ricevuto la disdetta dalla campagna, erano giorni di grave disagio perché si preparavano le misere cose da caricare sul carro ed a lasciare la casa in ordine per far posto alla famiglia subentrante.

Novembre. Ai Santi i corvi lassa i monti e i vien sui campi

Il primo novembre era il capodanno agricolo per quelle famiglie che rimanevano sulla campagna, i lavori nei campi erano terminati con la semina del frumento. Ma è anche la ricorrenza più sentita durante la quale il mondo dei morti si mescola con quello dei vivi, sia dal punto di vista religioso che sociale.

Le tombe dei propri defunti venivano, ma lo sono ancora oggi, ripulite ed abbellite con fi ori e luminarie; nelle case si recitava il rosario, e la tavola imbandita per la cena rimaneva apparec-chiata senza togliere nulla, anzi in casa dei Bas-so e dei Fantin si aggiungevano anche quei cibi che in vita erano stati particolarmente graditi dai defunti di famiglia. “Non se scovava la cucina,precisa la Bepa De Gasperi, mujer de Bepi Fan-tin, perché si sarebbero cacciate fuori le anime dei morti. Non si toccava nulla, i piatti venivano tolti e lavati il giorno dopo la ricorrenza”.

Il cibo di questa giornata era la minestra in brodo, se “copava” la gallina.

La mattina in chiesa per le Sante Messe, men-tre la processione del pomeriggio era per i mor-ti ai quali ci si rivolgeva con affetto e rimpianto: “Pare e mare giutéme”, una richiesta ritenuta importante, dopo quella fatta ai Santi, per assicu-rarsi dei buoni raccolti. In questo giorno, oltre a lasciare la tavola apparecchiata, non “se distirava la roba lavada”. Anche quella volta il tempo scorreva inesorabile, il 10 novembre era la fi ne dell’anno agricolo ed era alle porte per chi doveva fare San Martin, a volte senza sapere nemmeno la futura destinazione.

Natale Brun.

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Un trasloco “da pori cani, un San Martin de strasse”, un giorno destinato a lasciare un segno indimenticabile nelle famiglie di allora che potevano confi dare solo sull’aiuto del Santo che proprio in quei giorni concedeva qualche giorno di bel tempo, infatti “l’ista-dea de San Martin, la dura tre giorni e un tochetin”, giusto il tempo per sistemarsi.

Le famiglie che avevano avuto il rinnovo si predisponevano a brindare con castagne e vin novo per ringraziare i Santi protettori, e predisponevano anima e corpo all’inizio delle loro fatiche, comunque garanti di una sopravvivenza per un altro anno almeno.

El magnar de na volta, poc, come sempre

Una volta non c’era bisogno di tanta fantasia, gli ingredienti per le ricette erano sempre quelli e quindi non c’era tanta differenza tra il pasto del mezzogiorno e quello della sera.

Tante uova, radicchio, erbe selvatiche, e maiale così ben ripartito al risparmio che la fame restava sempre insoddisfatta, perché “el porsel” doveva durare un anno intero, da un San Martin all’altro.

Una donna quindi doveva sapersi arrangiare con qualche soffritto per dare un po’ più gusto alle minestre ed alle erbe, “’na frissa de lardo” una povera cosa, ma che aiutava a

mandar giù un piatto sempre misero e sempre uguale, comunque da “companasar” perché dice la Maria Basso, “la boca l’è un forno” e si poteva rischiare di rimanere senza lardo, o po-lenta, ecco perché la donna di casa doveva saper misurare ogni cosa per evitare che poi la fami-glia avesse a soffrire.

Cose passate, diffi cili anche da credere, i nipoti non immaginano nemmeno lontanamente una realtà di vita come l’hanno vissuta i nonni, quando alcune famiglie che vivevano in condi-zioni disagiate si facevano il caffè con quel che restava dei grani dell’uva, seccati al sole e abbru-stoliti velocemente, macinati e ridotti in polvere da mettere nel “caldierin” dove bolliva l’acqua, lasciando poi che si depositassero. “Andava me-glio con il frumento tostato, ricorda Mario Ce-lant, ma questo è stato possibile quando non ave-vamo più da contare i grani perché le cose sta-vano cambiando, allora aggiungevamo anche un po’ di cicoria ed era una bevanda coi fi occhi”.Giuseppe Anese “pursiter”. Foto Giubilato

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Era necessario saper amministrare la dispensa, il maiale a volte non rendeva tanto da garantire il raggiungimento del prossimo, ed allora la donna di casa doveva ingegnarsi con cipolle, aglio, verdura cotta, uova e tanta polenta dura come un sasso che era sempre più abbondante del companatico che altro non era che il “tocio” che rimaneva nella “far-sora”, perché la fetta del salame che aveva invaso tutta la cucina con il suo profumo, era destinata agli uomini che dovevano lavorare; per le donne ed i bambini quel che restava, polenta e profumo, perciò le “farsore le vigniva talmente lustre che non serviva lavarle, anzi le restava impregnae de odor che vigniva bon per la volta dopo”.

Tante frittate con la cipolla e polenta, ma anche cipolla cruda “tociada” nell’aceto e polenta “giassa”, oppure “brustolada su la gradea cusì la ciapava manco condimento”.

Polenta sempre e comunque; si andava avanti così fi no al giorno in cui si ammazzava il maiale, ma trascorsi i giorni in cui c’era abbondanza tra sangue, fegato e qualche “frissa”messa tra due fette di polenta, tutto ritornava nella ferrea regola del “mai abbastanza”.

Il maiale era il salvavita, la garanzia di sopravvivenza della famiglia e dopo averne insaccato le carni, arrivava il momento più delicato quello dell’asciugatura che veniva fatta in cucina, dopo aver costruito una sorta di impalcatura per appiccare salami e cote-chini che dovevano asciugare senza fretta ma con la temperatura costante ecco perché in quelle sere, la donna non andava nemmeno in stalla a fi lò e rimaneva accanto al “fogher”per tenere il fuoco sotto controllo ed evitare che il “budel se scartossasse” rischiando di buttar via tutto ed allora sarebbe stato un dramma lungo un intero anno.

Tutto seguiva un rituale tramandato da madre in fi glia, e dopo la preparazione la carne del maiale, tagliata in pezzi uguali, veniva messa nelle pignatte di terracotta e coperta con il grasso dello stesso maiale che aveva provveduto a sciogliere.

Si lasciava fuori un po’ di lardo, qualche cotechino compreso il “lingual per la Sen-sa”; tutto il resto veniva portato nella camera dei “veci” o in quella della “parona de casa”dove nessuno osava mettere piede, insieme ai fagioli, alla frutta per la maggior parte mele, fi chi secchi cui i bambini davano una caccia spietata, senza mai riuscire, salvo qualche raro caso, a prenderne “’na pasciuda”.

Tutto era rigorosamente calcolato e da quel momento si mangiava guardando il ca-lendario, contando i giorni per arrivare a questa o quella ricorrenza religiosa che avrebbe permesso alla famiglia “de disnisar” qualche capo grosso “picà” o qualche altro “tocode carne”che veniva prelevato dalla pignatta dopo averlo ripulito del grasso che lo aveva conservato, sempre e comunque tanta polenta.

D’inverno la “brovada”, pur essendo un “magnar furlan” era spesso presente sulle nostre tavole insieme a qualche “muset”. Qualche “fameja” se la faceva in casa mettendo le rape bianche in un “mastel de legno” per due mesi, coperte con acqua, aceto e con pesi sopra perché si macerassero pressate. A dicembre erano pronte per essere sbucciate e ta-gliate a “listarelle”. Si usava, ma lo si fa ancora oggi, cucinarle per poi mangiarle insieme

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al cotechino, anche se l’accoppiata “fasioi e muset” era senza dubbio la più popolare. Ogni fi ne settimana, quasi mai durante, se “copava” un capo che poteva essere pollo o gallina.

La donna di casa però recuperava il sangue, il fegato, il cuore ed anche le interiora che provvedeva a pulire e lavare facendole passare tra due stecchi di “sales” per togliere qualsiasi impurità. Poi le tagliava a piccoli pezzettini mischiandole alle altre frattaglie ed al grasso del pollo, per preparare al sabato sera il “minusan” con abbondante “tocio”quindi tanta polenta per “tociar”. Il pollo, con i bocconi migliori, era riservato per il giorno dopo domenica. Con le prime “scaldinele de primavera radicele, bruscandui, pavariel e s’ciopetini” erbe di campo lessate e passate poi in “tecia” con una “frissa de lardo”. In qualche famiglia c’era chi andava a rane con la “spunciariola” o a bisati ed allora, era festa in “fameja” come quando Benito Valvasori si presentò in cucina con due anguille da capogiro.

Ma per “magnar de magro”non c’erano problemi, la “renga”o “bigui in salsa” oggi paragona-bili a grossi spaghetti una volta un impasto di acqua e farina arroto-lati a mano sulla tavola di legno e conditi con cipolla e “sardee soto sal cunsae co’ na giossa de oio”.

Pur avendo grande disponi-bilità di uova, queste venivano usate con parsimonia in quanto erano moneta sonante per fare la spesa in bottega “do vovi de oio, un de farina”.

Ad aprile invece, quando le galline le “pondeva”, e quelle sterili fi nivano in pignatta, l’uovo diventava un pasto da re, in frit-tate con cipolle, con il salame, con le patate insomma in svariati modi sempre nei limiti in quanto, come dice la Bepa, l’abbondanza può causare la miseria. In esta-te, quando il caldo “imatuniva”togliendo l’appetito, la donna di casa faceva ricorso ai prodotti

Far San Marco negli anni ’50. Si notano Angelo Cesselon, Dionisia Ceccon, Luciano Cesco e altri.

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freschi dell’orto, pomodori, “tegoline”, melanzane, zucchine, fatte in “tecia con zegoa e lardo”, patate, tante insalate e spesso al posto della minestra pan e anguria. “Che bona che la giera, era il mio mangiare preferito, ricorda con nostalgia Maria Basso, facevo a gara con mio fratello a chi terminava prima”. Con l’autunno verze, zucche, “capussi”, cicoria che davano minestre saporite ma anche prodotti dolci come i “pastarei” con la zucca, fa-rina e latte, da mangiare con una bella scodella di latte freddo o caldo a seconda dei gusti. Le verze se le faceva in “tecia” quando c’erano da mangiare gli ossi del “porsel”.

Questi ricordi sono stati una veloce trasvolata sul “magnar de una volta”, ma tutto lascia prevedere che questo breve racconto sia l’antipasto di una più approfondita raccolta di ricette, peraltro in buona parte già acquisite, scritte con la collaborazione della MariaBasso, della Bepa Fantin e della Gigetta de Seno.

La Compagnia teatrale

Un capitolo a parte merita la Compagnia Teatrale, nata poco dopo gli anni venti del secolo scorso ad opera di alcuni giovani di allora che, disdegnando le osterie, preferivano ritrovarsi nella grande baracca di legno, che si trovava a fi anco della canonica. Era stata costruita dai militari italiani che l’avevano lasciata durante la guerra del 15/18 ed il par-roco di allora don Ernesto Linguanotto, insieme agli uomini dell’Azione Cattolica, aveva provveduto a riscattare.

Dopo qualche tentativo erano riusciti a dar vita ad una compagnia teatrale con tanto di regista, nella persona di Sante Liut. Gli attori erano Cornelio Battiston, Piero Vaccher, Valentino Grotto, Angelo Furlan, Antonio Paissan, Piero Infanti, Antonio Zorzi e MarioCelant. Supervisore di ogni rappresentazione era chiaramente il parroco che concedeva il permesso alla recita dopo la sua personale censura.

Tanto che non erano ammesse donne nella compagnia e quando Piero Vaccher, per necessità assoluta di copione ha dovuto effettuare un ballo in coppia con una donna, perché così recitava la trama della rappresentazione, Ciccetta, al secolo Mario Celant, fu costretto a farsi crescere il seno inserendo due sciarpe nel petto, prestate dalla Ada Marson.

Solo che durante il ballo, i movimenti hanno fatto scendere le “tette” verso il bas-so tra l’ilarità del pubblico che accorreva sempre numeroso alle loro recite. Ma cara,come ti senti? Gli chiese Piero Vaccher. “Prima ero da latte ora invece son da vovi”, rispose Ciccetta; chiaro il riferimento alle parti anatomiche che causò l’ira di donErnesto in quanto si era parlato di sesso in pubblico, mentre per la battuta tutta la gen-te rise a crepapelle. Da allora Mario Celant, ultra novantenne, unico sopravvissuto ditutta la compagnia, è passato alla storia come Ciccetta. Lui era quello portato allefarse tanto che, dopo il successo arriso con quella trovata, recitò “Il Frollocone” e“Ciccetta va soldato”, due trionfi che contribuirono ad accrescere la sua popolarità

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che esplose con la farsa di “Meni de la quaia” di cui parla anche Antonio Paissan in una lettera ad Angelo Cesselon.

Ma la compagnia teatrale, con la regia di Sante Liut si cimentò in commedie di tutto rispetto: “San Francesco d’Assisi” con Angelo Furlan come attore principale; “Le Pia-strine” con Valentino Grotto ed “Un grido nella notte” con Cornelio Battiston.

Gli effetti sonori si producevano nel sottopalco: un colpo di tamburo per imitare quel-lo del cannone, una stecca tra i raggi della ruota di una bicicletta per la mitragliatrice, ac-cendere e spegnere le luci per simulare i lampi del temporale mentre per il tuono facevano correre delle pesanti bocce sul pavimento di legno del sottopalco. La compagnia rimase in vita per oltre dieci anni e si sciolse quando i giovani non erano più tali perché ormai in età da soldato, ma la fama di quegli attori è rimasta indelebile tanto che i più anziani ricordano con rimpianto quelle serate e Ciccetta è la conferma vivente, tanto che basta questo soprannome perché anche i più giovani lo riconoscano.

Nascere a Settimo e “murir xè l’ultima capea che fa l’omo”

La nascita

Si dice ancor oggi che una donna a modo la “tien” su, tre cantoni di una casa, im-maginarsi quindi l’importanza, nel mondo contadino dello scorso secolo, della presenza femminile che è sempre stata determinante per tutta la famiglia: nel lavoro dei campi, nel governo degli animali da cortile, del maiale, autentica “musigna”, nelle fatture domesti-che e soprattutto per la prosecuzione della specie umana, anche se spesso, non si riteneva che il mondo contadino vi appartenesse, tante erano le privazioni e le umiliazioni cui erano sottoposti i suoi appartenenti.

Non esistevano contraccettivi come non c’erano tante alternative, sotto le coperte non c’era miseria e qualche gravidanza era più subita che voluta, comunque accettata sempre dalla coppia in quanto dove mangiavano in cinque potevano farlo anche sei. Solo che le famiglie erano composte da un minimo di venti persone, ma ce n’erano di molto più nu-merose: i Celant superavano le quaranta persone, 30 i Fantin ed i Toffolon in Boschetta, 26 i Basso, molto numerose anche le famiglie Miorin, Muccignat.

Quando la donna rimaneva incinta per la prima volta, (primariola) quelle più anziane erano dispensatrici di consigli e suggerimenti: assaggiare sempre tutti i piatti e le pietanze, dicevano, per evitare che al piccolo nascituro potesse comparire la “voia” in quella parte del corpo in cui la donna si era toccata. Per questo la futura mamma si toccava sempre in posti nascosti. Il bello è che si sono verifi cati disegni (angiomi) degni di un bravo pittore che avrebbe fatto fatica a fare altrettanto: fragole, grappoli d’uva oppure una goccia di caffè e latte. Guai se la donna in attesa si metteva del fi lo o dello spago intorno al collo, le

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comari la redarguivano perché il cordone ombelicale avrebbe potuto attorcigliarsi intorno a quello del piccolo.

La donna proseguiva nel suo impegno quotidiano, e quando stava per partorire, non godeva come oggi di mesi di riposo, ma era costretta per esigenza di famiglia, a lavorare fi no al giorno prima dell’evento e più di qualche bambino, ricorda Bepi Fantin, ha visto la luce nei campi al riparo di qualche cespuglio dove si era sdraiata la madre per poterlo partorire, aiutata dalle altre donne che componevano la famiglia. Era allora un correre disperato alla ricerca della comare Emma Fassina, che abitava in via Treviso; si andava a prelevarla con cavallo e calesse per poterle permettere di raggiungere la puerpera sul campo prima possibile.

Casi come questo erano fortunatamente rari, ma quando tutto aveva seguito le regole, il momento del parto era condiviso da tutte le donne della famiglia. Acqua calda a volontà e lini candidi in attesa dell’arrivo della comare Fassina prima e Maria Martin poi, che prendeva in mano la situazione e guidava le operazioni da eseguire secondo i suoi coman-di: guai a sbagliare, non c’era ancora l’incubatrice o la rianimazione.

Nato il bambino per la puerpera iniziava la quarantena da “paiolana”e quindi qual-che ora di riposo in più durante la giornata. Per 40 giorni infatti la donna che aveva par-torito non poteva uscire di casa per nessuna ragione, né lavare o mettere comunque le mani in acqua per evitare che potesse contrarre dolori reumatici, considerati di diffi cile guarigione. In questo periodo le attenzioni erano tutte per lei ed il bambino che sembrava una piccola mummia tanto era fasciato stretto perché c’era la credenza che così sarebbe cresciuto bello diritto. Fino a quando anche le braccia rimasero fasciate, le unghie veni-vano tagliate molto di rado, poi, quando negli anni 40, la regola è cambiata e le braccia sono state lasciate libere, le manicure sono diventate necessarie in quanto il bambino con le unghie lunghe, si procurava graffi al viso.

