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LA COMUNICAZIONE EFFICACE STEFANO CENTONZE FIDUCIA NEI PROPRI MEZZI, MOTIVAZIONI E COMPETENZE RELAZIONALI PER OTTENERE IL MASSIMO NELLA VITA PRIVATA E NELLA PROFESSIONE

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LA COMUNICAZIONE EFFICACE

STEFANO CENTONZE

FIDUCIA NEI PROPRI MEZZI, MOTIVAZIONI E COMPETENZE RELAZIONALI PER OTTENERE IL MASSIMO NELLA VITA PRIVATA E NELLA PROFESSIONE

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Tutti i diritti riservatiISBN: 978-88-97521-83-9 Prezzo: € 7,00Pagine: 122© Edizioni Circolo VirtuosoData di pubblicazione: agosto 2015

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Conoscere i segreti della comunicazione è la chiave del successo nelle relazioni. Ognuno di noi nasce per comunicare e vive di legami e di interazioni che si fondano su di essa. Tuttavia, la capacità di comunicare efficacemente non è un’abilità innata e può essere appresa, allenata e affinata in funzione degli obiettivi desiderati, tanto nella sfera personale quanto in quella professionale.

PREFAZIONE

“Vitalità, vivacità ed entusiasmo. Sono queste le qualità che ho sempre ritenuto

essenziali in un oratore.”

~ Dale Carnagie ~

CAPITOLO 1

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Stefano Centonze (nella foto) è Laureato in Scienze della Formazione, Formatore, esperto di Marketing, Fondatore e Direttore di Artedo Network, rete internazionale di Scuole Formazione in Arti Terapie, Counselling, Coaching, Naturopatia, già Manager di strutture di consulenza assicurativa, finanziaria e previdenziale, esperto di comunicazione non verbale, imprenditore nel sociale e nel settore della formazione universitaria e post-universitaria, editore e scrittore.

L’AUTORE

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LA COMUNICAZIONE EFFICACE

CAPITOLO 3

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Quando si parla di relazioni, il pensiero va immediatamente al rapporto con compagni, coniugi, figli, genitori, fratelli, cioè a tutte quelle persone con cui condividiamo la nostra vita quotidiana. Al di fuori della cerchia familiare, però, esistono molte persone che incidono sulla nostra vita, positivamente o negativamente: colleghi, collaboratori, insegnanti e altre persone con cui si entra in contatto senza conoscerle davvero. Le relazioni con cui hai a che fare anche tu ogni giorno, quindi, sono molto più numerose di quanto tu stesso non immagini e tutte contrassegnate da frecce bidirezionali. Puoi sperimentare le tue relazioni significative compilando il disegno qui sotto: è un buon esercizio per non restare sul vago in questa trattazione.

Annota il tuo nome all’interno del cerchio centrale e i nomi delle persone con le quali sei in un legame relazionale reciproco negli spazi circostanti. Puoi inscriverci i nomi delle persone o, se preferisci, soltanto le categorie cui esse appartengono, (ad esempio, amici, colleghi e figli). Qualora non ti bastassero i 6 cerchi riportati nello schema, aggiungine degli altri. Una volta riempiti gli spazi nella ruota delle relazioni, spunta i nomi delle persone che ti destano agitazione, preoccupazione o che consideri problematiche; a seguire, le relazioni che urge migliorare.

RELAZIONI E COMUNICAZIONE

SEZIONE 1

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Se occupi tutti gli spazi, anzi te ne servono degli altri, hai la conferma che tutta la tua vita è costellata di relazioni e che la loro qualità incide sul tuo modo di vivere. Noi, infatti, siamo fatti di relazioni, siamo fatti per comunicare: ecco perché, dato che la qualità della comunicazione incide sul nostro modo di entrare in relazione con il mondo, in queste pagine vedremo che cosa è possibile fare per migliorarsi al fine di ottenere rapporti, sia provati che professionali, più gratificanti.

Con i riferimenti alle più note teorie, partendo dalle modalità abituali e cercando di offrirti esempi illuminanti di un modo congruo di comunicare con gli altri, proverò a rispondere a queste due domande:

Qual è il nostro modo di porci nelle relazioni? Quale dovrebbe essere per vivere meglio? I meccanismi di copingAnni fa, Robert Koegel, un professore della State University of New York di

Farmingdale, sottopose ai propri studenti un questionario sulle loro relazioni migliori e peggiori. Alcune domande riguardavano le relazioni tra gli studenti e le persone di status più o meno pari al loro (amici, partner, fratelli, sorelle, eccetera), altre domande riguardavano, invece, le relazioni con persone di status superiore (dirigenti, docenti, professori, genitori, eccetera). Agli studenti fu chiesto anche di descrivere tali relazioni. Tra le caratteristiche che contraddistinguevano le loro relazioni positive, gli studenti citarono il rispetto, la premura, la fiducia, l’onestà, il sostegno e la buona comunicazione. Essi affermarono, inoltre, che quando gli altri mostravano tali caratteristiche, essi tendevano a relazionarcisi positivamente a prescindere dalle differenze di status. Al contrario, le relazioni che gli studenti catalogavano come “peggiori” venivano da loro descritte come strumentalizzanti, coercitive, ingiuste e sbilanciate. Gli studenti indicarono, inoltre, che le persone strumentalizzanti e coercitive tendevano a tradurre inevitabilmente le diversità in opposizione, considerando puntualmente la propria posizione come la posizione corretta. Tali relazioni erano, dunque, basate su di una logica vinci-perdi, laddove chi vinceva lo faceva ricorrendo al proprio potere, personale o istituzionale. Le persone dominanti generavano, così, nei confronti dei perdenti, insicurezza, senso di umiliazione e sfiducia, tanto in se stessi che negli altri. L’indagine di Koegel ci tornerà utile, poiché sottolinea quanto la disparità di potere tra persone (o tra gruppi di persone) costituisca la barriera più alta alla costruzione di relazioni sane e felici. Specie in azienda, dove le relazioni efficaci sono alla base del successo ma, molte volte, collidono con l’autorità che comportano i diversi ruoli.

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Che cosa intendo con i termini potere e autorità? Una spiegazione aiuterà la comprensione.

Innanzitutto, occorre dire che esistono diverse forme di autorità: • quella che scaturisce dall’esperienza e dalla conoscenza (come quella di un

meccanico, di un allenatore, di un medico o di un docente che gode di grande stima);• l’autorità conferita a precise figure professionali (i poliziotti, i giudici, i direttori

dei quotidiani, eccetera);• l’autorità conferita per contratto o accordi.Queste modalità di esercitare l’autorità generalmente non comportano problemi

di natura relazionale, poiché implicano un riconoscimento che, viceversa, viene a cadere quando l’autorità si fonda sul potere. Chi ricorre al potere, infatti, ottiene ciò che desidera elargendo ricompense e irrogando punizioni. Ovvero, attraverso un sistema di gratificazione e frustrazione che, per tutta risposta, riceve dai sottoposti un comportamento di opposizione (di lotta), di abbandono (di fuga) o di adeguamento (di sottomissione), in base a quanto grande sia il danno che chi esercita quel potere può arrecare o quanto allettante sia la ricompensa: maggiore è il dolore che può infliggere il leader di potere (o maggiore la ricompensa), maggiore è l’adeguamento degli altri alla sua volontà che riesce ad ottenere. Chi è sottomesso sviluppa, così, comportamenti adattivi, denominati meccanismi di coping, al fine di gestire la costrizione ad agire contro la propria volontà e preservare così la propria integrità personale.

Chi adotta lo stile della lotta reagisce ribellandosi, opponendo resistenza, sfidando e vendicandosi. Coloro che adottano lo stile della fuga tendono ad essere elusivi, a sfuggire, fisicamente e emozionalmente, rifugiandosi nei propri spazi, defilandosi. Chi si sottomette, infine, è incline ad eseguire gli ordini e ad obbedire, rinunciando ai propri bisogni personali, con dannose conseguenze sull’assertività, sull’autonomia e sulla capacità generale di funzionare pienamente.

Ti propongo un semplice test per identificare il tuo personale stile di coping. Rievoca il tuo personale vissuto in situazioni in cui hai subito una qualunque

forma di potere. Procurati un foglio di carta e dividilo in quattro colonne verticali, titolandole da sinistra verso destra come segue:

1. Che cosa sono stato costretto a fare?2. Chi mi ha costretto?3. Come ho agito? (ad esempio, Mi sono adeguato?)4. Che cosa ho provato e come ho reagito in seguito?

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Ti accorgerai che le risposte che darai ti porteranno verso uno dei tre comportamenti descritti, esattamente come accadrà ai tuoi collaboratori se l’esercizio della tua leadership risulterà opprimente per via di un potere coercitivo che induce gli altri ad opporvisi, a fuggire o a sottomettervisi. Tenere presente l’evidenza di questo test ti aiuterà a rivedere le modalità abituali di intrattenere le tue relazioni professionali, al fine di ottenere il massimo da esse. Lo storico britannico Lord John Acton affermò che il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente, per spiegare gli effetti devastanti dell’autorità, sia chi la subisce che per chi la impiega. La soluzione? Imparare a comunicare per costruire relazioni gratificanti.

Parlare non significa comunicare La comunicazione è l’essenza della nostra vita, in quanto mediatore delle

relazioni umane. Nella vita di ogni giorno, nelle aziende, negli uffici, nelle aule della scuola, nei panifici, nei bar, nelle discoteche, si parla e, se non si parla, si comunica lo stesso. Di fronte a problemi di comunicazione, è, tuttavia, possibile rilevare un equivoco ricorrente: confondere l’atto del parlare con quello del comunicare. Ma esistono profonde differenze, poiché chi parla non sempre si preoccupa di chi ascolta, mentre il vertice d’osservazione su cui, viceversa, si basa tutta la comunicazione è far capire ad altri il nostro messaggio, in maniera chiara ed efficace, attraverso parole, immagini e gesti.

Hai mai sentito parlare un oratore particolarmente noioso? O un giornalista televisivo che si trascina a spasso per tutto il TG le vocali, gettando a casaccio le pause? Ecco, dunque, la differenza nella sua essenza: non basta leggere un discorso o articolare delle parole per comunicare ma occorre avere un obiettivo, cioè fare in modo che il messaggio arrivi a destinazione esattamente secondo le intenzioni.

Si deve a Watzlawick, Beavin, Jackson, Bateson, Haley (solo per citare i più conosciuti), i cosiddetti pragmatici della comunicazione, lo studio del rapporto tra il linguaggio e coloro che lo usano. Le evidenze hanno generato degli assiomi universalmente condivisi. Il primo e più importante di questi assiomi è che non si può non comunicare (P. Watzlawick, 1971). Secondo la Scuola di Palo Alto, fondata proprio da Watzlawick, non è possibile non avere un comportamento e qualsiasi tipo di atteggiamento ha una valenza comunicativa. In base a questo assioma, la comunicazione è un comportamento. E poiché non esiste la negazione del comportamento (il nostro cervello non è in grado di registrare la negazione di un’azione), essendo essa stessa un comportamento, ne consegue l’impossibilità di non comunicare. Ne consegue che, in qualsiasi tipo di situazione ed interazione, con o

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senza un’azione volontaria, si invia un messaggio. Se, ad esempio, entri in ascensore e ignori l’unica persona presente, in panetteria senza salutare alcuno dei tuoi colleghi, oppure non guardi in faccia nessuno dei tuoi clienti, il tuo comportamento ha già lanciato un messaggio preciso: non hai alcuna intenzione di avviare uno scambio verbale con i presenti. Siamo, dunque, immersi totalmente nel processo della comunicazione: noi emettiamo segnali sempre, continuamente, automaticamente, anche quando crediamo di non farlo o molto al di là delle nostre intenzioni. E percepiamo segnali, li valutiamo, li esaminiamo, li accogliamo perché significativi o li respingiamo perché fuorvianti. È un processo automatico, innato e di una generale inconsapevolezza. Ecco perché talvolta facciamo fatica a rendercene conto: perché è tutto il nostro corpo che invia e registra questi segnali, anche quando è fermo (l’uomo riesce a comunicare anche con l’immobilità, attraverso il corpo in posizione statica. Così, se immaginiamo una persona ferma, attenta, tesa ad ascoltare un oratore che parla, o, piuttosto, la rassegnata immobilità di un povero che chiede elemosina sul ciglio di una strada, avremo significanti differenti che connotano i due differenti comportamenti statici). Al di là delle nostre stesse intenzioni. È un segnale un viso allegro (e viene recepito normalmente come simbolo di una buona disposizione d’animo da parte di chi lo emette) ed è un segnale un gesto brusco (e tende infatti ad essere recepito come segno di nervosismo da parte di chi lo emette).

Comunicare, dunque, vuol dire innanzitutto emettere segnali e riceverne. Ma benché tutti, dunque, siano in grado di comunicare, non tutti sanno farsi capire. Ne deriva che prima di comunicare un messaggio occorre stabilire chi sarà il destinatario, valutarne il grado di cultura (e di capacità di comprensione) e adattare a lui il nostro linguaggio. Il protagonista non è più il trasmittente/comunicante, bensì il ricevente. E far pervenire al destinatario un corretto messaggio, che tenga conto dei mezzi culturali a sua disposizione per decodificarlo, rende efficace la comunicazione.

La comunicazione non verbale Quando si parla di comunicazione si pensa spesso al linguaggio tradizionale

quale strumento comunicativo per eccellenza. Con ciò tendendo, in genere, a sottovalutare tutti gli altri strumenti che utilizziamo per trasmettere un messaggio, per dargli più forza o per caratterizzarlo:

• il tono di voce; • il linguaggio non verbale, rappresentato dalla gestualità, dalla posizione del

corpo, dalla mimica facciale, dal sorriso, dal contatto oculare d’occhi, eccetera;• i supporti visivi.

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Albert Mehrabian, uno psicologo americano di origini armene, in uno studio del 1967 osservò come, in una normale comunicazione, la ricezione del messaggio (efficacia comunicativa) è data solo per il 7% dalle parole, per il 38% dai toni di voce e per il 55% dal L.N.V. (linguaggio non verbale). In virtù di queste considerazioni, che hanno sensibilmente influenzato anche le ricerche sulla PNL (la Programmazione Neuro Linguistica), se mettiamo sui piatti di un’ipotetica bilancia due pesi, di cui il primo è rappresentato dal cosa dico, vale a dire dal contenuto del messaggio (il significato), e il secondo dal come lo dico, ossia toni di voce e L.N.V. (il significante), il secondo piatto peserà 13 volte più del primo (il 93% contro il 7% delle parole). Quella non verbale, d’altro canto, è la prima forma di comunicazione a svilupparsi, la più antica ed è rimasta l’unica o quella prevalente tra gli animali. Il nostro corpo, infatti, emette continuamente messaggi per mezzo delle posture: un certo modo di piegar la testa vuol dire sottomissione in tutti i Paesi; un certo modo di fissare l’interlocutore, a busto eretto e torace gonfio, indica sfida o confronto in tutte le culture, come pure nel regno animale. Solo per citare alcuni esempi evidenti della comunicazione non verbale. In realtà, il linguaggio del nostro corpo è ancora più complesso e raffinato di così, dato che il corpo gioca un ruolo primario, soprattutto nel comunicare sentimenti o, comunque, segnali legati alle emozioni (possiamo dire di essere emozionati - in questo caso la modalità di esprimere l’emozione è verbale - ma possiamo ansimare, sudare e ravviarci nervosamente i capelli - in questo caso, la modalità di esprimere l’emozione è non verbale -). La comunicazione non verbale ci aiuta, dunque, a comunicare e a capire gli stati d’animo, le condizioni emotive, gli atteggiamenti ma non ci consente di esprimere concetti astratti (come, ad esempio, “personalità” o “filosofia”).

La comunicazione verbale, viceversa, benché oggi, nell’era della comunicazione e dell’immagine, si sia propensi a considerarla l’asse portante della comunicazione globale (a cui quella non verbale funge da semplice rinforzo), è l’ultima e la più recente ad essersi sviluppata nell’uomo come animale che comunica. Con la parola possiamo esprimere concetti che non potremmo esprimere in nessun altro modo. Possiamo parlare di lealtà e farci capire. Possiamo parlare di produttività e farci capire senza ricorrere, per il momento, a formule matematiche. Possiamo elaborare concetti di notevole complessità e trasmetterli con precisione. Possiamo anche mentire, naturalmente, o risultare confusi e fumosi. La parola, che è dunque un mezzo, ce lo consente. Il segreto, come sempre, è imparare ad usarla correttamente, al pari del silenzio. La tua capacità di ascoltare, infatti, non è meno importante di quella di esprimerti verbalmente e ti aiuta a raccogliere indicazioni fondamentali a rendere

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efficace la tua comunicazione. Saper ascoltare significa dare spazio al tuo interlocutore, conoscere i suoi scopi e le sue idee, sapere quali aspetti delle tue tesi sono condivisi e quali non apprezzati, capire se sta chiedendo aiuto o se ha recepito la tua richiesta di aiuto. Ecco perché gli esperti di comunicazione efficace affermano che la qualità della comunicazione è nella risposta che si riceve, non nel messaggio che si invia. Perciò, anche tu, per migliorare la tua capacità di comunicare, prova a chiederti, davanti alle incomprensioni, se sia arrivata a destinazione la sostanza di ciò che abbiamo trasmesso (Com’è stato percepito il messaggio? Le reazioni sono quelle desiderate?).

I modelli di comunicazione: cosa fare e cosa evitareSiamo esseri sociali: viviamo, giochiamo e lavoriamo con gli altri. Siamo portati a

rifuggire la solitudine, cercando conforto nelle persone che ci circondano. Ma proprio nelle relazioni interpersonali (è questo il più grande paradosso) si nascondono i nostri conflitti più profondi. Tutte le ricerche condotte in questa direzione evidenziano che le relazioni vengono mantenute (e diventano stabili) quando al loro interno sussistono, per quanto irregolarmente, sufficienti aspetti positivi per i quali vale la pena tollerare quelli negativi. Quando, cioè, sussiste e permane il cosiddetto rinforzo intermittente. La domanda è come fare ad accrescere al massimo gli aspetti positivi e ridurre al minimo quelli negativi. O creare un rinforzo che, nella sua intermittenza, alterni una prevalenza di aspetti positivi a una minoranza di aspetti negativi. L’esempio della vita coniugale fa scuola, come sempre.

All’interno delle famiglie, infatti, i conflitti non sono affatto una rarità. Sempre più spesso le coppie ricorrono ai divorzi, mentre altre volte si portano avanti unioni senza che si riesca a modificare tutti quegli aspetti negativi che, a lungo andare, hanno come conseguenza stress, fisico e mentale, o malattie e che, talvolta, degenerano in violenza, suicidi e omicidi. A risentirne sono anche i figli, che, a loro volta, ne pagano le conseguenze, anche in questo caso sul piano sia fisico che mentale che comportamentale (se, ad esempio, in famiglia i conflitti vengono gestiti attraverso comportamenti violenti, alta è la probabilità che i figli ricorreranno, a loro volta, agli stessi schemi comportamentali). Di esempi di violenza nel nucleo familiare, di insanità mentale indotta tra le mura domestiche o di abusi su minori perpetrati dai genitori, come degenerazione dei conflitti, ce ne sono a migliaia nelle pagine di cronaca. Il minimo comun denominatore di tutti questi conflitti, come anche di quelli generazionali genitori-figli, è il problema del corto circuito relazionale, della mancanza di comunicazione, con pesanti ricadute sugli aspetti sociali degli individui

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coinvolti, compreso un sostanziale declino della produttività in ambito lavorativo. Fu proprio lo scienziato americano Paul Watzlawick, che molto ha contribuito sia nello studio della comunicazione che delle malattie mentali, a dimostrare come il deficit delle relazioni spieghi in parte l’insorgere di pesanti patologie come la schizofrenia, la psicosi da cui erano effetti (e lo sono tuttora) i più noti killer seriali della storia dell’umanità. Ecco perché studiare la comunicazione e cercare la salvezza in relazioni sane e produttive. A partire dal nucleo fondamentale che è la famiglia.

Oltre due millenni fa gli antichi romani concepirono un sistema organizzativo a piramide, in cui gli ordini giungevano dall’alto.

Con la rivoluzione industriale il sistema piramidale venne adottato anche in economia ed applicato nella gestione delle fabbriche. All’apice della piramide vi erano i proprietari industriali, alla base gli operai. I supervisori sedevano in uffici dalle pareti di vetro dai quali sorvegliavano gli impianti industriali e gli operai. I capisquadra, che rispondevano ai supervisori, lavoravano allo stesso piano in cui erano situati gli impianti e si relazionavano direttamente con gli operai, spesso in modo violento. La piramide non serviva tanto a garantire l’efficienza aziendale, quanto piuttosto a frapporre una distanza tra l’alta borghesia e la classe operaia. Tale struttura venne adottata da governi, nelle chiese, nelle scuole, negli ospedali e in oltre altre organizzazioni.

Questo sistema ha mostrato molte criticità negli anni. Un numero sempre crescente di persone ha riconosciuto la necessità di fondare luoghi di lavoro più democratici, in cui i dipendenti possano cominciare ad agire più come manager e i manager più come dipendenti. Oggi sappiamo che servono nuove competenze affinché i leader inizino ad intrecciare relazioni fondate sulla comprensione del comportamento umano e delle motivazioni che risiedono alla base. Poiché, nel momento in cui gli individui ricevono un’adeguata formazione e quando viene data loro l’opportunità, essi sanno benissimo autogestirsi. Un esempio eccellente in tal senso è lo stabilimento di motori aerei della General Electric situato a Durham nel Nord Carolina, dove il modello utilizzato è quello della gestione paritetica, basato sui gruppi di lavoro. Il capo è più un coordinatore che un dirigente o supervisore. Non vi sono incentivi per rendimento, nessun premio eccetto la soddisfazione di svolgere bene il proprio lavoro. Gli impiegati ricevono, come unica direttiva, la data in cui il motore successivo dovrà essere pronto per la consegna. Tutte le altre decisioni vengono prese autonomamente dalle squadre di lavoro composte da gruppi ristretti di persone.

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Se queste procedure riescono a produrre risultati sorprendenti in un grande stabilimento manifatturiero, pensa cosa si potrebbe ottenere con le coppie, con i nuclei familiari, nelle classi scolastiche, nelle piccole aziende, eccetera.

Ecco, dunque, le abilità che vanno affinate per migliorare i rapporti interpersonali:

• sapere come e quando ascoltare;• sapere come parlare in modo opportuno e quando;• imparare a gestire i conflitti in modo che nessuno finisca col sentirsi perdente

e, quindi, risentito;• riuscire stabilire e mantenere un dialogo aperto con le persone cui si tiene

maggiormente.Inoltre, poiché la comunicazione interpersonale ha la facoltà di costruire o

distruggere le relazioni, a seconda che la comunicazione sia aperta e onesta o scadente, un corretto uso di appropriati modelli di comunicazione ci permette di comprendere gli altri e di essere compresi, nonché migliora la qualità della nostra vita, personale e professionale.

Se voglio che tu mi conosca devo parlarti. E mi aspetto comprensione. Ma per far sì che tu mi comprenda, devo essere trasparente, aperto, devo rivelare chi sono e cosa desidero veramente. Un esempio sarà più eloquente di mille spiegazioni.

Durante la pausa pranzo in ufficio, un amico si siede accanto a me e dice: “Sono stufo di questo posto. Non ci sono prospettive di crescita per nessuno qui dentro. Le uniche persone che ottengono una promozione sono gli amici del management o cervelloni universitari come Marco. Non è giusto”.

Risposta: “Capisco, Luca. Perché non frequenti qualche corso serale? Sei brillante come Marco ma forse ti senti soltanto un po’ demotivato. O magari c’è qualcos’altro che non va”.

In questa risposta suggerisco al mio interlocutore cosa fare, come se fosse talmente incapace da non escogitare da sé una soluzione. Come se non bastasse, rincaro la dose insinuando che c’è in lui qualcosa che non va. Per sentirsi compreso, invece, Luca avrebbe bisogno di qualcuno che gli faccia da specchio, che lo aiuti a portare a termine le proprie riflessioni, lasciandolo parlare e riparlare, attraverso un ascolto attivo, quello che Carl Rogers definiva minimal evaluative feedback (feedback valutativo minimo). Nell’esempio, dunque, rispondere “Sei avvilito riguardo alle possibilità di avanzamento qui dentro” avrebbe permesso a Luca di sentirsi compreso, ciò di cui aveva realmente bisogno. La difficoltà maggiore di Luca, probabilmente,

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risiede nel fatto che le esperienze, i sentimenti e persino i pensieri non possono essere comunicati in modo esatto, specialmente se, dall’altra parte, manca una predisposizione ad una identificazione empatica. Luca si sente avvilito triste ma non riesce a trasmettere il suo stato d’animo per quanto disperatamente desideri farlo. E qui entra in gioco la comprensione dell’altro, la mia in questo caso. Il ruolo di chi ascolta, infatti, non consiste solo nel sentire le parole ma anche nel decodificare ciò che l’altro riferisce sulle proprie esperienze, pensieri e sentimenti. Il feedback (o retroazione) è, dunque, nell’accezione rogersiana, l’unico strumento che ho a disposizione per verificare la precisione della codifica del messaggio globale. Se il mio feedback rispecchia il significato attribuito da Luca, egli replicherà con commenti quali “già” o “be’, sì” e continuerà a parlare. Se il mio feedback non è esatto, invece, l’interlocutore mi correggerà.

Il punto, che è un dato di fatto, è che abitualmente la gente risponde ai problemi confidati dagli altri attraverso barriere che bloccano i canali della comunicazione, rivelando i pensieri di chi ascolta piuttosto che trasmettere comprensione. Così, finiamo per consolare, compatire, consigliare, ammonire, etichettare, eludere, sentenziare. Tutte barriere al processo di comunicazione che impediscono di sentire fino in fondo quello che gli altri ci stanno dicendo. Per comprendere ciò che il mio interlocutore pensa e prova, invece, occorre accettare i pensieri e i sentimenti della persona che li sta vivendo, senza frapporre gli ostacoli verbali che sanno di non-accettazione. Tacere, pertanto, è spesso il più importante strumento di ascolto. E prestare attenzione mentre si tace. Il che è troppe volte ignorato dai più. Se ho difficoltà a tacere, inviare messaggi rassicuranti di accettazione (“Capisco”, “Davvero?”) può essere un giusto compromesso.

Allora, riparto da capo, nell’esempio del mio dialogo con Luca. E, per pormi, in un ascolto attento:

• mi metto di fronte a Luca mentre sta parlando;• stabilisco un contatto oculare con lui;• mantengo una postura aperta restando appena fuori dal suo spazio personale

(la cosiddetta zona cuscinetto).Dovrò considerare, inoltre, che la distanza ideale dal mio interlocutore, per un

ascolto attivo, è tra i 90 e i 180 cm. Tale distanza va adeguata al livello di intimità richiesto dalla conversazione: sarà minore davanti ad un maggior livello di confidenza e viceversa.

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Se una persona ha difficoltà ad iniziare a parlare, ancora, si può ricorrere a frasi-invito che offrono l’opportunità di parlare (“Sembri triste. Ti va di parlarne?”) o di affermazioni come un semplice “Dimmi che ti succede”.

Un altro utile strumento per una comunicazione efficace basata sulla comprensione è il feedback. Per poter capire chi ci parla, i tuoi pensieri devono concentrarsi su ciò che il tuo interlocutore sta provando, sui suoi pensieri e sentimenti. I messaggi reali, infatti, spesso si nascondono dietro alcuni codici. Vediamo degli esempi.

1. Un vicino di casa, angustiato, ti dice: “Odio il mio lavoro. È noioso e vorrei licenziarmi ma ho i figli all’Università e altre spese consistenti. E poi dove troverei un altro lavoro pagato così bene?”.

2. Una collega inquieta dice: “Ho tentato di smettere di fumare centinaia di volte ma proprio non ci riesco. Che devo fare?”.

3. Tua figlia ti confessa tra i singhiozzi: “Sono stata con Davide per due anni e ora dice di voler uscire con altre ragazze. Cosa devo fare?”.

Quali feedback puoi dare ai tuoi interlocutori in queste differenti situazioni? Riqualificare la domanda espressa farà sentire il tuo interlocutore accettato e compreso.

1. Così, nel primo esempio, potresti affermare: “Vorresti avere un lavoro più interessante ma cambiarlo adesso ti sembra rischioso considerando tutti gli impegni che hai”.

2. Nel secondo esempio: “Sei avvilita perché tutti i tentativi che hai fatto per smettere di fumare sono falliti”.

3. Infine, per rispecchiare i sentimenti e i pensieri espressi da tua figlia, potresti dire: “Ti senti ferita e non sai cosa fare”.

Spesso, però, siamo tentati di sostituirci al nostro interlocutore, per alleviare le sue sofferenze. Ma l’atteggiamento del salvatore finisce con l’avere ripercussioni negative su tutte le relazioni. Salvare a tutti i costi è un atto egoistico e significa vedere gli altri come incompetenti, inadeguati, inefficaci e come vittime indifese delle circostanze. Peraltro, tanto più aiuto riceverà il tuo interlocutore, tanto più si sentirà indifeso. Ecco perché il tuo atteggiamento deve essere quello di assistere (leggi: fare qualcosa assieme a lui), non quello di salvare, di sostituirti a lui.

Naturalmente, è bene che tu abbia cura di evitare di: • continuare ad ascoltare se non ne hai veramente voglia o tempo per farlo

(anche perché trasparirebbero così i tuoi segnali non verbali di irrequietezza o insofferenza);

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• ascoltare se non provi un reale sentimento di accettazione nei confronti di chi parla e vorresti solo che cambiasse;

• impiegare le competenze di ascolto al fine di raccogliere informazioni che, in qualche modo, puoi utilizzare successivamente per tuoi scopi;

• usare l’ascolto come una tecnica per dimostrare la tua abilità;• esagerare (o minimizzare) i sentimenti del tuo interlocutore;• dimostrati frettoloso e anticipare l’interlocutore;• associare al messaggio udito consigli o pensieri propri;• ripetere pedissequamente il messaggio dell’interlocutore;• interpretare o analizzare il messaggio udito;Piuttosto, abbi cura di utilizzare un linguaggio adeguato al confronto, ovvero un

modo di porti che:1. generi la probabilità di un cambiamento utile;2. non sminuisca l’autostima del tuo interlocutore;3. non leda la relazione;4. non specifichi alcuna particolare soluzione.

Cambiare il proprio modo di rivolgersi alle persone, ce lo siamo detto, può migliorare straordinariamente la qualità dei rapporti. Per questo, apportare dei piccoli cambiamenti agli stilemi comportamentali standard può, insieme ai consigli appena resi, offrire grandi chance di rendere efficace il modo di interagire (che è alla base di una vita felice). Specialmente quando ci sentiamo attaccati, anche se può apparirti difficile.

Davanti a comportamenti inammissibili, ad esempio, noi tutti siamo soliti reagire nei confronti di chi ci ha “lesi” criticando (o aggredendo) le persona o il loro carattere, anziché il comportamento indesiderato in sé. Ma otterremmo risultati migliori sostituendo il linguaggio in seconda persona con un linguaggio in prima persona, parlando di noi stessi, di ciò che pensiamo, sentiamo e desideriamo, poiché questo ci avvicina alla comprensione degli altri e fa capire loro di cosa ci stiamo lamentando, chiarendo in modo non accusatorio come l’atteggiamento subito ha influito negativamente su di noi e rivelando il sentimento provato in seguito a condotte sgradite. Parla, dunque, di te e di come ti senti in situazioni simili, piuttosto che attaccare sul piano personale il tuo interlocutore. Astieniti, inoltre, dall’etichettare il comportamento degli altri che vedrai come prevaricante con avverbi assolutistici, come “sempre” o “mai”, ed evita di pronunciare frasi o parole emozionalmente cariche: scopo del confronto non è punire né impartire una lezione, bensì fare in modo

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che il comportamento venga modificato. Se lo farai, ti accorgerai che cambiando il tuo linguaggio otterrai il cambiamento anche negli altri. E non si porrà più il problema, diffuso invero, di affrontare il prossimo. Non dimenticare, infatti, che quasi tutti hanno un bagaglio di esperienze negative legate all’affrontare e all’essere affrontati: alcuni ritengono che gli altri non siano abbastanza forti emozionalmente per gestire i confronti, altri temono di confrontarsi per paura di non essere benvoluti. Ma quanto sarebbero migliori i rapporti se tutti comprendessero che una corretta comunicazione è il toccasana anche nelle relazioni conflittuali? Sarai d’accordo con me che, potenziando le capacità relazionali anche tu, forse non cambierai il mondo ma puoi cambiare te stesso e chi ti sta intorno. E, comunque, per quello che puoi, sta a te iniziare.

Nel corso della storia, molti studiosi si sono dedicati al tema della gestione dei conflitti nelle relazioni.

