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La cellula procariota come modello di studio e applicazione La cellula procariota ha una struttura semplice, non contiene organelli specializzati, ma una membrana citoplasmatica dove risiedono molte funzioni (trasporto dei metaboliti e nutrienti, è sede della respirazione per i batteri aerobi, è sede della fotosintesi per batteri fotosintetici). Non possiede un nucleo, ma una regione nucleare, in cui è compattato il genoma cellulare. Il genoma, a differenza della cellula eucariota, è costituito da una unica molecola di DNA cromosomale ( la cellula è dunque aploide). La presenza di una sola molecola, a differenza di 2n cromosomi presenti nelle altre cellule, non deve trarre però in inganno: in quest’unica molecola sono contenute tutte le informazioni genetiche della cellula, che sono tantissime, infatti la molecola contiene più di 1 milione di basi nucleotidiche ( i costituenti del DNA), ed è talmente lunga che può essere contenuta all’interno della cellula solo in una forma chiusa, circolare e superavvolta, a formare un gomitolo compatto. Il riavvolgimento e disavvolgimento del DNA è una operazione complessa che deve essere regolata in modo specifico da numerosi enzimi specializzati; solo attraverso un avvolgimento/disavvolgimento guidato è possibile infatti lo svolgimento delle funzioni vitali della cellula. Vedremo poi come molti batteri contengano del DNA extracromosomale, acquisito in particolari condizioni, che è costituito da una o più molecole di DNA circolare covalentemente chiuso di piccole dimensioni, che ha la caratteristica di replicarsi ed esprimersi in modo indipendente dal DNA cromosomale della cellula ospitante; tali molecole possono codificare per specifiche proprietà (resistenza ad antibiotici, enzimi detossificanti, endodesossiribonucleasi di restrizione, enzimi in grado di degradare composto organici particolari, quali toluene, benzene, idrocarburi) che possono essere sfruttate dalla cellula ospitante in particolari condizioni. La semplicità strutturale di una cellula procariota non deve quindi trarci in inganno, anzi, proprio in ragione della sua semplicità tale cellula nel tempo (in termini filogenetici) ha saputo adattarsi agli habitat più diversi (ricordiamo gli archeobatteri estremofili) e questo spiega perché dei 3 domini della vita, 2 siano rappresentati da organismi a cellula procariota (eubatteri e archeobatteri). Ma quali sono le funzioni vitali di una cellula? In primo luogo adattarsi e sopravvivere in un dato habitat: e questo comporta esprimere quelle specifiche caratteristiche fenotipiche che consentono alla cellula di utilizzare un dato substrato, o adattarsi ad un cambiamento ambientale. In secondo luogo riprodursi, affinchè la propria progenie sia in grado di colonizzare un dato habitat: e questo comporta la costituzione di nuove cellule figlie dotate dello stesso patrimonio genetico della cellula madre. In terzo luogo evolversi, là dove le condizioni ambientali sono tali da ridurre drasticamente le possibilità di sopravvivenza: e questo comporta in particolari condizioni, la capacità di compiere dei processi di ricombinazione genetica, allo scopo di acquisire qualche caratteristica fenotipica utile (ricordiamo che i batteri non sono in grado di compiere una riproduzione sessuale). Tutto questo comporta lo svolgimento di tre fondamentali processi: la REPLICAZIONE del DNA, la sua TRASCRIZIONE in RNA messaggero e la successiva TRADUZIONE in fenotipo, a livello dei ribosomi cellulari, con il coinvolgimento dell’RNA ribosomale (contenuto nei ribosomi) e dell’RNA transfer.

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La cellula procariota come modello di studio e applicazione 

La cellula procariota  ha  una  struttura  semplice,  non  contiene  organelli  specializzati,  ma 

una  membrana  citoplasmatica  dove  risiedono  molte  funzioni  (trasporto  dei  metaboliti  e  nutrienti,  è sede  della  respirazione  per  i  batteri  aerobi,  è  sede  della  fotosintesi  per  batteri  fotosintetici).  Non 

possiede  un  nucleo, ma  una  regione  nucleare,  in  cui  è  compattato  il  genoma  cellulare.  Il  genoma,  a differenza della cellula eucariota, è costituito da una unica molecola di DNA cromosomale ( la cellula è dunque  aploide).  La  presenza di  una  sola molecola,  a  differenza di  2n  cromosomi  presenti  nelle  altre 

cellule, non deve trarre però  in  inganno:  in quest’unica molecola sono contenute tutte  le  informazioni genetiche  della  cellula,  che  sono  tantissime,  infatti  la  molecola  contiene  più  di  1  milione  di  basi nucleotidiche  (  i  costituenti  del DNA),  ed è  talmente  lunga  che può essere  contenuta all’interno della 

cellula  solo  in  una  forma  chiusa,  circolare  e  superavvolta,  a  formare  un  gomitolo  compatto.  Il riavvolgimento  e  disavvolgimento  del  DNA  è  una  operazione  complessa  che  deve  essere  regolata  in modo  specifico  da  numerosi  enzimi  specializzati;  solo  attraverso  un  avvolgimento/disavvolgimento 

guidato è possibile infatti lo svolgimento delle funzioni vitali della cellula.  Vedremo  poi  come  molti  batteri  contengano  del  DNA  extracromosomale,  acquisito  in  particolari condizioni,  che  è  costituito  da  una  o  più molecole  di  DNA  circolare  covalentemente  chiuso  di  piccole 

dimensioni,  che  ha  la  caratteristica  di  replicarsi  ed  esprimersi  in  modo  indipendente  dal  DNA cromosomale  della  cellula  ospitante;  tali  molecole  possono  codificare  per  specifiche  proprietà 

(resistenza ad antibiotici, enzimi detossificanti, endodesossiribonucleasi di restrizione, enzimi in grado di degradare  composto  organici  particolari,  quali  toluene,  benzene,  idrocarburi)  che  possono  essere sfruttate dalla cellula ospitante in particolari condizioni. 

La  semplicità  strutturale  di  una  cellula  procariota  non  deve  quindi  trarci  in  inganno,  anzi,  proprio  in ragione  della  sua  semplicità  tale  cellula  nel  tempo  (in  termini  filogenetici)  ha  saputo  adattarsi  agli habitat più diversi  (ricordiamo gli archeobatteri estremofili) e questo spiega perché dei 3 domini della 

vita, 2 siano rappresentati da organismi a cellula procariota (eubatteri e archeobatteri). 

Ma quali sono le funzioni vitali di una cellula? In primo luogo adattarsi e sopravvivere in un dato habitat: e questo comporta esprimere quelle specifiche caratteristiche fenotipiche che consentono alla cellula di utilizzare un dato  substrato,  o  adattarsi  ad un  cambiamento ambientale.  In  secondo  luogo  riprodursi, 

affinchè  la  propria  progenie  sia  in  grado  di  colonizzare  un  dato  habitat:  e  questo  comporta  la costituzione di nuove cellule figlie dotate dello stesso patrimonio genetico della cellula madre. In terzo luogo  evolversi,  là  dove  le  condizioni  ambientali  sono  tali  da  ridurre  drasticamente  le  possibilità  di 

sopravvivenza:  e  questo  comporta  in  particolari  condizioni,  la  capacità  di  compiere  dei  processi  di ricombinazione genetica, allo scopo di acquisire qualche caratteristica fenotipica utile (ricordiamo che i batteri non sono in grado di compiere una riproduzione sessuale). 

Tutto questo comporta  lo svolgimento di  tre  fondamentali processi:    la REPLICAZIONE del DNA,  la sua 

TRASCRIZIONE  in  RNA  messaggero  e  la  successiva  TRADUZIONE  in  fenotipo,  a  livello  dei  ribosomi cellulari, con il coinvolgimento dell’RNA ribosomale (contenuto nei ribosomi) e dell’RNA transfer. 