Con la nascita di un bimbo si addolciva anche il “paron de casa”che si toglieva le chiavi che portava sempre con sè ed apriva la dispensa: caffè, zucchero, biscotti, marsala, pane bianco tutta merce sconosciuta per il resto dell’anno; si ammazzava la gallina per fare il brodo con il riso, e la classica “panada” che costituivano per i primi giorni il pasto della puerpera. Ma già dopo gli otto, dieci giorni, la considerazione cominciava a sce-mare, ed iniziavano le preoccupazioni, non solo per il battesimo, ma anche per il temuto malocchio nei confronti dei bambini non ancora battezzati e quindi il piccolo indossava, quale atto scaramantico, qualche pannolino a rovescio e gli stessi non venivano mai la-sciati ad asciugare di notte all’aperto.

“Io ero la più piccola di dodici fratelli e custodivo i miei nipotini, spiega Maria Basso, soprattutto l’ultimo nato e quando piangeva perché aveva fame, andavo a chiamare mia so-rella che veniva a casa dai campi vicini.

Dopo la poppata lo riportavo nella culla, mentre mia sorella poteva ritornare al lavoro.

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E toccava sempre a me portare la colazione ai miei, quando erano sui campi della Pavanella, drio i Toffolon, o sul Suiedo visin de Morettin, oppure sulla Coda visin dei Gumiero, ed anche quando andavano a segar sul Palù, sulla terra della Giovannella Bat-tistona; un mangiare povero: polenta e frittata col salame; sempre a piedi, carica come un muss, ma ero contenta, cantavo all’andata ed anche al ritorno, i Basso sono sempre stati ottimi cantori e musicisti”.

Il Battesimo

La cerimonia avveniva quasi sempre entro i quaranta giorni e di norma le mamme non potevano presenziare al battesimo del proprio fi glio in quanto la religione cattolica a quell’epoca prevedeva che la donna che aveva partorito, oltre a non poter mai restare sola in camera, avrebbe dovuto sottoporsi ad una cerimonia di purifi cazione che consisteva nel recarsi in chiesa, la vigilia o comunque prima del battesimo, accompagnata dalla donna più anziana della famiglia, con una candela accesa, quella della Madonna Candelora,tenuta nella mano destra, mentre il parroco le imponeva sulle spalle una stola bianca ac-compagnandola all’altare della Madonna.

La recita di alcune preghiere cui seguiva la benedizione dell’offi ciante, don ErnestoLinguanotto, le avrebbero consentito il giorno dopo di assistere al battesimo del fi glio. Ma non poteva essere lei comunque a tenerlo in braccio per portarlo al Fonte Battesima-le, ecco perchè le mamme preferivano aspettare in casa. Il compito era affi dato ad una ragazza della famiglia in abito bianco, istruita in precedenza sulle regole non scritte ma rispettate da tutti e cioè: “Non girare la testa né a destra né a sinistra, ma guardare sem-pre dritto in avanti per evitare che il piccolo crescesse curioso, ma soprattutto, e questo riguardava più i padrini, imparare il Credo e recitarlo senza errori o interruzioni per scongiurare una futura balbuzie del piccolo”.

Sul pane che veniva portato dalla “santola”, ma molto più spesso dalla levatrice per maggiori possibilità, affi nchè il piccolo crescesse generoso, ci sono più versioni: fi no agli anni trenta veniva regalato dalla stessa alla prima persona che incontrava all’uscita della propria abitazione, a Settimo invece, dopo la cerimonia, rimaneva al parroco, all’epoca don Ernesto Linguanotto, che provvedeva a distribuirlo magari tra i chierichetti che date le possibilità dell’epoca, mangiavano molto più polenta che altro.

I due padrini di battesimo, che il più delle volte erano gli stessi del matrimonio, go-devano di una certa considerazione ed il legame con i genitori del piccolo e con lo stesso battezzato cresceva insieme al bambino fi no a ricoprire quasi il ruolo di secondi genitori, sempre presenti in qualsiasi occasione e ricorrenza, lieta o funesta che fosse.

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Comunione e Cresima

La Prima Comunione si faceva intorno ai nove dieci anni, dopo ben due anni di ca-techismo ed era il parroco che lo teneva in canonica e guai a chi mancava anche una sola volta, erano dolori con don Ernesto, ma anche con il suo successore don Duilio Ram-baldini. Eri giustifi cato solo in caso di malattia ed a quei tempi d’inverno, quando sotto la porta della cucina passava il gatto, non era diffi cile beccarsi qualche malanno. “Le“putele” tutte di bianco, e molto spesso l’abito era in prestito, spiega Bepi Fantin, mentre noi maschi avevamo più libertà, chi braghe curte chi lunghe, chi con quel che poteva, l’importante per don Ernesto era la preparazione religiosa”. Ma la comunione rimaneva un momento poco sentito dai ragazzi perché era quasi sempre il padre per i maschi e la madre per le femmine che ricoprivano il ruolo di padrino e madrina, quindi “te sa che pì de cusì no se pol” e la festa della prima comunione si concludeva come tutti gli altri giorni, senza una particolare diversità.

Cosa che invece emergeva alla grande nella Cresima o Confermazione che si faceva dopo i 14 anni ed era una parentesi molto più gradita dai ragazzi. “Il mio padrino fu Sante Daneluzzi, che era poi il “santolo” del battesimo, l’invitato d’onore al pranzo che era più ricco del solito e dopo l’acquisto del “bussolà grando” dalle bancarelle che occupavano il piazzale della Chiesa, ricorda Bepi Fantin, mi regalò una colombina di mancia (5 lire), ma non erano molti che potevano permetterselo”.

Prima Comunione a Settimo nell’anno 1940.

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Prima Comunione a Settimo nei primi anni ’60.

Prima Comunione a Settimo nel 1941.

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Il Fidanzamento ed il matrimonio di Bepi e Bepa; al secolo Giuseppe Fantin oggi 87 anni e di sua moglie Giuseppina De Gasperi di 83

Eravamo nel novembre del 1937. Io e mia moglie ci siamo conosciuti che lei aveva 14 anni ed io 17. Le proposi di vederci, ma solo per poterle scrivere, ho dovuto chiedere il permesso a sua madre Teresa. Presero tempo, in quanto i genitori dovevano informarsi sul futuro genero, ma appena concessa l’autorizzazione, pochi giorni dopo lei è partita per Palma Campana a servizio come si usava fare in quelle famiglie dove c’era necessità di aiuti fi nanziari da parte di tutti i componenti, anche se qualche ragazza di allora andava a servire per farsi la dote. Io fui chiamato alla leva militare, la guerra in Albania, la Croce di Guerra,poi fi nalmente a casa; ma erano trascorsi otto anni, gli anni più belli della nostra gioventù.

Comunque le regole non erano cambiate, mai fuori insieme, lei in quanto fi danzata, conduceva una vita riservata e per vederla dovevo recarmi a casa sua, ma c’era sempre la guardia in parte che si allontanava di rado, giusto il tempo per un veloce “struccon”. De-cidemmo di sposarci e fi ssammo la data per il 24 novembre del 1945. Noi abbiamo seguito le regole che erano in voga a quegli anni, quando erano i genitori dello sposo a recarsi dai consuoceri per stabilire la dote, e toccava poi al padre dello sposo recarsi di sera a ritirarla, con un carro tirato da due mucche da latte, mai i buoi, perchè non avrebbero portato for-tuna alla futura coppia. Si fermava a cena a casa della futura nuora la quale, prima che il carro si rimettesse sulla via del ritorno, tracciava con una bacchetta di sandina, un segno di croce davanti alle due mucche dicendo “andate in pace”.

La dote veniva scaricata e portata nella camera matrimoniale ma solo una donna de-legata dalla “novissa” aveva il diritto di sistemare la biancheria nei cassettoni. Una volta terminata l’operazione, la notte della vigilia dello sposalizio, dopo aver partecipato alla cena, il futuro sposo insieme al compare d’anello dovevano riposare nel letto matrimo-niale. Quella volta le malelingue avevano insinuato che la Bepa fosse incinta e quindi il matrimonio avrebbe dovuto celebrarsi la mattina presto, prima dell’Ave Maria. Ricordo che don Ernesto mi chiamò al confessionale e mi fece giurare sul Vangelo che non era stato consumato nulla ed altrettanto dovette fare lei; solo così ci permise di sposarci alle 11 di mattina. Il corteo della sposa, la cerimonia nuziale con le varie raccomandazioni di don Ernesto, poi tutti a casa dello sposo per il pranzo che aveva provveduto a cucinare la Teresa Badanai, aiutata da altre donne della famiglia.

Anche allora erano in voga i dispetti per la prima notte: mio cognato Rino introdusse un uccello nella camera, divertendosi poi ad accendere e spegnere la luce. Noi avevamo trovato due reti, ma normalmente il letto era composto da due cavalletti con alcune tavole sulle quali era disteso il “paion”, realizzato con le foglie che proteggevano la pannocchia del granoturco e che rumoreggiava ad ogni più piccolo movimento.

La mattina dopo, primo giorno di nozze, io sono stato costretto ad alzarmi per munge-re le vacche e portare poi il latte in latteria dove Valentino Grotto mi ha dovuto aspettare

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Gli sposi Giuseppe Tedesco e Anastasia Romanin, ritratti da Angelo Cesselon.

Matrimonio di Enzo Furlan e Genoveffa Cusin nel 1935. Foto di gruppo di fronte all’antica casa Pedrinelli.

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fi no oltre le dieci, cosa mai avvenuta. Il “paron de casa” non era riuscito a lasciarmi tran-quillo nemmeno in quel giorno. E lo stesso trattamento lo ha subito la Bepa, mia moglie, anche lei in piedi presto per pulire la cucina. Per noi non c’è stata la licenza matrimoniale, subito a lavorare sia in casa che sul campo.

Il viaggio di nozze lo abbiamo fatto qualche tempo dopo, in bicicletta ci siamo recati a visitare i parenti a Mogliano Veneto, Stra, Dolo e Paluello.

Funerale. La conclusione, il tramonto della vita

Nella fi losofi a contadina la morte faceva parte della vita stessa; era un ciclo dell’esi-stenza che si chiudeva ma il trapasso, quando avveniva per raggiunti limiti di età, si con-cludeva sotto lo sguardo affettuoso dell’intera famiglia.

Si nasceva e si moriva in casa, e quando era giunta l’ora, tutta la parentela si stringeva intorno ai famigliari più vicini, anche il “paron” si degnava di fare una visita, arrivava il parroco che ungeva il morituro con l’olio santo impartendo l’estrema unzione, lasciando un’ampolla di acqua benedetta. Avvenuto il decesso, il morto veniva lavato, sbarbato e vestito con l’abito scuro o comunque in base alle sue disposizioni date quando era ancora in vita, magari anni prima: “Co moro, voio un funeral co la banda e te me metterà su sto vestito qua”.

9 Aprile 1947: funerale di Marcello Battiston.

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Oggi il tutto è delegato all’impresa fune-bre, ma una volta erano gli stessi famigliari a compiere il pietoso rituale della vestizione del papà o della madre morta. Era un atto d’amore, di dolcezza e rispetto, “fa pian che te ghe fa mal”, convinti che potesse ancora sentire. Lo si lasciava nel suo letto fi no all’ar-rivo della cassa, si accendevano quattro ceri e iniziava la recita del rosario cui partecipava-no parenti ed amici.

La veglia funebre era riservata agli uomi-ni tra i quali era sempre presente uno dei fi gli del morto, durante la notte qualche bicchiere di vino mentre si rievocavano i momenti in cui la persona deceduta aveva ricoperto un ruolo che meritava essere citato e per questo rimpianto. Non c’erano automobili per il ser-vizio funebre, o per meglio dire non c’erano per chi non poteva permettersele ed erano i

più, quindi il feretro veniva portato a spalla dai parenti che si alternavano nel sostenere il peso della bara ai cui lati camminavano gli amici con candele accese.

Il nome del morto, quando si trattava del nonno, quale segno di rispettoso ricordo, veniva sempre imposto al primo bambino, o bambina nel caso che fosse morta la nonna,che sarebbe nato in famiglia. Si usava portare il lutto: per l’uomo una fascia nera sulla manica sinistra della giacca od all’occhiello della stessa, mentre la donna vestiva comple-tamente di nero almeno per sei mesi o per un anno.

Quando l’evento era traumatico ed a perdere la vita era un giovane, come nel caso di Marcello Battiston, allora la partecipazione era corale, si mobilitava l’intero paese. Lui prestava servizio militare all’aeroporto di Milano come marconista, insieme a Giovanni Labonia ed Iginio Nonis e dopo l’8 settembre 1943, abbandonata la divisa, dopo una lun-ga marcia insieme a Giovanni Labonia percorrendo a piedi la strada da Orvieto, ritornò a casa dopo aver superato ostacoli e pericoli facilmente immaginabili per quei momenti storici. Nel giugno del 1944, nacque, durante la trebbiatura del grano sul “Puntin” di Furlan, il movimento partigiano sollecitato da Matteotti da Villotta, Nin Pradal “Primo”ed insieme a Giovanni Labonia “Fulmine”, anche Marcello Battiston entrò nelle fi le partigiane. Durante un’operazione a Pravisdomini, rimase ferito al braccio sinistro da un colpo di mitra, e fu accompagnato con il carretto trainato dalla cavallina condotta da un ragazzo della Stradatta all’ospedale di Motta.

Marcello Battiston. Ritratto di Angelo Cesselon.

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Calmati gli animi e ritornata la pace, Marcello, essendo un appassionato nonché esperto di meccanica, si stava costruendo da solo una moto, impartiva lezioni ai ragazzi in canonica, con grande soddisfazione di don Ernesto Linguanotto che, nonostante sia passato alla storia come un prete burbero e severo, era riuscito a far studiare molti giovani e portarli all’autosuffi cienza. Non sono stati pochi infatti quelli che proprio grazie all’im-pegno del parroco e dei volontari, come Marcello Battiston, più istruiti, hanno imparato a leggere e scrivere. Marcello aveva 23 anni, e seppur giovane, era benvoluto e stimato da tutti. Quel lunedì di Pasqua del 9 aprile 1947, c’erano molti giovani in piazza ad ammira-re la moto una Bsa del fruttivendolo Imo Contatto. Lui se ne stava costruendo una uguale, con i pezzi di ricambio comperati a Codroipo, gli mancavano solo le gomme. “Marcello montò in sella per andare a prendere un litro di benzina, ricorda Giovanni Labonia cheera presente nella piazza, ma con lui volle salire un altro giovane,Lello Anese,in due su un solo sellino, un vero rischio non essendo la moto fornita di un secondo posto”. Sulla strada del ritorno, alla prima curva di fronte a casa Toffolon, persero l’equilibrio, Marcellonon riuscì a mantenere la moto in strada e fi nirono contro un salice; lui morì sul colpo, a poca distanza dalla sua casa, il suo amico invece si salvò. Ai solenni funerali con la banda, offi ciati da don Ernesto, partecipò l’intero paese e molti furono quelli venuti da fuori e nella foto sono visibili i comandanti partigiani di allora giunti da ogni dove.

Ricordi di Maria figlia di Basso Giacomo detto “Bullo”

La famiglia è originaria di Grumolo delle Badesse da dove è arrivata a Settimo nel 1911, portandosi dietro la “bovaria” composta da 25 bestie tra “bo e vache”, e prenden-do in affi tto 60 ettari che costituivano la campagna di Osvaldo Mian da Fanna.

La casa colonica, cui si accedeva percorrendo un lungo stradone, era in Boschetta.Una grande cucina con “fo-

gher, sfondro e seccer”, a fi anco la stalla con le bestie, ed una ca-vallina con puledro, de “sora”le camere, sopra a tutto il “gra-ner”. La donna in cucina, l’uo-mo in stalla e sui campi, ma per le grandi opere anche le donne dovevano dare una mano, anzi due perché poi avevano da fare anche i lavori di casa. Alle prime luci dell’alba gli uomini andava-no nei campi senza “merendar”, Casa di Mario “Cicetta” Celant.

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intanto le donne preparavano polenta e latte per i “fi oi” e la colazione per chi era a “segar” a base di frittata con il salame, polenta ed un bottiglione di vino. Pasti frugali, portati dalla Maria, man-giati in premura all’ombra di un olmo.

Il lavoro andava da un sole all’altro, ed a mezzogiorno preciso, l’orologio era l’ombra proiettata a terra, tutta la famiglia intorno al tavolo per il pranzo: a base di pollame solo al giovedì e la domenica, negli altri giorni “fasioie muset”, “radicio e fasioi”, “formajo”, “vin bacò”, “renga” e tanta polenta. “Me pare Gia-como andava anche a lavorare la terra per ter-zi, con la “bovaria longa”, due “bo e quatro vache”, con “do fi oi”, ma non mancava mai ai mercati, guai se non c’era “Bullo” Basso, non sarebbe “sta un mercà”, e quando ritornava con la “baracchina” e la cavalla, i miei fratelli fa-ceva a gara per “stacarla” e riportarla in stalla dopo aver asciugato il sudore”. “Al pomeriggio

del sabato era festa, non si lavorava sui campi, ricorda con struggente nostalgia la Maria Basso, si mollava il puledro con la cavallina, si cantava e si suonava, in quanto tra noi, oltre a saper cantare, c’erano anche ottimi suonatori di chitarra e tromba”. La sera però, c’era la stalla con le vacche da “governar”, quindi bisognava “starnirle”, “sbuiassar-le”, “monzerle”, anche se latte ne “faseva poc” perché le lavorava, ma abbastanza per farse il “butirro” e portare la quota per il “formajo” in “lateria”,da Valentino Grotto.