All’inizio del ventesimo secolo, ad esempio, John Dewey, noto filosofo e pedagogista statunitense vissuto tra le seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento, iniziò ad interessarsi e ad analizzare l’approccio solitamente impiegato dalle persone per risolvere i problemi. Egli osservò che, a prescindere dalla natura dei problemi, il processo impiegato per risolverli era sempre lo stesso. Prima venivano escogitate le varie soluzioni possibili, poi si sceglieva la soluzione più idonea e la si collaudava. Se funzionava, il problema poteva considerarsi risolto. In caso contrario, si ripiegava su di una soluzione diversa. Se definiamo, dunque, come problemi i conflitti che si susseguono nei nostri molteplici rapporti, allora diventa possibile usare una versione di questo naturale processo di risoluzione dei problemi per escogitare soluzioni creative che soddisfano i bisogni di tutti. In questo modo, nessuno finirà col perdere.

Thomas Gordon, lo psicologo americano, scomparso nel 2002, fondatore del Metodo omonimo di insegnamento efficace, ispirandosi al modello di problem solving di Dewey, suggerisce di adottare una sorta di processo in sei fasi.

Con questa breve disamina completo la trattazione sull’argomento. Fase I: definire il problema in termini di bisogni non soddisfattiGli uomini sono abituati a ragionare in termini di opposizione, di vittorie e di

sconfitte. Negli anni ’50 un giovane psicologo, Abraham H. Maslow, si dedicò allo studio del modo in cui le persone diventano sane e produttive. Le persone di successo, come Ruth Benedict, Albert Schweitzer, Eleanor Roosevelt, Winston Churchill e altre che sembravano vivere pienamente la propria vita, diventarono così oggetto del suo

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studio. Egli scoprì che queste persone si assomigliavano per molti aspetti: non dovevano preoccuparsi della sopravvivenza personale o del senso di continuità, avevano numerosi amici, relazioni amorevoli e solidali, carriere valide e stimolanti.

Ciò che Maslow apprese da questo studio, fu che i suoi soggetti avevano tutti i medesimi bisogni. Così, egli classificò i bisogni in una gerarchia in cui i bisogni fisiologici di sopravvivenza (cibo, indumenti, aria, rifugi, eccetera) venivano classificati come primari, seguiti dai bisogni di sicurezza e, quindi, dai bisogni sociali e cognitivi. Egli segnalò che quando i due bisogni primari di sopravvivenza e di sicurezza sono soddisfatti, affiorano alla coscienza il bisogno di relazionarsi e di appartenere, da lui definiti bisogni sociali e, appunto, di appartenenza. Quando, poi, le persone sviluppano buoni rapporti, affiora alla coscienza un quarto insieme di bisogni, quelli di stima e di autostima, l’impulso a migliorarsi e ad auto definirsi tramite i propri conseguimenti. Infine, all’apice della sua piramide, Maslow posizionò quella che egli definì auto attuazione, la realizzazione del sé, l’impulso a sviluppare al massimo le proprie capacità, a perseguire le proprie ambizioni, a diventare la persona unica che potenzialmente si è. Per approfondire, ti invito a riprendere la sezione che tratta l’argomento.

Piramide di Maslow

Maslow, i n o l t r e , s i

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SOPRAVVIVENZA

SICUREZZA

SOCIALITÀ/APPARTENENZA

STIMA

AUTOREALIZZAZIONE

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interessò molto anche alle esperienze vissute dalle persone in stato di deprivazione, ossia quando i bisogni restano insoddisfatti. Nell’adattamento della sua famosa piramide, ecco le trasformazioni che ne derivano:

Effetti della deprivazione

Nell’esempio, se restano insoddisfatti i bisogni primari di sopravvivenza, le persone vivono l’esperienza della paura; se la deprivazione è sul piano della sicurezza, le persone vivono l’esperienza dell’ansia. E così, ad un bisogno di socialità insoddisfatto si sostituisce un senso di alienazione e solitudine. Se manca la stima, si vive l’esperienza dell’inutilità e della frustrazione. Per finire, se non si soddisfa il bisogno di auto realizzazione, si finisce per sentirsi incompleti.

Per questo motivo, molti comportamenti che appaiono fuori dalla norma non sono altro che tentativi di soddisfare qualche bisogno e non incappare nell’esperienza opposta della deprivazione. Tenerne a mente gli effetti può spiegare talune azioni degli individui e indicarti nuovi chiavi d’accesso alle ragioni del comportamento umano. Se è vero, infatti, che quest’ultimo è guidato dal perseguimento dei bisogni, puoi più facilmente comprendere come l’insoddisfazione e la deprivazione degenerino molto spesso in atteggiamenti patologici, resi intellegibili dalla modalità di relazionarsi agli altri.

Brevemente, per completezza d’informazione, passo in rassegna gli altri cinque step del processo proposto da Thomas Gordon.

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PAURA

ANSIA

ALIENAZIONE/SOLITUDINE

INUTILITÀ/FRUSTRAZIONE

INCOMPLETEZZA

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Fase II. Durante questa seconda fase, svolta in gruppo, vengono lasciate defluire liberamente le idee di tutti con la scopo di far emergere quante più soluzioni possibili. Tecnicamente, questa attività è chiamata brainstorming. Nel corso del suo svolgimento, è necessario evitare categoricamente ogni tipo di valutazione, così da non porre alcun freno alla creatività e uscire dagli schemi, vedere le cose in modi nuovi, forse unici.

Fase III. Nella terza fase arriva il momento per esprimere le proprie valutazioni. Quelle non gradite, anche da un solo membro del gruppo, vengono scartate per arrivare a una o più soluzioni condivise.

Fase IV. È la fase della decisione, in cui occorre verificare che ci sia un’idea che tutti son disposti ad accettare. Non importa che si sia ardentemente entusiasti, l’importante è che vi sia la disponibilità a mettere in atto una soluzione alla prova. In mancanza, risulta necessario fare un passo indietro e ripartire dalla Fase I o dalla Fase II.

Fase V. È la fase della programmazione, della realizzazione e dell’accordo. Presa la decisione, occorre stabilire quali attività dovranno essere svolte, da quali persone ed entro quali limiti di tempo. È consigliabile stipulare un contratto da firmare e distribuire in tante copie per quante sono le persone coinvolte nel processo di problem solving. Tuttavia, se il conflitto riguarda due persone, non sono necessari contratti formali.

Fase VI. L’ultima fase è quella della verifica. Nei conflitti familiari e lavorativi più complessi è opportuno stabilire un momento per verificare (e valutare di nuovo) se i bisogni di tutti siano stati effettivamente soddisfatti. In caso contrario, è compito del leader ribadire che non è il gruppo ad aver fallito ma solo la soluzione. Nel qual caso, occorre sperimentare nuove soluzioni o ricominciare da capo.

Tutti ci sperimentiamo quotidianamente con conflitti da risolvere, sia nella sfera privata che in quella professionale. Se anche tu proverai ad applicare questo modello in fasi, ti accorgerai che è un processo che funziona nella totalità delle situazioni in cui ci si trovi ad affrontare un disaccordo. L’importante, però, è che tu garantisca un ascolto attento dell’altro e che il linguaggio utilizzato sia coerente e appropriato, affinché già nella circolarità della comunicazione vi siano le premesse per instaurare relazioni efficaci, improntate alla soluzione dei problemi.

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Come abbiamo visto nella sezione precedente su relazioni e comunicazione, il nostro corpo non comunica solo attraverso la parola ma emette e riceve una miriade di messaggi anche attraverso il linguaggio del corpo, il cosiddetto non verbale. Comunichiamo attraverso un gesto, una postura, un atteggiamento. Persino l’individuo che volge le spalle al gruppo non sfugge a questa dinamica, perché anch’egli sta comunicando qualcosa: la sua indisponibilità a comunicare. Paul Watzlawick nel volume Pragmatica della comunicazione umana definisce così il campo della comunicazione: “La comunicazione include le posizioni del corpo, i gesti, l’espressione del viso, le inflessioni della voce, la sequenza, il ritmo e la cadenza delle stesse parole e ogni altra espressione non verbale di cui l’organismo sia capace, come pure i segnali immancabilmente presenti in ogni contesto in cui ha luogo un’interazione.”

Oltre ad essere scambio d’informazioni, la comunicazione è anche processo di influenzamento reciproco. E, dal momento che i messaggi non verbali giocano in tale processo un ruolo determinante, diviene importante imparare ad usarli più efficacemente con gli altri. Molto spesso, infatti, essi sfuggono al nostro controllo e alla nostra consapevolezza e vengono assorbiti inconsapevolmente dal ricevente.

In questa sezione, partendo dalle teorie e dalle ricerche compiute sulla comunicazione non verbale, esaminerò il tema della decodificazione dei messaggi non verbali e analizzerò i processi di influenzamento che avvengono nell’interazione tra due o più persone. Per scoprire, infine, come il nostro corpo sia il primo a smascherarci nel momento in cui tentiamo di falsare un messaggio per ingannare gli altri o noi stessi.

Le premesse e le teorie della comunicazione non verbale Si suppone da tempo che il linguaggio abbia avuto origine dai gesti. Solo in tempi

recenti ci si è accorti che l’espressione verbale ha tutt’altro che soppiantato i gesti e che proprio questi ultimi sono parte integrante della facoltà di parlare con proprietà e scorrevolezza. Una delle più recenti e accreditate osservazioni riguardo la CNV, la dobbiamo allo psicologo Bernard Rimé dell’Università di Louvain, in Belgio, autore del libro La dimensione sociale delle emozioni, il quale rileva che, quando si gesticola

LA COMUNICAZIONE NON VERBALE

SEZIONE 2

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nel dire qualcosa, il movimento anticipa sempre la parola. In un recente studio in cui i soggetti erano immobilizzati, constatò come questi ultimi, parlando, avessero difficoltà ad esprimersi e provassero molto spesso la sensazione di avere la “parola sulla punta della lingua”. L’indagine ha dimostrato che, impedendo ai partecipanti di muoversi, l’eloquio diventa più povero, più insipido, l’articolazione delle parole appare più stentata e gli errori di pronuncia aumentano. Sempre nella stessa ricerca, Rimé evidenzia che numero e ostentazione nei gesti cambiano in relazione all’argomento di conversazione: sono minori quando si ci riferisce a un concetto astratto; per contro, sono più vivaci ed espressivi mentre si descrivono scene, azioni o oggetti concreti. Inoltre, se si devono illustrare gli aspetti spaziali di qualcosa e si è impossibilitati o inibiti ad usare dei gesti, il discorso risulta più impreciso e meno particolareggiato. Vuoi fare una prova? Chiedi ad un tuo amico di darti informazioni stradali per raggiungere, ad esempio, un museo della tua città: mentre te lo spiega, chiedigli di non articolare le mani e vedrai.

Un esperimento condotto sul rapporto tra linguaggio e gesti da Krauss e Morsella, psicologi alla Columbia University a New York, ha gettato nuova luce sull’argomento. I due ricercatori, durante un test per la registrazione della tensione muscolare, applicarono degli elettrodi all’arto superiore dominante (il braccio destro, in genere) di soggetti seduti, ai quali venivano lette delle definizioni di utensili, cose e idee. Successivamente, veniva chiesto loro di dire il nome dell’oggetto a cui si riferiva la definizione. Dall’esame delle risposte e dal confronto con gli elettromiogrammi, i ricercatori hanno potuto osservare che i termini concreti suscitavano una maggiore contrazione nei muscoli dell’arto dominante. Peraltro, constatarono anche che, benché tensione e movimento dell’altro braccio non fossero misurati, anche questo veniva mosso e che i movimenti erano tutt’altro che scomposti. Anzi, erano realizzati in modo tale da fornire una raffigurazione plastica del termine cercato oppure dei movimenti che si compiono nell’afferrarli o nel farne uso (così, ad esempio, nell’atto di recuperare il termine pianura, i soggetti muovevano la mano a raggiera e nel rievocare il termine spiedo, eseguivano una rotazione con il pugno semichiuso).

Per spiegare queste interrelazioni, gli autori hanno abbracciato la tesi elaborata dall’équipe di neurologi dell’Università Cattolica di Roma, capitanata da Guido Gainotti: sulla base di osservazioni su individui che avevano subito danni cerebrali, questi studiosi ritengono verosimile che, quando apprendiamo il significato di un oggetto, lo archiviamo nella memoria assieme alle azioni e alle contrazioni muscolari che compiamo per usarlo o per comprenderne il funzionamento. Così, quando ci troviamo a richiamare a mente il suo nome, recuperiamo in realtà l’intero complesso

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di informazioni ad esso legate. In altre parole, non si attiva solo l’area linguistica del cervello ma anche quella motoria e pre-motoria dove, immagazziniamo le sequenze di azioni fra loro coordinate. L’evocazione nel cervello del movimento, dunque, mette automaticamente in moto i muscoli e ci spinge ad accennare perlomeno parte della sequenza. E questa, a sua volta, diventa lo spunto per ricordare il nome dell’oggetto a cui è riferita quella data azione.

Approccio allo studio della comunicazione non verbale A partire dagli anni ‘60, la comunicazione non verbale è stata oggetto di

numerose ricerche da parte di psicologi sociali, psichiatri, antropologi, ipnotisti ed altri specialisti. Alcune di queste ricerche hanno avuto origine da studi sulla comunicazione tra gli animali, altre da studi sulla patologia nella comunicazione umana (a partire da Freud, per proseguire con Reich e Lowen), altre ancora da studi su specifiche situazioni sociali (Goffman). Tutti i risultati di queste ricerche hanno dimostrato l’importanza e la complessità della CNV.

Lo psicologo inglese Michael Argyle, nel volume Il corpo e il suo linguaggio. Studio sulla comunicazione non verbale, afferma testualmente che “nel passato è stata attribuita troppa importanza al linguaggio, che il linguaggio è notevolmente dipendente e strettamente intrecciato alla comunicazione non verbale e che vi sono molte cose che non si possono esprimere adeguatamente con le parole”. Per verificare la concretezza di queste affermazioni è sufficiente considerare, per esempio, l’importanza che rivestono la gestualità e la dizione nella recitazione di un copione teatrale: a dar colore e corpo al testo drammatico, rendendo chiara una frase ambigua e viceversa, sono l’espressione dell’attore, la sua abilità mimica, il tono e le sfumature della voce. Nel quotidiano, però, reduci dalle tante norme sociali e convenzioni culturali che regolano e inibiscono il nostro comportamento fin dalla nascita, accade spesso che tentiamo di controllare la nostra capacità espressiva e le nostre emozioni. Il che spiega l’affermazione di Goffman che sottolinea che “la repressione delle emozioni non appropriate è così generale che dobbiamo proiettarci alle violazioni di queste convenzioni per renderci conto del loro normale funzionamento” (Goffman, 1979).

Argyle distingue tra la comunicazione propriamente detta, in cui i segnali sono intenzionali e diretti ad un fine, e i segni, che sono semplicemente risposte comportamentali o fisiologiche (come il rossore in viso, ad esempio) da cui un osservatore può trarre informazioni. Lo stesso Argyle ammette, però, che è molto difficile decidere se un particolare segnale non verbale si proponga di comunicare

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oppure no. Lo stesso segnale, infatti, può essere usato sia come comunicazione che come segno, come, ad esempio, il tipico accento di una classe agiata.

Un ruolo di tutto rispetto nell’elaborazione di alcune ipotesi di classificazione funzionale della comunicazione non verbale è occupato da Ekman e Friesen, studiosi del comportamento non verbale, soprattutto in riferimento ai processi psicopatologici. Secondo questi studiosi, particolarmente noti per le ricerche condotte in Nuova Guinea nel 1967 sull’universalità delle emozioni, il comportamento non verbale ha cinque funzioni:

1. può essere considerato innanzitutto come un linguaggio di relazione e mezzo primario per la segnalazione di mutamenti di qualità nelle relazioni interpersonali;

2. rappresenta l’espressione e la comunicazione di emozioni; 3. ha una funzione simbolica, cioè esprimere, attraverso il linguaggio del corpo,

atteggiamenti che comunicano informazioni sull’immagine del sé. Secondo gli studi di Ekman e Friesen, infatti, alcuni tipi di posture e di movimenti dell’individuo evidenziano gli atteggiamenti verso il proprio corpo e verso la realtà circostante. L’osservazione di questi atteggiamenti ricorrenti nel comportamento costituisce un mezzo per comprendere la struttura del carattere;

4. ha una funzione meta-comunicativa. In questo senso (letteralmente, il termine meta-comunicazione significa comunicazione sulla comunicazione e indica tutti gli aspetti di relazione, gli aspetti di senso, che caratterizzano la comunicazione analogica e si distinguono dal contenuto neutro, gli aspetti di significato, che, viceversa, caratterizzano la comunicazione digitale), il comportamento non verbale, essendo meno soggetto del linguaggio alla censura inconscia e alla falsificazione consapevole, offre ineludibili elementi per definire una relazione e interpretare il significato delle comunicazioni verbali;

5. la comunicazione non verbale ha infine una funzione che riguarda la sua coerenza rispetto al discorso e, a sua volta, è suddivisa in altre cinque specifiche caratterizzazioni (o manifestazioni):

• la ripetizione, quando il non verbale esprime lo stesso significato delle parole ed è congruente al linguaggio verbale;

• la contraddizione del messaggio verbale attraverso un comportamento incongruente. Può essere intenzionale (ad esempio, un complimento pronunciato con un tono di voce sarcastico) o inconsapevole (ad esempio, quando qualcuno dichiara di non essere arrabbiato battendo i pugni sul tavolo);

• la complementarietà, quella che possiamo notare, ad esempio, quando un sorriso accompagna una lode;

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• il rinforzo (l’accentuazione) del messaggio espresso verbalmente, come nel caso in cui una minaccia viene rafforzata da gesti e toni di voce che vogliono incutere paura;

• la regolamentazione e la sincronizzazione del flusso comunicativo. In questa manifestazione i turni di eloquio vengono regolati attraverso la mimica facciale, i cenni del capo, lo sguardo e il paraverbale.

La decodificazione dei messaggi non verbali Le origini del comportamento non verbale possono aiutare a chiarire la

questione legata alla decodificazione dei messaggi. Da una parte, infatti, la matrice biologica ed emozionale svela alcuni codici legati strettamente a caratteristiche di tipo etnico, razziale, sociale, fino al simbolismo artistico e mistico religioso. Di diversa origine sono, viceversa, altri codici legati a precisi e circoscritti contesti sociali, nei quali assumono le caratteristiche di messaggi chiari e inequivocabili (ad esempio, la gestualità legata ai rituali di vendita in una casa d’aste o in Borsa, laddove i segnali sono di immediata comprensione ma si riferiscono ad un codice stabilito per comunicare in quei determinati luoghi). Tra i comportamenti non verbali caratterizzanti determinati contesti, occorre menzionare altre modalità strettamente connesse alle usanze sociali di determinate popolazioni o classi (in genere, veri e propri gesti rituali che scandiscono determinati momenti o rappresentazioni della vita quotidiana, come come, ad esempio, i gesti di saluto negli incontri), i codici non verbali che hanno origine dai gruppi (come i saluti di riconoscimento tra i membri di movimenti politici) e tutti quelli che assumono precisi significati in determinati rituali di tipo religioso (come durante le celebrazioni della Santa Messa).

La decodificazione dei segnali non verbali di natura biologica ed emotiva rimane, senza dubbio, la più difficile e complessa, per via delle caratteristiche peculiari di ogni individuo, per il criterio di volontarietà o di involontarietà di questo tipo di comunicazione, nonché per l’autocensura dell’individuo nell’ambiente sociale e per l’ambiguità che la comunicazione non verbale può assumere, se abilmente manipolata. Molti, tuttavia, sono i metodi d’indagine che sono stati utilizzati per tentare di decodificare i segnali non verbali legati all’espressione di stati emotivi. Tra i più noti, l’encoding e il decoding.

Il metodo delle variabili esterne, definito anche encoding, è praticato soprattutto dagli psicologi sociali. Consiste principalmente nell’individuare le relazioni tra determinati aspetti e segnali del comportamento non verbale e altri elementi che contribuiscono, appunto, a codificarli (come i tratti di personalità, altri segnali non

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verbali, il contenuto dell’eloquio, eccetera). Talune applicazioni del metodo encoding si basano sul “gioco del ruolo” in cui il conduttore propone al soggetto di assumere un certo ruolo o un atteggiamento nei confronti di un interlocutore reale o immaginario per verificarne la coerenza degli elementi verbali con tutti i segnali e gli atteggiamenti non verbali.

Altro metodo sperimentale è il decoding o comunicativo, che ha lo scopo di decodificare, appunto, tutti quegli elementi del comportamento non verbale che inconsapevolmente viene trasmesso agli altri. Il metodo, dal punto di vista della sua applicazione finalizzata a registrarne le evidenze, consiste nel sottoporre al giudizio di alcuni osservatori determinati aspetti del non verbale, con l’ausilio di appositi strumenti (in genere, linguaggio del corpo ed espressione mimica delle emozioni, catturati da audiovisivi e fotografie): agli osservatori viene richiesto di esprimere le sensazioni trasmesse dal non verbale o da un atteggiamento relazionale, al fine di decodificare le caratteristiche di personalità dei soggetti in interazione.  Questo metodo viene definito anche comunicativo, perché riguarda le valutazioni che i partecipanti fanno su ciò che il comportamento non verbale comunica agli altri. L’uso del termine comunicativo non implica, tuttavia, che la persona agente (l’emittente) abbia effettivamente l’intenzione di comunicare qualcosa col comportamento esaminato. Al segnale non verbale ed al comportamento, inoltre, viene attribuito valore comunicativo reale se gli osservatori concordano sul significato espresso dall’altro (ma, naturalmente, neanche l’ accordo tra gli osservatori sul significato di un certo comportamento garantisce l’esattezza dell’interpretazione).

L’orientamento recente dell’approccio allo studio della comunicazione non verbale suggerisce, oggi, ragionevolmente, un uso combinato dei due metodi descritti.

I fattori d’influenzamento nei processi di comunicazione non verbale Come abbiamo visto, la comunicazione implica un rapporto di interdipendenza

tra i soggetti che interagiscono, per quanto possa essere breve e superficiale. Questa interdipendenza è causa ed effetto di processi di influenzamento reciproco, come evidenziano le più recenti ricerche in ambito psicologico con particolare riferimento alle dinamiche della comunicazione, laddove i modelli ricorrenti individuati (l’imitazione, il rinforzo e l’equilibrio) assumono la connotazione di schemi di comportamento ricorrenti che acquisiscono significato nella totalità del contesto. Come afferma Solomon Asch, psicologo polacco naturalizzato statunitense, vissuto nel secolo scorso, ideatore dell’esperimento di psicologia sociale (che prende il suo nome) su di un campione di soggetti, noi ci influenziamo l’un l’altro non come fa il

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parametro modificando chimicamente l’ambiente che lo circonda, né come fanno le formiche a mezzo dell’odorato, ma a mezzo di emozioni e di pensieri che ci pongono in correlazione con le emozioni e i pensieri degli altri (Asch, 1968).

• L’imitazione Secondo quanto affermano Renzo Canestrari e Pio Enrico Ricci Bitti, le ricerche

sull’imitazione nell’interazione tra due persone hanno dimostrato che alcune modalità e caratteristiche comportamentali dell’intervistato sono da attribuire al fatto che questi si adegua e fa propri alcuni comportamenti dell’intervistatore: “...in particolare, tale rilievo è stato verificato per alcuni elementi comportamentali: la durata dell’espressione verbale; l’uso delle interruzioni e dei silenzi; il tipo di espressioni verbali usate; le parole utilizzate; i gesti e le posture, eccetera.” (Canestrari, Ricci Bitti, 1980). I comportamenti non verbali di assenso dell’intervistatore alle risposte dei soggetti, è stato anche rilevato dagli autori, sollecitano analoghi comportamenti da parte dell’intervistato. Michael Argyle ha, inoltre, dimostrato, in riferimento a questo argomento, che l’imitazione si concretizza con maggiore probabilità quando il soggetto che imita è premiato per questo suo comportamento, quando il soggetto che viene imitato occupa una posizione di potere rispetto all’altro o appare gratificato dall’imitazione o, infine, quando il soggetto che imita è piuttosto incerto sul comportamento da adottare.

• Il rinforzo L’effetto del rinforzo è stato evidenziato sul piano sperimentale in numerose

ricerche, con particolare riferimento a quelle sul comportamento nel corso dell’intervista. Le ricerche sul tema hanno fatto rilevare che se un certo atto o comportamento del soggetto intervistato è seguito da un rinforzo (o da un premio) da parte dell’intervistatore, il primo produrrà quel particolare tipo di comportamento con più intensità e frequenza. Secondo Argyle l’effetto del rinforzo si dimostra più rilevante in rapporto al tipo di rinforzo usato. In particolare, i segnali non verbali si rivelano più efficaci di quelli verbali: sorriso, cenni di assenso col capo, sguardo attento ed interessato, eccetera, possono influenzare numerosi aspetti del comportamento dell’interlocutore, come l’eloquio, il tipo di opinioni espresse, la verbalizzazione su specifici argomenti, le risposte di movimento. Altre variabili che aumentano l’effetto del rinforzo sono legate allo status dell’intervistatore, al sesso (si ottiene un effetto maggiore quando soggetto ed intervistatore sono di sesso opposto) e alla personalità del soggetto (l’effetto è maggiore in soggetti ansiosi e con alto bisogno

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di approvazione sociale). Per questo il rinforzo appare come un processo di influenzamento usato da soggetti che adottano uno stile di comportamento dominante con soggetti che assumono un comportamento di tipo subordinato.

• L’equilibrio Numerosi autori hanno applicato ai processi di interazione la teoria

dell’equilibrio, secondo la quale per ogni relazione interpersonale esiste un punto di equilibrio che risulta dall’integrazione armonica di tutte le componenti che intervengono nel processo di comunicazione. Quando una coppia di individui o un piccolo gruppo sociale (ti basti pensare ai tuoi collaboratori) elabora tecniche sociali sincronizzate in grado di soddisfare in una certa misura i bisogni di ciascuno, in quel preciso momento si sviluppa una resistenza a qualsiasi cambiamento di questo stato di cose. Ogni modificazione di una condizione di equilibrio produrrà, dunque, una sensazione di instabilità accompagnata da uno stato di tensione, finché non verrà trovato un nuovo punto di equilibrio. Ad esempio, se il signor Rossi si comporta in modo più aggressivo e meno amichevole del solito, ciò darà luogo a reazioni negative da parte del signor Bianchi, finché il signor Rossi non comincerà a temere di venir respinto ed escluso da futuri incontri. Così, il signor Rossi sarà portato a modificare il suo comportamento, mostrandosi, per un certo periodo di tempo, insolitamente simpatico e cordiale. Ancora, si può osservare che se il signor Rossi parla troppo e più del solito, ciò darà luogo a reazioni negative da parte del signor Bianchi che cercherà di contenerne la loquacità. Per tutta risposta, il signor Bianchi osserverà per qualche tempo il silenzio, a meno che non intenda rompere la situazione di equilibrio per mutarla a proprio favore o per porre fine alla relazione con il signor Rossi.

Possiamo rilevare questa ricerca naturale di equilibrio anche nelle numerose variabili che agiscono nell’espressione non verbale degli atteggiamenti interpersonali. Ad esempio, una maggiore vicinanza fisica ed argomenti molto personali vengono equilibrati da un minor uso di contatto visivo. In relazione al grado di intimità presente fra due persone, infatti, quando una delle diverse componenti del comportamento spontaneo in situazioni d’intimità risulta modificata o alterata sarà possibile notare mutamenti consequenziali nelle altre componenti relazionali al fine di ristabilire l’equilibrio.

Dall’analisi dei processi di influenzamento emerge il fatto che il comportamento di un soggetto “A” varia in risposta alla situazione, ma anche che la situazione stessa consiste nel comportamento del secondo soggetto interagente “B”, che, a sua volta,

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dipende dal comportamento del primo e così via. Cogliere questo aspetto circolare dei processi di influenzamento è quanto mai importante per comprenderne le dinamica.

La scelta delle strategie di influenzamento d i p e n d e r à necessariamente dal contesto in cui si realizza l’interazione. Infatti, se “A” controlla formalmente la situazione, potrà usare espliciti segnali verbali per dire a “B” come vuole che si comporti. In altre situazioni, i segnali verbali possono essere inaccettabili o controproducenti: non ti sarà facile, ad esempio, dire ai tuoi amici o colleghi di parlare meno o di essere meno dominanti. Ed è in queste situazioni che Argyle sottolinea l’efficacia della comunicazione non verbale: in queste situazioni vengono usati normalmente segnali non verbali di contrattazione; questi hanno il vantaggio di essere degli accenni, dei tentativi che si possono facilmente ritirare o a cui si può ricorrere per saggiare altre possibili relazioni senza imbarazzo; essi, inoltre, operano eludendo l’attenzione cosciente di entrambi i soggetti interagenti (Argyle, 1979).

È, quindi, possibile affermare sulla base di questa come di altre evidenze scientifiche affini che la comunicazione non verbale gioca un ruolo primario e fondamentale nei processi di influenzamento che avvengono durante le interazioni sociali. Ed ecco perché l’obiettivo di comunicare nel modo più efficace possibile passa per la non facile strada di una sempre più ampia presa di consapevolezza del comportamento non verbale, nostro e altrui.

Ti stai chiedendo in che modo acquisire o espandere questa consapevolezza? Le strade sono numerose ma portano alla stessa risposta. Il mio suggerimento è di fare un corso di Arti Terapie. In alternativa, andrà bene qualunque percorso di consapevolezza che ti permetta di:

1. osservare le tue modalità comunicative nel loro svolgersi nel “qui ed ora”; 2. trovare una maggior confidenza col tuo corpo, permettendogli di esprimersi al

meglio delle sue possibilità; 3. e vivere e riconoscere le tue emozioni.

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A B

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La classificazione dei segnali non verbali Il corpo parla attraverso vari segnali. Il più noto è certamente il verbale, ma non

è l’unico. In un’ideale suddivisione per utilità, immediatezza e ricorrenza (quando, ad esempio, abbiamo bisogno di formulare velocemente delle ipotesi o “impressioni” su di una persona), tra i segnali della comunicazione non verbale vanno annoverati il paraverbale (che interessa la modulazione della voce in termini di velocità, intensità, frequenza, altezza, volume, eccetera), la mimica (le espressioni del viso, come la bocca serrata, le sopracciglia aggrottate, il sorriso, eccetera), la postura (la posizione e l’uso del corpo, come accavallare le gambe, battere i piedi, stare a gambe divaricate, camminare, eccetera), la gestualità (i segnali delle braccia e delle mani, come, ad esempio, stare a braccia conserte, mani a pugno, grattarsi eccetera) e la prossemica (segnali di uso dello spazio fisico e di distanza dagli altri, come stare appiccicati o alla larga, eccetera).

Hai già incontrato tutti questi elementi nella tua quotidiana vita di relazione. Ma certamente non ti sarai soffermato su un’analisi sommaria e superficiale per esprimere un giudizio su qualcuno, basandoti solo su pochi elementi. Un’espressione del viso da sola non basta, infatti, a darci un’idea sufficientemente chiara e corretta: così, ad esempio, dalle sopracciglia aggrottate non puoi evincere se il tuo interlocutore sia teso/arrabbiato, piuttosto che attento/concentrato. Per formulare ipotesi o riportare impressioni occorrono, dunque, più elementi d’indagine, poiché solo un’osservazione più approfondita e attenta riduce il margine di errore nell’esprimere giudizi sugli altri.

Ci vogliono almeno quattro segnali concordanti e coerenti dei cinque descritti, accompagnati da domande chiuse di verifica (ad esempio, “Mi sembri arrabbiato: è così?”, “Mi sembra che non ti interessi, vero?”,“Ti fa piacere, no?”) o da domande aperte di verifica (ad esempio, "Cosa ne pensi?", "Qual è la tua opinione in proposito?"), se la situazione lo richiede e lo permette, per essere verosimilmente certi di essersi approssimati alla verità.

Così, riguardo alla prossemica, osserverai tutto ciò che si può ascoltare del modo di parlare di una persona (non ciò che dice, ma come lo dice): tono, timbro, volume e ritmo della voce sono le caratteristiche principali di una voce che può, quindi, essere acuta o grave (tono), sonora o sussurrata (volume), nasale o “a singhiozzo” (timbro), senza pause o lentissima (ritmo).

Relativamente alla postura, osserverai l’atteggiamento che il tuo interlocutore assume col corpo in un dato momento, se i movimenti cambiano o se egli modifichi la posizione del corpo (ad esempio, il tuo interlocutore potrà spostare il peso

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sporgendosi in avanti o indietro, potrà dondolarsi, variare il modo di camminare o di stare seduto).

