La chiave Amaranto di Anna Tasinato

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Un omicidio. Licia Amaranto, la vittima. Alida De La Calla, la coinquilina, l’amica. La sospettata. Mass media assetati di scoop, manipolazioni, verità nascoste. Un mondo celato negli scorci bui delle città d’Europa; un mondo diverso o forse altre tinte dello stesso che ognuno conosce, vive, combatte. Tradimento e fiducia, vendetta e perdono, eros e thanatos, bene e male si mescolano tra le pagine di questo romanzo fino a perdere i propri confini. E, presto, Alida si ritroverà in fuga verso la verità, inconsapevole della portata degli eventi e di cosa si nasconda dietro... La chiave Amaranto.

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ANNA TASINATO

La chiave

Amaranto

Urban Fantasy

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Copyright © 2011 CIESSE Edizioni Foto di copertina © Marco Lolo

La chiave Amaranto di Anna Tasinato Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 78979108/8862964 | Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] P.E.C. [email protected] ISBN eBook 978897277682 Collana GOLD http://www.ciessedizioni.it NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario. Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edizioni senza richiedere alcun contributo economico all’Autore.

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A Lorella e Matteo, primi lettori e genitori. A Michele, il mio compagno.

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BIOGRAFIA DELL’AUTORE

Anna Tasinato nasce nel 1986 e coltiva la passione per i libri da quando ha imparato a leggere. Ha iniziato a scrivere da bambina e, dopo essersi diplomata al liceo scientifico, ha iniziato la prima stesura di un romanzo. Nel 2009 si è laureata in Educazione Professionale e ora lavora come educatrice presso un Centro di Servizi per Anziani. Le piace creare e sperimentare, indipendentemente dal campo di applicazione: oggetti riciclati con materiali di scarto, linguaggi informatici, video editing e manipolazione delle immagini. Ma, soprattutto, crede nelle enormi potenzialità del raccontare storie, ed è questo il motivo che la spinge a scrivere.

Visita il sito www.annatasinato.it per i contenuti extra sul libro.

RINGRAZIAMENTI

Desidero ringraziare tutti coloro che direttamente o indirettamente mi hanno incoraggiato a dedicarmi alla scrittura: in particolare, un ringraziamento sentito va a Elena A., una delle mie prime lettrici, ad Arianna B., perché ogni promessa è debito, e a Giulia A. che ha prestato il volto ad Alida. Ringrazio inoltre il fotografo e web designer Marco Lolo, che mi ha concesso di utilizzare la sua splendida foto come copertina del romanzo e la band Slow with the Fagian per avermi fornito la colonna sonora del

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trailer. Infine, desidero ringraziare la mia editor, Irina, che ha creduto nel mio romanzo e in me. Grazie.

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I

«Allora?»

Lo psicologo impugnava una stilografica perlata, la cui punta tamburellava sul blocco appunti in cui doveva essere raccolta la versione dei fatti.

Una deposizione che non ci sarà, pensai, fissando il panorama dal ventesimo piano oltre le sue spalle. Era un crimine contro la natura, quell’edificio: perché era un grattacielo. E un crimine contro la mia natura: perché ospitava lo studio Boidi.

Lo psicologo gettò la stilo sulla preziosa scrivania che ci separava e si alzò dalla sedia coordinata; le gambe di legno stridettero sul pavimento. Appoggiò la schiena sulla spessa vetrata che si affacciava su metà Milano e incrociò le braccia.

«Signorina De La Calla.»

In quel momento notai due cose.

Primo, l’uomo, che a spanne doveva avere tra i ventotto e trent’anni, era notevolmente più alto e imponente di me.

E secondo: se avessi agito in velocità, avrei avuto il tempo sufficiente per rompere con la sola, nuda mano il robusto vetro su cui era adagiato, sbalzare nel mezzo del cielo lui e tutto ciò che rappresentava, ricompormi e uscire dall’entrata principale prima che la sicurezza si accorgesse del mio operato.

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Lo psicologo scostò il polsino della camicia, scoprendo l’orologio.