 

 

 

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La  struttura  dell’acido  desossiribonucleico  (lo  scheletro,  le  coppie  di  basi,  la stabilizzazione, l’avvolgimento)  

Come  è  noto,  il  DNA  nella  sua  forma  nativa,  è  composto  da  due  filamenti  avvolti  a  doppia  elica:  in ciascun  filamento un gruppo  fosfato  lega  la posizione 5’ di una molecola di  zucchero alla posizione 3’ 

della molecola successiva; ad ogni molecola di zucchero è poi legata una diversa base azotata. 

Il DNA possiede 4 basi azotate diverse, 2 pirimidine, la timina T e la citosina C e 2 purine, la guanina G e la adenina A. Poiché le purine sono più grandi delle pirimidine, in una doppia elica regolare, la presenza di una pirimidina in un filamento è sempre accoppiata alla presenza di una purina nell’altro.  Inoltre,  la 

regolarità della struttura a doppia elica richiede la formazione di specifici legami idrogeno fra le basi, in modo tale che esse possano incastrarsi correttamente, perciò una A si contrappone sempre ad una T ( con  2  legami  idrogeno)  ed  una  G  sempre  ad  una  C  (  con  3  legami  idrogeno).  Ci  si  riferisce  a  questi 

accoppiamenti  fra  basi  con  il  termine  di  complementarietà,  e  quindi  ad  un  filamento  come  il complementare dell’altro 

I due filamenti inoltre sono orientati in direzione opposta, uno 5’  3’,  l’altro  3’    5’.  Dal  momento  che  i  due  filamenti  sono 

complementari,  l’informazione  contenuta  in  un  filamento  può essere  dedotta  dal  filamento  complementare,  quindi  per convenzione  una  sequenza  di  DNA  a  doppio  filamento  si 

rappresenta solo scrivendo la sequenza di uno dei due filamenti in direzione 5’    3’.  La  struttura del DNA possiede quindi una carica netta  negativa  a  causa  dei  gruppi  fosfato,  che  causa  una 

repulsione  elettrostatica  che  tende  a  far  allontanare  i  due filamenti: la stabilità della molecola è conferita proprio dai legami idrogeno  tra  le  basi  complementari  dei  due  filamenti  a  da 

interazioni idrofobiche tra le basi stesse. 

La sintesi del DNA avviene mediante allungamento dalla estremità 3’‐OH con la formazione di un legame fosfodiesterico tra il 3’‐OH e  un  nuovo  dNTP  (desossiribonucleotide  trifosfato  =  base 

nucleica= zucchero‐fosfato‐base azotata). 

Il DNA a doppio filamento nel suo stato rilassato è presente normalmente come doppia elica destrogira con 10 coppie di basi per giro dell’elica, nota come  forma B del DNA. Le  interazioni  idrofobiche  tra  le basi  consecutive  sullo  stesso  filamento  contribuiscono  all’avvolgimento  dell’elica,  in  quanto  si 

determina,  per  l’avvicinamento  delle  basi,  una  più  efficace  esclusione  delle  molecole  di  acqua dall’interazione con  le basi idrofobiche. Possono esistere altre forme di doppia elica e conformazioni di ordine  superiore.  La  doppia  elica  è  a  sua  volta  ripiegata  su  stesa,  fenomeno  noto  come 

superavvolgimento  o  supercoling,  e  l’avvolgimento  della  doppia  elica  e  il  superavvolgimento  sono correlati: una variazione dell’avvolgimento determina un cambiamento nel livello di superavvolgimento e viceversa. 

La replicazione del DNA.  I due filamenti del DNA fungono entrambi da stampo per la sintesi di 

nuovi filamenti. E’ quindi una replicazione semiconservativa, dove i due duplex generati possiedono un filamento  parentale  e  un  filamento  neosintetizzato.  Affinchè  ciò  avvenga  è  necessario  che  il  doppio 

filamento  nativo  superavvolto  si  apra  in  modo  da  permettere  l’azione  di  specifici  enzimi  in  grado  di 

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iniziare  il  processo  di  sintesi.  Come  è  ovvio  immaginare,  questa  “apertura”  dei  due  filamenti,  o 

denaturazione,  non  può  avvenire  lungo  tutta  la  molecola  contemporaneamente.  Allora,  in  un  punto specifico del cromosoma, noto come origine di replicazione, si ha la formazione di una forcella, cioè una piccola parte del DNA si apre permettendo che inizi  il processo. Tale separazione dei filamenti avviene  

impiegando  energia  e  l’azione  di  specifici  enzimi.  In  primo  luogo  agiscono  delle  DNA  elicasi  che catalizzano la separazione dei filamenti, poi delle proteine che legano il DNA a singolo filamento (SSB= single strand binding) impedendo il riappaiamento. Inoltre, poiché non appena il DNA si svolge alla forca 

di  replicazione,  si  ha  in  qualche  altra  regione  un  avvolgimento  compensatorio  che  crea  tensione  alla struttura  in  quanto  chiusa,  devono  agire  altre  enzimi  specifici,  le  DNA  girasi,  della  classe  delle topoisomerasi,  che  introducono  rotture  a  singolo  o  a  doppio  filamento  sul  DNA,  permettendo  un 

cambiamento di forma o topologia.  A  questo  punto  inizia  il  lavoro  della DNA polimerasi,  l’enzima  chiave  della  sintesi  del  DNA.  La  cellula possiede  almeno  tre  differenti  tipi  di  DNA  polimerasi,  e  una  di  queste,  nota  come  Pol  III  sembra 

direttamente  interessata  al  processo.  Come  tutte  le  polimerasi,  essa  possiede  oltre  che  attività polimerasica  anche  attività  esonucleasica  in  grado  di  rimuovere  nucleotidi  non  corretti  non  appena vengono  incorporati  permettendo  la  correzione  delle  bozze.  E’  stato  calcolato  che  grazie  all’azione 

specifica  di  tale  enzima,  la  forca  di  replicazione  in E.  coli,  ad  esempio,  si muove  alla  velocità  di  1000 nucleotidi  /secondo. Ma perché ciò avvenga è necessario che  l’enzima agisca  in direzione 5’   3’ e  che inizi  la sintesi a partire da DNA a doppio filamento. Per questo motivo,prima dell’inizio del processo di 

replicazione,  delle primasi,  sintetizzano  dei  brevi  frammenti  di  RNA  complementari  alle  sequenze  del DNA  nella  forcella  della  replicazione,  noti  come  inneschi,  a  partire  dai  quali  inizia  l’azione  della polimerasi.  

Sul  filamento  guida  in  direzione  5’    3’  la  sintesi  a  partire  dall’innesco  avviene  in modo  continuo, ma l’altro  filamento  complementare  (il  filamento  lento  o  copia)  dovrà  essere  sintetizzato  in  modo discontinuo, per rispettare la direzione 5’  3’ di attività dell’enzima. E’ il noto modello della replicazione 

semidiscontinua di Okasaki, da cui prendono il nome i frammenti di DNA di nuova sintesi sul filamento copia. Al  termine del processo, una DNA ligasi, congiungerà i diversi frammenti.  

Poiché la replicazione è bidirezionale, dall’origine di replicazione nascono due forche che si muovono in direzioni opposte intorno al DNA circolare finchè non si incontrano nella parte opposta che corrisponde 

alla  terminazione  della  replicazione.  A  questo  punto  è  necessario  dividere  le  due  molecole  neo sintetizzate,  prima  che  avvenga  la  divisione  cellulare.  Esse  infatti  sono  concatenate  e  è  necessario l’intervento di una topoisomerasi in grado di creare una rottura di un doppio filamento. 