Osservando la mimica, ti concentrerai su tutti i segnali che si possono vedere sul volto di una persona (movimenti degli occhi, posizione delle labbra, delle sopracciglia). L’espressione del volto ti dirà, ad esempio, se una persona è preoccupata, arrabbiata, triste o altro. Lo sguardo, poi, è un importante veicolo di comunicazione. Se, infatti, lo rivolgiamo ad una persona mentre le parliamo o mentre l’ascoltiamo, le comunicheremo attenzione, rispetto e la valorizzeremo: è come se dicessimo che quello che ci sta comunicando ci interessa. Al contrario, distogliere lo sguardo dall’interlocutore esprime scarso valore per ciò che l’altro sta dicendo.

Riguardo alla gestualità, osserverai tutti i gesti delle braccia e delle mani, come aprire una porta, sistemarsi i capelli, dare la mano, togliersi gli occhiali, giocare con gli anelli, impugnare le posate durante il pranzo, eccetera. Accompagnare il discorso con una gestualità morbida (movimenti lenti e rotatori delle braccia e delle mani) comunica serenità e senso di rilassamento e mette il tuo interlocutore a proprio agio.

A proposito della prossemica, sarà utile che tu faccia caso alla distanza che intercorre tra due o più persone durante un dialogo, come tra te e il tuo interlocutore in analoga situazione. Sono tre i tipi di distanza che caratterizzano le relazioni interpersonali: la distanza personale, che è quella che caratterizza i rapporti di tipo amichevole e va da cinquanta centimetri a un metro/un metro e mezzo; la distanza sociale, che caratterizza le posizioni di ruolo e va da un metro/un metro e mezzo a tre metri; la distanza pubblica, cioè quella che caratterizza le posizioni pubbliche (come, ad esempio, nel caso di una conferenza o di un comizio) che va dai tre metri in poi.

Altri segnali non verbali che ti sarà utile conoscere a termine di trattazione dell’argomento, affinché tu possa porre la giusta attenzione nell’osservazione globale del comportamento non verbale, sono:

• i segnali del busto (spalle curve, impettito, busto proteso in avanti);• i segnali sociali (abbigliamento, cosmesi);• i segnali della pelle (morbidezza o ruvidezza, calore o freddezza, tonicità e

atonicità);• i segnali di malattia (somatizzazioni come emicrania, ulcera, psoriasi);• i segnali automatici (arrossire, impallidire, sudare, accelerazione del battito

cardiaco o del ritmo respiratorio, dilatazione della pupilla).

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La fuga di informazioni non verbaliNella nostra vita sociale ci sono molte occasioni in cui vorremmo nascondere i

nostri veri sentimenti ma, in un modo o in un altro, finiamo col tradirci. Come funziona questo tradimento e perché si verifica?

Se, ad esempio, consideriamo una madre in lutto che tenta di nascondere il suo dolore, lo svelamento avviene perché non esiste una forte pressione nel verso contrario. Anzi, da tale fallimento ella trae un positivo vantaggio, in quanto se riuscisse troppo bene a nascondere il suo dolore verrebbe accusata di mancanza di sentimento, mentre se non mostrasse una qualche visibile inibizione all’espressione della sua pena, si direbbe che manca di coraggio e soprattutto di autocontrollo. Il suo è, dunque, un esempio di pseudo-inganno, dove il soggetto è contento di essere smascherato. Consciamente o inconsciamente, ella vuole che il suo sorriso forzato sia interpretato come tale. Al contrario, un imputato accusato di omicidio che sa bene di essere colpevole ma vuole provare la sua innocenza, sentirà tutto il bisogno di essere credibile. Questo, però, non assicurerà la sua riuscita. Infatti, se mentire verbalmente gli risulterà facile, controllare il corpo gli risulterà molto difficile. In generale, più facili da controllare sono le espressioni facciali. Le posture del corpo, invece, possono facilmente aprire qualche falla, perché ognuno di noi non sempre è del tutto consapevole del proprio grado di rigidezza, rilassamento o tensione da vigilanza. Tuttavia, il loro valore è fortemente ridotto dalle regole sociali che associano a determinati contesti certe pose abbastanza stereotipate: dall’imputato di un processo per omicidio, per esempio, ci si aspetta che stia in piedi o seduto in maniera piuttosto rigida, sia esso colpevole o innocente, e ciò può facilmente agire da blocco del segnale posturale. Indizi più utili ci vengono dati dai movimenti e dalle posture delle mani, dalle gesticolazioni, che, se guardate con attenzione, possono smascherare l’inganno. Di particolare interesse sono le gambe e i piedi, perché questa è la parte del corpo delle cui azioni il soggetto è meno consapevole. Spesso, però, rimangono nascosti alla vista, cosicché, in pratica, la loro utilità ne risulta fortemente limitata. È uno dei motivi per cui ad un colloquio di lavoro, in una trattativa d’affari o di vendita, ci sentiamo molto più a nostro agio dietro a un tavolo o una scrivania che faccia da schermo alla parte inferiore del corpo.

Il modo migliore per trarre in inganno un osservatore, dunque, consiste nel limitare i segnali alle parole e alle espressioni del viso. Così, nascondere il resto del corpo, oppure tenerlo così occupato in complicate procedure meccaniche che tutte le possibili “fughe” siano bloccate dalla necessità di destrezza fisica, risulta funzionale allo scopo. Ma, se vuoi smascherare un mentitore, un modo c’è. Perché chi mente ha

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una gamma di azioni preferite quasi fisse: sfregarsi il mento, far pressione sulle labbra, coprirsi la bocca, toccarsi il naso, strofinarsi una guancia, grattarsi un sopracciglio, tirarsi il lobo di un orecchio e accomodarsi i capelli. Nei tentativi di inganno ognuna di queste azioni può aumentare in maniera marcata ma due in particolare diventano frequentissime: coprirsi la bocca e toccarsi il naso. Vediamoli.

L’atto di coprirsi la bocca è semplice da comprendere: da essa stanno uscendo parole menzognere e il soggetto, con quella parte del suo cervello che si sente a disagio in proposito, invia alla mano il messaggio inconsapevole di “coprire”, ossia di nascondere ciò che egli sta facendo. Inconsciamente, il mentitore alza la mano quasi volesse usarla come bavaglio ma in qualche modo deve lasciare che le parole continuino a uscirgli dalla bocca. L’altra parte del suo cervello non può permettere che la copertura funzioni. Le menzogne verbali devono continuare a fluire. Il risultato è una fallita copertura, con l’azione mano-bocca ridotta a un contatto parziale che assume parecchie forme tipiche: per esempio, le dita a ventaglio sulle labbra, l’indice sul labbro superiore, la mano di fianco alla bocca. Ma attento: se vedi qualcuno effettuare questa parziale copertura della bocca, ciò non significa che stia sicuramente mentendo. È solo più probabile.

Molti osservatori hanno, inoltre, notato che anche il gesto di toccarsi il naso si accompagna spesso alla menzogna, benché non ne abbiamo mai rivelato le ragioni. Due sembrano, tuttavia, le possibili spiegazioni. Innanzitutto, la mano che si alza per bloccare la menzogna deve essere deviata e il naso è convenientemente vicino. Certo, si potrebbe scegliere il mento o la guancia ma, nel primo caso, la mano si fermerebbe prima della bocca e, nel secondo, dovrebbe spostarsi di lato. Il naso, invece, essendo prominente e proprio sopra la bocca, si trova nella posizione ideale, perché la mano non ha che da allungare di poco il suo movimento e continua a coprire in parte la bocca, pur dirigendosi verso il naso. Come copertura della bocca camuffata, l’azione di toccarsi il naso è diventata il gesto più sfruttato dai mentitori. Ma la sua popolarità ha un’altra motivazione. Quando arriva il momento della menzogna deliberata, infatti, c’è, anche nei bugiardi più sperimentati, un lieve aumento di tensione. Questo aumento produce piccoli mutamenti fisiologici, alcuni dei quali possono incidere sulla sensibilità del rivestimento interno della cavità nasale, provocando una sensazione di prurito. Anche se questa è quasi impercettibile, può far sì che il naso “attiri” la mano. Non dà necessariamente inizio all’azione, ma contribuisce a dirigerla verso quell’organo, una volta che la mano si è mossa per coprire la bocca e deve essere deviata.

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In genere, quando descritto funziona abbastanza ma non è una regola assoluta. La menzogna, infatti, non è la sola situazione che produce le azioni descritte. Facciamo degli esempi.

1. Due persone stanno parlando, quando, all’improvviso, una di esse esplode in un tagliente insulto. Non aspettandoselo, la persona insultata non riesce subito a replicare. Rimane ammutolita per parecchi secondi, mentre il fiume di insulti continua; poi, quando finalmente risponde, lo fa con freddezza e padronanza di sé. In questo scambio verbale c’è un momento di forte tensione: quello dell’insulto iniziale. Ed è precisamente allora che la mano della persona insultata si alza a toccare un lato del naso. È la stessa azione che già sappiamo presentarsi nei momenti in cui si mente. Ma questo soggetto non può mentire, perché tace. Molto prima che apra bocca, la mano ha lasciato il naso e, quando comincia a rispondere, egli è di nuovo freddo e composto.

2. Un uomo ne sta intervistando un altro. Dapprima fa domande facili e ottiene risposte immediate. Poi, pone una questione difficile e complessa. Esitante, l’intervistato comincia a rispondere e le sue dita si alzano a toccare il naso. Ma non si appresta affatto a mentire. La domanda non è tale da richiedere una risposta falsa: è semplicemente una questione complicata sulla quale deve riflettere.

In questi due esempi non c’è inganno, eppure il gesto di toccarsi il naso ricorda fortemente l’azione associata alla menzogna. Che cosa hanno in comune queste situazioni? Tutte includono un momento iniziale di tensione. La persona insultata si tocca il naso senza parlare ma la sua mente è scossa dall’impatto dell’attacco inatteso. Il suo cervello è in ebollizione ma esteriormente egli rimane composto. Il comportamento interiore, ovvero i suoi pensieri, e quello esteriore, ovvero la sua inattività, non concordano. Allo stesso modo, la persona cui viene posta all’improvviso una domanda difficile sperimenta una frattura fra i suoi pensieri e le sue azioni. Tenta di rispondere con calma e facilità ma il suo cervello sta furiosamente lavorando per far fronte alla complessità della questione. Anche qui, i suoi pensieri e le sue azioni esteriori non corrispondono.

Confrontando queste due situazioni con un caso di emergenza ti appare chiaro, ora, che hanno molto in comune. L’essenza dell’inganno deliberato è, appunto, che quanto avviene nel cervello non si riflette nel comportamento verbale esteriore. Pensiamo una cosa e ne diciamo un’altra. Per cui, affermando che l’azione di toccarsi il naso è un segno di menzogna, semplifichiamo forse eccessivamente le cose. Ciò che si dovrebbe dire, invece, è che il toccarsi il naso ed altre azioni analoghe sono il riflesso di una scissione forzata tra pensieri ed azioni. Frattura che può essere definita

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inganno soltanto in un senso molto generale, di cui la menzogna attiva è soltanto un caso particolare. Quando ci sforziamo di apparire calmi, allorché mentalmente annaspiamo per far fronte a un insulto o a una domanda difficile, stiamo, in un certo senso, ingannando chi ci sta di fronte, benché non si possa dire che stiamo mentendo. In altri termini, esistono altre forme di insincerità, oltre al dichiarare il falso. Quindi, se elaboriamo un esperimento basato soltanto sulla menzogna, rischiamo di non comprendere il significato generale dei dati comportamentali ottenuti in questo modo.

Ciò che sta dietro la fuga d’informazione non-verbale, dunque, non è semplicemente la menzogna ma un basilare e acuto conflitto tra l’interiore e l’esteriore, dove i pensieri e le azioni non concordano in un momento di tensione. Ma, anche se in questo modo non possiamo essere certi che chi si tocca il naso stia mentendo, abbiamo però la sicurezza che nel suo cervello sta accadendo qualcosa che egli manca di esteriorizzare e di comunicarci verbalmente. Può non mentire in senso stretto, ma ci sta senza dubbio nascondendo parte dei suoi pensieri e quel gesto di toccarsi il naso ce lo rivela suo malgrado.

Potenza della comunicazione inconscia. Potenza della comunicazione non verbale.

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La PNL, Programmazione Neuro Linguistica, è lo studio dell’esperienza soggettiva. Con il suo modello, è in grado di descrivere il funzionamento del comportamento umano attraverso le sue componenti e in tutte le sue sequenze (origine e radicamento delle convinzioni, generalizzazioni e deformazioni delle realtà, cancellazioni), sia quelle che portano a risultati che le persone considerano positivi, sia quelle che portano a risultati insoddisfacenti. Oggetto di approfondimento di questa sezione, a partire dalle origini, dalle fondamenta del metodo e dai principi fondamentali su cui si basa, considero la PNL un ottimo strumento d’indagine sul funzionamento delle personali mappe mentali e delle modalità su cui si fonda il loro ampliarsi tramite l’esperienza, tramite la sperimentazione di sistemi rappresentazionali della realtà differenti da quelli abitualmente utilizzati, della flessibilità e delle diverse posizioni percettive da cui osservare il comportamento umano.

Cenni storici sulla PNLLa Neurolinguistica si è sviluppata all’inizio di questo secolo dall’esame

scientifico della natura della coscienza. Il concetto di Neurolinguistica nasce con William James (sostenitore dell’idea che l’evoluzione dell’uomo si fosse prodotta a livello spirituale-emozionale-mentale) e viene ripreso settant’anni più tardi da Teilhard de Chardin. Già negli anni ‘30, tuttavia, Korzybski aveva, per primo, iniziato ad introdurre gli strumenti linguistici effettivi nel processo spirituale-emozionale-mentale. Egli poté osservare la connessione tra i processi del linguaggio e il comportamento e giunse alla conclusione che il pensiero umano si fondava su schemi ripetuti, così come gli schemi abituali di comportamento, e che cercare di cambiare questi schemi in modo diretto sembrava quasi impossibile. In tale visione, il linguaggio è una parte importante della sottostruttura che mantiene gli schemi del comportamento in funzione. Avendo, così, evidenziato che il linguaggio rappresenta una potente guida del comportamento, egli sperimentò come un cambiamento dell’uso del linguaggio potesse influenzare prestazioni ed esperienze di vita: “orientando noi stessi diversamente da come solitamente facciamo, possiamo accedere a riserve di creatività, trovare soluzioni a problemi precedentemente ritenuti

LA PNL

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impossibili da risolvere, scoprire modi nuovi e inconsueti per comunicare con gli altri e accrescere enormemente il nostro piacere e la nostra gioia di vivere”.

Gli anni ‘40 e ‘50 rappresentano una svolta per la ricerca, per via degli enormi passi in alcune discipline cruciali. Sono gli anni in cui Noam Chomsky, linguista statunitense, filosofo, teorico della comunicazione, nonché Professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, sviluppa lo studio della grammatica e del linguaggio; Karl Pribram, neurochirurgo austriaco, professore di psichiatria e psicologia, perfeziona le sue ricerche sulle funzioni del cervello che aprono la strada a nuove conoscenze, Abraham Maslow, psicologo statunitense, porta il suo contributo scientifico con lo studio sulla natura gerarchica della coscienza umana che afferma l’importanza dei valori come principi organizzatori nei funzionamenti umani. Nel frattempo, Gregory Bateson, antropologo, sociologo e psicologo britannico, insieme ad altri ricercatori, si dedica alla cibernetica, una nuova scienza sui sistemi organizzati che ha permesso all’uomo di mandare missili sulla luna e allo stesso tempo di avere strumenti per controllare i meccanismi della consapevolezza.

Le scoperte compiute in questo ventennio preludono all’evoluzione della Neurolinguistica. Con gli anni ‘60, infatti, viene scoperta la possibilità di identificare la struttura del pensiero profondo attraverso lo studio del comportamento. Il che rende possibile considerare le prestazioni migliori e gli individui che incarnano l’eccellenza ed evidenziare quali processi interni sono all’origine di queste abilità sorprendenti. Solo negli anni ‘70, tuttavia, la Neurolinguistica prende il nome di Programmazione, allorquando un gruppo di ricercatori americani, composto, tra gli altri, da Richard Bandier, John Grinder, Leslie Cameron, Judith De Lozier, Robert Dilts e David Gordon, presero a sviluppare, sulla base delle scoperte precedenti, una serie di strumenti adatti a riconoscere la struttura dell’esperienza soggettiva. Questi strumenti hanno originato varie tecniche di modificazione del comportamento utilizzabili da chiunque sia impegnato in attività che coinvolgono le capacità di comunicazione: le relazioni, la vendita, la scuola, la conduzione aziendale. La Neurolinguistica, che da questo momento in poi acquisisce l’acronimo di PNL (programmazione sta a significare il modo di comporre le sequenze adatte a ottenere risultati specifici; neuro indica che il comportamento è il risultato di un processo neurologico; linguistica precisa che la composizione e la disposizione dei processi neurali è codificata attraverso linguaggi), rappresenta, così, quello che può essere considerato probabilmente il più grande progresso nella comprensione di come avviene lo sviluppo delle persone: fornisce un modo per conoscere meglio se stessi e

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gli altri e ingloba una serie straordinaria di strumenti di apprendimento che possono produrre crescita personale e professionale, finalizzata al conseguimento dei risultati desiderati anche dalle organizzazioni commerciali.

La PNL, infatti, identifica una serie di atteggiamenti che si possono imparare e che aiutano le persone a raggiungere i propri scopi, sviluppando una flessibilità comportamentale di base, congruente con i valori personali e dell’organizzazione alla quale si appartiene. Tradotto in termini scientifici, il concetto può essere reso affermando che tali atteggiamenti costituiscono le “guide neurologiche” che permettono alla nostra esperienza soggettiva di diventare più ricca, godibile e divertente. La maggior parte della gente, ad esempio, ammette che una quantità insufficiente di sonno, il cibo inadatto o i postumi di un’ubriacatura possono determinare prestazioni scarse. Ma appare meno ovvio il fatto che la maggior parte delle persone abitualmente abbia prestazioni inferiori alle proprie possibilità perché sta usando programmi corpo-mente inadeguati o superati. Così, come in un’azienda è essenziale aggiornare periodicamente macchinari, procedure, prodotti, politiche di vendita per rimanere competitivi, allo stesso modo è essenziale per ogni persona rinnovarsi dalla struttura cellulare ai programmi di pensiero, per mantenere viva l’energia, il gusto, la motivazione e l’ottimismo. È davvero possibile tutto ciò?

Candice Pert, una scienziata americana che ha compiuto ricerche sorprendenti sugli effetti delle emozioni e del pensiero sul sistema immunitario, ha dimostrato che tutte le parti del funzionamento umano sono molto più collegate di quanto noi ci immaginiamo e che questa non è una teoria ma una realtà quotidiana. Il contributo dell’illustre neuroscienziata statunitense dimostra che mentre il nostro corpo fa un lavoro eccellente nel potenziare le nostre cellule, la responsabilità di rivedere attitudini, paradigmi, abitudini e abilità dipende solo da noi: il modo in cui il corpo potenzia le funzioni cellulari dipende da ciò che noi facciamo con il nostro pensiero e le nostre emozioni. Per questo persone con prestazioni di alto livello in qualsiasi ambito, nel lavoro o nella vita privata (tu certamente avrai svariati esempi a cui fare riferimento), continuano naturalmente a svilupparle nel tempo. Se ci rifletti, si tratta sempre di persone capaci che conoscono, soprattutto, il modo di perfezionare costantemente queste abilità, attraverso lo sviluppo di un’attenzione continua.

Ecco, dunque, il valore della PNL, tuttora riconosciuto: aver dimostrato nel corso della storia, attraverso le ricerche di tutti gli studiosi a cui deve le sue origini, che, sviluppando capacità che possono essere apprese, tutta la comunicazione umana, dagli incontri di tutti i giorni alle negoziazioni delicate, procede in modo più fluido e, per certi versi, ideale.

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Il metodo e i principi fondamentaliIl metodo della PNL consiste nell’individuazione specifica e precisa di tutti i

passaggi che compongono le sequenze comportamentali e della loro eventuale variazione. Perciò, la PNL permette di sviluppare rapidamente ed efficacemente i criteri di apprendimento volti al raggiungimento di obiettivi che riguardano la vita privata, come quelli legati ai destini professionali, magari prima considerati difficili da concretizzare. Essa, dunque, nasce, si sviluppa e si manifesta come un atteggiamento complessivo delle persone, in cui è riconoscibile la crescita della flessibilità e della disponibilità all’osservazione e alla sperimentazione. Articolata, secondo i suoi teorici, in cinque princìpi fondamentali, la Programmazione Neuro Linguistica può, infine, essere pensata come una grande metafora che ci permette di organizzare il nostro pensiero per scoprire e ottimizzare le strategie che utilizziamo per lavorare, riposare, conoscere, giocare, amare, vivere.

Primo principio della PNL: non si può non comunicareFacciamo degli esempi. Ti sarà capitato di discutere in famiglia su argomenti

conflittuali (i casi di scuola, quando si parla di comunicazione, vedono protagonisti imperituri le coppie di coniugi). Non servirà, dunque, che sia io a spiegarti quanto sia denso di significato (e di valore comunicativo) il silenzio che ne consegue il più delle volte, al di là del fatto che non vengano utilizzate le parole. Come pure, puoi immaginare qualche contesto in cui sia richiesta la tua presenza (una cerimonia, un convegno, una festa) ed il messaggio che arriverà ai partecipanti se, per qualsiasi motivo, tu fossi impossibilitato a intervenire. O, ancora, quale comunicazione passi nell’imbarazzante silenzio tra due sconosciuti costretti a condividere l’ascensore solo per alcuni secondi.

Le ricerche sulle funzioni neurologiche dicono, in maniera inequivocabile, che il nostro cervello non è in grado di registrare le negazioni (prova a pensare all’azione di non camminare. Attenzione, però: non devi pensare l’azione di stare fermo ma quella specifica del non camminare. Ti accorgerai che risulta impossibile). Se, dunque, la comunicazione è un comportamento e se non esiste la negazione di un comportamento, essendo essa stessa un altro comportamento, ne deriva che è impossibile non comunicare.

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Secondo principio della PNL: il significato di una comunicazione è nella risposta che si riceve

In questo assunto c’è la concezione dell’essere umano come sistema cibernetico di Bateson, in cui assume una grande importanza il feedback, l’informazione di ritorno. Piuttosto che uno schema lineare unidirezionale, il processo di comunicazione è una funzione ricorsiva, in cui la risposta influenza la successiva emissione a tal punto che individuare emittente o ricevente diventa impossibile.

Facciamo un esempio. Il marito torna a casa, saluta appena la moglie, non parla. Per la moglie quel silenzio è indisponente e comincia a interloquire con il marito con un tono piuttosto seccato. Il marito esclama: “Si può sapere che cosa ti ho fatto”? La moglie: “Avessi visto la faccia che hai fatto quando sei entrato!” Il marito: “Ti sei già dimenticata delle cose che mi hai detto stamattina prima di uscire di casa?” La moglie: “Certo, dopo tutto quello che mi hai combinato!”

Si potrebbe andare avanti e indietro all’infinito (le discussioni tra marito e moglie sono molto sfruttate per l’esemplificazione della ricorsività). È evidente che indicare un punto di inizio è abbastanza arbitrario, anche perché la comunicazione, come abbiamo visto abbondantemente nelle sezioni precedenti, non riguarda soltanto gli aspetti verbali. L’evidenza di questo concetto lo ritrovi in quelle espressioni frequenti nei litigi: “Hai cominciato tu!”, “No, ti sbagli, sei stato tu il primo!”

I corollari di questo assunto sono fondamentali. Assumersi, infatti, la responsabilità del risultato della propria comunicazione significa fare tesoro delle informazioni di ritorno e cioè del feedback: se la mia comunicazione non ha prodotto il risultato desiderato, è la mia comunicazione che va cambiata, non è il ricevente che non ha capito. Io posso pensare a un tipo di comunicazione più adatta a produrre nell’altro la reazione che desidero o, in altre parole, a fare in modo che il mio messaggio giunga all’altro in modo che abbia per lui la stessa connotazione che ha per me. In una comunicazione difficoltosa, non importa, dunque, individuare chi l’abbia originata: meglio, a un certo punto, assumersi la responsabilità, da quel momento, di comunicare con consapevolezza, anziché reagire automaticamente agli stimoli.

Terzo principio della PNL: in ogni comunicazione esiste un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione

Secondo Watzlawick, Beavin e Jackson (1971), “Un fenomeno resta inspiegabile finché il campo di osservazione non è abbastanza ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica. Se l’osservatore non si rende conto del viluppo di relazioni tra un evento e la matrice in cui esso si verifica, tra un organismo ed il suo ambiente, o è

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posto di fronte a qualcosa di misterioso, oppure è indotto ad attribuire al suo oggetto di studio certe proprietà che l’oggetto non può avere. In biologia è un fatto ormai accettato, mentre sembra che le scienze del comportamento umano continuino in larga misura a basarsi sul metodo di isolare le variabili” (Watzlawick, 1971, pag. 14). Se, ad esempio, ti sei recato nello studio del tuo medico per un mal di testa, avrai notato che egli, prima di assegnarti una cura, ti rivolge delle domande (“da quanto tempo hai mal di testa?”, “ti capita spesso in determinate situazioni?”, “hai battuto la testa?”, “ieri sera hai bevuto alcolici?”, eccetera), cioè cerca di collocare il sintomo in un contesto più ampio che aiuti a comprenderlo meglio e a spiegarlo. Ovvero, pone l’accaduto in relazione con possibili altri eventi. Lo stesso vale per la comunicazione, laddove l’approccio sistemico della Scuola di Palo Alto, in California, spiega che il contenuto è l’informazione neutra, il “cosa si comunica”, mentre gli aspetti di relazione definiscono quale rapporto ci sia fra i comunicanti, “come si comunica”. E che contenuto e relazione sono molto difficili da scindere in una comunicazione orale, poiché il primo è percepito a livello consapevole, mentre la seconda molto spesso è percepita a livello inconsapevole.

Paul Watzlawick cita diversi esempi nel suo lavoro che ti invito a leggere per approfondire l’argomento (i cicli dei vita e rischio d’estinzione delle volpi del Canada del Nord agli inizi degli anni ‘40, spiegati con i cicli inversamente proporzionali di lepri selvatiche; il gioco con le anatre di sir Conrad Lorenz, creduto pazzo dai passanti che, da dietro ad una siepe, udivano i versi dell’uomo ma non potevano vedere i piccoli animali da cortile). Da parte mia, amo aprire i miei seminari sulle Arti Terapie, discipline basate sulla comunicazione non verbale attraverso i linguaggi delle emozioni veicolati dalla creatività e dall’arte, usando una semplice slide a tutto schermo con scritto “Sono le dieci del mattino”. Così, chiedo dapprima al mio uditorio quale sia il significato, infine, quale sia il senso. Alla prima domanda ricevo timide risposte, alla seconda segue un silenzio che mi offre l’opportunità di spiegare le differenze tra comunicazione di significato (comunicazione digitale, basata sui contenuti neutri, sul testo e sul verbale) e comunicazione di senso (comunicazione analogica, basata sugli aspetti di relazione, sul significante e su non verbale e paraverbale).

Anche la PNL, dunque, concordemente con il secondo assioma Pragmatica della Comunicazione Umana, ammette che “in ogni comunicazione esistono elementi di contenuto e di relazione: i secondi classificano i primi e si definiscono come metacomunicazione”.

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La capacità, innata, invero, di metacomunicare (letteralmente, comunicare sulla comunicazione) è la conditio sine qua non della comunicazione efficace ma è anche strettamente collegata al grosso problema della consapevolezza di sé e alla comprensione degli altri. Ciò è tanto vero che nella comunicazione “sana”, laddove i ruoli di relazione sono chiari e scontati, è il contenuto che appare in evidenza mentre la relazione resta sullo sfondo. Viceversa, nella comunicazione “malata”, tipica, ad esempio, dei pazienti dello spettro psicotico (ma la puoi ritrovare in tutte le comunicazioni che non “funzionano”), le relazioni sono sempre da ridefinire (chi sono io rispetto a te, chi sei tu rispetto a me) e assorbono per intero la comunicazione medesima che non affronterà, se non con grande fatica, gli aspetti di contenuto. Vale per il linguaggio parlato quanto per quello scritto, benché in quest’ultimo il rapporto tra comunicazione di contenuto e di relazione è meno chiaro. Frasi riportate a titolo di esempio da Watzlawick, del tipo “chi crede che i camerieri di questo ristorante siano scortesi dovrebbe vedere il proprietario”, denotano una chiara ambiguità di metacomunicazione, non meno di quanto accade quando la comunicazione diventa paradossale (“ignorate questo cartello”, oppure “sii spontaneo”).

Quarto principio della PNL: la comunicazione avviene a diversi livelli: verbale, paraverbale, non verbale

Come ormai sappiamo, il livello verbale è quello delle parole, il livello paraverbale è definito dalla qualità della voce (volume, tono, timbro, ritmo, velocità), il livello non verbale è definito dall’atteggiamento del corpo (la postura, i movimenti, la respirazione, il colorito della pelle). La percezione dei segnali paraverbali e non verbali avviene per lo più a livello inconsapevole ed è questo uno dei motivi per cui spesso usiamo espressioni del tipo: “Non so perché ma quella persona non mi piace” o, viceversa: “Non so definire cosa sia: è una questione di feeling”.

Per gli approfondimenti sull’argomento, ti invito a leggere la sezione precedente.In questo frangente, basterà riportare alla memoria il criterio basilare secondo il

quale una comunicazione ha più probabilità di essere efficace quanto più manifesta una congruenza fra i diversi livelli.

Quinto principio della PNL: la mappa non è il territorioCioè, un conto è la realtà, un conto è la rappresentazione che ciascuno costruisce

della sua realtà. Alcuni, propensi a un certo relativismo, saranno portati a condividere immediatamente tale assunto; altri, convinti che esista un’oggettività conoscibile, una

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verità, non si troveranno immediatamente d’accordo. Ma non è soltanto una questione filosofica.

Com’è fatta la mappa? Consideriamo come funziona la mente umana. L’individuo vive immerso in un mondo che è “altro da sé” e si trova investito da una quantità enorme di informazioni che giungono al cervello attraverso stimoli che colpiscono i recettori sensoriali e si trasformano in immagini, suoni, sensazioni, odori, gusti. In questo processo, gran parte delle informazioni viene perduta, molte rimangono a livello inconsapevole, pochissime arrivano al livello di consapevolezza. Agiscono in questa fase filtri neurologici, biologici, culturali, sociali, genetici, individuali. Quali informazioni vengano ritenute e quali perdute dipende da dove la mente focalizza la sua attenzione e come la focalizza. In altre parole, su cosa si sta concentrando e in che modo lo fa, come opera connessioni e distinzioni.

Il modo di assumere le informazioni nell’ambito di un’esperienza, di metterle in relazione e di rendersele disponibili, così da poterle utilizzare in contesti analoghi o ritenuti tali, è infatti molto personale e diverso per ciascuno: quello che noi pensiamo è qualcosa che ha a che vedere con l’esperienza che abbiamo fatto o che qualcun altro ha fatto e ci ha raccontato, inducendoci a pensarla come se l’avessimo fatta. Quando, ad esempio, il bambino si scotta con il ferro da stiro, quella esperienza costruisce nella sua mente la convinzione che “toccando il ferro da stiro mi scotterò” e la generalizzazione “tutti i ferri da stiro scottano sempre”. Se il bambino non terrà in considerazione altre informazioni (la presa di corrente è inserita, il calore si concentra sulla piastra e non sul manico, esistono ferri da stiro giocattolo, esistono vecchi ferri da stiro usati come portafiori), probabilmente non toccherà mai più un ferro da stiro e continuerà a coltivare le sue convinzioni limitanti.

Le convinzioniCiò che avviene nell’ambito del nostro rapporto con il mondo fisico, avviene

analogamente nell’ambito delle relazioni interpersonali e influenza il nostro modo di orientarci nella vita. Alcune particolari esperienze potrebbero aver fatto radicare in noi delle convinzioni (“le persone che parlano ad alta voce possono farci del male”, “le persone con gli occhi chiari sono buone”, “Se mi amasse veramente sarebbe geloso di me”, “Lasciarsi andare alle emozioni è disdicevole”) e, di conseguenza, guidarci a mettere in atto specifici comportamenti in modo ripetitivo. A qualcuno basta anche una sola esperienza vissuta come molto intensa per costruire una convinzione, mentre ad altri occorrono più esperienze. Nella seconda ipotesi, le convinzioni si radicano e diventano molto forti, tanto da indurci, successivamente, a prendere in considerazione

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soltanto le informazioni che tendono a confermarle e a trascurare o addirittura a cancellare tutto ciò che potrebbe smentirle. Avviene, quindi, che mentre l’interpretazione di un’esperienza vissuta o rappresentata contribuisce alla costruzione di una convinzione, la convinzione medesima può influenzare e condizionare le esperienze future.

Per di più, quando queste convinzioni sono molto radicate, producono comportamenti quasi obbligati e automatici, atti a confermarle. In questo modo, a noi resta la sensazione di non poter fare a meno di agire in quel modo, anche quando quel comportamento risulta inefficace e ci procura disagio o insoddisfazione. Risalire alla convinzione che risiede alla base di quel dato comportamento, considerare che la convinzione è soltanto una connessione operata dal nostro modo di pensare, e non una verità assoluta, consente di recuperare possibilità di scelta. E di attuare il cambiamento.

