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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones La comunicazione tra violenza e conflitto Giuseppe Savagnone * L’esigenza di riflettere sulla comunicazione, al livello individuale come a quello sociale, nasce nel momento in cui ci si trova di fronte ad altri che sono diversi da noi e con cui l’intesa non è immediata, ma richiede un impegno specifico per superare divergenze di vedute e di comportamenti. Ci si accorge, allora che la stessa comunicazione, che per certi versi è la risposta a queste difficoltà, ne è a sua volta minacciata dall’interno e a volte vanificata. La comunicazione propria dell’attività giornalistica non fa eccezione, anzi è un esempio particolarmente evidente di questi problemi. Da qui la necessità di partire, nella nostra riflessione, dal tema del conflitto e dal suo rapporto con la violenza, per giungere in un secondo momento a trattare del rapporto tra la comunicazione e il conflitto, con particolare riferimento ai problemi e ai compiti giornalismo nella società. I. VIOLENZA E CONFLITTO Concezioni del conflitto a confronto Ci sono delle parole che si prestano ad equivoci ed esigono un chiarimento preliminare. “Conflitto” è una di esse. * Profesor de Historia y Filosofía. Director del Centro diocesano per la pastorale della cultura de Palermo y del Ufficio per la cultura, l’educazione, la scuola e l’universitá de la Conferenza Episcopale Siciliana. La comunicazione tra violenza e conflitto, Giuseppe Savagnone, pp.157-224 157

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones

La comunicazione

tra violenza e conflitto Giuseppe Savagnone*

L’esigenza di riflettere sulla comunicazione, al livello individuale come a quello sociale, nasce nel momento in cui ci si trova di fronte ad altri che sono diversi da noi e con cui l’intesa non è immediata, ma richiede un impegno specifico per superare divergenze di vedute e di comportamenti. Ci si accorge, allora che la stessa comunicazione, che per certi versi è la risposta a queste difficoltà, ne è a sua volta minacciata dall’interno e a volte vanificata. La comunicazione propria dell’attività giornalistica non fa eccezione, anzi è un esempio particolarmente evidente di questi problemi.

Da qui la necessità di partire, nella nostra riflessione, dal tema del conflitto e dal suo rapporto con la violenza, per giungere in un secondo momento a trattare del rapporto tra la comunicazione e il conflitto, con particolare riferimento ai problemi e ai compiti giornalismo nella società.

I. VIOLENZA E CONFLITTO

Concezioni del conflitto a confronto

Ci sono delle parole che si prestano ad equivoci ed esigono un chiarimento preliminare. “Conflitto” è una di esse.

* Profesor de Historia y Filosofía. Director del Centro diocesano per la pastorale della cultura de Palermo y del Ufficio per la cultura, l’educazione, la scuola e l’universitá de la Conferenza Episcopale Siciliana.

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“Il conflitto [polemos] è padre e signore di tutte le cose”, scriveva, cinquecento anni prima di Cristo, il filosofo greco Eraclito (Diels, B 53). Una formula ambigua, che può prestarsi ad alimentare il più angosciato pessimismo, come pure una tenace prospettiva di speranza. Non per nulla l’autore stesso di questa formula è stato spesso rappresentato, nella tradizione iconografica, come un uomo che piange, e tuttavia la sua concezione ha fornito la base per tutte le teorie che hanno visto nella lotta degli opposti una intrinseca razionalità, fonte di invincibile fiducia.

In effetti, dietro questo termine, si possono nascondere almeno due concezioni opposte, di cui qui è possibile delineare rapidamente i tratti fondamentali.

La prima è quello secondo cui il conflitto implica una violenza distruttiva o almeno dominatrice, che mette in pericolo i beni a cui l’essere umano maggiormente tiene: la vita, la libertà, l’uso delle cose. Concepito così, il conflitto è sempre una specie di guerra, anche quando non lo manifesta chiaramente. In questo senso, dire che esso è signore del mondo significa riconoscere che non c’è altra regola che quella della sopraffazione reciproca, da cui scaturiscono gli assetti della vita individuale e collettiva.

È la concezione del conflitto che di cui il classico rappresentante è Hobbes. Troviamo un esempio significativo di questo modo di vedere in un autore contemporaneo, René Girard. Per Girard la condizione strutturale degli uomini è quella di una originaria aggressività, resa tragicamente insuperabile dal fatto che a scatenarla non è la ricerca di un bene oggettivo, di cui i contendenti abbiano effettivamente bisogno, bensì un gioco mimetico che spinge ciascuno di essi a desiderare ciò che gli altri desiderano per il solo fatto che lo desiderano1, in un 1 “Una volta soddisfatti i suoi bisogni primordiali, e talvolta anche prima, l'uomo desidera intensamente, ma non sa esattamente che cosa, poiché è l'essere che egli desidera, un essere di cui si sente privo e di cui qualcun altro gli sembra fornito. Il soggetto attende dall'altro che gli dica

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones riflesso di specchi e in un’assimilazione reciproca che, dal piano del desiderio, si trasferiscono automaticamente a quello dell’azione, dando luogo a una simmetria e a una reciprocità di attacchi e di ritorsioni destinata a sfociare nella distruzione di entrambi.

È per evitare questo suicidio collettivo che, secondo Girard, in tutte le società che conosciamo è stato istituito il rito del sacrificio, che altro non è se non uno sfogo alla violenza collettiva in cui “la vendetta non è più vendicata; il processo è finito; il pericolo di escalation è scongiurato” (Girard, 32). “Funzione del sacrificio è quella di placare le violenze intestine, d'impedire lo scoppio dei conflitti” (ivi, 30). È la logica del “capro espiatorio”, per cui, con una scelta puramente arbitraria, si ritorna “all'unanimità spontanea, all'irresistibile convinzione che aizza la comunità intera contro un responsabile unico” (ivi, 415).

In questo modo le comunità umane ritrovano la pace, esorcizzando le pulsioni distruttive che sono dentro di loro col proiettarle fuori. Il meccanismo della vittima espiatoria costituisce “uno dei procedimenti principali, forse il procedimento unico grazie al quale gli uomini riescono a espellere la verità della loro violenza” (ivi, 122).

La seconda concezione, invece, intende per “conflitto” una “differenza non ancora connotata negativamente”, che si manifesta “ogni volta che attività o forze incompatibili fra loro vengono a contatto” (Cozzo, 19-20). Perciò, ben lungi dal costituire una patologia da debellare, pena l’autodistruzione della collettività, “esso è un tutt’uno con la realtà e con la vita che non sono mera ripetizione ma cambiamento ed evoluzione” (ivi, 21).

ciò che si deve desiderare, per acquistare tale essere. Se il modello, già dotato a quanto pare di un essere superiore, desidera qualcosa, non può trattarsi d'altro che di un oggetto capace di conferire una pienezza d'essere anche più totale”. Da qui l’ansia di possedere, a propria volta, quell’oggetto: “Il desiderio è essenzialmente mimetico” (Girard, 205).

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Di più: in quanto “il conflitto di per sé è un momento in cui si incontra necessariamente l’altro e si comunica con lui” (ivi, 73), non dev’essere demonizzato ed eluso ad ogni costo, anzi “va affrontato, perché esso prende in considerazione l’altro e, mettendo in luce una differenza, sottolinea il rapporto con lui: da questo punto di vista, esso è elemento di comunicazione, e pertanto può essere altamente positivo in quanto occasione di incontro e di scoperta di ciò che, pur nella differenza, lega, accomuna” (ivi, 21).

Il conflitto, dunque, non si identifica qui con la violenza, che “è solo (…) l’esito di un conflitto gestito male”, il che accade quando esso è impostato “come gioco a somma zero, cioè competitivo, in cui è necessario che ci siano un vincitore e un vinto, un Maggiore e un minore; ma esso può essere gestito anche come gioco a somma positiva o variabile, cioè cooperativo, costruttivo, in modo che ci guadagnino tutte le parti” (ivi, 22)2.

Secondo questa prospettiva, che la violenza non si identifichi con il conflitto appare evidente dal fatto che essa tende ad eliminarlo piuttosto che a comporlo. Abbiamo visto, infatti, che il conflitto è l’emergere delle differenze e del rapporto tra di esse. Ora, “la violenza (...) vuole negare il rapporto: essa vorrebbe che l’altro stesse sottomesso, non ci fosse, non esistesse” (Cozzo, 20).

2 “Nessuno dovrebbe sottoporre a violenza un’altra persona (= essere nella posizione di Maggiore), nessuno dovrebbe essere sottoposto a violenza (= essere nella posizione di minore). Conseguentemente, tutti dovrebbero trovarsi allo stesso livello, ognuno deve trovarsi in una posizione equivalente all’altro” (Patfoort, 47). Dove, si precisa, “il termine “equivalente” è più appropriato del comunemente usato “uguale”, che facilmente genera confusione per il doppio significato (“identico” ed “equivalente”). Per esempio quando si dice che gli uomini e le donne dovrebbero essere “uguali” non s’intende dire che dovrebbero essere “identici”: essi sono e saranno sempre diversi, anche se possono ovviamente essere equivalenti nonostante le differenze” (ivi).

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La dialettica dei modelli

È possibile trovare un punto d’incontro fra questi due diversissimi modelli di conflitto? A prima vista ciò appare molto difficile. Mentre per la prima concezione, infatti, la sola uguaglianza concepibile fra i contendenti è quella “cattiva” dell’omologazione, che li spinge a distruggersi vicendevolmente e che diventa perciò necessario rimuovere attraverso la creazione di una “differenza” non meno perversa, quella di un “capro espiatorio” che paghi per tutti, la seconda valorizza nel conflitto una “buona” uguaglianza, che non esclude ma implica le differenze e che precipita nella violenza proprio quando si cerca di eliminare le differenze, facendo uscire dal gioco -come minore o perdente- uno dei partecipanti al conflitto.

Stando alla prima prospettiva, perciò, il conflitto è una maledizione, da rimuovere anche a costo di pagare un prezzo terribile. Stando alla seconda, un’opportunità insostituibile, al punto che perfino la sua composizione deve in qualche modo continuare a mantenere in equilibbio le forze che si affrontavano.

Forse si può evitare di fare una scelta -che rischierebbe di risultare comunque riduttiva della complessità del problema- cercando di stabilire un legame tra le due concezioni. Ciò però esige una revisione di entrambe.

Della prima, riconoscendo che la modalità di conflitto da essa teorizzata potrebbe non essere -come pretendono i suoi sostenitori- la sua forma primaria, ma solo una degenerazione della seconda. In questo caso, la perversa reciprocità che omologa i contendenti, e li costringe a tentare di eliminarsi a vicenda, andrebbe considerata il risultato di un modo sbagliato di porsi a confronto. Ritenerla esclusiva significa misconoscere tutta una sfera di conflittualità che potremmo definire “costruttiva”, il cui stile, cioè, non è la violenza, che mira a distruggere o a espellere l’altro, bensì la forza, che implica anch’essa la volontà di prevalere sull’antagonista, ma ritiene

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones legittimo l’impegno da lui dispiegato allo stesso scopo e considera la sua esistenza una condizione indispensabile per la continuazione del gioco. Allora i contendenti non sarebbero “‘cose’ appena nominabili che cozzano tra di loro con stupida caparbietà” (Girard, 76-77), ma persone che si rispettano a vicenda, e “respicere”, il verbo latino da cui deriva “respectus”, significa “vedere”: vedere, cioè, l’altro nella sua identità, diversa dalla propria e appunto per questo importante.

Quanto alla seconda concezione, ciò che appare inaccettabile in essa è la visione troppo idillica, utopistica, che ricorda la tesi di quei teologi i quali sostenevano che nel giardino dell’Eden i leoni mangiavano erba. Non distinguendo tra le due forme di lotta che abbiamo appena segnalato -quella che non riconosce alcuna legittimità all’esistenza stessa dell’avversario e volta a vincere distruggendolo, e quella che invece aspira a prevalere rispettandolo- presenta un’immagine irreale della vita, a cominciare di tutto ciò che in essa ha a che fare con la gara, come i giochi, gli sport, ecc.3 Solo che in questo modo essa finisce per portare acqua al mulino della sua rivale, concedendole che ogni sforzo per prevalere, in qualunque modo venga attuato, è già di per sé una violenza. 3 È ricorrente, negli autori che sostengono questa linea di pensiero, l’aneddoto -citato in termini entusiastici- degli indigeni che, dopo aver imparato a giocare a calcio dagli occidentali, reinterpretano questo sport rifiutando di chiudere le partite fin quando le due squadre non siano arrivate al pareggio. Ora, è vero che l’importane non è vincere, bensì concorrere – questo è ciò che il primo modello di conflitto non ammette - , non è meno vero che si concorre nella speranza di vincere. E che questo non significhi voler distruggere l’antagonista lo testimoniano gli innumerevoli esempi di rivalità cavalleresca tra grandi campioni (chi, in Italia, non ricorda quella,leggendaria, tra Coppi e Bartali?), che hanno ritenuto un privilegio potersi misurare l’uno con l’altro (e che quindi non avrebbero mai voluto la sua scomparsa dalla scena), ma che non per questo rinunziato all’aspirazione di batterlo (v. su questo anche il film di Hugh Hudson Momenti di gloria, così lontano da una logica hobbesiana, ma realisticamente centrato su ciò che le gare sportive sono effettivamente).

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In realtà il conflitto diventa violenza non perché i contendenti cercano di avere la meglio, ma quando qualcuno di essi o entrambi vogliono raggiungere questo risultato senza rispettare la logica del conflitto stesso, che implica l’esistenza e dunque il rispetto dell’altro e, di conseguenza, esige che tutti si sottomettano ad alcuni precisi limiti, di cui sono espressione le “regole del gioco” (si veda, nel film di Dahl Il giocatore, la differenza tra il baro, cacciato via da tutti, e colui che rifiuta di vincere per vie traverse, meritando alla fine il riconoscimento del suo avversario).

Da questo punto di vista è giusta l’affermazione che il conflitto degenera in violenza -o, che è lo stesso, che un conflitto è violento- quando nega se stesso, vale a dire quando i contendenti, o almeno uno di essi, non accettando l’alterità e il limite costitutivi della conflittualità in quanto tale, si comportano in modo da ignorare questa alterità e il relativo limite e si sforzano di cancellare, anche nella realtà, i rispettivi avversari, invece di misurarsi con essi per avere la meglio.

I volti della violenza

Ci sono diversi modi in cui si può verificare questa degenerazione del conflitto. Più precisamente, ciò può accadere o quando al conflitto viene impedito di venire alla luce, o quando lo si affronta in modo da farlo venir meno attraverso l’eliminazione dell’altro, o quando lo si supera attraverso l’eliminazione della sua alterità. In tutti questi casi la violenza può anche essere reciproca, ma c’è normalmente (non sempre) uno dei contendenti che prevale e che si avvantaggia della liquidazione del conflitto.

Cominciamo dal primo caso. Qui ci si comporta in modo da non far emergere il conflitto. Ciò può accadere in varie forme. In una, quando l’indifferenza fa sì che si viva in mondi paralleli, senza alcuna relazione reciproca che consenta anche semplicemente il nascere del conflitto. Un esempio di questo

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones può essere, a livello planetario, la convivenza sulla terra di popolazioni che nuotano nell’abbondanza e altre che muoiono di inedia.

Un’altra forma della medesima fattispecie si ha quando la relazione esiste, ed esiste anche il conflitto, ma quest’ultimo è latente e ci si comporta come se non esistesse. La differenza viene ignorata, negata prima che si manifesti. Col risultato che uno dei due termini del rapporto non riesce neppure a far emergere la rivendicazione della propria identità e vive in uno stato di frustrazione, portando sul volto la maschera omologante che gli è stata imposta dall’altro termine. Pensiamo, per questa forma di violenza, alla storia di tante donne che, in famiglia o nel lavoro, questa maschera hanno dovuto portarla senza mai neppure protestare.

Sempre a questo primo caso appartiene anche una terza forma di violenza, quella segnalata da René Girard, in cui il conflitto viene neutralizzato in partenza e mantenuto sommerso perché la comunità riesce a scaricare la responsabilità di esso su un “capro espiatorio”. Qui -a differenza che nei casi precedenti- sono tutti i contendenti in gioco ad accordarsi, nell’intento di soffocare sul nascere il conflitto 4 . È ciò che accadeva nelle situazioni, ampiamente documentate dall’antropologo che ha avanzato questa teoria, in cui si dava particolare rilievo a una figura, per scaricare su di essa le tensioni della comunità - 4 In realtà, in un tempo mitico, il conflitto è già esploso e, rispetto ad esso, il sacrificio del capro espiatorio non sarebbe tanto di evitarlo quanto di rimediare ad esso. Ma rispetto al tempo storico, questa crisi è solo temuta, più o meno consciamente, e il sacrificio h perciò un valore preventivo. Può anche, però, non essere così. Per esempio nel vangelo di Luca si narra che Pilato mandò per deferenza Gesù ad Erode, perché lo giudicasse lui, e si aggiunge: “In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici; prima infatti c'era stata inimicizia tra loro” (Lc 23,12). Qui il conflitto c’era ed è sanato in modo violento a spese di un innocente. In questo caso la figura de capro espiatorio può essere attribuita non al primo,ma al secondo “volto” della violenza, che stiamo per esaminare.

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones specialmente in momenti difficili- ed evitare che esplodessero in aperto conflitto. Corrisponde a questa tipologia il caso del pharmakos dell’antica Atene, il cui nome evocava, significativamente, l’ambiguità della sua funzione: “veleno” da colpevolizzare e di cui liberarsi, “medicina” nei confronti dei problemi della società.

