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vita ospedaliera e informazioni culturali - milano - fondazione IRCCS ospedale maggiore policlinico, mangiagalli e regina elena - anno XLVII - n. 2-3 - 2006 la ca’ granda

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la ca’ granda

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vita ospedaliera e informazioni culturali - milano - fondazione IRCCS ospedale maggiore policlinico,mangiagalli e regina elena - anno XLVII - n. 2-3 - 2006

sommario

Ai lettori 2

pagina

Il mondo assistenziale e la cultura Luigi Offeddu 3

Due policlinici così diversi, un’unica missione: la “Ca’ Granda”per la salute dell’uomo, la “Veneranda Fabbrica” per quella del Duomo Ernesto Brivio 5

Filosofia di un non filosofoIl dolore di Illich, un compagno da non respingere Sara Calderoni 25

Io mi racconto, tu mi comunichiMetafore e immagini nell’esperienza della malattia Lucia Galvagni 40

“Socrate in corsia”: percorsi di senso e di riconoscimento nella Babele della salute Paolo Dordoni 32

Questioni aperte in oncologia, che è bene chiarire Enrico Ghislandi 38

L’approccio al malato cronico: esperienze in diabetologia Emanuela Orsi 43

Verso quali modelli di “rete” nella medicina della complessità? Antonella Costantino 47

Rudolph Virchow e l’uomo di Neanderthal: storia di un errore? Marco Moia 28

L’Ospedale e la città: Milano e il “Gaetano Pini” Giorgio Cosmacini 11

Kurosawa e la malattia del vivere Gianni Trimarchi 20

Scienziate dimenticate Francesca Eulisse, Maria Chiara Binotto, Giuseppe Eulisse 13

la ca’ granda

Asterisco 23

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Nuovi orientamenti per capire e prevenirela psicopatologia dello sviluppo Adriana Guareschi Cazzullo 50

La formalizzazione del lavoro per la salute Antonio Monteleone 55

Asterisco 49

La copertinaElegante fregio dal chiostro secentesco nel cortile richiniano della Ca’ Granda, oggi sede dell’Università degli Studi.

Direttore responsabile: FRANCA CHIAPPA. Attività e programmi culturali della Fondazione.Direzione, redazione, amministrazione: via F. Sforza 28, 20122 Milano, telefoni 02-55038311 e 02-55038376 - fax 02-5503.8264

È consentita la riproduzione totale o parziale degli articoli, purché di volta in volta autorizzata e citando la fonte.

L’Ufficio Tecnico di un grande ospedale Santo De Stefano 59

I fantasmi negli archivi Cristina Cenedella 62

Il libro, la lettura, l’età Marisa Pisani 67

I dipinti della Clinica MangiagalliIl premio d’arte “Maternità” (1966-1968) Daniele Cassinelli 69

La scelta e l’imposizione Elisabetta Zanarotti Tiranini 72

Dalla nostra unità ospedaliera: il trimestre 74-78

Recensioni Vittorio A. Sironi, Milena Lerma, Edoardo Manzoni 79

Cronache amministrative 85

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Sfogliamo le pagine di un numero doppio voluminoso. Larivista arriva con questo al quarantaseiesimo anno di vitaaccompagnando dall’inizio le nostre comunità ospedaliere.Segue e vede con occhio, anima e attenzione partecipe lavita quotidiana della nostra Ca’ Granda e i mutamentiprofondi della sua complessità. È penetrata e penetra nelnostro mondo sofferente, dal quale respira l’attesa comune, itimori, le delusioni, le speranze, con attento riserbo ma par-tecipando.

Nell’accordo con gli autori, nella scelta delle tematiche, larivista non ha trascurato e non trascura il ricorso a paginedel passato per memorie da far rivivere a fronte di nuoveesigenze inevitabili, di spinte in avanti, di relazioni edespressioni che il lettore è chiamato a interpretare ancheesprimendosi e collaborando.

Nuovi autori quindi, in armonia e continuità con gli apportiche fin qui hanno con noi costruito pagine stimolanti vali-dando e sostenendo, fra altro, le motivazioni che nel 1960hanno indotto l’Amministrazione ospedaliera all’istituzionedella rivista.

La pubblicazione continua nell’opera sua, allargata a nuoveinterpretazioni, a collaborazioni culturali diverse, cogliendol’offerta di nuove esperienze.

FRANCA CHIAPPA

ai lettori

stampe trimestrali - Sped. abb. post. 70% - filiale di Milano - n. 2-3 - 2006 - registrazione Tribunale di Milanon. 5379, II-8-1960.

stampa: Stampamatic Spa - Settimo Milanese (MI) - via Albert Sabin, 20; fotocomposizioni: Artea (SettimoMilanese) - via E. Fermi, 28; fotolito: Digital Seleprint s.r.l. - Milano - via Cortina d’Ampezzo,12.

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Non lo si può certo dire a chi soffre, nel momentoin cui soffre: alle sue orecchie suonerebbe comeoltraggio e bestemmia, se non nei rarissimi casiche l’uomo chiama di santità, o di eroismo. Non lo si può dire, è bene ripeterlo, a chi soffre equando soffre: ma l’ospedale è ed è sempre stato,da secoli e secoli, una fonte di cultura. O anche,tradotto in altre parole: un volano, una sorgente, unnucleo produttore di cultura. La cultura della soffe-renza, appunto, e la cultura dell’assistenza. Fer-menta e germoglia lì, è in ogni istante della vitache vi si dipana faticosamente, dolorosamente: chegli uomini lo vogliano o meno, che lo capiscanofino in fondo oppure no. Il medico, l’infermiere, maanche l’impiegato ospedaliero, e naturalmente ilparente o l’amico del malato, trovano fra quei lettiqualcosa che il resto del mondo “di fuori”, ilmondo “sano”, spesso ignora o nasconde: la con-sapevolezza, anzi la scoperta o riscoperta sconvol-gente, della fragilità umana. La prova della com-piutezza e limitatezza di ogni destino. Oltre allaverità incontestabile, forse l’unica verità di questaterra, chiamata “morte”. E l’appartenenza di tuttociò a ciascun essere umano, senza possibili ecce-zioni. Uomo, donna, bambino, giovane, vecchio, bello,brutto, ricco, povero, buono, cattivo, angelico,demoniaco: in fondo non esiste comunanza piùcerta, e più indissolubile, di quella imposta (oregalata, dicono i santi, ma soltanto loro riesconoa capirlo fino in fondo) dalla sofferenza. Spesso,nel caso del parente o dell’amico che viene cata-pultato nell’ospedale per caso, è davvero un’espe-rienza mai prima immaginata. E non gli è possibi-le, non gli è concesso, volgere altrove lo sguardo. Potrà ribellarsi, piegarsi in due, tentare la fuga,provare ribrezzo o pena, giungere a odiare - più omeno inconsciamernte - colui o coloro che, distesiin quei letti, gli ricordano il sigillo finale (“tu sei

polvere...”). Ma almeno nel primo istante, il suosguardo sarà come incatenato e abbacinato, inchio-dato sui volti contratti o assopiti, sulle mani bian-che, sui tubicini che scompaiono nelle braccia. Leombre, le voci ovattate, gli odori, e a volte i gemitio le grida, compiranno l’opera. E a un certo punto,se proprio il cuore non è blindato o riarso da un’in-vincibile siccità spirituale, scatterà il “clic”, il bri-vido, la scoperta, appunto: o meglio ancora, il rico-noscimento. Il “ti riconosco, sei come me”. Iovesto la giacca o i blue-jeans, tu il pigiama o lavestaglia, o la tela bianca, verde o azzurrina di chifra poco si stenderà sul tavolo operatorio: ma sotto,dentro, al di là e al di qua di tutto questo, siamouguali, ci accomuna un identico destino. Siamopartiti dallo stesso luogo, in un’ora certamentediversa, e andiamo verso la stessa meta: anche semagari, lungo il cammino, non ci siamo mai incon-trati e mai ci incontreremo; a parte ora, qui e ora. Verso quella meta, tu forse stai precipitando. Eforse per me è ancora un orizzonte lontanissimo,inconcepibile: inconcepibile, fino al momento incui ti ho visto, e riconosciuto. Ma se ti riconosco, titendo la mano. E se tu afferri quella mano, aiuti testesso ma anche me. Altre tappe del riconoscimento: vedo che la fosset-ta sulla tua nuca, fra i tuoi capelli bianchi, racchiu-de il segno del tempo; e mi lascia oscuramenteintuire, con quelle ossa che ormai affiorano per laforza della malattia o per la stanchezza dell’età,qualcosa che non avevo mai prima immaginato.Cioè, questo: alla fine della vita, tutto il “di più”viene prosciugato, e si avvia un processo di ridu-zione all’essenziale che solo apparentemente puòfar paura (al contrario, dovrebbe confortare, se maiè possibile un conforto su questa terra). Cadono lefrange dell’apparenza, le finte necessità del viveresociale, e insieme con loro tutta quella zavorra chetanto spesso aveva appesantito il nostro cammino