Generalizzazioni, deformazioni, cancellazioniOgni volta che ricordiamo un’esperienza passata, immaginiamo un’esperienza

futura o la raccontiamo a qualcun altro, inevitabilmente deformiamo la realtà.Il processo di costruzione di una propria realtà individuale, di un proprio

modello del mondo, ha la struttura di un procedimento di mappatura in cui generalizzazioni, cancellazioni e deformazioni sono indispensabili per la semplificazione, finalizzata a un immediato e funzionale utilizzo dell’esperienza. Milioni di comportamenti elementari sono possibili grazie a questo funzionamento, milioni di comportamenti dei quali è possibile prevedere le conseguenze. Comportamenti da mettere in atto, comportamenti da evitare. È come se nella nostra mente avvenisse qualcosa di molto simile a ciò che un cartografo fa quando si accinge a elaborare una mappa. Per realizzare una mappa realistica del mondo che ci circonda, infatti, questa dovrebbe essere grande come il mondo, tridimensionale, includere la variabile del tempo, essere in movimento e contenere un numero infinito di dettagli. Ma una mappa del genere che utilità avrebbe? Pensa a una carta geografica in scala (dunque, deformata), con l’indicazione dei rilievi, dei corsi d’acqua e del mare e la conformazione delle coste (con generalizzazioni: il mare è uno spazio blu, i fiumi sono fili in azzurro, le foreste sono macchie verdi, senza distinzioni tra le varie specie di piante), oppure alla piantina di una metropolitana: il percorso è talmente stilizzato da essere soltanto un insieme di segmenti in linea retta (deformazione) con l’indicazione delle fermate segnate da un simbolo rotondo (generalizzazione).

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O, ancora, immagina lo schizzo che potresti disegnare su di un foglio per spiegare a un conoscente come raggiungere la tua casa (indicheresti tutto ciò che c’è intorno o soltanto le informazioni a lui utili per arrivarci?).

Il criterio di utilità “che cosa ci occorre per fare cosa” impone, dunque, una quantità enorme di generalizzazioni, cancellazioni e deformazioni. Ma nessuno proverebbe a cercare una via della città con l’atlante del mondo, né con la piantina della metropolitana. Occorre la pianta della città dove le vie sono segnate tutte, benché in modo schematico, le chiese sono tutte uguali e contrassegnate da un certo simbolo, gli edifici di interesse storico da un altro simbolo e così le scuole, gli uffici pubblici, eccetera. Siamo d’accordo tutti che la piantina della città non è la città, giusto? Bene. Ora passiamo alla comunicazione che non funziona diversamente da così, poiché noi operiamo generalizzazioni, cancellazioni e deformazioni in ogni nostra affermazione.

Quali criteri di scelta e di decisione ci sono dietro ogni affermazione? Quante storie raccontate in maniere differenti? Quanti modi diversi di interpretare i medesimi accadimenti, situazioni, atmosfere? Questione di differenti mappe, appunto, in cui la generalizzazione, dunque, diventa quella inclinazione che abbiamo a organizzare il mondo per categorie (i vecchi, le donne, gli uomini, i bambini, i clienti, le mamme, gli sportivi) o per categorie di comportamenti (camminare, guidare, scrivere, sapendo che in una categoria rientrano milioni di persone individualmente molto diverse e con comportamenti per nulla identici, mentre le cancellazioni sono la conseguenza di un’operazione di focalizzazione dell’attenzione (che ci fa scegliere gli elementi per noi significativi e accantonarne, cancellarne, a nostro giudizio inconscio altri meno rilevanti. Le deformazioni, infine, attengono invece alla nostra capacità di ricordare o prevedere situazioni modificandone la rappresentazione, in un certo senso interpretandole (ad esempio, mentre siamo assorti nella lettura di un libro, potremmo non fare caso se qualcuno entra nella nostra stanza).

Tutti questi processi, nessuno escluso, sono assolutamente indispensabili all’apprendimento e alla nostra vita pratica. Senza di essi non è possibile la memoria di nessuna esperienza, neppure quella di respirare o di muoversi. Tuttavia, l’uso indiscriminato di questi processi inconsci in tutti i contesti potrebbe avere delle conseguenze non desiderabili per noi. A volte è, dunque, necessario prenderne consapevolezza, evidenziarne la struttura per comprenderne la non funzionalità e operare scelte di nuovi comportamenti.

Ma, allora, se ognuno di noi opera indistintamente generalizzazioni, deformazioni, cancellazioni, in maniera direttamente proporzionale a processi interni d’interpretazione della realtà che sono unici e irripetibili, è possibile ancora affermare

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che esista una realtà oggettiva? O quella che noi chiamiamo realtà è soltanto un’area di comune condivisione, un punto convenzionale di riferimento per comunicare? Facciamo un esempio. Immagina dei bambini in un’aula scolastica. Hanno molte cose in comune: l’età, il quartiere in cui vivono, la stessa cultura, abitudini simili. Condividono tutti lo stesso spazio fisico e perfino la maestra spiega a tutti la lezione con le medesime parole. Esistono, dunque, dei dati oggettivi inconfutabili. Eppure è certo che se fosse chiesto loro di descrivere semplicemente l’aula in cui si trovano, direbbero cose molto diverse: per alcuni l’aula sarà molto grande, per altri piccola. Oppure che c’è poco spazio fra i banchi, che c’è molto silenzio intorno, oppure che infastidisce il rumore del traffico che proviene da fuori, che le pareti sono molto pulite o disadorne e così via. Tutti condividono il medesimo spazio fisico ma persino quello spazio è percepito da ciascuno diversamente. In questa prospettiva, anche ciò che noi chiamiamo “l’altro” è una nostra rappresentazione interna dell’altro, come noi lo percepiamo. Idem nell’interpretazione della realtà: esistono dati di fatto che, tuttavia, vengono a modificarsi nel naturale processo di rappresentazione interna della realtà sulla base di generalizzazioni, cancellazioni e deformazioni.

Esperienze e mappe mentaliImmagina questa situazione: sono nel salotto di casa mia, sprofondato sul

divano, da solo. È sera e rimarrò qui un paio d’ore (contesto); sto leggendo un libro che mi piace (comportamento); so leggere; leggo abbastanza lentamente perché voglio assaporare lo stile dell’autore e ricreare nella mia fantasia le immagini che descrive (abilità); quello che sto facendo mi procura benessere (convinzione); è un momento per me di distensione e di godimento (valori); sono un appassionato di bei romanzi (identità).

La situazione proposta rappresenta un’esperienza scomponibile a diversi livelli profondamente correlati. Un cambiamento a un livello può produrre cambiamenti a livelli diversi. Se, ad esempio, restando nell’ambito del comportamento “leggere”, fossi in un contesto diverso (mettiamo, di mattina in tram) e avessi solo pochi minuti durante il trasferimento da una parte all’altra della città, tutta l’esperienze ne risulterebbe modificata. Per questo, ogni volta che viviamo un’esperienza, possiamo analizzarla ponendoci alcune domande che ci aiuteranno a definirla meglio.

Dove sono? Cosa faccio? Come lo faccio? Di che cosa sono convinto?

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Che cosa è importante per me qui e ora? Io chi penso di essere qui e ora?

Lo stesso comportamento del mio esempio, dunque, leggere un libro, può essere messo in atto con modalità molto differenti, in contesti diversi (alcuni riescono a estraniarsi da ciò che li circonda, continuando a leggere come se fossero seduti nella loro comoda poltrona), che insieme daranno rappresentazioni molto differenti della stessa esperienza, ciascuno in base alle proprie mappe mentali. Per questo, essere disposti ad acquisire nuove informazioni (e ad ammettere che possano esistere diverse informazioni, utili per gli altri, ma relative alla stessa esperienza vissuta da noi) e a elaborare nuovi apprendimenti, ci permette di modificare (e rendere flessibile) la nostra mappa del mondo: in fondo, ogni volta che sfidiamo una nostra convinzione per attuare un comportamento insolito per noi (un cambiamento), ampliamo la nostra mappa. Obiettivo di tutto ciò? Aumentare il numero delle scelte di comportamenti possibili, ciascuno efficace in precisi contesti, sapendo che, per inclinazione naturale e storia personale, ci sono persone poco disposte a fare questo, con mappe molto rigide, altre più inclini a inglobare conoscenze e a sperimentare nuove vie, con mappe più flessibili e in continuo ampliamento.

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ANALISI DELL’ESPERIENZA DEFINIZIONI

Dove sono? Contesto

Cosa faccio? Comportamento

Come lo faccio? Abilità, risorse

Di che cosa sono convinto? Convinzioni

Che cosa è importante per me qui e ora? Valori

Io chi penso di essere qui e ora? Identità

ESERCITAZIONE A COPPIEESERCITAZIONE A COPPIE

Partecipante 1 Partecipante 2

Racconta a “2” un episodio della propria vita in cui si è trovato ad agire in un modo diverso dal solito e questo comportamento ha prodotto risultati molto soddisfacenti.

Aiuta “1” a individuare il pensiero e lo stato d’animo immediatamente precedente alla decisione di agire.

INVERSIONE DEI RUOLIINVERSIONE DEI RUOLI

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Quando ci imbattiamo in comportamenti eccellenti, in manifestazioni di abilità o semplicemente incontriamo persone “molto brave a fare qualcosa”, sappiamo che non sono doti innate ma risultati di un apprendimento. Tutto, infatti, si può apprendere, benché gli adulti abbiano elaborato molte convinzioni limitanti a proposito di ciò che sanno o non sanno fare (o di ciò che credono di sapere o non saper fare). Perciò, quando incontri una persona che manifesta una particolare abilità che anche tu vorresti possedere, chiediti come fa a farlo: analizzando le sequenze dei suoi comportamenti, puoi individuare la sua strategia, creare un modello e, successivamente, replicarlo. In fondo la struttura della costruzione della mappa altro non è che una struttura di apprendimento di comportamenti efficaci per il raggiungimento di obiettivi.

Se vuoi, dunque, apprendere nuove capacità, non devi far altro che modificare le tue mappe mentali, renderle flessibili e tenere presente il seguente schema delle quattro fasi in cui si articola il ciclo di apprendimento di nuove competenze.

I nostri sensi e i sistemi rappresentazionaliSappiamo che l’unico modo che abbiamo di percepire la realtà che ci circonda è

attraverso i nostri cinque sensi. Sappiamo che questa facoltà è naturalmente condizionata da vincoli neurologici: siamo in grado di vedere le radiazioni luminose di uno spettro limitato, possiamo udire i suoni soltanto in una gamma di frequenze limitata, possiamo distinguere sensazioni tattili diverse in conseguenza di stimoli identici. Quindi, già nella nostra struttura biologica esistono delle limitazioni che deformano la realtà e ne elidono delle parti. Aggiungo a questo punto che ciascuno di noi manifesta una predisposizione a percepire la realtà privilegiando uno o più canali

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CICLO DI SVILUPPO DI NUOVE CAPACITÀCICLO DI SVILUPPO DI NUOVE CAPACITÀCICLO DI SVILUPPO DI NUOVE CAPACITÀCICLO DI SVILUPPO DI NUOVE CAPACITÀ

I Fase Incompetenza inconscia Non ho una capacità e non lo so

II Fase Incompetenza consciaOsservo qualcuno e scopro che la capacità esiste e che io non la so

III Fase Competenza conscia Mi alleno all’imitazione di un modelloMomento della goffaggine (come a scuola guida)

IV Fase Competenza inconsciaAgisco senza più pensare (la capacità è diventata automatica)

Ad esempio, mentre guido parlo con il vicino, ascolto musica

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sensoriali. Pertanto, ciascuno si forma una sua propria e personalissima rappresentazione del mondo. Facciamo un esempio.

I tuoi amici sono stati invitati a una gita al mare. Ti incuriosisce molto l’occasione e chiedi a ciascuno come sia andata. Uno dirà che ha ammirato un tramonto stupendo (prestando attenzione all’aspetto Visivo “V”); uno che il luogo era molto silenzioso o che si sentiva solo il dolce sciabordio delle onde (prestando attenzione all’ aspetto Auditivo “A”); uno che i luoghi erano molto rilassanti (prestando attenzione alle Sensazioni “K”); un altro che regnava ovunque un intenso profumo di iodio (prestando attenzione all’aspetto Olfattivo “O”); un altro di aver assaggiato degli ottimi frutti di mare (prestando attenzione all’aspetto Gustativo “G”).

Non è che ciascuno ha una propria opinione dell’esperienza (peraltro, sono tutte positive) ma solo che ognuno ha voluto descrivere qualcosa che lo ha colpito particolarmente, prestando attenzione ad alcune informazioni piuttosto che ad altre. È come se, in quel momento, di fronte a una grande quantità di stimoli, ogni persona avesse deciso di selezionarne ed elaborarne soltanto alcuni, per una questione di sensi privilegiati per decodificare la realtà.

Gli esempi, come vedi nella tabella che segue, possono essere molteplici (escludo gli aspetti Olfattivi e Gustativi che sono meno diffusi come sensorialità privilegiate per decodificare le esperienze).

Pur delimitando ogni racconto ad un contesto ben specificato o a un particolare aspetto dello stesso contesto, le descrizioni che danno coloro i quali sono sottoposti alla medesima esperienza possono essere molto differenti. Da che cosa dipende tutto questo? Semplicemente dalla funzione di selezione e di filtro delle informazioni che rende disponibili soltanto quelle utili alla vita pratica, per non essere sommersi e confusi da una miriade ingestibile di dati (ma non dimenticare che la

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I SISTEMI RAPPRESENTAZIONALI PER DECODIFICARE LA REALTÀI SISTEMI RAPPRESENTAZIONALI PER DECODIFICARE LA REALTÀI SISTEMI RAPPRESENTAZIONALI PER DECODIFICARE LA REALTÀI SISTEMI RAPPRESENTAZIONALI PER DECODIFICARE LA REALTÀ

Domanda Visivo Auditivo Cenestesico

Quali persone erano presenti alla

festa?Descrive l’abbigliamento Ricorda le conversazioni Riferisce che c’erano

persone piacevoli

Qual era l’ambiente? Descrive l’arredamento Riferisce che c’era buona

musicaRiferisce che c’era una

bella atmosfera

Quali ricordi della gita con amici?

Descrive lo splendido tramonto

Riferisce che il luogo era silenzioso

Riferisce che il luogo era rilassante

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rappresentazione della realtà non è la realtà: è, piuttosto, uno strumento che costruiamo per muoverci al suo interno).

Definiamo, dunque, sistemi rappresentazionali i processi sensoriali costruttivi e descrittivi attraverso i quali ciascuno elabora, nel suo pensiero, la propria rappresentazione interna della realtà. I sistemi rappresentazionali sono quindi tanti quanti i nostri canali sensoriali:

V — visivo (vista);A — auditivo (udito);K — cenestesico o propriocettivo, basato su sensazioni tattili (percepite tramite la

pelle: liscio, ruvido, caldo, freddo, pungente, morbido, duro, eccetera), sensazioni propriocettive (sensazioni interne localizzate nel corpo: vuoto nello stomaco, pugno nello stomaco, colpo al cuore, stretta al cuore, onda nella testa, chiodo nella testa, senso di soffocamento, come un fiume che scorre dentro, fuoco nelle vene, gambe molli, eccetera) o emozioni (che sono interpretazioni delle sensazioni precedenti: disagio, eccitazione, paura, interesse, disgusto, tristezza, felicità, esaltazione);

O — olfattivo (olfatto);G — gustativo (gusto).

Fra le persone, mediamente, si riscontra:il 40% di visivi;il 20% di auditivi;il 40% di cenestesici.Questo non significa che una persona visiva sia sempre visiva (in contesti diversi

potrebbe privilegiare sistemi diversi), né significa che una persona visiva sia soltanto visiva (ma il sistema visivo è quello che preferisce utilizzare con più frequenza o in modo predominante rispetto agli altri). In alcuni ambienti, sembrerebbe naturale scegliere un sistema rappresentazionale, per esempio, il visivo in occasione di una mostra di pittura, l’auditivo in occasione di un concerto, il cenestesico in occasione di un saggio di ballo.

Ma cos’è che porta una persona a preferire inconsciamente un sistema rappresentazionale? Probabilmente buona parte dipende dall’educazione ricevuta e dagli strumenti che avevamo a disposizione già dalla prima infanzia per esplorare il mondo circostante e per esprimerci. Buona parte proviene anche dalla storia personale di ciascuno e da come l’utilizzo di un sistema piuttosto che di un altro abbia determinato in alcuni casi dei vantaggi o in altri casi sia magari correlato a eventi spiacevoli.

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In che modo può esserci utile riconoscere il sistema rappresentazionale preferito da una persona? Ad esempio, dal modo di atteggiarsi del corpo, dai movimenti (linguaggio non verbale), così come dall’impostazione della voce (linguaggio paraverbale). Per esempio, per ritornare alle tecniche di vendita che sono spesso associate ai paradigmi della PNL, mentre stiamo cercando di vendere un abito a una signora, se la signora è visiva, sarà importante farla specchiare, esaltare i colori del tessuto, la forma della linea; se la signora è cenestesica, sarà bene indurla a toccare la morbidezza del tessuto e a sperimentare la sensazione di tepore che proverà indossandolo, la comodità della linea ampia o l’aderenza che l’avvolge come un guanto; se la signora è auditiva, l’impresa è più ardua: se l’abito fosse di seta pesante si potrebbe esaltare il fruscio della gonna al suo incedere; oppure commentare con espressioni del tipo: “Chissà cosa dirà suo marito di quest’abito!”, “Glielo devo proprio dire è un incanto!”.

Anche in un contesto di apprendimento è molto importante riconoscere i sistemi rappresentazionali. Ad esempio, un insegnante utilizzerà molto il sistema visivo disegnando schemi sulla lavagna, molto il sistema auditivo raccontando e modulando la sua voce, altrettanto il sistema cenestesico, quando chiederà agli allievi di attivarsi con esercitazioni pratiche.

Il primo passo è, tuttavia, riconoscere il proprio sistema rappresentazionale preferito, molto utile per la conoscenza di sé per individuare quello dell’altro, in relazione ai cui sistemi di interazione diventa possibile modulare le modalità di comunicare per ottenere il massimo dai rapporti, sia personali che professionali.

Capire noi stessi e capire gli altri: la flessibilitàÈ curioso notare come al tempo dei nostri padri la coerenza fosse considerata un

valore molto importante. Espressioni come: “Mi spezzo ma non mi piego”, “È un uomo tutto d’un pezzo” non facevano soltanto riferimento all’orgoglio e alla incorruttibilità, ma contenevano anche il presupposto che non si potesse tanto facilmente cambiare idea una volta sposata una causa. Al contrario, ai nostri giorni vengono richieste continuamente alle persone flessibilità e adattabilità. I curriculum dei candidati a posti di lavoro non mancano di citare queste caratteristiche come salienti. La velocità con cui si producono cambiamenti a tutti i livelli impone anche alle persone cambiamenti repentini e spesso radicali di comportamenti, abitudini, credenze.

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Ma è soltanto la convinzione ufficiale che è mutata. Di fatto l’umanità è sopravvissuta e si è evoluta grazie al suo spirito di adattamento e alla sua capacità di fare esperienze, elaborare convinzioni, verificarle in altri contesti, confermarle o modificarle: nella teoria dell’evoluzione, l’essere che sopravvive non è il migliore in senso assoluto ma è quello che ha maggiori capacità di adattamento.

Essere flessibili, dunque, non ha nulla a che vedere con personalità labili, facilmente influenzabili, ma piuttosto con personalità ricche che sanno riconoscere in ogni situazione benefici e svantaggi per sé e per gli altri, svincolate da convinzioni preconcette (e che sanno attuare comportamenti diversi in base ai contesti).

Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti di questa stessa sezione, distinguiamo il livello dell’identità e il livello dei comportamenti: cambiare comportamenti non significa perdere l’identità, né i propri valori. Se, dunque, in contesti differenti adottiamo linguaggi diversi, abbigliamenti diversi, stili di relazione diversi, non perdiamo la nostra identità. Nemmeno se nel corso degli anni abbiamo modificato il nostro modo di vedere il mondo.

Pertanto, che siamo disposti a riconoscerlo oppure no, tutti siamo flessibili, in misura più o meno accentuata. E questa nostra flessibilità, per buona parte, si fonda su una capacità naturale che tutti possediamo di metterci dal punto di vista dell’altro o da un punto di vista esterno. Ovvero, di cambiare posizione percettiva.

Le posizioni percettiveEsaminiamo una circostanza abbastanza frequente. Sto discutendo

animatamente con una persona che conosco bene, abbiamo dei motivi di attrito, ma ci tengo molto alla relazione che ho con lei. Emotivamente sono molto coinvolto nella situazione e vorrei che quella persona mi capisse. D’altra parte, mi accorgo che, più andiamo avanti nella discussione, più cresce la mia sensazione di disagio e mi sembra di non riuscire a venirne fuori. Dal mio punto di vista sono in una situazione di stallo, non so più cosa fare o dire e non mi viene nessuna idea. Istintivamente comincio a mettermi nei panni dell’altra persona, e a chiedermi: “Se io fossi in quella persona, cosa penserei a questo punto di me? Come vedrei me? Come mi suonerebbe il mio tono di voce e le parole che sto pronunciando?” Comincio a sentire le sue sensazioni e anche a starmi un pochino antipatico. Poi, mi distacco completamente dalla situazione, vedo me e l’altra persona come dal di fuori e il tutto mi sembra abbastanza noioso e anche un po’ comico. Mi vengono delle nuove idee rispetto a come potrei a questo punto comportarmi.

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Quella che ho appena sperimentato è una ricognizione delle tre posizioni percettive. Noi continuamente e in maniera molto rapida passiamo da una posizione percettiva a un’altra senza rendercene conto:

• nella prima posizione percettiva noi siamo dentro noi stessi, vediamo con i nostri occhi, ascoltiamo con le nostre orecchie, sentiamo dentro di noi delle sensazioni in prima persona;

• nella seconda posizione percettiva ci mettiamo nei panni di un altro, vediamo con i suoi occhi, ascoltiamo con le sue orecchie, sentiamo le sue sensazioni;

• nella terza posizione percettiva vediamo noi e l’altro dall’esterno, come in un film, come sul palcoscenico di un teatro.

Benché esista una tendenza a specializzare una posizione percettiva rispetto alle altre e sia molto faticoso sperimentare tutte le posizioni, la quantità e la qualità delle informazioni che riusciamo a cogliere nelle tre diverse posizioni sono sicuramente maggiori e più utili di quelle che potremmo cogliere soltanto nella prima (o in una sola delle tre).

In fondo, come possiamo aspettarci che tutto cambi se prima non cambiamo noi stessi e se non iniziamo ad osservare il mondo anche da altre prospettive?

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L’Analisi Transazionale nasce negli Stati Uniti negli anni ‘50, sia come psicoterapia che come uno strumento di comprensione di atteggiamenti incongrui, non necessariamente patologici, ad opera di Eric Berne, psicologo canadese scomparso proprio mentre il suo modello approdava anche in Italia (negli anni ‘70). Il suo contributo fornisce chiavi di lettura (e, per certi versi, di interpretazione) del proprio e dell’altrui comportamento sulla base della Teoria degli Stati dell’Io (un’elaborazione del preesistente concetto di Stato dell’Io), basata sull’osservazione per immagini (impressioni intuitive congruenti) di una realtà fenomenica e comportamentale. Tale plasticità rende applicabile l’Analisi Transazionale, oltre che nel settore clinico, anche in quello più esteso delle relazioni (e, di conseguenza, della comunicazione all’interno delle organizzazioni). In questa accezione, essa fornisce al professionista gli strumenti per decodificare rapidamente i comportamenti e di elaborare, così, la risposta più adeguata al raggiungimento degli obiettivi, personali e professionali. Per questo la sua valenza di tecnica di comunicazione efficace ne fa un utile strumento di lavoro da inserire nel bagaglio formativo del venditore.

L’Analisi Transazionale e la Teoria degli Stati dell’IoSecondo il modello elaborato da Eric Berne, la struttura della personalità è

costituita da tre differenti dimensioni, denominate Stati dell’Io, a loro volta intesi come insiemi coerenti di pensieri, sentimenti e comportamenti che orientano il rapporto tra l’individuo e i suoi ambienti relazionali, determinandone, in tal modo, contenuti e modalità della comunicazione. L’Analisi Transazionale chiama gli Stati dell’Io Genitore, Adulto e Bambino.

L’ANALISI TRANSAZIONALE

SEZIONE 4

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GENITORE

Comprende valori e comportamenti, riconducibili a figure parentali, appresi nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza e che agiscono ancora nell’adulto (inteso in senso anagrafico).

ADULTO

È la componente logico-razionale mediante la quale ogni individuo genera comportamenti adeguati al presente. Non è connessa all’età anagrafica dell’individuo ma gli è propria nelle diverse fasi della sua vita (nell’età adulta, nell’infanzia e nell’adolescenza).

BAMBINO

È il luogo dei bisogni e desideri, della creatività e della fantasia, di una tensione verso vissuti passati, mediata dal confronto con i l presente.

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Il Genitore è la dimensione che contiene i valori, le idee e le opinioni che sostengono le scelte individuali fondamentali (nella sfera lavorativa, delle amicizie, della famiglia, sull’orientamento politico e religioso, eccetera), e quelle anche meno importanti, ma non per questo meno significative (come, ad esempio, gli hobby, lo sport, il tempo libero e le vacanze).

Lo Stato dell’Io denominato Adulto non va confuso con la logica adulta (l’uso delle maiuscole ha lo scopo di distinguere le definizioni degli Stati dell’Io da genitore, adulto e bambino reali) e può essere considerato come la dimensione attraverso cui si analizzano i dati di realtà, si raccolgono informazioni, scevre da contenuti emotivi o etici, si elaborano azioni e soluzioni sulla base di quel che effettivamente è la realtà del momento.

Lo Stato dell’Io Bambino, custode di emozioni, sentimenti, percezioni, sensazioni, rimanda alla fase in cui l’individuo bambino, o infante, ha fatto il suo incontro con il mondo (essenzialmente quello costituito dalle cure genitoriali).

Nell’incontro tra due o più persone, le dimensioni dell’individuo si confrontano e interagiscono, spesso inconsciamente, con le dimensioni equivalenti dell’altro. Nell’esempio dell’immagine che segue, lo stato Genitore di “A” si rivolge allo stato Bambino di “B” che invia una risposta congrua allo stimolo ricevuto:

Individuo “A” Individuo “B”

Sarà utile precisare, prima di addentrarci nella trattazione, che: • non esistono gerarchie di valore nell’ordine in cui sono presentati gli Stati

dell’Io; • ogni stato si veste del suo specifico ruolo nel qui ed ora della relazione e del

contesto in cui essa si concretizza (e con le prospettive di soluzione che il momento suggerisce);

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G G

A A

B B

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• quando una persona esprime azioni, contenuti e forme di uno Stato dell’Io, esprime un momentaneo stato prevalente ma non esclusivo, poiché risultano sempre presenti anche gli altri Stati, benché silenti;

• la risposta che in quel momento viene data alle sollecitazioni esterne è sempre l’esito di un dialogo interno come mediazione tra tutti e tre gli Stati dell’Io;

• l’Analisi Transazionale considera patologico (e lo classifica come Esclusione) il comportamento come risultato sostenuto, in via esclusiva e prevalente, da un solo Stato dell’Io.

Nell’agire quotidiano, inoltre, l’Analisi Transazionale individua ulteriori livelli di ciascuno Stato dell’Io:

Il Genitore normativo positivo (Gn+) esprime valori e regole congrue ad un obiettivo specifico e chiaro e manifesta un’autorevolezza adeguata al contesto. Il Genitore normativo negativo (Gn-), invece, è manifestazione di pura autorità fine a se stessa: è mera applicazione di regole, la cui funzione risulta incomprensibile ai destinatari, con le evidenti conseguenze sulla qualità della relazione e sul benessere emotivo delle persone circostanti.

Il Genitore affettivo positivo (Ga+) esprime la modalità comportamentale che caratterizza chi si prende cura dell’altro per agevolare la risoluzione di un problema, nel rispetto della reciproca crescita e autonomia. Il Genitore affettivo negativo (Ga-), viceversa, è lo stato tipico di chi, nel maldestro (e, spesso, sincero) tentativo di fornire il proprio sostegno, lo fa senza rispettare l’altro, inibendo, così, la sua crescita e la sua autonomia. Il Genitore affettivo negativo è un soggetto che decide, agisce e pensa al posto dell’altro, svalutandone, a priori, le qualità, da quelle emotive e comportamentali, a quelle intellettive.

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Genitore Normativo (Gn)

Genitore Affettivo (Ga)

GNegativo (Gn-)

Positivo (Gn+)

Negativo (Ga-)

Positivo (Ga+)

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Anche lo Stato dell’Io Bambino ha funzionalità positive e negative.

Nel Bambino libero, le emozioni, le motivazioni, le percezioni, le sensazioni, i sentimenti, le aspettative possono essere espressi per essere condivisi e diventare una serie di variabili che alimentano intimità e rafforzano la relazione. In questo caso, siamo di fronte a un’emotività libera, autentica, tipica al Bambino libero positivo (Bl+). Se, viceversa, si manifestano esclusivamente nella loro urgenza di essere soddisfatti, ergendosi, in tal modo, al di sopra dei bisogni e dell’emotività altrui, siamo di fronte a un’emotività che risulta deleteria per la relazione: ecco che compare il Bambino libero negativo o ribelle (Bl-).

Gli individui, inoltre, possono sviluppare una propria emotività in funzione di un migliore adattamento all’ambiente relazionale circostante. Tale capacità di adeguamento, tipica del Bambino adattato positivo (Ba+), produce, per coloro che sono all’interno di quella data relazione, un concreto vantaggio sociale. Quando, viceversa, l’adattamento si concretizza in una svalutazione dei propri bisogni, emozioni e sentimenti (sulla base di quelle che si ritengono siano le aspettative dell’ambiente nei propri confronti, siamo in presenza del Bambino adattato negativo o iper-adattato (Ba-).

Allo Stato dell’Io Bambino appartiene anche il cosiddetto Piccolo Professore, vale a dire quella condizione caratterizzata dalla presenza prevalente della componente creativa, intuitiva, sensibile, fantasiosa, utile alla comprensione spontanea, immediata, non logica degli eventi. È quell’aspetto della personalità che conduce all’elaborazione di soluzioni improvvise (il problem solving creativo) e del tutto fuori dagli schemi, la cui variante negativa consiste nella tendenza a fornire risposte intuitive ma spesso frettolose, poiché non aggiornate alle informazioni utili e necessarie alla comprensione del problema a cui la risposta è diretta.

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B

Bambino Libero (Bl)

Bambino Adattato (Ba)

Positivo (Bl+)

Negativo (Bl-)

Positivo (Ba+)

Negativo (Ba-)

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I diversi livelli valgono anche per lo Stato dell’Io Adulto.

L’Adulto è nella dimensione positiva (A+) quando analizza la realtà ma restando in contatto con l’emotività e l’etica. È questa la dimensione ideale in cui l’individuo realizza la piena connessione tra la sua interiorità e l’esteriorità di cui ha bisogno la comunicazione per risultare fluida ed efficace ed esprimere, così, l’equilibrio tra ciò che si è e la complessità ambientale. Quando, viceversa, l’Adulto esprime negatività (A-), produce un’osservazione ridotta della realtà, poiché limitata all’analisi quasi neutra di dati e fatti, certamente utile a definire il che cosa stia accadendo ma senza riuscire a comprenderne il come. Ovvero, senza coglierne la complessità che è fatta anche di non detto e di non immediatamente visibile.

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A

Adulto Positivo (A+)

Adulto Negativo (A+)

SCHEMA RIEPILOGATIVOSCHEMA RIEPILOGATIVO

Genitore Valori appresi nell’infanzia e adolescenza

Adulto Pensiero logico

Bambino Emozioni, creatività e sentimenti

Gn+ Valuta senza criticare, dà regole funzionali allo scopo

Gn- Critica, ordina, domina e svaluta

Ga+ Protegge favorendo l’autonomia

Ga- Anticipa le richieste (svalutando e dominando)

A+ Osserva e dà soluzioni partecipando al clima emotivo che crea

A- Si attiene con distacco all’analisi dei dati

Bl+ Esprime emozioni senza giudicare (e svalutare) quelle altrui

Bl- Esprime emozioni giudicando e svalutando quelle altrui

Ba+ Adatta i suoi bisogni all’ambiente, traendo e offrendo vantaggi

Ba- Adatta i suoi bisogni a richieste ambientali immaginate

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L’EgogrammaSulla base di quanto detto fin qui sull’Analisi Transazionale, l’Egogramma è lo

strumento che permette di monitorare l’attività degli Stati dell’Io per evidenziare, tra questi, quale si attivi prevalentemente nel relazionarsi. Esso permette, dunque, di comprendere in che modo si sta comunicando. Segui l’esempio che segue, provando a realizzare la tua egografia mediante domande e risposte che richiamano le tue dimensioni etiche, logiche ed emotive. Ad ogni risposta fai coincidere uno Stato dell’Io e il suo versante sulla base delle definizioni fornite in questa sezione.