Guardando a questo quadro, si comprende perché talora riuscire a portare alla luce una situazione di conflitto può essere considerato una conquista importante, sia per i soggetti sia per l’esistenza di un autentico rapporto sia tra i singoli che tra i gruppi sociali. La negazione della conflittualità, quando essa in potenza esiste, è il primo volto della violenza, invisibile e talora perfino inconsapevole, ma non per questo meno drammatico.

Può anche accadere -ed il secondo caso che qui vogliamo esaminare- che il comportamento violento sia messo in atto quando il conflitto si è già manifestato chiaramente, ma i contendenti, o almeno uno di essi, non accettano realmente il confronto con l’altro e usano qualsiasi mezzo per eliminarlo o almeno espellerlo (l’esilio era una tipica misura adottata in passato a questo scopo; ma in un mondo globalizzato, è diventato difficile immaginare dove dovrebbe essere confinato il “nemico”, almeno finché non si renderanno abitabili altri pianeti!), facendo così cessare il conflitto stesso, magari in nome dell’ordine o della pace. Pensiamo qui alla lotta di certi regimi per annientare l’opposizione, o a quella di due gruppi etnici che si battono per espellersi da un territorio o annientarsi a vicenda. Più in generale, è il caso di tutti quei conflitti che degenerano in guerra. È il volto della violenza che si presenta nella sua forma conclamata, anche se sempre coperta da una “buona” giustificazione.

Si può ipotizzare un terzo caso di violenza, in cui il conflitto, dopo essersi manifestato, viene composto apparentemente in modo pacifico, senza un’azione di espulsione o di distruzione di uno dei contendenti, bensì con la sua “colonizzazione”. Qui ad essere liquidato non è l’altro nella

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones sua realtà fisica, ma la sua alterità, cancellata, nel suo stesso “interesse” e col suo stesso consenso, mediante un insensibile processo di assorbimento e di assimilazione. Pensiamo qui agli immigrati che si omologano senza riserve ai costumi dei paesi industrializzati di cui sono ospiti, per avere anche loro parte al banchetto delle opportunità. È il volto della violenza nella sua forma più subdola, anche se meno evidentemente dolorosa.

Vedremo più avanti come queste forme di liquidazione violenta dei conflitti -con i comportamenti che portano ad essa- abbiano un riscontro sul piano della comunicazione e di quella giornalistica in particolare e come essa sia chiamata a rispondere ad esse.

II. COMUNICAZIONE E CONFLITTO Nel rapporto tra conflitto e comunicazione possiamo

distinguere tre livelli. Il primo è quello del conflitto potenzialmente presente in

ogni comunicazione e che ha come protagonisti i due o più interlocutori che in essa sono coinvolti. Lo chiameremo “il conflitto nella comunicazione”.

Il secondo livello è quello del conflitto tra le diverse comunicazioni e ha come protagonisti in primo luogo coloro che hanno gli strumenti per proporre dei messaggi a un pubblico, ma si riflette in modo significativo anche sui destinatari di questi messaggi. Lo chiameremo “il conflitto delle comunicazioni”.

Il terzo livello è quello della comunicazione di fronte ai conflitti che si sviluppano nella società e che la riguardano in quanto essa ha la possibilità di contribuire a comporli o almeno di favorire il loro corretto svolgimento. Qui il conflitto non riguarda la comunicazione in quanto tale, ma ne è piuttosto l’oggetto. Perciò parleremo di “comunicazione dei conflitti”.

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Il conflitto nella comunicazione

Un gioco di maschere

In ogni comunicazione il messaggio messo in comune non è solo oggetto della comunicazione: esso ha un ruolo costitutivo nei confronti dell’identità dei comunicanti e del tipo di rapporto che si instaura tra di loro. Come ha spiegato Austin, infatti, nel dire si realizza anche un fare5.

Da questo punto di vista, quando si comunica si realizza, fra l’altro, un processo di identificazione: “Chi parla ritrae se stesso e il suo interlocutore” (Casetti-Di Chio, 215). Se stesso, sia rispetto al suo rapporto con ciò che comunica (“penso che”, “spero che”), sia rispetto al titolo a cui parla (“come amico ti devo dire che”), sia rispetto al suo atteggiamento (“volendo essere obiettivo, devo riconoscere”). L’altro, sia rispetto al rapporto con ciò che viene comunicato (“ti può interessare sapere che”), sia rispetto al titolo a cui la comunicazione gli viene fatta (“a te di cui mi posso fidare”), sia rispetto al suo atteggiamento (“tu che sei una persona che queste cose le può capire”).

Insomma, “le parole della conversazione forniscono maschere che una volta indossate fissano le “parti” che ciascuno deve sostenere” (ivi, 216), e a cui deve ispirare il proprio 5 “Secondo il punto di vista pragmatico, è possibile ritagliare tre livelli di linguaggio: a. livello locutorio, quando l’attenzione viene puntata su quel che si dice, sul senso prodotto dal linguaggio; b. livello illocutorio, quando l’analisi si porta sul “modo” in cui viene enunciata una significazione e soprattutto sull’azione che l’accompagna (...) Per esempio, il tono della voce può suggerire minaccia, promessa, comando o altro; c. livello perlocutorio, che riguarda l’effetto prodotto dall’enunciazione in chi ascolta o fruisce del significato” (Bettetini, 27). Per esempio l’espressione “è tardi”, a di là del significato puro e semplice delle parole (livello a.) può costituire, a seconda del tipo di comunicazione non verbale che l’accompagna - tono di voce, mimica, sguardo - un’informazione, un rimprovero, un’amara riflessione (livello b.) e dar luogo, in rapporto a un determinato contesto, ad effetti psicologici, giuridici, politici, per il solo fatto di esser stata pronunziata (livello c.).

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones atteggiamento comunicativo. Questo vale per qualsiasi comunicazione. Ed è qui -nella tensione fisiologica fra la proiezione che ciascuno dei comunicanti fa dei propri schemi, delle “maschere” da lui ideate, allo scopo di definire l’identità propria e quella dell’interlocutore, nonché la natura del rapporto- la prima occasione di conflitto. Ognuno degli interlocutori tende, infatti, a imporre la propria prospettiva, che non necessariamente coincide con quella dell’altro. Se di questa differenza entrambi prendono atto, lasciando aperto il conflitto comunicativo che essa comporta, il dialogo funzionerà, anche se attraverso la fatica di una immedesimazione nel punto di vista altrui. Se, invece, come spesso accade, essi eludono questa fatica e preferiscono muoversi all’interno dei rispettivi schemi, ci saranno due monologhi mascherati, in cui ciascuno si rivolgerà a un interlocutore inesistente a partire da un identità che attribuisce a se stesso ma che neanch’essa, agli occhi dell’altro, è reale. Gli effetti, ai fini di una effettiva comunicazione, non possono che essere devastanti. Ognuno, mentre l’altro parla, invece di ascoltarlo sarà assorto nel preparare la propria risposta, immaginando di sapere già ciò che quello sta dicendo.

È la logica della violenza: l’altro, nella sua scomoda alterità, è di troppo e si preferisce comportarsi in modo da non farlo esistere. Ciò può essere attuato sulla linea del primo tipo di eliminazione del conflitto, quello che non lo fa neppure venire alla luce, quando dell’interlocutore neppure ci si accorge o si dà per scontato in partenza che sia come noi lo raffiguriamo; sulla linea del secondo, quello che suppone lo scontro aperto, quando la divergenza dei punti di vista è fin troppo chiara e determina il rifiuto di uno o di entrambi di continuare a dialogare (“io con quello non discuto”) o, nei casi più estremi, lo sforzo di eliminare l’interlocutore dalla scena, espellendolo o mettendolo in condizione di non poter più parlare; sulla linea del terzo quando, evidenziatosi il conflitto in modo più o meno palese, uno dei due riesce a plasmare il punto di vista dell’altro, portandolo a vedere se stesso e lui in base alla propria ottica.

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Il problema ha una rilevanza, anzi si presenta in un certo senso più grave, nel caso della comunicazione mediatica, perché, in questo caso, esiste una netta asimmetria di fatto tra i protagonisti del processo comunicativo. Ciò non impedisce che anche in questi casi si possa parlare, in qualche modo, di comunicazione -con la reciprocità che essa implica-, e non semplicemente di trasmissione -che sarebbe invece solo unidirezionale-, perché è pur sempre possibile al pubblico intervenire nei processi comunicativi (per esempio con lettere, con telefonate, con la partecipazione diretta) o almeno reagire (non acquistando più un giornale o facendo abbassare l’indice di gradimento a una trasmissione). Resta il fatto che, a differenza che nei rapporti personali, siamo davanti a una situazione in cui la lotta per proporre e, al limite, imporre una “raffigurazione” delle rispettive identità e del tipo di relazione vede in partenza nettamente avvantaggiato uno dei soggetti che, perciò, è maggiormente tentato di comportarsi in modo da dominare l’altro, facendo degenerare il conflitto in conflitto violento.

Il caso estremo in cui ciò si verifica è quello dei regimi totalitari, che usano i mezzi della comunicazione per plasmare l’identità del loro popolo in modo da farne la proiezione di un’immagine creata dal dittatore di turno. Il compito della propaganda, là dove ciò si verifica, è precisamente quello di far sì che il cittadino impari a riconoscersi senza esitazioni in questa immagine, rispondendo ai messaggi che gli vengono rivolti esattamente come chi li emette si aspetta che reagisca. Ciò implica la cancellazione dei volti e la riduzione degli individui a una massa anonima e insensibile ai dubbi e alle domande che normalmente accompagnano le prese di posizione dei singoli.

Il problema si pone, peraltro, in una certa misura, anche in quelle società democratiche dove le comunicazioni sociali hanno acquisito un ruolo preponderante nella formazione dell’opinione pubblica. Specialmente se non si seguono regole rigorose che garantiscano un pluralismo nel controllo e nell’uso

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones dei mezzi di comunicazione, è facile che alcuni degli aspetti deteriori dei totalitarismi classici si riproducano anche in un regime dove i cittadini sono formalmente liberi da ogni imposizione.

Sia nel primo che nel secondo caso, peraltro, non bisogna dimenticare quanto si osservava prima, e cioè che anche nella comunicazione di massa esiste una certa reciprocità. Ciò significa che la manipolazione delle identità non si può attribuire in modo esclusivo, ma se mai solo prevalente, ai detentori del potere mediatico. Così, nel caso dei totalitarismi, è vero che il dittatore tende con ogni mezzo a plasmare un volto collettivo del popolo che lo sfigura e lo rende massa manovrabile; ma egli quasi sempre è, a sua volta, la proiezione dell’immagine creata dalla massa, di cui egli si è abilmente rivestito, ma che evidentemente lo condiziona e lo costringe ad assumere gli atteggiamenti che i suoi sostenitori si aspettano da lui.

Analogamente, anche nelle società dove la comunicazione non sostituisce, ma condiziona pesantemente i meccanismi democratici, chi vuole avvalersi del potere che essa conferisce e condizionare l’opinione pubblica, può farlo solo perché quest’ultima, in qualche modo si riconosce in lui e lo costringe a incarnare il ruolo mitico che essa ha inventato e gli ha attribuito. Ciò vale, più semplicemente, nel gioco tra gestori e fruitori dei mass media. È vero che i primi sembrano avere un ruolo indiscusso di decisione nel proporre programmi e, attraverso di essi, stili di pensiero e di comportamento. Ma, se li si interroga, si verrà a scoprire che essi a loro volta si sentono obbligati a dare al pubblico certe cose perché esso le chiede e, se non le ricevesse, si rivolgerebbe ad altri.

È appena il caso di precisare che non c’è un inizio assoluto: queste spinte volte, “dal basso”, a imporre una certa raffigurazione dei soggetti in gioco e del loro rapporto, sono sempre in partenza condizionate dai messaggi ricevuti “dall’alto”, i quali a loro volta erano mirati a intercettare aspirazioni e velleità diffuse, cosicché diventa impossibile stabilire un prima o un poi,

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones anche se si deve riconoscere la maggiore probabilità che siano i detentori degli strumenti di comunicazione ad avere il ruolo decisivo in questa gara di violenza.

I meccanismi che fanno degenerare il fisiologico conflitto tra le identità è pericolosamente presente anche a livello planetario. Oggi la comunicazione ha unificato il mondo. Ma lo ha fatto trainata dalle esigenze dell’economia, dal cui ambito deriva, originariamente, anche il termine “globalizzazione”. Non c’è da stupirsi se questo ha lasciato un’impronta significativa sull’intero fenomeno. Qualcuno ha detto che “il fine dei mezzi di comunicazione sono il consumo e il mantenimento di una figura di consumatore” (Ramachandaran, 98). Forse è esagerato, ma non si può negare che in questa affermazione vi sia qualcosa di vero. Dove il primo esempio di consumismo favorito dai mass media è proprio quello relativo agli stessi mezzi di comunicazione, rispetto a cui, innanzi tutto, la gente assume il ruolo di passivo e vorace divoratore che le viene contagiato progressivamente nei confronti di tutto il resto.

Ma il consumatore non ha altre caratteristiche che quelle legate al suo ruolo. La sua identità personale, così come quella culturale, diventano irrilevanti. Nella misura, dunque, in cui i mezzi di comunicazione riescono a imporre, a livello mondiale, questa raffigurazione dell’identità dei loro interlocutori, aumenta il rischio di una spaventosa riduzione all’anonimato. È stato giustamente notato, a questo proposito, che dietro l’immagine del “villaggio globale”, diffusa da McLuhan, si nasconde un equivoco. Una volta Gandhi disse che “l’India vive nei suoi villaggi”. Ma “per lui il villaggio era una comunità centrata sul popolo, un’unità di civilizzazione della società, interdipendente e legata da tradizioni, cultura, valori, risorse, conflitti e preoccupazioni condivise. Vi è un mondo di villaggi del genere al di fuori del circuito elettronico del “villaggio globale” di McLuhan” (ivi, 93). Invece, “nel “villaggio” di McLuhan il messaggero (medium o mezzo di comunicazione) è un remoto potere incontrollabile, invasore dalla terra e dal cielo, senza

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones alcun mittente o destinatario in termini umani. Al contrario, abbiamo di fronte un’industria priva di partecipanti al processo di comunicazione, che prospera su un pubblico di consumatori passivi” (ivi, 94). In questi termini, si può concludere che “il messaggero, o mezzo di comunicazione di massa, come intermediario ha privato la gente del diritto fondamentale alla comunicazione” (ivi, 94).

Reciprocamente, i fondamentalismi, che altro non sono se non una reazione scomposta a questa minaccia di livellamento delle tradizioni e delle culture particolari, non hanno trovato una strategia diversa da quella che denunziano e finiscono per operare un’analoga proiezione sui loro avversari -per lo più sull’Occidente- dei loro fantasmi e delle loro paure, con un evidente tentativo di provocarli per farli essere come essi li vedono.

In entrambi i casi, la violenza ha finito per annullare il conflitto.

Il volto dell’altro

Per uscire da questo circolo ipnotico c’è solo una via: riattivare il conflitto fra le diverse percezioni della propria identità e di quella dell’altro, sia quando si tratta di persone che quando sono in gioco gruppi e comunità. Vale, per questo livello del conflitto, la riflessione toccante di Emmanuel Levinas sull’originaria trascendenza del volto dell’altro, dove il termine originariamente usato dall’A, “Autrui”, non indica l’alterità del mondo, l’“altro” nella forma neutra (allora sarebbe, in francese, “autre”), bensì l’essere umano, “il prossimo in quanto avente un volto” (Petrosino,130).

Nel volto dell’altro si esprime, secondo il noto pensatore ebreo, tutta l’irriducibile trascendenza dell’altro che ci sta di fronte rispetto ai nostri schemi e alle nostre aspettative: “Il volto è presente nel suo rifiuto di essere contenuto” (Levinas 1980, 199). Ogni rapporto in cui uno dei due, anche in buona fede,

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones ritenga di poter accogliere l’altro riportandolo al proprio punto di vista, al proprio modo di concepirlo e inquadrarlo, “è una relazione del Medesimo con l’Altro in cui l’Altro si riduce al Medesimo e si spoglia della sua estraneità, in cui il pensiero si rapporta all’altro, ma in cui l’altro non è più l’altro in quanto tale, in cui è già proprio, è già mio (…) E’ immanenza” (Levinas 1990,14).

Possiamo credere di essere esenti da questo rischio, di avere ben presenti i volti delle persone con cui abbiamo rapporti. Se, però, ci fermiamo a riflettere, ci rendiamo conto che nelle diverse situazioni il centro siamo sempre noi, col nostro mondo, i nostri problemi, i nostri interessi. Di questo mondo gli altri fanno parte, ma come comparse. Fare spazio all’altro davvero significa per un momento percepire, con la stessa forza con cui di solito percepiamo noi stessi, che anch’egli è “centro” e che non potremo incontrarlo davvero se non accettando di spiazzarci radicalmente rispetto al nostro abituale modo di vedere e di sentire. Allora il suo volto si imporrà improvvisamente e ci troveremo davanti a lui “come uno che aprisse una finestra sulla quale tuttavia già si disegnava la sua figura” (Levinas 1985, 70).

Vi è nel volto altrui un che di indifeso, che si manifesta nel suo stesso mostrarsi, che mi si rivolge come un’invocazione: “Il volto si è rivolto a me -e questa è appunto la sua nudità” (Levinas 1980, 73).

