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     I motivi di un progetto

    di MARIALUISA STAZIO 

    Questo volume riunisce i contributi di quanti sono intervenuti durante quattro

    giornate di lavoro del Gruppo di studio sulla Canzone Napoletana  (Napoli, 28 e 29

    novembre 2011, Biblioteca BRAU, Polo di Scienze Umane e Sociali, Università di

     Napoli Federico II; Napoli, 7 e 8 giugno 2012, Dipartimento di Sociologia “Gino

    Germani”, Università di Napoli Federico II).

    Inizialmente concepita da Anita Pesce e da chi scrive, l’idea di promuovere questo

    gruppo di studio multidisciplinare sulla canzone napoletana  parte da un paio di

    constatazioni.

    La prima è che le  canzoni napoletane fine ottocentesche hanno rappresentato un

    unicum, per estensione della diffusione e per profondità e persistenza nella memoria e

    nell’immaginario collettivi.

    Quella immediatamente successiva è che oggi, quando al pari dell’opera buffa e del

    melodramma, esse sono ormai “fuori produzione” – e fanno quindi parte dell’heritage –  

    cultura e politiche della cultura non hanno ancora sviluppato strumenti per

    comprenderle e gestirle: musicalmente, “mitologicamente”, produttivamente.

     Nel paradosso (almeno apparente) di un’espressione musicale che metonimicamente

    “significa” e rappresenta una città, quando non l’intero Paese, e della sua insignificanzaa livello di ricerca e di iniziative istituzionali per la salvaguardia e valorizzazione del

    suo patrimonio materiale e immateriale, si collocano “vuoti” di conoscenza che hanno,

    ovviamente, a che vedere con i processi produttivi della conoscenza stessa. Ed è, infatti,

     proprio su questi “processi produttivi” che l'iniziativa di riunire, non episodicamente,

    studiosi di provenienza diversa su quest’oggetto, intende incidere.

    Il progetto ha immediatamente trovato la calda accoglienza da parte dell’Istituto di

    Storia delle Società del Mediterraneo dell’Istituto Nazionale delle Ricerche, nelle

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     Marialuisa Stazio

     persone del direttore, Paolo Malanima e della dirigente di ricerca Paola Avallone che

    qui, ancora una volta, sentitamente ringrazio.

    Le giornate di studio hanno trovato ospitalità e patrocinio da parte dell’Università di

     Napoli “Federico II”, nelle persone del Preside della Facoltà di Lettere, prof. Arturo De

    Vivo; del Direttore del Dipartimento di Sociologia, prof. Enrica Amaturo; del Polo di

    Scienze Umane e Sociali e dei suoi direttore, prof. Mario Rusciano, e vice direttore,

     prof. Stefano Consiglio. E sono state realizzate grazie alla collaborazione scientifica con

    Enrico Careri e Raffaele Savonardo, che che non solo hanno partecipato attivamente

    alla loro organizzazione ma, soprattutto, le hanno arricchite di contenuti, di ospiti, di

    originali spunti di riflessione.

    A tutti voglio ribadire qui la gratitudine mia personale, quella di Anita Pesce e di tuttii partecipanti.

    Durante le quattro, intensissime, giornate si sono declinati molti temi importanti.

    Uno di questi – centrale per lo studio di tutti i fenomeni ascrivibili alla produzione

    culturale (industriale e non) – è quello della stretta interrelazione fra le modalità

     produttivo/distributive e le particolarità linguistico/formali.

    Una delle cose che è apparsa immediatamente evidente, infatti, è che per quanto

    riguarda la canzone napoletana sono accomunate sotto una stessa dizione formeespressive prodotte in momenti diversi e in modalità produttive differenti, tanto

    relativamente ai mezzi utilizzati, quanto in riferimento alle logiche, ai mezzi e alle

    modalità di distribuzione, alle organizzazioni industriali e alle loro logiche

    economico/sociali. E diverse soprattutto – ma qui le differenze diventano più sfumate,

    maggiormente bisognose di analisi in dettaglio – nelle caratteristiche

    linguistico/musicali.