Il mondo assistenziale e la cultura

LUIGI OFFEDDU

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“prima”: prima, quando invece dominavano la luce,la salute, e la presunzione che in ogni momentoavrebbe potuto perderci. Così non è stato, per fortuna, e per fortuna sonorimasto uomo o sono rimasta donna, con tutta lamia dignità anche se messa a dura prova dallamalattia, dal dolore fisico e morale: ma è soloadesso, con quella fossetta sulla nuca stanca, che iomalato lo capisco e lo scopro. E scoprendolo io, inqualche modo misterioso faccio sì che lo scopraanche tu, tu che qui passi solo per senso del dove-re, per amicizia, o semplicemente per caso. Si parla qui di cose inesplicabili, certo inadatteall’espressione in parole quotidiane. Nessuna paro-la basta. Nessuna parola, forse, ha il diritto di farlo.Ma si può tentare. Ed ecco, dunque, il rozzo tenta-tivo di spiegazione in parole: la cultura o consape-volezza della sofferenza appare come la miccia, ildiretto innesco, il “sine qua non” che precede ilgermogliare dell’altra, la cultura dell’assistenza.C’è una diretta proporzionalità, fra le due. E proce-dono per contagio, diretto e anche indiretto. Infatti,l’impulso all’assistenza - ma vogliamo chiamarloin un altro modo, meno burocratico? Bene, chia-miamolo semplicemente “solidarietà umana” -quell’impulso nasce di più, molto di più, là dovepiù si soffre; e non (o non solo) perché vedi piùbrutture, più piaghe e immagini che destano pietà;ma anche perché il contagio ha una forza implaca-bile, tutta sua, che prescinde dalla sensibilità del-l’osservatore e dell’osservato. Sembra un’ovvietà lapalissiana, questa: che vengapiù voglia o coraggio di tendere una mano, quantepiù mani si tendono a loro volta verso di noi. Einvece non è scontato che sia così, specie in questoventunesimo secolo dominato dalle iper-tecnologie.L’ospedale non è comunque l’unica serra, o giardi-no, in cui la pianta si sviluppa. La serra o il giardi-no possono essere anche il cucinino di una casapopolare, una stanza arredata soltanto dalla solitu-dine in una metropoli senza più anima, con un vec-chio in canottiera seduto davanti alla foto di unnipotino lontano; e di colpo, un toc alla porta: saràquel nipotino? Sarà il vicino che viene a fare unapartita a dama? Sarà l’assistente comunale cheporta un po’ d’insalata, le nuove pile per il televiso-rino, e forse un sorriso? Non conta poi molto. Ciò

che conta è che vi sia stato quel “toc”: che nonavviene per caso, ma proprio perché la solitudine ela sofferenza dell’essere umano in quel cucininohanno fatto misteriosamente da calamita; da stop-pino; da semente; da acciarino, come altro dirlo?Hanno “risucchiato”, dalle scale o dalla strada làfuori, un poco di solidarietà. Anche se era pochissi-mo, anche se chi passava là fuori ne era quasi deltutto privo. Ma intuendo e accettando la necessitàdi quel “toc” alla porta, chi passava là fuori si è inun certo senso arricchito, rigenerato, trasfigurato. Eha avuto più lui o lei, in ricchezza inaspettata, dicolui o colei che è stato poi aiutato. Lo stesso, in un vicolo di Calcutta: le suorine diMadre Teresa sono andate laggiù per aiutare, certo,e Madre Teresa le inviò anche nelle strade di NewYork (dicendo anzi che, a New York, il bisognospirituale era ancora maggiore); ma nessuno sa epuò dire, quanto gli stessi sofferenti abbiano rega-lato alle suorine che li assistevano, quanto abbianoriscaldato e rafforzato i loro cuori. Ancora unavolta; processo per contagio. E lasciando Calcutta, o i cieli empirei di certeriflessioni filosofiche, per tornare alla realtà con-creta dei nostri luoghi: il contagio fu massimo aitempi in cui, sulle pareti della Ca’ Granda, unodopo l’altro comparivano i ritratti dei suoi benefat-tori, o quando nella città di fuori ogni famigliaaveva un vecchio che sapeva di non dover moriresolo; e certamente quando il “riconoscimento” del-l’altro non passava per i tubi catodici delle televi-sioni o per le tastiere gelide dei computer che siaggirano oggi su Internet, alla ricerca di una parolao di un volto. Ricerca impossibile, regolarmentedelusa, poiché Internet affascina e diverte ma lemani che si tendono attraverso le sue reti non siincontrano mai; sono mani virtuali, davvero, e nonsolo nel senso tecnologico della parola. Su Internetgli sguardi si perdono, i respiri si dissolvono. Esoprattutto: su Internet non vedi soffrire; dunquenon incontri e non “riconosci” nessuno, non assi-mili la cultura della sofferenza; e tanto meno, percontagio, quella dell’assistenza. Non si può dirlo a chi soffre, quando soffre. Ma nel“riconoscimento” reciproco, che solo la sofferenzainnesca davvero, c’è la vita. E non c’è più la morte.

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Equiparare l’esistenza dell’uomo a quella di un edifi-cio monumentale può sembrare un artificio dialettico,contro il quale far prevalere il comune buon senso,senza scomodare argomentazioni filosofico-teologicheo antropo-sociologiche.Sembrano, e sono, realtà certamente diverse, con spe-cificità proprie e ben distinte, tanto da farci sembrarenon solo ardito ma quasi offensivo ipotizzare un con-fronto come quello proposto in apertura. È convinzione comune, infatti, che l’uomo è l’indisso-lubile connubio tra spirito e materia; è lo spirito vitaleche rende viva la materia, generando la natura umanacontinuamente rinnovata e fatta unica in ogni persona.La vita dell’edificio monumentale è invece una realtàstatica, fatta di materia senz’anima, cui l’uomo con lacreatività, la scienza e la tecnologia che gli sono pro-prie, riesce a dare significato e valore. Ma, se ci pen-siamo bene, sono il significato e i valori, di cui ognimonumento è riflesso e impronta dell’azione dello spi-rito vitale, che rendono libero e capace l’uomo diesprimervi la propria intelligenza e creatività, il biso-gno di bellezza, l’anelito d’infinito, la continuità dellapropria storia, inserita tra la tradizione del passato e laproiezione verso il futuro. Non è peregrino ricordareche dalla stessa radice di monere = ammonire derivamonumentum, un segnale forte che ci ammonisce diricordare quei fatti e quei valori che ne hanno determi-nato la costruzione: memoria di eventi e di persone,genialità e conquiste culturali, ideali di fede e cultoreligioso, amore e sacrifici per la propria terra, dedizio-ne e soccorso ai bisognosi...Come è quindi evidente - e fatte le debite proporzionicon la natura umana - se il monumento non ha in sé ilsoffio vivificante dello spirito, ne conserva ed esibiscetuttavia l’immagine e ne trasmette il messaggio. Questo preambolo introduce l’argomento enunciatonel titolo e che ci riporta al problema che è comune

all’uomo e al monumento: la vita e la conservazione.Un impegno fondamentale, doveroso e ineludibile se sivuol confidare in una lunga e buona qualità di vita, dasostenere lungo l’intera parabola esistenziale, secondoun susseguirsi periodico e graduale di tappe, scanditoda una serie di passaggi e di interventi, talora comples-si. Ho volutamente parlato di “parabola esistenziale”,perché mentre, e sempre più a fatica, si accetta lamorte dell’uomo, pur con tutto il dolore che lo strappoimpone, sembra invece che non si voglia ammettere lascomparsa di un monumento, la sua cancellazionedalla mappa della umana civiltà. Si nota insinuarsi inalcuni addetti ai lavori la tentazione di un potere quasiillimitato sulla materia; di qui, come a volte in medici-na, la pratica dell’accanimento terapeutico al di là diogni ragionevole speranza. Dobbiamo invece rasse-gnarci che nulla di ciò che l’uomo lascia della propriafatica e del proprio ingegno è – nel senso stretto dellaparola – immortale, ma tutto ha una sua fine: naturale,patologica o tragica.Entrando nel concreto della questione, ci soffermiamosu due realtà tanto antiche quanto care ai milanesi: ilDuomo, oggetto delle attente cure di quello straordina-rio “policlinico” rappresentato dalla sua VenerandaFabbrica, e la “Ca’ Granda”, glorioso “Spedale deipoveri”, storico “vero policlinico” di alta specializza-zione, ma per la sua importante e imponente dimensio-ne monumentale, anche oggetto nei secoli di coraggio-si completamenti e interventi conservativi e di genialisalvataggi e, come tale assimilabile per certi versi allastessa Fabbrica del Duomo.I lettori di questa rivista ben conoscono, assai megliodi chi scrive, le caratteristiche, la storia, i risultati del-l’attività della Ca’ Granda (evviva ai suoi 550 anni!) ela benemerita sua presenza della quale hanno benefi-ciato generazioni di milanesi. Conoscono e apprezzanole sue cliniche specialistiche, molte ai loro tempi inno-

Due policlinici così diversi, un’unica missione:la “Ca’ Granda” per la salute dell’uomola “Veneranda Fabbrica” per quella del Duomo