«Ho già esplicato la mia versione alle autorità competenti» dissi, calibrando bene tono e parole. «Non capisco perché sia costretta a seguire una serie di incontri con lei, dal momento che il caso in merito non mi riguarda affatto.»

I suoi occhi saettarono.

Forse avevo sovrastimato lo studio che mi aveva preso in consegna. Non avevo dubbi: era un novellino del mestiere, un neolaureato fresco di studi assunto per sbaglio o per raccomandazione. Rivolsi lo sguardo sulla targhetta di ottone esposta sul bordo della scrivania, giusto per vedere con chi avevo a che fare.

Dottor Mirko Borgia. Psicologo criminale.

Tornai a studiarlo con più curiosità. In effetti quegli occhi verdi non mi erano completamente estranei e anche il resto della fisionomia non mi era del tutto anonima.

Fece per aprir bocca, ma lo interruppi sul nascere.

«Ofelia come sta?»

L’uomo inarcò le sopracciglia.

«Lei come…?» domandò. «A ogni modo, Ofelia sta benissimo, ora è in viaggio in Russia. Come la conosce?»

«Oh, io e sua sorella eravamo molto amiche. Ci siamo dilettate in un tour dell’Africa insieme.»

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«Ma» esordì, con una mano sollevata per aria.

Lessi sul suo volto il bivio in cui l’avevo posto: continuare la nostra conversazione professionale, che non avrebbe portato a nulla vista la mia reticenza invalicabile, oppure cercare di tracciare il mio profilo personale attraverso ciò che gli avrei raccontato sull’amicizia con la sua particolare sorella.

«Quando ha conosciuto mia sorella?» cedette.

«Due anni fa, durante una manifestazione sulle specie protette a Roma.»

«Quindi, se non erro, lei aveva ventun’anni e mia sorella ventiquattro quando vi siete incontrate. Giusto?»

Sapevo benissimo dove voleva andare a parare. «Certo.»

«E da quanto non la vede o sente?»

Altra domanda scontata. «Da un po’, ormai. Dopo il nostro tour africano è sparita.»

«Capisco» disse, tornando alla postazione originaria dietro la scrivania. Allungò la mano verso il blocco notes e la stilografica; probabilmente aveva intenzione di riportare la conversazione su toni molto meno piacevoli, almeno per me.

«Anzi» lo precedetti, «immagino che ogni tanto lei la senta. Le potrebbe lasciare un messaggio?»

Il volto dell’uomo diventò una maschera. Rimasi in attesa della scusa che mi avrebbe propinato per

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giustificare la mancata risposta della sorella, qualsiasi messaggio io le avessi lasciato.

«Ma certo» sibilò invece. L’angolo sinistro della bocca si raggrinzì in una smorfia.

«Le dica allora che Alida la saluta e ricorda sempre con piacere quando ha salvato quel cucciolo di tigre dai bracconieri.»

«Mia sorella… cosa?» Il Borgia corrugò la fronte e ridusse gli occhi a due fessure. Vederlo così valse completamente quell’ora inutile. «Comunque, glielo riferirò.»

«Perfetto» risposi. «Noto con dispiacere che il nostro tempo a disposizione è finito.»

Lo psicologo mi lanciò un’occhiataccia. «Signorina, non vorrei spaventarla troppo, ma sta sostenendo un processo per omicidio di primo grado. Per quanto parlare di mia sorella e dei tigrotti sia piacevole, non credo che il giudice che la indagherà accetterà come prova della sua innocenza il fatto che ha sostenuto attività di volontariato per l’ambiente in Africa.»

Non avrebbe dovuto dirlo.

Serrai le dita della mano destra attorno ai manici della mia Louis Vuitton e sbarrai gli occhi. «Io non ho commesso alcun omicidio.»

«La parte che rappresento non vuole insinuarlo e lei ha a disposizione queste ore per dimostrare la sua innocenza. Se si rifiuta di usarle, andrà solamente a suo discapito.»

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Avrei voluto rispondergli che non avevo bisogno di dimostrare niente a nessuno. Che se avessi voluto avrei potuto attentare alla vita di lui e di chiunque si fosse messo sulla mia strada, che un giudice non mi faceva più paura di un insetto fastidioso.