     Nell’arco di tempo che va dal 1824 al 1970, nel campo finora ricompreso nellacomune denominazione di canzone napoletana, si avvicendano, infatti, diverse forme e

    diverse fasi produttivo/distributive: dai “fogli volanti”, alle “raccolte”, all’editoria

    musicale con le sue “canzoni d’autore”, fino al “sorpasso” della riproduzione sonora

    rispetto alla stampa come medium di diffusione, e alla centralità         ̀ dei media di

    teletrasmissione nel sistema complesso dell’industria culturale.

     Nelle giornate di studio abbiamo posto il problema – se non di “ri-nominare” i

    diversi oggetti canzone  – quanto meno di evidenziare fattori che permettano

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     I motivi di un progetto

    legittimamente di accomunarli e di distinguerli. E, a quell’aggregazione quasi

    “naturale” delle diverse forme espressive secondo il “periodo” di produzione, abbiamo

    cominciato a sostituire una differenziazione operata attraverso il filtro dei media di

    comunicazione (oralità, stampa, riproduzione sonora, telecomunicazione) e dei processi

    e delle logiche produttive dei diversi apparati industriali di produzione culturale.

    Abbiamo, inoltre, cominciato a porre il problema di evidenziare e classificare fattori e

    caratteristiche linguistico/musicali che permettano di operare distinzioni fra oggetti

    tanto diversi.

    Un’altra peculiarità dell’oggetto di studio sta nel suo costruirsi, sin dalla prima metà

    del XIX secolo, attraverso percorsi intertestuali tra parola scritta, musica

    dell’illustrazione: nelle raccolte, negli spartiti e poi negli Album di Piedigrotta, nelleriviste, nei quotidiani, nei fogli d’album. Com’è noto, inoltre, alla fine del XIX secolo,

    numerosi comparti dell’industria della cultura “fanno sistema” intorno alla canzone.

    Essa diviene, così, un mezzo attraverso il quale esplorare il funzionamento sinergico

    dei diversi comparti e apparati produttivi dell’industria culturale napoletana:

    dall’editoria, all’informazione, dalla pubblicità, al teatro, alla riproduzione sonora. E,

    naturalmente, il cinema, con il quale la essa inaugura – ancor prima del sonoro –

     proficue sinergie.Il che introduce ad ancor più complessi percorsi transmediali. Giochi e rimandi

    intertestuali e transmediali che si complessificano nel secondo dopoguerra, quando al

    cinema sono affidati gli intrecci fra nostalgia e memoria, e la radio e la televisione

    introducono elementi di modernità e contaminazione. E quando, contemporaneamente,

    si completa il processo di delocalizzazione, iniziato già con il cinema nel ventennio

    mussoliniano, dei centri e degli apparati produttivi di prodotti che continuano ad essere

    “marchiati” come napoletani.Osservare come già “sulla carta”, e già nel XIX secolo, l’“oggetto canzone” si

    costruisca attraverso la capacità del lettore/interprete di connettere parole e musiche con

    testi giornalistici e illustrazioni, sposta immediatamente l’attenzione sul fatto che la

     parte più importante, più imponente, della “creazione di prodotto” e del suo valore, sia

    avvenuta principalmente nei processi del consumo e della circolazione culturale. Da una

     parte, grazie alla capacità dei comparti di produzione culturale di innervarsi nelle

    culture, nelle reti e nei rituali mondani e sociali, di entrare nel quotidiano e di sfruttare i

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    miliardi di ordinarie interazioni comunicative che vi avvengono ma, ancor più –

    dall’altra – grazie alle capacità e alle competenze del pubblico.

    In omaggio soprattutto alla prospettiva operativa della maggior parte degli interventi

    che seguono, vorrei ora dedicarmi a evidenziare i motivi per quali il fenomeno canzone

    napoletana dovrebbe essere considerato interessante, e per i quali il progetto del

    Gruppo di studio merita di continuare.