La  struttura  dell’acido  ribonucleico  (lo  scheletro,  le  basi,  i  tipi  di  RNA  e  la  loro conformazione) 

Chimicamente  l’RNA è molto simile al DNA:  l’unica differenza è che  il  suo scheletro contiene  il ribosio anziché  il  desossiribosio. Questa differenza,  che  sembra piccola,  in  realtà ha un notevole effetto  sulla 

stabilità:  infatti mentre  il  DNA  in  condizioni  di  pH  elevato  si  denatura ma  in modo  reversibile,  l’RNA viene  degradato  in modo  irreversibile.  Un  ‘altra  differenza  è  la  presenza  di uracile,  che  sostituisce  la timina.  Infine  l’RNA  si  presenta  sempre  a  singolo  filamento,  anche  se  in  grado di  formare  strutture  a 

doppio filamento.  

L’RNA è presente in tre differenti tipi,ognuno con un compito specifico: 

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l’RNA messaggero, è un filamento lineare di sequenze nucleotidiche che sono state copiate, attraverso 

il  processo  della  trascrizione,  dal  DNA.  Il  compito  di  tale molecola  è  dunque  di  portare  il  messaggio del’informazione genica dal DNA cromosomale a livello dei ribosomi, dove verrà tradotto in proteine. La sua  lunghezza  varia  a  seconda  delle  necessità  di  sintesi  della  cellula  e  dalla  organizzazione  delle 

informazioni  genetiche  lungo  il  DNA.  Nella  cellula  possono  formarsi  contemporaneamente  più mRNA  differenti. 

   L'RNA ribosomale è la tipologia più abbondante di RNA presente nella cellula. E’ il componente principale (circa i 

due terzi) dei ribosomi. Il ribosoma è una struttura che si auto‐assembla  in  due  subunità  ripiegate  (la  subunità maggiore  e  la  subunità  minore)  costituite  dall'RNA 

ribosomiale,  in  presenza  di  70‐80  proteine  ribosomiali, che  si  trovano  all'esterno  oppure  nelle  cavità  presenti all'interno  dell'rRNA  ripiegato.La  funzione  dell'rRNA  è 

fornire  un  meccanismo  per  decodificare  l'mRNA  in amminoacidi durante  la sintesi proteica, come vedremo in seguito. 

Alcune  caratteristiche  dell'RNA  ribosomiale  sono  importanti  per  la  medicina  e  per  lo  studio dell'evoluzione: • L'rRNA è il bersaglio di molti antibiotici: cloramfenicolo, eritromicina, micrococcina, streptomicina;  

• L'rRNA è il componente più conservato (che ha subito meno variazioni nel corso dell'evoluzione) in tutte  le  cellule.  Per  questa  ragione,  i  geni  che  codificano  per  l'rRNA  vengono  sequenziati  per identificare  il  gruppo  tassonomico di un organismo, per  riconoscere  i  gruppi  correlati e  stimare  il 

tasso di divergenza tra le varie specie.  Nei Bacteria, negli Archaea, nei mitocondri e nei cloroplasti, la subunità minore contiene l'rRNA 16S (16 Svedberg = coefficiente di sedimentazione), mentre la subunità maggiore ne contiene due tipi: il 5S ed il 

23S.  Il  ribosoma  completo  attivo  ha  un  coefficiente  di  70S  (50S  +  30S).  Al  contrario  negli  Eukarya  la subunità ribosomiale minore contiene l'rRNA 18S, mentre la subunità maggiore contiene il 5S, il 5,8S ed il 28S; il coefficiente di sedimentazione del ribosoma di una cellula eucariota è 80S (60S + 40S). 

L'RNA  transfer  (o  RNA  di  trasporto),  abbreviato  in  tRNA,  è  una  corta  catena  nucleotidica  (di  74‐93 nucleotidi) che lega e trasferisce un amminoacido specifico ad 

una  catena  polipeptidica  in  crescita  a  livello  dei  ribosomi durante il processo della traduzione del messaggio genetico in proteine.  Il  tRNA ha un  sito di  attacco per  l'amminoacido ed 

una  regione  con  tre  basi  (nucleotidi),  chiamata  anticodone, che  riconosce  il  corrispondente  codone  a  tre  basi  dell'mRNA attraverso  l'appaiamento  di  basi  complementari.  Il  tRNA  ha 

una struttura primaria (l'ordine dei nucleotidi da 5' a 3'), una struttura  secondaria  (chiamata  comunemente  struttura  a trifoglio), ed una struttura terziaria  

 

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Il  flusso  dell’informazione  genica  (lo  schema  di  lettura  del  codice  genetico,  la 

degenerazione del codice,  la definizione di gene ).  

Il  genoma  è  scritto  in  un  linguaggio  composto  da  parole  di  tre  lettere,  le  triplette  o  codoni,  ognuna 

indica  un  amminoacido.  I  conti  però  non  tornano:  con  4  diverse  lettere  si  possono  formare  ben  64 parole  diverse,  mentre  gli  aminoacidi  sono  solo venti.  Proprio  come  nella  nostra  lingua,  anche  il 

genoma  ha  dei  sinonimi:  alcune  triplette  indicano lo stesso amminoacido.  Osservando  la  tabella  possiamo  fare  alcune 

importanti considerazioni: 

• Tutti  i  64  possibili  codoni  hanno  una 

funzione  specifica:  61  di  essi,  detti codoni  di  senso,  specificano  i  diversi amminoacidi, i 3 rimanenti, detti codoni 

non  senso,  o  codoni  di  stop,  sono impiegati  come  segnali  di  arresto  della traduzione 

•  I  20  amminoacidi  possono  essere codificati  da  61  diversi  codoni.  Questa 

caratteristica è detta degenerazione del codice genetico. Nella maggior parte dei casi  i codoni sinonimi differiscono solo per la terza base all’estremità 3’, che può variare senza modificare il significato del codone 

• Poiché  i  tRNA sono gli adattatori dei codoni, dovremmo aspettarci 61 diversi  tRNA:  in  realtà  il numero  è  inferiore  e  sebbene  variabile  da  specie  a  specie,  non  raggiunge mai  il  numero  dei 

codoni possibili. Questo comportamento è noto con il termine vacillamento della terza base: in realtà  l’appaiamento del codone con l’anticodone è tale da consentire  la presenza di una base diversa in terza posizione 

• In  termini  evolutivi,  la  degenerazione  del  codice  consente  alla  cellula  di  far  fronte  a  possibili modificazioni/mutazioni ch potrebbero cambiare gli amminoacidi fondamentali di una proteina, 

oppure generare codoni di stop. 

• Il codone di inizio nei procarioti è solitamente ATG (più raramente GTG o TTG) a cui corrisponde 

un tRNA che trasporta una N‐formil‐metionina che è  il primo amminoacido  incorporato  in una proteina  e  che  viene  frequentemente  rimosso  dalla  proteina  durante  la  sua  maturazione. Quando i codoni ATG, GTG o TTG si ritrovano all’interno di una sequenza nucleotidica codificano 

normalmente per una metionina, valina e leucina rispettivamente. 

 

Possiamo ora definire un GENE come una sequenza nucleotidica continua, presente in una data regione del  cromosoma, dotata di  un  codone di  inizio,  un  certo numero di  codoni    interni  a  cui  si  aggiunge  il 

codone  di  stop.  Questa  sequenza  limitata  da  un  inizio  ed  una  fine,  se  codifica  per  un  prodotto  del fenotipo,  viene  chiamata  GENE.  Un  tempo  era  noto  il  concetto  “un  gene,  una  proteina”.  Con  il progredire    degli  studi  genetici  e  biochimici  si  scoprì  che  molte  proteine  sono  costituite  da  diversi 

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polipeptidi che possono essere codificati da distinte regioni nucleotidiche. Di conseguenza la definizione 

di  gene  si è estesa per  identificare una  regione  i DNA che contiene  l’informazione per  la  sintesi di un polipeptide. Tuttavia anche questa definizione è limitata perché, come vedremo, ci sono sul cromosoma regioni di DNA che  sebbene non codifichino per proteine o polipeptidi,  sono  importanti per  la vitalità 

cellulare o per la regolazione genica. In termini molecolari si utilizza anche il termine ORF (open reading frame) per  indicare una regione codificante, della quale ancora non si conosce la funzione a livello del fenotipo.  Quanto  può  essere  lungo  un  gene,  in  termini  di  numero  di  basi  nucleotidiche?  Possiamo 

assumere che il peso molecolare (PM) medio di una proteina sia di circa 40.000 Dalton; se consideriamo che  un  amminoacido  in  media  pesa  110  D,  allora  la  proteina  è  costituita  da  circa  364  amminoacidi. Poiché  ciascun  amminoacido  richiede  una  tripletta  di  basi  nucleotidiche,  possiamo  dedurre  che  una 

proteina sia codificata da un gene di circa 1092 coppie di basi (bp= base pair) 