Stetti zitta. Sapevo che le cose non erano così semplici. C’era una gerarchia da rispettare anche per quelli come me, e soprattutto c’era una giustizia da riscattare, per la mia amica e per quello che aveva subìto; avrei trovato l’assassino e gli avrei reso il favore.

«A domani» dissi.

Mi alzai, gli diedi le spalle e uscii dallo studio, sbattendo la porta con un tonfo secco.

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II

Superai il giardinetto – il metro quadrato di erba finta con annesso angolo zen – e zigzagai le due ruspe di plastica gialla lasciate accanto alla porta d’ingresso della palazzina. La borsetta cartonata dondolava appesa al braccio, mentre salivo le scale. Appoggiai la mano sul corrimano della ringhiera, seguendo i ghirigori di ferro battuto.

Mi fermai al primo piano. Rovistai nella Vuitton e afferrai il portachiavi a forma di cuore che Licia mi aveva portato da Venezia. Inserii la chiave rossa nella toppa e abbassai la maniglia.

L’ingresso dell’appartamento era vuoto, ma la luce era accesa. In cucina, la televisione borbottava a raffica le domande dei quiz preserali. Depositai il sacchetto di Lovebra sulla credenza e sciolsi la cinta del soprabito.

«Licia!» urlai, mentre passavo al primo bottone. «Ho trovato sconti sui reggiseni! Bellissimi, li devi vedere.»

Abbassai le mani al secondo bottone, al terzo. La televisione borbottava altre domande.

«Licia? Ci sei?»

Appesi il soprabito e la borsa dentro l’armadio attaccapanni e mi recai in cucina. La lampadina a risparmio energetico illuminava la stanza di luce

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innaturale. Sul ripiano, una terrina piena di pop-corn e il cartone del latte, con l’angolo superiore tagliato. La forbice giaceva accanto al lavello.

«Licia?»

Tornai nell’ingresso. Silenzio, eccezion fatta per la pubblicità delle brioche allietata da musica e risate.

«Licia!» esclamai e avanzai nel corridoio, sbattendo i tacchi. «Mi hai sentito? Intimo. Sconti. Abbiamo cose serie di cui occuparci domani!»

Nessuna risposta.

Infilai la testa nel soggiorno e nel bagno: vuoti. Camminai oltre la mia camera; la porta della mia coinquilina era l’ultima ed era socchiusa. Dalla fessura, una fetta di luce si espandeva nel corridoio.

Allungai il braccio e posai la mano aperta sul legno bianco. La porta, lentamente, si aprì.

«Licia, allora dove sei fin-»

Ma le parole morirono sulle labbra.

Una goccia di sangue luccicava sul parquet chiaro, tra i miei piedi avvolti nelle decolletes di camoscio grigio. Un’altra, poco più in là, sprofondava tra le fibre del tappeto di lana. Altre ancora erano sparse sul pavimento, sui jeans appallottolati a terra, sul comodino, sullo specchio accanto alla porta.

Sul bordo del letto erano immobili i piedi della mia amica. Una stilla rossa scivolò fino al calcagno e precipitò a terra. Si frantumò.

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Le gambe erano accavallate, il ginocchio sinistro sopra il destro, e dalla coscia si diramavano come tatuaggi i segni bianchi delle smagliature. Rivoli irregolari di sangue scendevano sui seni, percorrendo il torace fino all’ombelico: scie rosse che tagliavano la pelle candida.

«Licia?»

Mi avvicinai a passi corti. I tacchi s’inzupparono, le suole sciaguattarono nel sangue. Portai le mani alla bocca. La nuca s’irrigidì e una fitta di dolore attaccò la parte frontale del cervello. La testa girò: una bussola impazzita dentro un campo magnetico.

Mi sedetti sul letto.

Il ventre della mia amica non si muoveva riempiendosi e svuotandosi d’aria. Licia era immobile, con i capelli castani sparsi sul copriletto inzaccherato di rosso, le palpebre aperte, gli occhi fissi sul vuoto. Le braccia sopra la testa, le mani congiunte. Il sangue ancora fuoriusciva dall’enorme taglio sulla giugulare; grumi freschi attorniavano la ferita.