ERNESTO BRIVIO

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vatrici, gli istituti di ricerca, l’elevato livello dei prima-ri, del corpo medico e infermieristico, che si sono presicura dell’uomo con generosa attenzione e seria prepa-razione, dalla nascita fino alla fine della vita. È bennoto lo spirito umanitario di cristiana solidarietà versoi diseredati, gli orfani, le madri in difficoltà che ha ani-mato il fondatore, il duca Francesco Sforza, e i suoisuccessori, e nel trascorrere dei secoli i vescovi, i nobi-li, l’avanzante borghesia, lo stesso popolo milanese.Stupisce ancor oggi la meticolosa organizzazione sani-taria e assistenziale, che mobilitava non solo medici edesperti, infaticabili suore, veri angeli delle corsie, maanche un innumerevole e sempre rinnovato stuolo divolontari, soprattutto di signore della buona societàmilanese. Dall’illuminato e munifico atto costitutivosorse un grandioso edificio, realizzato con modalitàche tuttora sollecitano la nostra ammirazione; bastiricordare: la concezione planimetrica generale; lageniale invenzione dell’impianto distributivo internocapace di coordinare in funzionale unità le grandi cor-sie; la sequenza dei singoli posti-letto, con il separato

disimpegno per i servizi; il rasserenante conforto -oggi quasi trascurato - della bellezza e dell’armoniadell’architettura.Ma, per meglio chiarire l’argomento sostenuto in que-ste pagine, torniamo al “policlinico della VenerandaFabbrica del Duomo”. Il meccanismo vitale di unmonumento così complesso, come la cattedrale mila-nese, è assimilabile a quello del corpo umano? Permolti aspetti, la risposta è sì. Sono situazioni e consi-derazioni anche ovvie, ma che presentate e analizzatesecondo un criterio logico-comparativo rafforzano lapositività della risposta. Non è dunque fuori luogo pen-sare alla Veneranda Fabbrica come ad una grandeazienda ospedaliera, capace di coordinare le clinichespecialistiche che ne realizzano l’ossatura. Per semplificare, trascuriamo la singolare condizioneche fu la Fabbrica a generare il monumento-Duomo:un dato, questo, tutt’altro che secondario, perché hainciso profondamente sia nella fase costruttiva del-l’edificio (carattere architettonico e specificità d’uso)sia nella sua conservazione (materiali, modalità,esperienza). La Fabbrica fu concepita come ente con propria perso-nalità giuridica “per antico possesso di stato” e cometale è stata ininterrottamente riconosciuta dalla suafondazione (1387) fino ad oggi. Pur sottoposta allenorme vigenti in materia di tutela da parte dei compe-tenti organi governativi, essa opera in piena autonomiadecisionale. A struttura piramidale - al vertice deliberail Consiglio di Amministrazione di sette membri dinomina del Ministero dell’Interno (due scelti dall’Or-dinario diocesano come suoi rappresentanti personali,cinque su proposta del Prefetto di Milano)-, fannocapo alla Fabbrica i vari settori e uffici che la compon-gono. Con competenze diverse, ma integrati e coordi-nati in un unico sistema, ormai da più di un secolo essisvolgono attività di restauro, conservazione e valoriz-zazione del Duomo. La cattedrale milanese si trovacosì completamente e unicamente affidata alle curedella Veneranda Fabbrica. Cerchiamo di conoscere questo straordinario e ramifi-cato “policlinico Fabbrica”, cui il Duomo , o comeanziano o come degente, necessariamente si rivolge.

Storia e anamnesiL’Archivio, nei suoi vari titoli e classi, è la fonte piùcompleta per conoscere le origini, il crescere, il com-

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Statua di Eva (inizio sec.XVI) in avanzata fase di riproduzione pressoil Cantiere marmisti della Fabbrica.

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pletarsi e la vita del monumento; ma anche i punti dicriticità manifestatisi nel tempo, le situazioni di perico-lo e i criteri e le modalità usati per superarle, gli inter-venti di restauro statico e conservativo.

Cartella clinicaIrrinunciabile completamento dell’anamnesi, è l’osser-vazione diretta del paziente, il monumento o quelladelle sue parti che al momento sembra presentare unaparticolare patologia. Occorre verificare ogni elementocostituente la parte interessata, sfiorarne la superficie,tastarne la solidità o lo stato di degrado, rincorrere conl’occhio e i polpastrelli ogni minima lesione per valu-tarne direzione, pericolosità e possibilità di ulterioresviluppo.Se necessario, completano il quadro di queste osserva-zioni i calcoli matematici relativi alla quantificazionedei carichi che gravano sulle strutture e all’individua-zione della loro distribuzione e direzione.Nel caso di strutture marmoree particolarmente solleci-tate da carichi verticali, si è giunti ad applicare l’anticaprassi medica del “dica trentatré”; un metodo forseempirico, ma efficace per una prima significativa dia-gnosi. Come vedremo più avanti, ora vi sono metodi diricerca assai sofisticati per analisi introspettive dellemurature, sui cui risultati (pari al quadro diagnosticointegrato offerto dalla MOC, dalla TAC, dalla risonan-za magnetica e da altre analisi) poter fare sicuro conto.Ma ancora nel 1969 prima che i quattro piloni del tibu-rio venissero celati dall’incamiciatura in cementoarmato, ognuno dei loro blocchi di marmo di Cando-glia (circa 2.200) fu saggiato con il sistema dei vecchimedici. Lo ricordo bene, perché vi provvidi diretta-mente, dopo l’apprendistato svolto a fianco di CarloFerrari da Passano, protoarchitetto della Fabbrica.Dalla risposta sonora (metallica, acuta, soffocata,sorda) e dalla vibrazione (nulla, più o meno avvertita,forte), che coglievo dai polpastrelli della mano sinistraleggermente appoggiati sul concio marmoreo, sulquale, in più punti, battevo rapidi e secchi colpi dimazzetta, potevo ricavare di ogni concio: lo stato diidoneità (il blocco “lavorava bene”), l’assoluta inerziastatica (il blocco era completamente scarico), l’affati-camento più o meno grave della materia, le lesionisubite e l’eventualità di un loro ulteriore peggioramen-to, le avvisaglie di un temuto collasso. Riportavo accu-ratamente queste indicazioni, assieme alla tipologia e

alle venature del marmo, sull’apposita ampia schedagrafica, che sarebbe servita, al momento di affrontarel’intervento, a rintracciare i blocchi da risanare e dasostituire con altri immediatamente collaboranti con ilrestante pilone. Necessariamente periodico è il controllo di guglie, sta-tuaria esterna, falconature, capitelli, piloni e archiinterni; elementi architettonici e scultorei che, per legrandi distanze, si possono in prima battuta scanda-gliare con un buon binocolo, ma per i quali, nei casipiù preoccupanti per esposizione o presunta gravità,occorre erigere complessi e impegnativi ponteggi, chea loro volta, per consentire il restauro, si trasformeran-no in una sorta di “ambulatori da campo”.

Indagini specialisticheA completamento delle cartelle cliniche “tradizionali”,per situazioni di particolare complessità e finoraaffrontabili con larga approssimazione di risultati, laFabbrica si rivolge ad istituti con personale, tecnologienon invasive e strumentazioni diagnostiche d’alta spe-cializzazione.È compito del suo responsabile tecnico sia individuarequali settori e a quali enti terzi affidare queste impor-tanti collaborazioni sia provvedere ad indirizzare ecoordinare il loro lavoro. Frequente il ricorso alle Uni-versità e ai loro istituti di ricerca, anche in questo casosimilmente operando come il policlinico Ca’ Granda. Si tratta soprattutto di operare analisi sui materiali ori-ginari e sulle cause del loro degrado, di testare o mette-re a punto nuovi prodotti e modalità d’impiego chegarantiscano l’efficacia, la durata, l’estetica di un inter-vento conservativo o di consolidamento;

Progetto terapeuticoDai risultati delle ricerche e dai referti diagnostici,attentamente confrontati e valutati, emerge lo stato del

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La statua raffigurante Galeazzo Maria Sforza (ultimo quarto sec.XV)come si presentava dopo il bombardamento aereo dell'agosto 1943.

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paziente (pardon, del Duomo), la sua complessa pato-logia e si definiscono le linee-guida della terapia. Per ilrestauro in corso della facciata si è proceduto ad effet-tuare analisi con sistemi: georadar, termografico, spet-

trometrico a raggi x, fotogrammetrico a raggi laser...L’ufficio tecnico elabora dati e stende i grafici sui qualisono indicate le zone e le modalità di intervento. Unmateriale prezioso, che, assieme alle riprese fotografi-che, costituirà l’importante documentazione cui sirivolgerà la Fabbrica di domani per i futuri restauri.Naturalmente, questo processo di rilievi, studi, elabo-razione e conservazione dei dati relativi alle opere ese-guite si avvale di sistemi ed archiviazione informatici.La validità del progetto è sovente verificata con model-li fisici o matematici da affidare ad esperti centri spe-cializzati.

L’esperienza dimostra che le terapie di restauroassai raramente consistono in sole cure mediche oin soli interventi chirurgici; nella maggioranza deicasi, entrambe le terapie si completano e si integra-no tra loro.

Cure medicheRicorro nuovamente al paragone con la personaumana. Le cure mediche più praticate dal personaledella Fabbrica possono essere assimilate a cicli diiniezioni endovenose, più raramente intramuscolarì, difleboclisi e – non è il caso di scandalizzarsi - di entero-clismi. Così, l’impoverimento, con perdita dell’effettolegante, degli strati di malta tra i blocchi viene com-pensato con iniezioni mirate di boiacca cementizia o abase di calce, mentre le cavità riscontrate tra muraturainterna e rivestimento marmoreo sono ricompattatecon controllata immissione per caduta di cospicuequantità di fluido legante cementizio.

Interventi chirurgiciSupporti fondamentali di questa delicata, estesa e com-plessa attività del “policlinico Fabbrica” sono i treCantieri ai quali essa sovrintende.Il primo dei tre cantieri dipendenti dalla Fabbrica èquello delle Cave di marmo di Candoglia, operante suimonti all’imbocco della Val d’Ossola. Esse diedero lamateria prima per erigere ed ornare l’intera cattedrale epoi per provvedere alla sua conservazione, consenten-do la fornitura di marmo per le riparazioni, gli innesti ei trapianti richiesti dal restauro del Duomo. Privilegiatarispetto ad altri simili monumenti, la cattedrale milane-se ha ancor oggi a disposizione il medesimo filone dimarmo di Candoglia, dal quale fin dal 1388 venne

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La stessa statua recuperata con il "trapianto"delle gambe e del bracciodestro, modellati sui tronconi recuperati.