Il risultato

evidenzia che lo Stato dell’Io più attivo è il “Gn”. Conoscere, dunque, il mio modo di relazionarmi agli altri attraverso uno stato specifico rimanda al passo successivo che è prevederne i possibili esiti, ovvero, le risposte dell’altro, ed organizzare il mio messaggio per approdare efficacemente al risultato desiderato, comunicando al meglio e in maniera funzionale. Esiti che, naturalmente, variano a seconda dei diversi tipi di transazione. L’Analisi Transazionale individua, infatti, un modello di scambi

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ESEMPIO DI EGOGRAMMA BASATO SU DOMANDE E RISPOSTEESEMPIO DI EGOGRAMMA BASATO SU DOMANDE E RISPOSTEESEMPIO DI EGOGRAMMA BASATO SU DOMANDE E RISPOSTEESEMPIO DI EGOGRAMMA BASATO SU DOMANDE E RISPOSTEESEMPIO DI EGOGRAMMA BASATO SU DOMANDE E RISPOSTEESEMPIO DI EGOGRAMMA BASATO SU DOMANDE E RISPOSTE

Mai A volte Spesso Molto spesso Sempre

Dico ciò che penso X (Bl-)

Ascolto gli altri e poi dico la mia X (A)

Le regole sono importanti X (Gn+)

Le regole sono un limite X (Gn+)

Esamino i dati necessari e poi decido X (A)

I problemi si risolvono con la ragione e non con i sentimenti

X (Gn-)

So farmi rispettare X (Gn-)

Rispetto l’opinione altrui anche se non sono d’accordo X (Gn+)

Comprendo chi sbaglia X (Gn-)

Curo i dettagli X (A)

Sbagliando si impara X (Gn-)

A Gn+ Gn- Bl-

3 4 3 1

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transazionali che favorisce la comprensione di cosa accade effettivamente tra le persone quando interagiscono.

La comunicazione semplice Un primo tipo di scambio è costituito dalle cosiddette transazioni semplici o

parallele. La comunicazione semplice si realizza quando lo stimolo che parte da uno Stato dell’Io dell’emittente, diretto a sollecitare uno specifico Stato dell’Io nel destinatario, ottiene la risposta prevista. Ad esempio:

“Ti ho detto di finire i compiti prima di accendere la tv!”“Sì, papà!”

Questo tipo di comunicazione, definita semplice, potrebbe procedere all’infinito.

In una transazione commerciale, per fare un altro esempio di comunicazione parallela, lo scambio tra cliente e venditore sarà:

“Se mi fa lo sconto può essere che decida di acquistare da lei!” “Mi spiace: tutti i prezzi che le ho esposto sono già scontati al massimo.”

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G G

A A

B B

G G

A A

B B

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La comunicazione incrociataLe transazioni incrociate sono delle interruzioni impreviste alla continuità della

comunicazione parallela. L’incrocio si realizza quando la risposta giunge dallo Stato dell’Io diverso da quello che lo stimolo intendeva sollecitare. Nell’esempio:

“È da mezz’ora che sono qui ad aspettare i tuoi comodi!”“Se tu imparassi a usare quell’accidenti di cellulare, sarebbe facile avvisarti degli

imprevisti!”

Nell’episodio specifico, la comunicazione scivola, almeno momentaneamente, verso una conflittualità o, comunque, in un’altra direzione rispetto a quanto programmato dai protagonisti. L’esempio più classico di questo tipo di transazione, peraltro, lo trovi proprio nelle vendite (specie in quelle condotte male): “Le spiego i vantaggi della mia offerta!”, dice il venditore. Per tutta risposta, il cliente ribatte con un distaccato “Non perda tempo: non mi interessa”.

Non c’è una regola sui tempi di comparsa della comunicazione incrociata: la puoi ritrovare indifferentemente agli esordi del dialogo, quando la comunicazione è già avviata oppure la può chiudere definitivamente. Ma in tutti casi, allorché compare, la relazione prende una piega imprevista e distonica rispetto agli obiettivi a cui essa, in origine, tendeva. Resta inteso che queste considerazioni valgono finché la comunicazione incrociata compare spontaneamente e in maniera imprevista. Se, viceversa, è pilotata dalla voglia di levarsi dei sassolini dalla scarpa o da un modo di fare abitualmente autoritario e squalificante, nulla potrà frenare la tua voglia di strigliare il tuo interlocutore (ma dovrai tenere ben in mente che, così facendo, la lite è l’unico obiettivo a cui puoi tendere). L’incrocio della comunicazione generalmente disattende, infatti, aspettative e motivazioni e produce in chi vi è coinvolto emozioni e sentimenti negativi. Da questo punto di vista rappresenta una tipologia transazionale da prevenire ed evitare, in quanto fattore bloccante, anche se è opportuno precisare che non sempre è da considerarsi un ostacolo. Se così fosse, infatti, dovremmo ammettere che sempre la forma produttrice di sentimenti positivi è la comunicazione

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G G

A A

B B

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parallela. Invece così non è. Talvolta una transazione incrociata ha l’effetto auspicabile di interrompere una comunicazione competitiva (fatta di incroci che seguono ad altri incroci) o una parallela dove, ad esempio, c’è sempre un soggetto dominante che dà ordini e c’è sempre un soggetto dipendente/subordinato che li esegue, anche quando appaiono improduttivi.

La comunicazione ulterioreIn talune circostanze la comunicazione si realizza mediante un tipo di

transazione in cui il livello sociale è tutt’altro rispetto al livello psicologico. È il caso della cosiddetta transazione ulteriore, quel tipo di scambio che apparentemente tende a sollecitare la componente logica del destinatario mentre, di fatto, si rivolge alla sua dimensione emotiva. L’ulteriorità si fonda sul fatto che lo stimolo esplicito è Adulto-Adulto, mentre, in verità, viene messa in atto una sollecitazione Genitoriale iper-critica nei riguardi del Bambino iper-adattato dell’interlocutore. Se la transazione ulteriore è consapevole, ovvero, se l’individuo sa di chiedere una cosa per ricavarne un’altra, egli mette in atto delle manovre. Se, viceversa, il medesimo meccanismo è messo in atto inconsapevolmente (cioè, l’individuo crede di dire una cosa ma in realtà esprime tutt’altro genere di istanza), esso è alla base della manipolazione della volontà altrui. Manovre e manipolazioni, in definitiva, sono, dunque, modi di chiedere, consapevolmente le prime, inconsapevolmente le seconde, senza assumersi la responsabilità di avanzare concretamente la richiesta.

Comprenderai bene, a questo punto, come che questo tipo di transazione è uno strumento potentissimo nelle mani dell’abile venditore. Egli, infatti, può condizionare fortemente il suo cliente utilizzando questa modalità di comunicare per raggiungere i propri obiettivi. Ecco un esempio:

“No, no: questo prodotto non posso darglielo perché è troppo costoso.”

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G G

A A

B B

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In genere, è una transazione che funziona, salvo quando il venditore incontra un Bambino rassegnato (che rinunciato a desiderare) o arrabbiato (perché è costretto a rinunciare a desiderare): reiterare la transazione ulteriore in simili circostanze alimenta frustrazione e rabbia nel cliente e disagio e demotivazione nel venditore.

La comunicazione al centro del bersaglioUn’ultima transazione da analizzare, è quella soprannominata comunicazione al

centro del bersaglio, definizione con cui si intende un messaggio che ha la sua origine nell’Adulto dell’emittente per dirigersi, contemporaneamente, verso tutti e tre gli Stati dell’Io del destinatario. Nell’esempio:

Cliente “A”: “Con i tempi che corrono o mi fa lo sconto o si tiene il prodotto”.Venditore “B” : “Comprendo le difficoltà dovute alla crisi. Per questo il prezzo (A)

che le propongo è già contenuto. Abbassarlo ancora (G) vuol dire ridurre la qualità del prodotto (B).”

Cliente “A” Venditore “B”

La transazione al centro del bersaglio si concretizza in un coerente insieme di segmenti di messaggio, ognuno teso a sollecitare uno specifico Stato dell’Io nell’interlocutore. Perché sia efficace, è bene che essa sia breve sul piano verbale e rinforzata da congrui segnali non verbali. Inoltre, risulta la forma di messaggio più diretta ed efficace a superare le conflittualità relazionali, poiché sollecita i livelli positivi degli Stati dell’Io (così come descritti). Contemporaneamente, tuttavia, per il suo aspetto globale, è la forma comunicativa che meglio produce, esattamente al contrario, squalifiche e svalutazioni in chi ne è destinatario.

Anche in questo, come anche negli altri casi, dunque, occorre un’accurata preparazione e una buona conoscenza degli strumenti, poiché solo questo può incoraggiare un uso consapevole delle tecniche di comunicazione efficace e

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G G

A A

B B

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scongiurare gli effetti devastanti di una modalità impropria o incongrua di relazionarsi al mondo esterno.

Vendere o motivare con l’Analisi Transazionale?L’Analisi Transazionale è molto utilizzata, oltre che come tecnica di

comunicazione efficace, anche come tecnica di vendita. Naturalmente, la sua conoscenza e applicazione non creano un bisogno che nel cliente non c’è: al più, favoriscono un processo lineare di comunicazione, attraverso il quale il venditore può portare il cliente a scoprire le sue necessità latenti e ad incontrare le motivazioni all’acquisto, facendo leva su di esse per concludere un affare. Il venditore, dunque, non induce alcun bisogno nel cliente che già non sia parte della sua sfera emotiva. Poiché, però, questi bisogni il più delle volte non sono consapevoli (o le emozioni e i pensieri negativi in merito a quell’acquisto sono prevalenti), il compito del venditore è favorire, nel cliente, l’incontro e la presa di coscienza delle sue esigenze, dei suoi desideri e motivarlo verso la loro realizzazione. Se riuscirà nella sua missione, il cliente farà di tutto per possedere il prodotto che il venditore gli propone: la sua abilità sarà indurre nell’altro un’urgenza (il senso di una mancanza) di ordine materiale, biologica o affettiva, che solo l’acquisto può colmare. Gli studi in materia, infatti, dimostrano che quanto più intensa sia la percezione della distanza tra noi e l’oggetto del nostro desiderio, tanto maggiore sarà il grado di energia mobilitata per soddisfare quel desiderio. In quel momento, tutta questa energia mobilitata si traduce in azione, in comportamento adeguato allo scopo e in acquisto.

Ecco perché è lecito sostenere che il venditore sia anche (e soprattutto) un motivatore. Del resto, è necessario che lo sia: la diffusione esponenziale di prodotti e servizi nel mercato dei consumi in piena globalizzazione, la loro incessante esposizione mediatica nell’era di internet, la concorrenza e l’opportunità per i consumatori di acquisire informazioni anche su prodotti poco conosciuti, rendono inefficaci forme di comunicazione e tecniche di vendita, anche online, che non tengano in debito conto i bisogni delle persone. Specialmente in tempi di contrazione dei mercati e delle risorse.

Il venditore, dunque, diventa perciò un motivatore quando: • favorisce nel cliente una chiara definizione del bisogno (in questa fase, la

comunicazione segue prevalentemente il modello Adulto-Adulto);• sollecita nel cliente la presa di coscienza del suo personalissimo bisogno (in

questa fase, la strategia comunicativa consigliata è quella in linea con il sistema cognitivo-emotivo del cliente e ne tocca tutti e tre gli Stati del’Io);

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A tal proposito, riporto l’esempio che cita Alfonso Falanga, autore dell’ebook Vendere un prodotto, promuovere un’idea (in tempo di crisi), testo che ti consiglio per tutti gli approfondimenti sull’Analisi Transazionale: “Il nostro software le permetterà, in tempi rapidi e a costi ridotti, di inviare le sue proposte commerciali ad una vasta mailing-list di potenziali clienti ed il tutto nel pieno rispetto della normativa sulla privacy. Si rende conto che lo stesso risultato, mediante posta cartacea, risulterebbe estremamente lungo e dispendioso?”

• elabora, con il cliente, la strategia di acquisto più idonea a realizzare la meta: in tal caso, la comunicazione è rivolta prevalentemente al Genitore (condivisione) e al Bambino (rassicurazione) del cliente.

Il segreto delle vendite, dunque, è la motivazione. Molto di più della persuasione. Intendiamoci: occorre conoscere le tecniche di persuasione ed affinarne le capacità. Utilizzarne le regole fondamentali, del resto, offre molti punti di vista in più sul funzionamento dei rapporti e delle negoziazioni per il raggiungimento di specifici obiettivi. Ma oggi è difficile concludere degli affari basandosi solo su di essa. La capacità di persuadere, infatti, suscita emozioni forti negli altri ma non provoca l’azione. E, in più, il suo effetto è breve e svanisce facilmente. Peraltro, il persuasore è molto abile nell’arte del parlare e, secondo l’Analisi Transazionale, nel suo approccio all’altro, si rivolge al Bambino dell’interlocutore. Il motivatore, viceversa, è molto abile nell’arte del comunicare e, oltre a far emozionare l’altro, ha l’obiettivo di indurlo ad agire. E, come abbiamo appena visto, per farlo, deve necessariamente rivolgersi a tutti e tre gli Stati dell’Io dell’interlocutore.

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La creatività, insieme alla curiosità, è una delle peculiarità significative di ogni essere vivente. È uno strumento di indagine su se stessi, innanzitutto, e sul mondo circostante, in seconda battuta, poiché la conoscenza dell’ambiente esterno è un’abilità che permette adattamento e sopravvivenza. Attività motoria/sportiva come Arte (Antica Grecia).

Dal punto di vista neurofisiologico, sappiamo che la creatività risiede nell’emisfero destro, l’emisfero non logico, non matematico, irrazionale, sede del cosiddetto pensiero laterale e che, nei soggetti che sviluppano grandi capacità creative, essa è in grado di aprire nuove strade, proporre nuove soluzioni, per lo più innovative e originali rispetto ai percorsi comunemente battuti dai più. Per contro, l’emisfero sinistro, logico, matematico, razionale, è sede del pensiero verticale che controlla e domina l’emisfero destro e il pensiero creativo.

È sempre difficile provare a semplificare concetti globali e universali come la creatività. Definirla e spiegarla è un po’ come cercare di svelare l’incantesimo del creare un qualcosa che un attimo prima non c’è e, all’improvviso, è lì, nelle molteplici forme in cui si presenta. Tutto è creatività: scrivere un biglietto di auguri, preparare una sorpresa, comporre una poesia, trovare i testi e le musiche per una canzone, guidare un’azienda, eccetera. Perfino esprimersi in un certo modo è creatività. Tutto rimanda al mistero della sua natura che, se da una parte, pervade l’intimo dell’artista,

CREATIVITÀ E COMUNICAZIONE

SEZIONE 5

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Pensiero Verticale(logico-razionale)

Adotta soluzioni rapide, tutte uguali basate su processi numerici non influenzabili (pc, calcolatrice, eccetera). Produce immediatamente 2, 3, 4 soluzioni ad un dato problema.

Pensiero Laterale (creativo)

Cerca nuove interpretazioni e soluzioni della realtà. Produce soluzioni flessibili che vanno in diverse direzioni e molto più lentamente ma qualitativamente più efficaci.

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dall’altra è innata in ogni essere umano, senza potersi mai identificare con depositari assoluti.

Molti studiosi si sono occupati di creatività ed hanno proposto la propria spiegazione sulla sua origine e, ancor di più, sulla sua funzione. In origine, il pensiero creativo era considerato qualcosa di blasfemo ma, con i secoli, è stato rivalutato, al punto da essere posto in stretta relazione con il benessere dell’uomo. Il dibattito moderno sulla possibilità che essa sia Arte (intendendo con questo termine tutto ciò che si fonda sull’inventiva dell’uomo, quale prova delle sue capacità espressive ) o Scienza (con ciò intendendo tutto ciò che si fonda su operazioni di pensiero in quanto risultato di progettazione sul piano teorico e di applicazione su quello pratico) è, del resto, in linea con questa evoluzione. Personalmente (ne parlo nel mio libro La tecnica della Fiabazione, da cui è tratta questa sezione), mi piace l’idea che la creatività sia una risorsa in grado di proporre la conversione in soluzioni per la vita di quella che Erich Fromm, psicologo tedesco vissuto tra il 1900 ed il 1980, definisce “aggressività maligna”, ovvero la malsana abitudine degli esseri umani a reagire distruttivamente anche davanti alle piccole avversità quotidiane.

Chi è, dunque, la persona creativa? La personalità creativa è una personalità curiosa, fantasiosa, disposta a prendersi dei rischi, libera. E tutti in qualche modo lo siamo. Benché, però, tutti utilizziamo il pensiero laterale (e, da questo punto di vista, siamo creativi) ma non tutti siamo per forza creativi o creativi allo stesso modo. Frank Williams, ideatore del TPC (Test della Personalità Creativa), il Test di misurazione della creatività come elemento della più ampia scala TCD (Creatività e Pensiero Divergente), propone una possibile definizione di creatività, secondo cui essa racchiude “le qualità psichiche di sviluppare idee, dopo aver valutato la situazione ambientale, con un’elevata velocità di pensiero che permetterà di ottenere il maggior numero di soluzioni tramite concetti elaborati dalla fantasia e dell’anticonformismo”.

Poiché, dunque, tutti usiamo sia il pensiero laterale che il pensiero verticale (che ostacola il sorgere di nuove idee, non è solo sterile di nuove idee originali), la creatività di un individuo dipende dalla capacità di rifuggire dal controllo esclusivo di quest’ultimo e dalla percentuale di uso dei due pensieri (il che ci permetterà di definirlo scarsamente, mediamente o decisamente creativo). La classificazione dipende, secondo la scala TPC, dalla rapidità con cui un soggetto, che esprime le qualità di pensiero in termini di

• fluidità (quantità di idee prodotte),• flessibilità (capacità di adattare le proprie idee a situazioni diverse),• disponibilità,

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• originalità (capacità produrre idee che vanno in direzioni diverse),• elaborazione delle informazioni e• anticonformismo, realizza tutti i punti proposti dallo schema d’azione del pensiero laterale:

Molti studiosi si sono occupati e si occupano tutt’oggi di creatività. In Italia, autorevole testimone è Daniele Brambilla, il quale spiega che esistono fondamentalmente due presupposti culturali per la creatività:

1. il primo è che essa appartiene a tutti gli uomini; 2. il secondo è che può essere sviluppata e migliorata. Nel suo modello, che coniuga l’Approccio Sistemico con la Non Direttività

Interveniente ed i metodi autobiografici, tra cui inserisco la mia Tecnica della Fiabazione, Brambilla spiega che “la creatività esprime un valore positivo che si esplica nei diversi ambiti attraverso la ricerca di un miglioramento che passa, appunto, dallo sviluppo delle capacità creative e i cui scopi possono essere i più disparati, come migliorare la qualità della vita, le capacità professionali, lo studio, le capacità ideative”.

Funzione della creativitàLa creatività è l’abilità che maggiormente aiuta l’uomo a conoscere se stesso (e

gli altri), poiché consente di attivare meccanismi di risoluzione di problemi incontrati nella vita quotidiana, allenando risorse interiori che a volte l’individuo stesso non sa o non crede di possedere. Quando, infatti, ci troviamo nella situazione di dover decidere come agire in un dato momento, la mente, coordinata dalle emozioni che produce quel determinato avvenimento (e se può contare sulle risorse creative), è in grado di contrastare e prevenire le difficoltà che può incontrare, di risolvere il quesito che le si pone in maniera inaspettata dalla quotidianità che incalza, fino a creare i presupposti per affrontare con maggiore prontezza un avvenimento futuro, simile o del tutto contrapposto (secondo che l’emozione correlata sia piacevole o spiacevole) a quello

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1identificazione delle

idee dominanti

2ricerca di nuovi

metodi di indagine

3evasione del controllo del pensiero verticale

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che ha da poco vissuto. Così, può accadere che, durante la costruzione di una storia di fantasia, come accade nei setting di formazione e crescita personale che conduco con la Tecnica della Fiabazione, diventi possibile conoscere o riconoscere oggetti intimi che, riflettendo sul significato del proprio vissuto e sulla qualità delle azioni compiute, solo il protagonista può interpretare, decodificando i simboli con cui le informazioni gli si manifestano. Può, ad esempio, capitare, leggendo una storia fiabesca che simboleggia la vita vissuta di un qualsiasi essere umano, d’identificarsi con il protagonista che affronta paure e angosce legate al probabile esito, positivo o negativo, di una missione, ma di sentirsi inconsciamente complice anche delle azioni dell’antagonista della storia, colui che si contrappone al personaggio principale, durante il tentativo di disseminare insidie e ostacoli lungo il viaggio dell’eroe. E identificarsi con l’antagonista vuol dire entrare in contatto con la parte in ombra di sé, perché racchiude pensieri ed emozioni inaccettabili alla parte cosciente di ognuno. Rendersi consapevoli della propria parte in ombra, d’altro canto, consente di conoscere meglio se stessi, di dare ulteriore senso ai propri comportamenti e alle modalità relazionali che si mettono in atto con gli altri, comprendendo, in tal modo, anche i comportamenti degli altri nei propri confronti.

Creatività e comunicazioneUn importante fattore che guida alla comprensione di se stessi e degli altri è

l’osservazione del corpo, inteso come mezzo di comunicazione dei propri stati mentali ed emozionali. Ogni emozione conduce, infatti, ad un comportamento e ogni comportamento nasconde un’emozione: l’equazione che ne scaturisce è la descrizione della natura inconscia delle relazioni interpersonali. Ogni parola, ogni gesto, ogni modo corporeo di porsi descrive la natura di ciascuno e la comprensione di questi elementi aiuta a rendere più consapevoli il significato dell’esperienza vissuta e del mondo circostante.

In questo teorema, la creatività è il ponte tra la vita inconscia e la sua elaborazione, poiché permette di attribuire una forma, solitamente una forma artistica, sonora, pittorica, gestuale, a quei vissuti ed alle emozioni che sono ad essi collegate. È, in altre parole, la spinta a ricercare dentro di sé, spontaneamente, e portare fuori, attraverso la cassa di risonanza che è il corpo, in modalità sempre nuove, elementi che da sempre hanno fondato la nostra esistenza e di cui non abbiamo avuto, fino a quel momento, grande consapevolezza. Ecco perché sulla creatività si basano molti percorsi (o moduli di studio nei corsi) di crescita personale e professionale, oltre a discipline (come le Arti Terapie, ad esempio) che fondano sulla

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non consapevolezza, sull’universalità e sulla spontaneità del processo del creare qualcosa dal nulla, interventi di sostegno agli altri basati sul rinforzo (e del recupero, in alcuni casi) delle abilità relazionali, interattive, delle capacità di comunicare. Perché (lo abbiamo visto):

• oltre ad una comunicazione di significato, basata sulla parola, esiste una comunicazione di senso, basata sulle emozioni;

• portar fuori le emozioni aiuta a comunicare con il mondo; • la creatività è una messa in forma proprio delle emozioni e• perché la creatività è di tutti.

I formatori sanno bene, tuttavia, quanto sia complesso il lavoro con la creatività, specialmente fuori dai contesti d’aiuto. Infatti, bambini e pazienti, ad esempio, hanno una maggiore propensione ad accettare l’assenza di giudizio e il gioco di quanto non accada nei contesti formativi con gli adulti normodotati: la presenza di un Io sempre vigile inibisce, in molti casi, l’accesso a quelle risorse, un po’ come accade nell’alternanza veglia-sonno. Come per l’attività onirica, momento in cui la parte razionale della nostra mente allenta la pressione, lasciando al sogno la libertà di parlare apertamente e nella più completa verità alla persona (cosa che non accade durante il resto della giornata), anche nelle attività creative bisogna prima mettere fuori gioco l’Io per accedere a quel serbatoio che contiene le chiavi di lettura della storia individuale. Per farlo, è necessario mettersi in gioco, rinunciando al giudizio, al pre-giudizio e spingendosi oltre i limiti delle difese che la mente impone. Parlare di sé, scoprirsi non è affatto semplice. Così, quando le persone che si accostano ai corsi di formazione, anche genericamente finalizzati alla crescita personale, ad esempio, scoprono di non essere impegnate ad uno mnemonico o funzionale apprendimento di tecniche ma, bensì, in percorso di cambiamento e di riassetto della personalità che le riguarda globalmente, tendono a fuggire davanti agli strumenti che, come la creatività, espressione in forma artistica di emozioni, aggirano le difese che erigono per rassicurarsi, per non sentirsi inadeguate e, perché no, per paura di sentirsi ridicole. Un corso di formazione sulla comunicazione, di marketing, di coaching, invece, è un’attività in cui ci si svuota di ciò che si ha dentro per poi riappropriarsene quando sarà chiaro quel contenuto e la sua funzione nella vita relazionale. È, dunque, prima di tutto un percorso di autoconoscenza, di conoscenza, di cambiamento e, solo alla fine, di acquisizione di tecniche. In fondo, come posso dire che l’altro mi comunica qualcosa sul piano emozionale se non incontro quello stesso contenuto in un training (quelli di Arti Terapie e di Coaching a mediazione artistica sono i più indicati) che mi

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sveli i segreti della comunicazione non verbale? Ecco: la creatività è il mezzo più immediato per arrivare a questo vertice di osservazione, a questa consapevolezza rispetto al nostro modo di essere con noi stessi e con gli altri. L’espressione artistica è, infatti, espressione del profondo, oltre ogni difesa e resistenza. Per questo, scoprire la propria abilità creativa diventa il primo passo verso una conoscenza più profonda e chiara di se stessi. La chiave di lettura è nel prodotto artistico: se scrivo una fiaba, suono, danzo, mi muovo creativamente, creo un’intercapedine tra me e i miei oggetti interni che, ora, sono fuori e sono osservabili da questo nuovo punto di vista. Imparo così a conoscere meglio me stesso, a capire che cosa gli altri vedono di me e in me e ne comprendo le ragioni. Riappropriandomi di questa consapevolezza, posso adesso ritrovare negli altri codici affini ai miei o codici relazionali differenti, ai quali, tuttavia, posso adattare i miei che ottenere il massimo dal processo di empatia che posso instaurare.

Così, la creatività conduce a quel modo di relazionarsi al mondo, tipico del bambino, che vive senza soffermarsi troppo sugli ostacoli che comporta la quotidianità ma che, al contrario, condotto dalla sempre viva curiosità, mette in atto le capacità creative per attribuire senso, ancor prima che significato, all’ambiente, aiutandosi a soddisfare i propri bisogni di auto-appagamento e di conoscenza. Non a caso parliamo di attribuzione di senso, ancor prima che di significato, al mondo circostante. Nel metodo autobiografico, infatti, la conoscenza dell’ambiente circostante passa per l’esplorazione e l’osservazione dei propri codici comportamentali. E gli studi della Programmazione Neuro Linguistica, a cui è dedicata un’intera sezione in questo capitolo, dimostrano come nella comunicazione con gli altri solo una minima parte del messaggio sia veicolata dal linguaggio verbale, mentre la maggior parte del messaggio passa attraverso codici non verbali e paraverbali, ovvero attraverso quei codici che sono immediata espressione dell’inconscio e che contattano l’altro in modo naturale, spontaneo e non controllabile. Per questo la comprensione di se stessi tramite l’espressione creativa, che è espressione spontanea dell’inconscio, passa per la presa di consapevolezza della cosiddetta comunicazione di senso (il significante della comunicazione), incentrata su codici non verbali, propriamente emotivi, per contrapposizione alla comunicazione di significato, incentrata sui contenuti neutri della stessa (il significato, appunto, della comunicazione). È la prima, infatti, che consente di comprendere aspetti di sé che la comunicazione verbale non è in grado di far comprendere, perché un’emozione esprime molto di più delle parole. Basti pensare a una qualsiasi espressione facciale o alla postura oppure a un gesto, tutti mezzi di

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comunicazione più immediati e che vanno colti e decifrati, perché più veri e ricchi di contenuto significativo.

Ciò che, quindi, unisce la creatività con l’inconscio, per chiudere questa trattazione, è l’evidenza che l’individuo ha la possibilità di dare piena e immediata espressione alle emozioni tramite il movimento, il suono o il colore, oppure tutto nello stesso momento, bypassando l’uso della parola (la nostra parte razionale) che ne può invece ostacolare la piena rappresentazione. È come, in altre parole, dover portare l’attenzione su di sé, sentendo sul proprio corpo (che diventa un amplificatore) il defluire delle emozioni con cui i vissuti si raccontano a se stessi. E da qui ripartire alla volta della conoscenza degli altri, dei loro codici espressivi e delle modalità di entrare in sintonia con loro, adattando flessibilmente ad ogni nuovo incontro i nostri codici comunicativi.

Non esiste, se ci pensi, tecnica di comunicazione più efficace di questa.

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Dale Carnegie, scrittore e insegnante statunitense scomparso nel 1955, ideatore dei più autorevoli corsi sullo sviluppo personale, sulla vendita, sulla leadership e sull’abilità di parlare in pubblico attribuiti alla scuola americana (a cui apparteneva anche Frank Bettger), nel suo Come parlare in pubblico e convincere gli altri cita (pag. 97 dell’edizione Bompiani) l’esempio di un membro del Congresso degli Stati Uniti che fu fischiato così sonoramente dagli uditori da essere costretto ad abbandonare il palcoscenico del New York Hippodrome. L’indignazione del pubblico, invero, era montata pian piano davanti al discorso informativo che stava tenendo l’oratore in quella circostanza: dapprima gli sbadigli, poi un brusio di sottofondo e, infine, la gente che abbandonava l’aula, non furono da lui ritenuti dei segnali abbastanza eloquenti della noia che stava alimentando con il suo modo di parlare. Finché alcuni spettatori non si levarono in piedi per chiedere urlando all’imperterrito relatore di accomodarsi fuori.

Poche figuracce per un convegnista possono essere considerate peggiori di quella. Ma è un rischio a cui si espone un relatore impreparato, che non abbia minimamente idea di come approcciare un discorso in funzione dei suoi obiettivi e adatto alla composizione e al livello di preparazione del suo pubblico.

Secondo Aristotele, il padre dell’Oratoria, la forza di convincimento di un relatore dipende dalla contemporanea presenza di logos, pathos ed ethos all’interno di ogni discorso, anche il più banale e scontato (o ritenuto tale dal relatore esperto).

Il Logos è la componente razionale, contenutistica, che serve per dare credibilità e fondatezza al discorso. Riguarda il processo che parte dalle premesse per giungere alla conclusione finale ed ha nell’esempio e nell’entimema gli strumenti fondamentali:

• il primo è costituito dai fatti reali o di fantasia che conducono a determinate conclusioni attraverso il ragionamento induttivo (quello che dal particolare porta all’universale);

L’ARTE DI PARLARE IN PUBBLICO

SEZIONE 6

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LOGOS PATHOS ETHOS

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• il secondo, detto anche sillogismo retorico, è il ragionamento deduttivo (che dal generale porta al particolare) che prende spunto da premesse verosimili, generali e condivise, per poi giungere all’analisi di situazioni specifiche e concrete.

Il Pathos racchiude la capacità di coinvolgere il pubblico nelle emozioni che il relatore cerca di trasmettere. Esso rappresenta la passione, l’emotività e l’entusiasmo che occorrono per scatenare e guidare, in maniera incisiva, le emozioni nel pubblico. Per riuscire in questo intento, il primo a lasciarsi andare ai proprio stati d’animo dev’essere il relatore il quale, con le doti di comunicatore, dovrà trovare il modo di farle arrivare al pubblico.

L’Ethos riguarda la coerenza (l’etica, per l’appunto) tra ciò che si pensa e ciò che si dice. L’arma vincente del bravo oratore è, infatti, la sua credibilità, conquistata prima e durante l’intervento in base alle reali conoscenze emerse. Tale coerenza, inoltre, è tanto più apprezzata dagli uditori quanto maggiori sono l’interesse per il pubblico (molti relatori spesso lo dimenticano) e il livello di congruenza tra i diversi livelli di comunicazione, verbale, paraverbale e non verbale.

Rivisitati negli oltre duemila anni che separano Aristotele dalle scuole di oratoria di Dale Carnegie in molti modi differenti di intendere l’arte di parlare in pubblico, questi elementi sono tuttora riconosciuti come i principi cardine intorno ai quali costruire discorsi efficaci e da cui parto come premessa di carattere generale a questa trattazione.