Ogni quindici giorni riuscivamo a fare il pane in casa che andavamo a cuocere al forno di Dalla Pozza in via Treviso. “Si lavorava tanto, ma eravamo felici, soprattutto noi “fi oi”, anche se più di qualche volta con quel fa qui fa lì, “i me faceva vignir su ’l fum”.

Ogni tanto arrivava in casa Carmine, il barbiere che come il sarto girava tutte le fa-miglie per prestare la sua opera, con il taglio “all’Umberto”. In piazza c’era la barberia di “Checchi Fantin”, a cui ricorrevano persone anche dai paesi vicini. I sarti di allora erano “Gigi Bel” o Giuseppe Artico, nonno di “Giuti” oppure Giovanni Andriol con il fi glio Giacinto e con il “saraban” tirato dal “muss” Giorgio.

Con la macchina da cucire giravano le case per confezionare vestiti, fermandosi anche a dormire fi no a quando non era terminato il lavoro. I capi d’abbigliamento erano sempre abbondanti, primo perché “il fi ol l’a da creser ancora” e poi perché costituivano l’eredità per i fratelli più piccoli.

Aldo Anese con Carmine Sessa “el barbier”.

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La Lisciva. Ricordi di Gigetta “Seno” Battiston muier de Mario Celant,so mare de la Fedora

Il bucato “grando” se lo faceva ad ogni cambio di lenzuola, poche volte d’inverno, più spesso durante i mesi caldi. Per prima cosa si lavavano con la soda Solway le lenzuola “de canego”, le federe, gli asciugamani ed altri indumenti di colore bianco, ai colorati non si faceva la “liscia”. Se li lavava con il sapone anche quello fatto in casa con il latte degli otto giorni dopo “che la vaca la gaveva partorìo” mescolato a freddo con la soda caustica, poi, una volta indurito si rovesciava su un piano e se lo tagliava a tocchi. I panni se li risciac-quava bene a fondo. Intanto si accendeva il fuoco sotto una grossa “caldiera” per scaldare l’acqua e vicino si metteva un grosso “mastel” chiuso sul fondo con un tappo.

“Se meteva dentro i panni ben impachetai, de sora il mastel se meteva il colador” colmo di cenere, una sorta di fi ltro costituito da un panno particolare che non lasciava pas-sare la cenere nel bucato e si versava acqua bollente fi no a che il recipiente non era pieno. Perché la lisciva riuscisse bene doveva rimanere almeno un’intera notte a mollo.

Poi il giorno dopo si svuotava il “mastel”, mettendo sul “buso” la “gramola” mandi-bola del “porsel” conservata apposta affi nché i capi non ostruissero il foro di uscita.

Si mettevano lenzuola e tutto il resto in un altro tinozza ed insieme ad altre donne, mai meno di una decina, ci ritrovavamo al “Lavador” che si trovava sul “Trattor” vicino la latteria e l’acqua era sempre bella pulita, in quanto gli scarichi della latteria facevano un giro molto lungo e prima di ritornare sul Trattor, l’acqua si depurava. Di fronte al Lavador l’acqua aveva una bella profondità, non meno di tre metri.

Tra una risciacquata ed una sbattuta sulla tavola, si chiacchierava del più e del meno, ed il bucato, steso ad asciugare al sole d’estate o sul solaio d’inverno, emanava un profu-mo inebriante di pulito.

Ostarie, ombre e qualcos’altro

Le ostarie, ribattezzate poi bar perché sonava “mejo e più fi n”, hanno rivestito un ruolo primario nella vita del paese di Settimo; luoghi di socializzazione, “de ciacoe” ma anche di grandi baruffe, tanto che non era considerata festa se non succedeva qualche bel-la lite. A favorire l’alterco era quasi sempre la “morra”, più di qualsiasi altro gioco, tanto che fu proibita dalle autorità nazionali per evitare liti che qualche volta fi nivano, quando andava bene, con nasi e denti rotti. Ma era anche il luogo dove si facevano gli affari, si concludeva una vendita, si trovava rifugio dalle fatiche del giorno, davanti ad un “ombra de quel bon” che poi si moltiplicava ed era sempre “l’ultimo bicer quel che te ciavava”.

Per tirar a la morra, singola od a coppie, nelle osterie di Settimo arrivavano anche dai paesi vicini per confrontarsi con i campioni locali più rinomati; in palio sempre abbon-danti portate di vino, grappa anche per il segnapunti che doveva stare molto attento ad

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assegnarlo se non voleva incorrere nelle ire dei contendenti. Ed il conto andava su fi no a raggiungere cifre consistenti per l’epoca perché, oltre all’ombra, tra una partita di morra e l’altra, “se magnava ’na feta de muset ” o “’na sardea soto sal” che invogliava a bere an-cora. Alla fi ne il conto ai perdenti e “chi perde paga e non cojona”, ma loro rispondevano “una volta core el can, un’altra el lievro”, a signifi care che la prossima volta sarebbe andata diversamente. “In scarsela”però, non c’era sempre, il denaro per onorare il conto, ed allora si ricorreva al credito di fi ducia che l’oste segnava sul famoso libro e provvedeva a “disnotar” quando lo si saldava. Memorabile il debito di un uomo, del quale per ovvie ragioni si omettono le generalità, sotto il cui nome il buon Pedrinelli scrisse “debito sal-dato in Purgatorio”. L’uomo in questione infatti era deceduto senza pagare il conto.

Oltre alla morra, sui tavoli di legno si giocava a carte: tressette, briscola, bestia escarabocio mentre dal Giandro su un “canton ardea un scaras longo, mezo infi là nellaboca de la stua de teracota, l’altro mezo pusà a na carega e se lo sburtava drento manman chel brusava”. Neanche un pel di fumo perché sotto la porta entrava la “giata che l’ha magnà el pes”. Ecco lo gavemo ciamà, l’è rivà Bino Suja, tirava sassi come missili e la “britola” sempre pronta a colpire. Poco più lontan Piero Moretton “Palanca” “chel sigava” sempre viva l’Austria, non aveva fatto il militare ma portava sempre un “capelda alpin de la Giulia”.

Altri tempi scanditi proprio dalla presenza di personaggi rimasti nell’archivio delle menti. Una “strombetada” avvisava dell’arrivo di Ceci del gelato, “do balute par un vovo” immaginarsi quanti furti nelle cove delle galline.

“Le femene de fameia, co le volea magnar de magro, ricorda la Maria, le faceva la spesa da la Cia del pes o dae so’ sorelle che le vigniva da Concordia e soto el portego del bar se dividevano il pes da vendar. Tante sardee, le costava poc e le rendea tant”.

Di tutte le osterie ne sono rimaste solo due, il bar di Aldo Anese oggi trasformato in ri-storante “Morris”, e l’Osteria Alla Scala che non ha subito variazioni ed il fi glio Tiziano ha proseguito nell’opera del padre “Giandro” Giovanni Battiston e prima ancora dal siorAntonio, le altre hanno chiuso o sono state demolite; quella di Filiberto Gobat, l’altra di Giovanni Sigalot, l’altra ancora dei fratelli Battiston in piazza, e quella della “Richetta”in parte alla sala da ballo.

Tutte le osterie avevano i campi di bocce, anche se quello che andava per la maggiore era il bar di Maria e Aldo Anese su la strada alta, viale Pordenone. Qui, oltre alle bocce, regnava il “cavabaìn” che consisteva nel colpire con un tiro al volo il pallino mezzo coperto da una boccia. Ed erano veri e propri incontri con tanto di tifosi per i più bravi del paese che si confrontavano con qualcuno “de Cinto o de Pramaior”che si azzardava a mettere in dubbio la superiorità locale.

“Per zogar a le bale più di qualcuno arrivava appena magnà per ciaparse el posto”ricorda la Maria Basso. Ma Aldo Anese era rinomato non solo per la diligenza che aveva

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nel mantenere i campi di bocce che “tirava a fi n” ma anche per la “Sagra delle Rose” di fi ne maggio, con un “casin de gente che la vigniva da fora”.

“S’andava a Porto a comperare alcuni blocchi di ghiaccio, ricorda la Maria, li mette-vamo nel “mastel” per tenere le bibite in fresca. Canti e suoni che rendevano meno grama la vita, ci stavamo avviando a quella fase di evoluzione che consentiva qualche lira in tasca, avevamo appena superato gli anni cinquanta”.

Erano arrivati gli anni della grande emigrazione che spopolò Settimo, da dove par-tirono principalmente verso la Svizzera, la Francia, la Germania ed il Belgio, ma anche oltre oceano, centinaia di persone, intere famiglie. Dei 1305 abitanti del 1947, si passò nel 1969 a 905; l’intero comune soffrì e dai 3804 abitanti del 1947, Cinto insieme a Settimo sempre nel 1969, raggiunse appena le 2708 unità.

“Tanta gente all’estero che si teneva in contatto con i loro cari con il telefono, richiama alla me-moria la Maria, chiamavano pri-ma per lasciarci il tempo di avvi-sare la madre o la moglie. Scene a volte commoventi e sono stata felice per loro quando, nel 1955,siamo riusciti ad avere la cabina telefonica che lasciava più inti-mità. Mi ricordo che si commos-se anche don Duilio quando ven-ne in bar per la benedizione”.

Streghe, Maghi ed eretici

Settimo non è stato secondo a nessuno in fatto di streghe e maghi, anche se per esse-re considerati tali nel 1600 bastava ben poco. Fu lo stesso parroco di allora don Antonio Schinella che il mercoledì 8 settembre1694, denunciò, al Vescovo Paolo Vallaresso in visita pastorale nella chiesa di San Giovanni Battista, la presenza di tale “Lugretia Et-tore, che andava in giro segnando catari, benché più volte sia stata ammonita, ancora continua a segnare”. Ed aggiunse: “Tutti o la miglior parte degli uomini, nel tempo della messa stanno fuori dalla Chiesa sul Cimitero a ridere e far delle irriverenze e le donne parlano altamente in Chiesa in tempo di messa”.

Ma altre, quasi sempre donne, sono state indicate come fattucchiere più che streghe, e questo fi no ai nostri giorni. Risalgono infatti a pochi anni fa, ma forse proseguono ancor oggi, i viaggi che più di qualcuno faceva verso Coltura, Valvasone, Gleris per consultare

1955. Benedizione della prima cabina telefonica nel bardi Aldo Anese.

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il mago stregone o la fattucchiera per avere consigli o per togliere la fattura o il maloc-chio, lanciato da qualche maledizione.

Se per il mondo popolare contadino di allora, l’origine di una malattia era da ricer-carsi nell’imponderabile, non ci si può sorprendere se le terapie facevano poi ricorso alla magia oltre che alla forza delle tradizioni. Per prima cosa la fattucchiera doveva inter-pretare le forme assunte da alcune gocce d’olio versate in una scodella contenente acqua di pozzo o di canale, in base alla quale si accorgeva se c’era o meno la fattura. Appurato questo si passava alla terapia che consisteva nel leggere alcune frasi di cui solo lei sapeva il signifi cato, poi dopo aver toccato la “paziente” con una stella di lana rossa, sostituita in base alla forza della fattura con aglio, sale, chiave maschio, ferro di cavallo rotto con na-stro rosso, la fusaiola, consegnava un limone ed un uovo sodo. Il primo da gettare alle sue spalle, senza girarsi, nel primo corso d’acqua che avrebbe trovato appena fuori di casa, recitando alcune frasi scritte, poi, giunta ad un quadrivio, lanciare in aria l’uovo sodo, ripetendo le frasi dette in precedenza.

La testimonianza di un accompagnatore parla di un suo intervento su richiesta dello stregone perché “la paziente avrebbe potuto strapparsi i capelli dalla testa”. Giunta a casa, si purifi cava l’aria con l’incenso e la sera si toglieva i vestiti depositandoli a rovescio fuori dell’ingresso di casa, per indossarli il giorno dopo per il verso giusto. Un vecchio adagio recita ancora che: “’Na maledision, la salta de qua, la salta de là, fi nché la torna in cul de chi che la ga dà”.

Questi di seguito sono due fatti ai quali nessuno della fabbriceria di Settimo, riuscì al-lora a dare una spiegazione logica; due eventi che sono da collocare in un preciso spaccato religioso ed anche esorcistico, cui in molti ricorrevano quando si trovavano in presenza di fenomeni inspiegabili.

Verso la fi ne dell’800, dopo che erano state proibite le sepolture dei morti nel cimitero intorno alla chiesa, la fabbriceria di Cinto che aveva giurisdizione anche sulla chiesa di Settimo, decise di vendere le pietre che componevano sia il muro di cinta dei due cimiteri che qualche tomba in muratura. Le comperò una famiglia di cui per ovvie ragioni non si fa il nome,che le usò per costruirsi la casa. Durante i lavori di costruzione, un muratore rinvenne tra le pietre alcune ossa umane; invece di portarle nel nuovo cimitero, le sotter-rò in un angolo delle fondamenta della casa. Mai avrebbe pensato che quell’atto di per sé insignifi cante anche se criticabile, fosse stato in grado di generare questa situazione. Dalla stessa sera in cui vi andarono ad abitare, i componenti di questa famiglia sentirono dei lamenti continui, imploranti come quelli di un condannato, provenire dal muro. Della cosa venne informato il parroco che si recò in questa nuova casa per una benedizione, convinto che l’acqua benedetta avrebbe risolto questo strano caso.

Ma non fu così; i lamenti proseguirono al punto che venne coinvolto il capo della fabbriceria di Portogruaro che effettuò un’indagine. Dopo aver appurato che i lamenti

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Archivio dei ricordi

si sentivano veramente, convocò i muratori che avevano proceduto alla costruzione della casa e si fece raccontare per fi lo e per segno come avevano eseguito i lavori e che cosa fosse accaduto durante gli stessi. Venne fuori la storia dei resti umani.

Insieme al parroco si recò dall’esorcista della Diocesi che, autorizzato dal Vescovo,consigliò di procedere ad una benedizione delle fondamenta della casa come se fossero quelle di una tomba.

Ritornato a Settimo, il parroco fece come gli era stato consigliato; indossò i paramenti rituali e benedisse le fondamenta come recitava la liturgia funebre di allora.

Ebbene, da quella sera nessuno intese più nulla, i lamenti cessarono e fi nalmente la pace e la tranquillità regnarono anche in quella casa.

Siamo ancora a Settimo, parroco don Ernesto Linguanotto.Una famiglia di via Udine si recò da lui perché ogni sera, non appena si predispone-

vano per andare a dormire, sentivano dei colpi. Un toc, toc, continuo e ritmato che non consentiva loro di dormire, anzi causava una

stato di agitazione indescrivibile. Sul da farsi, il parroco si consigliò con la fabbriceria che, dopo aver esaminato le va-

rie proposte, decise di verifi care di persona il fatto ritenuto alquanto strano. Ogni sera due uomini della fabbriceria dovevano recarsi in quella casa e rimanervi

fi no a che anche loro furono testimoni dell’evento. La questione sembrava non avere una facile soluzione, anche perchè erano sorte due

scuole di pensiero: la prima dava la colpa alle galline o ad altri animali domestici che dor-mendo in qualche parte della casa avrebbero potuto essere la causa di quei colpi, quando spostavano il loro peso da una zampa all’altra.

La seconda invece, dopo aver controllato che tale disturbo non poteva provenire da quegli animali, indicò nelle anime in cerca di pace e preghiere, la causa del trambusto. Poco tempo prima infatti, a breve distanza l’uno dall’altra,erano morti i genitori del ma-rito, suoceri della donna che aveva denunciato il fatto.

Don Ernesto si recò in questa casa chiedendo se, dopo la loro morte, qualcuno della famiglia avesse frequentato la chiesa o avesse pregato per i loro morti, accostandosi poi ai sacramenti.

Avuto una risposta negativa, dopo aver redarguito con la sua proverbiale veemenza tutta la famiglia, indossò la stola ed impartì la Santa Benedizione speciale, dando appun-tamento a tutti in chiesa per la celebrazione di una Messa che avrebbe concluso il rituale religioso.

Dalla sera stessa in cui fu celebrata la messa in suffragio dei suoceri nessuno venne più disturbato da quei colpi, come appurò la fabbriceria che per oltre una settimana pro-seguì nel controllo serale.

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La Scuola

Nel secolo scorso i centri istituzionali erano la chiesa, imperio indiscusso di don Ernesto, e la scuola, istituto ancora alla ricerca di una propria precisa confi gurazione ed identità. A Settimo la scuola elementare è attiva a partire da fi ne ’800 inizialmente nella sede individuata nello stabile vicino alla chiesa dove oggi ha sede l’oratorio. All’inizio del novecento non tutti frequentavano la scuola in quanto i maschi cominciavano molto presto, a 8 o 10 anni, a lavorare nei campi e per le ragazze lo studiare era ritenuto un investimento inutile. Inizialmente questo primo edifi cio scolastico si componeva di sole due aule riscaldate da una stuffetta in terracotta alimentata dalla legna portata dagli stessi alunni, a tal fi ne spronati dagli insegnanti. Allora era un lusso poter frequentare fi no alla terza elementare e, fi no al 1948, solo queste tre classi erano attive a Settimo; coloro che avevano la possibilità di frequentare la quarta e la quinta dovevano recarsi a Cinto. Dal ’48 al 1957 fu possibile completare a Settimo l’intero ciclo elementare, dalla prima alla quinta classe. Avendo a disposizione però sempre solo due aule per cinque gruppi si do-vettero creare le pluriclassi o i doppi turni mattina e pomeriggio.