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estratto il materiale per la sua costruzione. Come bensanno i medici (e anche chi opera restauri architettoni-ci), l’utilizzo dello stesso materiale originario per que-sto genere di operazioni è una delle garanzie per laloro riuscita; non si corre alcun pericolo di rigetto.Oltre all’estrazione del marmo in cava, la Fabbricaprovvede al suo trasporto al piano e al trasferimento aMilano. Un’operazione complessa che, fino al 1932,avveniva per via d’acqua; forse qualcuno ricorda oalmeno sa del laghetto di Santo Stefano, approntatoper lo scarico dei materiali per i due cantieri delDuomo e della Ca’ Granda.Sul materiale giunto a Milano, interviene il CantiereMarmisti, il secondo centro operativo della Fabbrica,nel quale vengono lavorati e predisposti per essere tra-piantati, nelle murature come nella scultura, le parti dasostituire e le protesi per interventi di vera chirurgiaplastica. Nello straordinario laboratorio, armeggiandofrese, lame diamantate e sbozzatrici a pantografo, refi-latori e quadratori, ornatisti e scultori predispongono erifiniscono poi a mano, e con strumenti tradizionali,modanature e ornati, elementi e parti di statue, settoridi ornato o provvedono alla loro replica, qualora sianotalmente degradate da non sopportare alcun trapianto.“Ma allora s’inventa ciò che più non esiste?” Legittimadomanda. Poiché il devastante degrado si è manifestatonegli ultimi sessant’anni, viene in soccorso la riccadotazione della fototeca della Fabbrica, che, tra laprima e la seconda guerra mondiale, provvide a costi-tuire una significativa documentazione fotografica,preziosa fonte per ripristinare o ricostruire le partimancanti, senza nulla lasciare alla libera fantasia del-l’operatore.Qual è e come opera il Cantiere Duomo, il terzo ma ilpiù importante e complesso, che dipende dalla Vene-randa Fabbrica?L’anziano-Duomo o l’ammalato-Duomo dove è rico-verato durante i lunghi tempi dei prelievi, delle analisi,della formulazione del piano terapeutico e poi dellecure mediche e degli interventi chirurgici? È il Duomostesso che si autoricovera, che si trasforma in un gran-de e complesso padiglione sanitario, anche se la Vene-randa Fabbrica cerca di operare con prudente attenzio-ne e con il massimo silenzio possibile per garantire ildecoroso svolgimento delle celebrazioni liturgiche,anche se recentemente ben ricordiamo estesi e benvisibili cantieri: si pensi ai restauri delle volte, delle

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Rilievo tridimensionale della statua della "Legge nuova" (1810)collocata sul balcone centrale di facciata, mediante strumentazionespettrometrica a raggi X per individuare i componenti chimici dellostrato di degrado.

Altorilievo di facciata "Agar nel deserto" (meta' sec.XVII). Rimozionecon getto d'acqua nebulizzata delle incrostazioni formatesi sul marmo eoriginate dalla polluzione atmosferica.

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pareti esterne, dei piloni del tiburio e ora della facciata. In molti casi, come fu per i piloni del tiburio e ora perla facciata, si viene a costituire un complesso operato-rio formato da più unità, cospicuo ed esteso nel tempoe nello spazio; in altre situazioni, sembra nasconderetra guglie, falconature e archi rampanti, tra volte e pilo-ni, singole e più contenute sale operatorie e talvoltaattrezzati ambulatori di pronto soccorso.La Veneranda Fabbrica, con il suo Consiglio direttivo,il direttore scientifico, i suoi tecnici (primari, aiuti emedici) e maestranze specializzate (tecnici, paramedi-ci,... ) vigila costantemente sull’immenso corpo dellacattedrale, veramente fuori misura secondo i parametriabituali, se si considerano il volume di circa 440.000mc, il peso di circa 325.000 t, le quasi 3.400 statue, i200 altorilievi, le 135 guglie, i chilometri di falconatu-re, archi rampanti, ornati e modanature. Si tratta di far

fronte agli effetti dell’invecchiamento e dell’atmo-sfera inquinata (ruvidità della superficie epidermica,rughe, screpolature, macchie e cancro della pellefino ai suoi strati profondi), alle conseguenze dell’ar-trosi e della osteoporosi (difetti di postura con allar-manti modifiche di distribuzione dei carichi e inde-bolimento della struttura ossea), ai disturbi cardiocir-colatori (sbalzi di pressione per sovrappeso, per sfor-zi non prevedibili, per sommatoria di microcedimen-ti che possono raggiungere soglie di elevata criti-cità). Purtroppo la vastità dell’edificio, l’inesauribilema prezioso apparato scultoreo, l’accelerazione deldegrado non consentono, come sarebbe opportuno ecome ogni buon medico o restauratore sa, interveniredappertutto con una puntuale e tempestiva terapiapreventiva. Due “policlinici” istituzionalmente operanti per lacura del corpo dell’uomo o di un monumento. Mal’intreccio natura e spirito, scienza e fede è capace dimeravigliarci. Un malato va all’ospedale e vi trova la guarigionedovuta alle cure medico-chirurgiche, oppure, dimes-so ancora infermo, è gratificato da una guarigione, senon miracolosa, non sempre spiegabile sotto il profi-lo clinico e per le cure che gli sono state sommini-strate.Un altro malato si reca in Duomo, accudito e conser-vato dalla Fabbrica al meglio della sua efficienzaperché sia luogo privilegiato per la preghiera e perl’incontro con Dio. Vi ritorna più volte, chiede e sup-plica nel pianto la guarigione del corpo; ottiene inve-ce il recupero dello spirito vitale, la guarigione del-l’anima, il perdono e il sorriso di Dio. Ritorna al suoletto con animo più leggero e sereno, vi affrontagiorno per giorno la malattia, ma è consolato nellalancinante sofferenza della carne dal conforto e dallasperanza, quasi dalla certezza, d’incontrare sul suocalvario l’Uomo dei dolori, Colui che lo tiene permano lungo la luminosa strada verso la Gerusalem-me Celeste.

Molto originale ricercato intervento. Rivelazioni sorprendenti sulla nostra straordinaria Cattedrale, sull’e-sigenza specifica quotidiana della sua “Cura” della protezione costante e salvaguardia. Alcuni visibiliparticolari nelle figure.Ma, di pari, e la “Cura” nell’Ospedale Policlinico della Ca’ Granda?Al lettore fermarsi, considerare, meditare sull’invisibile complessità che ogni giorno si crea attorno allasalute dell’uomo, all’uomo malato, alle sue ansie, alla spesso irrimandabile drammatica richiesta d’aiuto.

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Cuspide di una guglia di facciata: collocazione dei nuovi elementimarmorei in sostituzione di quelli originali irrimediabilmente degradati.(Copyright fotografie: Veneranda Fabbrica del Duomo ed Enitecnologie Spa)

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Negli “ottant’anni di bene” dell’Istituto Ortopedico Gae-tano Pini, celebrati quando gli anni duri della “ricostru-zione” postbellica si ammorbidiscono e preludono aquelli del “miracolo economico”, hanno un posto impor-tante, quando non addirittura di elezione, la pratica peda-gogica, l’educazione e rieducazione, la scuola di lavoro,l’abilitazione a un mestiere. Il ruolo di tutte queste com-ponenti nel processo clinico-terapeutico di ricupero dellapersona disabile non è stato mai disatteso, anzi è statospesso potenziato come agli esordi dell’istituzione, aitempi “eroici” dell’impegno assistenziale contro il rachi-tismo.In seno all’Istituto se ne ha debita consapevolezza: “men-tre va attenuandosi e scomparendo, per le perfezionatecondizioni igieniche della vita italiana, lo spettro dellarachitide, che afflisse con la sua minaccia l’ultimo quartodel secolo XIX, due nuovi frutti sono maturati sul vec-chio, solido albero dell’assistenza ortopedica milanese: iCentri per la cura dei poliomielitici e dei discinetici” (1).La poliomielite - dal greco poliòs, grigio e myelòs,midollo - è una malattia infiammatoria che colpisce lasostanza “grigia” del “midollo” spinale, o meglio quellaparte di essa (corna anteriori o motrici) che governa lamotilità del tronco e degli arti. L’affezione è detta anche“malattia di Heine e Medin”, dai nomi del clinico medi-co che la identificò - il tedesco Jakob Heine, nel 1840 - edel clinico pediatra che meglio la descrisse - lo svedeseOskar Medin, nel 1881 -. Il patologo viennese KarlLandsteiner nel 1908 ne dimostrò sperimentalmente latrasmissibilità e quindi la natura infettiva, dovuta a unvirus feroce, che divora letteralmente le cellule nervose(neuronofagia) per le quali ha una spiccata predilezione(neutropismo). La malattia ha la sua incidenza preferen-ziale nei primi 12 anni di vita.Considerata fino agli anni Quaranta una malattia pedia-trica, è conosciuta anche come “paralisi infantile”.Quando la paralisi coinvolge i muscoli della respirazio-