Perciò l’irrompere del volto dell’altro sconvolge la mia soggettività spontaneamente chiusa in se stessa, mi rimette in discussione. Eppure solo così ci si può ritrovare: “Soltanto andando incontro ad Altri sono presente a me stesso”, perché solo “in quanto responsabile sono ricondotto alla mia realtà ultima” (ivi, 182-183).

Ritroviamo qui l’itinerario del conflitto e della sua degenerazione violenta: l’irrompere di un volto radicalmente diverso dal mio, che mi rimette in discussione scuotendo tutte le mie certezze precedenti e spingendomi o a fingere di non

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones vederlo, o a cancellarlo (distruggendolo o fuggendolo), o ad assimilarlo a me col suo consenso. Sono in gioco qui tutti e tre i tipi di violenza sopra illustrati: quello che non fa neppure sorgere il conflitto, attraverso una radicale indifferenza, quello che lo esorcizza con lo scontro aperto o con la fuga, e quello che consiste nell’assimilazione apparentemente indolore dell’altro. Per noi è più facile costruirci un’idea schematica, semplice, del nostro prossimo e del significato delle loro azioni (“sono tutti pazzi”, capita di sentire dire a qualcuno, specie alle persone anziane) che confrontarci con loro per entrare nella complessità della loro posizione reale. In questo modo si esorcizzano le proprie paure, i propri sensi di colpa, le proprie fragilità. Comunicare significa, se la si fa veramente, affrontare una crisi - nel senso etimologico di “giudizio” - del nostro universo mentale, rischiare che si aprano delle crepe, dei dubbi, delle contraddizioni, che cerchiamo di nascondere.

Reciprocamente, come ha sottolineato tutta una letteratura filosofica e psicologica, costituisce un problema anche essere conosciuti dagli altri. Specchiarci nei loro occhi è sempre un trauma, perché ci oggettiva, fa apparire degli aspetti di noi stessi che non solo non conoscevamo, ma che non siamo disposti a riconoscere come parte della nostra identità. Sotto il loro sguardo spietato vengono alla luce i “mostri” che abbiamo cercato di celare anche, forse soprattutto a noi stessi.

E anche da parte di chi è guardato possono scattare i tipi di violenza sopra detti, volti ad eludere ed eliminare il conflitto: indifferenza e rifiuto di vedere le critiche nei propri confronti, scontro esplicito, riduzione dello sguardo altrui al proprio.

Eppure, da quanto detto emerge chiaramente che la via per il superamento di questa conflittualità violenta e il ripristino di quella fisiologica, in cui ognuno possa essere se stesso, è la comunicazione stessa. Se ci decidiamo a parlare con loro, invece di proiettare su di essi i nostri schemi mentali, scopriremo che gli altri, nella grande maggioranza dei casi, non sono nostri nemici, anzi sono disposti ad accettare i “mostri”

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones che sono dentro di noi e che noi avevamo tanta paura di lasciar vedere loro. E la loro accettazione ci consentirà, alla fine, di accettarci anche noi recuperando un’immagine sopportabile di noi stessi e superando le nostre insicurezze e i nostri sensi di colpa. Ma così saremo anche più capaci di perdonare, a nostra volta, i loro limiti e le loro colpe, e impareremo ad accettarli per ciò che sono, rinunziando a demonizzarli.

Con ciò, evidentemente, il conflitto -non solo tra noi e gli altri, ma in primo luogo tra noi e noi stessi- non sarà composto. Ma ci si sarà almeno “arresi” alla complessità e alle contraddizioni del nostro essere, di quello altrui e della nostra vita di relazioni umane, con cui potremo alla fine imparare a convivere. La comunicazione farà questo miracolo, se a sua volta sarà stata illuminata dalla disponibilità di tutti a cogliere quella che potremmo chiamare “la verità dei volti”, e a considerare questa verità il punto di partenza, se non quello di arrivo, dei nostri rapporti umani.

Ci sono volti da rispettare anche là dove sono in gioco i rapporti politici. Abbiamo visto come all’interno dei singoli paesi -anche democratici- il conflitto venga a volte forzato in direzione di un annullamento delle differenze, o con la manipolazione che, da parte del potere, impone ai cittadini una identità fittizia o, in un certo senso ancora più tragicamente, con l’annullamento di tutte le identità in campo, nel senso che anche chi crede di dominare è alla fine costretto, per farlo, a impersonare il ruolo che gli è assegnato dalle sue vittime, trasformandosi in una specie di miraggio.

La sola risposta valida a questa situazione, in cui più nessuno è se stesso, è il ripristino della distanza e del conflitto. Ciò è vero già se si tratta del rapporto, interno alla classe politica, tra maggioranza ed opposizione. La vera comunicazione è il contrario di quell’ambiguo trasformismo che, nella storia di alcuni Paesi -l’Italia è, da questo punto di vista, un caso emblematico-, ha spesso finito per vanificare i confini tra chi deve assumersi la responsabilità di governare e chi, al

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones contrario, deve saper accettare un ruolo diverso,ma non meno importante, che è quello di rappresentare una reale alternativa alla posizione e alle scelte del governo. Tale perverso consociativismo non crea unità, ma solo una fitta rete di accordi più o meno sotterranei, più o meno leciti, in vista della gestione del potere, che assume a questo punto il valore centrale di tutta l’azione dei partiti, distraendoli dal loro fine proprio, che dovrebbe essere il perseguimento -ciascuno secondo la propria visuale e il proprio programma- del bene comune. Bisogna dunque che le voci dei protagonisti del dibattito politico risuonino ben nitide e senza temere le inevitabili dissonanze, mettendo l’opinione pubblica in condizione di distinguere la posizione degli uni dal quella degli altri, perché altrimenti si vanifica la possibilità degli elettori di fare una scelta effettiva.

Con ciò entra in gioco il rapporto tra potere e cittadini. Come emerge dalle considerazioni appena svolte, non è solo la comunicazione mediatica a falsare questo rapporto: lo stesso stile dei loro legittimi rappresentanti nel gestire i rispettivi ruoli può costituire per i cittadini un messaggio più eloquente di qualunque altro, scritto o audiovisivo, e avere effetti devastanti oppure estremamente positivi per la raffigurazione che essi devono farsi di se stessi e del loro rapporto con le istituzioni.

Non c’è dubbio, tuttavia, che un peso specifico e non sottovalutabile spetta, in questo processo, alla comunicazione che passa attraverso i mass media. Da questo punto di vista, riaprire un conflitto salutare tra le identità significa, da parte dei governi e di coloro che detengono il controllo dei mezzi di comunicazione, rinunziare a conquistare il consenso a qualsiasi prezzo e mantenere coraggiosamente una linea anche quando essa non incontra immediatamente il favore del pubblico; da parte dell’opinione pubblica, saper reagire energicamente a tutti i tentativi di ridurre lo stile del discorso politico agli stessi meccanismi di “persuasione occulta” che governano la pubblicità commerciale. Rimandando a più tardi (v. il capitolo “Comunicazione e democrazia”) una riflessione più

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones approfondita su questo punto, possiamo dire fin d’ora che solo a queste condizioni ha senso parlare di regimi democratici. L’accesso della popolazione al suffragio, da solo, può anche, in certi casi, significare ben poco. Se manca una coscienza critica che sappia, all’occorrenza, contrapporsi, in una logica di sano conflitto, ai messaggi che vengono non solo dal governo, ma dall’intera classe politica, è molto problematico parlare di vera democrazia.

Come questa coscienza critica si possa formare è complesso, qui, dirlo diffusamente. Basti osservare che certamente può avere un peso fondamentale, in una direzione o nell’altra, il modo in cui i mezzi di comunicazione funzionano.

Questo vale sia all’interno di un paese, rispetto ai poteri istituzionali o a quelli di fatto, sia a livello planetario, nel rapporto tra le diverse culture. Nell’uno e nell’altro caso, “mezzi di comunicazione centrati su popoli dovrebbero assicurare la libertà dei popoli di diventare partecipanti autonomi ma attivi e critici nel loro mondo sociale” (Ramachandaran, 95).

Ciò però richiede uno sforzo -sia da parte di coloro che questi mezzi li gestiscono, sia da parte dei loro destinatari- per cercare di far emergere l’autentica fisionomia delle culture e delle tradizioni, evitando il duplice scoglio della banalizzazione omologante, che salva le tradizioni, nella migliore delle ipotesi, sotto la loro forma folklorica, e del fondamentalismo fanatico e autoreferenziale. Gli strumenti della comunicazione mediatica possono avere, nel determinare l’una o l’altra distorsione della fisionomia di un popolo, un’efficacia perversa. Reciprocamente, possono averne una virtuosa nel sottolineare i tratti di quella fisionomia, nella sua irriducibilità agli standard della globalizzazione ma anche nella sua originaria apertura al confronto e al dialogo con altri popoli e altre culture. Ma possono fare questo soltanto se, nella modalità del loro funzionamento, non cercano di manipolare le identità, appiattendo la loro inafferrabile varietà al livello della falsa universalità degli slogan e delle mode dominanti.

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Qui, come nella relazione tra le persone, alla comunicazione si richiede di tener aperto lo spazio che distingue e in una certa misura contrappone -senza separarle- le differenze, accettando essa stessa di fare un passo indietro e di ascoltare e accogliere la ricchezza di sfumature che si esprime nella varietà delle storie e delle esperienze culturali, senza pretendere di sostituirle con un messaggio preconfezionato e univoco. Si richiede, insomma, di essere fedeli, sia nell’ambito dei singoli paesi, sia in quello planetario, a quella che abbiamo indicato prima, parlando dei rapporti personali, come “verità dei volti”. Solo a questa condizione il conflitto che essa comporta nella sua stessa struttura costitutiva non degenererà, come oggi spesso accade, in una sottile violenza che segna la fine della comunicazione stessa.

Il conflitto nella comunicazione giornalistica Spesso il giornalismo è stato ed è parte determinante del

meccanismo perverso che introduce la violenza nei processi comunicativi, vanificando il conflitto tra le differenti identità che dovrebbe mettere a confronto. Ciò può realizzarsi in diversi modi.

Uno è quello per cui il conflitto non viene neppure alla luce, disinnescato in partenza dal reciproco ignorarsi degli interlocutori. Abbiamo già individuato questo caso più sopra, quando abbiamo cercato di tracciare una tipologia generale della violenza. Nel caso particolare dell’informazione ciò si verifica quando coloro che dovrebbero rispondere alle domande della gente fornendo tutte le indicazioni e le spiegazioni utili per una reale comprensione dei fatti non si curano di farlo, o lo fanno in modo del tutto insufficiente, provocando così, per reazione, in una parte consistente della popolazione la quasi totale disaffezione nei confronti dei mezzi di comunicazione (in Italia, in particolare, la percentuale degli adulti che leggono i giornali è penosamente ridotta). Indifferenza contro indifferenza. Per entrambi, il volto dell’altro neppure si profila all’orizzonte.

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Un altro modo, più circoscritto, è quello del conflitto aperto. Si verifica nella misura in cui c’è gente che ce l’ha coi giornalisti, e ci sono giornalisti che, a loro volta, disprezzano la gente. Un riflesso di questa situazione estrema è abbastanza facilmente riscontrabile in un certo uso dell’aggettivo “giornalistico” per indicare una trattazione superficiale, approssimativa e, reciprocamente, nell’idea che il “pubblico” sia una massa sulla cui intelligenza e il cui buon gusto non si può fare affidamento. Nel primo caso, la raffigurazione delle identità che viene proiettata è quella che fa dei fruitori del servizio giornalistico delle vittime predestinate degli inganni o delle imprecisioni dei professionisti dell’informazione dei dilettanti o dei falsari senza scrupoli; nel secondo, i ruoli si invertiranno: i primi saranno rappresentati come ottusi divoratori di notizie futili o morbose, i secondi come gli inservienti addetti, per loro disgrazia, a nutrire questo mostro insaziabile, sacrificando le loro legittime aspirazioni a una professionalità più dignitosa. Da entrambi i punti di vista, il volto dell’altro è delegittimato, se non addirittura demonizzato.

Il modo più subdolo in cui la violenza si attua, anche nel giornalismo, è il terzo, quello che abbiamo definito della “colonizzazione”. Una tacita sottomissione di uno degli interlocutori, dell’altro, oppure di entrambi, a uno schema che misconosce la propria identità ma che è più comodo accettare per evitare problemi più seri. Nel nostro caso, essa può essere vista come colonizzazione del pubblico da parte di un giornalismo che riesce a toccare le sue corde più segrete per piegarlo ai propri metodi e imporgli i propri punti di vista, oppure, viceversa, come colonizzazione dei giornalisti da parte di questo pubblico, capace di imporre i propri gusti e costringere i professionisti dell’informazione a raccontare ciò che esso vuole sentirsi dire, o infine come reciprocità perversa di questi due fenomeni perversi di manipolazione e di assimilazione.

Un esempio di questa ultima fattispecie si può trovare nella commercializzazione dell’informazione e nella sua riduzione

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones alla vendita di quella merce che è, in questa prospettiva, la notizia. Da un lato il pubblico impone i suoi gusti di consumatore, dall’altro i giornalisti li alimenta con uno stile che privilegia lo scoop rispetto all’informazione seria, l’insistenza morbosa su episodi di cronaca nera o rosa rispetto alla riflessione pacata sul loro significato, la polemica aggressiva rispetto alla critica documentata. Alla fine dall’una e dall’altra parte si è complici nell’abdicare alle proprie più autentiche esigenze e nel non essere se stessi. Anche qui, la logica è quella della cancellazione del volto dell’altro, la fine del salutare conflitto che costringerebbe entrambi a una costante revisione della propria ottica

Di fronte a tutte e tre queste modalità in cui la violenza può segnare con la propria orma la comunicazione giornalistica, facendola degenerare nel suo intrinseco dinamismo, la sola risposta adeguata consiste, in primo luogo, nel tornare a prendere sul serio il volto dell’altro. Il giornalista deve saper fare l’operazione inversa alla proiezione di sé e dei propri schemi sul pubblico a cui si rivolge: deve, cioè, cercare di rendersi conto del modo in cui esso recepirà i suoi messaggi e, ancora più a monte, il modo in cei esso si raffigura se stesso e il suo rapporto con chi lo informa. Chi parla a un bambino rispetta la sua identità nella misura in cui si sforza di capire come questi recepirà il suo messaggio, e, più a monte, come il bambino vede se stesso in rapporto all’adulto. Altrimenti rischia di misconoscerne, senza forse neppure rendersene conto, l’identità e di rivolgersi a un interlocutore che non esiste. Ma lo stesso vale per ogni sincero impegno comunicativo, a chiunque sia diretto. E ciò implica una capacità di ascolto che consenta al comunicatore, prima di parlare, di percepire il contesto culturale in cui il suo discorso si collocherà e le precomprensioni con cui verrà accolto.

Questo atteggiamento potrebbe risultare, tuttavia, abbastanza conservatore se non si accompagnasse a un impegno per valorizzare ciò che potenzialmente il volto dell’altro

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones contiene di inespresso. Di fronte a un pubblico spesso non sufficientemente dotato di senso critico, il giornalista non può limitarsi a rispettare l’esistente, ma deve saper cogliere e promuovere creativamente i germi di futuro che si nascondono in esso. Deve cioè sforzarsi di educare le persone a cui si rivolge, dove questo termine -dal latino e-ducere, “condurre fuori”, metafora dell’attività dell’ostetrico- non significa “plasmare” o “indottrinare”, ma aiutare qualcuno a nascere, a venire alla luce nella sua propria verità. In quest’epoca che non conosce più la figura del “maestro”, i giornalisti sono spesso i soli maestri rimasti e non possono eludere questa responsabilità. Da parte loro non si tratta di scegliere se accettare o meno questo ruolo, ma solo in che modo esercitarlo.

Rispetto alle culture, il duplice compito che abbiamo individuato come proprio del giornalista a questo primo livello (che, non dimentichiamolo, riguarda il conflitto nella comunicazione) si traduce nell’impegno di rispettare la ricchezza della tradizioni con cui entra in dialogo, senza pretendere di usare per tutte, come una chiave capace di aprire tutte le porte, lo stesso linguaggio. Oggi questo è diventato molto complesso, perché un articolo o una trasmissione televisiva possono avere risonanze a livello mondiale e suscitare reazioni impreviste in contesti culturali diversi da quello degli immediati destinatari. Ciò che si dice di Mohamed in Inghilterra o in Italia su un quotidiano o in una rubrica televisiva può ormai ferire la sensibilità di un Egiziano o di un Indiano.

Si tratta però anche di aiutare le culture a riconoscersi nella loro vera identità. Una tradizione non è qualcosa di statico e di immutabile. Spesso essa ha risorse che attendono solo di essere scoperte e valorizzate da quanti vivono in essa. In alcuni casi può accadere che un filone tradizionale si perda e resti sommerso a lungo, prima di riemergere. Ci fu un tempo -nel Medio evo- in cui i paesi dove l’Islam dominava erano di gran

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones lunga più aperti alla tolleranza e alla coesistenza fra religioni diverse di quanto non lo fossero quelli cristiani. Perché non ipotizzare che questa tradizione perduta possa oggi riemergere? E che nuovi aspetti di quelle antiche si facciano luce, nel mondo islamico come in quello occidentale?