Nell’ottobre del 1957 venne inaugurata la nuova sede scolastica dall’allora sindaco Furlan Angelo, denominata Scuola Elementare “Guglielmo Marconi”, sita in via Udine, 48, ora sede del centro culturale “G. Stefanuto”. La scuola è rimasta attiva esattamente per trent’anni e vi insegnarono, con passione, maestri rimasti vivi nella memoria degli abitanti di Settimo dopo la seconda guerra mondiale quali Traverso, Elda Lazzarini, Maria Dalla Pozza, Lisetta Lazzarini, Silvia Andreon, Cornelia Marinato, Giovanni Tre-visan, Nori Collovini, Angelo Furlan, Jole Zamberlan… Un solo insegnante aveva fi no a 50 alunni e risultava molto diffi cile controllarli malgrado la severità di quei tempi e i metodi educativi che contemplavano bacchettate sulle mani, schiaffoni, punizioni in ginocchio sui sassolini dietro la lavagna, ecc.: sistemi che purtroppo si dimostravano relativamente effi caci.

Mentre negli anni ’40 in una classe si contavano anche 40 alunni, nel 1980 a Settimo sono nati solo 4 bambini; questo decremento demografi co è continuato per anni fi no a portare alla chiusura del plesso scolastico.

Gli orari e le presenze erano molto elastici e legati alla stagione e al tempo atmosfe-rico: molti si assentavano per aiutare a casa nel periodo della vendemmia, della raccolta del mais e della fi enagione; quelli che abitavano più lontano spesso mancavano per l’im-

MEMORIE

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Memorie

praticabilità delle strade dovuta al cattivo tempo. Le strade comunali dell’epoca potevano essere in terra battuta, d’estate ricoperte da centimetri di polvere che quando pioveva si trasformavano in scie fangose e disseminate di pozzanghere; oppure sentieri campestri diffi cilmente percorribili col cattivo tempo. L’orario d’inizio coincideva con l’arrivo del maestro e della maggioranza dei ragazzi; la ricreazione poteva durare anche un’ora (con il tacito assenso dell’insegnante) perché giocando il tempo volava.

Gruppi di ragazzi, denominati dal parroco di Cinto don Tarcisio “I selvaggi di Setti-mo, nel mese di maggio sparivano da scuola per giorni per andare a nidi: erano eviden-temente più interessati e attratti dal risveglio della natura che dalle attività della scuola. Durante le lezioni era attivo un frenetico traffi co di fi gurine, palline, bottoni, pennini, panini e quant’altro il povero mercato poteva offrire: nessuno aveva soldi e gli scambi avvenivano attraverso il baratto.

L’unico in famiglia che aveva la cassa era “el paron de casa” che faceva gli affari, andava al mercato, dava gli ordini, ecc.. Tutti gli altri componenti della famiglia dovevano arrangiarsi con mille espedienti per poter soddisfare ogni bisogno o vizio; il sistema più in voga consisteva nel tallonare le galline per recuperare le uova, riconosciute in ogni botte-ga come moneta sonante. Era un’attività non facile considerata l’agguerrita concorrenza presente in famiglia: i bambini le usavano per procurarsi fi gurine, palline e altri piccoli giochi; i più grandi le usavano per procurarsi sigarette (le più popolari ed economiche erano le Alfa senza fi ltro), che si potevano acquistare anche sciolte, o tabacco da naso; per le donne di casa erano una risorsa per l’acquisto di fi lo e stoffa per cucire i pochi abiti indispensabili che poi ci si passava da un fratello all’altro. Le diffi coltà contingenti portavano a comportamenti poco ortodossi: ci si appropriava con facilità di quanto poteva essere a portata di mano e ci si abituava presto ad avere mille occhi ed attenzioni. Tutti cercavano di arrangiarsi; ricordo un giorno all’uscita di scuola lo scompiglio di un gruppo di ragazzi più fortunati che nell’indossare la loro mantella, tipo “gaban” , si accorsero che erano completamente prive di bottoni: un compagno aveva trovato il modo di procurarsi il materiale indispensabile per partecipare al gioco e agli scambi.

Alcuni ricordano con allegria un episodio accaduto in una classe con un maestro par-ticolarmente severo. Accade che questo insegnante tardò e i suoi trenta discoli, tutti riuniti in aula, più passava il tempo più si scatenarono in un frastuono assordante. Tanto piaceva quell’atmosfera di libertà e sfrenatezza che uno dei più svegli pensò di allungare quel tempo chiudendo non la porta dell’aula bensì quella della scuola prima di dedicarsi con totale pas-sione alle urla, alle risa e agli scherzi senza limite. Il maestro quando giunse bussò, picchiò sulla porta con un bastone, urlò ma all’epoca bidelli non c’erano ed il baccano all’interno era tale che nessuno lo udì. Quando, dopo oltre un’ora, riuscì a farsi sentire e aprire, entrò adirato, fece mettere in fi la i trenta sudatissimi e scompigliati discoli e li prese a calci fi nché non sbollì l’ira. Quel giorno non si fece lezione, il clima era irrimediabilmente rovinato!

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Due volte all’anno il Direttore Didattico giungeva in bicicletta da S.Stino in visita alla scuola: noi eravamo adeguatamente preparati dal maestro al suo arrivo, tutti in ordi-ne, schierati e soprattutto buoni perché il maestro ci avrebbe fatto pagare molto caro un comportamento poco educato.

Ragazzi e ragazze non giocavano mai insieme, sarebbe stato sconveniente in quanto qualche “tortorella” (informatore) lo avrebbe certamente riferito a don Ernesto il quale, con dovizia di particolari, avrebbe reso pubblico l’evento nel corso delle sue famose pre-diche domenicali.

All’epoca tutti andavamo a scuola a piedi perché c’erano pochissime biciclette che dovevano venir lasciate a disposizione degli adulti e poi sarebbe stato troppo rischioso lasciarla incustodita per ore.

Luigi Bagnariol

Il maestro Trevisan

L’insegnante maestro Trevisan era senza dubbio una personalità di spicco, godeva di tutti gli attributi propri di un insegnante nostrano, cioè del paese dove abita ed insegna: conosceva tutto di tutti, perché gran parte dei paesani erano stati educati da lui; era sempre disposto ad aiutare con consigli e spiegazioni; ma qualche volta però quando per qualche motivo certe persone lo facevano arrabbiare non esitava a farsi valere alzando il tono della voce e parlando in lingua italiana pura, senza concessioni al dialetto.

Non è mai stato il nostro insegnante di classe anche se spesso capitava che sostituiva la nostra maestra assente o in ritardo. Ricordo che durante una di queste supplenze, verso il periodo pasquale, ci radunò tutti nella sua classe e ci spiegò molto bene il signifi cato della Pasqua e poi, siccome la maestra non arrivò, decise di illustrarci i luoghi d’Israele dove Gesù trascorse la fi ne della sua vita e specialmente il luogo della crocifi ssione: il monte Golgotha. Per farcelo capire meglio fece un bel disegno sulla lavagna, a colori! In primo piano il Crocifi sso, sulla cima del monte, con cipressi, olivi e soldati romani. Devo dire che il maestro sapeva disegnare molto bene ed io ero stupito sia del disegno che della storia anche se la conoscevo già bene perché il prete ce l’aveva spiegata durante la lezione di catechismo. Quando il maestro fi nì il suo bel disegno ci chiese se ci piacesse e che ora toccava a noi; dovevamo tirar fuori il nostro quaderno, i pastelli e copiare il suo disegno dalla lavagna. Io ho cercato di fare il meglio ma purtroppo non riuscivo a disegnare bene i piedi di Gesù. Ho chiesto allora l’aiuto del maestro! Venne giù dalla cattedra, osservò il mio disegno, prese la matita, fece i piedi di Gesú e stava per ritornare in direzione della cattedra quando improvvisamente si fermò, riguardò il mio disegno e disse a voce alta: – Giorgio, ma tu hai fatto un prato pieno di fi ori al posto del monte, come se Gesú fosse in mezzo al Palú – Io candidamente risposi: – Scusi Signor maestro, ma ho sentito che

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Memorie

Gesú è morto per tutti, anche per noi a Settimo –. – Bene bambino, bravo, si può pensare anche così –, e con un sorriso tornò a sedersi sulla sua sedia, che a me sembrava un trono dietro la cattedra.

Gita scolastica

Era da sempre un rituale in primavera, il recarsi tutti insieme, guidati dalla maestra, al Palù: un paradiso di prati in fi ore, di acque limpide e sane, di odore di primavera dove chi ama la natura sente respirare l’anima. La merendina, se non era già stata divorata prima, qui ci sembrava più del solito. Le bambine ed i bambini camminavano tranquilli, in fi la, due per due, parlavano sotto voce per non disturbare la natura ed il loro mormorio faceva bene agli alberi, alle erbe alte, accarezzate dal vento, alle acque tranquille che scorrevano nel canale dirette verso il mare. Naturalmente era proibito avvicinarsi troppo alla sponda, o lo si poteva fare solo in presenza della maestra, che, dopo averci spiegato la differenza tra viole mammole e violette, ci diede un’oretta di tempo libero per fare ognuno ciò che più lo interessava. C’era chi raccoglieva fi ori, chi disegnava, chi chiacchierava, chi si sdraiava sull’erba per godersi i primi raggi caldi di un sole che anticipava l’estate. Poi tutti contenti e anche un po’ stanchi abbiamo fatto ritorno in classe, puntuali all’orario di fi ne lezione per far ritorno alle nostre case e raccontare a casa quanto era meravigliosa la zona del Palù.

I primi giorni di scuola

Il primo di ottobre del 1950 cominciò per me un bel periodo durante il quale mi sen-tivo in mani sicure, quelle della gentile maestra da Venezia, ed in buona compagnia dei compagni/e di classe. Con un grembiulino nero ed una striscia rossa verticale attaccata al petto sulla sinistra del grembiule iniziò quella grande avventura chiamata “scuola”.

Il dolce far niente dalla mattina alla sera fi nì! Ma non era proprio così! In quel tempo si lavorava già in casa e si avevano dei compiti ben precisi: di mattina presto, con una bi-cicletta da uomo adulto, che potevo usare solo infi landomi nel triangolo del telaio, dovevo andare a portare il latte in latteria a Settimo dal casaro, el Signor Valentin, che pesava il latte, scriveva il peso nel libretto personale della nonna, il Nr. 11, e ci salutava, spesso anche in lingua francese: bon jour! Poi dovevo preparare la legna per la stufa, accudire i fratelli più piccoli, ecc.. Devo ammettere che la scuola ha portato per me un notevole sollievo e la trovavo più interessante del lavoro suddetto. Ero molto curioso di poter saper scrivere e leggere…forse già a Natale! Non vedevo l’ora di cominciare a fare le “aste” su quel quadernino a quadretti con la matita ben appuntita.

La prima “ricreazione”, verso le ore 10 e mezza, rimane per me indimenticabile!

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Memorie

Infatti a quell’ora fecero il loro ingresso nel corridoio d’entrata dell’edifi cio due donne con un grande paniere pieno di panini freschi, profumati, imbottiti di formaggio fresco, profumatissimo, quello che appunto passava dalle sante mani del casaro Valentin. Mi mesi in fi la ma purtroppo senza successo!!! Quei panini erano preparati solo per i ragazzi più poveri, cioè quelli che in casa non possedevano la vacca. Noi invece, cioè la nonna, ce l’aveva e quindi niente panino. Devo ammettere però che qualche volta, quando mancava qualche povero, bastava andare su e giù per il corridoio con occhioni grandi e l’espres-sione affamata e le buone donne mi accontentavano almeno con la metà di un gustoso panino. E quel sapore, quell’odore lo sento ancora oggi, quando ho fame.

Il presepio

Da poco superati i primi esercizi con aste, cerchi e quadrati, che ci fecero conoscere le vocali e, i, u, o, a , e le consonanti, che arrivò il periodo dell’Avvento, cioè il tempo di preparazione alle Feste del Santo Natale. Mentre le bambine dovevano preoccuparsi delle statuette ricavandole da disegnini, i ragazzi erano incaricati di cercare muschio, procurare pezzi di legna, radici d’alberi e quant’altro poteva essere adatto per costruire un presepio, piccolo ma bello, che diveniva il punto più bello ed attraente della classe fi no al sei gen-naio del 1951.

L’idea di portare anche della creta in classe per formare così una grotta si rivelò purtroppo molto svantaggiosa perché, per mancanza d’esperienza con la lavorazione di quel materiale, né uscì un gran pasticcio che solo la maestra, con grande comprensione e buona volontà, riuscì a risolvere.

Gli ultimi giorni prima di Natale erano dedicati alle prove scritte, con il poco di scrit-tura che eravamo riusciti ad imparare, di una letterina al papà che poi si usava mettere sotto il piatto al pranzo di Natale.

La tartaruga

La nostra famiglia abitava nella zona della cosiddetta strada alta, oggi Viale Porde-none, e per andare a scuola a Settimo usavo di solito andare fi no al Cisiol per poi girare a sinistra fi no alla scuola. Quando però faceva bel tempo ed i campi erano asciutti prefe-rivo fare una scorciatoia: dal retro della nostra casa seguivo la stradela fi no alla fi ne del nostro campo, saltavo poi il ruscello, el trator, che portava sempre acqua alta da trenta a cinquanta centimetri; prima buttavo la cartella e poi con una rincorsa saltavo dall’altro lato della riva, per continuare su un sentiero dei campi della famiglia Fantin. Una matti-na, dopo aver osservato con cura la riva prima di saltare vidi una tartaruga tra l’erba che sembrava mi guardasse muovendo la testolina come in cenno di saluto. Decisi di metterla

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Memorie

in cartella e portarla a scuola. Senz’altro ho incrociato il piano di lezione della maestra per quel giorno. Ma invece lei ci spiegò sul tema tartarughe molte cose utili a sapere e noi tutti, zitti ed attenti abbiamo ascoltato ed imparato. Al termine della lezione ho dovuto promettere di riportare la tartaruga dove l’avevo trovata e lasciarla libera al suo destino. E così feci; di tanto in tanto, anche dopo anni, mi reco volentieri in quel luogo! Purtroppo la tartaruga non c’è più.

Giorgio Fratte

Famiglia e lavoro

Le gerarchie sociali erano chiare: come in famiglia comandava e disponeva “el paron de casa” tra noi ragazzi i più grandi potevano prendere possesso della piazza e i più pic-coli dovevano cercarsi spazi appartati attorno alla chiesa per poter giocare in pace.

Le funzioni religiose, a dispetto di don Ernesto e delle sue ”tortorelle”, specialmente i vesperi serali e i rosari di maggio, erano occasione di incontri con le ragazze che potevano ottenere il permesso di uscire solo in quelle circostanze a differenza dei maschii che erano più liberi di muoversi.

Le importanti occasioni in cui tutto il paese di riuniva erano le tradizionali funzioni religiose (rosari, processioni, feste del patrono); alcuni lavori nei campi quali la raccolta e la trebbiatura del frumento, la vendemmia, il taglio del fi eno, la raccolta del mais, il rito dell’ uccisione del maiale, la nascita dei vitelli. Le famiglie allora si univano e aiutavano vicendevolmente in quanto non c’erano macchine e occorreva molta manodopera.

Altro momento di socializzazione era il ritrovo nel periodo invernale nelle stalle più capienti delle famiglie più numerose. Tutto questo univa il paese e creava fratellanza e so-lidarietà ma era anche un modo per trasmettere i valori e le tradizioni che caratterizzavano e sostenevano quella società. Per esempio il taglio del fi eno, apparentemente un’attività ripetitiva e insignifi cante, era invece un rito. Il taglio veniva preparato in maniera accurata perché i tempi dovevano essere i più brevi possibili. All’alba i gruppi di uomini più bravi, affi atati e ricercati, partivano col falsin, la piera e il fi asc de vin, perché il fi eno umido di brina è più tenero e si taglia più facilmente. Iniziava la gara al più veloce. Ogni paese aveva i suoi campioni. Verso mezzogiorno i falciatori rientravano a casa, mangiavano ed andavano riposare mentre le donne, dopo aver sistemato tutto e tutti partivano per i campi a rastrellare ed ammucchiare il fi eno, tenendo d’occhio il cielo e sidando le nuvole. A questo punto tornavano in scena i professionisti che caricavano il fi eno sui carri e lo tra-sportavano in tieda o sulla meda. Queste operazioni erano molte delicate perché il carro aveva le ruote in legno, era costruito alla buona e quindi poco stabile, inoltre era trainato da mucche o buoi che facevano spesso le bizze e dovevano percorrere strade che erano un disastro, piene di buche e corriade. I percorsi tra il campo e l’abitazione alle volte erano

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Memorie

lunghi e quindi saper caricare bene un carro faceva risparmiare tempo perché occorrevano meno viaggi e rischi di ribaltamenti lungo il tragitto che avrebbero fatto perdere molto tempo. Ogni paese aveva i suoi campioni, sempre molto ricercati, nel sistemare il fi eno sul carro.

A quei tempi la considerazione della gente verso una persona non era legata alla sua situazione fi nanziaria perché per tutti il nemico comune era la povertà. Godeva di con-siderazione il saper far bene un certo lavoro, o gioco. C’era chi emergeva nel taglio del fi eno, chi nel sistemarlo sul carro, chi catturava più passere con il diavolon, o rane con la fi ocina, o anguille e pesci “seccando” i fossi, chi si arrampicava meglio sul palo della cuccagna o sugli alberi, chi attraversava più volte le cave grandi, chi si tuffava da una maggiore altezza dal pioppo nelle cave , chi lanciava più lontano il cibè. Questi erano gli eroi e di loro si parlava molto; erano rispettati e citati come esempio. Oggi lo status sociale dipende dalla cilindrata della propria automobile, dal vestito fi rmato; dipende dall’apparire e non dall’essere.