ne, è il dramma: il bambino muore per asfissia. Più spes-so, con un rapporto statistico di 8 a 1, il bambino restaparalizzato e, a distanza, motuleso, portatore di handicap:una parola nuova, guscio linguistico di una realtà anticaquanto gli uomini (da quelli proiettati dalla rupe Tarpea aquelli fatti oggetto di misericordia corporale), ma chetrova la sua definizione a partire dalla metà del Novecento.Handicap: uno svantaggio, un distacco da colmare findove è possibile.Per colmarlo fin dove si può è necessaria una riabilitazio-ne globale, concepita e organizzata su più livelli, integratie interdipendenti, in ognuno dei quali la persona con lasua disabilità costituisce sempre il punto centrale. Conuna prima fase più propriamente medico-chirurgica, orto-pedico-clinica, si integrano una seconda fase, protesico-fisioterapica, e una terza, psicosociale-reintegrativa.Tutto ciò appartiene alla prospettiva della riabilitazionenella seconda metà del Novecento. Una retrospettiva dellastessa disciplina, nella prima metà del secolo, contemplaschematicamente tre successivi momenti storici. Il primomomento, di valorizzazione dell’educazione fisica, haavuto il suo alveo nell’ideologia positivista e il suo aspet-to pratico nella fisiologia sperimentale. Angelo Mosso,maggior scienziato italiano in campo biomedico fra Otto-cento e Novecento, professore di fisiologia nell’Univer-sità di Torino, nel trattato “Vita moderna degli italiani”(Milano 1905) ha delineato questa “vita moderna” come“perfezionamento dell’organismo per mezzo dell’eserci-zio”, un perfezionamento tanto più necessario in quei fan-ciulli e adolescenti che i continuatori dell’opera di Gaeta-no Pini hanno redento dal rachitismo e da altre “scorret-tezze” e “sregolatezze” naturali e sociali.Il secondo momento dell’evoluzione riabilitativa ha avutoil suo svolgimento nei primi decenni del Novecento e ilsuo periodo di slancio dopo la prima guerra mondiale,affiancando all’ortopedia, nel contempo evoluta da praticaincruenta a disciplina chirurgica, una riabilitazione mec-canica mirante alla sostituzione-riparazione mediante“apparecchi” delle parti mancanti, deficitarie, avariate,della “macchina” dell’organismo minorato o mutilato.

L’Ospedale e la città: Milano e il “Gaetano Pini”*

GIORGIO COSMACINI

* L’Autore, cui si deve una recente storia della prestigiosa istituzionemilanese, descrive per sommi capi la nascita e la crescita in essadelle attività di riabilitazione.

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Il terzo momento coincide con il progressivo instaurarsi,all’indomani della seconda guerra mondiale, del para-digma della riabilitazione sociale; coincide cioè con la“presa di coscienza che i disabili dovevano essere aiutatidalla medicina per essere accettati e reinseriti nellasocietà”, secondo una concezione che è figlia al tempostesso di un “padre intelligente” - il razionalismo etico-sociale - e di una “madre caritatevole” e giusta - la reli-giosità cristiana. (2)

È una concezione che a Milano, nei primi anni Cinquan-ta, ha per interpreti protagonisti un sacerdote carismati-co, don Carlo Gnocchi, fondatore nel 1948 della “Fede-razione pro infanzia mutilata” e nel 1951 della “Projuventute” aperta anche ai bambini poliomielitici, e unmedico antesignano, Silvano Boccardi, instauratore delprimo reparto ospedaliero di terapia fisica, nato ufficial-mente nel 1949 presso l’Ospedale Maggiore di Niguar-da, e animatore della prima scuola per terapisti della ria-bilitazione, nata nello stesso ospedale nel 1953.L’Istituto Ortopedico Gaetano Pini si dimostra al passocon queste avanguardie. Già nel 1946 il Commissariodell’ente, Manlio Beltramini, nella sua relazione del 7aprile, dice che “la sede di viale Monza, occupata duran-te la guerra da un reparto tedesco e a guerra finita da unreparto inglese, potè essere riaperta come ospedale “adi-bito al Centro per i bimbi poliomielitici dei quali è pre-vedibile il ricupero parziale o totale. A questo primo,altri reparti si sono aggiunti presso tale sede, con oltre150 posti-letto, con sale operatorie, reparto cure [fisi-che]” e “officine ortopediche” (3).Nel 1954 si scrive che il Centro “è dotato di tutti i mezziterapeutici necessari: kinesiterapia, cure fisiche, piscinae vasche individuali per idromassoterapia, “traxator” e,in via di studio, applicazioni di ultrasuoni in acqua. [...]La kinesiterapia sta alla base del trattamento di rieduca-zione motoria [...]. La sala di ginnastica è anche dotatadi speciali lettini con piano ad inclinazione graduabile[...]. Gli esercizi di deambulazione vengono eseguitisotto controllo correttivo [...]. Vi sono poi sale di terapiafisica dotate di apparecchi di marconiterapia”. (4)

Lo stare al passo con gli avanzamenti della riabilitazio-ne non si arresta: “l’Istituto ha allo studio un progetto dipiù ampia portata, che metterà Milano all’avanguardianel recupero dei poliomielitici e le darà un altro primatofra i molti che già vanta nell’assistenza e nella difesasanitaria”. (5)

Si scrive ancora, con legittimo orgoglio, che “a fianco

del centro pei postumi della poliomielite è sorto, conuna certa analogia di scopi e di metodi, il Centro per larieducazione dei bambini affetti da discinesie di origi-ne cerebrale, primo del genere in Italia collegato conuna Clinica ortopedica universitaria. A differenza dellaparalisi degli organi di movimento causata dalla polio-mielite, qui la paralisi, più o meno accentuata, è gene-ralmente congenita e può aumentare”. (6) Psicopedago-gia e fisioterapia si danno la mano: “il sistema di curaqui attuato è praticamente fondato sulla rieducazione -o educazione, se il bambino è preso in cura molto pic-colo - delle funzioni del sistema nervoso leso. Si miracioè ad aiutare il bambino a compiere lo sviluppo dellamotilità [...] preparando man mano il suo corpo e lasua mente a ricevere l’aiuto; l’assistenza perciò devedare amorevolmente, ma continuamente le correzioninecessarie per evitare che stimoli sbagliati creinoriflessi errati”. (7) Sempre con orgoglio si rivendica unapriorità, se non un primato: “Nel 1952, quando sorse il[duplice] Centro, in Italia non esistevano ancora corsiper fisioterapiste, né corsi ufficiali per la cura dellediscinesie”, onde esso “fu costituito con personale ita-liano specializzato all’estero”. In tal modo, “dalla pic-cola scuola per i bimbi rachitici del 1874, si è addive-nuti alla costruzione di un grande ospedale ortopedico-traumatologico che raccoglie grandi e piccoli per tuttele affezioni degli organi di movimento”, costituendo“non solo una terapia di altissimo valore sanitario, maanche un’opera di notevole valore sociale”. (8) A partireda metà Novecento, l’Istituto Ortopedico Gaetano Piniè dunque, nella Milano che si appresta a vivere il pro-prio “miracolo economico”, una vitale realtà ospeda-liera, adeguata ad estendere tale miracolo al camposociosanitario di una città in ulteriore, incalzante tra-sformazione. Fino alla realtà odierna, adeguata allaMilano del 2000.

Bibliografia1 - Ottant’anni di bene, cit., p. 642 - Vittorio A. Sironi, Oltre la disabilità. Storia della riabilitazione inmedicina, Ed. Graphis, Bari, p. 105 e p. 109.3 - Le parole del Commissario Beltramini sono riportate inOttant’anni di bene, cit., p. 564 - Ivi, p. 635 - Ivi, p. 646 - Ibidem.7 - Ivi, pp. 64-658 - Ibidem.

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Nel 2006 ricorre in Italia il sessantesimo anniversa-rio della concessione del voto alle donne, ricono-sciuto con decreto dello Stato del I febbraio 1945.La ricorrenza offre l’occasione per riflettere sudiscriminazioni, disuguaglianze e pregiudizi che ledonne hanno subito nel corso dei secoli in ogni set-tore della vita umana e per riflettere, in particolare,sul ruolo che hanno nonostante tutto avuto neldeterminare il progresso della scienza. In questoarticolo non si vuole però rendere omaggio a figurecome Marie Sklodowska Curie (1867-1934), cheoccupa ampio e giusto spazio nella cultura scientifi-ca ufficiale e che è stata la prima persona a vincereaddirittura due premi Nobel (1), ma piuttosto ricorda-re alcune donne che hanno contribuito in manierastraordinaria allo sviluppo scientifico senza ricevereil giusto riconoscimento o ricevendolo in misurainadeguata rispetto ai meriti. In verità, la storia della scienza, come ogni storia,è caratterizzata da donne ma anche da uominidimenticati la cui opera ha però contribuito inmaniera significativa allo sviluppo dei vari ambitidi competenza; non ci sono peraltro dubbi che inquesta categoria le donne occupano un posto diparticolare rilevanza: le poche donne che sonoriuscite a emergere hanno dovuto lottare controdiscriminazioni, divieti e pregiudizi sociali e cul-turali. Basti ricordare che per secoli l’istruzione èstata monopolio pressoché assoluto degli uomini;destino tipico delle donne era quello del lavorodomestico, di madre e moglie. Le poche donneche avevano il privilegio di ricevere un’istruzionepiù approfondita erano di solito quelle rinchiusenei conventi; tuttavia, anche in questo caso, ilsapere impartito era soprattutto di tipo umanisti-co: dunque, arte, filosofia e letteratura e nonmatematica e fisica. A conferma, si pensi che inItalia solo nel 1874 venne formalmente concessol’accesso delle donne ai licei e alle Università.