    Cominciamo, anche qui, da una constatazione. Le canzoni napoletane sono

    globalmente conosciutissime. Probabilmente la notorietà attuale può essere

     parzialmente attribuita a un massiccio e corretto uso dei media di riproduzione e

    trasmissione. Ma questi prodotti – e in particolare gli “esemplari” più famosi – nascono

    molto prima dei mezzi tecnici di riproduzione e trasmissione del suono. E sonouniversalmente conosciuti già “prima” di essere ripresi e ulteriormente diffusi dai mezzi

    tecnici. In breve, per trovare evergreen paragonabili – per profondità e persistenza nella

    memoria e nell’immaginario collettivi – a Funiculì Funiculà, Santa Lucia, ’O sole mio,

    dobbiamo attendere gli anni ‘40-50 del Novecento, spostarci geograficamente negli

    Stati Uniti, e invocare la convergenza fra tecnologie di riproduzione e trasmissione del

    suono e l’operare congiunto degli  studios  hollywoodiani, delle major   discografiche,

    delle radio.In altre parole, con la canzone napoletana  riscontriamo un fenomeno di grande

    diffusione e di penetrazione profonda e geograficamente estesa di prodotti musicali

    concepiti per un largo pubblico, seppure in assenza di mezzi tecnici di riproduzione e

    trasmissione del suono e grazie a un unico medium: la stampa. Che è un medium

    selettivo (per accedervi bisogna essere alfabetizzati) e tipico di un’industria, quella

    editoriale, che vende i suoi prodotti a prezzi più o meno accessibili.

    Ma noi sappiamo – così ci dice la storiografia – che tutto questo avviene in unterritorio fortemente segnato dall’analfabetismo, dove l’economia domestica della

    maggior parte delle famiglie è al di sotto della pura sussistenza.

    Posto che il verificarsi di un fenomeno di diffusione e penetrazione di un prodotto

    culturale presuppone l’esistenza di apparati produttivi e distributivi, evidentemente nella

     Napoli del XIX secolo esisteva un’imprenditoria editoriale musicale in grado di

     produrre e diffondere prodotti con caratteristiche adatte a incontrare un pubblico vasto,

    internazionale, interclassista e multiculturale e di elaborare e combinare, in sinergia con

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    la stampa d’informazione e con le organizzazioni dello spettacolo dal vivo, modalità di

    diffusione straordinariamente efficaci. Esisteva, insomma, un sistema d’industria

    culturale, anche se con una “dotazione” mediale decisamente scarna, e in un territorio e

    in un’epoca lontani (almeno secondo la storiografia più accreditata) anche

    dall’industrializzazione tout court .

    Si delineano, quindi, i primi due ambiti per i quali la ricerca sul fenomeno canzone

    napoletana può essere considerata importante e opportuna.

    Uno è quello che mi vede disciplinarmente maggiormente coinvolta, e che riguarda

    la “revisione” della “modellistica” in dotazione ai sociologi della comunicazione,

    specialmente di quella che enfatizza la centralità dei media ed affida la possibilità di

     penetrazione sociale dei prodotti culturali alla “potenza” o alle caratteristiche dei mezzitecnici. In fin dei conti, una delle questioni sollevate dalla canzone napoletana

    ottocentesca è proprio quella del media power : come mai constatiamo “effetti” profondi

    in assenza di un “media potente”?

    Il secondo riguarda prettamente la storia economica – ed è in esso che risiede

     principalmente l’interesse dell’ISSM-CNR al fenomeno – poiché evidentemente

    l’esistenza di un’industria culturale  e, comunque, di numerose fiorenti attività legate

    agli ambiti della produzione culturale e dei servizi,  in un territorio consideratocomunemente economicamente depresso e “sottosviluppato”, è cosa che merita di

    essere indagata.

    Un terzo motivo d’interesse – sovente, da più parti, richiamato ma, in definitiva, mai

    veramente affrontato – sta nel fatto che la canzone napoletana  rimane un “fattore

    distintivo” dell’immagine locale, dal quale sarebbe lecito aspettarsi ricadute nelle

    strategie di differenziazione del prodotto turistico napoletano e dei prodotti napoletani

    sui mercati globali.Il che era piuttosto evidente già nel XIX secolo, quando appaiono in primissimo

     piano le alleanze strategiche fra diversi settori economici e, in particolare, le sinergie fra

    diversi settori di produzione culturale e fra produzione culturale e segmenti economico-

     produttivi come il commercio e il turismo.

    Posto che, allora, il patrimonio musicale della canzone possa entrare a far parte di un

    “vantaggio competitivo” del territorio, bisognerebbe individuare (e magari predisporre)

    i presupposti necessari alla sua valorizzazione.