Non poteva essere.

Infilai un braccio dietro la schiena e le sollevai il busto. I polsi strisciarono sul copriletto, seguendo il resto del corpo. Le spalle e il collo si sporsero all’indietro e la testa scivolò. I capelli impiastricciati dondolarono e altre gocce rosse caddero come acquerugiola sul letto.

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Passai anche l’altro braccio dietro la schiena. «Licia?»

Nessuna risposta. Spostai una mano sulla nuca e alzai il capo verso di me; le palpebre si abbassarono un poco e una ciocca di capelli si adagiò sul mio polso. Gli occhi erano bianchi e le labbra aperte come quando si dorme.

La scossi. Una, due, tre volte.

«Licia. Licia. Licia! Licia!»

Il suo corpo seguì il ritmo. I capelli ondeggiarono, le labbra tremolarono. Dal taglio, rigagnoli di sangue corsero sulla clavicola e rigarono i seni bianchi.

«Licia! No… no, no!»

La gola pizzicò e la pressione sulle ghiandole lacrimali aumentò, una mano invisibile che mi agguantava e stringeva forte le dita attorno al collo, stringeva e mi toglieva l’aria. Dovevo piangere. Non ci riuscivo.

Afferrai il polso sinistro della mia amica e abbassai la testa fino ad appoggiare l’orecchio sullo sterno, ad altezza del cuore.

Silenzio. Nessun battito, niente.

Non potevo fare niente per salvarla. Ero arrivata troppo tardi.

«Tardi…»

Aprii le dita e il polso cadde sul letto con un tonfo. Non spostai la testa; congiunsi le mani dietro la

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schiena e rimasi abbracciata a lei, ascoltando il vuoto della gabbia toracica.

«Non andare» mormorai. «Ti prego, non andare. Non puoi andare, non puoi. Devi stare qui, con me. Con me.»

Strinsi di più le braccia e appiccicai la guancia sulla pelle sporca di sangue; era tiepida. Affondai il naso sul suo seno e chiusi gli occhi. Inalai il suo odore e quello ferruginoso del sangue.

«Nonandarenonandare. Troppo sangue. Troppo. Non andare… Ti voglio bene. Lo sai che ti voglio bene? Come faccio a dirtelo adesso. Come faccio. Come? Non può essere che… troppo sangue. Troppo. Sangue. Prega, Licia. Prega, prega, prega, tornerai. Devi tornare. Devi…»

La mano invisibile mi stritolò la gola e io tossii. Tossii su di lei, mentre mi aggrappavo al suo busto e strizzavo gli occhi, sperando che uscisse anche una sola lacrima. Dovevo piangere. Dovevo. Non potevo.

Il tempo diventò attimi, diventò niente. Trascorsi minuti, ore, forse un giorno intero con la faccia sulla sua pelle che pian piano si raffreddava e lacrime che non scendevano e sangue sulla mia camicia bianca, dentro le scarpe col tacco, tra i capelli e sugli zigomi, sul mento.

Quando riaprii gli occhi, capii. Licia era andata. Era rimasto solo un corpo di carne.

Una parte di me se ne andò con lei.

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III

«Buonasera e benvenuti a una nuova puntata di Qui Pomeriggio. Tanti gli approfondimenti, tanti i servizi preparati per voi, ma soprattutto tanti i telespettatori che ci hanno seguito anche ieri e che ringrazio a nome di tutta la redazione. Anche oggi, come annunciato, focalizzeremo l’attenzione sul fatto che da giorni arrovella l’Italia intera e che spacca in due l’opinione pubblica: ancora il caso Amaranto, del quale il nostro telegiornale si occupa con particolare solerzia e tempestività. Ebbene, mettiamo allora ordine alle tante informazioni accumulatesi fino adesso e proviamo a schiarirci un po’ le idee guardando il prossimo servizio. Linea a Giorgio.»