Ma a questa scoperta o riscoperta può contribuire molto anche il modo in cui una tradizione è vista dagli altri. La maschera che essi le attribuiscono può spesso essere decisiva per l’interpretazione che essa fa di se stessa in un dato momento storico. Da qui il compito del giornalista, che può influire, se non direttamente sull’autocomprensione delle altre culture, sul modo in cui esse vengono considerate nel suo ambiente. Ciò può apparire evidente se si pensa al ruolo non positivo che spesso l’attività giornalistica di televisioni come “Al Jazira” o “Al Araba” ha svolto nella raffigurazione dell’identità islamica di fronte a quella cristiano-occidentale. Ma vale anche il reciproco. C’è un’immagine dell’Islam, veicolata da parte consistente del giornalismo statunitense ed europeo, che prescinde completamente dal dato storico che prima ricordavamo e che fa apparire questa religione inesorabilmente compromessa con il fondamentalismo e l’intolleranza. Un dialogo così impostato produce ciò che crede di registrare. I giornalisti faranno bene a tenerne conto. Dipende in parte anche da loro se i volti dei singoli e dei popoli non saranno sfigurati e potranno risplendere nella loro verità.

Il conflitto delle comunicazioni

Pluralismo e relativismo

Uno dei più evidenti paradossi della nostra società sta nel fatto che il moltiplicarsi dei messaggi, il loro diversificarsi, il loro intrecciarsi in un grande fiume comunicativo, sembra avere come effetto una minore capacità di relazione e, in ultima istanza, di comunicazione sia tra i singoli che tra i popoli. Anche chi ritenesse troppo pessimistica questa affermazione, non può

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones non convenire, almeno, che c’è una sproporzione tra i progressi tecnologici che hanno rivoluzionato e immensamente potenziato gli strumenti del comunicare e i risultati in termine di effettiva intesa tra gli uomini.

Una chiave di lettura di questo fenomeno può forse essere data dalla tesi, sostanzialmente condivisa in questo studio, secondo cui il conflitto è necessario, in una certa misura, ai rapporti umani e la comunicazione stessa ne ha bisogno per essere se stessa, così come reciprocamente, il conflitto mantiene la sua fisiologica dialettica costruttiva solo grazie alla comunicazione, secondo un circolo virtuoso che ha nella violenza il proprio nemico sempre in agguato. Se così fosse, la crisi comunicativa di cui abbiamo parlato prima potrebbe dipendere proprio dalla irruzione di logiche di violenza in quello che dovrebbe essere il grande concerto delle voci a confronto tra di loro.

Come abbiamo fatto parlando del primo livello in cui comunicazione e conflitto si incontrano, anche per questo secondo vogliamo rifarci alla tipologia della violenza tracciata all’inizio della nostra riflessione.

Dicevamo, allora, che il primo tipo di sostituzione della violenza al conflitto si manifesta come indifferenza che impedisce al conflitto stesso di emergere, ma, per il fatto stesso di eluderlo, mantiene irrisolti tutti i problemi e le tensioni che in esso dovrebbero trovare sbocco. Ebbene, una caratteristica dell’attuale inflazione comunicativa è proprio il fatto che in essa i messaggi si mescolano, si sovrappongono, si contraddicono, ma senza un reale confronto che possa far parlare di una costruttiva opposizione reciproca.

Il punto è che lo stesso pluralismo che ha reso possibile la moltiplicazione dei punti di vista, spinto oltre un certo limite, tende a diventare frammentazione e a rendere sempre più difficile l’individuazione di un linguaggio comune su cui costruire il dialogo. La tolleranza, che originariamente escludeva l’attacco alle persone, piuttosto che alle loro idee, rischia spesso di

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones diventare mera indifferenza verso il contenuto delle convinzioni individuali, come se esso fosse legittimato già dal fatto che qualcuno lo consideri valido. Non solo il singolo ormai tende a ritenere il proprio punto di vista indiscutibile per il solo fatto che è il suo, ma opera lo stesso procedimento nei confronti del punto di vista altrui. “Ognuno ha la sua verità”. Avanzare la pretesa di discutere le certezze soggettive in nome di una pretesa verità universale appare già di per sé una forma di intolleranza. Non c’è più conflitto, nel senso che c’è, ma non può mai venire alla luce, perché non ci si confronta più veramente.

Questo però, per altri versi, produce maggiore aggressività reciproca. La tolleranza, nata per difendere le persone, non le idee, si capovolge spesso in una rissosità sul piano personale, resa più aspra dal fatto che i contrasti non riguardano più il piano intellettuale e non sono più mediabili con la ragione. Non essendoci più un terreno comune su cui incontrarsi per discutere, il contrasto si riduce a un rapporto di forza senza misura, cioè di violenza. La comunicazione diventa una gara a chi grida più forte, a chi batte il pugno sul tavolo con maggiore energia, a chi riesce con più efficacia a sovrastare la voce dell’altro fino a tacitarlo. Il conflitto qui emerge chiaramente, ma viene risolto con l’annullamento o l’espulsione dell’altro. È il secondo tipo di violenza.

Infine, il modo più sottile in cui la violenza opera, oggi, nel rapporto tra le diverse comunicazioni, è di annullarne l’identità e di omologarle tutte in un grande flusso mediatico in cui tutte le opinioni e tutti i messaggi alla fine si equivalgono. Vere alternative non ne esistono più. Si parla tanto di trasgressione, di anticonformismo, ma impera il conformismo dell’anticonformismo.

È la stessa abbondanza dei messaggi e la velocità vertiginosa con cui si accavallano a rendere difficile -in molti casi praticamente impossibile- un serio discernimento critico che evidenzi la loro differenza di qualità e di valore. Si può

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones essere disinformati per una carenza o per un eccesso di informazione. La nostra società, a differenza di quelle del passato, vive il secondo problema. La massa incredibile di notizie di cui i singoli sono destinatari, e che allaga, letteralmente, gli spazi dell’attenzione e della memoria, impedisce di mettere a fuoco l’essenziale. I singoli dati diventano puntiformi, flashes troppo veloci e troppo numerosi per consentire una visione unitaria dei problemi. “Il mondo intero sta cominciando, in termini giornalistici, ad essere fatto di piccoli pezzettini di fatti, avvenimenti e così via, a spese della vera comprensione” (Morrison-Taylor, 49).

Per questo, malgrado l’enorme accrescimento delle fonti -ai giornali, dopo la radio, si è aggiunta non solo la Tv, ma anche Internet-, “lettori e telespettatori sono sempre più confusi e smarriti. Questo formidabile sistema mondiale dell’informazione non sembra in grado di fornire al pubblico quegli elementi indispensabili perché si formi un’opinione sulle vicende che attraversano il nostro mondo” (Demichelis-Ferrari-Masto-Scalettari, 23).

La radice ultima di tutte e tre queste forme di abolizione del conflitto è la perdita del contatto con la realtà. Oggi la comunicazione tende a mettere tra parentesi quella effettiva, sostituendola con una “virtuale” che ne potenzia indubbiamente la fruibilità, ma a prezzo di vanificarne la sostanza. Il concetto stesso di realtà virtuale implica questa rinunzia alla distinzione netta tra ciò che effettivamente esiste e ciò che invece è mera illusione. Il titolo di un’opera famosa di Calderon de la Barca -La vita è sogno- rischia di trasformarsi in una profezia. Ma, a questo punto, anche la dialettica tra le diverse comunicazioni diventa un futile gioco di artificio, senza che sia più possibile parlare di un loro maggiore o minore accostamento alla effettiva realtà dei fatti. Prevale, se mai, l’aspetto estetico, ludico: la notizia migliore è quella più sorprendente, o quella più toccante, o quella data nel modo più accattivante, non la più vera (che non esiste).

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Di questo slittamento della comunicazione, che di per sé era nata per costituire una condivisione di verità e di valori, verso lo spettacolo, possiamo cogliere un simbolo eloquente nel meccanismo tipico di una delle sue forme, quella televisiva. Qui occupa un posto centrale lo schermo, nella sua duplice accezione, di superficie su cui si delineano delle immagini e di filtro, riparo, difesa (come nell’espressione “farsi schermo con le mani”). Si tratta di un’ambiguità che potremmo considerare emblematica: nessun dubbio che la televisione costituisca un mezzo di informazione potentissimo, che consente non solo di venire a conoscenza, ma addirittura di assistere in tempo reale ad eventi altrimenti inaccessibili. Al tempo stesso, però, esso tende a trasformare i suoi fruitori in distaccati spettatori, che lo schermo protegge dal trauma di una realtà altrimenti insostenibile.

È il caso degli orrori della violenza bellica. È stato detto che “in realtà, la crudeltà della guerra è tale che se le ferite inflitte fossero mostrate in dettaglio sarebbe impossibile guardarle” (Morrison-Taylor, 54). Ma forse anche senza bisogno di dettagli, la scena di corpi straziati, di esseri umani che muoiono, di crudeltà senza nome, farebbe impazzire se dallo schermo, dove vengono per così dire neutralizzate, queste immagini per un istante solo si trasferissero nel nostro mondo fisico, imponendoci di prendere atto che queste cose stanno accadendo veramente.

In questo contesto, si può comprendere che, per degli spettatori, il conflitto delle comunicazioni sia solo una appassionante forma di sport intellettuale, in cui è destinato a vincere il più bravo, il più affascinante. Senza che ci si renda chiaramente conto che, a questo punto, in effetti non ci sono vincitori, perché tutti messaggi hanno perduto la loro rilevanza propria e sono stati inghiottiti dal grande brodo primordiale dell’indifferenza.

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Nonviolenza e verità Una delle certezze più salde e più diffuse nel nostro tempo

è che la verità genera violenza. Si sente spesso ripetere che, per poter dialogare, bisogna rinunziare a pensare che esistano delle affermazioni assolutamente valide e altre false. Un simile atteggiamento, infatti, segnerebbe, secondo il modo di pensare a cui ci riferiamo, l’impossibilità di un reale confronto tra punti di vista diversi.

La forza di questa posizione sta nel gran numero di situazioni storiche che essa può citare a proprio favore, dall’Inquisizione alle purghe staliniane giustificate con la lotta al revisionismo, dalle guerre di religione alle varie forme di conflitto ideologico. Resta da chiedersi, tuttavia, se il dogmatismo intollerante che in questi casi ha operato sia l’inevitabile conseguenza dell’aver ammesso l’esistenza di una verità, o non sia dipeso, piuttosto, dal modo in cui è stato concepito il proprio rapporto con quest’ultima. Perché è indubbio che ci sia stata, storicamente, e continui ad essere presente in molti la tentazione di identificare la verità con la propria opinione. Ma ciò significa che si tende ad assolutizzare non la prima, bensì la seconda. In altri termini, il dogmatismo, di qualunque natura sia, non nasce da un’eccesso di fiducia nella verità, ma, al contrario, dalla pretesa di poterla catturare e ridimensionare a misura del proprio limitato pensiero. E se oggi questo dogmatismo viene giustamente rigettato, ciò andrebbe fatto non solo in nome della libertà, ma nella prospettiva di un recupero del senso della verità.

E di questo recupero, proprio alla luce dell’analisi che abbiamo fatto prima, oggi sembra esserci bisogno più che mai. Perché, lo si voglia o no, la comunicazione è possibile solo se si crede nella verità. Senza un messaggio che si vuole mettere in comune con gli altri perché lo si ritiene valido, nessuno avrebbe motivo di comunicare alcunché. Analogamente, il conflitto delle comunicazioni ha un senso solo se si suppone l’esistenza di un punto di riferimento, di una misura condivisa,

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones rispetto a cui il dissenso si pone e può, almeno in linea di principio, essere risolto. Senza il trascendentale della verità, e dunque senza un orizzonte comune che metta in rapporto le diverse comunicazioni, fornisca una misura della loro rispettiva validità, e mantenga aperta la distanza tra quelle vere e quelle che non lo sono, manca ogni motivazione per un dibattito.

Ma queste tre condizioni della comunicazione sono le stesse che evitano i tre tipi di violenza che fin dall’inizio del nostro discorso teniamo presenti: quella dell’indifferenza che elude il conflitto, quella della prepotenza che lo vuole chiudere eliminando l’altro a prescindere dalla ragione e dal torto, quella dell’assimilazione tacita. Dove emerge chiaramente che, come la comunicazione, anche la nonviolenza ha bisogno della verità.

Questa affermazione, che smentisce radicalmente l’assunto da cui siamo partiti -secondo cui la verità sarebbe inscindibile dalla violenza- può apparire sorprendente solo a chi non conosce il pensiero del più importante e famoso esponente della dottrina della nonviolenza, Mohandas Karamchand Gandhi. Per lui c’è un rapporto strettissimo tra quella che egli chiama ahimsa (tradotto in italiano “nonviolenza”) e la verità. “Senza ahimsa non è possibile cercare e trovare la Verità. L’ahimsa e la Verità sono legate così strettamente che è praticamente impossibile distinguerle e separarle (...) Tuttavia ahimsa è il mezzo e la verità il fine” (Gandhi 2000, 50).

Non solo, dunque, non regge, secondo il Mahatma, la tesi che la verità evoca irresistibilmente la violenza ed è essa stessa una forma di violenza -come oggi si ama ripetere-, ma, a contrario, è proprio la mancanza di verità che porta a interpretare in modo violento i conflitti. Se la verità ha bisogno della nonviolenza per essere cercata adeguatamente, la nonviolenza, a sua volta, ha bisogno della verità: “Non a caso la pratica nonviolenta gandhiana ha il nome specifico di satyagraha, parola che, solitamente tradotta come “forza della verità”, significa letteralmente “fermezza nella verità” (...) La

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones verità è l’unico bene e l’unico orizzonte che ci si può prefiggere” (Cozzo, 43-44).

Si potrà obiettare, con lo slogan già menzionato sopra, che “ognuno ha la sua verità” e che quindi non è possibile finalizzare la comunicazione alla ricerca comune di un’unica verità. Ora, per Gandhi è chiaro -anche perché inevitabile- che “bisogna lasciarsi guidare dalla verità quale ognuno la vede” (Gandhi 1993, 102). Ma ciò non implica affatto alcun relativismo o scetticismo6. Dire, infatti, che per ognuno “verità è quello che crediamo vero in un dato momento” e che “se si venera questa verità relativa, si è sicuri di raggiungere col passar del tempo la Verità assoluta” (Gandhi 1993, 103), non significa altro che riconoscere la finitezza delle tappe con cui l’uomo procede nella sua ricerca, senza minimamente mettere in dubbio che esse partecipino in misura maggiore o minore della pienezza della meta -appunto la Verità- che motiva la ricerca stessa e senza la quale l’intero processo sarebbe privo di senso.

La Verità, infatti, per Gandhi -e non solo per lui7- è la realtà, e nei suoi confronti non può farsi valere soggettivismo che tenga. “La parola Satya (verità) deriva da Sat, che significa “essere”. Nella realtà nulla è o esiste tranne la verità. È per questo che Sat o Verità è forse il nome più giusto da dare a Dio. Infatti è più corretto dire che la Verità è Dio che non che Dio è la Verità” (Gandhi 1996, 32)8.

Certamente, ci sono molti modi di accostarsi alla realtà. Per questo “ciò che sembra vero ad una persona può sembrare falso ad un’altra. Ma questo non deve scoraggiare colui che 6 Ci discostiamo qui nettamente dall’interpretazione di Andrea Cozzo (cfr. Cozzo, 45-46), a cui pure siamo debitori di tante importanti notazioni sul conflitto e sulla posizione di Gandhi, interpretazione che ci sembra smentita, peraltro, dalle stesse espressioni gandhiane da lui citate. 7 Cfr. la formula di Tommaso d’Aquino: ens et verum convertuntur. 8 “Perfino gli atei che hanno preteso di non credere in Dio hanno creduto nella Verità. Il loro trucco è stato di dare a Dio un nome diverso, non un nome nuovo” (Gandhi 1993, 95).

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones ricerca la Verità. Se vi è un’aspirazione sincera si comprenderà che quelle che sembrano differenti verità in realtà sono come le innumerevoli foglie di uno stesso albero” (Gandhi 1996, 33).

Il richiamo gandhiano alla realtà, come tema centrale per la corretta gestione dei conflitti, vale a maggior ragione quando è in gioco quello tra le comunicazioni. In questo caso, infatti, la competizione non può essere separata dal problema del rispettivo grado di verità.

Così, esso consente di sottrarre la comunicazione al primo tipo di violenza che sopra segnalavamo. Siamo lontanissimi, infatti, da quel falso pluralismo che consiste nel ritenere equivalenti tutte le tesi, annullando in sostanza la differenza tra i diversi punti di vista e precipitando la cultura e la società in una indistinta nebulosa, in cui tutto si confonde, col pretesto di rispettare, così, la dignità delle persone. Nessuno può sostenere seriamente che Gandhi non credesse in tale dignità. Ma la nonviolenza riguarda, appunto le persone, non le loro affermazioni, che di per sé vanno rispettate solo nel senso che “nessuno ha il diritto di costringere gli altri ad agire secondo la propria visione della verità” (Gandhi 1993, 102), non in quello -del tutto diverso- che si debba sospendere il giudizio sulla validità o meno di quanto affermano.

Analogamente, per quanto riguarda la violenza dell’esplicita prevaricazione, la invincibile forza del satyagraha deriva, come si è visto, dal fatto che esso consiste in una “fermezza nella verità” che nessuna prepotenza potrà mai mettere fuori gioco. Questa verità, identificandosi con la realtà, non può infatti essere mai del tutto eliminata e riaffiorerà incoercibilmente per misurare il valore dei rispettivi messaggi, qualunque sia l’aggressività dei toni e degli atteggiamenti con una delle parti cerca di schiacciare l’interlocutore. Infine, l’esistenza di un punto di riferimento costituirà un ineludibile fattore di giudizio nei confronti dei compromessi e del facile concordiamo eclettico che sembra minacciare in modo specifico la nostra civiltà globalizzata.