 

La  trascrizione.  Quando  la  cellula  ha  bisogno  di  un  determinato  prodotto,  codificato  da  uno 

specifico  gene,  inizia  il  processo  della  trascrizione  del  gene  in  mRNA.  Tale  evento  è  catalizzato 

dall’enzima  RNA  polimerasi.  L’enzima  riconosce  una  regione  specifica  a  monte  del  gene  da 

trascrivere, denominata  sito promotore,  si  lega ad esso  in modo  specifico e  causa una denaturazione localizzata  della  doppia  elica  del  DNA,  che  consente  poi  all’enzima  di  iniziare  la  copiatura  di  uno  dei 

filamenti del DNA, aggiungendo in direzione 5’  3’  i ribonucleotidi trifosfato presenti nel pool cellulare. Facendo ciò si muove lungo il filamento stampo del DNA estendendo la denaturazione, mentre a monte il DNA si riavvolge a doppia elica. Il segnale che il gene è stato trascritto deriva dalla presenza, a valle del 

gene in questione, di una altra regione nucleotidica specifica, nota come sito terminatore, il cui compito è di indebolire l’associazione tra l’RNA sintetizzato e lo stampo di DNA. In questo modo l’RNA polimerasi si dissocia dal DNA e dall’mRNA e ha termine la trascrizione. 

La RNA polimerasi è costituito da diverse subunità (β’, β, σ, σ2, ω); tra queste la subunità σ è deputata al riconoscimento del  sito di  legame per  l’RNA polimerasi  sul DNA, nella  regione  che abbiamo chiamato 

sito promotore: esso consta di una sequenza nucleotidica di circa 6 basi localizzata a circa 10 bp a monte dell’inizio della trascrizione, nota come Pribnow (dal nome dello scopritore) box, o più semplicemente box  ‐10,  e di una altra  sequenza a  circa  ‐35 bp dal  sito di  inizio della  trascrizione, nota  come box‐35. 

Dall’esame di numerose sequenze del promotore, è emerso che in molti casi esiste una sequenza tipica per ciascun box, la cosiddetta sequenza consensus: 

box­10    TAtAaT    (chiamata  anche  tata  box‐le  lettere  maiuscole  indicano  basi  più  conservate, 

mentre  quelle  minuscole  hanno  meno  probabilità  di  comparire  in  quella  data 

posizione) 

box­35  TTGACa 

Quando andremo ad analizzare le diverse sequenze nucleotidiche ci accorgeremo che raramente troveremo sequenze promotrici che corrispondano alle sequenze consensus, comunque sequenze simili tendono ad essere conservate e a ricorrere in promotori forti, cioè regioni che consentono una 

trascrizione attiva e veloce. Infatti mutazioni che cambiano tali sequenze danno luogo ad una riduzione della trascrizione dei geni adiacenti (promotori deboli). Anche la  distanza dei siti promotori dall’inizio della trascrizione può variare e influenzare così il processo della trascrizione. Sono questi alcuni 

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meccanismi con i quali la cellula regola, insieme ad altri processi che vedremo in seguito , l’espressione 

genica in funzione delle necessità del momento. La terminazione avviene ad opera di una sequenza specifica, posta a valle del gene, che è una sequenza 

ripetuta e invertita, che consente la formazione, nell’RNA trascritto, di una ansa, nota come struttura a forcina, che destabilizza l’ibrido RNA‐DNA.  

La  traduzione.  La  traduzione  è  il  processo  attraverso  il  quale  i  ribosomi  leggono  il  messaggio 

genetico contenuto nell’RNA messaggero e producono un prodotto proteico  in base alle  istruzioni del 

messaggero. Prima che questo abbia inizio, la cellula prepara una scorta di amminoacil‐tRNA (tRNA con i corrispondenti  amminoacidi  legati)  (processo  di  caricamento  del  tRNA),  grazie  all’azione  di  una amminoacil‐tRNA  sintetasi.  Esistono  20  sintetasi  nella  cellula,  ognuna  specifica  per  ciascun 

amminoacido.  

L’inizio della traduzione è preceduto anche dalla dissociazione delle due subunità dei ribosomi: la subunità 30S legherà l’mRNA e l’anticodone del tRNA, la subunità 50 S legherà l’estremità del tRNA caricata con l’amminoacido; essa possiede inoltre una attività peptidil trasferasica che consente la 

formazione del legame peptidico tra gli amminoacidi che via via vengono legati. Come già accennato, il codone di inizio nei procarioti è solitamente AUG che codifica per una metionina 

formilata. Essa possiede un suo tRNA,   tRNAMetf  (diverso da quello per  la metionina interna alla catena 

polipeptidica,  tRNAMetm)  che  consente  la  formilazione  della  metionina  dopo  il  suo  legame.  Subito  a 

monte del codone di inizio esiste una breve sequenza, chiamata sequenza Shine‐Dalgarno (dal nome dei 

suoi  scopritori)  che  trova  complementarietà  con  una  sequenza  posta  all’estremità  3’  del  16S  rRNA. Questa complementarietà dà  luogo al  legame  tra  subunità 30S ed  il  giusto  sito di  inizio  sull’mRNA. La sequenza  di  Shine‐Dalgardo  è  ricca  in  A  e  G  (  AGGAGG‐  GGAGG)  e  viene  chiamata  anche  Ribosomal 

Binding Site (RBS); la sua distanza dal codone di inizio può comunque variare, condizionando l’efficienza della traduzione. Ma come avviene  l’allungamento? Sul  ribosoma si  trova un  sito di  legame peptidico  (sito P) e un  sito 

amminoacilico (sitoA). Il tRNA per la formil‐metionina è legato al sito P, il secondo codone è nel sito A, a questo  si  lega  il  secondo  amminoacil‐tRNA,  ad  opera  di  un  fattore  di  allungamento  (EF‐tu)  e  una molecola di GTP. L’attività peptidil  transferasica della subunità 50S consente  la formazione del  legame 

peptidoco tra fMet‐tRNA e il secondo amminoacil‐tRNA e il trasferimento del dipetidil‐tRNA nel sito A . Nel passaggio successivo, chiamato traslocazione (che prevede la presenza di un fattore di allungamento EF‐G e una molecola di GTP),    l’ mRNA con    il peptidil‐tRNA formato si muove di un codone  in avanti. 

Questo comporta il distacco del tRNA deacilato dal sito P, mentre il dipeptidil si sposta dal sito A al sito P; questo  fa sì che  il  codone successivo si  trovi ora al  sito A, pronto a  interagire con  il  corrispondente amminoacil‐tRNA. Il ciclo di allungamento prosegue fino a quando il ribosoma incontra il codone di stop: 

esso viene riconosciuto da specifiche proteine, i fattori di rilascio (RF) che determinano la terminazione della traduzione. 

 

 

 

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L’organizzazione  del  DNA  e  la  sua  regolazione.    Il  genoma  di  un  batterio  può 

contenere più di 3000 geni. I batteri, infatti, hanno una grande versatilità dal punto di vista metabolico e in  particolare  nell’utilizzazione  degli  zuccheri  come  fonte  di  carbonio.  Se  la  cellula  batterica  dovesse 

sintetizzare simultaneamente tutti gli enzimi coinvolti in tali processi, probabilmente consumerebbe più energia di quanto riuscirebbe a ricavarne. La cellula batterica ha quindi sviluppato dei meccanismi per reprimere tutti i geni che non sono necessari, attivandoli solo nel momento in cui servono. 