Abbassai lo sguardo sui tasti del telecomando e l’indice si spostò sul tasto OFF. La voce del giornalista mi riportò sullo schermo della tv.

«Sono già trascorse due settimane dal ritrovamento del corpo di Licia Amaranto e ancora la questura non ha tra le mani nessun imputato. Due settimane di indagini svolte nell’appartamento che la vittima condivideva con l’amica Alida De La Calla, due settimane di testimonianze dei familiari e degli amici della vittima, due settimane di angoscia per chiunque le volesse bene e per chiunque cerchi la verità.»

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La telecamera inquadrò l’esterno dell’appartamento– il mio appartamento – in cui io e Licia vivevamo, la madre e la sorella abbracciate e piangenti e un paio di foto di Licia: in una era in spiaggia e faceva la linguaccia da sopra il secchiello, nell’altra era abbracciata a un ragazzo davanti al Duomo di Milano.

«Licia, una ragazza come tante, una ragazza che voleva solo vivere con serenità e tranquillità. Una ragazza con la testa sulle spalle, che sapeva cosa voleva e che cercava di conquistarsi il suo posto nel mondo con l’impegno e la buona volontà, attraverso l’onestà e il rispetto. Una ragazza che si era trasferita da Venezia a Milano per frequentare i corsi all’Università, che si manteneva gli studi lavorando in pizzeria, e che comunque riusciva a prendere ottimi voti. Una ragazza che certo non meritava di morire, quel maledetto mercoledì pomeriggio.»

Come sottofondo, partì una musica struggente.

L’ennesimo approfondimento spazzatura, pensai. Eppure l’indice, ancora sul telecomando, non premette il tasto OFF.

«Quel maledetto mercoledì pomeriggio in cui Licia è stata ritrovata dalla coinquilina, nella sua camera, nuda e con la gola tagliata. E la coinquilina è di sicuro la figura più misteriosa di tutta la vicenda, la stessa coinquilina che è rimasta per quasi un giorno intero accanto al cadavere dell’amica e che solo dopo

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ha avvertito le autorità, facendosi trovare ricoperta di sangue e in stato di shock.

Le indagini dei RIS nell’appartamento, cominciate subito dopo il sequestro, non hanno ancora determinato in modo univoco l’artefice dell’efferato delitto. La nudità della donna ha indotto a pensare che si sia trattato di un delitto passionale, eppure l’autopsia non ha rilevato alcuna violenza sessuale sulla vittima stessa e questa svolta ha aperto la strada all’ipotesi su cui tuttora si sta lavorando: è plausibile pensare che il cadavere sia stato ingenuamente spogliato dall’amica e coinquilina, Alida De La Calla, per pilotare le indagini in modo che non la includessero nel caso? Lo chiediamo al nostro esperto, il dottor-»

Appoggiai entrambe le mani sul bordo del tavolo della cucina e sospirai. Non sapevano più cosa inventarsi per affibbiarmi un movente e sembrava che la televisione fosse addirittura più motivata della Questura a trovarmene uno.

«Allora» rispose il sedicente esperto. «Innanzitutto, buon pomeriggio Giorgio. E, per rispondere alla tua domanda: no, non è possibile, perché la disposizione del sangue sul corpo della vittima dice chiaramente che il delitto è avvenuto mentre Licia era già svestita.»

La telecamera inquadrò i baffi del giornalista, che si sollevarono in un’espressione di disappunto. «E quindi, ciò scagiona Alida dal delitto?»

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Di nuovo, il faccione rosso dell’esperto riempì lo schermo della tv. «Anche a questa domanda devo rispondere di no. No perché, in fin dei conti, per quanto la nudità sia scenica, si è stabilito che il delitto è avvenuto non appena la giovane donna è uscita dalla doccia. Alida non ha spogliato il cadavere, che era già nudo di per sé, ma ciò non la scagiona dall’essere stata lei l’artefice del, ehm, crimine.»

Stronzate. Stronzate che andavano in onda sul canale nazionale seguito da tutto il Belpaese. Stronzate che influenzavano l’opinione del Belpaese. Per le persone che guardavano e giudicavano davanti allo schermo televisivo, io ero già colpevole. E magari lo ero anche per il Borgia.