Un pregiudizio ancora oggi diffuso nella menta-lità comune è quello che riguarda la presunta pre-disposizione naturale delle donne alle materie let-terarie e artistiche rispetto a quelle scientifiche.L’astrofisica italiana Margherita Hack sottolineaanche che le poche donne che hanno avuto la pos-sibilità di accedere al mondo della scienza sonoquelle che si sono trovate in un contesto familiarefavorevole; scrive la Hack: “Solo le poche favoritedall’avere un padre, un fratello o un marito scien-ziato disposto a condividere le proprie cognizionipotevano farsi una cultura scientifica”. Ancheattualmente, continua la Hack, “molti degli osta-coli di cui si lamentano parecchie ricercatricidipendono anche dall’educazione ricevuta che,almeno fino a qualche decennio fa, tendeva a faredelle bambine persone arrendevoli e servizievolipoco combattive e desiderose di protezione”. Sot-tolinea ancora la Hack, “resta il fatto che le scien-ziate per emergere devono generalmente lavoraredi più dei loro colleghi, superare numerosi pregiu-dizi che, contrariamente a quanto si crede, sonomaggiori nei paesi anglosassoni che in quelli lati-ni”. Anche per quanto riguarda la società attuale,le indagini sociologiche evidenziano una situazio-ne che fa riflettere: durante i normali studi, ledonne ottengono mediamente risultati miglioridegli uomini ma nel mondo del lavoro i posti diri-genziali sono occupati per la maggior parte daquesti. “Nelle Università”, afferma sempre laHack, “le ricercatrici sono ormai più dei ricerca-tori, ma appena si passa al livello superiore, quel-lo dei professori associati, le donne sono menodel 30% e al più alto livello dei professori ordina-ri sono appena il 10%”.

Uno dei simboli della presenza femminile nellastoria della scienza è la matematica e filosofagreca Ipazia, la prima ad aver contribuito allo svi-

Scienziate dimenticate

FRANCESCA EULISSE, MARIA CHIARA BINOTTO, GIUSEPPE EULISSE

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luppo del pensiero scientifico in maniera signifi-cativa. Nata ad Alessandria d’Egitto, visse tra il370 e il 415 d. C.; la sua biografia offre una dupli-ce interpretazione: da una parte testimonia latenacia e la determinazione di una donna che fadello studio e dell’insegnamento lo scopo princi-pale della propria esistenza; dall’altra la tragicamorte è un triste esempio delle violenze in cuipotevano incorrere in particolare le donne cheosavano avventurarsi in ambiti non di loro compe-tenza. Fu il padre Teone, ultimo direttore del cele-bre Museo d’Alessandria ed editore e commenta-tore di testi matematici, a svolgere un ruolo fon-damentale nella formazione scientifica e filosofi-ca della giovane; in uno dei suoi commenti pro-prio Teone ricorda un lavoro di revisione compiu-to dalla figlia: “commento di Teone di Alessandriaal terzo libro del Sistema matematico di Tolomeo.Edizione controllata dalla filosofa Ipazia, miafiglia”. Dopo aver compiuto viaggi nelle capitaliculturali dell’epoca, Ipazia torna ad Alessandriadove si dedica all’insegnamento della matematica,della filosofia, dell’astronomia e della meccanica:la sua casa diventa un centro scientifico di riferi-mento per tutti e non solo per pochi eletti. Scrivedei commentarii all’Aritmetica di Diofanto, ultimodei grandi matematici greco-ellenisti, alle Conichedi un altro grande matematico come Apollonio diPerga e alle Tavole di Tolomeo, l’opera trigonome-trica più significativa dell’antichità; lavora anchenel campo dell’astronomia con interessanti scopertesul moto degli astri, rese accessibili a tutti con untesto intitolato Canone astronomico. Manifestaanche capacità applicative fuori dal normale: sioccupa di meccanica e di tecnologia e progetta stru-menti scientifici tra cui un astrolabio piatto, unidroscopio e un aerometro. Come filosofa divieneun esponente del Neoplatonismo: i suoi discorsipubblici le portano grande fama ma la espongono apericolo della vita per le idee considerate eretiche.Quando Cirillo diviene vescovo di Alessandria, Ipa-zia rifiuta la conversione e non abbandona le pro-prie idee: nel marzo del 415, viene brutalmenteassassinata. Di lei e della sua morte, troviamotraccia in un racconto di Socrate Scolastico: “Ellagiunse ad un tale grado di cultura, che superò digran lunga tutti i filosofi suoi contemporanei. […]

Per la magnifica libertà di parola ed azione, che leveniva dalla cultura, accedeva in modo assennatoanche al cospetto dei capi della città e non eramotivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agliuomini. Infatti, a causa della sua straordinariasaggezza, tutti la rispettavano profondamente eprovavano verso di lei un timore reverenziale. Perquesto motivo, allora, l’invidia si armò contro dilei. Alcuni, dall’animo surriscaldato, guidati da unlettore di nome Pietro, si misero d’accordo e siappostarono per sorprendere la donna mentre

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faceva ritorno a casa. Tiratala giù dal carro, la tra-scinarono fino alla chiesa che prendeva il nomeda Cesario: qui, strappatale la veste, la ucciserocolpendola con i cocci.”. La sua morte segna sim-bolicamente la fine del neoplatonismo ad Alessan-dria e della scienza antica.

Nei secoli successivi, la presenza di figure femmi-nili nell’ambito scientifico è irrilevante: si deveaspettare il Settecento e la matematica italianaMaria Gaetana Agnesi nata a Milano, da unaricca e colta famiglia, e vissuta tra il 1718 e il1799. Gaetana dimostra fin da piccola un’intelli-genza straordinaria al punto che il padre, cheaveva destinato agli studi solamente il primofiglio maschio, decide di provvedere alla suaistruzione con illustri precettori. Nel salotto dicasa Agnesi incontra intellettuali che la introduco-no allo studio degli Elementi di Euclide, allaLogica, alla Fisica. Successivamente collaboracon importanti matematici, in particolare conPadre Ramiro Rampinelli, professore di matema-tica e fisica nel Monastero degli Olivetani di SanVittore e pioniere della matematica analitica. Si

Ipazia Maria Gaetana Agnesi

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dedica alla stesura di un testo di analisi, le Istituzio-ni Analitiche ad uso della Gioventù Italiana pubbli-cato nel 1748, che diventa ben presto famoso intutta Europa, a tal punto che la regina Maria Teresad’Austria le invia, in segno di apprezzamento, unanello di brillanti in un prezioso cofanetto. Allamorte del padre, nel momento di maggior successoprofessionale, rifiuta la cattedra di matematicaall’Università di Bologna e abbandona la vita pub-blica, dedicandosi alla cura dei poveri e dei biso-gnosi e allo studio delle Sacre Scritture.Maria Gaetana Agnesi rappresenta una delle eccezio-ni per la sua epoca; in generale, le donne non avevanopossibilità di dimostrare le loro capacità nel mondoscientifico; lo studio della matematica, quando possi-bile, era considerato utile sostanzialmente solo perdiventare protagoniste nei salotti mondani.

Una donna straordinaria che è riuscita a emergerecon forza di volontà e intelligenza e ad aggirare idivieti maschili vigenti negli ambienti accademicidell’epoca, raggiungendo importanti risultati nelmondo scientifico è stata Sophie Germain, nata aParigi e vissuta tra il 1776 e il 1831. L’amore perla matematica nasce nel 1789, durante la rivolu-zione francese, leggendo un libro paterno sullavita di Archimede; Sophie è colpita dalla tragicamorte del matematico di Siracusa, assorto perrisolvere un problema di geometria, da parte di unsoldato romano. La tredicenne Sophie è affascina-ta: la matematica deve essere veramente interes-sante se qualcuno può esserne assorbito a talpunto da dimenticare tutto il resto fino a farsiuccidere. Sophie decide di dedicare la sua vitaalla studio della matematica, cominciando dallateoria dei numeri e dalle opere di Eulero e New-ton. I genitori non condividono la passione dellafiglia, la ostacolano in ogni modo, arrivano a con-fiscarle le candele per impedirle la lettura nottur-na ma alla fine si arrendono al grande amore diSophie finendo per aiutarla sia moralmente chefinanziariamente. Nel 1795 apre a Parigi l’ÉcolePolytechnique destinata ai soli uomini; Sophie uti-lizza, come in un film, il nome di uno studenteche aveva abbandonato gli studi, Le Blanc, e rie-sce a farsi dare le dispense dei corsi, a chiederespiegazioni e a far correggere le proprie soluzioni

dei problemi a Lagrange, il più famoso matemati-co francese dell’epoca. Lagrange, incuriositodalle brillanti soluzioni di Sophie, vuole incontra-re lo studente Le Blanc e scopre in questo modo,con grande stupore, la verità. Sophie entra in corrispondenza con altri matema-tici dell’epoca, tra cui anche il famoso Gauss,usando il solito pseudonimo maschile, e presenta ipropri lavori, in particolare sul teorema di Fermat.Anche Gauss quando scopre la vera identità diSophie ne rimane stupito e ammirato; scrive:“Quando una persona di sesso femminile, chesecondo il nostro giudizio e i nostri pregiudizimaschili, deve urtare in difficoltà infinitamentesuperiori a quelle che incontrano gli uomini pergiungere a familiarizzarsi con le spinose ricerchedelle matematica, quando questa persona riesce,nonostante tutto, a sormontare simili ostacoli e apenetrare fino alle regioni più oscure delle scien-za, ella deve senza dubbio possedere un nobilecoraggio, un talento assolutamente straordinario eun genio superiore”. In una delle lettere inviate aGauss, la matematica francese riporta anche quel-lo che oggi è noto come Teorema di Germain, cherappresenta il suo più importante contributo allateoria dei numeri e un notevole passo avanti versola soluzione del teorema di Fermat. La corrispondenza con Gauss si interrompe nel1808, quando questi è nominato professore d’a-stronomia all’Università di Göttingen. Allora,Sophie abbandona gli studi di matematica pura esi dedica a ricerche più applicative, decidendo dipartecipare a un concorso dell’Accademia dellescienze; l’oggetto del concorso riguardava il con-fronto con l’esperienza della “teoria matematicadelle superfici elastiche”. Tra il 1811 e il 1815Sophie presenta tre tesi su questo soggetto e nel1815 ottiene un premio che non ritira, in segno diprotesta per tutte le difficoltà incontrate nella suaattività. Nel 1830 l’Università di Göttingen, supressione di Gauss, decide di assegnarle una lau-rea ad honorem ma Sophie muore di cancro alseno prima dell’assegnazione.