Alcuni  geni  sono  sempre  attivi  (accesi)  perché  i  loro  prodotti  sono  sempre  richiesti  dalla  cellula.  Altri 

invece  sono  inattivi  (spenti)  e  vengono  attivati  solo  quando  richiesto,  in  particolari  situazioni.  Per esempio, i geni codificanti gli enzimi della via glicolitica sono sempre attivi (può variare eventualmente il livello  di  espressione),  mentre  quelli  relativi  agli  enzimi  in  grado  di  utilizzare  l’arabinosio  sono  quasi 

sempre  spenti  e  attivati  solo nel momento  in  cui questa  insolita  fonte di  carbonio  rappresenta per  la cellula l’unica fonte disponibile per la crescita.  Questo  controllo  è  indispensabile  per  la  cellula,  perché  l’espressione  genica  è  un  processo  molto 

dispendioso  in  termini  energetici  e  la  cellula  ha  bisogno  di  fare  economia  per  poter  continuare  a crescere  e  competere  con  altri  organismi  più  efficienti. Nel  tempo quindi  la  cellula  ha  attuato questa strategia  evolutiva  per  organizzare  al meglio  le  informazioni  genetiche  e  per  controllare  l’espressione 

genica.  Oltre a regolare l’espressione genica i batteri hanno anche attuato un’altra strategia, raggruppando geni correlati  tra  loro  funzionalmente,  in  modo  da  essere  regolati  insieme.  Un  gruppo  di  geni  contigui  e 

controllati in maniera coordinata è definito operone.  

  

Il primo operone ad essere scoperto è l’operone lac di E.coli: esso contiene 3 geni che codificano per gli enzimi che 

consentono  alla  cellula  di  utilizzare  il lattosio:  una  lattosio permeasi,  una β galattosidasi  e  una  galattoside 

transacetilasi.  I  3  geni  sono raggruppati  nell’ordine:    lacZ  (β 

galattosidasi),    lacY    (lattosio  permeasi)  e  lacA  (galattoside  transacetilasi)  e  vengono  trascritti 

contemporaneamente per produrre un unico RNA messaggero  (chiamato policistronico‐  cistrone è un sinonimo di gene), a partire da un unico promotore che si trova a monte del primo gene dell’operone.  Consideriamo una  crescita  diauxica,  vale  a  dire  in  un  terreno  contenente  sia  glucosio  che  lattosio.  Le 

cellule  utilizzano  subito  il  glucosio,  per  il  quale  sono  già  disponibili  nel  pool  citoplasmatico  gli  enzimi (costitutivi),  e  solo  quando  il  glucosio  è  esaurito,  attiveranno  l’operone  lac  per  produrre  gli  enzimi necessari  alla  metabolizzazione  del  lattosio  (inducibili).  Come  avviene  la  regolazione  ed  il  controllo 

dell’espressione genica? Come molti altri operoni, l’operone lac è soggetto a due tipi di controllo. Il primo è un controllo negativo, che mantiene spento l’operone in assenza di lattosio. Questo avviene 

ad opera di un repressore specifico,  il repressore  lac  in questo caso,  il prodotto di un gene regolatore  lacI, che si lega in un sito specifico, noto come sito operatore, che sta appena a valle del sito promotore, impedendo il giusto legame tra sito promotore ed RNA polimerasi, inibendo così la trascrizione.  

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In  realtà  le  cellule  riescono  a  mantenere  l’operone  in  uno  stato  relativamente  inattivo,  con  la 

produzione  di  poche  molecole  di  enzimi  per  il  lattosio.  Il  repressore  è  una  proteina  allosterica:  in presenza  di  un  giusto  induttore  che  si  lega  ad  esso  si  determina  una  conversione  della  struttura  e  il passaggio  a  una  conformazione  che  ne  favorisce  la  dissociazione  dall’operatore,  inducendo  così 

l’operone. In questo caso la presenza di lattosio consente la derepressione dell’operone. Il livello basale di enzimi per  il  lattosio  fa  sì  che questa  fonte di  carbonio possa essere  in parte metabolizzata ad allo lattosio  (legame  β  1‐6  anziché  β1‐4)  che  rappresenta  l’induttore  in  grado  di  legarsi  al  repressore  e 

dereprimere l’operone lac.   

   

   

   

   

 Nel caso della crescita diauxica si osserva un tipo di controllo positivo dell’operone. Abbiamo detto che le cellule inattivano i geni per il lattosio fino a quando è presente il glucosio: è necessaria la presenza di 

una molecola  in grado di  “sentire”  la mancanza di glucosio e di  rispondere attivando  il promotore  lac (controllo  positivo).    Tale molecola    è  l’AMP  ciclico,  la  cui  concentrazione  aumenta  al  dimunuire  dei livelli di glucosio . Per ottenere l’attivazione dell’operone è però necessaria la presenza anche di un’altra 

proteina,  chiamata proteina  attivatrice del  catabolita  o  CAP  (detta  anche proteina  recettrice  di  AMP ciclico, CRP). Il sito di legame per il complesso CAP‐cAMP (sito di legame per l’attivatore) si trova subito a monte del promotore ed è stato dimostrato che il legame del complesso a tale sito stimola il legame 

dell’RNA polimerasi al sito promotore e quindi la trascrizione. Tale processo è anche noto come repressione da catabolita in quanto è stata per lungo tempo attribuita all’influenza di un qualche prodotto derivante dalla metabolizzazione del glucosio, o catabolita. 

  

Un altro operone, di importanza vitale per le cellule è l’operone ribosomale. Esso è caratterizzato dalla 

presenza  dei  geni  strutturali  necessari  per  la  sintesi  dell’rRNA  16S  ,  23S  e  5S,  indispensabili  per  la formazione dei ribosomi attivi. Come vedremo più avanti è uno degli operoni più studiati per valutare in termini filogenetici, le correlazioni esistenti tra i vari microrganismi.  In particolare i geni 16S rDNA ed i 

geni  23S  rDNA  sono  considerati,  in  termini  evolutivi,  i  più  significativi  orologi  molecolari:    essi  sono presenti in tutte le cellule, dove svolgono la stessa funzione ed hanno una sequenza nucleotidica che si è conservata nel tempo.  

Altre  caratteristiche  di  questo  operone  lo  rendono  particolarmente  utile  per  studiare  il  grado  di 

biodiversità microbica inter ed intraspecie, in particolare la presenza, tra il gene 16SrDNA ed il gene 23S 

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rDNA  di  una  regione  nucleotidica  che  può  presentare maggiori  variazioni  di  sequenza  e  di  lunghezza 

rispetto  ai  geni  strutturali.  Tale  regione  è  nota  come  Regione  Spaziatrice  (RS)  o  Internal  Transcribed Spacer  (ITS).  I  vari  microrganismi  infine,  possono  possedere,  lungo  il  genoma,  più  di  un  operone ribosomale (da 1 a 11 copie): la presenza di multicopie di questo operone è stato correlato alla necessità 

cellulare di disporre di più ribosomi attivi (ad esempio cellule con metabolismo energetico respiratorio), per una attiva sintesi proteica). E’ stato osservato che anche all’interno di uno specifico genoma, le varie copie  dell’operone  ribosomale  possono  variare  leggermente  in  sequenza  e  soprattutto  per  la  RS,  in 

lunghezza.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ricordiamo  infine,  che  in  funzione  del  tipo  di  microrganismo  gli  operoni  possono  presentare  una maggiore complessità rispetto a quelli presi come esempio, sia per quanta riguarda il tipo di regolazione che il numero di geni strutturali in essi contenuti; al riguardo è possibile osservare in operoni complessi 

come la cellula possa aver riunito anche geni strutturali che possono in situazioni metaboliche differenti essere accesi singolarmente anche per altre vie metaboliche. In tal caso c’è da aspettarsi che all’interno dell’operone e a monte del gene  in questione  sia presente un promotore,  solitamente più debole del 

promotore dell’operone, che consenta la regolazione e l’espressione del singolo gene. 