«Infatti» disse il giornalista Giorgio, «sappiamo che i RIS hanno anche avanzato l’ipotesi di manomissione della scena del delitto. Non è vero?»

«È proprio così. Dalle dichiarazioni del fidanzato, sembra che Licia tenesse in una scatola da scarpe nell’armadio lettere, cartoline, biglietti del cinema e altri oggettini di valore affettivo. Ebbene, quella scatola è sparita e l’unica persona che vi aveva accesso costante era solo Alida.»

«E sembra anche che qualcuno abbia copiato l’intero hard disk del computer della vittima, giusto?»

«Sì, ma ricordiamoci che stiamo parlando di notizie non ufficiali. Sembra comunque che il

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materiale non sia stato trovato in possesso della coinquilina.»

«Nonostante ciò, però, Alida è sospettata sia della sparizione di alcuni effetti personali, sia del delitto stesso.»

«È vero, però bisogna anche dar atto alla De La Calla di essersi comportata bene finora con le autorità. Sarebbe potuta scappare, invece ha avvisato i carabinieri del ritrovamento del corpo. È stata collaborativa, ha fornito informazioni importanti e si è sottoposta volontariamente alla perizia psicologica che potenzialmente potrebbe sancire in modo definitivo la sua iscrizione al registro degli indagati. Una persona del genere, o è sicura della sua innocenza, o è – perdonate il termine – folle.»

«Ed è proprio ciò che speriamo di scoprire con la perizia, di cui la prima seduta è avvenuta a porte chiuse stamattina, nel rinomato studio Boidi. Noi abbiamo incrociato l’avvocato di Alida fuori dall’edificio e siamo riusciti a scucirgli qualche informazione. Sentiamo.»

Apparve un uomo alto e stempiato. Indossava un completo color antracite da cui spuntavano come stuzzicadenti i polsi. Le dita scheletriche erano avvinghiate al manico di una ventiquattrore nera lucida.

«Non posso dire niente» bofonchiò. Il marasma di giornalisti vomitò una raffica di domande che s’accavallarono l’una sull’altra. Una ventina di

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microfoni apparvero davanti alla bocca dell’uomo, che piantò gli occhi sull’obiettivo.

«La mia cliente dice di essere innocente» rispose. «Abbiamo scelto di comune accordo di rivolgerci a questo studio, per attestare in modo chiaro il suo stato di salute mentale. No, non si è ancora deciso nulla. E non si sa se il gesto sconsiderato sia stato causato da un raptus di follia. Sarà lo psicologo ad attestarlo. Sì, lo studio Boidi è sicuramente uno dei migliori.»

Uno dei migliori, aveva detto. Uno dei migliori. Se non avessi scelto io il fantoccio che mi difendeva, avrei creduto che fosse venduto. Lo studio Boidi non era altro che una piaga per me. Ecco cos’era.

«E Alida? Che fine ha fatto Alida?» domandò una delle voci tra la folla. «Perché la sua abitazione adesso è tenuta nascosta ai giornalisti, non crede che sia giusto che i cittadini sappiano dove si nasconde la sospettata numero uno del caso Amarant-»

L’indice premette il tasto OFF sul telecomando e lo schermo della televisione diventò nero.

Affondai le unghie nel palmo della mano. Per loro era solo un gioco, uno stupido gioco mediatico. Una soap opera in cui il divertimento si nascondeva nello stanare il cattivo, puntando sulle proprie ipotesi come nelle corse dei cavalli. E, chi si avvicinava di più alla soluzione… “Evviva! Lo sapevo che era stata lei!”.

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Come se Licia non fosse morta, come se fosse solo un’invenzione per tenere in vita le chiacchiere da bar. Loro non avevano visto il sangue. Non avevano visto quello che lei era stata costretta a subire. Quello che lei aveva perso, quello che io avevo perso.