Luigi Bagnariol

Chicche di vita quotidiana

Erano ancora tempi duri, qualche anno dopo la seconda grande guerra! E per mancan-za di risorse noi bambini portavamo i pantaloncini corti anche d’inverno! Per i più fred-dolosi c’era la possibilità di portare le calze come le donne; c’era invece qualche bambino che non le voleva indossare, preferiva piuttosto patire il freddo e mettere calzettoni di lana che arrivavano al ginocchio, nella maggior parte dei casi, fatti a mano dalla nonna. An-ch’io ero uno di questi. E così, molto spesso si correva a scuola perché nessuno sentisse il battere dei denti. Una bella mattina, fredda ma serena, mentre mi recavo a scuola, decisi di fare una slittatina sul ghiaccio nel fosso davanti la casa di Arnaldo. Con gli zoccoli di legno neri, con le “brocche” sotto la suola perché lo spessore di questa non si consumasse troppo in fretta, si slittava da “Dio”. Per due o tre volte andò anche bene! Ma ad un certo punto il ghiaccio non resse e sono piombato nell’acqua gelida fi no al ginocchio…

Pian piano sono riuscito a riconquistare la riva e portarmi sul ciglio della strada. - E adesso che faccio? – Mi sono chiesto. Andare a casa, no, sarebbero state botte sicure! Meglio andare a scuola: mi piaceva di più ed era anche divertente. Arrivato in classe, con qualche minuto di ritardo, i compagni si misero a gridare: - Maestra! Guardi Giorgio, sembra che abbia due “baccala” alle gambe! Infatti con il freddo che faceva i calzettoni erano bianchi e ghiacciati. La maestra mi aiutò subito a togliere prima gli zoccoli, che mise vicino alla stufa, poi mandò un ragazzino a prendere della legna per incrementare la fi amma che avrebbero dovuto asciugare me, gli zoccoli ed i calzettoni che, dopo avermeli tolti con grande attenzione, mise ad asciugare sopra la stufa. Nel frattempo i compagni

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Memorie

mi offrirono chi il cappottino, chi la sciarpa e tutti fecero del loro meglio per soccorrer-mi; dei veri amici! La maestra aveva previsto per quel giorno un dettato, che cominciò subito dopo avermi soccorso e non appena in classe era calato quel silenzio da tomba che precedeva ed accompagnava i dettati, dall’inizio fi no alla fi ne. Ma quel giorno no, non fu così!

Ad un certo punto qualcuno improvvisamente gridò: c’è odore di carne bruciata! Maestra, i calzettoni di Giorgio arrostiscono!… E così fu, quel giorno ritornai a casa con i calzettoni arrostiti.

Giorgio Fratte

Emigrazione

Settimo è sempre stata terra di emigrazione, il tessuto sociale era composto da operai edili, carpentieri,donne di servizio, contadini piccoli proprietari e da famiglie di mezzadri molto numerose.

Le famiglie per vivere hanno sempre avuto bisogno delle risorse provenienti dalle rimesse degli emigranti in quanto le fonti di guadagno, in paese, non erano suffi cienti al sostentamento di tutto il nucleo famigliare e derivavano quasi esclusivamente dalla stalla composta anche da un’unica mucca e dal allevamento del baco da seta, spesso fatta anche nelle camere da letto.

L’emigrazione avveniva a cicli e a fl ussi, si scriveva a conoscenti, parenti che lavo-ravano fuori per chiedere lavoro; il tam-tam funzionava e infatti i paesani di Settimo si ritrovavano nelle stesse zone. Un ruolo importante per i contatti era rivestito dal parroco.

Negli anni 50, Settimo si era completamente svuotata: erano rimaste poche centinaia di persone quasi tutti vecchi e bambini, molti avevano trovato lavoro in zone d’Italia più ricche, quali la Lombardia, il Piemonte o all’estero, in Francia, nell’edilizia e nell’agri-coltura, in Belgio nelle miniere di carbone, in Germania come camerieri gelatai o nelle fabbriche. Nelle Americhe, in particolare Canada e Argentina, questi emigranti si sono trasferiti per lo più stabilmente e i rapporti con il paese si sono piano piano sempre più indeboliti.

Altro fenomeno rilevante è stata l’emigrazione stagionale in Svizzera: il governo Svizzero stipulava solo contratti di lavoro annuali onde evitare che si potesse richiedere la cittadinanza o il ricongiungimento famigliare e così i nostri lavoratori erano costretti a rientrare nel periodo invernale, di solito verso Natale, rinvigorendo il paese e portando qualche regalo a chi era rimasto. Gli emigranti di Settimo in Italia o nel resto dell’Europa rientravano ad Agosto, quando si fermava per ferie l’attività lavorativa.

Questi ritorni erano sia un modo per poter ricongiungersi con i propri familiari sia un modo di fare le ferie molto economico, avendo o la casa propria o ancora indivisa con

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Memorie

parenti dai quali venivano ospitati. Di conseguenza anche in agosto Settimo si ripopolava e si creavano rapporti e amicizie che rivivevano ogni anno. Con il passare del tempo il dialogo diventava meno nostrano perché gli esterni assorbivano sempre di più il modo di vivere delle città in cui vivevano e c’erano sempre meno affi nità con i locali che quindi, un po’ alla leggera, affermavano che i romani fossero (a torto?) sbruffoni, i milanesi sa-pientelli, ecc...

Negli anni ’60 questo fi nì perché gli svizzeri sono quasi tutti rientrati, trovando lavoro in Italia dove iniziava il boom economico, e gli altri lentamente avevano perso i contatti con il paese d’origine.

Molti emigranti di Settimo o loro discendenti si sono fatti onore all’estero; alcuni hanno fatto fortuna come maestri d’arte: Angelo Cesselon, pittore di cinema, a cui è stata dedicata una via e Luciano Cesco importante artista di Locarno. Altri si sono distinti in varie attività – cito per tutti Bortolusso sindaco di S. Paolo del Brasile –. A Patrick Bat-tiston, grande calciatore capitano della squadra nazionale francese, e Jean-Marc Furlan, calciatore di première division nazionale francese, è stata conferita nel giugno 2005 la cittadinanza onoraria di Cinto Caomaggiore anche per sottolineare le origini cintesi dei loro genitori (foto in basso). Altri di Settimo si sono distinti all’estero: cito ad esempio Giorgio Frate che è stato capo del personale della Volkswagen e attuale presidente della Fondazione Dante Alighieri a Monaco.

Luigi Bagnariol

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Memorie

Foto di gruppo di con la maestra Lisetta Lazzarini. Anni ’40.

Foto di gruppo di con maestro Giovanni Trevisan. Anni ’40.

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Memorie

Recita natalizia nella scuola elementare di Settimo. Anni ’60.

Ottobre 1957: inaugurazione della scuola elementare G. Marconi di Settimo.

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Memorie

Scuola di cucito in casa Paola negli anni ’50. Da sinistra: Elia Vidotto, Anna Maria Daneluzzi, la maestra Maria Schiavo, Flavia Travain e Virgilia Vidotto.

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XXXIII

Antonio Paissan

Nato a Settimo il 12.5.1913, legato da una profonda amicizia a Angelo Ces-salon, frequenta per corrispondenza l’Accademia Beato Angelico di Torino e l’artista Callisto Bornancin a Fossalta di Piave. Studia decorazione con Michelin di Portogruaro, allievo del Donadon di Pordenone (autore degli affreschi di Villa Bornancin). Dopo la grande guerra parte per la Svizzera dove esegue molti ritratti e paesaggi su commissione. Partecipa a varie mo-stre fra cui una organizzata dalla ditta G. Fischer a Sciaffusa. Rientra in Italia nel 1972, si dedica ancora per qualche anno all’arte. Problemi di vista non gli permisero di completare come avrebbe voluto il dipinto di S. Giovanni e la Madonna (foto in basso) che don Danilo Favro volle comunque esporre presso la chiesetta della Concezione. Muore a Cinto nel 1985.

ARTISTI DI SETTIMO

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XXXIV

Ritratto di Antonio Paissan Angelo Cesselon

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XXXV

ARTISTI DI SETTIMO

Angelo Cesselon

Angelo Cesselon è nato a Settimo di Cinto Caomaggiore il 17 Febbraio 1922. Il suo primo maestro fu l’artista cintese Toni Paissan con cui rimase in grande amicizia per tutta la vita. A quindici anni si trasferì con tutta la fami-glia a Roma dove cominciò a frequentare alcuni studi artistici, pubblicitari e cinematografici. Di estrema importanza per la sua formazione fu la plurien-nale collaborazione nello studio di cartellonistica di Ercole Brini. Alla fine degli anni ‘40 apre uno studio personale e diventa in pochi anni uno dei più noti pittori di cinema. Ha lavorato per tutte le grandi case di produzione e distribuzione: Metro Goldwin Mayer, Twenty Century Fox, Enic, Miner-va, Titanus, Paramount, Columbia, Rko, Fida, Cineriz. Realizza migliaia di manifesti, compresi quelli di alcuni film celeberrimi come “Grand Hotel”, “Don Camillo”, “Marcellino pane e vino”, “Totò sulla luna”, “ Notorius”, “Io ti salverò”, “La donna più bella del mondo”, “Soldato blu”. Memorabili furono i suoi ritratti di Marilyn Monroe, di Ingrid Bergman, di Ava Gard-ner, di Paul Newman, di Gina Lolobrigida e di molti altri protagonisti del cinema internazionale. Nel 1955 consegue il premio Spina-Gambellotti come miglior pittore cinematografico italiano, ottenendo sucessivamente riconoscimenti in tutto il mondo. Nel 1958 viene indicato come miglior ritrattista internazionale e invitato a realizzare i ritratti di uomini po-litici, come l’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e di Papa Giovanni XXIII. Negli anni ‘60 comincia a dedicarsi sempre più intensamente all’arte sacra e all’il-lustrazione di libri. Di particolare importanza è la realizzazione del manifesto per l’VIII Centenario della nascita di San Francesco. Nel cam-po dell’illustrazione del libro c’è da segnalare l’esecuzione di trenta tavole per la “Divina Commedia” e l’illustrazione del libro “Cuore” nel 1977. L’artista è scomparso a Velle-tri nel Settembre 1992.

Angelo Cesselon davanti a un dipintodi Antonio Paissan

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Bozzetti cinematografici di Angelo Cesselon. In alto a sinistra “Dinastia indomabile” (1951), a destra “Il bacio di Venere” (1965), sopra “Io ti salverò” di A. Hitchcock (1959)

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XXXVII

Bozzetto per “Don Camillo” di Duvivier (1962) Angelo Cesselon

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XXXVIII

ARTISTI DI SETTIMO

Luciano Cesco

Luciano Cesco è nato a Cinto Caomaggjore (VE). Ha studiato mosaico, pittura e scultu-ra. Sin da giovane emigra in Svizzera stabi-lendosi a Locarno dove vive e opera da 50 anni. A 25 anni esordisce nel mondo delle arti figurative impegnandosi costantemen-te nella ricerca di nuove soluzioni soprat-tutto nel settore del restauro conservativo e in questo è l’artefice unico e riconosciu-to di un sistema radicalmente nuovo che permette di staccare e riportare (su tela) ogni genere di affresco e dipinto, compresi quelli “magri”, ovvero sottilissimi, di tele vecchie e precarie. È presidente dell’Asso-ciazione internazionale dei maestri restau-ratori (“Ver Ars”), le cui sedute si tengono in Vaticano. Dell’associazione fanno parte cinquanta artisti di tutto il mondo. È inoltre presidente dei Maestri restauratori, associazione che ha sede a Locarno e che fa parte del “pool” di analoghe associazioni attive a Roma, Firenze, Sondrio, S. Maria Maggiore (Valle Vigezzo). Il decreto legislativo n. 203 del 13.3.1952 gli ha attribuito la nomina a docente straordinario nel ruolo di “primo” per l’insegnamento delle applicazioni artistiche teorico pratiche. Ha

ricevuto numerosi riconoscimenti e ha partecipato su invito, a esposizio-ni e concorsi a li-vello internaziona-le. È stato invitato al “Triangolo d’arte figurativa euro-pea”, esposizione itinerante dal 2004 al 2006 a Londra, Berlino e Mosca, ristretta a soli cin-quanta artisti.

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XXXIX

Via Crucis: prima caduta Luciano Cesco

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XL

Volatili Luciano Cesco

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XLI

Casa in via Udine Gioia Boccardi

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XLII

Palazzo Regazzoni Sagredo Marcello De Vecchi

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XLIII

La quercia del Palù Lenci Sartorelli

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XLIV

Borgo San Giovanni: casa Bernava Eddy Nociforo

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XLV

La chiesa di Settimo vista dal Palù Julia Populin

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XLVI

Casa Zoratto Rita Albertario

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XLVII

Casa in Boschetta (incisione) Francesco Marcorin Bogdanovich

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XLVIII

L’angelo dell’Annunciazione (da affresco di G. da Tolmezzo) Orietta Celant

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Premessa

Il tema che mi è stato assegnato per questa pubblicazione, in sé affascinante, intimo-risce non poco. Infatti, cent’anni racchiudono un lasso di tempo che a volte si stenta a comprendere fi no in fondo anche se questi anni si riferiscono ad una piccola realtà che, come nel nostro caso, è quella del paese di Settimo.

Il contributo che cercherò di dare in queste righe, sarà costituito pertanto da uno sguardo “veloce” sull’ultimo secolo di vita di Settimo, meritando il tema ben altro inve-stimento sia in termini di tempo sia in termini di spazio.

È superfl uo, date le considerazioni, che richiami in questo lavoro notizie ben note o elenchi in ordine cronologico una serie di date; solo di alcune mi approprierò, quando eventi di carattere nazionale ed internazionale abbiano inciso fortemente nella vita e nel pensiero della gente del nostro paese.

Due guerre mondiali coinvolgono, con tutta la loro drammaticità, gli abitanti di Set-timo ed il suo territorio. Dirò subito che ne parleremo, senza per questo farci coinvolgere in posizioni (il più delle volte di profi lo) demagogiche o di parte. Cercherò, invece, di associarmi al pensiero più illuminato secondo il quale tutti i morti meritano rispetto a prescindere dal colore della divisa o dalle idee per le quali combatterono e persero la vita, tenendo bene in mente le cause assai diverse che hanno provocato le morti. Questo vale in particolare per il secondo confl itto mondiale del secolo scorso e per quanti hanno sacrifi cato la loro vita dopo l’8 settembre 1943.

21 ottobre 2006 giorno di S. Orsola

Settimo: un secolo di vita paesana

Come sempre accade quando un secolo fi nisce si è presi dall’ansia di sapere come sarà il secolo che verrà. “Mille e non più mille” sta scritto nella Sacra Bibbia; ciò non ci aiuta a stare un poco più tranquilli con noi stessi, per quella fi ducia nel domani che sem-pre ci manca e ci rende il futuro ancora più incerto e cupo, prendendo in parte proprio dall’enunciato biblico il suo signifi cato più enigmatico e, se si vuole, anche più umano.

Sul fi nire dell’Ottocento anche a Settimo arrivano le prime innovazioni, portando un miglioramento delle condizioni di vita della gente della campagna. Ci vorranno però molti decenni per debellare fi no in fondo il sottosviluppo, la precarietà sociale e culturale

IL ’900 A SETTIMO Mario Miorin

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Il ’900 a Settimo

dei mezzadri e di quanti si dedicano unicamente al lavoro della terra per il loro sostenta-mento. Un’epidemia di febbre tifi ca fa si che anche in paese a Settimo si perforino i primi pozzi artesiani che andranno via via a sostituire i pozzi tradizionali assai meno igienici e funzionali.

Intanto l’Ottocento fi nisce, presentandoci un ’900 con tutte le sue contraddizioni ed eventi tragici. Per tutti i primi cinquant’anni del secolo passato la nostra gente vivrà situa-zioni drammatiche. Le disgrazie si annunciano presto e non si fanno attendere.

“La Patria del Friuli ”,una pubblicazione che si stampa a Udine all’inizio del secolo, fa memoria di Settimo. È il 22 gennaio 1904, il foglio riporta con ampi dettagli di cronaca un incidente mortale di caccia, avvenuto, in quella data, proprio in via Basedat. Cita il fat-to anche Gian Piero del Gallo nei suoi Annali di Cinto alla pagina 160, per le edizioni del Comune di Cinto Caomaggiore. L’incidente è forse un presagio, per quanto sta accadendo tra Austria e Serbia che sfocerà in quell’immane tragedia che fu la prima grande Guerra Mondiale. Il 24 maggio 1915 l’Italia entra in guerra. Settimo contribuirà, come il resto della nazione, all’invio dei suoi fi gli a combattere gli eserciti Austro-Ungarici. Berna-va Antonio, Campaner Vittorio, Candoni Biagio, Cesco Giuseppe, Drigo Davide, Furlan Umberto, Giusti Arturo, Marson Luigi, Paissan Giovanni, Ros Antonio, Scremin Anto-nio, Vecchiato Primo, Zaghis Evaristo, Campagnolo Gio Maria, Campanerutto Oreste, Cecconi Luigi, Chiaradia Antonio, Fantin Giovanni, Gasparotto Giovanni, Liut Angelo, Marzinotto Giuseppe, Pinos Enrico, Savian Mario, Sigalotti Antonio, Visentin Luigi, Za-net Pietro. Questi i loro nomi ricordati ai pie-di del monumento ai caduti in guerra, posto davanti alla chiesa di Settimo. “Morirono in guerra, vivono nella gloria” recita la lapide voluta dalla nostra gente.