Il segreto di un discorso efficaceLo studio del Public Speaking, come oggi viene comunemente chiamata l’antica

arte dell’oratoria, ha la funzione di formare il relatore a preparare bene ogni suo discorso, in funzione della sua finalità, del pubblico a cui è rivolto e del contesto in cui viene tenuto. Rispetto a ciascuno di essi, infatti, è il caso precisare che esistono una serie di elementi comuni, che vedremo per lo più tra i consigli pratici ed essenziali da tener presenti in fase di preparazione, ed una sostanziale differenza a seconda dello scopo che si prefiggono di raggiungere. Carnegie propone una distinzione sostanziale tra discorsi per:

persuadere o provocare una risposta;informare;impressionare e convincere;intrattenere.Procediamo per gradi e vediamo, prima di tutto, che cosa serve che tu tenga

presente durante la fase di ideazione del discorso.

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Non esistono argomenti noiosiCome fare a rendere interessante un discorso? Gli esperti dicono che non

esistono argomenti noiosi ma solo relatori noiosi. Ecco alcuni consigli per non cadere nella trappola della banalità.

1. Innanzitutto, occorre delimitare il tempo dell’intervento e il numero di idee da trasferire al pubblico in quel lasso. Ad esempio, se il tuo discorso deve occupare uno spazio di dieci minuti, è inutile e improduttivo concepire un numero di argomenti superiore a cinque: il pubblico finirà per perdersi, non ricorderà nulla e tu risulterai poco efficace.

2. È buona norma non scrivere mai un discorso. Tantomeno leggerlo. C’è poco di più noioso di un relatore che legge il suo discorso o che cerca di ricordare a memoria un passaggio che in un dato momento potrebbe sfuggire (l’emozione sul palco può giocare brutti scherzi). Molto meglio, viceversa, appuntare in una slide (o su di un foglio, se non ti avvali di supporti informatici) i passaggi salienti da affrontare e procedere seguendo un chiaro progetto mentale di decollo, volo e atterraggio (per dirla con una metafora), ovvero di un buon inizio, di una serena navigazione nei contenuti da trasferire e di una efficace e coerente conclusione.

3. Il momento più difficile di un discorso è l’inizio. Bisogna superare la paura del palcoscenico (è una paura sana che non passerà con gli anni e con l’esperienza): un respiro profondo prima di entrare in azione è sempre un buon modo per mascherare questa paura, benché agire come se non si avesse affatto paura (e convincendosene) è sempre lo stratagemma migliore per ingannare la mente. La preparazione farà il resto.

4. Appena inizi, devi saper catturare l’attenzione del pubblico. E quello che cattura di più sono le storie. Salta i convenevoli, del tipo “per me ora è difficile dire qualcosa che abbia un senso, dopo aver sentito gli altri relatori” o “non so perché gli organizzatori abbiano invitato proprio me a parlare di questo argomento” o, ancora, “non ho preparato quasi nulla per questa mia relazione”. Al pubblico non importa niente di tutto questo. Piuttosto, un esordio di questa fatta è un modo per rassicurarsi e nascondere le emozioni che naturalmente si provano ad essere davanti a decine (o centinaia) di persone: meglio, allora, ammettere “mi emoziona molto essere qui davanti a voi”, perché questo ti rende più “umano” e meno distante da chi ti ascolta. L’esordio di un discorso, dunque, è bene che sia concepito con l’unico scopo di rapire gli spettatori raccontando qualcosa di te, della tua vita e di quello che hai imparato sul tema che stai trattando nel corso della tua esperienza. Il pubblico ama sentir parlare di esempi reali. Così, raccontare aneddoti relativi al

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periodo della tua formazione scolastica, delle tue prime conquiste per farti strada, di credenze e convinzioni che hai modificato e sconfitto per essere lì dove sei, dei tuoi hobby e delle tue passioni, ti rende interessante e vero.

5. Inizia sempre con un esempio. Quando lo fai, personalizza i dettagli con nomi e particolari e, soprattutto, rivivi tu prima di tutti quell’esperienza che porti: imita i toni di voce, la gestualità, gli oggetti e fai vivere dinamicamente l’azione ripercorrendola fisicamente ed emotivamente.

6. I nervi che vanno dall’occhio al cervello hanno un diametro superiore di quelli che partono dall’orecchio verso il cervello. Inoltre, circa il 70% delle persone utilizza la vista come sistema rappresentazionale privilegiato per decodificare la realtà (rivedi, in proposito il capitolo sulla comunicazione, in particolare la sezione sulla Programmazione Neurolinguistica), mentre almeno l’85% dell’apprendimento avviene per immagini. Per questo, è sempre consigliabile parlare, come se dovessi far vivere al tuo pubblico la scena di un film: i più abili oratori sono sempre coloro i quali riescono a far vedere agli uditori ciò di cui parlano.

7. Abbi cura di usare un linguaggio semplice e chiaro, senza tecnicismi che inquinano la fruibilità del messaggio ad un pubblico diversificato. La ricchezza del vocabolario e la semplicità di esprimere in modo lineare i concetti più difficili sono qualità molto apprezzate nei conferenzieri.

8. Non trascurare il piccolo dettaglio di valorizzare il tuo pubblico. Agli uditori piace sapere che quel particolare discorso è pensato per loro. Se, ad esempio, ti trovi a tenere una conferenza al Rotary Club di Lecce, chi ti ascolterà percepirà il tuo interesse se dimostrerai di sapere dove ti trovi e che, mettiamo, il primo Presidente (di cui citerai il nome: una ricerca ti sarà utile) aveva già ai suoi tempi avviato cicli di convegni come quello in cui ora sei invitato a parlare. Oppure, se sei chiamato a relazionare ad Ancona sul Terzo Settore, è bene che tu sappia da chi è composto il tuo uditorio e che ti presenti con dati reali relativi all’oggetto della conferenza ed al territorio che la ospita (che, naturalmente, è diverso da altri, anche se la materia è la stessa). Il riscontro da parte del pubblico di un interesse nei suoi confronti ti darà una marcia in più, se hai in mente di raggiungere un dato obiettivo.

Il centro del discorsoParlare in pubblico non è come confrontarsi con un interlocutore unico.

Comunicare con una serie indifferenziata di persone segue regole proprie, diverse dalla dialettica relazionale: parlare in pubblico, infatti, non significa semplicemente esprimere dei concetti ma trasmettere dei messaggi per convincere una moltitudine di

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persone, tutte differenti tra loro, con proprie idee, valori, sistemi di rappresentazione della realtà, e conseguire l’obiettivo di conquistarle come se fossero una persona sola.

Non basta, dunque, avere qualcosa da comunicare: l’essenziale è scegliere il modo giusto di farlo, affinché risulti decisivo. Ciò non significa che il contenuto del discorso sia secondario ma la sua forza ed il suo impatto sono determinati da come viene presentato. Il risultato, quindi, dipende dall’abilità e dalla preparazione del relatore, dalla qualità e dalla forza del messaggio e dall’importanza che si dà al pubblico.

Una delle operazioni preliminari che, come conferenziere, devi effettuare, prima e durante la gestione di un uditorio, consiste nel lavorare su te stesso per modificare la tua percezione interna: il relatore efficace è quello che usa il proprio corpo e la propria voce come “armi” potenti ed utili per catturare e trattenere l’attenzione del pubblico, sottolineando i passaggi più importanti del suo intervento. Non solo. Nell’approcciare il discorso e agevolare comprensione e apprendimento, devi ricordarti quanto abbiamo detto nel capitolo sulla comunicazione e, cioè, che ognuno percepisce la realtà attraverso i sensi, in particolar modo attraverso un senso privilegiato che ne determina il cosiddetto sistema rappresentazionale (l’immagine interna della realtà). È come se i messaggi provenienti dall’esterno venissero filtrati dai sensi e condizionassero i sistemi di apprendimento che diventano, così, personali e distinti da persona a persona. In base a queste evidenze, è bene che adotti alcuni accorgimenti, come ricorrere all’utilizzo di parole neutre che consentono alle persone di apprendere nel modo che preferiscono o all’utilizzo di tutti i principali sistemi rappresentazionali (visivo, auditivo e cenestesico) per coinvolgere tutti i tuoi interlocutori alla stessa maniera.

Il discorso per persuadere o provocare una rispostaÈ l’esempio di discorso breve, non superiore ai tre minuti, tempo sufficiente per

focalizzare l’attenzione del pubblico su ciò che ti accingi a chiedergli. Si fonda sui tre punti (ognuno dei quali richiede circa un minuto di tempo) di quella che Dale Carnegie definisce la formula magica ed ha l’obiettivo di indurre all’azione:

1. un esempio per iniziare;2. il punto, ovvero chiedere al pubblico ciò che ti aspetti che faccia;

RELATORE

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MESSAGGIO PUBBLICO

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3. la ragione, ovvero spiegare il perché dovrebbe farlo.L’esempio deve illustrare graficamente l’idea e dev’essere pertinente. Meglio se è

riferito ad un momento della tua esperienza di vita e con particolari pertinenti. Per catturare l’attenzione, rivivi quella storia mentre la racconti.

Il punto deve essere uno (e uno solo), breve e specifico. Dev’essere di facile comprensione e va enunciato con forza e convinzione. Mentre lo esponi, deve essere esplicita la richiesta di ciò che vuoi che il tuo pubblico faccia.

La ragione deve essere pertinente con l’esempio che hai portato e deve riguardare il vantaggio che comporterà per il tuo pubblico assecondare la tua richiesta. Attenzione: deve riguardare il vantaggio, nel senso che, se ritieni che i vantaggi siano più di uno, scegli quello (e solo quello) che consideri più importante.

Il discorso informativoDale Carnegie, in apertura di trattazione sul discorso informativo, cita nel suo

libro Come parlare in pubblico (pag. 113 dell’edizione Bompiani) l’esempio di un alto funzionario governativo che fu chiamato a tenere una relazione davanti alla Commissione Investigativa del Senato degli Stati Uniti. Parlò per oltre un’ora, annoiando mortalmente gli astanti. A conclusione dell’intervento, prese la parola Samuel James Ervin, il Senatore più anziano della Carolina del Nord che preannunciò un discorso ricco di significato. Disse che il precedente relatore gli ricordava tanto un suo vicino di casa che un giorno informò il suo avvocato di voler divorziare dalla moglie, nonostante fosse una bella donna, una brava madre e una cuoca eccellente.

“Ma allora perché vuole divorziare?”, gli chiese l’avvocato.“Perché non la smette mai di parlare” rispose.“E di che parla?” replicò il primo.“È questo il punto: non dice niente!” concluse il marito.La storia narrata da Carnegie, come noterai, è molto esplicativa e fotografa alla

perfezione (e con un esempio) il problema di molti oratori: parlano, parlano, parlano e non dicono niente. E quel poco che dicono lo dicono male e in maniera incomprensibile ai più. Se, pertanto, il discorso informativo è classificato al secondo posto dopo quello per persuadere, esso, tuttavia, rimanda al problema della chiarezza espositiva che è di gran lunga più importante di qualsiasi tentativo di indurre all’azione. Ecco, dunque, alcuni consigli per tenere un discorso con l’obiettivo di informare il pubblico.

• Delimita l’argomento in modo da affrontarlo in maniera esaustiva nel tempo a disposizione. Se, ad esempio, è stata assegnata un’ora di tempo al tuo intervento,

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non correre il rischio della guida turistica che pretende di far visitare una grande città in una sola giornata. Scegli, dunque, per bene come utilizzare in maniera funzionale ai tuoi scopi lo spazio che hai, senza divagare troppo o inserendo una gran quantità di informazioni di cui al tuo pubblico resterà ben poco.

• Ordina con chiarezza sequenziale le tue idee. La logica può essere quella del tempo (passato, presente e futuro), dello spazio (partire dal centro per poi allargare il raggio, spostandosi nelle periferie del tema che tratti) o della peculiarità dell’argomento (ad esempio, gli aspetti normativi, contenutistici e applicativi di una professione in cui proponi la formazione).

• Enumera per punti salienti gli argomenti da affrontare (ad esempio, “ho deciso di parlarvi dell’importanza del marketing nelle imprese sociali. Ci sono tre motivi fondamentali. Primo... Secondo...Terzo...”).

• Paragona sempre ciò che è insolito e tecnico con qualcosa di familiare e di facile comprensione per tutti. Per farlo, utilizza un chiaro esempio che ti permetta di trasformare il fatto esplicativo che racconti in immagini note a tutti, avendo cura di evitare termini difficili, per soli addetti ai lavori. Aristotele diceva: “pensate da uomini saggi ma parlate come le gente comune”.

• Se puoi, ricorri a supporti visivi. Non solo le slide: anche un oggetto che aiuti la comprensione del concetto che esprimi va molto bene. Un proverbio giapponese dice che vedere una volta è meglio che dire cento volte. A ciò si aggiunge il contributo della scienza che spiega che alle suggestioni dell’occhio diamo un’attenzione venticinque volte superiore a quelle dell’orecchio. Un esempio aiuterà la comprensione. In occasione di un convegno sulla Musicoterapia in gravidanza nel Palazzo della Cultura di Poggiardo, in provincia di Lecce, portai con me uno strumento musicale non convenzionale, costruito da Francesca per raccontare simbolicamente il suo modo di sentirsi. Francesca era una delle future mamme che prendevano parte al corso che tenevo insieme a Simona, la psicologa della nostra associazione. Si trattava di una grossa bottiglia in vetro trasparente, piena d’acqua a metà e con una dozzina di grosse biglie in vetro colorato all’interno. Tenevo l’oggetto dietro alla scrivania, in modo che gli uditori non potessero vederla durante gli interventi introduttivi e durante la mia premessa. Se avessi fatto vedere da subito il mammofono, così battezzò Francesca il suo strumento, l’attenzione di tutti sarebbe subito andata lì, distraendosi. Così, aspettai il momento giusto per metterlo fuori. Descrivere l’esperienza partendo dall’esempio visivo fu per me più semplice e catalizzò l’interesse del pubblico che poté, in tal modo, meglio comprendere ciò che a parole è sempre difficile spiegare. Il che conferma quanto sostiene Carnegie.

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Se utilizzi, dunque, un oggetto, abbi cura ditenerlo nascosto finché non devi usarlo;usare oggetti abbastanza grandi da poter essere visibili anche a chi è distante,

nelle ultime file;non far passare l’oggetto in platea, poiché crea una distrazione che diventa

ingestibile;non fissare l’oggetto mentre parli;farò vedere bene e metterlo via dopo l’uso.

Il discorso convincenteUna volta Alexander Woollcott, critico letterario statunitense vissuto nel secolo

scorso e illustre conferenziere, disse che “la sincerità con cui un uomo parla conferisce alla sua voce un tono di verità che nessuno spergiuro può simulare”. È la sincerità, credere fortemente in ciò che dici che assegna forza al discorso e persuade gli altri che il tuo punto di vista sia quello da seguire. Molti relatori, tuttavia, si accostano alla platea con presunzione o con il piglio della sfida che mal dispone il pubblico è attiva un’inconscia risposta negativa che con grande fatica può essere trasformata in positiva. Facciamo un esempio.

Maurice Goldblatt, un noto imprenditore di cui parla Carnegie, esordì, nell’occasione di una raccolta fondi perla ricerca sul cancro, con queste parole: “guardatevi intorno. Guardatevi l’un l’altro. Uno su quattro di voi morirà di cancro. È un semplice dato statistico, nulla di più.” Dopo un breve silenzio, riprese: “ma le cose stanno cambiando, grazie al progresso della ricerca. Volete contribuire anche voi a questo progresso?”

Quale credi sia stata la risposta intima di ciascuno degli uditori? Predisporre il pubblico al Sì con domande che hanno già in sé una risposta affermativa è la prima regola da seguire, se il tuo obiettivo è di convincerlo di qualcosa. Nella mente degli uomini, invero, scattano dei meccanismi per i quali, se anche chi parla ha punti di vista diversi dai nostri (prendi, ad esempio, un’interrogazione parlamentare che ha già in sé l’opposizione preconcetta degli avversari politici) ma lo si fa conquistandosi, strada facendo, tanti Sì, anche la conclusione inaspettata apre punti di domanda, rimane tollerabile e ammette delle sane riflessioni, seppur davanti ad un rifiuto. Naturalmente, quando non raggiunge l’obiettivo di convincere. Ma, per fortuna, non siamo sempre in Parlamento, dove la capacità di persuadere è più un fatto numerico che concettuale.

Dunque, ecco dei consigli per tenere un discorso convincente.

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• Abbi cura di evitare la condizione di rifiuto negli altri. Se succede, l’intero sistema neuro-muscolare si mette in assetto di chiusura e difesa che sarà difficile penetrare. Anzi, predisponi al Sì il tuo uditorio con domande basate su valori condivisibili che non ammettono il No come risposta intima scontata e che mirano a trovare un terreno comune d’accordo.

• Parla con sincerità e carattere; parla di valori e di dignità. Poiché tutti questi sono gli attributi essenziali di un’eloquenza efficace, in grado di suscitare emozioni e sentimenti positivi. Marco Fabio Quintiliano, oratore romano e maestro di retorica del I secolo dopo Cristo, definiva l’oratore un onest’uomo abile nel parlare.

• Parla con entusiasmo e convinzione: in quello che dici e nel modo in cui lo dici devono esserci i tuoi valori e tutta l’energia del corpo. È impossibile che negli uditori nasca opposizione e contrasto, se presenti le tue idee con forza, determinazione, intensa convinzione e entusiasmo contagioso. I tuoi occhi che si accendono e brillano delle emozioni che provi e che regali al tuo pubblico rivelano agli ascoltatori quanto profondamente credi in quello che dici, comunicano la sincerità dei tuoi sentimenti e determinano l’atteggiamento di risposta: se, dunque, il tuo spirito è quello giusto, riceverai consensi ma, se non credi fino in fondo in quello che dici, se menti, se sei solo un mestierante, il tuo pubblico se ne accorgerà e ti smaschererà subito, rifilandoti una sfilza di No che renderà vano ogni tuo sforzo di convincerlo. Così, se risulti freddo, anche gli uditori lo saranno; se sei irriverente e antagonista, il tuo pubblico accetterà la sfida (ma, in tal caso, avrai già perso), nonostante le belle frasi che potrai costruire per nascondere i tuoi veri sentimenti. Henry Ward Beecher, un politico statunitense della fine dell’’800, una volta scrisse: “Quando la congregazione si addormenta c’è solo da armare il custode di un bastone affinché dia una bella mazzata al predicatore”.

• Dimostra sempre rispetto per il pubblico. Alla gente piace chi la ama e nutre un sincero interesse nei suoi confronti. Le persone vere che non hanno remore ad ammettere di essere emozionate prima di affrontare un pubblico. Il pubblico lo capisce e apprezza perché si sente rispettato (ogni buon oratore all’inizio è sempre un po’ nervoso).

• Esordisci in modo amichevole. Congratularsi con il pubblico, ad esempio, per il semplice fatto di essere lì a seguire quel determinato convegno è un buon modo per risultare subito simpatico e farsi accettare. Il tuo intento come oratore, se tieni discorsi per convincere o impressionare, è inculcare nelle menti altrui un’idea (la tua) e farla accettare come propria. Se ci pensi, accade tutti i giorni di dover

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convincere qualcuno di qualcosa di diverso da quello che pensa. Se risulti simpatico, risulta per lo meno un po’ più semplice.

I discorsi improvvisati (per intrattenere)Ogni persona intelligente, in possesso di una sufficiente dose di autocontrollo, è

in grado d’improvvisare brillantemente un discorso. La capacità di raccogliere i pensieri e di lasciarsi andare all’improvvisazione, verbalizzandoli in modo scorrevole, anche quando non ci si è strenuamente preparati a portare il proprio contributo (o, peggio, se viene richiesto a sorpresa in un’occasione pubblica) è, in effetti, sinonimo di grande duttilità d’ingegno e caratterizza i veri oratori. Questo non vuol dire che improvvisare debba essere la regola ma solo che, all’occorrenza, bisogna saperlo fare (un po’ come avere sempre un piano B a portata di mano), atteso che, in verità, solo chi è davvero preparato ha spiccate capacità di improvvisazione che gli permettono di ben figurare in ogni occasione. Pertanto, sono esercitandoti ad improvvisare (chiedendoti, se, ad esempio, sei ad un convegno, “che direi io in questo momento se mi venisse data la parola?”) ti verrà con naturalezza di farlo, al punto che solo quando nessuno potrà accorgersi che utilizzi una tecnica sarai davvero apprezzato come un conferenziere efficace. Come esempio, mi viene di pensare al jazz: nasce dall’improvvisazione ma guai a non conoscere alla perfezione la musica e lo strumento che si suona! Chi ascolta, del resto, percepisce la fluidità della musica di cui gode, senza far minimamente caso alla tecnica. In azienda, poi, capita di dover prendere decisioni in riunioni nel corso delle quali la creatività e la genialità del leader permettono di produrre frutti in maniera estemporanea, nel preciso momento in cui una decisione dev’esser presa da un solo uomo. Inoltre, imparare a improvvisare è un esercizio che rafforza la fiducia in se stessi e fornisce dei paracadute ai conferenzieri davanti al rischio del buio inaspettato nel corso di una relazione.

Esistono due modi che Dale Carnegie consiglia per esercitarsi ad affinare la capacità di improvvisare dei discorsi. Certo, per alcuni sarà più facile e per altri più difficile. Ma l’importante è provarci finché non ci si riesce.

1. Una prima tecnica per imparare ad improvvisare è quella che viene utilizzata dagli attori (a me è toccato durante la mia formazione come sceneggiatore cinematografico). Si basa sulla scrittura di argomenti casuali su fogliettini che, rimescolati e pescati a caso dai partecipanti all’attività, obbligano a parlare in pubblico di quel tema per un minuto esatto (non un secondo di più). Una variante è di affidare temi a caso ai candidati oratori ma solo al momento esatto in cui ognuno è chiamato a parlare.

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2. Un altro metodo è quello del collegamento. Lo scopo è far avviare una storia fantastica ai conferenzieri (“ieri ero in giro con la mia navetta spaziale. All’improvviso un asteroide minaccia va di venirmi addosso e io...”) fino al suono di una campanella che indica la fine del tempo a disposizione e l’inizio del tempo del conferenziere successivo, il quale dovrà continuare la storia lasciata in sospeso dal precedente.

Occorre essere sempre pronti psicologicamente a improvvisare. Se sei ad una conferenza, chiediti come affronteresti l’argomento, come esordiresti, in che modo e con quali parole esprimeresti il tuo apprezzamento o la tua contrarietà: se ti alleni con costanza, scoprirai l’utilità di questo esercizio quando realmente sarai interpellato a sorpresa e il tuo uditorio apprezzerà l’efficacia della tua eloquenza. Improvvisare, dunque, vuol dire concepire una serie interminabile di discorsi che non saranno mai pronunciati. Ma, se succede che tu sia interpellato, fatti trovare pronto (l’esercizio è fondamentale per fare ciò che i più preferiscono evitare: pensare) e, soprattutto

• non scusarti per non esserti preparato: è tutto previsto;• hai poco tempo: quindi, vai subito al punto;• fai subito un esempio: entrare subito nello spirito del discorso fa svanire il

nervosismo iniziale, cattura l’attenzione e impedisce di pensare troppo alla fase successiva;

• parla con forza: quando un oratore che parla in pubblico inizia a gesticolare, il suo discorso diventa più scorrevole e brillante e l’entusiasmo, l’energia che mette in ogni frase arriva diritta al cuore degli ascoltatori. William James osserva che quando il corpo è carico, la mente funziona a ritmo più veloce (è, infatti, molto stretta la relazione tra attività fisica e attività mentale);

• usa il principio dell’hic et nunc (il qui ed ora). Essere invitato a prendere la parola in pubblico a sorpresa non ti faccia sentire come il famoso cavaliere di cui parlava lo scrittore Stephen Leacock che “salì a cavallo e iniziò a galoppare in tutte le direzioni”. Prendi, piuttosto, spunto da quel che accade in quel preciso momento, sfruttando al massimo la tecnica delle tre soluzioni di Carnegie:

1. prendi spunto dal pubblico. Parla dei presenti, di chi sono e di cosa fanno e dei vantaggi che rappresentano per la comunità, utilizzando un esempio consono alla circostanza;

2. in alternativa, parla dell’occasione, prendendo spunto dal contesto all’interno del quale è richiesto il tuo intervento improvvisato (è una riunione, un meeting, un’assemblea?);

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3. ancora, agganciati a quanto detto da uno dei relatori che ti hanno preceduto (e a cui hai prestato attenzione!).

Consigli per porgere efficacemente un discorsoDale Carnegie sostiene che esistono solo quattro modi in base ai quali veniamo

giudicati dagli altri: per quello che facciamo, per come appariamo, per quello che diciamo e per come lo diciamo.

Non serve, dunque, snaturarsi per apparire diversi da come siamo. Così, mentre ti prepari a tenere le tue conferenze, benché un corso di dizione sia importante per perfezionare la modulazione della tua voce e la pronuncia, tieni presente che non hai a disposizione due o tre anni per raggiungere il tuo obiettivo e che al pubblico piace la sincerità di tutto il tuo modo di essere e quella con cui ti poni. Nei corsi di public speaking, infatti, non è raro esercitarsi a pronunciare discorsi improvvisati in dialetto, proprio per arrivare ad essere se stessi, a prescindere dalle tecniche e dai consigli contenuti in questa sezione che puoi mettere in pratica per diventare un ottimo conferenziere. Piuttosto, quando prendi la parola in pubblico:

lasciati andare. L’impresa più ardua è, infatti, rimuovere i blocchi che ti impediscono di esprimerti spontaneamente. Non serve cambiare la personalità: basta rimuovere gli impedimenti che comporta l’idea di essere giudicati dagli altri (un bambino di quattro anni riuscirebbe con grande semplicità a salire sul palco e parlare; per un adulto, vittima dei suoi condizionamenti, è ben più difficile) o l’imbarazzo e la paura di apparire ridicoli (un corso di Arti Terapie, ad esempio, ti servirà oltremodo per sbloccare la tua creatività e i canali emotivi che la veicolano);

parla in piedi. Se ti muovi nella stanza, le idee scorrono con il fluire del tuo movimento che libera l’energia: molti relatori preferiscono parlare da seduti ma risultano meno efficaci di quelli che si posizionano in piedi davanti all’uditorio (che percepisce l’energia e la comunicazione del corpo prima delle parole);

sii te stesso. Ovvero, non cercare di imitare altri relatori: hai due occhi, due orecchie e una bocca come altri circa sei miliardi di persone ma la tua individualità è irripetibile. Il tuo impegno deve essere di valorizzarla;

coinvolgi il pubblico. Gli uditori in quel momento sono come una persona sola. Perciò, se vuoi convincerli di qualcosa, devi saper conversarci. Il segreto può essere di fare una domanda e dare una risposta (ad esempio, “vi starete chiedendo che cosa significhi in parole semplici tutto ciò. Semplicemente che...”);

metti il cuore in quello che dici. Devi metterci tutta la voglia che hai di parlare al tuo pubblico, con entusiasmo e con voce forte, calda e flessibile. Riesci più facilmente

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in questo compito se parli di quello che conosci: al pubblico piace sempre chi parla con convinzione per far sposare agli ascoltatori il punto di vista che nasce dall’esperienza e dalla preparazione.

Per concludere, ti porto la mia esperienza con un esempio. Quando avevo venticinque anni giocavo a pallavolo nel CTG Squinzano, una società salentina che militava, in quegli anni, in serie C, la prima serie professionistica nazionale. Ricordo bene che il mio rendimento in partita era condizionato da come percepivo l’altezza della rete al mio ingresso in campo e che il mio modo di percepire l’altezza era commisurato con lo stato d’animo e con l’entusiasmo che avevo prima di iniziare. Se ero stanco e svogliato, quei 2,43 metri mi sembravano il doppio; se ero in forma (e in sintonia con me stesso), mi sembravano la metà. E nella seconda ipotesi, non mi fermava nessuno. Questione di motivazione, indubbiamente. Quello che ho fatto, negli anni e dedicandomi al marketing, è stato lavorare sulla fiducia, sull’entusiasmo che avevo voglia di mettere in tutto ciò in cui credevo per trasferirlo alle persone che mi circondavano. E i risultati sono arrivati.

Vale così anche nell’arte oratoria: parlare in pubblico ti mette ogni volta davanti ad un ostacolo da superare. Ma se sei preparato, hai entusiasmo e fiducia nei tuoi mezzi, ti bastano un respiro profondo e il primo salto per gettartelo alle spalle.

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Per completezza d’informazione, passo brevemente in rassegna i fattori della persuasione secondo il modello di Robert Cialdini, psicologo statunitense nato nel 1945 in USA e oggi Professore di Marketing all’Arizona State University, autore del Best Seller Le armi della persuasione - come e perché si finisce col dire sì. L’argomento è collegato con le tecniche di vendita (mi riferirò in particolare alla relazione venditore-cliente) e con l’arte della seduzione e, anche in questo caso, va considerato come un vademecum utile per comunicare con efficacia e convincere il tuo pubblico a prendere una decisione intelligente.

In questa sezione ti propongo una visione scientifica della persuasione che, traendo esempi da quelli disponibili in natura, analizza, con il metodo della ricerca, il comportamento medio degli esseri umani in presenza di taluni fattori che acquisiscono il potere di indurre delle trasformazioni rispetto alle risposte abituali. Persuadere, dunque, è un modo per far dire di sì anche quando la risposta più scontata sarebbe il no; o, più pragmaticamente, ottenere il sì più volte di quante lo si otterrebbe portando le stesse argomentazioni con modalità differenti.

Ecco di seguito i risultati delle ricerche condotte nell’Università dell’Arizona che ti consiglio di tenere presenti per ottimizzare il successo nel tuo impegno a convincere gli altri.

1. Siamo più propensi a dire di sì a persone da cui abbiamo ricevuto un favore. Il segreto, secondo questo principio, chiamato della Reciprocità, è essere i primi a dare qualcosa di personalizzato e inatteso.

Uno studio condotto per sperimentare gli effetti di questo principio ha dimostrato che offrire un dolcetto a fine pasto nei ristoranti fa aumentare le mance elargite dai clienti ai camerieri.

2. Più un bene è scarsamente disponibile, più la gente ne è attratta. Il segreto, secondo questo principio, chiamato della Scarsità, è che non basta parlare dei vantaggi di una data offerta ma che bisogna parlare di che cosa si perderà chi non saprà approfittarne.

I PRINCIPI DELLA PERSUASIONE

SEZIONE 7

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Quando, anni fa, i nostri corsi di formazione in Arti Terapie si sviluppavano con un unico avvio annuale (a febbraio), tutte le sedi del nostro Network Nazionale si lamentavano del poco tempo a disposizione per promuovere le iscrizioni ai corsi, visto che il precedente anno didattico (che impegnava tutti fino alla partecipazione al Congresso Annuale a Lecce a fine anno) era concluso, di fatto, solo da trenta giorni. per questo motivo, modificai il sistema e proposi tre avvii annuali (a febbraio, a giugno e a ottobre), così perdendo il principio della Scarsità: chiunque poteva iscriversi ad un corso Artedo in qualunque momento e, così facendo, rimandava puntualmente all’avvio successivo la decisione di iscriversi. Introducendo una limitazione al numero dei partecipanti ai corsi e l’inserimento degli allievi di terzo anno nei programmi di collaborazione con le Scuole, il principio è stato ripristinato.

3. La capacità di persuasione cresce se a parlare è un esperto. Dimostrare di essere un esperto è un tuo preciso compito ma non è facile. Certo, tu sarai preparato quando incontri il tuo cliente. Ma puoi fare ancora qualcosa in più. Se, ad esempio, per te parla il tuo blog personale, il tuo sito, la tua pagina Facebook o la reputazione che hai presso persone che sono anche palesemente collegate con te, questo principio, chiamato dell’Autorevolezza, funziona bene e produce i suoi effetti.

4. Le persone amano la coerenza e tendono ad essere e vogliono apparire coerenti. A volte, oltre il significato intrinseco della coerenza che il tuo mercato si aspetta da te come manager, i tuoi interlocutori possono decidere (meglio se incoraggiati da te) di prendere un piccolo impegno volontario, attivo e pubblico per sostenerti. Se riesci in questo intento, non è che l’inizio per concludere con buoni e interessanti affari. Ad esempio, è più facile fare affari con chi parlerà bene di te agli amici, in un seminario, attraverso un proprio sito o il proprio social. Da una parte, infatti, chi agisce così accresce la tua reputazione, permettendoti di ampliare la cerchia dei tuoi clienti, dall’altra, al momento di definire accordi di natura economica, è più portato ad accettare i tuoi consigli per aderire a questo principio, chiamato, appunto, di Coerenza.

5. Si tende a dire di sì a chi ci è simpatico. Ma che cosa scatena il principio della Simpatia? È risaputo che a noi piaccia soprattutto chi:

• è simile a noi;• ci fa dei complimenti;• collabora con noi al raggiungimento degli obiettivi comuni.

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Quindi, prima di passare a parlare di affari, impegnati ad essere simpatico. Il business è molto agevolato dal clima di cordialità e di condivisione che saprai creare nelle fasi preliminari di qualsiasi trattativa.