Staccai le unghie dalla carne e mi accucciai accanto al mobile di finto legno addossato alla parete della cucina, sotto il lavello. Aprii l’anta laccata di bianco sporco, dove di solito venivano riposti i detersivi al limone e le fastidiose spugnette gialle e verdi. L’oscurità nascondeva le macchie dove il colore si era scrostato, sul ripiano all’interno.

Fermai la mano a mezz’aria.

Lo stavo facendo di nuovo, maledizione.

Mi alzai di scatto e mi diressi verso l’interruttore della luce, accanto allo stipite della porta. Le abitudini apprese per merito della convivenza tendevano a sparire in fretta. Sbuffai. Avrei dovuto fare le cose per bene, soprattutto ora che come non mai la mia identità era a rischio. L’interruttore scattò sotto il polpastrello e io tirai un sospiro di sollievo. Sarebbero bastati i piccoli accorgimenti a salvarmi la pelle, perché non poteva esserci cosa più vera della veridicità delle piccole cose.

Tornai al mobile e la luce artificiale mostrò il contenuto del ripiano: una scatola di cartone su cui era appiccicata un’etichetta scritta a mano – My life. La mia vita in una scatola da scarpe –, un mazzetto di fotografie in bilico sul coperchio storto, un plico di

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fogli piegati a metà e incastrati tra la scatola e la parete di finto legno.

Infilai il braccio sopra la scatola e afferrai l’hard disk, nascosto dietro le carte. Mi sedetti sulla sedia e lo collegai al computer portatile; sullo schermo la finestra ne mostrò il contenuto. Documenti personali, fotografie, file di testo, immagini, programmi, conversazioni multimediali: tutti catalogati, sistemati e visionati con pazienza. Sommati alla “scatola della vita” e a ciò che sapevo sulla mia coinquilina, avrebbero dovuto indicarmi dove cercare.

Invece no.

Avevo scoperto particolari sulla vita di Licia che non conoscevo nonostante vivessimo insieme da mesi, tuttavia non era emerso nessun episodio sospetto, nessun conoscente che potesse volerle del male a tal punto da orchestrare un omicidio.

Appoggiai i gomiti sul tavolo e il mento sui palmi delle mani. Se avessi dovuto giudicare i fatti super partes mi sarei autodefinita colpevole, come tutti gli spettatori che guardavano i servizi televisivi. D’altronde, l’assassino era sempre qualcuno di vicino alla vittima. Qualcuno nella schiera di parenti, amici, fidanzati e coinquilini.

Anche quello di Licia si annidava accanto a lei, nascosto dalla mia ombra ingombrante? Li avevo studiati tutti, i suoi contatti. Tutti con alibi di ferro, tutti innocenti.

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Mi parai indietro i capelli dorati e allungai le gambe sotto il tavolo; ero finita in un bel casino e non sarebbe stato facile tirarmene fuori in modo pulito. Forse sarebbe stato meglio se fossi scappata; le possibilità non mi mancavano, i mezzi nemmeno. Eppure… no, non potevo andare via e dimenticare. Dovevo restare e trovarlo. Dovevo ucciderlo.

Lo stomaco pizzicò sotto gli impulsi della fame. Sollevai gli occhi dallo schermo e osservai le lancette dell’orologio; segnavano le otto di sera, l’ora di cena. Scattai in piedi e aprii l’anta del frigorifero. I ripiani erano vuoti e il portabottiglie ne conteneva solo una, di plastica trasparente; il liquido rosso si stagliava sullo sfondo bianco della parete.

L’afferrai.

Il tappo era blu, zigrinato a linee parallele. Ci appoggiai i polpastrelli e lo svitai. L’odore si librò nella cucina e mi colpì in pieno viso. Presi una scodella, ci versai dentro il sangue e la misi nel microonde. Restai a fissarla mentre girava, fino a che il bip acustico non suonò.

Attaccai la bocca al bordo di ceramica e succhiai con la stessa foga di un neonato allattato dalla madre. Per sbaglio urtai il tappo, che rotolò sul ripiano e cadde a terra.

Non me ne accorsi nemmeno.

Il liquido rosso scese nella gola e al suo passaggio ogni cellula si scaldò, prese vita. L’odore salmastro riempì le narici e salì fino al cervello, come le