Si arriva all’autunno del 1917. Il 5 no-vembre, Settimo si è trovato, stretto come d’altronde anche Cinto, tra l’esercito austria-co e quello italiano. Alla fame e alla carestia si aggiungono i saccheggi, le predazioni e le sottrazioni imposte dai due eserciti bellige-ranti. Al dramma si aggiunge il dramma. La ritirata austriaca, dopo la disfatta del Piave del 15 e del 16 giugno 1918, fa subire alla gente di Settimo altri patimenti forse supe-riori alla prima ondata di invasione. La chiesa di Settimo negli anni ’40.

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Il ’900 a Settimo

Passano alcuni giorni. Il 28 dello stesso mese di giugno del 1918, nelle vicinanze di Parigi, viene fi rmato il trattato di pace con la Germania, noto come: “Il trattato di Versailles”.

Una lenta ripresa aspetta gli abitanti del nostro paese, i sacrifi ci non si contano, come non si contano i paesani che ostinatamente cercano di affrancarsi dalle dure condizioni della mezzadria e dall’unico reddito agricolo. La tenacia della nostra gente è premiata.Molti sono gli abitanti che ricoprono ruoli importanti nell’area portogruarese. L’arrivo del sacerdote don Ernesto Linguanotto, nel febbraio del 1919, porta un contributo forse determinante alla formazione delle coscienze delle donne e degli uomini di Settimo.

Le attività messe in cantiere da questo severo uomo di chiesa sono ancora nella me-moria di molti paesani, di lui molto si è scritto. Un esauriente profi lo su Linguanotto lo si può trovare anche in “Curato prete e arciprete”, una breve biografi a che io stesso ho inserito nel libro “La neve e il Sahara”, per le edizioni della Pro Loco di Cinto Caomag-giore del 1998. Una lunga fi la di nomi, alcuni di grande profi lo, sono usciti dalla scuola di pensiero di don Linguanotto, ne ricordiamo alcuni come Angelo Furlan poi Sindaco a Cinto, Angelo Cessellon, insigne pittore a Roma, e altri ancora: Giuseppe Fantin, Pietro Infanti, Egidio Miorin, Mario Celant, Renato Celant, l’elenco sarebbe lunghissimo e io mi assolvo dal continuarlo.

La prima Grande Guerra si è faticosamente dimenticata, il desiderio di riscatto dei nostri paesani si fa pressante, ed ecco allora che si apre la via dell’emigrazione verso i paesi europei ed americani. Roma, nei primi anni venti, vede una vera e propria colonia di settimini, impegnati in svariati settori lavorativi; i nostri paesani sanno dire la loro con apprezzamenti ancora oggi riscontrabili.

Piace anche qui ricordare Luigi Vaccher “Gigi” che a Roma prestò la sua cazzuola a molte opere architettoniche di rilievo. Anche di lui si trova un profi lo nel libro “Scarpe gialle e altre tracce” da me pubblicato nel 1996.

A ben indagare, anche nella piccola realtà di Settimo, pare, in buona sostanza, che sia proprio il tema dell’emigrazione il fatto economico e sociale più importante e ricorrente di tutto il secolo ventesimo o, almeno, in gran parte di esso, così come lo è stato per Cinto Caomaggiore, per il resto dei comuni veneti e per gran parte dell’Italia.

Il fenomeno migratorio, tanto sentito anche ai giorni nostri per l’affl usso quotidiano di extracomunitari verso le nostre coste e quelle europee, altro non fa che riconfermare anco-ra una volta, la ciclica necessità delle genti di cercare di migliorare le proprie condizioni di vita spingendosi là dove le condizioni economiche e sociali appaiono più favorevoli.

I nostri paesani sono emigrati per tentare di liberarsi dal sottosviluppo, dal duro, uni-co e poco redditizio lavoro agrario, dalle condizioni familiari gravate da numerosi fi gli, come emigrano tante altre persone provenienti da aree poverissime, gli immigrati dei giorni nostri.

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L’andare per il mondo in cerca di lavoro, – lo dico per esperienza personale, ma ognuno dei miei paesani potrebbe farlo assai meglio di me; – associa l’individuo a due condizioni: lasciare parte dei propri affetti e parte di se stessi a casa e l’incertezza nel proprio futuro. A ciò vanno aggiunti la convinzione e il timore di recarsi in un paese con lingua, costumi e tradizioni diverse dalle proprie. Tutto questo si potrebbe riassumere in una parola sola: “lo stato d’animo dell’emigrante”. Una condizione, un patimento, ma forse la parola giusta è “struggimento”, la nostalgia che si paga con una pietra sul cuore, – Mi rivolgo soprattutto ai giovani, convinto che questo sia stato un tema ricorrente anche in ognuna delle loro famiglie –.

Questo aspetto sociale dell’emigrazione è stato più volte citato nei nostri scritti e nel-le pubblicazioni curate sia dal nostro Comune, sia in quelle portate in stampa dalla nostra Pro Loco che agli emigranti di Cinto Caomaggiore ha dedicato il calendario del 2006. Il tema, tuttavia, meriterebbe da solo uno studio approfondito. In attesa che questo lavoro venga svolto, cercherò qui, anche se frammentariamente, di colmare questa mancanza.

A controbilanciare il peso ed il costo di quanto sopra annunciato, va comunque detto che molte persone di Settimo, e di Cinto Caomaggiore, hanno trovato proprio nei pae-si di accoglienza il luogo dove realizzare fi no in fondo le loro aspettative, i loro sogni: sogni di emigranti, che, come tutti i sogni, “muoiono all’alba”. Qualcuno ce l’ha fatta, raggiungendo il proprio obiettivo, qualcun altro no. I ricordi di famiglia mi aiutano nel citare l’amaro caso di una sorella di mio nonno paterno Giuseppe, la cara Rosa, sempre ricordata nelle preghiere della sera dei defunti. Rosa partì da Genova i primi giorni del 1901 con la propria famiglia con un piroscafo a vapore diretto in Brasile; di lei si persero le tracce e non si seppe più niente. A nulla valsero le ripetute ricerche fatte in ogni sede per oltre un cinquantennio.

Una canzonetta dei primi anni del secolo ci pare emblematica, eccone un verso: “An-dremo in Merica/ In tel bel Brasil/ E qua i nostri siori/ I lavorarà la tera col badil!!!”. Salvo poi riconoscere l’inganno. “Se no se more dal bisso, se more dai paroni”. Scriveva, in quei giorni un emigrato sandonatese, aggiungendovi anche nella sua lettera, il lavoro mal retri-buito, la carestia e, persino, la morte sempre incombente e ancora scriveva dei documenti di espatrio che, una volta arrivati in suolo brasiliano, “sparivano”, impedendo così ogni via di ritorno in patria. È triste constatare come la storia si ripeta anche ai giorni nostri.

Sorte meno amara hanno quelli che in quel periodo, si dirigono verso i paesi europei. Austria e Germania le prime mete, seguono via via un po’ tutti gli altri paesi; fi n quando, le restrizioni del regime mussoliniano mettono di fatto un freno all’espatrio dei nostri concittadini. Questo però, occorre notare, è solo il risultato fi nale e, forse, anche il più “accettabile” prodotto dal ventennio fascista.

Come sempre accade agli uomini, la pace ha i giorni brevi, lo sanno bene i nostri paesani di Settimo, sia quelli che vedono nel regime fascista la casa delle proprie idee, sia

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quelli che guardano verso Mosca e anche chi non sa decidersi o sta più semplicemente alla “fi nestra”. Il 10 giugno 1940, alle ore 18.oo, dal balcone di Piazza Venezia a Roma, Benito Mussolini toglie a tutti il tempo di rifl ettere, annunciando: “le dichiarazioni di guerra sono state già consegnate agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia”.

Al dramma si aggiunge il dramma. Ed è palpabile lo sconforto della nostra gente che ancora non ha dimenticato le ferite prodotte dal primo confl itto. Una serie di nomi, di località alquanto desueti e dalla diffi cile pronuncia in-comincia a diventare tristemente nota alla gen-te di Settimo. Nikolajewka,Smejka, Giambul, Cefalonia Sidi el Barrani, El Alamein e, molti altri sinistri luoghi di combattimenti corrono di bocca in bocca, quando, l’8 settembre 1943, il Re Vittorio Emanuele III comunica alla na-zione italiana, attraverso la radio, la fi rma del-l’armistizio con gli eserciti alleati. In guerra i

drammi non fi niscono mai. “La guerra continua”, aggiunge il Re. Mai frase è stata più indagata dagli storici, restando ancora oggi incomprensibile.

Purtroppo, invece, si conoscono bene i nomi dei nostri paesani che caddero combat-tendo in quei luoghi ameni, bene impressi ai piedi del soldato che s’innalza fi ero sopra il monumento ai caduti che a Settimo li ricorda: Andreuzza Silvio, Baldo Marino, Batti-stella Catrino, Bernava Ferrucio, Moro Egidio, Sut Giovanni, Valvassori Rino, Zocarato Giorgio.

Non passa neanche il mese di settembre quando il 23 dello stesso mese, i tedesco libe-rano Mussolini dalla sua prigionia sul Gran Sasso. A Settimo ci sono alcuni che esultaro-no, altri invece presagiscono subito le tenebre che avrebbero avvolto le coscienze umane. Infatti il giorno 12 del mese seguente, Benito Mussolini in persona, affi ancato dal fedele Graziani, ministro della difesa della Repubblica Sociale Italiana, proclama la Repubblica di Salò. Al confl itto sui Fronti, si aggiunge la guerra civile: a devastazione si aggiunge devastazione. L’abbrutimento umano – come non dirlo – mette radici anche a Settimo.

Non ci sarà pace per tutto il 1944 e gran parte del 1945. Squadre di fascisti e drappelli di partigiani si annidano nel territorio del paese, gli uni contro gli altri; alcuni prendono quartiere nel Melon, altri trovano rifugio nella Boschetta. le notti, invece, sono tormentate

1942: cerimonia patriotica davanti al monumento.

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dal passaggio dei ricognitori americani che mitragliano alla sola vista di una candela ac-cesa. Solo per puro caso non ci furono morti ad opera di “Pippo” ma lo furono nei paesi vicini come purtroppo accadde a Giai di Gruaro.

È nel 1946 che gli abitanti di Settimo vedono fi nalmente alle porte la fi ne delle loro sofferenze e le 1.350 anime del paese guardano con entusiasmo alle prime elezioni poli-tiche e alla elezione a Sindaco del medico cintese Umberto Grandis.

Alla popolazione attiva di Settimo, in attesa di uno sviluppo economico più incisivo non resta che la via dell’emigrazione. Una piaga sociale che durerà per alcuni decenni. Negli anni ’50, ’60 e ’70 il paese si spopola: una diaspora. I nostri paesani sono sparsi in giro per il mondo, dove la manodopera è richiesta. Lo abbiamo già accennato, ma pare bene qui approfondire il ragionamento almeno sulle mete scelte dalla forza lavoro eccedente, che non trova sbocco alcuno nel nostro territorio circostante. Si sceglie Roma innanzitutto dove, Giovanni Salvador, tra i primi fa da testa di ponte richiamando nella capitale molti lavoratori di Settimo; come lui molti altri mettono la “buona parola”. Tutti meriterebbero di essere ricordati in questa pubblicazione, un nome fa giustizia per tutti, ed è quello di Giuseppe Odorico che a Roma fa il capo cantiere e istituisce, una sorta di uffi cio di collocamento per i nostri concittadini; famiglie intere benefi ciano delle cono-scenze romane di Giuseppe.

Nota è la famiglia Cessellon con Olindo, che si impiega al Comune di Roma, diven-tando Vigile Urbano e con il notissimo Angelo conosciuto per la sua arte pittorica. Olivo Furlan, autodidatta, parla alcune lingue straniere e per questo venne assunto alla Banca d’Italia ed assegnato proprio al centralino telefonico per i collegamenti con l’estero. Di Olivo Furlan piace ricordare la sua passione per i detti popolari, durante la sua vita ne aveva raccolti un numero infi nito, avrebbe tanto voluto vederli rilegati in una pubblica-zione. Olivo provava un forte attaccamento al suo paese, dove quasi ogni anno vi faceva volentieri ritorno, per passare un periodo di riposo. Dopo la morte, avvenuta alcuni anni fa, Olivo ha voluto essere sepolto nel nostro cimitero. “Vicino agli altri” mi aveva detto in occasio-ne di una delle ultime sue visite attorno al ’96.

A Roma, tutti i nostri paesa-ni di Settimo trovano un primo alloggio al “Canevon” del mar-chigiano, una sorta di trattoria con alloggio assai popolare. Un accordo stipulato con il proprie-tario da Marco Chiaradia che, per Patrick Battiston bambino con Adamo Battiston detto

“Nino” e altri.

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le Vie della Città Eterna, sa come “muoversi”; un accordo quello stipulato da Marco, che vale “uno per tutti” e, se non c’è posto, poco male: quelli di Settimo sanno stare stretti.

“Chi non gira l’Italia, gira il mondo”. Una frase che si poteva sentire in bocca ad un emigrato rientrato da poco in paese. Un modo, forse, per esorcizzare le fatiche o meglio la sofferenza dovuta alla lontananza.

“Chi non gira l’Italia, gira il mondo”. Può essere la frase giusta per quanti hanno scelto una destinazione estera. La Svizzera, tra tutte le destinazioni, resta la nazione che ha visto più emigranti di Settimo. Non vi è, forse a ragione, un solo capoluogo di Cantone elvetico dove quelli di Settimo non vi abbiano lavorato, tra tutti, quello di Sciafusa resta sicuramente il luogo dove la nostra gente si è sentita un poco come a “casa propria” tanti erano i compaesani che proprio lì a Sciafusa hanno lavorato e soggiornato, impegnati nel-l’edilizia o nell’industria. A buon giudizio, credo che si possano contare nelle dita di una sola mano le famiglie di Settimo che non abbiano avuto un familiare o addirittura più di uno impiegato proprio in questa città elvetica.

Nella presentazione di questo lavoro ho accennato ai tanti drammi che hanno coinvol-to la comunità di Settimo nell’arco di tutto il Ventesimo Secolo. Alcuni di questi drammi colpirono, purtroppo, anche il mondo dell’emigrazione. È l’11 di maggio del 1955 a Metz in Francia, Dino Bagnariol, sta lavorando sopra un’impalcatura alla costruzione di un pa-lazzo, quando, la rottura delle tavole di sostegno lo fa precipitare al suolo. Non ci fu scam-po per il povero Dino. Passano due anni, la mala sorte ancora si accanisce sulla famiglia Bagnariol. È il 20 agosto 1957, a Ginevra in Svizzera, il fratello di Dino, Giuseppe, con i cintesi Renato e Giuseppe Coccolo, Carlo Lino Bon e Denis Morassut di Bagnara sono intenti al rivestimento di una facciata di un palazzo. Ad un tratto, la rottura di una catena del ponte mobile che li sostiene, fa precipitare tutti a terra. Giuseppe e Denis muoiono al-l’istante, gli altri, fortuna volle di aver salva la vita ma, riportano tutti serie conseguenze. Dino aveva da poco compiuto 23 anni.

Un’emigrazione che solo apparentemente appare al maschile, infatti, le donne di Set-timo hanno lasciato il paese ancora prima degli uomini; alcune dirette a Roma ancor gio-vinette. Anche qui l’elenco sarebbe molto lungo, ne citiamo solo alcune, intendendo però di includerle tutte: Delfi na, Bruna e Chiara Badanai, Clara, Rachele e Ninetta Valvassori. Rosalia Miorin, Anna Gurizzan, prestano “servizio”, come si diceva allora nelle famiglie benestanti di Roma, contribuendo con il loro sacrifi cio e il loro lavoro ai miseri bilanci delle proprie famiglie in paese.

Più tardi, la forza lavoro femminile di Settimo, – siamo negli anni sessanta – s’indi-rizza verso mete europee per prestare la loro opera, molte nostre paesane si incontrano a Sciafusa. Eccone alcuni nomi: Wanda Missana, Marina Miorin, Franca Zanon, Elda e Bruna Valvassori, Alida e Lucia Calgaro, Elsa Sforzin, Wilma ed Elda Cantoni: per Elda Cantoni è questo, per così dire, un viaggio a ritroso, infatti, il nonno materno era proprio

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di origine svizzera. Carlo Magno Cantoni, ticinese dipendente di una ditta milanese venne inviato per alcuni lavori alla Savio di Pordenone, qui conobbe la nostra Elisabetta Pedri-nelli. Dopo il matrimonio si stabilì in paese, dando origine ai Cantoni di Settimo, che gli attribuì il soprannome di “svizzero”.

La nostra gente però non guarda solo all’Europa, molti nostri paesani si sono recati per lavoro in Australia, Nuova Caledonia, Sud Africa. Ricordo alcuni dei loro nomi: per la Caledonia Gianni Campanerut dove ancora risiede, Renzo e Cesare Miorin emigrati in Australia, i fratelli Sartori in Sud Africa. Eugenio Valvassori andò in Panama, al suo rientro divenne più noto con il soprannome de “l’American”.

Erminio Celant, andò in Argentina assieme ad Antonio Ciut, Giuseppe Rossit e, tanti altri ancora; Nori Giuseppe Campaner, Giuseppe Moro, si recò in Venezuela con tanti altri di Settimo e di Cinto. I Vortali che emigrarono in Canda ed in Venezuela. Enrico Val-vassori, con il fi glio Dante e con il resto della famiglia si recarono in Belgio. Anche qui l’elenco sarebbe assai lungo da continuare, vien quasi da pensare che sia più facile dire dove non siano stati i lavoratori di Settimo che, elencare tutti i luoghi dove hanno dato il loro contributo allo sviluppo delle nazioni ospitanti.