Un’altra Sofia deve essere riportata in questa gal-leria di donne straordinarie che hanno dovuto lot-tare contro pregiudizi e intolleranze per accedere

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al mondo delle scienza; si tratta della matematicarussa Sof'ja Vasilyevna Kovalevskaya, nata aMosca, da una famiglia appartenente alla nobiltà,e vissuta tra il 1850 e il 1891. A sei anni Sof'ja èaffascinata dai fogli di un testo di analisi matema-tica che il padre utilizza per ricoprire le paretidella sua camera: “Passavo ore di fronte a quellaparete. Non riuscivo naturalmente a trovare ilsignificato di quelle frasi, ma esse agivano sullamia immaginazione portandomi a una venerazio-ne per la matematica che vedevo come una scien-za misteriosa ed esaltante che apriva ai suoi adeptiun nuovo mondo di meraviglie, inaccessibile aicomuni mortali”. Sof’ja, dopo gli anni della primaformazione, cerca inutilmente di convincere ilpadre a inviarla a studiare in Germania e ottienesolo la possibilità di iscriversi ai corsi di matema-tica tenuti presso l’Accademia Navale di Pietro-burgo. Dopo aver sposato un giovane paleontolo-go, Vladimir Kovalevski, riesce a iscriversi allafacoltà di Heidelberg, una delle poche aperte alledonne, dove segue i corsi di analisi moderna diLeo Königsberg e quelli di fisica tenuti dai celebrifisici Kirchoff e Helmholtz. Il sogno di Sof’ja èperò quello di iscriversi all’Università di Berlino,chiusa alle donne, in modo da seguire le lezionidel mitico Karl Weierstrass, considerato il padredell’analisi moderna; a nulla serve la richiesta dieccezione alla regola avanzata dallo stesso Weier-strass, consapevole del talento di Sof’ja.Negli anni successivi sempre Weierstrass appog-gia in ogni modo Sof’ja nei concorsi a cattedrauniversitaria ma nessuna Università europea sem-bra disposta ad assegnare una cattedra di matema-tica a una donna. Sof’ja deve quindi aspettare il

1888, dopo aver vinto il premio Bordin, un presti-gioso riconoscimento dell’Accademia delle Scien-ze di Francia, con il lavoro Sulla rotazione di uncorpo solido intorno a un punto fisso, per ottenereil tanto agognato e meritato posto in Università: leviene assegnata la cattedra di Analisi Superioredell’Università di Stoccolma, dove è accolta congrande simpatia. Scrive un giornale dell’epoca:“Oggi non annunciamo l’arrivo di un volgare einsignificante principe di sangue nobile. No, laPrincipessa della Scienza, Madam Kovalevskionora la nostra città con il suo arrivo. È la primadonna in Svezia che entra come docente universi-taria”. Sof’ja non fu solamente una matematicastraordinaria ma si dedicò con grande passioneanche al lavoro di scrittrice; a un’amica, che sisorprendeva nel constatare quanto fosse brava siacome scrittrice sia come matematica, Sof ’jarisponde: “Chi non ha mai avuto occasione diapprofondire la conoscenza della matematica, laconfonde con l’aritmetica e la considera un’aridascienza. In realtà è una scienza che richiede moltaimmaginazione. Uno dei più grandi matematicidel nostro secolo osserva giustamente che èimpossibile essere matematico senza avere l’ani-mo del poeta. È necessario rinunciare all’anticopregiudizio secondo il quale il poeta deve inventa-re qualcosa che non esiste, che immaginazione einvenzione sono la stessa cosa. A me pare che ilpoeta deve soltanto percepire qualcosa che glialtri non percepiscono, vedere più lontano deglialtri. E il matematico deve fare la stessa cosa”.

Anche nel Novecento, si sono verificate discrimi-nazioni a danno di donne che hanno operato nelmondo della scienza; in particolare vogliamo quiricordare alcune di esse che, secondo la comunitàscientifica, avrebbero meritato il premio Nobel,assegnato ad altri per motivo politici, di gerarchiao per veri e propri “furti storici”. Tra questescienziate, ricordiamo Henrietta Swan Leavitt,Lise Meitner, Chien-Shiung Wu, Rosalind Frank-lin, Jocelyn Bell-Burnell.

Henrietta Swan Leavitt, nata a Lancaster nel Mas-sachusetts, è vissuta tra il 1868 e il 1921, convi-vendo con gravi problemi personali (era sorda) e

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Sophie Germain Sof’ja Kovalevskaya

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familiari. Nel 1893 comincia a lavorare pressol’Osservatorio di Harvard come donna computer,a 25 cents l'ora, con il compito di misurare e cata-logare la luminosità delle stelle fotografate daitelescopi; durante il proprio lavoro osserva centi-naia di stelle variabili e nota che alcune di essemostrano una particolare regolarità: le più lumi-nose sono caratterizzate da un periodo maggiore.Dopo i necessari approfondimenti nel 1912 con-ferma che le stelle variabili (le Cefeidi odierne)sono caratterizzate da una semplice relazionelogaritmica tra la magnitudine e il periodo dellavariazione. In questo modo le Cefeidi divengonoindicatori di distanza nell’universo perché, dallarelazione proposta, noto il periodo, è possibilericavare per l’appunto la distanza: si risolve defi-nitivamente il problema di definire l’appartenenzao meno delle varie galassie alla Via Lattea. Nel1921, l’anno della morte prematura, è promossacapo sezione dell’Osservatorio con responsabilitànell’ambito della fotometria astronomica. Quattroanni dopo la sua morte, il matematico svedeseGösta Mittag-Leffler propose eccezionalmente einutilmente per la Leavitt il premio Nobel allamemoria (2). A lei sono oggi dedicati un asteroide,5383 Leavitt, e un cratere lunare.

ria, il dottorato in fisica. Nel 1907 si trasferisce aBerlino, per seguire le lezioni di Max Plank, oveincontra il chimico Otto Hahn con il quale iniziauna collaborazione scientifica trentennale. Inquell’epoca in Prussia le donne non erano ammes-se all’Università e perciò Lise lavora come ospitenon pagato e non può accedere alle aule e ai labo-ratori frequentati dagli studenti! Dopo l’interru-zione dovuta alla prima guerra mondiale, Lisetorna a lavorare con Otto Hahn e nel 1926 divieneprofessoressa fuori organico di fisica nuclearesperimentale all’Università di Berlino. Dal 1933,a causa delle sue origini ebraiche, subisce pesantidiscriminazioni e nel 1938 si rifugia in Svezia.Nonostante la fuga, continua ad avere contatti epi-stolari con Otto Hahn, il quale alla fine del 1938le segnala uno strano fenomeno scoperto irradian-do nuclei di Uranio con neutroni lenti. Lise inter-preta immediatamente il fenomeno ipotizzando lafissione nucleare, calcolando l’energia liberataattraverso la famosa relazione di Einstein che legamassa ed energia e ponendo quindi idealmente lebasi per lo sfruttamento dell’energia nucleare.Negli anni successivi Lise, pacifista convinta, nonaccoglie l’invito degli Stati Uniti a parteciparealla costruzione della bomba atomica (progettoManhattan) e rimane in Svezia durante tutta laseconda guerra mondiale. Nel 1944 Otto Hahnriceve il premio Nobel per la chimica, assegnatoincredibilmente senza alcuna menzione per il con-tributo fondamentale di Lise Meitner!Lise si impegnerà tutta la vita a favore dell’usopacifico della fissione nucleare; muore a quasinovanta anni, il 27 ottobre del 1968, lo stessoanno di Otto Hahn.

Chien-Shiung Wu, nata in un villaggio nei pressidi Shanghai, è vissuta tra il 1912 e il 1997. Ilpadre, pioniere dell’educazione femminile in Cinain un periodo in cui le donne non erano ammessealle scuole, l’aiuta a inserirsi in una scuola localee successivamente la incoraggia a entrare nell’U-niversità di Nanchino, dove si laurea nel 1934.Nel 1936 si reca negli Stati Uniti dove proseguegli studi di fisica e partecipa al progetto Manhat-tan per la costruzione della bomba atomica. Dopola guerra, concentra i suoi studi sul decadimento

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Henrietta Swan Leavitt Lise Meitner

Lise Meitner, nata a Vienna da una famiglia ebreadell’alta borghesia, è vissuta tra il 1878 e il 1968.Si presenta da autodidatta alla maturità, poiché leragazze non erano ammesse ai licei, e successiva-mente si iscrive all’Università dove segue anchel’insegnamento del grande fisico Ludwig Boltz-mann e dove consegue, seconda donna della sto-

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beta, un fenomeno che non aveva ancora avutoun’interpretazione teorica coerente con i dati spe-rimentali. I ricercatori Tsung Dao Lee e ChenNing Yang le chiedono di ideare un esperimentoin grado di confermare la loro ipotesi della nonconservazione della parità in questo tipo di decadi-mento. L’esperimento, progettato da madame Wu eda lei realizzato nel 1956, rappresentò un eventostraordinario perché da una parte confermava piena-mente le ipotesi di Lee e Yang e dall’altra era il puntodi partenza per successive ricerche sulle violazioni disimmetrie. Nel 1957 Lee e Yang ricevettero il premioNobel per la fisica, senza alcuna menzione per l’espe-rimento fondamentale e decisivo di Madame Wu! Lascrittrice Clare Boothe Luce scrisse: “Quando la dot-toressa Wu ha distrutto il principio di parità, ha stabi-lito il principio della parità tra uomo e donna”.