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     Marialuisa Stazio

    La canzone napoletana  può essere considerata un bene culturale, in quanto

    “testimonianza di civiltà” e componente dell’heritage. O, almeno, così è abbastanza

    comunemente percepita, tanto che c’è chi ha pensato di richiedere all’Unesco il suo

    inserimento tra i patrimoni culturali dell’umanità.

    La valorizzazione dei beni culturali (essendo di solito questi beni – non importa se

    materiali o immateriali – legati a uno specifico territorio) è comunemente connessa con

    la creazione di quello che è chiamato “prodotto turistico” e rappresenta, di solito, un

    fattore di differenziazione in un’offerta globale, che si rivolge a una domanda –

    anch’essa globale – interessata ai fattori, insieme culturali e d’intrattenimento, distintivi

    di un territorio complessivamente considerato.

    E allora – e non è strano in un Paese come il nostro, che detiene gran parte dei primati positivi e negativi nell’ambito dei beni culturali (l’heritage  più ricco, la spesa

     pubblica più povera) – ci troviamo, grazie alla canzone, ancora una volta al centro delle

     problematiche cruciali della conservazione e della valorizzazione, e divisi fra la

    consapevolezza delle enormi potenzialità di creazione di valore connesse al nostro

    “patrimonio” e lo sgomento per l’incuria in cui è tenuto.

    Il caso di specie, poi, è particolarmente utile per esemplificare i rapporti che

    sarebbero “desiderabili” (o, meglio, indispensabili) fra conservazione, ricerca,formazione e valorizzazione.

    È chiaro, infatti, che se vogliamo considerare il “bene culturale” canzone napoletana

    nella sua funzione di “attrattore turistico”, dobbiamo ipotizzare un sistema di spettacolo

    dal vivo, che la leghi al territorio non solo nella denominazione.

     Nel far questo, dobbiamo tener le effettive qualità della domanda turistica – che

    cerca esperienze “autentiche”, non paccotiglia folkloristica – ed anche che la canzone è,

    anche e direi soprattutto, un prodotto culturale destinato all’intrattenimento. Tutto questo, unito alla rilevanza che l’esecuzione dal vivo – nella crisi del mercato

    della riproduzione – ha assunto nei fatturati complessivi nel settore musica, mette in

     primo piano l’esigenza (e l’inesistenza) di un circuito produttivo di offerta e domanda di

    canzone napoletana  (o, come forse sarebbe meglio dire: di  popular music  di matrice

    napoletana), dotato di una sua vitalità e “verità”. Che, com’è ovvio, non può prescindere

    dal rapporto con gli apparati di produzione e distribuzione che costituiscono il sistema

    dello spettacolo e della comunicazione: circuiti di produzione e messa in scena e di

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     I motivi di un progetto

    distribuzione teatrali e musicali; industrie editoriali, discografiche, radiofoniche,

    televisive nelle loro varie e reciproche connessioni e sinergie, e nell’interazione con i

    grandi canali di distribuzione dei prodotti e delle informazioni loro connesse, web

    compreso.

    E non può prescindere nemmeno da un maggiore impegno, organicità, continuità

    nell’inserire e praticare questa forma “storica” nella formazione e nella ricerca

    musicale.

    Ma, la domanda di un  prodotto culturale destinato all’intrattenimento non è – non

     può essere – solo turistica.

    La  popular music napoletana – quell’oggetto, cioè, che comprende la canzone

    napoletana e che con essa si confronta (ed è confrontata) consciamente, inconsciamenteo subliminalmente ma, comunque, senza posa – può e deve aspirare a pubblici davvero

     più ampi, segmentati e articolati in relazione a interessi che riguardano il prodotto

    culturale in sé, ma anche il genere cui appartiene, il canale tramite il quale è distribuito,

    l’esperienza di fruizione che tale canale favorisce.