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Il DNA plasmidico.    In  numerose  cellule  batteriche  si  possono  trovare  repliconi  autonomi  dal 

cromosoma, i plasmidi (un replicone è una porzione di DNA provvista della funzione genica di iniziare e completare autonomamente la propria replicazione). Tali plasmidi possono dare crossing‐over sia con il 

cromosoma  della  cellula  ospite  che  tra  di  loro;  nel  primo  caso  si  integrano  nel  cromosoma  e  sono indicati come episomi, nel secondo formano plasmidi ricombinanti.  

Nell'ospite batterico i plasmidi si presentano come molecole circolari superavvolte CCC, che,  durante le 

manipolazioni sperimentali, possono rilassarsi (forma OC)o linea rizzarsi (forma L) in seguito a rotture a singolo o a doppio filamento. Il loro peso molecolare può variare da poche kb (1‐10) fino a raggiungere dimensioni di 200‐400 kb. 

La replicazione dei plasmidi può essere strettamente coordinata con quella del cromosoma (stringente) 

ed  allora  per  ogni  cellula  si  avrà  un  solo  plasmide  accanto  ad  un  solo  cromosoma  oppure  essa  può essere non coordinata con quella del cromosoma (rilassata) ed allora potremo avere per ogni cellula un numero  variabile  e  talvolta  molto  elevato  di  molecole  plasmidiche  sempre  in  presenza  di  un  solo 

cromosoma.   

La  replicazione autonoma è  conferita  loro dalla presenza di una origine di  replicazione,  chiamata ori.  Alcuni plasmidi  sono caratterizzati da una  forma di  replicazione bidirezionale, mentre altri presentano 

una replicazione monodirezionale che si compie in media in 1/10 del tempo necessario alla replicazione del DNA cromosomico. Molti plasmidi ritrovati  in batteri gram positivi si replicano con un meccanismo denominato  "rolling  circle  mechanism".  Oltre  ad  essere  essenziale  per  la  replicazione,  l’origine  di 

replicazione controlla il numero di copie, la specificità d’ospite e i gruppi di incompatibilità. Meccanismi molecolari precisi mantengono un numero stabile di copie del plasmide nella cellula ospite e assicurano la loro ripartizione tra le cellule figlie (regione par).  La mancanza di questa regione può portare ad una 

incorretta ripartizione durante la divisione cellulare fino a perdita del plasmide in condizioni di stress. In seguito a trattamenti diversi un plasmide può essere perso dalla cellula ospite. Questo processo (curing) è  dovuto  all’inibizione  della  replicazione  del  plasmide  senza  la  contemporanea  inibizione  della 

replicazione del  cromosoma,  per  cui  in  seguito  a  divisione  cellulare  il  plasmide  non  sarà  ereditato  da tutte le cellule. Due plasmidi che non possono coesistere nella stessa cellula –in assenza di pressione selettiva‐ si dicono 

incompatibili  (appartengono  allo  stesso  gruppo  di  incompatibilità).  Ciò  accade  quando  i  due  plasmidi contengono la stessa regione par e utilizzano lo stesso meccanismo di replicazione. 

 

Che tipo di  informazione è portata a  livello plasmidico? Solitamente  informazioni non essenziali per  la vita della  cellula, ma  informazioni  addizionali  che possono aiutare  la  cellula  che  li  ospita  in particolari situazioni: geni codificanti per enzimi coinvolti nella utilizzazione di mono  e polisaccaridi, per particolari 

endodesossiribonucleasi,  per  la  produzione  di  sostanze  antibatteriche  e  sostanze  tossiche  per  altre specie batteriche. In base alle informazioni che portano i plasmidi vengono classificati in: plasmidi R: hanno geni codificanti per resitenza ad antibiotici 

plasmidi Col: codificano per colicine (sostanze antibatteriche) plasmidi di virulenza: hanno geni codificanti per tossine, adesine, citolisine plasmidi  degradativi:  permettono  di  metabolizzare  sostanze  insolite  (geni  per  la  degradazione  di 

naftalene, benzene, toluene).  Esistono  tuttavia  ancora  numerosi  plasmidi  per  i  quali  non  sono  note  le  informazioni  geniche:  tali 

plasmidi vengono definiti criptici. 

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Alcuni plasmidi denominati plasmidi  coniugativi possiedono un set di geni  (geni  tra, da  trasferimento) 

che  sono  in  grado  di  promuovere  il  loro  trasferimento  in  cellule  diverse  (trasmissione  orizzontale) attraverso un ponte citoplasmatico. Per questo motivo i plasmidi vengono considerati Elementi Genetici Mobili.  La  presenza di  questa  regione  in  un plasmide può  avere  un’altra  importante  conseguenza nel 

caso  in  cui  il  plasmide  si  integri  nel  cromosoma.  In  questo  caso  il  plasmide  può  mobilizzare  il trasferimento di DNA cromosomale da una cellula ad un'altra. Ceppi batterici in grado di trasferire una grande  quantità  di  DNA  cromosomale  durante  il  processo  di  coniugazione,  sono  detti  Hfr  (high 

frequency of ricombination).  

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La  variabilità  genetica.  Una  caratteristica  dei  geni  è  che  essi  accumulano  cambiamenti,  o 

mutazioni. Il modo più semplice è sostituire una base con un’altra. Questo può portare a convertire un codone  in un altro codone e ad ottenere una proteina con un amminoacido diverso. Questo potrebbe 

essere l’unica variazione su centinaia di amminoacidi che costituiscono quella proteina, e tale variazione potrebbe  essere  irrilevante  per  l’attività  della  proteina, ma  anche  scatenare  effetti  importanti.  I  geni possono poi andare incontro anche a cambiamenti più significativi, quali delezioni o inserzioni di grandi 

tratti  di  DNA;  regioni  di  DNA  possono  anche  spostarsi  da  un  locus  ad  un  altro,  ed  in  questo  caso  i cambiamenti  saranno  più  drastici  e  maggiore  sarà  la  probabilità  ch  uno  o  più  geni  coinvolti  sino inattivati.  

LE MUTAZIONI  ( vedi un testo di Microbiologia) 

LA RICOMBINAZIONE GENETICA (vedi un testo di Microbiologia) 

LA  TRASPOSIZIONE.  Nei  batteri  avviene  ad  opera  di  due  elementi  genetici  mobili,  le  sequenze  di 

inserzione ed i trasposoni. 

Si definiscono sequenze di inserzione (denominate anche sequenze IS, elementi IS o, semplicemente, IS) delle sequenze di DNA capaci di spostarsi autonomamente da un punto all'altro del genoma. Le IS possiedono solo i geni necessari per la trasposizione. 

 

Una sequenza di inserzione è un filamento di DNA a 

doppia  elica  costituito  generalmente  da  circa  8‐900 coppie  di  basi.  Sono  costituite  da  una  porzione centrale  che  contiene  dei  geni  funzionali,  che 

codificano per gli enzimi necessari alla trasposizione, fiancheggiata  da  due  corte  sequenze  ripetute invertite,  ovvero  delle  sequenze  di  basi  che  non 

codificano  per  nessun  enzima,  disposte  specularmente  alle  due  estremità.  Quando  una  IS  traspone rimane  sempre una copia nella posizione originaria mentre una nuova copia  si  inserisce  in una nuova posizione del genoma; in altre parole, la trasposizione è sempre replicativa. 

Le sequenze  IS, quando traspongono, si  inseriscono  in  luoghi casuali del genoma;  il  sito  in cui avviene 

l'inserzione  di  una  IS  viene  chiamato  sito  bersaglio.  Perché  sia  possibile  l'integrazione  dell'IS,  il  sito bersaglio viene rotto (tagliato) dagli enzimi prodotti dalla  IS, e successivamente questa si  integra nella sequenza.  Poiché  l'integrazione  di  una  IS  è  casuale,  può  avvenire  anche  all'interno  di  un  gene 

funzionante; in questo caso, la corretta espressione del gene può venire alterata o interrotta, causando così una mutazione genetica. 