Non mancarono i nostri paesani di farsi apprezzare per le qualità lavorative e creative. Le rimesse da essi effettuate stanno alla base dell’attuale assetto dell’intero paese, senza contare il contributo da loro dato alle nuove generazioni, che, potendo usufruire dei proven-ti del lavoro lontano, si sono affermati nel campo dello studio e del progresso sociale.

Con la seconda tornata elettorale del 10 di giugno del 1951 e l’elezione a Sindaco di Angelo Furlan, che per lunghi anni ebbe casa proprio a Settimo; il paese entra nella seconda metà del secolo con aspettative davvero concrete per la rinascita sociale, econo-mica e politica dei suoi abitanti e del suo territorio.

Nel 1946, Furlan era stato il primo segretario della neo costituita sezione cintese della Democrazia Cristiana. A parer mio, è ad Angelo Furlan che il paese di Settimo deve molte delle sue realizzazioni ancor oggi determinanti nell’assetto sociale e civile del paese, e così come dell’intero territorio del comune di Cinto Caomaggiore.

Durante la sua amministrazione, Angelo Furlan dà inizio alla costruzione delle nuove scuole elementari del paese di Settimo. Un plesso scolastico che nel 1956 era all’avan-guardia rispetto a tutte le altre scuole del territorio portogruarese, basti dire che era dotato perfi no di un prestigioso gabinetto dentistico per le necessità dell’intera popolazione sco-lastica del paese, naturalmente senza esborso alcuno da parte delle famiglie degli scolari. Ad Angelo Furlan, si deve anche l’illuminazione stradale dell’intero comune di Cinto Caomaggiore e la costruzione delle nuove scuole elementari del capoluogo nonché delle medie.

La gente di Settimo e di Cinto gratifi cò Furlan eleggendolo Sindaco per ben tre man-dati amministrativi continui.

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Ad Angelo Furlan, seguirono in qualità di sindaci: Antonio De Vecchi, Giuseppe Campagnolo, Giovanni Trevisan e Claudio Amadio, tutti cintesi. che, oltre alla normale amministrazione, pare in concreto non abbiano portato miglioramenti tangibili in strut-ture pubbliche per il paese di Settimo. Bisognerà attendere il 28 di giugno del 1999 per vedere eletto un cittadino di Settimo, Luigi Bagnariol, alla carica di Sindaco.

Un Sindaco, Luigi Bagnariol, che si potrebbe defi nire di “stile Furlan”. A questa fi gu-ra di pubblico amministratore è dovuto l’aspetto attuale del nostro paese di Settimo.

Settimo, però, non va visto solo ed unicamente per l’ordine e la cura delle sue case, per i viali e i marciapiedi, la piazza nuova e le piste ciclabili di fresco realizzo, Settimo è Settimo soprattutto per la sua gente: la gente di Settimo

L’anima di un paese con la sua parlata vera e locale, che scaturisce spontanea come espressione di un gruppo di appartenenza, con la sua disponibilità paesana all’incontro che ti invita dentro le pareti domestiche, nella vita di ogni giorno, senza quella fredda uf-fi cialità che incontri altrove, con le sue molteplici iniziative rivolte agli altri e per gli altri, orgogliosa di sentirsi utile e di essere di Settimo.

Angelo Furlan con la moglie Elda Zorzi e fi glio. Dipinto di Angelo Cesselon.

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La latteria di Settimo

Il concorso d’idee per dar vita alla latteria di Settimo risale all’ormai lontano 1922. In quell’anno, i nostri mezzadri, i piccoli coltivatori diretti del paese e le altre famiglie di Settimo che avessero avuto almeno una vacca nella stalla si riunirono attorno alla neces-sità di dotarsi di un caseifi cio per la lavorazione del proprio latte.

La prima Guerra Mondiale era ormai alle spalle, le mutate condizioni della gente dei campi, la presa di coscienza delle problematiche igieniche e la voglia di togliere alle donne quell’aggravio in più di lavoro causato dall’incombenza quotidiana di farsi il for-maggio in casa, fecero da molla. I tempi erano ormai maturi affi nché Settimo si dotasse di una propria latteria.

L’aggregazione attorno al da farsi per mettere in cantiere l’iniziativa trovò terra fertile attorno alla sacrestia di don Linguanotto e proseguì stalla per stalla in tutte le borgate di Settimo per tutto l’inverno del ’22. Questo, permise alla gente del nostro paese di riunirsi in “Cooperativa”. Il 2 di aprile 1923 si tenne l’assemblea costitutiva della nostra Latteria Sociale. Il presidente “pro tempore” Giuseppe Chiaradia, espletate tutte le formalità di “legge”, pose subito ai voti l’ubicazione della sede. Dei 65 soci fondatori ne risultarono votanti 39; due erano i siti offerti alla neo latteria, il primo situato in centro al paese, di proprietà del signor Giovanni Battiston, ed il secondo situato nell’allora Via Marignana in corrispondenza all’attuale civico numero 83 di via Udine. L’allora proprietario Antonio Martignol chiese un affi tto concorrenziale e si aggiudicò l’offerta. A Martignol andarono 24 voti, mentre a Battiston i restanti 15. L’accordo prevedeva la corresponsione di un affi tto annuo di 500 Lire per la durata contrattuale di cinque anni. In Via Marignana, la nostra latteria rimase per ben undici anni e ancora negli anni settanta del secolo scorso sulla facciata di casa Martignol si poteva leggere la scritta “Latteria Sociale di Settimo”.

Nel 1933, l’assemblea dei soci, deliberò sull’opportunità di dotarsi di una propria struttura più adeguata alle funzioni produttive, economiche e commerciali. Si diede allora incarico al cintese Enrico Pellegrini, capo cantiere, il quale eseguì il progetto ed edifi co la nuova latteria in borgo S. Giovanni, oggi Via Udine n. 27. Nel frattempo, si era anche provveduto a cambiare lo statuto societario, la nostra latteria assunse la denominazione di: “Latteria Sociale Turnaria di Settimo”.

L’iniziativa incontrò fi n dal suo nascere i favori di tutta la popolazione del paese, chi non portava il latte poteva acquistarlo per i bisogni quotidiani della propria famiglia direttamente in latteria, un servizio in più per chi non aveva “stalla”. Occorre anche dire che l’operato del primo casaro tale Pupa Virgilio provocò una seria rifl essione sulla sua onestà. Venne subito sostituito con delibera assembleare che nominò il nuovo casaro nella persona di Ostilio Grotto. Ostilio, operò in questa funzione fi no al 1929 quando fu sosti-tuito per raggiunti limiti di età dal cugino Valentino. Grotto, una delle fi gure di riferimento per tutto Settimo, ricopri questo incarico fi no al 1963. È proprio con questo casaro che la

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nostra latteria assunse quella funzione economica e sociale, che i nostri paesani le hanno così ben attribuito, per tantissimi anni. A Valentino Grotto, subentrerà Pietro Chiarot, che esercitò l’arte di casaro nella nostra latteria fi no al 1968.

Pare giusto chiedersi ora quale formaggio si producesse nella nostra latteria, tanto da incontrare i favori della gente del luogo e quella dei paesi limitrofi , una fama però, che si estendeva ben oltre i limiti comprensoriali, tanto che il nostro caseifi cio annoverava ac-quirenti pordenonesi e sandonatesi. Ebbene, fi n dalla sua fondazione, nella nostra latteria si è sempre fatto un formaggio “locale” che oggi si può ben identifi care con il Montasio. Pari fama la ebbe anche il burro che si produceva a Settimo, una fama che seguiva passo passo quella del casaro Valentino Grotto, al quale gli era stato “affi bbiato” bonariamente il soprannome di “butiro”. Il burro, raramente entrava nelle case dei soci, andava invece venduto per i fabbisogni economici del caseifi cio.

Detto dei casari, vediamo di seguito gli uomini di Settimo che negli anni hanno retto le sorti della nostra latteria. Nel 1929 e fi no al 1946 esercitò le funzioni di presidente Gio-vanni Sigalotti, Dal 1946 al 1955 Angelo Furlan, gli subentrerà Vittorio Gobatto. Tornerà ancora Angelo Furlan nel ’57 e nel ’61 di nuovo Vittorio Gobatto e nel 1966 di nuovo Angelo Furlan. Nel 1967 è presidente Pietro Infanti, nel 1970 troviamo invece, Giuseppe Anese. L’ultimo residente è stato Giuseppe Gumiero, rimasto in carica fi no alla liquida-zione della latteria.

La latteria di Settimo.

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Nel corso del suo esercizio il nostro caseifi cio ha visto quali segretari i signori: Sante Liut fi no al 1929, dal 1929 al 1937, Angelo Furlan che, come abbiamo visto, ricoprì per molti anni anche la carica di presidente. Nel 1937, troviamo segretario Antonio Pedrinelli e nel 1966 Giuseppe Battiston che resterà in carica fi no alla fi ne operativa del caseifi cio.

Pare signifi cativo dare anche alcuni dati produttivi riscontrabili dai registri contabili della Latteria Sociale Turnaria di Settimo. Nel 1930 si raccolsero 133.000 Kg di latte, nel 1960, i Kg furono 450.000. L’ultimo dato riscontrabile risale al 1993, i Kg furono 200.000, mancando il casaro, tutto il latte raccolto veniva ceduto per la trasformazione al consorzio di raccolta, mandamentale. Dal 1993, fi no al 1997, ultimo anno operativo, l’attività del nostro caseifi cio proseguì con la sola raccolta del latte, tutto ceduto al citato consorzio; gli 85 soci del 1929/1930 si erano ridotti a soli 5. Ecco di seguito i loro nomi: Giuseppe Gumiero, Danilo Zorzi, Francesco Andreuzza, Agostino Nogarotto e Antonio Trevisan.

La “Latteria Sociale Turnaria” di Settimo, che aveva attraversato indenne quasi tutto il Ventesimo Secolo, meritandosi la fama di “Premiato Caseifi cio” soccombeva alle mu-tate condizioni sociali ed economiche del paese. A ciò, vanno aggiunte le mutate condi-zioni di gestione delle campagne, da tempo soggette allo spopolamento e ai nuovi criteri di meccanizzazione del lavoro agricolo, la scarsa redditività delle nostre stalle, le colture sempre più intensive, le politiche agrarie nazionali ed europee con l’introduzione delle quote latte, hanno messo la parola fi ne alla prima “industria” del paese di Settimo.

Dopo alcuni anni di abbandono dello stabile, con il conseguente degrado dell’intera struttura i soci rimasti riuniti in assemblea decisero di liquidare la società. Seguirono al-cune riunioni per meglio capire il percorso necessario, intervennero anche alcune incom-prensioni sul modo di operare. Tante discussioni avevano visto nascere la nostra latteria, altrettante furono necessarie per vederla chiudere. Un primo incarico assegnato ai soci Olindo Dalle Carbonare e Giuseppe Gumiero nominati “liquidatori”, non portò frutti ap-prezzabili. Altre riunioni furono necessarie, in fi ne, il 20 Luglio ed il 20 di Agosto 1997, con l’incarico di liquidatore assegnato a Luigi Bagnariol, si trovò la via giusta per riunire tutti i soci attorno ad un percorso praticabile. Lo stabile della “Latteria Sociale Turnaria” di Settimo, andò venduto, ad un costruttore del paese che ne ricavò alcuni appartamenti ai piani superiori dello stabile, il piano terra, invece, venne in parte assegnato gratuita-mente all’Unione Sportiva di Settimo, che ne ha ricavato una sala riunioni per le proprie esigenze e per quelle della comunità di Settimo. È stato inoltre individuato un locale per l’ambulatorio del medico di base che rischiava di doversi trasferire a Cinto. In questo luogo è anche consultabile l’intero archivio della nostra latteria.

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Il registro più datato che troviamo nell’Archivio Parrocchiale a Settimo è quello dei Battesimi che inizia dal 1875. All’epoca Settimo era “curazia” di Cinto, quindi Cresima, Matrimoni e Funerali si registravano a Cinto, e questo continuò fi no al 1919.

Dal 1875 al 1884 fu curato a Settimo un certo Don Osvaldo Pascoli del quale non ci sono state tramandate memorie.

Dal 1885 al 1887 fu “economo spirituale” un certo don Benedetto Garavaso. Perso-naggio discusso che fuggì in Brasile dove, dopo aver svolto per qualche anno, sotto falso nome, l’attività di impresario edile, morì ammazzato.

Dal 1887 al 1919 fu curato a Settimo Don Sante De Luca, ricordato come buon sacer-dote che ha amministrato la parrocchia fi no alla fi ne della grande guerra, per ben 33 anni ed è morto a Roveredo in Piano all’età di 80 anni.

Dal Febbraio del 1919 al 28 Luglio 1954 fu curato Don Ernesto Linguanotto (dal 1942 parroco).Visse a Settimo per ben 35 anni lasciando innumerevoli ricordi nei nostri anziani. Trovò la parrocchia semi abbandonata a causa della guerra. Allora Settimo contava 1500 persone. Seppe riorganizzare dalle basi la parrocchia e curare amorevolmente la comunità dimostrando una particolare predilezione per i giovani che oggi, adulti ed anziani, lo ricor-dano per la ferma severità. Tra le prime iniziative di don Ernesto si ricorda l’organizzazione della Scuola serale per tutti i giovani: suo obiettivo era far ottenere a tutti almeno la licenza elementare. Altra sua iniziativa consistette nel dar vita e promuovere un gruppo teatrale rimasto celebre, sia per i talenti locali che seppe individuare e formare, sia per i successi di pubblico che gli spettacoli messi in scena seppero raggiungere. La famosa “baracca” posta accanto alla canonica (un residuato della Prima Guerra che don Ernesto fece mandare a prendere lungo il Piave) venne adibita a teatro, dove i giovani, dopo il duro lavoro sui cam-pi, si ritrovavano per imparare a memoria trame e mettere in scena memorabili spettacoli.

Altro suo merito fu l’eccellente organizzazione del gruppo di “Azione Cattolica” che nel 1932-33 vinse in diocesi il primo premio nella gara di cultura religiosa della “Gioven-tù Maschile”, conquistando il gagliardetto.

Durante il governo di Mussolini cominciarono le emigrazioni verso Roma, dove mol-ti giovani provenienti da Settimo seppero distinguersi come bravi e affi dabili lavoratori e seppero inserirsi nelle varie parrocchie della capitale con impegno.

Don Ernesto è ricordato per aver fatto tanto del bene alla comunità di Settimo. Nono-stante ciò aveva in paese degli accaniti oppositori. Uno degli argomenti, oggetto di accesi

LA PARROCCHIA S. GIOVANNI BATTISTADon Adriano Pescarollo

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La Parrocchia S. Giovanni Battista

1925: Gruppo Scout di Settimo con don Ernesto Linguanotto.

1937: Gruppo di Azione Cattolica di Settimo con il gagliardetto.

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La Parrocchia S. Giovanni Battista

1951: cerimonia religiosa della Madonna Pellegrina.

Gruppo Cattolico femminile nel 1937.

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La Parrocchia S. Giovanni Battista

dissensi, fu la costruzione del monumento ai caduti posto nel piazzale antistante la chiesa parrocchiale, e il problema di reperire i fondi necessari. Fu una lotta epica che perse: il monumento è ancora lì come testimonianza del gusto del tempo.

All’epoca in paese la povertà dilagava e don Ernesto era generoso nella carità verso le famiglie bisognose, che spesso sosteneva anche nel dare i terreni della parrocchia a mezzadria.

Durante la guerra aiutava i giovani parrocchiani sotto le armi tenendo con loro una fi tta corrispondenza e prestandosi a scrivere e leggere le lettere che, dal fronte, si scam-biavano con le loro famiglie. Era molto richiesto per le confessioni anche da gente fuori parrocchia. Ogni settimana si recava a Sesto al Reghena per confessare e dirigere le suore di clausura che lì risiedevano.

Restaurò la chiesa e le pitture come era possibile per quei tempi, portando l’altare più vicino alla gente. Comprò la bellissima statua della Vergine e di altri santi. Anche la canonica venne restaurata ed ampliata.

Insomma un buon prete, intelligente, caritatevole e saggio, morto santamente a Setti-mo il 28 Luglio 1954. Riposa nel cimitero di Cinto.

Don Duilio Rambaldini iniziò il suo apostolato nell’Agosto 1954. Lavorò bene con l’Azione Cattolica svolgendo un apostolato accogliente ed attento. Dedicò particolare passione alla cura della gioventù. Fu un sacerdote benvoluto da tutti anche se dopo dieci anni dal suo ingresso in parrocchia iniziò a dare segni di squilibrio (demenza senile o tu-more al cervello?) che lo portò alla tomba 5 anni dopo l’abbandono della parrocchia nel ’68. L’ultimo quinquennio si dedicò alle opere pratiche: adattò lo stabile (prima sede delle scuole) ad oratorio, rinnovò la chiesa (riscaldamento, pavimenti, campane…). Seguiva personalmente tutti i lavori e, con la sua Vespa, si recava per le case sia a prendere gli ope-rai che a distribuire aiuti. Quando le sue condizioni di salute peggiorarono il vescovo fu costretto a sostituirlo. Prima fu ricoverato nella casa di riposo a San Vito e, all’aggravarsi delle sue condizioni, fu trasferito a Brescia dove, dopo 4 anni, morì all’età di 59 anni. Anche lui è sepolto in cimitero a Cinto.