    E, se ci inoltriamo in quest’ambito, non possiamo ignorare il radicale cambiamento

    del mercato della musica: il digitale e le nuove forme di distribuzione hanno ridotto le

     barriere di accesso alla musica e ai contenuti musicali, così come i costi di riproduzione,distribuzione, stoccaggio, e hanno aperto alla possibilità di sfruttare su scala globale la

    “coda lunga” dei mercati di nicchia, dove si generano volumi economici addirittura

    maggiori che nella grande distribuzione delle hit, mentre le modalità virali del

    “passaparola” consentono di bypassare gli apparati promozionali e gli accordi

    radiotelevisivi delle major .

    Cambiamenti che hanno, ovviamente, investito anche la canzone napoletana.

    Grazie a You Tube, in rete si trova veramente ogni cosa. Da  Funiculì Funiculà “riarrangiata” da Rimsky-Korsakov, a rare registrazioni d’epoca (come, ad esempio,

    Viviani in edizione Phonotype), ai video “promozionali” per il mercato dei

    “matrimoni”. Nel 2011, iTunes ha inaugurato una Sezione speciale “Musica

     Napoletana”.

     Nel frattempo si affacciano nuovi servizi freemium – come Spotify e Pandora, nelle

    due versioni: gratuita, limitata nell'uso e finanziata dalla pubblicità, la prima; a

     pagamento completa, con funzioni aggiuntive e senza pubblicità, la seconda. I servizi di

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     Marialuisa Stazio

     subscription  hanno compiuto passi cruciali verso il raggiungimento di un mercato di

    massa: principalmente attraverso l’integrazione con Facebook che ha spinto la musica in

    abbonamento entro l’ambiente dei social network. Cosa che consente ad artisti e fan di

    condividere canzoni legalmente e di scoprire nuova musica con sempre maggiore

    facilità.

    I nuovi modelli offrono ad artisti e case discografiche uno schema diverso di ritorno

    dell’investimento.

     Nel contesto del download à-la-carte  (es: iTunes) ogni singola canzone o album

    viene scaricato e pagato una volta sola. Con il sistema dello  streaming , invece, una

    canzone o un album possono essere ascoltati centinaia di volte, ognuna delle quali

    genera un pagamento ai detentori dei diritti. Per quanto la somma pagata per un singolo stream sia di entità più ridotta di quella prodotta da un download , nel lungo periodo la

    quantità di denaro generata dall’ascolto ripetuto di un album o di una canzone può

    risultare maggiore. Ciò vale anche per mercati di nicchia, come ad esempio quello della

    musica classica. Ad esempio, Abeille Musique, etichetta indipendente francese di

    classica, ha abbracciato le nuove tecnologie entrando nel mercato digitale con un

    servizio di streaming  (Qobuz). Attualmente (2012), ricava circa il 12% del suo fatturato

    dai canali di vendita digitali e pronostica una crescita fino all’85% nell’arco dei prossimi cinque anni1.

    Così si delineano ulteriori possibilità di valorizzazione dei repertori di nicchia, per

    sfruttare le quali diventa opportuno concentrare l’attenzione sui nuovi modelli di

     business e sui relativi accordi per la corresponsione dei diritti d’autore e di

    riproduzione. Ma occorre anche intervenire sui contenuti e la loro conservazione e

    archiviazione e sulle opportunità per renderli fruibili in modi e forme adeguati tanto alle

    nuove sensibilità musicali, quanto ai nuovi servizi e dispositivi.Ciò ci riporta, quasi automaticamente, a un altro problema che la canzone napoletana 

    condivide con i “beni culturali: quello della conservazione, che è fra quelli (con la

    formazione e la ricerca) che passano più facilmente in subordine, quanto meno nei

     bilanci dello Stato.

    1 Digital Music Report 201. Expanding Choice, Going Global, IFPI 2012, Ifpi.org.

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    http://www.ifpi.org/content/library/dmr2012.pdfhttp://www.ifpi.org/http://www.ifpi.org/http://www.ifpi.org/content/library/dmr2012.pdf