I trasposoni procariotici contengono tutti i geni necessari alla integrazione e alla escissione dal genoma. In  più,  normalmente  contengono  anche  dei  geni  aggiuntivi,  quali  quelli  relativi  alla  resistenza  agli 

antibiotici, o alla capacità di sintetizzare una particolare molecola. I trasposoni complessi sono costituiti da una parte centrale, che contiene i geni, e da due parti laterali costituite da sequenze di inserzione che presentano sequenze ripetute ed invertite di coppie di basi alle estremità. La trasposizione resa possibile 

proprio da  tali elementi. Essi  infatti producono gli enzimi  trasposasi, necessari per  lo  spostamento.  Le 

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trasposasi inoltre hanno bisogno di riconoscere le ripetizioni invertite degli elementi IS alle estremità del 

trasposone, per iniziare il processo. 

 

 

 

 

 

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Gli enzimi di restrizione. Tra  gli  strumenti  più utili  alla  cellula  per  riparare danno al DNA    e 

soprattutto  per  difendersi  da  DNA  estraneo  entrato  nella  cellula,  si  annoverano  le 

endodesossiribonucleasi    di  restrizione  (enzimi  di  restrizione,  endonucleasi,  ER).  Esse  prendono nome  dal  fatto  che  impediscono  l’invasione  da  parte  di  DNA  esogeno,  tagliandolo  in  frammenti.  Di conseguenza “restringono” lo spettro di possibili ospiti indesiderati. Inoltre questi enzimi tagliano in siti presenti all’interno del DNA esogeno, e non a partire dalle estremità, per questo si chiamano “endo”.  

Gli enzimi di restrizione prendono le prime 3 lettere del  loro nome dal nome latino del microrganismo 

che li produce (esempio Eco, dove E è  l’iniziale del genere Escherichia e co  l’iniziale della specie coli) e poi  viene  aggiunta  la  sigla  del  particolare  ceppo  da  cui  l’ER  è  stata  estratta  (esempio  EcoR1).  Si riconoscono così. 

EcoRI da Escherichia coli HindIII da Haemophilus influenzae BamHI da Bacillus amyloliquefaciens   Dalla fine degli anni ’60, quando si è scoperta la prima ER in E.coli, sono state ritrovate in numerosi altri 

batteri  nuove  ER  o  isoschizomeri  di  ER  già  note.  Vedremo  come  la  possibilità  di  impiego  delle  ER  sia condizione  indispensabile  nella  biologia molecolare.    Infatti,  tali  enzimi  sono  capaci  di  riconoscere  sul DNA  brevi  sequenze  bersaglio,  di  solito  palindromiche  tagliandole  in  posizioni  specifiche.  Una 

palindrome  è  una  parola  che  si  legge  allo  stesso  modo  sia  da  destra  che  da  sinistra,  e  un  sito  di riconoscimento palindromico è una sequenza  in cui  il  filamento superiore e  inferiore,  letti  in direzione 5'‐3', sono uguali, per es. la sequenza:  

5'‐GAATTC‐3‘ 3'‐CTTAAG‐5'  

Esistono  tre  classi  di  enzimi  di  restrizione,  ma  solo  gli  enzimi  di  classe  II  sono  caratterizzati  da  una 

elevata  specificità di  taglio.  E  la  straordinaria  importanza degli  enzimi  restrizione  risiede proprio nella loro specificità. Ogni particolare enzima di  restrizione,  infatti,  riconosce una sequenza specifica di basi all’interno di una catena polinucleotidica.  La maggior parte degli enzimi più comuni riconoscono da 4 a 

6 basi.  Il numero di basi  riconosciute è di  importanza pratica perché determina  la  frequenza media di taglio  e  la  dimensione  media  dei  frammenti  generati.  E’  ovvio  che  un  enzima  che  riconosce  una 

sequenza  di  4  basi  taglierà  più  frequentemente  di  uno  che  ne  riconosce  6.  Un’altra  particolarità  è  la modalità di taglio. Si conoscono ER che tagliano in tre modi diversi, e anche questo fatto, come vedremo in seguito, rappresenta un grande vantaggio in termini applicativi. 

Generando estremità piatte (blunt ends) Es. SmaI      

    5'‐CCC/GGG‐3'  

    3'‐GGG/CCC‐5' 

• Generando estremità coesive (sticky) sporgenti al 5' (5' protuding) 

Es. EcoRI   

    5'‐G/AATTC‐3' 

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    3'‐CTTAA/G‐5'  

• Generando estremità coesive (sticky) sporgenti al 3' (3' protuding) 

Es. PstI  5'‐CTGCA/G‐3'  

    3'‐G/ACGTC‐5' 

 

Gli enzimi di restrizione fanno parte dei sistemi di restrizione/modificazione cellulari, capaci di metilare specifiche  basi  e,  contemporaneamente,  di  tagliare  le  stesse  basi  quando  non metilate.    Con  questo sistema  la  cellula  produttrice  di  ER  è  capace  di  degradare DNA  esogeno  tagliandolo  in  specifici  siti  di 

riconoscimento.  Gli  stessi  siti  presenti  sul  DNA  endogeno,  tuttavia,  non  sono  tagliati  perché preventivamente metilati dal sistema di restrizione‐metilazione. 

Nomenclatura 

La nomenclatura degli enzimi di restrizione si basa sul genere e sulla specie del batterio dal quale è stato isolato l’enzima di restrizione: per es., EcoRI da  Escherichia coli,  HindIII da Haemophilus  influentiae etc.  

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L’estrazione del DNA. Il primo passaggio della maggior parte delle procedure analitiche consiste 

nell’estrazione  del  DNA  totale  dalle  cellule  batteriche  in  studio  e  nella  sua  purificazione  mediante separazione  dagli  altri  componenti  cellulari  Esistono  numerosi  protocolli  messi  a  punto  per  la  lisi 

cellulare dei diversi tipi di batteri, per cui analizzeremo solo le fasi generali: 

‐raccolta e lavaggio delle cellule cresciute in idoneo terreno colturale (se possibile un terreno non molto ricco in modo da evitare la formazione di strati extraparietali di natura polisaccaridica che interferiscono direttamente sulla resa di lisi e in un secondo tempo con la purificazione del DNA) 

‐lisi della parete cellulare mediante enzimi litici appropriati (lisozima solitamente), in combinazione con 

EDTA  e  un  surfactante,  come  il  sodio  dodici  solfato  o  SDS.  L’EDTA  complessando  i  cationi  bivalenti, destabilizza la membrana esterna dei Gram negativi,  inibisce le DNAsi che altrimenti degraderebbero il DNA,  mentre  l’SDS  aiuta  a  solubilizzare  i  lipidi  di  membrana.  Se  si  lavora  in  condizioni  isotoniche 

(mediante aggiunta di saccarosio o glucosio al  tampone di  lisi)  si evita  lo scoppio della cellula,  indotto dalla rottura dei legami β 1‐4 del peptidoglicano ad opera del lisozima; in questo modo si riduce il danno alla struttura del DNA nativo. 

‐l’estratto  che  si  ottiene  contiene  una miscela  complessa  di  DNA,  RNA,  proteine,  lipidi,  carboidrati  e 

residui  parietali.  Per  purificare  il  DNA  è  necessario  allontanare  l’RNA,  attraverso  l’azione  di  una ribonucleasi (RNasi) e le proteine, attraverso l’azione di una proteinasi e di successive estrazioni con una miscela di fenolo/alcool isoamilico o cloroformio. Quando la miscela è agitata vigorosamente,le proteine 

vengono denaturate e precipitano all’interfase; quindi gli acidi nucleici possono essere recuperati dalla fase  acquosa  sovrastante  (importante  è  usare  fenolo  equilibrato  con  tampone  neutro  o  alcalino    per trattenere il DNA nella fase acquosa) 

‐A questo punto si può procedere alla precipitazione selettiva del DNA, con doppio volume di etanolo o 

ugual volume di alcool isopropilico, per ottenere la concentrazione del DNA e una ulteriore purificazione da residui di solventi. Il precipitato di DNA, raccolto sul fondo della provetta dopo centrifugazione, può poi essere ridi sciolto in tampone fino ad ottenere una idonea concentrazione. 