6. Dimostra che molte persone hanno già seguito e tratto benefici dai tuoi consigli. Il segreto di questo principio, chiamato del Consenso, è che non fa leva direttamente sulla tua capacità di persuasione ma spiega la tendenza della gente ad agire in quel dato modo, in quelle date condizioni e in quel preciso istante. Dire, ad esempio, al cliente preoccupato per l’inserimento dell’anziana zia in RSA “abbiamo già affrontato e brillantemente risolto altri casi simili al suo, signor Rossi”, permette al tuo interlocutore di comprendere con maggior semplicità che altre persone, che avevano il suo stesso bisogno, hanno risolto il loro problema grazie ai tuoi consigli. Ciò ti accredita come un esperto e tranquillizza i clienti che preferiscono affidarsi a chi gode del consenso di un pubblico significativo.

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In questo capitolo ti propongo una serie di approfondimenti su taluni temi trattati in precedenza. Conoscere i principali riferimenti teorici sul tema della fiducia, dell’autostima e della motivazione, potrà apparirti meno discorsivo degli argomenti in cui tali nozioni vengono messe al servizio della comunicazione non verbale, della creatività e della persuasione, ma, converrai, arricchiscono la visione d’insieme di una materia vasta e dalle mille sfaccettature.

APPENDICE

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Fiducia deriva dal latino fidere (fidare, confidare) ed è un termine, così come molti altri utilizzati in psicologia, caratterizzato da una pluralità semantica, dovuta alla diversa attribuzione di significati dati dal senso comune. Persone diverse, infatti, danno significati diversi, ciascuno a seconda delle diverse situazioni. La determinazione del presente costrutto è, dunque, caratterizzata non solo da una componente oggettiva ma anche da una forte componente soggettiva che influenza fortemente la concezione che ognuno ha della fiducia. Pur tenendo conto della polisemia del termine, essa può essere definita su di una base comune che la identifica come le aspettative con valenza positiva per l’individuo, formulate in condizioni di incertezza (Cfr. La voce “Fiducia” in Enciclopedia delle scienze sociali, vol IV, p. 79.).

Il costrutto in questione ha, inoltre, valenza trasversale, in quanto rinvenibile in ogni ambito della vita quotidiana: vale nei confronti di se stessi come negli altri ed è applicabile a tutti i contesti, dalle relazioni interpersonali a quelle professionali. Data l’ampiezza del campo, quindi, dedico questa sezione alle principali teorie di riferimento, a partire dalle origini, allorquando la relazione fiduciaria viene ricondotta all’attaccamento che il bambino instaura nelle primissime fasi della sua vita con le figure parentali e dalla cui qualità viene determinata la qualità delle relazioni fiduciarie in età adulta. Parlerò, dunque, di fiducia secondo il contesto in cui prendono forma e significato le relazioni fiduciarie, per poi affrontare l’argomento dal punto di vista aziendale, a livello organizzativo, in cui essa è componente fondamentale per la nascita ed il mantenimento dei rapporti.

Processo o prodotto? La fiducia può essere intesa come processo o come prodotto e le differenti

connotazioni comportano due assunti diversi.La fiducia come processo viene considerata, in maniera dinamica, l’esito non

scontato di un sistema di scambi e rapporti. Assumendo questo punto di vista, la fiducia viene intesa come propensione, atteggiamento, disponibilità di un interlocutore verso un altro. Tale stato è prodotto da processi cognitivi e/o affettivi, individuali e stabili.

LA FIDUCIA

SEZIONE 1

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La fiducia come prodotto è un prodotto culturale che il soggetto si costruisce interagendo con l’ambiente: può essere definita, ad esempio, nelle vendite o nella relazione d’aiuto, come il risultato di una relazione tra un esperto che sa e un utente/cliente che non sa. Tale assunto genera la richiesta (implicita o esplicita) che l’utente/cliente si fidi del professionista e, contemporaneamente, il rischio che la relazione fiduciaria risulti asimmetrica e passiva.

Teorie di riferimentoSecondo una prospettiva psico-sociologia, la fiducia è determinata da scambi

interpersonali che possono contribuire alla sua costruzione (o, parimenti, alla sua distruzione), sia a livello interpersonale che gruppale. In letteratura questo concetto viene spiegato con il termine “contratto psicologico”, ovvero l’insieme di attese che, se disattese, vanno incontro alla rottura degli equilibri rispetto ad un lineare sviluppo ed al mantenimento dei rapporti (la fiducia è, infatti, un elemento estremamente volubile, che può aumentare o diminuire con la medesima facilità). Se questa rottura viene vissuta in maniera profonda da chi la subisce, gli individui considerano violato il contratto, con il conseguente deterioramento delle relazioni al ripresentarsi di tali violazioni. I sentimenti di rabbia, irritazione, tristezza e risentimento nei rapporti derivano da questa degenerazione (Morrison & Robinson, 1997), al punto che le nuove relazioni che si vengono a delineare risultano compromesse a causa dei vissuti di resistenza e ostilità: le nuove condizioni relazionali, infatti, si presentano improntate al sospetto e alla mancanza di reciprocità (oltre che al tornaconto personale di dare qualcosa solo se prima viene dato in cambio qualcos’altro).

Tre sono le differenti dimensioni della fiducia:• esiste una dimensione temporale, secondo cui la fiducia può essere concessa

solo nel presente e comporta un’anticipazione del futuro;• una dimensione materiale/comunicativa, che assume una valenza pratica in

situazioni di mancanza di fiducia;• infine, una dimensione sociale, che implica interazione e libertà di azioni degli

altri.La sociologia post-classica, ancora, distingue tre tipologie di fiducia:1. la fiducia di base, la fiducia in sé e nelle proprie capacità;2. la fiducia interpersonale, quella che viene concessa volontariamente a persone

che si conoscono in maniera più o meno approfondita;3. la fiducia sistemica o impersonale, tipica dell’organizzazione sociale nel suo

insieme.

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Diversi autori si sono interessati al tema della fiducia.Holmes (1991) la definisce come l’aspettativa positiva che un altro individuo non

metterà in atto azioni opportunistiche con gesti, parole o decisioni. Lewicki e Bunker (1994) sostengono che la fiducia debba essere considerata

come costituita da due componenti, una cognitiva (che si basa su cosa una persona sa o crede di sapere dell’altra) e una emozionale (che si basa sui legami affettivi): la componente cognitiva caratterizza i primi momenti di un incontro, in cui avvengono una raccolta di informazioni sugli altri e la fase di calcolo (la fase della prima valutazione che facciamo degli altri), mentre la componente emozionale entra in gioco successivamente, quando i sentimenti prendono il sopravvento e diventano protagonisti. Nella realtà, la distinzione fatta tra fiducia emotiva e cognitiva si concretizza con la diversità di peso che le due dimensioni assumono nel soggetto. Se prevale la componente cognitiva, il soggetto sarà più flessibile e avrà capacità di reagire meglio alle delusioni. Viceversa, se prevale la dimensione affettiva, il soggetto può andare incontro con maggior facilità a conseguenze potenzialmente negative (Mutti).

Per Currall e Epstein (2003) la relazione di fiducia innesca uno stato di “dipendenza” reciproca, dal momento che colui che riceve fiducia dovrà preoccuparsi di non tradire le attese, mentre chi si fida dovrà essere attento a fare in modo che questa condizione non venga meno.

Il sociologo francese Emile Durkheim definisce la fiducia come “l’elemento pre-contrattuale della vita sociale”. Egli si sofferma in particolar modo sul legame sociale e parlando di fiducia impersonale, definendola come solidarietà di base, accordo morale e cognitivo che tiene unita la società.

Georg Simmel, filosofo e sociologo tedesco vissuto come Durkheim tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, smonta il concetto di fiducia come atto necessario tra gli uomini e per la società e la definisce come uno stato intermedio tra conoscenza e ignoranza dell’altro. Egli parte dal presupposto che la totale conoscenza dell’altro da parte di un individuo comporta che non è necessario aver fiducia e, allo stesso modo, il non conoscerlo affatto (o completamente) genera una situazione per cui fidarsi diventa impossibile.

Erik Erickson, psicoanalista naturalizzato statunitense, contrariamente al modello di Simmel, concepisce la fiducia come elemento essenziale, quale risultato dell’interazione tra la fiducia in se stessi, la fiducia negli altri e il punto di vista attraverso cui si interpreta il mondo. L’autore si sofferma maggiormente sulla personalità dell’individuo e riconduce le origini della fiducia alla prima infanzia,

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periodo in cui, già a partire dal primo anno di vita, il bambino deve sviluppare la capacità di affidarsi agli altri. Il che risulta possibile grazie all’interazione dinamica tra fiducia di base e sfiducia di base che, a sua volta, è subordinata alla qualità della relazione che il bambino sperimenta con la propria madre. Il bambino confida, infatti, che i suoi bisogni siano ascoltati e soddisfatti. D’altro canto, è necessario che la madre risponda positivamente e assecondi i bisogni del bambino e che si instauri una reciprocità di esperienza, all’interno della quale il piccolo impara a fare affidamento sulla madre che, a sua volta, è capace di soddisfare i suoi bisogni. In questo modo, egli si sente accolto e acquista, pian piano, uno stato di sicurezza che gli infonderà fiducia, mentre la madre, da parte sua, si sentirà gratificata dal feedback di chiari messaggi di soddisfazione. Queste dinamiche circolari sono il presupposto per stabilire relazioni interpersonali gratificanti nell’età adulta fondate sulla fiducia.

La fiducia e la teoria di attaccamento di BowlbyUn importante contributo sono le evidenze degli studi di John Bowlby,

psicoanalista britannico, il quale riconduce l’origine della fiducia alle relazioni di attaccamento. Le modalità del legame di attaccamento rappresentano, secondo questo modello, le condizioni attraverso cui si instaura la fiducia e la famiglia il luogo in cui tale legame assume determinate e specifiche caratteristiche comunicative. Il legame di attaccamento rinforza, infatti, la capacità del bambino di esplorare l’ambiente circostante e permette l’accrescimento delle sue capacità cognitive che lo porteranno a modificare il legame stesso ed agire in maniera più matura rispetto ad esso. Ruolo fondamentale in questa accezione, inoltre, è quello della memoria, dal momento che essa facilità nel bambino la capacità di rappresentazione mentale della madre che, a sua volta, gli permette di tollerarne meglio la lontananza e la separazione.

Bowlby associa allo sviluppo cognitivo del bambino anche quelli che definisce modelli operativi interni (MOI), ovvero degli schemi rappresentativi interni (che compaiono intorno ai due anni di vita) che vengono generati dall’attaccamento e che diventano operativi nel senso che influenzano in maniera rilevante la sua vita affettiva e relazionale. In altre parole, il bambino modula il suo comportamento sulla base di questi modelli che derivano dalla storia del suo attaccamento. Attraverso di essi, intesi come schemi interpretativi, egli attribuisce un determinato significato ai comportamenti altrui e alle proprie reazioni emotive, quasi potesse osservare la realtà attraverso delle lenti d’ingrandimento che ne facilitano la comprensione e l’interpretazione.

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In base a quanto visto finora, è, dunque, possibile sostenere come la relazione instaurata con la madre sarà il prototipo delle relazioni future del bambino. Secondo Bowlby, infatti, già durante la prima infanzia egli sviluppa il senso di fiducia/sfiducia rispetto alla presenza della figura di attaccamento. Aspettative che tendono, poi, a radicarsi in maniera costante per tutta la vita, fino a condizionare le esperienze dell’individuo in età adulta. La fiducia diventa, così, il fondamento della consapevolezza della presenza delle figure di attaccamento e contribuisce a strutturare una personalità stabile e fiduciosa in se stessa: tanto più il bambino rappresenterà la sua figura di attaccamento come una base sicura e disponibile, tanto più costruirà un modello operativo interno di sé come degno dell’amore dell’altro. Se non accade, viceversa, il rischio è la costruzione di modelli negativi rispetto alla figura di attaccamento che genereranno una personalità instabile e predisposta alla patologia.

Teoria della mente e ScriptNella quotidiana interazione con il mondo esterno, mettiamo in atto processi che

mirano a comprenderne le motivazioni profonde, spesso implicite. Ciò vale sia che si tratti del nostro comportamento che di quello degli altri. Due sono i principali approcci teorici per comprendere i meccanismi di rappresentazione interna della fiducia che deriva dalla corretta interpretazione del comportamento umano.

La prima è la Teoria della mente, il modello ontologico e strutturale dei processi mentali che definisce che cosa è la mente, che propone un’analisi inferenziale sulla base delle informazioni ottenute da un campionamento del comportamento proprio e altrui e che spiega come la fiducia sia un concetto insito nella nostra mente.

Strettamente connesso al concetto di Modelli Operativi Interni di cui parla Bowlby è il Modello mentale dello Script (Schank e Abelson, 1977; Nelson, 1985-86; Anolli e Ciceri, 1995; Ciceri, 2001), la seconda teoria a cui faccio riferimento in questo paragrafo, il cui contributo è fondamentale per la costruzione delle rappresentazioni interne della fiducia. La funzione principale dello script è di favorire la rappresentazione mentale delle azioni umane, ossia la comprensione di vissuti, situazioni ed avvenimenti. Gli script, definibili come eventi stereotipati con valore sociale, determinati dalla cultura di appartenenza, si presentano a partire dal secondo anno di vita del bambino e sono di essenziale importanza, dal momento che gli permettono di prevedere il comportamento altrui e di guidare il proprio. E proprio la ripetizione quotidiana dello script genera nel bambino una condizione di sicurezza, nei confronti del proprio ambiente sociale e familiare. Così egli impara a prevedere gli eventi, con la conseguenza di sviluppare e mantenere la fiducia in sé e negli altri

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proprio grazie alla ripetizione di eventi significativi, alla vicinanza alle figure di attaccamento e alla possibilità di condividere le esperienze.

Fiducia e contesto socialeSul tema della fiducia, è importante ricondurre i suoi assunti basilari, alcuni dei

più noti appena affrontati, ai contesti sociali di appartenenza, gli stessi entro cui prendono forma e significato le relazioni fiduciarie in una società caratterizzata dalla costruzione di senso co-costruito da coloro che la compongono. Il contesto, infatti, diventa particolarmente importante, in quanto attribuisce significato e rende intellegibile il concetto di riconoscimento reciproco, inteso come l’insieme di regole che riguardano le proprietà strutturali e gli stati psicologici dei partecipanti. L’ipotesi sottesa è che il riconoscimento reciproco dell’identità tra gli individui partecipanti all’interazione costituisca la condizione principale affinché sia possibile una relazione sociale fondata sulla fiducia. Non solo. Il contesto è fondamentale perché la fiducia possa realizzarsi appieno, dal momento che nessun rapporto fondato su di essa ha ragion d’essere se non in presenza dell’altro (che è, al tempo stesso, stesso colui che la riceve e la riconosce alle persone con cui è chiamato quotidianamente a interagire). Nella costruzione dei rapporti che individuano il contesto, dunque, entrano in gioco una serie di fattori, come le caratteristiche personologiche di chi riceve la fiducia, l’oggetto e la natura di ciò su cui essa verte, oltre alle capacità di raccogliere le informazioni e di interpretarle da parte di colui che, a sua volta, dovrà riconoscerla agli altri.

I meccanismi interniLa quantità di fiducia che un individuo ha in sé è strettamente correlata alla

quantità di fiducia che un individuo ha nei confronti degli altri: tanto più un individuo ha fiducia in se stesso, tanto più tenderà a fidarsi dell’altro. Ciò dipende dai meccanismi interni stabili che l’individuo ha sviluppato e che gli permettono di gestire maggiormente le possibili delusioni derivanti dallo scoprire di aver mal riposto la fiducia. C’è, infatti, nelle persone, maggiore disponibilità a fidarsi quanto più i meccanismi interni di riduzione sono stabilizzati, in modo che, nel caso in cui la fiducia venga delusa, essi possano essere chiamati ad agire e ad assumersi l’onere della soluzione dei problemi (il soggetto che ha la consapevolezza di possedere tali risorse ha una solida sicurezza per la risoluzione dei problemi).

Tra i meccanismi interni, Niklas Luhmann, uno dei maggiori esponenti della sociologia tedesca del XX secolo, cita la stabilizzazione dei sentimenti nei confronti di

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particolari oggetti o persone. Con ciò, l’autore presuppone che l’individuo abbia già raggiunto un livello di maturità e affrontato gli aspetti affettivi ed emotivi delle esperienze di vita che rappresentano una base essenziale per instaurare relazioni fiduciarie con il mondo esterno. Un esempio, come detto precedentemente, è costituito dall’attaccamento affettivo del bambino alla sua famiglia che è un elemento essenziale per l’apprendimento della fiducia e per la sua conservazione in età adulta.

L’altro meccanismo interno è l’autorappresentazione sociale. La persona che si fida presenta se stessa come colei che, per sua natura, è incline a concedere fiducia: in altre parole, una persona capace di accettare il rischio di rimanere delusa senza che questo intacchi troppo profondamente la sua rappresentazione interiore, in virtù di questo meccanismo che si fonda sul principio che l’individuo abbia acquisito una buona sicurezza rispetto a se stesso e al modo di essere nel mondo, sarà certamente più disponibile ad offrire la propria fiducia agli altri. La disponibilità alla fiducia è determinata, infatti, da fattori di personalità certamente influenzati dalla struttura del sistema sociale che accorda fiducia. Quindi, più che un tratto di personalità, è una propensione, una tensione che non dipende da un contesto concepito come statico ma muta acquistando nuovi significati al cambiamento del contesto stesso.

La fiducia e i processi decisionaliAver fiducia in sé e negli altri accelera il processo decisionale, poiché accresce

l’autostima e abbassa la soglia di incertezza. Tra fiducia e rischio, infatti, esiste una correlazione positiva: più il rischio percepito è alto, più c’è necessità di fiducia razionale, basata su dati e informazioni certe; maggiore, viceversa, è la fiducia emotiva, irrazionale, più il rischio è elevato. Tuttavia, nella realtà, non esiste un’informazione perfetta che conduca all’annullamento di ogni rischio nei processi decisionali. E pur ammettendo che essi debbano fondarsi sulla fiducia, appare più opportuno che essa debba essere il risultato di un mix di componenti razionali e irrazionali.

La fiducia e le organizzazioniLa fiducia è un elemento fondamentale nelle organizzazioni, laddove acquisisce

un ruolo di primo piano nella generazione dei rapporti. Le organizzazioni, infatti, sono state nel corso del tempo e sono tuttora protagoniste di un cambiamento storico-culturale, caratterizzato da un mutamento del contesto e dalla prospettiva di scenari sempre nuovi. Uno dei loro bisogni principali è definire (e, all’occorrenza, riorganizzare) i rapporti interni, nell’ambito dei quali fiducia e affidabilità emergono

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con grande forza come aspetti fondamentali per la costruzione di nuove e più efficaci relazioni, sia formali che informali. A livello aziendale (se vogliamo considerare l’impresa come l’unità elementare delle organizzazioni), la fiducia è influenzata dalla cultura, da una parte, e dal clima organizzativo, dall’altra. Quest’ultimo, a sua volta, è caratterizzato da una serie di aspetti, come il senso di partecipazione, il piacere di lavorare in gruppo, il riconoscimento delle proprie potenzialità, il rispetto, la fedeltà, l’accettazione, la sicurezza e la confidenza. La fiducia, dunque, diventa la variabile di maggiore importanza per la moderazione dei comportamenti gruppali in azienda: è il punto d’arrivo di un processo graduale, che si sviluppa nel tempo grazie a degli stimoli costanti che generano, a loro volta, altra fiducia, e gioca un ruolo determinante nel condizionare le relazioni all’interno del team di lavoro. Oltre a incidere fortemente su di una serie di aspetti, come le performance individuali e l’esito finale degli sforzi dell’intera organizzazione. L’apertura di fiducia diviene, dunque, l’impulso elettrico delle relazioni organizzative. Il rapporto fiduciario diviene, così, non solo collante sociale interno, ma sviluppa una catena di rapporti fiduciari anche all’esterno, genera cooperazione, permette lo sviluppo di idee, l’innovazione e il superamento della diversità. E migliora la comunicazione in un processo bidirezionale: benché, infatti, sia noto che la comunicazione porta fiducia, è anche vero che la fiducia porta ad una migliore comunicazione.

Naturalmente, maggiore è la fiducia, maggiore è la capacità anche per le organizzazioni di venir fuori dai ciclici e fisiologici momenti di crisi. In situazioni simili, i rapporti fiduciari vengono messi a dura prova e il principio dell’equità, su cui si fondano le relazioni tra le persone ed il sistema organizzativo, percepito come tale fino a poco tempo prima, può essere pregiudicato o mal interpretato. Le ricerche in tal senso dimostrano come non sia affatto necessario che le ingiustizie (sul piano distributivo, se a qualcuno viene dato di più rispetto all’altro; sul piano procedurale, se vengono utilizzate procedure diverse o percepite come migliori o peggiori di quelle applicate ad altri; sul piano delle interazioni, se qualcuno si sente trattato meglio o peggio sul piano delle relazioni) siano subite direttamente ma è sufficiente anche vederle perpetrate su altri per percepirle come fattore diffuso dell’organizzazione (e, quindi, anche contro se stessi). In questi casi, i sentimenti di rabbia o colpa (livello emotivo), le distorsioni delle interpretazioni degli eventi e l’aumento del cinismo (livello cognitivo), la diminuzione della performance e l’aumento del turn over (livello comportamentale) prendono il sopravvento sul clima positivo (per non parlare dell’adozione di strategie di coping, dannose per l’organizzazione).

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Recuperare la fiducia e ristabilire una situazione di equilibrio in simili situazioni è l’unica soluzione per ripristinare (o mantenere) il benessere organizzativo e per il pieno funzionamento aziendale. Ma è necessario effettuare un’attenta analisi del problema e, se necessario, servirsi di professionisti formati ad hoc per ripristinare lo stato fiduciario ideale (Artedo, ad esempio, ha attivato nel corso del tempo diversi lavoratori di creatività basati su tecniche di Arti Terapie, svolti in azienda, per ripristinare il clima di benessere e fiducia): è un processo che richiede tempo e attenzione nei confronti delle esigenze del gruppo in questione, passando per un’attenta analisi delle dinamiche relazionali messe in atto tra i membri dell’organizzazione.

Il segreto è, al solito, considerare le risorse umane come il patrimonio più grande (ma anche il più fragile) dell’azienda e puntare su di esse affinché divengano (o ritornino ad essere) il punto di forza dell’impresa.

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Quante volte ti è capitato di incontrare una persona che, a tuo parere, aveva scarse competenze nel suo campo ma che, nonostante questo, otteneva risultati migliori di una persona con qualche titolo di studio in più? Ti sei mai chiesto perché questo accade? La risposta alla tua domanda è molto semplice: quella persona aveva un livello di autostima molto alto.

Che cos’è l’autostima? Con il termine Autostima si intende comunemente il grado di apprezzamento che ognuno ha verso se stesso. È, dunque, una valutazione del proprio valore, che risponde alla domanda che cosa penso di me? Questa condizione non rappresenta, per dirla mutuando il termine dalla statistica, una stima puntuale, bensì è il risultato di un processo lungo e soggettivo che comporta una continua valutazione di se stessi, attraverso l’autoapprovazione del proprio valore, fondata su percezioni soggettive. Da una parte, dunque, l’autostima influenza la vita dell’individuo, dall’altra è l’individuo che determina i suoi stessi livelli di autostima (e il senso che le attribuisce), per effetto dei quali influenza fortemente la sua vita di relazione. Percorso bidirezionale che ritroviamo nelle caratteristiche essenziali dell’autostima: da una parte una componente soggettiva (proprio la soggettività la caratterizza come il risultato di una personale percezione, dinamica e mutevole nel tempo, mentre il nostro impegno diventa quello di cercare di mantenerla in costante equilibrio), dall’altra una componente relazionale (le relazioni che ognuno intrattiene con il mondo esterno, infatti, vengono interiorizzate e rielaborate dall’individuo, il che contribuisce a determinare il giudizio di sé).

Teorie di riferimentoA partire dalla metà degli anni novanta del secolo scorso e fino alle teorie più

recenti, molti studiosi si sono occupati di autostima, di come accrescerla o mantenerla, argomenti questi ultimi che, peraltro, tratterò in chiusura di sezione, anche con l’aiuto di attività esemplificative.

Uno dei contributi sul tema tra i più significativi dell’era moderna è lo studio condotto da Campbell e Lavallee (1993), ricercatori di Psicologia Sociale dell’Università di British Columbia, i quali, nella pubblicazione dal titolo Chi sono? Il ruolo del concetto di sé: confusione nel comprendere il comportamento di persone

L’AUTOSTIMA

SEZIONE 2

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con bassa autostima, hanno dimostrato come il senso di autostima sia legato ad uno stato di benessere psicologico (esattamente come la mancanza sia legata ad una condizione di malessere), in quanto capace di influenzare l’individuo su molteplici livelli, come l’aspetto cognitivo, la motivazione, le emozioni e il comportamento. In particolare, all’origine dell’autostima, secondo Alice W. Pope (1992), c’è un confronto tra l’immagine che ognuno ha di sé e l’immagine di quello che vorrebbe essere: in tale chiave di lettura, il livello di autostima è tanto più elevato, quanto più l’immagine di sé è vicina all’immagine di ciò che si vorrebbe essere (anche William James definisce l’autostima come il rapporto tra il Sé percepito e il Sé ideale). Questo dimostra perché gli individui che presentano un basso livello di autostima, e, quindi, non sono (o non si vedono) come vorrebbero essere, tendono a manifestare insicurezza intorno al proprio valore e alle proprie qualità. Si tratta di persone che evitano molto spesso di prendere decisioni o di mettere in atto determinate azioni, poiché sopraffatte dalla paura di sbagliare e dalla convinzione di non essere adeguati. Al contrario, gli individui che presentano un alto livello di autostima, presentano livelli di sicurezza e convinzione elevati e incrollabili, hanno atteggiamenti positivi e proattivi, oltre ad una ferma convinzione delle proprie capacità. La correlazione tra l’immagine di sé e di ciò che si vorrebbe essere comporta, peraltro, la capacità dell’individuo di agire in conformità con i propri valori, ragion per cui, ad esempio, il senso di frustrazione e di delusione attanaglia e caratterizza gli individui con bassi livelli di autostima (e con poca fiducia, di conseguenza, nel proprio valore assoluto e nelle personali gerarchie valoriali in senso più ampio).

Ricerche successe puntano l’attenzione sull’aspetto dinamico del concetto di autostima. In particolare, Kernis sottolinea quanto l’instabilità dell’autostima possa dipendere da fattori come un’elevata sensibilità, un aumento dell’attenzione all’autovalutazione o un’eccessiva fiducia nelle fonti sociali di valutazione (per citarne alcuni). D’altro canto, secondo un approccio psicodinamico, l’autostima viene considerata in chiave evolutiva, poiché strettamente connessa al processo fondamentale dello sviluppo del sé che include la formazione di oggetti intrapsichici (Klein) e lo sviluppo narcisistico (Kohut).

Per i teorici del Cognitivismo, gli individui che presentano una bassa autostima attribuiscono i fallimenti a fattori interni e il successo a cause esterne, molto più frequentemente di coloro che presentano un buon livello di autostima. Una posizione condivisa da Blaine e Crocker, per i quali questo fenomeno deriverebbe da un meccanismo di protezione: l’individuo con un basso livello di autostima tende ad attribuire il successo delle proprie azioni a causa esterne per non illudersi e non subire

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frustrazioni in futuro. Studi successivi, condotti prevalentemente su adolescenti, hanno potuto dimostrare, d’altro canto, che individui con elevata autostima sono più creativi e ottengono risultati scolastici migliori rispetto a coloro che presentano un basso livello di autostima. In quanto insieme di elementi interconnessi tra loro e con l’ambiente esterno, Susan Harter (1983) definisce l’autostima come sistema di sé, articolato in tre aspetti principali:

1. il concetto di sé, che si sviluppa precocemente, tra il primo ed il secondo anno di vita, quando il bambino comincia a riconoscersi come oggetto;

2. l’autocontrollo, ovvero quella capacità di gestire al meglio una situazione ed evitare pericoli, strettamente connessa all’autostima;

3. la stima e l’approvazione che l’individuo riceve dall’esterno. Secondo il modello della Harter, questi tre elementi sono alla base dei processi

emozionali associati all’autostima e da essi dipendono gli effetti sullo stato emotivo generale, sul grado di motivazione e sull’interesse dell’individuo nelle azioni della vita quotidiana, proprie di ogni età.

Componenti e caratteristiche dell’autostima L’autostima, gli studi citati lo dimostrano, è composta da molteplici elementi,

suddivisibili in tre categorie:1. da una parte ci sono gli elementi cognitivi, ovvero l’insieme delle conoscenze

proprie di un individuo (conoscenze di sé e delle situazioni vissute);2. poi, gli elementi affettivi, che influenzano la sensibilità di ciascuno nel

provare e ricevere sentimenti;3. infine, gli elementi sociali, che condizionano l’appartenenza dell’individuo ad

un gruppo e determinano la possibilità di avere un’influenza su di esso, in virtù dell’approvazione (o della disapprovazione) degli altri componenti (aspetto fondamentale nella determinazione dell’autostima).

Non da ultimo, l’autostima è condizionata anche da fattori ambientali, i quali contribuiscono a migliorare o, talvolta, a peggiorare le prestazioni personali. Tali fattori sono, infatti, in stretta correlazione con la percezione che ognuno ha degli altri e con quella che gli altri hanno del singolo e riguardano il congruo adattamento socio-emozionale al contesto che determina i livelli dell’autostima: la stima di sé, in questa chiave di lettura, incide sulla salute psicologica dell’individuo e sulle sue performance, esattamente come, secondo un procedimento inverso, un dato evento ambientale può risultare determinante per definire (in positivo o in negativo) il livello di autostima personale.

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Autostima globale e specificaMorris Rosenberg, sociologo statunitense teorico della scala dell’autostima

(1995), distingue tra due diversi livelli dell’autostima: uno globale e uno specifico. L’autostima globale, riscontrabile, in prevalenza, nei legami affettivi, è l’auto-

accettazione integrata di tutte le componenti della personalità (in tal modo, includendo anche l’autostima specifica).

L’autostima specifica, viceversa, riguarda la sfera materiale e deriva dal rapporto tra le proprie aspirazioni di successo e le competenze effettivamente acquisite (che possono permettere di raggiungere quel dato traguardo).

Secondo questo modello (che conferma le teorie analizzate in precedenza, secondo le quali l’autostima è sia causa che effetto di buone o cattive performance, personali e professionali), l’autostima specifica condiziona quella globale. E l’autostima globale non è detto che corrisponda necessariamente alla somma o alla media delle varie forme di autostima specifica. Può capitare, infatti, di sentirsi angosciati da un generica sottostima di sé pur in presenza di successi personali e professionali, oppure di conservare un’elevata stima di se stessi a dispetto degli insuccessi.

Strumenti per la misurazione e l’innalzamento dell’autostimaIn chiusura di questa breve sezione, ti propongo alcuni strumenti per la

valutazione dei livelli di autostima, dei consigli per accrescerla e, infine, delle attività in forma di gioco per mantenerla e “nutrirla”. Partiamo con la scala di misurazione più diffusa.

Si chiama Basic Self Esteem Scale, scala ispirata agli approcci teorici psicodinamico (M. Klein, H. Kohut & O. Kerneberg) ed umanistico (C. R. Rogers), ed è uno strumento per la misurazione dell’autostima negli adulti, ideato da Lennart Forsman e Maarit Johnson (1996) e testato presso l’Università di Stoccolma. Misura l’autostima, intesa come grado di rispetto, amore e considerazione per se stessi, indipendentemente dai propri successi o fallimenti nella vita. In base ai punteggi ottenuti secondo questo strumento, un soggetto può risultare equilibrato e con sentimenti positivi verso sé e gli altri (se il punteggio è alto), in grado di mantenere una buona integrazione del Sé, nonostante la piena consapevolezza dei propri limiti e debolezze, capace di esprimere le proprie emozioni aggressive, senza dover sottostare ad inibizioni poco congruenti con il proprio Sé. Al contrario, se il punteggio è basso, il soggetto denota difficoltà nell’esprimere i bisogni, nel manifestare le emozioni e gli istinti di base, siano essi positivi o negativi. Inoltre, si mostra profondamente

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insoddisfatto di sé e del proprio modo di relazionarsi con gli altri, con forti sentimenti di inutilità, inferiorità e apatia.

Scoprire che il livello di autostima è basso offre al soggetto punti di vista preziosi sui perché di taluni insuccessi e apre le porte alla trasformazione: modificare in positivo un valore che non soddisfa, una bassa autostima in un’alta autostima, per puntare a nuovi traguardi. Alcuni esercizi saranno utili e li vedremo tra poco. In attesa di proiettarsi verso questo cambiamento (che comporta l’acquisizione di una maggior consapevolezza di sé, impresa assai difficile per la maggior parte degli esseri umani), ecco un paio di consigli per prepararsi.