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    Se parliamo di possibilità di sfruttare la “coda lunga” degli appassionati della musica

    napoletana, parliamo infatti di rimettere in gioco i “cataloghi”, non importa quanto

    antichi, purché conservati (e ben conservati), vuoi con la pura e semplice messa in rete

    delle registrazioni sonore per lo  streaming , vuoi con la ripresa di vecchi spartiti o

    vecchie registrazioni per studiarli e riproporli. Il che, ovviamente, non può prescindere

    dall’esistenza di archivi e biblioteche (anche se quest’affermazione non pare affatto

    confermata dai bilanci dello Stato, guardando i quali la sopravvivenza di queste

    istituzioni non appare affatto ovvia). Il processo di digitalizzazione dei materiali sonori

    e cartacei (di tutti i materiali e quindi anche di quelli della canzone napoletana) è ormai

    ad uno stadio avanzato e il sistema di conservazione e tutela dei materiali archivistici e

     bibliografici ha acquisito una presenza in rete abbastanza forte.Cosa che, d’altra parte, molte biblioteche già fanno: dalla “nostra” Biblioteca

     Nazionale di Napoli “Vittorio Emanuele III”, con il suo catalogo di dischi “napoletani”

    della Pathé in streaming o in download, al “National Juke Box” della Library of

    Congress con i suoi dischi Victor, ascoltabili a richiesta. Il problema è, allora, anche

    agire sulla domanda che, in questi casi, è rappresentata soltanto da un pubblico ristretto

    di amatori e cultori della materia.

    Il che apre a possibilità di mettere a frutto gli sforzi di ricerca e la capacità diorganizzazione dei contenuti (e, quindi, di creazione di valore aggiunto) che archivi e

     biblioteche indubbiamente dimostrano, predisponendo possibilità di download   o di

     streaming on demand  (gratuiti o a pagamento).

    Cosa che, d’altra parte, molte biblioteche già fanno – dalla “nostra” Biblioteca

     Nazionale di Napoli “Vittorio Emanuele III”, con il suo catalogo di dischi “napoletani”

    della Pathé in  streaming o in download ,  al “National Juke Box” della  Library of

    Congress con i suoi dischi Victor, ascoltabili a richiesta –, raggiungendo, però, solo un pubblico ristretto di amatori e cultori della materia.

    Un ulteriore esempio del legame fra lavoro di conservazione, archiviazione e

    digitalizzazione e nuove modalità di fruizione potrebbe essere rappresentato da WR7, la

    Web radio collegata all’ Archivio Sonoro della Canzone Napoletana.

    Questo esperimento nasce in ambito RAI, e non è quindi esemplificativo delle

     problematiche in cui sono immersi gli archivi e le biblioteche del MIBAC. Ma

    rappresenta, oltre che un buon inizio, anche la testimonianza del fatto che – se pur

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    complicato e difficile, per evidenti problemi legati ai diritti d’autore, per molta parte del

    repertorio ancora attivi – v’è un possibile sbocco (se non di mercato quanto meno di

    distribuzione e di visibilità) per tutte le forme di conservazione dei materiali stampati e

    sonori della canzone napoletana.

    Il che pone ancora una volta l’accento tematiche capitali per i beni culturali in Italia,

    Paese in cui non pare ancora chiaro (almeno ai decisori politici ed economici) che per la

    valorizzazione non è sufficiente che un bene esista.

    Al contrario, perché un bene possa rappresentare un valore – in tutta la pienezza dei

    sensi che questa parola assume – occorre un grande lavoro collettivo di conservazione,

    tutela, studio, ricerca, e un’attenzione altrettanto ferma sulla trasmissione, diffusione,

    disseminazione della cultura: in breve sulla crescita della conoscenza tacita dei pubblicie, quindi, sul sistema educativo d’istruzione e formazione. Poiché il “bene” – che può

    essere fisicamente uno spartito consultato online da uno studente del Conservatorio, o

    un file di ’O sole mio venduto su i-Tunes; un’area archeologica o un dipinto –

    acquisisce (e può acquisire) valore sono nello scambio. E, dunque, solo se c’è un

     pubblico che ha non solo la possibilità ma, soprattutto, la capacità di usarlo: di

    comprenderlo, apprezzarlo, goderlo.

     Nel caso di specie, può essere forse necessaria una conoscenza tacita relativamentelimitata per ascoltare una canzone (anche se la rete di riferimenti intertestuali ed

    extratestuali necessari alla piena comprensione di testi come le canzoni napoletane,

    caricati di senso dall’ascolto appassionato e  partecipativo di un paio di generazioni è,

    ormai, di tutto rispetto). Sicuramente, però, occorrono bagagli di saperi e competenze

     per compiere operazioni complesse come connettere ricerca e ascolto, uso dei servizi e

    creazione di playlist personali e, soprattutto, per abbandonare il mainstream del “flusso”

    ed acquisire il gusto – quasi “collezionistico” – di inseguire, nel mare magnum del web,un particolare genere, autore, prodotto.