N.B. Il DNA in soluzione rappresenta il DNA totale della cellula, quindi si estrae sia il DNA cromosomale 

che plasmidico. La  lisi  enzimatica delle  cellule  è un metodo  relativamente blando e questo  consente,  rispetto  ad  altri 

metodi di estrazione, quali sonicazione o rottura meccanica, di ottenere DNA ad alto peso molecolare; non è possibile però in molti casi mantenere la conformazione nativa delle molecole di DNA: nel caso di DNA  plasmidico,  solitamente  parte  delle  molecole  nella  loro  conformazione  nativa,  quindi  CCC,  si 

trasformano in OC, mentre per il DNA cromosomale si ha la conversione e frammentazione in molecole lineari,  il  cui numero e peso molecolare  rispecchiano  le precauzioni adottate durante  l'estrazione  (più delicata è la procedura, meno frammentato risulterà il DNA cromosomale). 

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Le caratteristiche quantificabili del DNA 

 Determinazione quantitativa.  Il DNA assorbe nello  spettro della  luce ultravioletta,  con un massimo di 

assorbanza  a  260  nm.  E'  così  possibile  quantificare  il  DNA  estratto  attraverso  una  lettura spettrofotometrica alla lunghezza d'onda di 260 nm, ricordandosi la correlazione:               1OD  =  50  µg/ml,  vale  a  dire  che  ad  un  valore  di  assorbanza  (o  densità  ottica  OD)  pari  a  1     

corrisponde una concentrazione di DNA in soluzione di 50 µg/ml. La  lettura  spettrofotometrica  viene  inoltre  impiegata  per  valutare  il  grado  di  purificazione  della soluzione di DNA, nei confronti di proteine residue (assorbanza a 280 nm) e di RNA e tracce di solvente 

(assorbanza a 230nm). Un buon grado di purificazione risulta dal valore del rapporto:  OD 260 nm/OD 230nm = 1,8‐2          OD 260 nm/ OD 280 nm = 1,8‐2 

 Curva di denaturazione termica. Il DNA possiede una caratteristica di estrema importanza per la  messa a punto di tanti esperimenti di biologia molecolare: la capacità di riassociare o dissociare, in condizioni 

controllate, processo che risulta REVERSIBILE. Tale processo, mediato dalla temperatura, viene seguito attraverso la costruzione di una curva, nota come curva di denaturazione termica del DNA. Come si può osservare  il valore di assorbanza aumenta all'aumentare della temperatura: a parità di concentrazione 

iniziale,  l'aumento  di  OD  è  da  correlare  al  fenomeno  noto  come  IPERCROMOCITA'  DELLE  BASI NUCLEOTIDICHE,  vale  a  dire,  quando  le  basi  nucleotidiche  non  sono  legate  a  formare  il  doppio filamento, si ha un aumento di OD perchè le singole basi assorbono maggiormente. Questo implica che 

quando, per effetto della temperatura, si rompono i legami idrogeno che tengono uniti i due filamenti di DNA, si ha un inizio di dentaurazione (dissociazione) che porta ad un conseguente aumento di OD. Come si  può osservare dal  grafico,  ad una data  temperatura  si  ha  la  completa dissociazione del DNA,  con  il 

raggiungimento di un valore massimo che poi resta costante, di OD. Da tale curva è possibile estrapolare un valore di temperatura, noto come Tm (melting temperature o temperatura media di denaturazione termica)  che  rappresenta  la  temperatura  alla  quale  il  50% del DNA  in  esame  si  trova nella  sua  forma 

dissociata. Al di sotto di tale valore il DNA tenderà a rimanere nella sua forma nativa, cioè riassociata, al di sopra del valore di Tm il DNA tenderà a dissociarsi. Il valore di Tm è caratteristico per ciascun DNA e correlato  alla  quantità  di G  e  C  presenti  lungo  il  DNA:  infatti  più  il  DNA  è  ricco  di G  e  C    più  energia 

termica  dovrà  essere  fornita  per  dissociarlo  in  quanto  più  legami  idrogeno  dovranno  essere  rotti (ricordiamo i 3  legami H rispetto ai 2 di A e T). Non è però un valore costante nell'ambito dello stesso DNA: può variare  infatti  in  funzione della  forza  ionica del mezzo  in cui  il DNA è disciolto. Più alta è  la 

forza  ionica, più  il DNA tenderà a riassociarsi per effetto dei controioni che vanno in parte a ridurre  la carica  negativa  netta  dei  due  filamenti,  e  di  conseguenza  più  alto  risulterà  il  valore  di  Tm  (cioè  della temperatura richiesta per ottenre il 50% di dissociazione). Lavorare invece a bassa forza ionica significa 

ridurre il valore di Tm e favorire il processo della dissociazione.  Visualizzazione del DNA. Il DNA, carico negativamente, e caratterizzato da un peso molecolare elevato, rispetto alle proteine, può venir separato e visualizzato attraverso una gel elettroforesi orizzontale in gel 

di  agarosio.  Il  gel  viene preparato a  concentrazioni  variabili da 0,5 al 3%,  in  funzione del  range di PM delle molecole che si vogliono separare e visualizzare (più grandi sono le molecole più bassa deve essere 

la concentrazione del gel di agarosio). Sciolto in idoneo tampone,  dopo solidificazione in idonei vassoio, nei  quali  si  sono  create  delle  tasche  di  caricamento,  il  gel  viene  posto  all'interno  della  vaschetta  di elettroforesi e sommerso dal tampone di corsa. La preparazione di DNA da sottoporre ad analisi viene 

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addizionata di un indicatore di corsa (solitamente BBF= blu di bromo fenolo addizionato di saccarosio) in 

ragione  di  1/6  del  volume  finale  e  caricata  nelle  tasche  del  gel.  L'indicatore  di  corsa  ha  lo  scopo  di permettere  di  visualizzare  l'andamento  della  corsa  elettroforetica,  il  saccarosio  in  esso  contenuto,  di aumentare  la densità del  campione e  consentirne  l'entrata e  l'impaccamento  sul  fondo della  taschina 

del  gel.  La  corsa  viene  fatta  avvenire  applicando  una  differenza  di  potenziale,  e  procede  dal  polo negativo a quello positivo. Al termine della corsa elettroforetica, il DNA viene visualizzato con l'ausilio di un  transilluminatore,  dopo  aver  messo  a  contatto  il  gel  con  una  soluzione  di  bromuro  di  etidio,  un 

agente mutageno ( e quindi tossico anche per l'operatore) che riesce a intercalarsi tra le basi del DNA e quando viene esposto a rdaiazioni UV (come quelle emessa dalla  lampada del  transilluminatore – 254 nm)  emette  una  fluorescenza  di  colore  rosso,  che  permette  di  visualizzare  le molecole  di  DNA  come 

bande  fluorescenti.  Il  transilluminatore  è  poi  di  solito  collegato  ad  un  apparecchio  fotografico  che acquisisce l'immagine e ne permette la stampa.  

Con  queste  poche  conoscenze  sulle  caratteristiche  del  DNA  possiamo  già  allestire  saggi  genetico‐molecolari in grado di fornirci importanti indicazioni, come stabilire l'appartenenza di un ceppo ad una data specie microbica, cioè ottenerne la corretta collocazione tassonomica e valutare la presenza di DNA 

plasmidico nei ceppi in esame, procedendo ad una loro preliminare caratterizzazione.