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Ciò richiede, evidentemente, di fare i conti con il tema della realtà virtuale. Riservandoci di approfondire meglio questo problema più avanti (v. il capitolo “Che cosa significa ‘libertà d’informazione’?”), possiamo dire fin da ora che è fondamentale educare le persone alla percezione della realtà nella sua fisicità. L’immagine artificiale è sempre e soltanto un medium, non il punto d’arrivo della conoscenza. Bisogna potenziare tutte le esperienze che consentono di valicare questo iato e che possono contribuire a liberare da un mondo fittizio.

Potrà sembrare un’impresa disperata, ma essa è già stata tentata, e con relativo successo, con il passaggio dalla cultura orale a quella scritta. In una sua opera famosa, il Fedro, Platone rigettava i libri con ottimi argomenti, sostenendo che essi, a differenza dei discorsi “parlati”, rischiano di diventare un invalicabile diaframma tra la mente e la realtà, in particolare quella dell’anima dello stesso ricercatore e degli altri uomini che cercano insieme a lui, i quali, invece delle sue risposte vive, si troveranno davanti le morte pagine di un testo (cfr. Platone, Fedro, 275 a).

Ma ciò non ha impedito al grande filosofo greco di scrivere, a sua volta, dei libri (anche il Fedro lo è!). Se mai, lo ha spinto a cercare, nella forma, un antidoto al rischio denunziato: sono nati così i “dialoghi” platonici, che tentano di coniugare la vitalità della parola con la stabilità e la capacità di diffusione dello scritto.

Ora, dire che la civiltà moderna, saldamente ancorata alla scrittura, abbi saputo sempre mettere in atto le cautele richieste da Platone, evitando così di cadere in una forma di cultura libresca sterile e non dialogica, sarebbe una grossa menzogna; ma neppure si può dire che il libro abbia implicato la fine del rapporto con la realtà. Il nuovo è stato alla fine accolto e metabolizzato, cercando di ridurne l’impatto negativo. Si tratta oggi di compiere un’analoga operazione di “addomesticamento” dei nuovi strumenti mediatici, in modo da evitare che il ben più

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones potente filtro da essi rappresentato diventi un ostacolo insormontabile all’incontro con la realtà.

Il conflitto delle comunicazioni giornalistiche Se è vero, come dicevamo all’inizio, che il conflitto è

caratterizzato dal contrapporsi delle differenze, bisogna concludere che è essenziale alla comunicazione giornalistica una certa dose di conflittualità. Sono i totalitarismi a fornire della realtà un’immagine univoca. Perciò cercano di soffocare il conflitto delle comunicazioni, che per sua natura è destinato a fornire della realtà aspetti diversi e a volte contraddittori, rimettendo in discussione la versione “ufficiale” del regime e costringendo la gente a pensare con la propria testa per trovare una sintesi. Ciò che accade, allora, è che la comunicazione viene sostituita da una chiassosa propaganda che non comunica proprio nulla.

Bisogna aggiungere che non sempre le società “libere” riescono ad evitare forme di “totalitarismo mascherato”, nella misura in cui riescono a orientare i grandi canali dell’informazione in una direzione univoca. Sembra, allora, che le voci siano tante, ma in realtà l’ottica in cui si muovono è fondamentalmente la stessa e l’opinione pubblica, che pur si illude di poter fare delle scelte, viene, in definitiva, manipolata per quanto riguarda l’essenziale. Ancora una volta, dietro la grande loquacità che caratterizza le nostre società (notiziari a tutte le ore, programmi di intrattenimento di ogni tipo, servizi su problemi di ogni tipo, etc.), spesso c’è un grande silenzio. La chiacchiera sostituisce le parole, che dovrebbero avere un riferimento alla realtà.

Gli effetti di questa situazione sulla vita pubblica possono essere devastanti. Nei casi più gravi, ciò che viene meno è la credibilità di una classe politica e, in ultima istanza, l’autorità dello Stato. Perché, come scrive Gadamer, “l’autorità non ha immediatamente nulla da fare con l'obbedienza, ma con la conoscenza” (Gadamer, 328).

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E’ stato l’illuminismo a porre “un’assoluta alternativa tra autorità e ragione” (ivi, 325), dando luogo “a una deformazione del concetto di autorità”, identificato con “l’opposto puro e semplice della ragione e della libertà, la cieca sottomissione” (ivi, 327). Secondo il filosofo tedesco, invece, dobbiamo riscoprire il fatto che “l’autorità delle persone non ha il suo fondamento ultimo in un atto di sottomissione e di abdicazione della ragione, ma in un atto di riconoscimento e di conoscenza, cioè nell’atto in cui si riconosce che l'altro ci è superiore in giudizio e in intelligenza” (ivi, 328). Quindi “ciò che l'autorità dice non ha il carattere dell’arbitrio irrazionale, ma può essere in linea di principio compreso” (ivi, 328).

Ma la razionalità è il contrario della persuasione occulta che si esercita ogni volta che di un fatto viene presentata un versione indiscussa e indiscutibile. Senza il gioco dialettico delle interpretazioni il pensiero ristagna. Rientra tra i requisiti del bene comune, di cui lo Stato è in linea di principio il garante, che questa dialettica non sia liquidata attraverso una o l’altra delle forme tipiche della violenza.

Il modo più comune è quello di nascondere il conflitto tra le comunicazioni dando l’impressione che esse dicano tutte la stessa cosa, perché questa, semplicemente è la realtà. Ciò si collega alla tendenza, da parte delle fonti giornalistiche, ad evitare di far emergere il carattere interpretativo che sta alla base delle notizie fornite. Si nasconde, di solito, che una “notizia” è il ritaglio effettuato in una massa sconfinata e caotica di elementi e che questo ritaglio è frutto di una scelta operata dal giornalista -o, meglio, dalla testata e dal suo direttore- in base a una propria valutazione della gerarchia di priorità, diversa e alternativa rispetto ad altre possibili, che vengono tacitamente messe fuori causa.

È così che, delle duecento e più guerre che in questo momento storico si combattono nel mondo, al pubblico sono state trasmesse, con ossessiva insistenza, le notizie relative a due o tre soltanto -quella nella ex Jugoslavia, la seconda guerra

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones del Golfo, con i suoi strascichi devastanti, la cronica belligeranza tra Ebrei e Palestinesi-, lasciando cadere tutto ciò che si riferiva alle altre centonovantasette. Ed è così, anche, che la cronaca di un infanticidio ha occupato sui mass media immensamente più spazio, per mesi e mesi, che non la morte di migliaia di bambini iracheni a causa dell’embargo sui viveri e le medicine imposto all’Irak prima della caduta di Saddam, o lo sfruttamento di milioni di altri bambini del Terzo Mondo -in paesi dove il lavoro minorile non è tutelato- per garantire il profitto di multinazionali a capitale occidentale.

Accanto a questa prima fondamentale selezione, che decide della “esistenza” o meno di un fatto, ce n’è poi un’altra, che riguarda le modalità della lettura del fatto stesso. Anch’essa è frutto di una interpretazione, diversa e a volte addirittura contraddittoria rispetto ad altre possibili. Ma spesso, nel modo di porgere la notizia, questo viene nascosto, in modo da dare, alla fine, l’impressione che ciò che viene presentato sia un dato indiscutibile.

Si potrebbe obiettare che ogni lettura della realtà è una interpretazione e costringe a una selezione. Perché meravigliarsi, allora, che ciò avvenga nella comunicazione giornalistica?

Il punto è che questo carattere interpretativo -e dunque per sua natura discutibile- viene occultato, abitualmente, dai mezzi d’informazione. C’è un modo di dare la notizia che non dà al lettore, all’ascoltatore, al telespettatore, la percezione di rimandi e legami con altri eventi “fuori campo” -per usare un linguaggio cinematografico-, ma che pressano, per così dire, sullo spazio inquadrato; che non gli consente di sospettare altri possibili punti di vista sul medesimo argomento; che non gli lascia, al termine della lettura o della trasmissione, alcuna domanda, alcuna esigenza di riflettere ulteriormente, alcuna percezione delle contraddizioni che attraversano la realtà e che costituiscono, appunto, la sua intima conflittualità -il frammento di Eraclito che citavamo all’inizio!-; e ce n’è un altro che, senza

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones la pretesa di elencare ogni volta tutto ciò che avviene nel mondo e tutte le possibili prospettive, mantiene aperto il discorso sul “non detto”, senza il quale il “detto” rischia di irrigidirsi e sclerotizzarsi.

Solo nel secondo caso si coinvolgono i destinatari della notizia nella sua costruzione ultima, che deve avvenire in definitiva dentro di loro, ad opera della loro intelligenza e della loro personale partecipazione emotiva; nel primo, invece, si offre una pillola già confezionata, che deve soltanto essere inghiottita così com’è. Purtroppo oggi spesso è quest’ultimo modo di attuare l’informazione a prevalere.

Anche quando il conflitto viene in piena luce, si tende a non viverlo nella sua logica propria di confronto tra punti di vista diversi, ma come scontro spettacolare destinato più a divertire che ad informare veramente le persone che seguono il dibattito. Specialmente in televisione è frequente assistere a sceneggiate ottenute mettendo di fronte personaggi di opinioni diverse, per farli litigare, senza alcuna preoccupazione di far comprendere alla gente la vera natura delle diverse posizioni. È appena il caso di dire che in questi duelli verbali la comunicazione vincente non sarà quella più vicina alla verità, ma dipenderà, per lo più, da fattori assolutamente casuali (la maggiore o minore abilità dialettica dei partecipanti, la loro simpatia fisica, perfino il loro modo di vestire).

Infine, si assiste nella nostra società anche a una “colonizzazione” delle differenze. È molto difficile trovare voci veramente indipendenti e alternative in un panorama editoriale e radiotelevisivo fortemente condizionato da gruppi di potere economico, dall’esigenza di mantenere alte le vendite o l’audience per assicurarsi fette consistenti di pubblicità, dalle pressioni dei politici. Alla fine, su molte questioni, finisce per prevalere una linea assai più omogenea di quanto non ci si aspetterebbe. Soprattutto, finiscono per esserci dei silenzi che nessuna fonte giornalistica osa rompere e che pesano come macigni sulla vita pubblica.

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La comunicazione dei conflitti

Dalla comunità alla società

Secondo la famosa teoria di Tönnies, le società del passato -quelle che, nella terminologia del sociologo tedesco, possono essere definite “comunità” (Gemeinschaften)- erano caratterizzate da forti legami di sangue, (famiglia e parentela), di luogo (vicinato) e di spirito (amicizia): legami affettivi, insomma, anteriori alle scelte individuali, che facevano di esse delle realtà organiche, fortemente unitarie, e garantivano la stabilità dell’ordine. Al loro interno i conflitti erano, certamente, presenti, ma venivano considerati come violazioni contingenti di immutabili leggi del kósmos. Nell’attuale fase storica, invece, dove gli uomini vivono riuniti in “società” (Gesellschaften), gli individui sono fondamentalmente separati gli uni dagli altri e la loro convivenza è retta da regole convenzionali e artificiali. Qui l’ordine, la normalità sono la risultante accidentale e temporanea dei conflitti che nascono tra di loro e che vengono di volta in volta risolti attraverso accordi razionali fondati su esigenze utilitaristiche.

Perciò, mentre nelle comunità arcaiche si stentava a percepire la peculiarità dei fini individuali, sovrastati nella stessa coscienza dei singoli dal primato del tutto, nelle società moderne, sul modello della logica mercantile, la competizione impedisce di concepire un vero bene comune a tutti e ognuno persegue i propri interessi.

L’analisi di Tönnies contiene sicuramente alcuni elementi di verità, che vanno a incontrarsi con quanto ha scritto Godbout a proposito del passaggio dal regime del dono a quello del mercato. Nella prospettiva di questo autore, il dono non è semplicemente un atto privato, ma un sistema sociale, fondato sulla reciprocità, in cui le cose sono ancora al servizio dei rapporti tra le persone e servono a renderli vincolanti. L’avvento del mercato ha distrutto questo sistema arcaico e, privilegiando lo scambio mercantile, ha messo in primo piano l’equivalenza del valore delle merci rispetto alle relazioni personali che il dono

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones veicolava. Questo ha sicuramente contribuito al grande movimento di affermazione della libertà individuale: “Non dover niente a nessuno: poter abbandonare un legame sociale e liberarsi di un obbligo come si cambia di commerciante quando non si è soddisfatto. Questa capacità di exit, analizzata da Hirschman, è la definizione della libertà moderna rappresentata dal mercato e prolungata dallo Stato-provvidenza” (Godbout, 84). Ma ha comportato “la disintegrazione della vita comunitaria” (ivi, 22).

Di fronte a questa crisi delle forme comunitarie del passato si possono assumere atteggiamenti diversi. C’è chi guarda ad essa con una vena di pessimismo, non nascondendo il proprio rimpianto per un mondo che comunque è ormai irreversibilmente lontano, e chi, come tanti autori post-moderni, vede in questa indefinita frammentazione e in questo venir meno degli antichi vincoli comunitari l’emergere di nuove opportunità per la libertà individuale. Tutti sono d’accordo, comunque, che il tentativo di trasferire nel presente le forme arcaiche di società sarebbero destinate a produrre esiti mostruosi: “I tentativi d’istituire di nuovo le società moderne nell’ordine di una socialità primaria fantasticata si chiamano totalitarismo” (ivi, 27).

Il punto cruciale, però, è se davvero non possa esistere altro tipo di comunità che quello etnico, a cui in sostanza si riconduce il modello di Tönnies. La tradizione del pensiero politico ne ha elaborato un altro, fondato su legami che, senza essere affettivi e viscerali, non si riducono però neppure alla mera logica artificiale del contratto. L’esempio più prossimo a noi, storicamente, è l’esperienza dello Stato nazionale che, nell’epoca moderna, non si può certo configurare come comunità arcaica, ma non è neppure riducibile alla società, nel senso che il sociologo tedesco dà a questo termine.

Certo, anche questo tipo di comunità politica oggi sembra al tramonto. Giocano in questo senso molteplici fattori, primo fra tutti quel processo di globalizzazione che spoglia gli Stati della

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones loro funzione dominante e relativizza il concetto di sovranità. Cittadini del mondo, gli uomini non lo sono più di nessuna nazione. Il concetto di “patria” sembra ormai destinato a riprendere vita solo in occasione dei campionati internazionali di calcio. Per il resto, ciò che conta sono ormai gli individui, con il loro spirito di iniziativa, con i loro rapporti, con la loro capacità di comunicare senza barriere da un punto all’altro del pianeta.

A monte di questa disgregazione sul piano socio-politico ve n’è una più profonda, che riguarda il modo di concepire il mondo e la vita. Già Max Weber osservava che, col declino dell’unità culturale realizzatasi sotto il segno dell’etica cristiana, “gli antichi dèi, spogliati del loro fascino personale e perciò ridotti a potenze impersonali, si levano dalle loro tombe, aspirano a dominare sulla nostra vita e riprendono quindi la loro contesa” (Weber, 33). Secondo lui, la modernità secolarizzata è inevitabilmente esposta a vivere conflitti tragici e radicali di valori, che per definizione non possono essere composti, perché derivano dall’“impossibilità di conciliare e risolvere l’antagonismo tra le posizioni ultime in generale rispetto alla vita” (ivi, 37).

In realtà, la nostra epoca vive una frammentazione ancora più radicale di quella che Weber denunciava come inevitabile. Perché il “politeismo” di cui egli parla implica che si sia ancora capaci di scegliere un valore e di affidare ad esso il senso della propria esistenza. Oggi, questo è diventato sempre meno plausibile. Non solo l’antica unità etico-religiosa è venuta meno, ma anche le “grandi narrazioni” laiche, come dimostra chiaramente la crisi delle ideologie. Prevale, ormai un meticciato, un melting pot che confonde i confini rigidi posti nel passato e dissolve i sistemi precostituiti, dando luogo a inedite e sorprendenti metamorfosi. Cadono i muri. Ma questo non contribuisce a rendere più facile il dialogo. In un clima culturale in cui ogni individuo e ogni gruppo si ritagliano a propria immagine e somiglianza la loro rappresentazione della realtà e i loro criteri di scelta, la conflittualità viene trasferita dal piano

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones delle idee e dei valori universali, su cui è possibile discutere razionalmente, a quello delle identità, dove ogni attore del confronto sente in gioco il proprio diritto di essere se stesso e nessuna rinunzia o conversione di punto di vista è ipotizzabile, se non in vista di vantaggi utilitaristici in vista della sopravvivenza.

Il mondo che sta nascendo rischia veramente di somigliare, a questo punto, alla “società” di cui parla Tönnies. Ma veramente -riproponiamo la domanda- non esiste altra via, per creare una comunità, che quella arcaica del sangue o, in alternativa, quella moderna dello Stato sovrano, col suo supporto etico-religioso oppure ideologico?

Quale comunicazione?