     Nel frattempo, Napoli continua ad apparire come un laboratorio a cielo aperto sui

    fenomeni di resistenza e ibridazione culturale fra materiali della tradizione, prodotti

    delle industrie culturali e forme di espressione marginali, dove s’intrecciano produzioni,

    culture, “paesaggi” sonori e musicali. Ci sono diversi momenti e occasioni in cui tutto

    ciò è evidente, direi quasi esibito. Ad esempio, ogni anno, tutte le domeniche, dalla

    metà di gennaio fino a Pasqua, le  paranze  – gruppi di fedeli che si preparano al

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     pellegrinaggio alla Madonna dell’Arco, che si svolge lunedì in albis – fanno la “cerca”,

    vale a dire che raccolgono offerte in denaro “per la Madonna”.

     Nei vicoli – ma anche nella centralissima via Toledo – risuona ancora la “voce” Chi

    è devoto, fra esecuzioni bandistiche della Leggenda del Piave di E. A. Mario (1918) e di

    Caruso di Lucio Dalla (1986), e diversi arrangiamenti dal pop mainstream. I  fujenti –

    nella vita quotidiana, spesso assai discordante con il loro “servizio” religioso –

    ascoltano musica con i loro iPod, smartphone o iPhone. Ma si avvistano ancora ibride

    versioni digitali dell’antico  pianino, che del vecchio strumento a rulli mantengono la

    sagoma esterna, nascondendo nell’anima un lettore CD, dal quale si diffondono melodie

     più o meno neo  – ma talvolta anche antichi evergreen  – al fine di commercializzare

    supporti di rigorosa provenienza “clandestina”. Le strade echeggiano, è vero, di produzioni neomelodiche, talvolta inframmezzate dalle “vecchie” canzoni del Festival

    di Napoli, ma anche di musiche etniche di diversa provenienza, secondo i Paesi di

    origine degli extracomunitari che ormai prevalentemente abitano i vecchi “bassi”. E che

    a questo movimento di differenziazione e omogeneizzazione, di destrutturazione e

    ristrutturazione culturale, partecipano attivamente: pare che, nel 2010, alcune centinaia

    di cingalesi abbiano partecipato al pellegrinaggio alla Madonna dell’Arco e ai relativi

    riti2

    .È ovvio che a comporre le culture urbane partecipino sempre diversi livelli e

    “stratificazioni” culturali.

    Il caso napoletano pare, però, presentarsi ricco di peculiarità soprattutto per la

     presenza – costante dal XIX secolo – di una produzione musicale dalla forte valenza

    identitaria. E che a sua volta affonda le radici in processi di interpenetrazione fra

    materiali eterogenei (canti contadini, frammenti operistici, estrapolazioni dalla

    letteratura di colportage, cultura musicale tradizionale cittadina, ecc.) in cui trovavanoespressione fenomeni come la ininterrotta immigrazione a Napoli da altre province del

    Regno e il continuo, quotidiano, pendolarismo dei cafoni  fra la città e le campagne

    circostanti. Questo “laboratorio”, dunque, ha cominciato a funzionare molto tempo fa, e

     possiede una vitalità che pare inesauribile.

    2 Vedi Link .

    21

    http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/bari/notizie/cronaca/2010/5-aprile-2010/festa-madonna-arco-anche-cingalesi-fanno-fujenti-1602778563713.shtmlhttp://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/bari/notizie/cronaca/2010/5-aprile-2010/festa-madonna-arco-anche-cingalesi-fanno-fujenti-1602778563713.shtml