Dopo una breve presenza di Don Arturo Antoniutti, rimasto alla guida della parroc-chia per poco più di un anno, nel 1969 fece il suo ingresso don Adriano Pescarollo, tut-t’ora parroco della parrocchia di S. Giovanni Battista di Settimo.

L’accoglienza fu buona e piena di curiosità. La prima cosa che assorbì la sua atten-zione e passione fu il far funzionare l’oratorio per attirare la gioventù, cosa che gli riuscì abbastanza bene: ping-pong, tavoli per giochi, gite di fi ne catechismo, pallacanestro, fe-ste, tornei di calcio ecc... Provò anche a fondare un “circolo culturale” per adulti che però non funzionò a lungo. Tra le altre iniziative pastorali avviate ricordiamo la nascita del Consiglio Pastorale, del gruppo del Bollettino, del gruppo per sposi, del gruppo giovani del sabato, del gruppo canto e altri ancora.

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La Parrocchia S. Giovanni Battista

Nel 1975 i giovani vinsero il 1° premio diocesano per il presepe.In questo lungo periodo vengono realizzati diversi lavori:

- il tetto della chiesa,- le nuove “Vie Crucis”,- il marmo all’interno della chiesa per proteggerla dall’umidità,- il palcoscenico e la cucina a lato dell’ oratorio,- gli altoparlanti nuovi in chiesa,- l’impianto luce centralizzato in chiesa,- la pittura della chiesa, ecc.

Nel ’76 il terremoto portò tanta paura, ma per fortuna pochi danni. Nel 1977 nasce l’Unione Sportiva Settimo, che avrà tanta importanza nella vita di Settimo.

Nel 1978 il Consiglio Pastorale programma una festa religiosa ogni 2 mesi: del Rin-graziamento, della coppia, del vangelo, dell’anziano, della mamma, di S. Giovanni, ecc. Alcune sono tutt’ora attive.

Nel 1982 è stato costituito il Gruppo Scout sotto la guida di Lino Frate, tutt’oggi atti-vo e vivace. Nello stesso anno il gruppo ping pong, sotto la guida di Giancarlo Mucignat, prende il volo. Ogni anno alcuni ragazzi sono chiamati alle fi nali del C.S.I. a Roma. Da ricordare la medaglia d’oro di Cristina Vortali.

In quel periodo si decide di affi dare i lavori per rifare il tetto della canonica alla ditta Toffolon.

Inizia anche la felice tradizione dei concerti in chiesa.Nel 1985 si svolse una memorabile veglia di Natale con il tennis-tavolo (ping pong)

e gli scouts, con vin brulé offerto dall’U.S. Settimo.Nel 1986 la festa dello sport organizzata in Settembre diventa sempre più partecipata

da tutti i ragazzi della parrocchia. Gran parte del mese di Settembre è interessato dalla festa: i primi 15 giorni per la preparazione e gli altri 8 per le gare dove si alternano il gio-co del calcio, con i ragazzi divisi in 4 squadre da 20, l’hokey con la scopa, per le ragazze divise in quattro squadre da 15, ed altri giochi popolari. Negli anni seguenti tutte le gare si svolsero in notturna, grazie alla nuova illuminazione del campo, con la partecipazione di un numero notevole di genitori. Il gran fi nale era previsto per la domenica: prima la S. Messa, poi, nel pomeriggio, la premiazione da parte del Sindaco ed infi ne il rinfresco fi nale.

Nel 1987 viene fatto l’impianto di riscaldamento dell’oratorio e nel 1988 la chiesasi impreziosisce con la collocazione dell’organo elettronico, che allora costò 18.000.000 di lire.

La natalità è in forte calo, ora la media di ogni classe passa da 20 a 5 e le scuole sono portate a Cinto.

In quest’anno viene invitato il Vescovo per la conclusione dei restauri della chiesa.

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La Parrocchia S. Giovanni Battista

Nel 1992 il tetto dell’oratorio viene rimesso a nuovo. Gli iscritti al ping pong raggiun-gono quota 60, il più alto della regione.

Nel 1993 c’è l’abbellimento della chiesa con l’altare in legno dorato e una nuova artistica porticina del tabernacolo, i cuscinetti in cuoio per i banchi.

La comunità missionaria di Villaregia comincia ad essere vicina alla nostra parroc-chia; la gente vede volentieri questi giovani missionari pieni di entusiasmo ee li segue con piacere dando e ricevendo tanta spiritualità.

I Rovers sono stati prima in campeggio in Calabria poi in Slovenia per “servizio”.Nel 1994 viene inaugurato il Palazzetto dello Sport.Nel 1995, anche se il parroco si ammala con una convalescenza molto lunga, le attivi-

tà dei vari gruppi continuano. In questo periodo muore Giuseppe Doro, organista presso la nostra chiesa: sono pronti altri quattro giovani a dargli il cambio.

Nel 2001, dopo che tre fulmini in cinque anni si erano scaricati all’interno della chiesa facendo danni notevoli, è stato dato incarico ad una ditta di Treviso di ingabbiare la chiesa, dal campanile fi no all’entrata del contatore, con tondini di rame di 8 mm. fi no a tre metri sotto terra. Una settimana di lavoro con 2 operai. Da allora non c’è stato più alcun danno.

Nell’ottobre del 2004 un gravissimo incidente ha sconvolto la nostra parrocchia. Una bambina di 10 anni che usciva dalla chiesa dopo essersi confessata, Valentina, attraversan-do la strada in bicicletta è stata investita da una macchina che correva a moderata velocità. La bambina, prontamente soccorsa, è stata trasportata subito in elicottero a Mestre dove, dopo 10 giorni di coma profondo, si è miracolosamente ripresa. Il parroco, dopo essersi consultato con il Consiglio Pastorale, ha indetto una sottoscrizione rivolta al Sindaco per abbattere la casa piantata sulla strada che impediva da sempre ogni visibilità. Era in degrado, con il tetto sfondato e disabitata da più di 15 anni. Sono state raccolte più di 560 fi rme e presentate al Sindaco. Dopo 2 mesi la casa veniva abbattuta su ordinanza del Sindaco.

Nel 2004 viene acquistato il generatore di riscaldamento nuovo per la chiesa. Nasce il gruppo di preghiera di San Pio da Pietralcina.

Il resto è storia d’oggi. Sono ancora attivi l’Unione Sportiva Settimo, il Gruppo di 12 catechiste, il coro guidato da Alessandra Bagnariol, il Gruppo Chierichetti, il Gruppo Scout, il Gruppo Donne della cucina, sempre disponibili, il Gruppo Tennis Tavolo che quest’anno ha raggiunto l’apice dei risultati con due Campioni d’Italia nella 4a categoria, nel singolo e nel doppio. Merita, infi ne, particolare risalto il Consiglio Pastorale rinno-vatosi continuamente e sempre capace di offrire nuovi stimoli alla vita parrocchiale, no-nostante tutte le diffi coltà, e la nascita di 22 Messaggeri che ogni mese portano in ogni famiglia il foglietto “Messaggio al popolo di Dio” con la speranza di una parrocchia sempre più giovane e in continuo rinnovamento.

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Sembra ieri, ma sono già trascorsi trent’anni da quella lontana sera del 27 luglio 1977, quando si riunirono nella saletta del Bar di Carlo Sartorio, convinto sostenitore dell’idea, i padri fondatori e diedero vita al Comitato degli Sportivi che avrebbe poi organizzato la prima festa dello sport il 27 ed il 28 agosto.

Erano presenti l’indimenticabile Dino Calgaro (la cui eredità è stata raccolta dalla fi -glia Daniela), Federico Chiarot, Piero Zorzi, Luigi Bagnariol, Gino Carniel, Livio Zorzi, Mario Perissinot, Fulvio Bagnariol, Giuseppe Moro, il sottoscritto Gian Piero del Gallo e Lino Gobatto che ebbe l’incarico di presidente.

Numerose persone avevano comunque dato la disponibilità, dal grande re della griglia, il compianto “Gigi”Luigi Battistella, allo stesso don Adriano Pescarollo la cui presenza, nel corso degli anni, si è sempre rivelata preziosa come quella insostituibile di GiancarloMuccignat, un vero pilastro che riuscì a far decollare sia l’esperienza Scout che il Tennis Tavolo.

Fu una data storica perché quel 27 di luglio, nacque quella grande cosa che si è trasfor-mata nel corso di questi trent’anni in un sodalizio unico, invidiato da tutti i paesi che si sono cimentati nell’organizzazione di feste paesane che nel nostro caso, defi nirla sagra sarebbe alquanto riduttivo e suonerebbe come un’offesa per la grande mole di lavoro e di iniziative che gli organizzatori, ieri come oggi, mettono a disposizione dei visitatori suscitando am-mirazione e consenso.

Per i non addetti ai lavori, tutto appare facile e godereccio, ma solo chi ha fatto parte per anni dell’Unione Sportiva, sa quanto lavoro ci sia dietro le quinte, quante ore rubate al sonno ed alla famiglia, la cui comprensione, delle mogli soprattutto, ha consentito a questa associazione di diventare grande.

Il segreto forse stava e sta nella convinzione che quando a lavorare è un gruppo così numeroso di giovani che si affi ancano agli anziani per poi subentrare nel ruolo, vuol dire che è stato indovinato il giusto propellente per il futuro di un’associazione e, se dopo trent’anni, impera ancora l’entusiasmo del fare, l’unica spiegazione arriva dalla componente umana, sempre pronta e disponibile, soprattutto perché è coinvolta in prima persona nelle decisioni.

Un ruolo importante lo hanno ricoperto le donne dell’Unione Sportiva di allora: EgidiaMoro, ottima cassiera e puntigliosa segretaria, come lo è stata poi Loredana Rossit, Nadia Montagner, Liviana Bagnariol, Sira Puntel Chiarot, quest’ultima ha anche ricoperto la ca-rica di presidente.

UNIONE SPORTIVA SETTIMOUn sogno diventato realtà

Gian Piero Del Gallo

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Unione Sportiva Settimo

La nascita del Comitato, diventato poi Unione Sportiva Settimo il 25 novembre dello stesso anno, non era stata vista con simpatia dal Palazzo tanto che l’aveva bollata come ini-ziativa politica, un giudizio avventato sul quale si è poi dovuto ricredere, quando l’Unione Sportiva ha dimostrato di saper rimanere al di sopra delle parti, lavorando ed organizzando manifestazioni per tutto il comune.

I Lavori per la Pista

L’idea l’ebbero Dino Calgaro e Gino Carniel: costruire una piattaforma per consentire il ballo ed altre iniziative necessarie per avere fondi a disposizione per la sistemazione degli spogliatoi del campo sportivo per i ragazzi del calcio.

Detto la sera dell’11 agosto e fatto subito dopo. Don Adriano sacrifi cò la vigna che venne estirpata con una “crociata antialcolica”,

così scrisse Federico Chiarot su un pannello a giustifi cazione dei lavori e furono gli stessi ideatori Dino e Gino a procurare i numerosi camion di ghiaia necessari e la mattina del 19 agosto alle 7, venne gettata la pista che fu levigata con l’elicottero da Italo Daneluzzi e sull’angolo d’entrata, Giorgio Vortali scrisse in mosaico “Benvenuti a Settimo 1977” scritta che è tutt’ora ben visibile.

Quale risarcimento per la mancata produzione di vino, Giovanni Labonia, Fulvio Ba-gnariol, Giuseppe Moro,Federico Chiarot e Lino Gobatto, portarono una damigiana di vino da 50 litri ognuno a don Adriano.

La prima festa dello Sport del 27 e 28 agosto del 1977

Non andò secondo le previsioni, il brutto tempo ci mise lo zampino e l’incasso servì appena per pagare le spese quindi venne ripetuta le settimana successiva con l’orchestra “Gli Amici”, con il tiro alla fune che vide vincitrice la squadra del Bar Pordenone di AldoAnese, mentre nel tiro con la fi onda, disertato dal favorito Vittorio Gobat “Ciutti”, trionfò Giovanni Battiston ,il Giandro dell’Osteria Alla Scala davanti a Luciano Toffolon e Giovan Battista Tedesco “Iglesio”.

Visto il risultato positivo, erano stati incassati 2.984.000 lire, c’erano i fondi per siste-mare gli spogliatoi perciò Ennio Bortolussi, Aldo Anese, Mario Brun, Mario Perissinot, Gianni Gurizzan proposero l’inizio dei lavori che vennero poi realizzati, seppur a rilento, dallo stesso comitato. Nella riunione del 10 settembre si parlò di riportare l’antica Sagra di San Giovanni Battista agli antichi splendori ed a gennaio del 1978 Giancarlo Muccignatottenne il primo contributo per l’acquisto di un tavolo da ping pong per allenare i giovani partecipanti ai Giochi della Gioventù.

Chi avrebbe mai immaginato quali traguardi sarebbero stati in grado di superare i ra-gazzi di allora, in questa disciplina sportiva, diventata ormai il simbolo di un paese.

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Unione Sportiva Settimo

La prima Sagra di San Giovanni Battista del 16 giugno 1978

Dopo ampia discussione con Franco Tedesco, rappresentante della A.P.Vigor, organiz-zatrice della Sagra di San Pietro a Cinto, che evidenziò i problemi di una festa a due nel giro di pochi giorni, venne deciso che, vista la disponibilità di Don Adriano ad anticipare la festa del patrono di una settimana, quella di San Giovanni si dovesse tenere dal 16 al 18 giugno.

Vennero ripartiti gli impegni: Livio Zorzi responsabile per la Cuccagna, ed i fi ori per le Miss; Ennio Bortolussi per le recinzioni a protezione del ballo; Gianni Gurizzan per il vino; Arnaldo Valvassori per l’acquisto del maiale per la lotteria; Fulvio Bagnariol e Siro Candoni per l’impianto elettrico; Lino Gobatto per il palco ed il contratto Enel; Gian Piero Del Gallo per manifesti e Siae.

C’era in tutti una certa apprensione, gli impegni erano aumentati, l’associazione stava crescendo giorno dopo giorno. Fu quindi con un sospiro di sollievo ma anche di grande sod-disfazione quando a conclusione della Sagra il netto di cassa segnò un attivo di 1.500.000lire, per quei tempi una grossa cifra, che dava tranquillità all’Unione Sportiva ed avrebbe permesso di lì a poco il raddoppio della pista in cemento.

Fu l’inizio di un successo che, salvo qualche sporadica avversità, ha sempre arriso a Settimo. Ma è con l’edizione del 1980 che la Sagra ha spiccato il volo, elevandosi su tutte le altre dei paesi vicini, grazie alla Mostra dei serpenti visitata da migliaia di appassionati che avevano l’occasione di ammirare questi animali dal vivo.

Seguì quella dei rapaci in collaborazione con la Lipu, delle bambole, degli animaliimbalsamati, delle farfalle, dei ricordi storici di guerra, insomma una serie infi nita di ap-puntamenti che ha caratterizzato l’organizzazione facendole raccogliere consensi giunti da ogni parte consentendole di effettuare lavori che hanno trasformato l’area parrocchiale e non solo: costruzione della cucina, nuovi servizi igienici, messa a norma di tutti gli impianti elettrici ed idrici, raddoppio della pista da ballo e di altre attrezzature, insomma la Sagra di San Giovanni vola ormai alto e continuerà a farlo fi no a che verrà rispettata la parola chiave del successo: l’Unione di un paese.

La serie dei suoi presidenti: dal 1977/1983 Enrico Lino Gobatto, 1983 Sira Puntel Chiarot, 1984/1995 Renato Querini, 1996/1999 Fabrizio Chiarot, 1999/2005 Renato Que-rini, dal 2005 Oscar Liut.

Tennis Tavolo. Campioni d’Italia

L’attività pongistica a Settimo inizia nel lontano 1976, raccogliendo intorno all’Ora-torio, ragazzi e ragazze di diverse età, tutti con la voglia di divertirsi praticando uno sport nuovo e simpatico.

La ricetta è di quelle giuste: utilizzare la pratica sportiva per crescere e maturare giova-ni che in futuro avrebbero avuto un ruolo nel nostro territorio.

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Unione Sportiva Settimo

I primi anni questo gruppo ha partecipato a varie edizioni dei Giochi della Gioventù,ottenendo numerosi successi sia alle fasi regionali che nazionali.

Nel 1989 la conquista della medaglia d’oro di una nostra atleta nel doppio misto e l’an-no successivo a Cecina, due medaglie d’argento nel singolo maschile categoria ragazzi ed in quello femminile nelle allieve, solo per citarne qualcuno.

Tappa fondamentale per l’Unione Sportiva è stato l’anno di affi liazione alla Federazio-ne Italiana Tennistavolo avvenuta nel 1991: si era entrati nel mondo agonistico.

Si ricordano i primi due campionati a livello regionale, serie D1 maschile e C2 fem-minile, le prime promozioni ai campionati nazionali, realizzate nel 1994 per la squadra femminile e nel 1996 per quella maschile.

L’Unione Sportiva ha inoltre avuto due atleti nella nazionale italiana in ben due edizio-ni del Campionato Europeo FICEP.

L’impegno costante verso i più piccoli è stato premiato con la loro partecipazione ai Campionati Italiani Giovanili con ottimi risultati. Nell’annata sportiva 2003/2004 la squa-dra maschile è stata promossa in B2 e ci vede come la squadra più forte della Provincia.

L’ultimo anno agonistico appena trascorso è stato ricco di successi con tre titoli regio-nali cui sono seguite le affermazioni nazionali di Dario Muccignat e Stefano Bagnariol chehanno portato a casa il titolo italiano di singolo e di doppio.

Oggi l’US conta 50 atleti, diversi tecnici con diploma federale ed un tessuto organiz-zativo pluricollaudato.

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