Può considerarsi un tentativo di rispondere a questi problemi la posizione di Habermas il quale, partendo dalla constatazione che “l’evoluzione degli stati moderni è caratterizzata dal fatto di passare dai fondamenti sacri della legittimazione al fondamento di una volontà comune formata in modo comunicativo e chiarita in modo discorsivo nella sfera pubblica e politica”, indica come prospettiva, per una comunità che non si regga più su vincoli di tipo arcaico, come quello costituito dal primato del sacro, una unità nuova, realizzata mediante la comunicazione: “A mano a mano che si dissolve il consenso religioso di fondo e il potere statuale perde la sua copertura sacra, l’unità del collettivo si può mantenere come unità di una comunità di comunicazione, vale a dire attraverso un consenso raggiunto in modo comunicativo nella sfera pubblica politica” (Habermas, II, 654-655).

Su questa stessa linea, anche se da punti di vista assai diversi, altri hanno evidenziato che, mentre “il principio che definisce la sfera mercantile è la possibilità e la facilità di uscire dal rapporto sociale (exit, defezione) di cui un agente non è

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones soddisfatto, la sfera politica è retta piuttosto dalla discussione e dal dibattito (voice)” (Godbout, 33).

Ma bisogna forse far un passo ulteriore e precisare di che tipo di comunicazione si debba trattare, per dare un fondamento alla vita pubblica. Perché una gestione corretta dei conflitti della società in chiave comunicativa non sembra possibile se ci si limita a un punto di vista puramente procedurale e formale. Una comunicazione meramente funzionale non ha alcuna possibilità di costituire quel tessuto comunitario senza il quale non è pensabile quella nuova forma di comunità, di cui si avverte l’urgente necessità. Vale come monito, a questo proposito, l’osservazione di chi ricorda che di per sé la comunicazione “è un valore vuoto (...) poiché non possiede contenuto” (Breton, 86).

Già Aristotele, quando collega strettamente la dimensione comunitaria dell’uomo alla constatazione che questi è “un animale che ha logos”, precisa che ciò dipende dal fatto che “la parola è fatta per esprimere (...) il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori: il possesso comune di questi [koinonia] costituisce la famiglia e lo stato” (Politica I, 2, 1253 a).

La portata del logos non è dunque soltanto funzionale, ma implica una koinonia, una comunione. Si tratta, insomma, di un legame forte e profondo, che coinvolge i singoli ben al di là della sfera superficiale delle esigenze utilitaristiche. E tuttavia questa relazione non implica in alcun modo uniformità. In questo senso Aristotele osserva che una comunità politica “non consiste solo d’una massa di uomini, bensì di uomini specificamente diversi, perché non si costituisce uno stato di elementi uguali” (ivi, II, 2, 1261 a).

È proprio l’esigenza di realizzare una unità in questa diversità, senza mortificarla e appiattirla -“come se si volesse ridurre il coro all’unisono o il ritmo a un unico piede” (ivi, II, 5, 1263 b)-, l’esigenza, in altri termini, di lasciare aperto lo spazio

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones del conflitto, in modo che esso diventi fattore unificante piuttosto che disgregante, a giustificare il ricorso alla comunicazione come logos, ragione e parola al tempo stesso, che mette in rapporto i membri della comunità senza fonderli, anzi valorizzandone le rispettive identità.

Siamo al di là, dunque, sia della “comunità” che della “società”, nel senso inteso da Tönnies, verso una prospettiva che valorizza i singoli nella loro relazionalità comunicativa.

L’essenziale è tener presente che già per Aristotele, questa relazionalità non è una forma vuota. Senza dei valori condivisi -la distinzione tra “il giusto e l’ingiusto”- non c’è comunità. Del resto, un minimo di comunicazione in questo senso è indispensabile anche per i conflitti più radicali. Una pura incommensurabilità escluderebbe anche la lotta reciproca. Il politeismo dei Greci implicava l’esistenza di un unico Olimpo. Senza una base comune, non ci sono neppure le differenze e tutto cade nell’omologazione di un pulviscolo di atomi irrelati e indifferenti l’uno all’altro, che, in mancanza di ogni possibilità di confronto, non possono più neppure essere qualificati come “diversi”. Spinta alle sue estreme conseguenze, la frammentazione delle differenze porta alla indifferenziazione del nulla, come ben sapevano i Greci, che dell’unità facevano l’equivalente dell’essere e la ritenevano presupposta a qualunque molteplicità.

Peraltro, il conflitto anche più estremo, affrontato nel modo giusto, non esclude affatto una comunicazione, carica di valore, anteriore a quella puramente verbale, che è costituita da un atteggiamento di rispetto e di immedesimazione nei riguardi del punto di vista opposto al nostro. Ancora una volta è Gandhi a indicare questo stile, collegato al satyagraha, per cui soltanto “se riusciremo a immedesimarci nei giudizi che delle varie cose danno i nostri oppositori, saremo in grado di rendere a questi piena giustizia” (Gandhi 1996, 43).

Questa forma radicale di comunicazione si può anche chiamare, secondo Gandhi, “amore”. Ove con questo termine non si deve intendere nulla di emotivo e di sdolcinato, che

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones possa portare a un arrendevole abbraccio con l’errore. Infatti, “questa legge dell’amore non è altro che la legge della verità. Senza verità, non c’è amore; senza verità, può esserci affetto, o infatuazione (...) Pertanto, il satyagraha è stato descritto come una moneta; su un lato c’è scritto amore, e sull’altro c’è scritto verità” (Gandhi 2002, 43).

Ne scaturirà un linguaggio diverso da quello violento che spesso contraddistingue i rapporti sociali e politici, sia livello nazionale che internazionale. La comunicazione può avere, rispetto ad essi, la funzione di rileggerli e ricondurli a una logica di corretto confronto dialettico tra interessi, attitudini, esigenze differenti, che non per questo devono degenerare in indifferenza reciproca, o in tentativi di eliminazione dell’altro, o in colonizzazione del più debole da parte del più forte.

Tutto ciò non si improvvisa. Solo un processo di ascesi personale può mettere i singoli e, attraverso di essi, i gruppi sociali a vivere i loro conflitti in uno stile comunicativo che eviti la violenza. Ancora una volta, attingiamo al pensiero di Gandhi un’affermazione che è in perfetta sintonia con il grande patrimonio della tradizione cristiana: “L’identificazione con ogni essere vivente è impossibile senza auto-purificazione (...) auto-purificazione deve significare purificazione in tutti i campi della vita (...) Si deve divenire assolutamente liberi da passioni nei pensieri, nelle parole e nelle azioni” (Gandhi 1996, 31). È infatti “la forza dell’anima” (Gandhi 1993, 124) a esser decisiva nel conflitto.

Si è parlato spesso, nel nostro Paese, di “questione morale”. Ma quello che difetta, da noi (e non solo da noi) è proprio un’autentica esperienza etica che porti i protagonisti della vita pubblica a rimettersi in questione. Il satyagraha esige da chi vuole vivere il conflitto nel modo giusto atteggiamenti radicali, come “la difesa della verità attuata non infliggendo sofferenza all’avversario ma a se stessi” (Gandhi 1996, 15). Rientra in questo stile “il digiuno rivolto alla coscienza di un avversario” (Cozzo, 101), che esige una profonda preparazione

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones spirituale e ben diverso, secondo Gandhi, dallo “sciopero della fame”, che invece e fatto per attirare l’attenzione del pubblico su un determinato problema9.

Ma non basta l’atteggiamento di fondo che predisponga al confronto. È necessario il confronto, in vista di un’intesa che non vuol dire necessariamente concordia piena, ma anche semplicemente effettiva capacità di ascolto, destinata a produrre comprensione reciproca: “Ascoltare qualcuno, comprendere e accettare le ragioni dell’altro, è cosa diversa dall’essere d’accordo con questi, dal pensare o sentire nello stesso modo” (Patfoort, 63). Gli scenari del mondo attuale, dominati dalla violenza, fanno comprendere, per contrasto, cosa significherebbe, all’interno di una singola società o a livello planetario, l’introduzione di questo stile comunicativo.

Le verità del giornalismo

Il giornalismo ha indubbiamente a che fare con i conflitti. Ciò si realizza, però, in modi molto diversi. L’esperienza dice che a volte esso può contribuire a farli degenerare in violenza. Innanzi tutto, con il silenzio. Un’informazione che tace sulle situazioni drammatiche di ingiustizia che spesso -all’interno di un singolo Paese o nel rapporto tra gli Stati- vedono i più poveri e i più deboli sfruttati e umiliati sistematicamente, è oggettivamente al servizio della violenza. Come lo è un’informazione che, pur toccando nei suoi resoconti, le situazioni di cui sopra, lo faccia in modo da farle apparire normali, nascondendo il conflitto che sta dietro di esse, o perfino sforzandosi espressamente di negare che esso esista.

Riconosciamo qui due forme del primo tipo di violenza, quello che impedisce al conflitto di emergere. Aggiungiamo l’ultima, quella che opera il mascheramento dei conflitti 9 Nei confronti di tali forme improprie di digiuno, il Mahatma appare anzi piuttosto critico e aggiunge: “Se si ripetono troppo spesso, questi scioperi della fame sono destinati a perdere anche la limitata efficacia che possono avere e cadere nel ridicolo” (Gandhi 1996, 189).

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones attraverso l’individuazione di un capro espiatorio. I mass media seguono, consapevolmente o inconsapevolmente, questa via perversa quando creano dei “mostri” da “sbattere in prima pagina”, facendo passare in secondo piano le fin troppo reali tensioni che lacerano la comunità e compattando quest’ultima in una unanimità aggressiva nei confronti del colpevole10.

10 Non parliamo di ipotesi remote. Un esempio di questo stile giornalistico si può trarre dalla cronaca italiana dell’estate del 2005. All’indomani degli attentati di Londra, un ministro della Repubblica italiana in rappresentanza della Lega, Roberto Castelli, scrive indignato sul giornale “La Padania”: “Su TelePadania, e solo lì, questa settimana passano le immagini di decine di extracomunitari che in una piazza di una città italiana brindano e ballano per festeggiare l’attentato di Londra (...) Per gli altri media, tutti gli altri, la notizia non esiste neppure”. E in effetti “TelePadania manda in onda indignati servizi che (...) mostrano le immagini di uomini dalla faccia araba che danzano isterici davanti alle telecamere. “Immagini da vomitare! Vomitare!” tuona col Corriere Roberto Calderoli”, un altro ministro della Lega. E in effetti, la cosa risulta veramente scandalosa: sia sul versante degli extracomunitari fanatici, sia su quello dei mass media “distratti”, o peggio complici di un tale abominio. Si fanno immediatamente indagini approfondite. La “città” in cui l’episodio sarebbe avvenuto risulta essere il paese di Cento, tra Ferrara e Bologna. Si interroga il sindaco, che peraltro è una signora vicina alla destra, la quale cade dalle nuvole. Si cercano testimoni, ma non se ne trova neppure uno. O, meglio, uno sì, quello che ha parlato con i giornalisti di TelePadania. Un anziano artigiano di Cento, notoriamente squilibrato, nemico giurato degli islamici, fanatico del body-building e che dice di essere amico di Schwarzenegger, il quale cammina tutto il giorno con basco e manganello. Si cerca di sapere da lui: “Acqua passata”, risponde rude il sedicente amico di Schwarzenegger. Acqua passata? (...) “E’ andata come dico io, e basta” (...) Ma almeno i cameramen di TelePadania! Almeno loro che riprendevano la scena potrebbero parlare! (...) Max Ferrari, il direttore di “TelePadania”, sbanda un po’”. Neanche i loro giornalisti erano presenti. E le immagini trasmesse, allora? “Ci siamo arrangiati con immagini di repertorio, girata da un’altra parte dopo l’11 settembre” (L’articolo di cui abbiamo riportato dei passi è di Gian Antonio Stella ed è stato pubblicato in prima pagina sul “Corriere della sera” del 18 luglio 2005. Non ci risulta

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Una variante molto conosciuta di questa strategia comunicativa è quella adottata dai totalitarismi -ma non solo!- per distogliere l’attenzione dei cittadini e smontare le velleità di opposizione. Essa consiste nel “creare” un “nemico” che, dall’esterno, costituisca una minaccia per la sicurezza di tutti e la cui sola presenza renda necessario metter a tacere tutti i dissensi interni. Nel suo romanzo 1984 Orwell ha efficacemente rappresentato questo tipo di situazione riferendola a uno Stato apertamente dittatoriale. Più recentemente, in chiave satirica, il regista americano Michael Moore, nel suo film Canadian Bacon 11 , ha ambientato la stesso genere di operazione comunicativa nel contesto dell’odierno clima politico degli Stati Uniti.

Per quanto riguarda il secondo tipo di violenza, il giornalismo può favorirla -anche qui bisogna dire “consapevolmente o inconsapevolmente”- con l’esasperazione dei toni del conflitto, fino a far apparire inevitabile l’eliminazione dell'altro. L’informazione mira, allora, a consolidare l’idea che i torti siano tutti dall’altra parte, tacendo o minimizzando quelli della propria parte. Ma soprattutto, opera in modo da presentare il conflitto come insopportabile e da convincere la gente che lo si debba risolvr con l’eliminazione tempestiva dell’“altro”.

È un dato di fatto che, alla vigilia di molte guerre buona parte della stampa -e ultimamente anche dei mezzi radio-televisivi- hanno attivamente contribuito a creare nell’opinione pubblica l’impressione che “non si potesse più continuare così” e che il solo modo di garantire la sicurezza e il benessere del

che questa versione dei fatti sia stata oggetto di smentita da parte di qualcuno). 11 Nel film si immagina che il Presidente degli USA e il suo staff decidano, per evitare una prevedibile sconfitta nelle imminenti elezioni, di scatenare una guerra col Canada, mobilitando i mezzi di comunicazione per “creare” la notizia che il pacifico vicino è in realtà un pericoloso aggressore .

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones proprio Paese fosse l’abbattimento di un governo12, o addirittura l’annientamento di un popolo percepito come nemico.

Un altro modo, più implicito e sottile, caratteristico dei mezzi giornalistici di far degenerare il conflitto in violenza è la riduzione dell’antagonista a un essere non umano. L’“altro” viene nominato sempre in un contesto in cui è identificato con un animale o un oggetto13, mettendolo così fuori gioco e rendendo impossibile un atteggiamento di effettivo ascolto, meno che meno quella identificazione di cui parlava Gandhi. In questo modo, “quelli che dovevano costituire mezzi di comunicazione sono stati ridotti, terrificantemente, a mezzi di scomunica dell’Altro” (Cozzo, 215). Con la conseguenza che, di fatto, “le tecnologie e i canali di comunicazione sempre in espansione sono sfociate in minore, non maggiore comunicazione e comprensione tra popoli e culture; hanno avuto come risultato una perdita di comunicazione” (Ramachandaran, 91).

Si potrebbe obiettare che il ruolo del giornalismo nel fomentare la violenza bellica non va esagerata, visto che questi interventi giornalistici hanno comunque un’influenza assai 12 Qualcosa del genere è avvenuto, abbastanza recentemente, nel mondo occidentale, ad opera di tutti quei mezzi di informazione che hanno veicolato e fatto propria la tesi che l’Occidente non potesse considerasi sicuro finché fosse esistito in Irak il regime di Saddam Hussein, a cui si attribuiva il possesso di micidiali armi di distruzione di massa che poi , in realtà, non sono mai state trovate. Oggi un problema analogo comincia a porsi a proposito dello sviluppo, in Iran, delle tecnologie di produzione di energia nucleare. 13 Per quanto riguarda l’analogia con gli animali, il Cardinale Renato Martino, delegato della Santa Sede all’ONU, ha notato con rammarico che, dopo la sua cattura Saddam , daimezzi di comunicazione occidentali era “trattato come una vacca cui si controllano i denti”. Del paragone alle cose è un evidente esempio la reiterata identificazione, da parte del governo americano e dei mezzi di comunicazione, dei membri del governo e dell’amministrazione irakeni alle unità di un mazzo di carte. In quest a prospettiva non può sorprendere che i prigionieri di guerra siano stati trattati dalle forze americane, ad Abu Graib e, secondo Amnesty International, anche a Guantanamo, come animali o cose.

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones limitato sulle effettive mosse degli Stati in campo internazionale. Ma questo, che poteva valere in passato, è sempre meno vero oggi, in un contesto in cui le fonti giornalistiche operano attraverso mezzi tecnici di inaudita rapidità. “Il fatto di riportare le notizie in tempo reale aggiunge un’altra minaccia: significa che il pubblico viene spesso a conoscenza di un evento nello stesso momento dei politici, i quali di conseguenza sono costretti a rispondere in un modo che contrasta con la tradizione diplomatica di lavorare metodicamente, sistematicamente e senza fretta (...) Qualcosa dev’esser fatto immediatamente, non importa cosa” (Morrison-Taylor, 60).

Questo aumenta enormemente l’importanza e la responsabilità che il lavoro del giornalista ha sempre avuto in ambito pubblico. “Ciò a cui qui assistiamo è l’ingresso dei mass media, in un modo mai visto prima, nella sfera della diplomazia pubblica” (Morrison-Taylor, 66).

Per quanto riguarda il terzo tipo di violenza, il ruolo dei mezzi di comunicazione è spesso di proporre e imporre modelli univoci, che finiscono per eliminare i conflitti col consenso di tutti. E ciò che accade quando il giornalismo diventa portatore di mode culturali che alla fine smussano le identità e le piegano all’opinione dominante della massa. Nessuno, qui, ha il diritto di ribellarsi, perché cedere è più comodo per tutti. ma qualcosa di prezioso viene perduto.

Ma proviamo ora a considerare, in positivo, il compito della comunicazione giornalistica in rapporto a questi tre volti della violenza.