  • 8/20/2019 La Canzone Napoletana. Tra Memoria e Inn

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     Marialuisa Stazio

    L’universo neomelodico  rappresenta oggi, allora, probabilmente, solo l’aspetto

    “emerso” di processi molto più profondi e sfuggenti. E, pur nella sua grande risonanza

    mediatica, nella sua apparente evidenza, ci mette di fronte a fenomeni che paiono

    resistere all’analisi, così come a ogni possibilità di tenere insieme la faccia notturna e

    quella diurna del simbolo/canzone: il neomelodico pare essere un’espressione diabolica,

    che rifiuta gli scenari d’integrazione dell’armonia perduta  della napoletanità almeno

    quanto la canzone classica ne è stata, per decenni, l’espressione  simbolica. Le

    organizzazioni produttive, le reti di distribuzione e promozione, le occasioni di

    esibizione dal vivo, il pubblico, tracciano, infatti, una mappa cittadina frastagliata da

    fratture radicate in una povertà relativa, in una decisa alterità culturale, in una contiguità

    con la microdelinquenza e la malavita organizzata, che autori e interpreti, lungi dalnascondere, esaltano nei comportamenti e nelle produzioni canore.

    Anche questo è un campo di studio che andrebbe più e meglio praticato dalla

    sociologia, dall’antropologia, dall’etnomusicologia – cosa che il coinvolgimento del

    Dipartimento di Sociologia dell’università di Napoli,  Federico II , promette di fare –

     proprio in quanto forma espressiva di culture urbane che possiamo sommariamente

    definire come “marginali” (ovviamente in relazione a ciò che viene descritto come

    mainstream nei media e nelle culture “ufficiali”: politiche, accademiche, ecc.).Come probabilmente ogni forma culturale contemporanea, queste culture urbane

     partecipano di diversi livelli e “strati” simbolici, di diversi “tempi della storia”. In esse

    sembrano, infatti, convivere e contaminarsi uno strato arcaico, uno “congiunturale” ed

    uno “evenementiel”, e ancora – e nel medesimo universo simbolico-culturale – prodotti,

    culturali e non, appartenenti all’universo mainstream (con i loro usi sociali, questi sì

    tutti culturali) e produzione simbolica autonoma e “autogestita”. L’universo

    neomelodico – come l’osservazione delle cerimonie, degli interni domestici, della produzione/consumo di prodotti culturali di altro tipo – può rappresentare una strada e

    un mezzo per avvicinarci a qualcosa che ci è tanto vicino quanto poco conosciuto.

    Attraverso l’osservazione del sistema di produzione/consumo di questi prodotti

    musicali – dove probabilmente acquistano evidenza tanto le stratificazioni dei

    riferimenti e degli universi culturali (forme musicali urbane, canzone napoletana

    classica, canzone melodica italiana, pop music, ecc.), tanto l’eco della

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  • 8/20/2019 La Canzone Napoletana. Tra Memoria e Inn

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     I motivi di un progetto

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    concorrenza/antagonismo con la produzione mainstream  – potremmo almeno

    cominciare a formulare delle ipotesi sul “funzionamento” di queste culture.

    In conclusione, mi pare che avere organizzato quattro giornate di studio sulla

    canzone napoletana non sia stata fatica sprecata. E che il progetto – che mira a portare

    su questi temi l’attenzione di comunità scientifiche diverse e di cercare di assicurare

    strutturazione, controllo scientifico e permanenza allo scambio fra enti, studiosi ed

    operatori che, nelle Università, nei Conservatori, negli Enti di ricerca – meriti di essere

     portato avanti.

    Come già in questo volume appare chiaro, il nostro oggetto può offrirsi a diverse

    discipline come un campo – definito e dalla complessità ancora piuttosto “dominabile”

     – sul quale elaborare ipotesi interpretative, punti di vista e modelli di ricerca, e grazie alquale trovare punti di incontro e di lavoro multidisciplinare e interdisciplinare.

    La formazione (e, soprattutto, la permanenza) di una rete di studiosi e di discipline,

    avrebbe molteplici vantaggi tanto per la conservazione, trasmissione, studio e

    valorizzazione di un patrimonio che connota profondamente l’italianità nel mondo,

    quanto – a livello metodologico e interpretativo – per una migliore comprensione dei

    fenomeni e dei processi culturali in età industriale e “post-industriale” in ambito urbano,

    o per rileggere e ri-declinare “umanisticamente”, in maniera adeguata alla particolaresituazione italiana, i dettami e le regole dell’economia della cultura e dell’informazione.