1. Il primo è di assicurarsi di mantenere i livelli di autostima senza correre il rischio di abbassarli. Conoscere i propri limiti e le proprie capacità, ad esempio, è già una strategia funzionale in questo senso. Prefigurarsi, infatti, il raggiungimento di obiettivi che potrebbero richiedere un impegno eccessivo (o fuori dalla portata per diverse ragioni non obiettivamente valutate) comportano il rischio di andare incontro a fallimenti e, di conseguenza, ad un possibile abbassamento dell’autostima.

2. Nel caso di insuccessi, è importante non attribuire la colpa dell’insuccesso completamente a se stessi, bensì valutare opportunamente tutti gli aspetti che lo hanno determinato, anche in termini di possibili con-cause esterne. Se si attribuiscono i possibili fallimenti a cause interne effettive, meglio non essere eccessivamente severi con se stessi e considerare l’accaduto come qualcosa di transitorio, senza dare troppo peso all’insuccesso. Se, a volte, infatti, i risultati non arrivano, è opportuno cercare mi mantere l’obiettività senza colpevolizzarsi eccessivamente, dal momento che tutte le esperienze, tanto quelle positive, quanto quelle negative, sono eventi della vita come tanti altri.

Giochi per l’autostima In questa sezione voglio presentarti alcuni giochi utilizzati per la formazione ed il

mantenimento dell’autostima. L’utilità di queste attività è comprovata dal fatto che si tratta di giochi non competitivi, in cui, cioè, la vittoria non assume un ruolo centrale rispetto al più nobile aspetto ludico. Puoi ben immaginare, infatti, che cosa accadrebbe in un gioco che, pensato per accrescere l’autostima, prevedesse la sconfitta di un concorrente, con conseguente ulteriore affossamento della sua autostima. Concepito in forma di gioco familiare senza competizione (in cui preponderante è l’aspetto relazionale) è, invece, possibile evitare di incorrere in situazioni spiacevoli in

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cui qualcuno si senta inferiore o incapace. Il fine ultimo di tutte le attività che seguono è, dunque, permettere a ognuno di sentirsi speciale.

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Gioco di ammirazioneGioco di ammirazione

Finalità

Esercitare costruttivamente la propria volontà; sperimentare i benefici dell’apprezzamento positivo, tanto per chi lo esegue quanto per chi lo riceve; accrescere la fiducia in se stessi ed il coraggio di valorizzarsi e valorizzare gli altri; approfondire il senso di reciprocità e di appartenenza.

Svolgimento

1.Si può iniziare, ad esempio, con parole di ammirazione per la bellezza di una pianta o di un animale da appartamento, di un fiore, di un quadro appeso al muro, di un oggetto o altro del quale sia facilmente apprezzabile qualche qualità. Procedere notando l’effetto di questo apprezzamento sui pensieri e sui sentimenti di coloro che l’hanno effettuato; verificherai facilmente che l’effetto si estende ben oltre la percezione di ciò che è stato valorizzato, colorando anche la percezione che i partecipanti hanno di se stessi, dell’ambiente, eccetera

2.Descrivere la bellezza di qualche altro elemento (persona, animale, pianta, cosa, situazione, gioco, sport, eccetera) per almeno 15 secondi di seguito, in competizione fra i partecipanti al gioco. A questo punto, incaricare prima un partecipante di verificare (tenendo d’occhio all’orologio) che ognuno continui a descrivere le qualità dell’oggetto scelto per almeno 15 secondi consecutivi. Non dimenticare di dare l’esempio. Al termine di questa attività, notare e descrivere l’effetto di questo apprezzamento sui pensieri e i sentimenti di coloro che l’hanno effettuato.

3.Disporsi a coppie ed esprimere valutazioni positive reciproche. Naturalmente l’ammirato deve incassare zitto zitto! Al termine, dichiarare ciò che si è provato.

4.Esprimere ammirazione per se stessi davanti ad uno specchio. Quindi dichiarare ciò che si è provato.

Varianti

a) Il gioco può essere esteso nel tempo, partendo da una foto o da un oggetto che rievochi un’esperienza piacevole, o anche direttamente da un ricordo.

b) Il gioco può estendersi nello spazio, permettendo di apprezzare qualcosa che non ricada sotto i sensi.

c) Il gioco può estendersi a persone assenti, a personaggi del passato, eccetera

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La doccia scozzese (Fortunatamente... Sfortunatamente...)La doccia scozzese (Fortunatamente... Sfortunatamente...)

Finalità

Dimostrare come si possa usare la volontà per dare un significato favorevole o sfavorevole ad avvenimenti che di per sé, senza alcun coinvolgimento affettivo, potrebbero essere percepiti come neutri.Spiegare l’importanza di un certo distanziamento emotivo, allo scopo di diventare più obiettivi possibile, soprattutto in circostanze troppo coinvolgenti. In molte circostanze della vita è necessario infatti saper vedere il “bicchiere mezzo pieno”, contemporaneamente al “bicchiere mezzo vuoto”. In altre parole, occorre imparare a scorgere il dritto del rovescio e anche il rovescio del dritto.Questo esercizio di relativizzazione è fra i più utili per esercitare diverse funzioni mentali, rendere flessibili l’immaginazione e il pensiero, osservando qualunque cosa si voglia prendere in considerazione da diversi punti di vista, a partire da quella volontà di significato che apre anche a nuove intuizioni valoriali.L’attività proposta è, oltretutto, di un’ottima ginnastica per le emozioni.

Svolgimento

Iniziare la descrizione di un fatto realmente accaduto con “fortunatamente” e, dopo aver completato la prima frase, continuarlo aggiungendone un’al tra che iniz i con “sfortunatamente”.

Proseguire la descrizione usando sempre alternativamente, all’inizio di frase, uno di questi due avverbi o altre espressioni sinonime: per sfortuna, malauguratamente, disgraziatamente, purtroppo, oppure per fortuna, grazie a Dio, eccetera.

Varianti

Per iniziare, si può anche inventare un racconto, per passare poi ad un avvenimento vissuto che sia non troppo coinvolgente e, infine, ad uno molto coinvolgente, che richiederà maggiore impegno nel disidentificarsi dal proprio abituale modo di pensare, di sentire, di agire e di reagire. Il gioco si svolgerà dunque come segue:

1.Iniziare un racconto con la parola “sfortunatamente”.

2.Invitare gli ascoltatori a continuarlo con una frase che inizi con la parola “fortunatamente”.

3.Continuare la descrizione alternando i due avverbi all’inizio di ogni nuova frase.

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Motivazioni ed emozioni caratterizzano la nostra vita quotidiana. A differenza del passato, allorquando le scienze umane ne ignoravano le interconnessioni, attualmente la motivazione viene studiata in rapporto all’emozione e assegna a quest’ultima un ruolo di mediazione tra le esigenze ambientali e quelle individuali. Il collegamento tra emozione e cognizione si è affermato, infatti, solo di recente: in passato, la motivazione era considerata come un’eccitazione organizzata, un’attività dell’organismo, finalizzata alla realizzazione di un determinato scopo, e l’emozione era ricondotta ad un’eccitazione disorganizzata e considerata un’attività non funzionale ad una particolare strategia.

Oggi, dunque, le emozioni sono apprezzate come un processo interiore suscitato da eventi che fungono da stimolo, accompagnato da sentimenti, cambiamenti fisiologici e manifestazione comportamentali. E gli studi sulla motivazione (di cui abbiamo parlato nella sezione precedente) sono risultati decisivi per la comprensione dei collegamenti tra i due momenti, poiché hanno permesso di indagare sul motivo per cui un dato comportamento viene attivato per il conseguimento di uno scopo specifico. Nondimeno lo studio delle emozioni che, d’altro canto, ha permesso un’analisi delle modalità di reazione dell’organismo che producono dei cambiamenti nelle espressioni e nei vissuti soggettivi, a seconda dell’efficacia nel raggiungimento dei propri scopi (Canestrari nel 2007 scrive che “la motivazione può essere definita come lo stato di attivazione, il desiderio o il bisogno che orienta l’azione verso uno scopo. Ogni essere vivente mira alla soddisfazione di determinati bisogni mediante singole azioni o una serie di attività fra loro coordinate”). Il che ci consegna la visione d’insieme che è oggetto di questa trattazione.

Il rapporto tra motivazione, comportamento ed emozioni Le scienze umane distinguono due diversi tipi di motivazione, la motivazione

primaria e la motivazione secondaria, di cui la prima di origine fisiologica (definita come quel processo che induce lo stimolo della fame e della sete, ovvero quei bisogni fondamentali per la sopravvivenza umana) e la seconda di origine psicologico-cognitiva (sorretta da concetti e schemi mentali, come le ideologie, i modelli sociali, i valori etico-religiosi).

MOTIVAZIONE ED EMOZIONI

SEZIONE 3

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Nella maggior parte dei casi, le condotte degli esseri umani sono determinate da una concomitanza di motivazioni differenti, gestite da quello che possiamo definire il centro direzionale della motivazione: il sistema motivazionale-cognitivo-emotivo, sistema che si articola su diversi livelli gerarchici interni, corrispondenti a diversi livelli di risposta comportamentale, dalla più semplice alla più elaborata. Negli esseri viventi, il primo livello è considerato quello inferiore, che corrisponde, in termini di filogenesi, agli esseri con strutture cerebrali meno evolute (gli animali). Il secondo, il livello intermedio, è quello che caratterizza gli animali che vivono in gruppi sociali e che si prendono cura della loro prole. Il terzo livello, infine, il livello superiore, corrisponde al livello dell’uomo, in quanto essere dotato di un linguaggio simbolico e articolato.

Teorie di riferimento sulla motivazioneLa motivazione è uno degli ambiti di ricerca più vasto ed ha riguardato molti

approcci teorici.

Il comportamentismoUna prima ipotesi sull’origine della motivazione è stata formulata in ambito

comportamentale. Come suggerisce il termine, il focus in questo approccio è sui fattori che influenzano il comportamento, e, quindi, anche il comportamento performante (prestazione), tralasciando l’analisi della motivazione stessa. Gli studiosi comportamentisti, che escludono la motivazione estrinseca e le influenze ambientali sulla motivazione, la interpretano in termini di legame tra gli stimoli appresi e le pulsioni secondarie, anch’esse acquisite, riconducendola alla concatenazione Stimolo-Risposta.

Gordon Willard Allport, psicologo sociale statunitense, appartenente al movimento della cosiddetta “psicologia dei tratti”, sostiene, in proposito, che alla base di un comportamento motivato vi siano una serie di azioni ripetute, legate a dei risulti positivi conseguiti, e che la ripetizione e il consolidamento di questi modelli comportamentali producano vere e proprie abitudini che, a loro volta, danno vita a motivazioni autonome dagli originari nessi causali. Nell’ottica del comportamentismo appare, dunque, possibile, attraverso il condizionamento, modificare, da una parte, il comportamento animale e quello umano, e, dall’altra, le motivazioni e i bisogni che ne costituiscono la base.

Nel corso della storia non sono mancate le critiche al modello comportamentista. La principale risiede nel fatto che, in realtà, non tutte le azioni ripetute divengono

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abitudini e non tutte le abitudini divengono necessariamente motivazioni. Perché un comportamento abitudinario possa divenire una motivazione, occorre che sia in qualche modo interiorizzato, inserito in un sistema di valori, proprio di un determinato individuo, e che inneschi degli elementi tali da causare un effettivo cambiamento in quel medesimo insieme di regole e valori.

Il cognitivismoCon il modello cognitivista vengono evidenziati i cambiamenti nel sistema

cognitivo di valori e norme nel passaggio da un tipo di motivazione ad un altro. Motivazioni e bisogni sono, infatti, concetti dinamici che mutano in rapporto al numero di informazioni provenienti dall’ambiente che l’organismo è in grado di elaborare. Il trattamento e l’elaborazione delle informazioni in entrata provocano una continua sistemazione e ristrutturazione dei piani progettati per il conseguimento di determinati obiettivi.

La teoria freudianaSecondo la teoria freudiana delle pulsioni, gli uomini sono potenzialmente

influenzati nel loro agire da due istinti o pulsioni di base: la sopravvivenza (o procreazione sessuale), che corrisponde alla libido, e la morte (o distruttività), che corrisponde alla destrudo. In generale, sappiamo che tutti gli istinti sono caratterizzati da un’origine, uno scopo e un oggetto: l’origine dell’istinto si ritrova nell’attività biologica del corpo, in funzione di un determinato stimolo, mentre lo scopo è sempre quello di riuscire a ridurre la spinta istintiva.

La teoria delle pulsioniUno dei massimi studiosi della motivazione è Abraham Maslow, autore già

trattato abbondantemente in questo testo ma di cui riprendo gli assunti fondamentali per una rilettura in chiave psicodinamica, il quale ipotizza che i bisogni, prevalenti rispetto alle esigenze dell’organismo, possano essere organizzati secondo un modello gerarchico. Nella sua piramide dei bisogni, Maslow individua cinque gruppi di bisogni:

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Bisogni fisiologiciSono bisogni necessari alla sopravvivenza, che dipendono da pulsioni fisiologiche e si manifestano nel bisogno di nutrimento, ossigeno, e sonno.

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A loro volta, i bisogni sono raggruppati in tre macro-categorie: 1. bisogni primari, che includono i bisogni fisiologici e i bisogni di sicurezza;2. bisogni sociali, tra cui i bisogni di amore e appartenenza e i bisogni di

riconoscimento e rendimento;3. bisogni del sé, ovvero i bisogni di realizzazione del sé.Gli studi sul soddisfacimento dei bisogni evidenziano, inoltre, che la motivazione

che risiede alla base non è una peculiarità della sola razza umana ma che presenta alcuni aspetti in comuni con quella animale (benché, anche per i bisogni fisiologici e di sicurezza vi siano dei sistemi scatenanti e di modulazione comportamentale differenti. Basti pensare al soddisfacimento della fame: l’uomo è condizionato dai fattori culturali e dai rituali che sono legati alla consumazione di cibo, cosa che non accade per gli animali). I bisogni fisiologici, di affiliazione e di sicurezza sono, infatti, riscontrabili in tutti gli esseri viventi, mentre le differenze riguardano il piano cognitivo, di autorealizzazione e di trascendenza.

Maslow è riconosciuto come l’antesignano delle teorie della motivazione, grazie all’enorme contributo scientifico della sua teoria, benché teorie più recenti ne abbiano

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Bisogni di sicurezza

La sicurezza è legata alla presenza di figure parentali che siano in grado di assicurare al bambino una protezione adeguata.

Bisogni di appartenenza

Tale bisogno (di appartenenza e amore) si manifesta nell’esigenza da parte dell’individuo di sentirsi parte di un gruppo e di cooperare con i singoli membri.

Bisogni di riconoscimento

I bisogni di riconoscimento e di rendimento si concretizzano nel veder riconosciuti i meriti in relazione al ruolo ricoperto nella società.

Bisogni di realizzazione di sé

Nel soddisfacimento di questi bisogni, le capacità potenziali di ciascuna persona trovano la loro più piena applicazione e il massimo punto di crescita.

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hanno evidenziato i limiti (gli individui, ad esempio, tendono a soddisfare i propri bisogni in modo disordinato: non seguono, cioè, necessariamente la piramide dei bisogni in ascesa o in discesa, e, per di più, possono rinunciare a uno o più bisogni per passare a quelli successivi).

Il modello McClelland All’interno degli studi sulla teoria delle pulsioni, il modello formulato dallo

psicologo statunitense David McClelland fa riferimento alla motivazione come ad un “bisogno di riuscita”. Alla base della sua teoria, denominata achievement-power-affiliation (riuscita, potere, affiliazione), c’è il concetto dei moventi, intesi come reti di emozioni, disposte secondo una gerarchia di intensità e importanza. Si tratta, in altri termini, di insiemi di aspettative che si sviluppano intorno alle esperienze emozionali degli individui. I moventi vengono appresi, sono, cioè, aspetti della personalità che si sviluppano con essa. McClelland teorizza che che ogni persona possegga uno di questi moventi in forma dominante, con conseguenze sul comportamento motivato.

Sulla base di questo approccio, sono pensabili programmi di intervento per il potenziamento delle motivazioni. In particolare:

• le motivazioni intrinseche, che si riferiscono ai bisogni psicologici rilevanti per la persona, poiché attivano i comportamenti, a prescindere dalla presenza di rinforzi esterni;

• i modelli processuali che, viceversa, sono orientati alla comprensione delle modalità con cui la persona interagisce con il contesto. Tali modelli sono accomunati dallo sforzo di riconoscere l’orientamento razionale, ad esempio, del lavoratore nel giudicare le caratteristiche del proprio incarico e nel giustificare le proprie scelte.

Motivazione intrinseca ed estrinsecaIn base all’origine della motivazione, è possibile distinguere tra due categorie:

una motivazione intrinseca e una estrinseca.La motivazione intrinseca è definibile come una spinta all’azione generata da

caratteristiche ed esperienze personali dell’individuo che possiede, dentro si sé, tutte le risorse necessarie per poter affrontare e risolvere un determinato problema. Per fare un esempio, la motivazione intrinseca è quella forza interiore che spinge un grande atleta a raggiungere le prestazioni massime, arrivando, in alcuni casi, perfino a superare il proprio potenziale.

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La motivazione estrinseca è, invece, quella motivazione che trova appiglio solo in spinte esterne alla persona. In ambito professionale, ad esempio, la motivazione si sviluppa il prevalenza lungo questo asse, ovvero con il sistema degli incentivi e dei premi, fino ai contest aziendali interni per settori. Tutti gli sforzi del leader sono, infatti, compiuti per portare e tradurre la motivazione estrinseca in motivazione intrinseca, nell’auspicabile tentativo di risvegliare nei collaboratori una motivazione sul piano personale che vada oltre il sistema premiante.

Psicologia del consumo ed emozioniTra i diversi ambiti applicativi delle teorie sulla motivazione c’è quello della

psicologia del consumo (che riguarda lo studio del comportamento del consumatore e le sue motivazioni inconsce). Numerose sono oggi, infatti, le conferme sugli stretti legami tra motivazioni ed emozioni nelle ricerche di marketing e pubblicità e che interessano più aspetti del sé, da quello privato alla dimensione sociale della personalità: tutte le ricerche sottolineano la grande rilevanza dei fattori emotivi negli acquisti, al punto che una delle espressioni più in voga presso gli addetti al marketing (di grosse aziende come di negozi, in cui il marketing lo fa un accattivante allestimento delle vetrine) è che si acquista con l’emisfero destro (che, per l’appunto, è sede delle emozioni). Sono le emozioni, infatti, che, secondo l’opinione più diffusa presso gli studiosi del campo, predispongono l’organismo ad agire, ad elaborare piani per realizzare determinati scopi e a soddisfare i bisogni (componente motivazionale), facendone percepire l’impellenza.

Delle emozioni, de resto, si sono occupate molte scuole di pensiero. Ecco, in rapida rassegna, alcuni dei più significativi punti di vista che val la pena di citare e che hanno contribuito a fondare le conoscenze attuali.

• Il costruttivismo sociale definisce le emozioni come insiemi costituiti da regole che si evolvono e assumono un diverso significato in relazione ad un differente contesto storico e sociale.

• Secondo la prospettiva evoluzionistica darwiniana, l’espressione emotiva facciale è universale e la continuità in linea filogenetica di tale espressione.

• I lavori degli psicologi James e Lange (1885) hanno dimostrato che gli elementi valutativo-cognitivi non precedono le risposte espressivo-motorie ma che sono queste ultime a determinare la risposta cognitiva. In altre parole, non ridiamo perché siamo felici ma proviamo una sensazione piacevole perché ridiamo. Secondo questo approccio, l’emozione rappresenta, dunque, la sensazione di una modificazione fisiologica. La teoria di James-Lange ha dominato per parecchi anni e

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ha stimolato numerose ricerche sui processi fisiologici implicati negli stati emotivi, fino alle critiche pubblicate dal fisiologo Walter Cannon (1927), che ebbero un grande successo perché basate sul presupposto più moderno di una simultanea attivazione delle risposte espressivo-motorie e delle relative rappresentazioni mentali, poiché entrambe in stretta dipendenza con l’attivazione di determinate aree cerebrali.

Intelligenza emotiva e regolazione delle emozioni

Con gli anni novanta nasce, ad opera di Salovey e Mayer, il concetto di intelligenza emotiva, successivamente rivisitato e sviluppato con gli studi di Daniel Golemann. I due psicologi la definiscono come l’abilità di

• percepire correttamente e di valutare le emozioni;• accedere e/o generare le emozioni che favoriscono i processi di pensiero;• comprendere le emozioni, proprie e altrui; e ciò che concerne la conoscenza

emotiva;• regolare le emozioni (che nasce dalla loro conoscenza e) che favoriscono la

crescita emotiva ed intellettiva.

In sostanza, la teoria dell’intelligenza emotiva riprende il concetto di intelligenza multicomponenziale di Gardner (teoria che sottolinea l’esistenza, tra i vari fattori dell’intelligenza umana, di un’abilità emotiva che permette a molti individui di agire con successo, vivere meglio e più a lungo), funzionale alla capacità di vivere in maniera appropriata le relazioni interpersonali e migliorare i processi di pensiero. Al concetto, che in sé non risolve la difficoltà di utilizzare in maniera costruttiva le informazioni per il potenziamento delle abilità sociali orientate al miglioramento della qualità della vita delle persone, è strettamente collegato il problema del controllo delle emozioni. Conoscenze emotive, da una parte, infatti, e loro impiego funzionale nella quotidianità sono, dunque, il binomio che permette agli individui di modulare opportunamente le reazioni e le motivazioni che fondano l’agire umano.

In proposito, le neuroscienze offrono una doppia prospettiva, quella cognitiva e quella fisiologica.

Il controllo cognitivo. Secondo la teoria dinamica delle emozioni di Scherer (1984), le emozioni come sono percepite come di un sistema di informazione più complesso ed hanno la funzione di agevolare lo scambio di dati tra organismo e ambiente. Questo implica che, nel momento in cui viene accolta dall’organismo, per usare una metafora informatica, l’informazione in entrata passa attraverso una serie

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di controlli con l’unità centrale e con le periferiche. Tali controlli, nel caso di stimoli emotigeni, sono organizzati gerarchicamente, partendo da un livello più elementare per arrivare a livelli più sofisticati. Scherer li definisce come controlli valutativi dello stimolo e li articola su cinque differenti livelli.

1. Il primo controllo riguarda il grado di novità di uno stimolo, quanto cioè esso risulti atteso o inatteso dall’organismo.

2. Il secondo controllo è la valutazione del grado di piacevolezza-spiacevolezza connessa allo stimolo.

3. Al terzo controllo l’organismo verifica la conduttività degli scopi presente in un determinato stimolo e, più specificamente, valuta se un determinato stimolo favorisca o meno il raggiungimento di uno scopo ritenuto prioritario dall’organismo.

4. Il quarto controllo riguarda le capacità potenziali dell’organismo e la possibilità che ha quest’ultimo di far fronte a determinate conseguenze di determinati eventi.

5. Il quinto controllo infine riguarda esclusivamente gli esseri umani ed è un controllo di compatibilità di uno stimolo con il concetto di sé (a questo livello sono coinvolte le emozioni sociali, come la vergogna o il senso di colpa, che derivano da un comportamento non conforme con le norme sociali e i valori ideali del proprio sé).

Il controllo delle risposte fisiologiche. Dal punto di vista fisiologico, le risposte emotive implicano un’attivazione del sistema nervoso centrale, del sistema nervoso autonomo e del sistema endocrino.

1. Il sistema nervoso centrale è preposto, in particolar modo, all’elaborazione cognitiva del dato emotivo, essendo implicato nell’attivazione dei gruppi muscolari volontari (soprattutto facciali) deputati per l’espressione di specifiche emozioni.

2. Il sistema nervoso autonomo (detto anche vegetativo o sistema autonomo involontario) comporta alterazioni a livello fisiologico, come il tremare, l’arrossire, il sudare, alterazioni del ritmo respiratorio, battito cardiaco, pressione sanguigna.

3. Il sistema endocrino produce noradrenalina e adrenalina, neurotrasmettitori essenziali per l’attivazione del sistema nervoso autonomo.

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Regolazione degli aspetti motivazionali Come trova applicazione l’impianto teorico esposto alla luce della trattazione

sulla motivazione? La trasformazione delle emozioni in sentimenti (concetto spesso confusi dai più) offre la giusta risposta.

Le emozioni sono risposte immediate e momentanee che si esauriscono nell’hic et nunc della rappresentazione e delle azioni ad essa collegate. Esse rappresentano una forma di risposta orientata ad agire, un cambiamento nella preparazione dell’azione volto a modificare il rapporto con l’ambiente, sia esso fisico che sociale. I sentimenti, invece, intesi come “affetti”, sono le stesse emozioni che evolvono al punto da divenire interessi. La manifestazione delle emozioni, infatti, mette in moto un meccanismo di trasformazione, in virtù del quale la valutazione degli stimoli esterni e degli eventi passa da un semplice riferimento alle esigenze biologiche e fisiologiche dell’organismo ad una più attenta considerazione del contesto ambientale e del sistema di valori proprio di ogni persona. Si passa così da una valutazione primaria a una secondaria, con la trasformazione delle emozioni in affetti. Nel momento di trasformazione, il processo riprende da capo: le emozioni si mutano in sentimenti e, a loro volta, i sentimenti, originatisi come tendenze all’azione, assumono il carattere di scopi e alimentano le motivazioni che governano l’azione stessa.

Regolazione della componente espressivo motoria: l’espressione facciale delle emozioni

Un quesito di grande rilevanza sugli studi intorno alle funzioni delle emozioni è quello che riguarda le espressioni facciali relative agli stati emotivi. In particolare, la domanda è se tali espressioni siano universali e valide per tutti gli esseri umani, indipendentemente dal sesso, razza, scolarizzazione e cultura di appartenenza, oppure se esse siano influenzate da fattori socioculturali e valgano in maniera diversa per differenti gruppi di individui. Un altro interrogativo riguarda lo sviluppo delle espressioni facciali legate alle emozioni: le espressioni sono innate o sono prevalentemente suscettibili di apprendimento e modificabili in relazione a modelli comportamentali acquisiti? Il terzo aspetto della ricerca mira a determinare il livello fino al quale l’espressione facciale possa essere controllabile (o simulabile) e a rintracciare eventuali differenze tra emozioni reali ed emozioni interpretate.

Nella teoria evoluzionistica, Darwin sostiene l’universalità dell’espressione facciale delle emozioni e afferma che anche nei primati superiori sia rinvenibile, in risposta a stimoli emotigeni, un tipo di mimica facciale molto simile a quella umana. Di contro a quanto sostenuto da Darwin, altri studiosi, come Klineberg, sostengono

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come l’espressione facciale delle emozioni sia culturalmente determinata. In effetti, le differenze culturali non sarebbero da ricercarsi tanto nel comportamento espressivo in sé, che almeno per alcune emozioni è universale, quanto nelle regole che governano l’espressione nelle diverse situazioni sociali e negli stimoli esterni, vale a dire nelle circostanze attivanti il “programma espressivo” legato alla mimica facciale.

Nel 1934, Paul Ekman, al termine di lunghi viaggi tra le popolazioni più rappresentative del campione mondiale, elabora la teoria “neuro culturale” dell’espressione facciale delle emozioni, teoria nella quale egli esamina tutti gli aspetti in grado di influenzarla, da quelli naturali (fisiologici) a quelli culturali (acquisiti), questi ultimi rappresentati dalle regole espressive della società di appartenenza e dalle circostanze esterne che attiva una determinata risposta emotiva. Nel suo lavoro, dunque, Ekman dimostra per primo come, ad esempio, i giapponesi, più degli americani, tendano a controllare maggiormente le loro espressioni facciali per condizionamenti culturali che considerano disdicevoli le emozioni (per il popolo degli antichi samurai!). E che, inoltre, tale inibizione è ancora maggiore in presenza di stimoli elicitanti emozioni negative, specie se tali stimoli si presentano quando il soggetto sperimentale è insieme a un suo compatriota.

La cultura, si sa, è da sempre un fattore di forte repressione per gli individui. Facile comprendere, dunque, come, a maggior ragione, ciò valga se debbano manifestarsi emozioni che appartengono alla sfera intima delle persone. Per questo, alcune società impongono più di altre che l’espressione delle emozioni, in particolar modo quelle negative, riguardi la sfera privata degli individui e non la loro immagine pubblica. Come pure è regola comune assumere un comportamento espressivo adeguato in determinate situazioni sociali (ad esempio, non ridere ai funerali, essere lieti ai matrimoni): le regole dell’esibizione delle emozioni sono, infatti, culturalmente determinate e sono il frutto di apprendimento di modelli comportamentali condivisi.

Se le espressioni mimiche e facciali delle emozioni siano controllabili, simulabili o falsificabili è una questione, poi, che rimanda alla questione più complessa della comunicazione simbolica e, quindi, al linguaggio e all’attivazione dell’emisfero cerebrale dominante. La capacità di simulare un’emozione richiede, infatti, una componente cognitiva complessa, un tipo di pensiero astratto e simbolico che permette di pensare a un vissuto emotivo che non è quello realmente percepito. Cosa che, peraltro, è confermata dal fatto che una risposta simulata non può essere innata ma deve essere necessariamente appresa. Sulla questione relativa all’aspetto relativo alla dimensione evolutiva propria dell’espressione facciale delle emozioni, infatti, la maggior parte dei ricercatori concorda sostanzialmente che le manifestazioni di alcune

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emozioni siano presenti in forma compiuta fin dalle primissime settimane di vita dell’infante e siano comuni a tutti i neonati. Dunque, le falsificazioni devono essere necessariamente il risultato di un apprendimento successivo. A conferma di tale ipotesi, recenti studi sulle asimmetrie cerebrali hanno dimostrato che le espressioni facciali simulate, a differenza di quelle genuine, spesso sono asimmetriche, vengono espresse cioè con maggior compiutezza da quella parte del volto che è controllata dall’emisfero cerebrale dominante (l’emisfero sinistro, nella maggior parte degli esseri umani). Peraltro, gli studi di Ekman (e del suo collega Friesen, in collaborazione con il quale ha ideato il FACS, Facial Action Coding System, un test per analizzare empiricamente le espressioni facciali di una persona), sono stati e sono tuttora molto utilizzati in criminologia per individuare le unità di azione del volto (che si realizzano in due aree, una superiore, che comprende fronte, sopracciglia e occhi, e una inferiore, relativa alle guance, naso, bocca e mento) per smascherare gli autori di efferati delitti.

Con gli studi tra il 1982 e i 2004 di Scherer, fondatore del Component Process Model, un modello teorico delle emozioni che ne enfatizza la natura dinamica, non facciamo solo un balzo nel tempo ma anche un significativo passo in avanti per la decodifica delle emozioni: alle espressioni facciali, considerate in passato gli unici segnali non verbali per differenziare e riconoscere pienamente le diverse emozioni, si aggiungono le ricerche sugli altri movimenti del corpo e sui gesti che rappresentano un altro mezzo di segnalazioni delle emozioni, come la postura.

Ricerca motivazionale e lavoroPer chiudere, un breve cenno al campo di ricerca intorno al rapporto tra la

motivazione ed il lavoro, in particolare alla teoria di Schein e ai suoi tre livelli di approccio:

• l’approccio razionale economico, che vede come principale motivazione il denaro;

• l’approccio sociale, secondo cui la motivazione è determinata dal bisogno del singolo individuo di stare insieme ad altre persone e sentirsi accettato;

• l’approccio all’autorealizzazione, che incoraggia un arricchimento qualitativo del lavoro, generando una maggiore partecipazione dei lavoratori.

L’esteriorità delle emozioni e il vissuto emozionaleConoscere le proprie emozioni e conoscere quelle altrui è, indubbiamente, una

fonte inesauribile di informazioni che spiegano scopi, motivazioni e vissuti sottesi a ciascuna. Ma l’importanza principale è quella che rivestono per la salute dell’uomo. Lo

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hanno dimostrato le ricerche del belga Bernard Rimè, studioso della dimensione sociale delle emozioni. “Rivivere e rievocare le proprie emozioni”, afferma Rimé, “specialmente quelle positive, produce benefici a lungo e a breve termine. A lungo termine, preserva dagli effetti degli eventi traumatici; a breve termine, induce l’inibizione espressiva e attenua la sensazione di dolore che il ricordo del trauma senza dubbio risveglierebbe.”

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In nostro viaggio insieme termina qui. Almeno per ora. Se avrai piacere ad approfondire le tue conoscenze sugli argomenti trattati, puoi seguirmi sul mio blog, frequentare uno dei miei corsi o, più semplicemente, consultare i testi in bibliografia. Si tratta di opere alle quali mi sono ispirato per offrirti una panoramica realistica del la comunicazione efficace. Il mio augurio è esserti stato utile. Se è così, allora abbiamo raggiunto insieme il nostro primo obiettivo.

CONCLUSIONI E BIBLIOGRAFIA

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