Per quanto riguarda il primo, il giornalismo può contribuire a sconfiggere questa violenza, che abbiamo chiamato “invisibile”, portando alla luce i conflitti esistenti in potenza ed evidenziando, con ciò stesso, la violenza che li oscura. Ciò può accadere sotto tutti e tre i profili in cui questa violenza si manifesta abitualmente: quello della totale indifferenza, che esclude perfino la relazione, quello della sottomissione forzata

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones di una parte all’altra, quello che si realizza attraverso l’individuazione di un capro espiatorio.

Il giornalismo, sotto il primo profilo, può far emergere la responsabilità che collega i membri della comunità civile e, più ampiamente, di quella mondiale, smascherando la fallacia della logica di Caino -“Sono forse il guardiano di mio fratello?” (Gn 4, 9)- che consiste proprio nella pretesa di essere isole e di non dover rispondere per quanto accade agli degli altri. Per quanto riguarda il secondo, può evidenziare tutte le sopraffazioni tacite che stanno alla base di molti rapporti sociali a livello sia nazionale che internazionale (si pensi alla situazione di svantaggio dei paesi in via di sviluppo, anche in campi delicatissimi come quella dei brevetti dei farmaci salvavita). Per quanto riguarda il terzo, può smascherare la logica che sta sotto la creazione dei “mostri” o la enfatizzazione del “nemico alle porte”.

In questo caso il compito del giornalismo è, insomma, di far venir fuori il conflitto, contro il detto latino quieta non movere. Da qui il modello di un giornalismo “scomodo”, che crea tensioni, problemi, inquietudine, là dove si viveva tranquilli. Il tafano socratico può essere, a questo proposito, una buona immagine del giornalista che fa bene il suo lavoro.

Si diceva prima che la comunicazione ha bisogno della verità, pena la sua vanificazione. Fermo restando quanto si è detto prima a proposito della verità come autenticità dei volti (cfr. il capitolo “Il conflitto nella comunicazione”) e come realtà (cfr. il capitolo “Il conflitto delle comunicazioni”), è forse il caso di specificare qui, attingendo all’antica tradizione della nostra civiltà, un ulteriore significato del termine, quello espresso nell’etimologia del termine greco aletheia, che deriva dal verbo lanthanein, “nascondere”, preceduto dall’alfa privativo, e che allude perciò a un “rivelare”, nel senso del “togliere il velo” che nasconde qualcosa.

È questo il senso più arcaico della verità nel mondo ellenico: “Si tratta di una “Verità” fondamentalmente diversa

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones dalla nostra concezione tradizionale. Aletheia non è l’accordo della proposizione e del suo oggetto, tanto meno l’accordo di un giudizio con gli altri giudizi; non si contrappone alla “menzogna”; non c’è il “vero” di fronte al “falso”. L’unica opposizione significativa è quella di Aletheia e di Lethe” (Detienne, 15-16). Dove Lethe è l’oblio, l’oscurità della dimenticanza. Per questo i primi “maestri di verità” sono stati non i filosofi e gli scienziati, ma i poeti, che con i loro canti mantenevano vive nella memoria collettiva le gesta degli eroi.

Un giornalismo che si impegna portare alla luce i conflitti nascosti può essere oggi il coraggioso continuatore della tradizione dell’aletheia. Ciò va esteso anche al tema specifico della memoria: troppo spesso il pubblico dimentica, troppo spesso i gesti, le scelte, le situazioni che pure in un dato momento hanno stimolato la parossistica attenzione generale, cadono nel dimenticatoio, favorendo il ritorno alla ribalta di squallidi personaggi che, in questo clima di smemoratezza, non faticano a riciclarsi, e vanificando i meriti di coloro che pure avevano operato per il bene comune.

Per quanto riguarda il secondo tipo di violenza, il giornalismo dovrebbe denunziare tutti i casi di sopraffazione esplicita e conclamata, che oggi si moltiplicano in una società spesso dominata -nelle singole nazioni e a livello mondiale- dalla legge del più forte, dando voce ai più deboli e ai più poveri. Questo significa che il giornalista non è neutrale. Oggettivo sì, ma l’oggettività è il contrario della neutralità, perché indica l’impegno a scoprire la verità e a sostenerla coraggiosamente, malgrado tutte le opposizioni. In questo senso, il giornalista deve schierarsi.

La verità di cui egli dev’essere l’instancabile propugnatore è da intendersi, sotto questo profilo, nel senso dell’ebraico ’emet: “Il verbo ebraico ’aman (cf. l’amen liturgico:2 Cor 1, 20), da cui è formato ’emet (verità), significa fondamentalmente: essere solido, sicuro, degno di fiducia; la verità è dunque la qualità di ciò che è stabile, provato, ciò cui si può appoggiare” (De la Potterie, 1655).

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Questo richiama quanto dicevamo, riferendoci all’oggettività. Ma coinvolge soprattutto il rapporto personale tra il giornalista e le persone che sono vittima della violenza. Nella Bibbia “la ’emet di Dio è legata al suo intervento nella storia in favore del suo popolo”. Così intesa, “la parola si dovrà sovente tradurre con ″fedeltà″” (ivi, 1655). Vi è una dimensione della professione del giornalista per cui egli, che lo creda o no, è coinvolto in questa fedeltà di Dio verso gli uomini, soprattutto verso i più deboli, che non hanno nessun altro su cui contare per far valere il proprio diritto.

Per il terzo tipo di violenza, la più nascosta di tutte, quella che passa attraverso una mediazione apparentemente consensuale, ma frutto in realtà di una colonizzazione, il compito del giornalista è di far valere ciò che di inviolabile e inalienabile vi è nella dignità delle persone e delle culture, qualunque sia la scelta delle parti. Da questo punto di vista la verità a cui egli fa appello, nel valutare il conflitto, potrebbe essere la veritas dei latini, nel senso in cui questo termine rimanda alla radice var, da cui deriva il verbo vereri, “avere un timore reverenziale”. “C’è qui il senso del timore mistico di chi si accosta al sacro”, all’“intoccabile” (Rupnik, 54). E’ questa difesa dell’inalienabile diritto dei più deboli, di una dignità non negoziabile non barattabile, un compito fondamentale del giornalista in una società dove tutto ormai può essere comprato e venduto a metà prezzo.

***

Con questo si conclude la prima tappa della nostra riflessione. Abbiamo cercato di dimostrare, attraverso la dinamica dei processi comunicativi, che il conflitto può evitare di scadere nella violenza solo a patto di aprirsi alla comunicazione e che questa, per essere effettivamente tale e non diventare a sua volta violenta, deve riferirsi alla verità.

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Questa verità, al livello del conflitto nella comunicazione, è quella dei volti, quel modo inconfondibile di essere se stessi che si può riassumere nell’espressione “autenticità” e che, a livello sociale e politico, si traduce nella libertà dalle manipolazioni omologanti e distingue il popolo dalla massa.

Al secondo livello, quello del conflitto delle comunicazioni, emerge invece la verità come realtà, come mondo comune capace di offrire un punto di riferimento e una misura alle diverse comunicazioni, fornendo le basi, a livello sociale e politico, per una razionalità pubblica (logos).

Al terzo livello, infine, quello della comunicazione dei conflitti, abbiamo distinto, utilizzando le antiche tradizioni che stanno dietro al termine, tre diversi significati di “verità”, come aletheia, come ’emet, come veritas.

Il giornalismo, in quanto forma di comunicazione tipica del nostro tempo, può costituire una risposta alla sfida della violenza. A patto che, a sua volta, salvaguardi la propria originaria vocazione dialogica e conflittuale, senza cedere alla tentazione di imboccare scorciatoie che lo consegnerebbero alla violenza di cui dovrebbe essere l’antidoto.

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DIÁLOGO - Dr. Moreno: Las manipulaciones en pos de distorsionar la verdad, instalar opiniones propias con independencia de si sus contenidos están orientados a lograr el bien común o para provocar afanes de consumo con independencia de las posibilidades de los consumidores, ¿las percibe usted como fuentes de conflictos o como factores de potenciación de aquellos que existen? - Prof. Savagnone: Non fonte di conflitto, ma fonte di quel conflitto perverso che produce la sua stessa fine, il proprio suicidio. In quanto è violenza, la manipolazione è appunto questo: impedire che l’altro sia se stesso, riducendolo a quello che noi vogliamo che sia, cioè annullando la sua identità e determinando così un’apparente pace.

Io credo che questo fenomeno nella società della globalizzazione sia molto presente. Ricordo un discorso di Sua Santità Giovanni Paolo II all’Accademia Pontificia delle Scienze in cui metteva in guardia dalla globalizzazione proprio sotto questo profilo: “Il grande pericolo della

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones globalizzazione, diceva, è che noi togliamo ai poveri l’unica ricchezza che hanno, che è la loro cultura, la loro identità”.

E questo proprio la comunicazione lo può realizzare con una forza incredibile, imponendo all’altro un volto che non è il suo, magari facendolo diventare un consumatore di film americani o di Coca-Cola. In questo modo, invece di comunicare con l’altro, lo si uccide. - Dr. Videla: Me interesó mucho la referencia que usted hizo al concepto de chivo expiatorio. Es una figura bastante popular en la Argentina, lo que quiero ver es si le entendí bien. Entiendo que usted mencionó el chivo expiatorio como el sacrificio de un inocente sobre el cual se vuelca la violencia para mantener el conflicto escondido, y surge entre los que hacen de eso una falsa amistad, el caso de Herodes y Pilatos, que nace a partir de esa desviación del conflicto. ¿Es correcto eso? - Prof. Savagnone: Sí, sí perfetto. L’autore che citavo, Renè Girard, ha scritto diversi libri - il primo e il più noto si intitola “La Violenza e il Sacro” - in cui, con una ricchezza di prove antropologiche che spazia in tutte le culture, da quelle africane a quella asiatiche, a quella greca, dimostra che il sacrificio è un modo di neutralizzare la violenza della comunità scaricandola su una vittima.

È interessante il fatto che l’autore, nel corso di questi studi, si è convertito al cattolicesimo, perché ha scoperto che l’unico testo in cui questo meccanismo viene smascherato è la Bibbia. Anche nel caso di Gesù, si mette al nudo questa logica del falso sacrificio, denunziandola, mentre sul sacrificio, sulla uccisione di un innocente, le civiltà antiche avevano costruito la loro forza.

Girard paragona, per esempio, l’episodio di Romolo e Remo con quello di Caino e Abele. Il fratricidio di Romolo era considerato la fondazione della società romana, l’uccisione di Abele da parte di Caino è denunziato nella Bibbia come un crimine che Dio può perdonare ma non giustifica. Insomma, c’è nella Bibbia una denunzia di meccanismi che erano rimasti nascosti. Girard ha scritto, fra gli altri, un libro intitolato “Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”, titolo che è una frase del Vangelo, in cui Gesù dice “Proclamerò cose che sono nascoste fin dalla fondazione del mondo”. Le cose nascoste fin della fondazione del mondo sono queste, relative alla violenza fondatrice. La Bibbia è l’unico testo in cui questo viene messo in luce. - Prof. Viola: Però questo io non lo metterei come caso in cui non sorge il conflitto o in cui non si vuole fare vedere il conflitto, ma come un caso di falsa soluzione di un conflitto che pure è evidente. Il conflitto c’è, non

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones viene nascosto, viene nascosta la violenza che è la soluzione del conflitto.

Quindi, il caso di Girard lo classificherei piuttosto come un esempio in cui il modo vero in cui si risolve il conflitto viene nascosto, ma il conflitto è palese, tant’è vero che si cerca una soluzione con il capro espiatorio, che è in fondo un modo di nascondere la violenza che è insita in esso. - Prof. Savagnone: Si può guardare la cosa da due lati, perché un aspetto è comunque l’apparente assenza di conflitto, il fatto che la società è unita. - Prof. Viola: Dopo sì, ma prima è divisa la società, perché altrimenti non ci sarebbe bisogno del sacrificio. - Prof. Savagnone: Sì, ma, per così dire, questa divisione si è verificata in un tempo mitico. Girard porta il caso, per esempio, di tribù africane il cui re viene eletto, onorato, dopo di che lo si spinge a fare degli atti di impurità, che lo rendono colpevole - perché deve rendersi colpevole! -, dopo di che viene sacrificato e divinizzato come protettore della comunità. In questi casi il conflitto non arriva a terminarsi, ma incombe come una minaccia, un ricordo che spinge a operare per evitarne il ripetersi nel tempo storico.

Quindi quello che dici tu è vero, rispetto al tempo mitico la soluzione viene dopo il conflitto, ma rispetto al tempo storico il conflitto non viene mai alla luce, proprio luce grazie al sacrificio. - Prof. Viola: Il fatto che ci sia un sacrificio vuol dire che si riconosce che c’è un conflitto, perché altrimenti non ci sarebbe bisogno del sacrificio. - Prof. Savagnone: Sì, infatti ho distinto il caso in cui il conflitto non viene completamente in essere, perché c’è l’indifferenza che impedisce che l’altro entri nella mia sfera, da quello in cui, invece, il conflitto comincia ad emergere, però lo si nasconde. Si tratta di vedere in quale delle due collocare i discorso di Girard. Quello che mi interessa è che si capisca la logica di fondo, che è la stessa. - Prof. Zamagni: Il punto è che René Girard è un antropologo culturale, studiando le comunità, anche primitive, aveva compreso molto chiaramente che il conflitto è pericoloso, distruttivo. Quindi, penso che abbia ragione Giuseppe quando dice che con il capro espiatorio e con il concetto che lui sviluppa nell’ultimo libro “Ho visto Satana cadere come la folgore”, questo è il titolo del suo ultimo libro, col concetto delle affinità simboliche, il capro espiatorio è l’antidoto al conflitto perché il conflitto è

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones distruttivo. E allora la comunità si autoprotegge, scegliendo il capro espiatorio di turno.

Comunque, io volevo dire questo, che, tornando sul tema centrale della tua esposizione circa il ruolo della comunicazione, volevo aggiungere che un compito che oggi i mezzi di comunicazione, o più specificamente il giornalista, come tu hai detto, dovrebbe assolvere e non assolve, è quello di mettere in evidenza un conflitto che è pervasivo nelle nostre società di oggi e che tende a diffondersi, e cioè, il conflitto intrapersonale tra la figura del soggetto come consumatore e come lavoratore.

Se voi fate caso questa è una novità di questa epoca, mai esistita prima, perché nelle epoche precedenti, precedenti vuol dire fino a un quarto di secolo fa, la stessa persona era o da una parte o dall’altra della situazione conflittuale. Oggi accade che la stessa persona in quanto consumatore è contenta di pagare il prezzo più basso possibile, però in quanto lavoratore è, invece, contenta di avere il prezzo più alto, e le due cose sono in conflitto. L’esempio che viene sempre in mente in questi casi è quello di Wall Mart. Wall Mart, voi sapete è la più grande impresa del mondo, ha un milione cento mila dipendenti, ed è un’impresa di distribuzione e dove va spiazza quelle già esistenti, perché è capace di abbattere i costi di produzione perché paga poco i lavoratori.

Recentemente negli Stati uniti c’è stata una “class action”, proprio per costringere “Wall Mart”, a trattare in maniera decente i lavoratori. La risposta che gli avvocati di “Wall Mart” gli hanno dato è questa: “non è vero, perché è vero che noi di “Wall Mart” paghiamo il 40% in meno i nostri lavoratori, e non consigliamo loro i diritti sindacali, però con questa strategia noi abbassiamo il costo di produzione, possiamo vendere il cibo, le altre cose, ad un prezzo molto inferiore rispetto agli altri, e in questo modo noi facciamo agli interessi di cento venti milioni di consumatori, perché in America sono cento venti milioni coloro che vanno a comprare nei negozi di “Wall Mart”.

Allora il discorso degli avvocati è questo:”il milione cento mila soffre, ma è per far stare meglio cento venti milioni”.

I cinesi non lo fanno, loro lo fanno per gli altri, ma questo lo fanno in America. Io sto parlando di “Wall Mart” negli Stati Uniti, non fuori. Il punto è che gli stessi lavoratori di Wall Mart non protestano, perché in quanto lavoratori avrebbero motivi di protestare, ma in quanto consumatori non.

Quindi, questo vuol dire che oggi il conflitto attraversa la singola persona. E più generalizzando questo riguarda i nuovi modelli di consumo. Cioè, mentre nel passato il consumatore comprava beni per

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones soddisfare dei bisogni che erano a lui noti, e la pubblicità aveva solo il compito di sostituire un fornitore ad un altro fornitore, oggi l’attività di consumo in effetti è un’attività che non è più finalizzata a soddisfare i bisogni fondamentali, ma è finalizzata a creare l’identità. Cioè, noi consumiamo per scegliere la nostra identità. E allora il compito della pubblicità, e in questo caso della comunicazione, è esattamente fondamentale perché il comunicatore può essere connivente con chi ti vende prodotti per costruire l’identità che il produttore vuole che tu abbia. Per cui è ancora più grave, cioè, mentre la pubblicità di ieri era solo per dire, anziché comprare questo, compra questo, adesso la pubblicità ha un valore di costruzione della nostra identità. E allora, l’unico antidoto a questo sarebbe di avere una comunicazione veramente libera, cosa che non è.

Ed è un punto questo su cui ad esempio, anche dentro il mondo della Chiesa occorrerebbe riflettere più a lungo, perché come voi capite, l’identità quando viene progettata e di fatto imposta sulla gente, poi la possibilità di arrivare alle persone con i messaggi come quello della salvezza, diventa piuttosto...

Volevo una tua reazione. - Prof. Savagnone: La mia reazione è di pieno consenso. Oggi c’è su alcune cose una congiura di silenzio che favorisce sostanzialmente questo meccanismo di manipolazione. E qui veramente, si avvertono limiti di un giornalismo che troppo spesso in realtà è legato ai centri di potere economico. Il giornalismo dipende da padroni che pagano. I padroni nominano i direttori, i direttori decidono quello che il giornalista deve dire e quello che non può dire.

Questo non sempre si sottolinea, ma nei giornali e nelle retti televisive e radiofoniche in realtà, chi comanda è il direttore. Io nella mia esperienza, che ormai è abbastanza lunga - dieci anni con “Avvenire” e cinque con il “Giornale di Sicilia”, sono sempre andato, devo dire, abbastanza d’accordo con i miei direttori. Ma quella dell’editorialista è una professione un po’ particolare, perché lui può permettersi il lusso di scegliere se collaborare o meno. L’impiegato del giornale non può. - Dra. Archideo: El problema acá lo veo también en el hecho de que -como decía el año pasado Savagnone, cuando habló del tema de que no había una deontología profesional para el periodista- no había modo de legalizar de alguna forma este problema; lo mismo ocurre también con respecto a la comunicación, sobre todo en este problema, porque ahí no hay ética, absolutamente hablando, porque, ¿donde está la ética de permitirse un mal para obtener un bien? Eso no es ético, todo lo

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones contrario. No importa que sea un mal mayor, pero es un mal, como medio yo no puedo..., entonces, el problema es un problema ético de fondo, grave. - Dr. Moreno: Vuelvo a mi pregunta. Creo que hay un gran énfasis en el análisis del tema considerando al mercado y otros de naturaleza económica, perspectivas que si bien son imprescindible de tratar cuando son abordados las cuestiones relacionadas con la comunicación, no lo cierran por contener otros dentro de su campo que gravitan, según las circunstancias, con mayores intensidades.

Con ese enfoque paso a la cuestión del poder y recurro a Max Weber que lo definió como “la probabilidad de imponer la propia voluntad contra toda resistencia”. Y creo que esa entidad probabilística hoy, en la sociedad de la información, está fuertemente condicionada por las capacidades que tienen los actores para dominar y manipular los medios de comunicación. En consecuencia, esa circunstancia no significa violencia psicológica, posible de percibir en los procesos transculturalización. - Prof. Savagnone: Questo è legato anche al fatto che la comunicazione riesce a fare apparire come realtà le cose di ci parla, spogliandole del carattere interpretativo, discutibile. Si maschera, cioè, il fatto che si tratte di notizie, e la notizia non è la realtà, ma un ritaglio artificiale della realtà. - Prof. Zamagni: Il participio passato dovrebbe farlo. - Prof. Savagnone: Sí, la notizia è stata “fatta” da qualcuno, è una operazione, è una costruzione. - Dr. Regúnaga: Se ha hablado mucho de la necesidad de no tapar los conflictos, que la comunicación sirva para ponerlos sobre la mesa, ponerlos en evidencia, que no se llegue a la violencia de eliminarlos al esconderlos.

¿Pero qué pasa en la situación contraria, en aquellos casos en los que el conflicto ya haya llegado a la violencia y, justamente, la publicación, la comunicación es el instrumento que buscan los terroristas, los secuestradores, los violentos, que sin la difusión de la comunicación perderían gran parte de su efectividad? ¿Cuál es su opinión sobre esa manipulación? - Prof. Savagnone: La comunicazione, in questi casi, è sempre usata come un’arma, non ha lo scopo di confrontarsi con un altro, ma di demonizzarlo. Il modo tipico in cui i mezzi di comunicazione funzionano spesso, quando intervengono nei conflitti, è di cercare di mostrare un’immagine distorta, un’immagine deforme che cancella il volto

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones dell’altro, mettendolo alla berlina, senza pudore. Il concetto di pudore, che è il rispetto della dignità umana - è importante qui. - Prof. Viola: Io vorrei dire qualcosa riguardo al concetto di comunicazione. Perché ho la impressione che in fondo esso sia stato usato prevalentemente nel senso d’informazione, ma non nel senso di dialogo. In tal caso il problema è, quindi, un’azione che viene da qualcuno ma che non aspetta una risposta, com’è nel dialogo. E a questo punto, è ovvio che quest’azione deve essere di per sé corretta, giusta, adeguata, vera, ecc., ma già in partenza qualificata, perché non è un’opinione che possa essere controllata. Invece, io credo che il concetto di comunicazione sia più ampio del modo in cui è stato usato, e che comprenda anche la dimensione del dialogo. - Prof. Savagnone: Veramente, nel mio discorso è stato esplicito che per la comunicazione autentica ci vogliono gli interlocutori. - Prof. Viola: Nel caso della notizia giornalistica l’interlocutore dov’è? È un ricettore, è chi deve essere messo in grado di accedere alla verità, ha il diritto alla verità, ma, appunto, è un soggetto che non può interloquire, non può discutere con il giornale, con la televisione non si può discutere. - Prof. Savagnone: Non ho avuto tempo di sviluppare questo punto, ma è interessante e può essere utile accennarvi. Intanto, comunicazione in senso proprio sia solo dove c’è un minimo di reciprocità, se no è una trasmissione. La nostra si chiama società della comunicazione in modo improprio, nella misura in cui è invece soltanto una società della trasmissione unilaterale, unidirezionale. Però, bisogna dire che i meccanismi della comunicazione sociale, che pure di per sé sono basati sulla trasmissione, implicano un certo margine di reciprocità. Per quello che riguarda la televisione, il gradimento, l’“audience”, sono il modo in cui il pubblico interagisce con un programma.

I giornali stessi, risentono, ovviamente, della risposta del loro pubblico. Per di più, nei programmi radiofonici e televisivi si cerca di dare spazio alle telefonate. Per esempio, Radio Maria, dove io parlo, ci sono tre quarti d’ora di telefonate che ti dicono come la gente sta rispondendo al tuo discorso. - Mons. Serrano: Creo que el ejemplo de Radio María es singularmente instructivo, porque en Radio María intervienen sin filtro, que éste es otro problema de la comunicación. Es decir, en estas emisiones radiofónicas hay un filtro, hay alguien que recibe y que pasa si conviene pasar o no conviene pasar.

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Pero, aparte de lo anecdótico de Radio María, o del mayor o menor nivel cultural que se le quiera dar, metodológicamente es interesante. Porque yo he intervenido por pura casualidad en una emisión de Radio María y uno me ha preguntado: “mi mujer se ha marchado con el cura del pueblo”, lo que a mí me sorprendió, yo podía estar preparado a responder a cualquier otra sugerencia, pero se conoce que la persona se sintió interpelada por el hecho de que yo era Juez de La Rota y que a lo mejor si su matrimonio si sí o si no, yo le contesté como le tenía que responder, “tiene usted que pedir a Dios por su esposa para que sea fiel y por el sacerdote para que recupere su misión porque es la mejor solución para todos, yo no le puedo decir piense ya en su nulidad de matrimonio”. Pero yo creo, como decía, que metodológicamente esto es importante, porque yo creo que la palabra comunicación sugiere sinceridad. Comunicación es unión, y si no hay unión en la verdad no hay verdadera unión. Entonces, creo que la comunicación ha perdido este sentido de sinceridad que debe tener y, que a veces se evita con estos filtros y estas manipulaciones que no contribuyen a solucionar los conflictos, sino al contrario a hacerlos sensacionalistas, a darles más relieve del que merecen porque no hay sinceridad, porque no hay verdad. - Prof. V. Zamagni: Ma, io devo dire che stracciarsi le vesti per la manipolazione dei mezzi di comunicazione non lo trovo poi così giusto, nel senso che molti altri la fanno, questa manipolazione, quasi tutti la fanno, quelli che non hanno dei principi e ce ne sono tanti, basta leggere dei romanzi, basta leggere dei libri, basta guardare il marketing, ecc., cioè, è da molte parti che avviene questa manipolazione. E quindi, trovo che i giornalisti facciano parte di questo mondo dove queste cose avvengono.

Per cui, da un lato bisogna educare la gente a capire che esistono queste realtà di manipolazioni. E poi bisogna anche rendersi conto che la gente non è mica così stupita come pensiamo tante volte, perché, magari non subito, però dopo un po’ di tempo se ne rendono conto di questo, e reagiscono, anche in maniera che è sorprendente, rifiutando, appunto, questa manipolazione, ma ci vuole un po’ di tempo prima che se ne rendano conto. Però, attenzione, perché abbiamo visto tanti casi, anche in Italia, dove ci si aspettava che un grande bombardamento di giornali, televisione, in una certa direzione desse un risultato, e poi il risultato era, invece, propriamente opposto. Proprio per quello, perché la gente si è un po’ infurbita dopo un po’ di tempo che è stata bombardata. Tuttavia, se ho detto questo, é anche vero però, che volevo sottolineare un aspetto di responsabilità dei cattolici, perché sapendo che questo è

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones così, e volendo noi, sicuramente, non manipolare, ma fare emergere la verità, dobbiamo però, uno, renderci disponibili a questo, e quindi, renderci disponibili a interviste, a scrivere sui giornali, a intervenire a tavole rotonde e così via, con argomentazioni, bisogna prepararsi argomentazioni, perché se si va là bisogna poter trasmettere l’idea. E non ghettizzarsi, perché une delle cose che, per esempio, i cattolici fanno è di mettere in piedi i loro propri mezzi di comunicazione, che è una cosa buona sicuramente, non è che io sia contraria a questo, però sembra a volte che in questo si mettono il cuore in pace e dicono, “va bene tanto noi ci abbiamo il nostro giornale, o ci abbiamo la nostra televisione, o abbiamo la nostra radio, e va bene così”. Come dico, Radio Maria è ascoltatissima, è la radio più ascoltata, per esempio, in Italia, quindi, è bene che ci sia. Però, ci sono poi tantissimi altri che non l’ascoltano e dunque, è importante. Perché, ho notato che appunto perché la gente diventa un po’ più critica, spesso i giornali sono costretti a produrre qualche cosa di “politically correct” su un argomento, devono per forza trovare qualcuno che abbia un parere diverso da quello magari della linea del giornale, o comunque dal pubblicista famoso che loro usano normalmente. É importante che ci sia qualcuno che è capace di esprimersi.

Ho visto, che addirittura Repubblica anche in tema di religioni, di problemi di valori etici, e così via, chiede questo parere e alle volte vengono fuori degli articoli che sono utili. Per cui, ricordiamoci che c’è anche questa responsabilità, di rendersi disponibile perché non è che i giornali perché la mentalità della gente è diventata un po’ più critica, possono portare avanti una loro linea senza confrontarsi con altri. - Dra.. Trujillo: Estaba pensando exactamente en la misma perplejidad, en el sentido de que es inevitable reconocer que cada comunicación o cada información es una pantalla, uno schermo, un “interfaccia”. Entonces me imaginaba que es casi paradójico que tú te dediques a la comunicación o al periodismo después de lo que has dicho sobre estos. Y pensaba a una doble paradoja, por un lado, no reconocer que cada información pasa a través de una pantalla, pasa a través de filtros, significa impedir una comunicación en el sentido del cuento de Borges, de aquel emperador que pide al que hace el mapa de su tierra, que le haga un mapa de la dimensión exacta de su tierra, lo que es imposible. No hay posibilidad de comunicarse si no hay un filtro, si no hay una lectura. Y en ese sentido yo creo que vale lo que ha dicho Vera de la capacidad crítica, de la responsabilidad, etc.

Por otra parte esta dificultad me parece que se puede también conectar con un tema que tú has sacado, que es el tema de este

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones complejo de inferioridad, o esta idea equivocada de que quien habla de la verdad es un intolerante, que es problema muy interesante.

Yo creo que también que en ese tema hay que reconocer que cada exposición de la verdad es una “interfaccia”, es un filtro. Entonces, puede ser que el que habla de la verdad es intolerante, pues no se da cuenta de que la verdad de la que está hablando, en el modo en que está hablando de la verdad, está ya traduciendo, está ya filtrando. Entonces, me parece que aquí el problema es el de comprender la estructura, el “status” de la comunicación, qué es lo que quiere decir “interfaccia”, filtro, pantalla, como lo queramos describir. - Prof. Savagnone: Rispondo insieme alle due cose. Sono d’accordissimo sul fatto che non c’è da stracciarsi le vesti. Però vorrei sottolineare che qui si tenta di manipolare la gente incidendo sulla sua comprensione della realtà. Qui è in gioco proprio il problema della menzogna e della verità, e questo mi pare sia più delicato di altri casi di condizionamento.

Concordo pienamente sul fatto che non sia possibile fare a meno di interpretazione, però bisogna sempre dirlo che è una interpretazione. Quello che è grave è che invece viene presentato un fatto senza aiutare la gente a vedere che ci sono altri punti di vista su di esso. - Dra.. Trujillo: Perdón, yo me imaginaba un artículo del periódico en el que se dice, “hay una guerra, como ustedes saben hay guerras también en esta lista de sitios y todas son igualmente graves... - Prof. Savagnone: No, non è questo che dico. Non si tratta di elencare tutte le guerre ogni giorno. Però, nel modo di trattare le cose, c’è una impostazione che mira unicamente a suscitare nel pubblico reazioni immediate, per esempio, di ostilità, o di compassione; e una che invece mira a cercare di fare riflettere, ad aprire domande. Un articolo può essere un testo che dà l’illusione che tutto sia chiaro, oppure uno su cui la gente, dopo averlo letto, dice: “Però, non ci avevo mai pensato, come mai succede questo?”.

Ecco, una buona comunicazione giornalistica fa capire che ci sono dei problemi complessi, che la realtà non è tutta d’un pezzo. Una buona comunicazione non è una merce da propinare ai lettori o agli spettatori come una pillola che devono inghiottire, è qualche cosa che devono anche loro contribuire a ricostruirsi sulla base degli elementi di riflessione che io gli do.

Certo un giornale o una notiziario televisivo non può elencare tutte le guerre ogni giorno, però può, per esempio dare spazio alle varie guerre in occasioni diverse. Cioè, può ribellarsi al fatto che si debba

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones parlare solo di una che è “di moda”. Così, certo, va incontro a dei rischi, perché bisogna vedere come reagisce il pubblico. Ma si tratta di un rischio che un vero giornale, una vera televisione dovrebbero sapere correre. - Prof. Brenci: Suscita in me un po di stupore che due siciliani non abbiano ricordato un loro grande conterraneo Pirandello che in “Sei personaggi in cerca di un autore” scrive: “un fatto è come un sacco vuoto, non si regge”. Per lui non esistono i fatti ma solo le interpretazioni che noi ne diamo. Per esempio la parola disastro usata nella relazione è già una maniera di vedere qualcosa cioè una interpretazione. Credo che prima di parlare della manipolazione sia giusto comprendere come si vada formando quella che poi chiamiamo informazione. Ad esempio per determinare quanto contribuisca il giornalista con la sua personalità con la sua formazione e con il suo subcosciente.

Il discorso merita di essere approfondito per la necessità di comprendere e definire le relazioni tra eventi e informazione e di informazione e comunicazione. Dobbiamo prima di parlare di manipolazione comprendere che la riduzione ad informazione comunicabile di una serie di eventi è difficilmente esaustiva e cioè completa e “oggettiva” e che le cose cambiano ancora di più nella comunicazione a seconda di chi è il comunicatore e di quale è stata la sua storia personale, quali sono le sue capacità logiche e cosi via. Cercherò di portarvi un esempio parlando di qualcosa che mi sta a cuore. A proposito di radio Maria si è parlato di cultura dei trapianti. Ora vi chiedo se esiste un’autentica cultura dei trapianti. Donazione e generosità hanno poco a che vedere col trapianto che avviene quando un poveretto non più cosciente, in prognosi di morte non può dare un giudizio su quanto accade e su quanto egli desidera che avvenga. La risposta è data non da lui ma dalla comunità attraverso l’invenzione ad hoc della morte a cuore battente dell’elettroencefalogramma piatto entrambe definizioni non vere. Sarebbe invece sufficiente riflettere che molti dei nostri organi sono pari (vedi reni) 0 riducibili a pari (vedi fegato) per ricondurre nell’ alveo della generosità-amore. I trapianti di organi pari per esempio tra fratelli, tra genitori e figli e cosi via potrebbero restituire al trapianto il suo valore di un atto libero di vera Carità educando la gente al valore della generosità anche quando si tratta del proprio corpo compiendo un atto veramente umano perché libero e realizzato secondo scienza e coscienza. L’attuale “cultura dei trapianti” e invece una autentica manipolazione in quanto attraverso la diffusione di informazioni “non vere” tende alla creazione di una mentalità e di una cultura false.

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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto (2006) CIAFIC Ediciones L’esempio è Bio- medico ma le applicazioni, di “manipolazioni coscienti” sono molto diffuse in tutti campi in cui agisce la comunicazione. - Dra. Archideo: Gracias, Prof. Savagnone, por su clara exposición sobre un tema tan actual. Agradezco también a los que participaron en el diálogo.

© 2006 CIAFIC Ediciones Centro de Investigaciones en Antropología Filosófica y Cultural Federico Lacroze 2100 - (1426) Buenos Aires e-mail: [email protected] Dirección: Lila Blanca Archideo ISBN 950-9010-48-0

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