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Crick, venuti segretamente in possesso del mate-riale fotografico, pubblicano nel 1953 la detta-gliata descrizione della molecola; nove anni dopoWatson e Crick, insieme a Maurice Wilkins, vin-cono il premio Nobel per la medicina senza alcu-na menzione per Rosalind, morta di cancro a soli37 anni cinque anni prima. Le difficoltà che Rosa-lind ha dovuto affrontare e le ingiustizie subite,unite alla prematura scomparsa, hanno fatto di leiun’icona del movimento femminista nelle scienze.

Jocelyn Bell Burnell è nata a Belfast nel 1943 e hastudiato fisica all’Università di Glasgow. Duranteil lavoro della sua tesi di dottorato scopre le pul-sar, confermando l’esistenza delle stelle di neu-troni e consentendo di verificare la correttezzadella teoria relativistica di Einstein. Il premioNobel per la fisica per questa scoperta fu assegna-to nel 1974 al suo relatore Hewish, senza chel’Accademia di Svezia sentisse il dovere di men-zionare Jocelyn che, a distanza di trent’anni, nonserba rancore e dice: “Allora si aveva una conce-zione più gerarchica della scienza: un solo boss(un uomo maturo) pensava e molti giovani studen-ti eseguivano. Oggi è cambiata la nostra idea dicome si fa la scienza: la ricerca è fatta da un teamdi persone di età diversa e ciascuno fornisce ilproprio contributo. Comunque, il modo in cui ilNobel, e molti altri premi, sono concepiti rimanelo stesso: premiano il leader isolato”.Jocelyn ha avuto comunque successivi numerosiriconoscimenti per il lavoro svolto in astrofisica:il premio Oppenheimer, la medaglia intestata aMichelson, quella intestata a Herschel. Durante

Chien-Shiung Wu Rosalind Franklin

Jocelyn Bell Burnell

Rosalind Franklin, nata a Londra da una riccafamiglia ebraica, è vissuta tra il 1920 e il 1957.Fin da bambina dimostra una particolare predi-sposizione per le materie scientifiche e poi, inco-raggiata soprattutto da uno zio, si iscrive allafacoltà di chimica a Cambridge, dove si laurea nel1941. Nel 1947 si reca in Francia dove imparal’uso dei raggi X, scoperti da Roentgen nel 1895,per indagare la struttura della materia. Nel 1951 ildirettore del dipartimento di biofisica dell’Univer-sità di Londra le affida il compito di decifrare lastruttura del DNA. Rosalind perfeziona e utilizzala tecnica della cristallografia a raggi X e riesce afare la prima fotografia dello scheletro del DNA edella sua conformazione. Nel suo taccuino diappunti, la Franklin scrive che “il DNA è formatoda due catene distinte”. James Watson e Francis

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un’intervista, alla giornalista che le chiedeva senon fosse avvilente per una donna lavorare in unambiente a preponderanza maschile, risponde:“assolutamente avvilente. […] Poiché, in GranBretagna, la fisica è ancora una scienza per uomi-ni, le sue regole sono quelle degli uomini. Nelmomento in cui si raggiungerà una massa criticadi donne, la cultura cambierà. Il problema è riu-scire ad innescare cambiamenti in assenza di talemassa, e questo è stato il problema di tutta la miavita. Quando ero in attesa del mio primo figlio,andai dal capo del mio Dipartimento per infor-marmi sul congedo di maternità e lui mi disse:congedo di maternità?! Non ne ho mai sentitoparlare! Era vero: l’Università non lo prevedeva”.

Nel concludere questo articolo, gettando unosguardo al passato, una domanda sorge spontanea:quante donne, oltre a quelle qui ricordate, sonostate sottovalutate se non dimenticate, pur avendocontribuito allo sviluppo della scienza o semplice-mente alla sua trasmissione e diffusione? Non losappiamo, forse non lo sapremo mai o, più sem-plicemente, forse non arriveremo mai a rendere ilgiusto omaggio ai loro contributi. La societàattuale deve proiettarsi verso il futuro e porre lecondizioni per un continuo e proficuo allargamen-to della partecipazione delle donne alla scienza.Occorre investire nella scuola e nella ricerca per-ché solo in questo modo si creano solide fonda-menta per lo sviluppo delle scienze. Fortunata-mente, possiamo sperare che il divario di possibi-lità di affermazione in campo scientifico degliuomini e delle donne si stia riducendo rapidamen-te, grazie alle uguali possibilità di accedere a qua-lunque forma di istruzione. Possiamo immagina-re, o forse solamente auspicare, che le discrimina-zioni che hanno accompagnato la vita delle donnenei secoli passati siano destinate a scomparire e adiventare un ricordo del passato.

Bibliografia

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Note

1 - Nel 1903 per la Fisica, insieme con il marito Pierre Curie e Antoi-ne Henri Becquerel, e nel 1911, da sola, per la Chimica.

2 - Il premio Nobel può essere assegnato per statuto solo a personeviventi.

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Il progresso scientifico degli ultimi anni, comenoto, ha coinvolto anche le scienze biologiche; “lamedicina ha salvato più vite negli ultimi cin-quant’anni che in tutta la sua storia” (1). Colpiscetuttavia il fatto che medici e infermieri risultinosempre meno motivati a svolgere un’attività chetende ad allontanarsi sempre di più dal senso dellavita, per assimilarsi a un insieme di “tecnichesuperficiali di problem solving” (2), legate più “alladistribuzione dei farmaci, che non alla cura dellepersone” (3), nella sua complessità.Nonostante il successo innegabile delle terapieufficiali, anche i pazienti dimostrano una certatendenza ad allontanarsene: le medicine alternati-ve godono infatti di una popolarità sempre cre-scente (4), forse legata all’esigenza impellente didar senso alle cose, che, almeno in certi casi, sem-bra trascendere in certa misura persino l’istanzadel guarire, quando la guarigione si presenti comeun fatto puramente meccanizzato, in certo qualmodo privo di senso (5). Dal momento che alcune delle “medicine comple-mentari e alternative” (6) sono di origine orientale,forse può essere utile per la nostra riflessione suquesti temi prendere in esame il punto di vista diun grande regista giapponese come Kurosawa, inrelazione alla malattia.Questo autore è ben noto per la sua grande capa-cità sincretistica, che gli permise di trascrivereShakespeare nei termini della cultura orientale (7),o di distribuire con grande successo in occidentestorie squisitamente giapponesi. Egli è anche notoper i suoi legami con gli autori più disparati, cherisultano anche ad un primo esame dei suoi codicilinguistici, ma uno dei modi per leggerlo può con-sistere nel considerare che la malattia continua acomparire come un tema costante in molti deisuoi film: qui forse possiamo trovar alcuni contri-buti al dibattito sul burn out che coinvolge ormai

da tempo medici e infermieri, o sulle insoddisfa-zioni di origine profonda che coinvolgono ipazienti stessi. Kurosawa dedicò ben tre film all’etica del medico(8), dichiarata in esplicito come rivolta ad untempo, al corpo e all’anima, intesi aristotelica-mente un “sinolo”. Spesso nei suoi film comparein forma molto esplicita l’uomo nella sua malattiale cui manifestazioni fisiche e morali, risultano“mescolate e confuse”.Ciò che verrà messo in scena in forma più elabo-rata in testi successivi, risulta in forma semplicegià in un’opera del 1948. Si tratta di una storiaambientata in Giappone, ma raccontata secondoforme e contenuti che richiamano in certa misurail neorealismo italiano, se non per una filiazionediretta, quanto meno per un oggettivo “gioco dicorrispondenze” (9). Un medico abusivo gestisce un ambulatorio in unquartiere povero e si impegna in ogni modo permigliorare le condizioni di salute e di vita dellepersone che gli stanno intorno. Non si tratta di unpuro eroe, ma di un Angelo ubriaco, soggetto eglistesso ai malesseri a cui cerca di rimediare neglialtri, in una situazione in cui risulta ben difficiledistinguere in forma netta i mali del corpo dallasolitudine dell’anima. Al medico alcolizzato, ma non privo di sensoetico, si contrappone un piccolo capo-mafia loca-le, destituito dal suo ruolo in forma immediata ebrutale al primo esplicito apparire di una tuberco-losi, che lo rende inabile a un lavoro deprecabile,comunque fondato sulla forza fisica, che egli haormai perduto. Questo personaggio morirà inpreda a una sofferenza legata alla perdita delruolo e all’angoscia per la morte di cui non hapotuto in alcun modo elaborare i termini umani, aldi là della biologia; in sostanza la vera sofferenzadi questo malato terminale non sta solo nel corpo.

Kurosawa e la malattia del vivere

GIANNI TRIMARCHI

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Non a caso la narrazione raggiunge il suo culmi-ne con la drammatica sequenza del protagonistache, in un sogno, si rispecchia angosciosamentenella propria bara, senza il conforto della capa-cità di ripensare la sua esperienza di vita, né ladolcezza delle presenze amiche, che costituisco-no invece il correlato di un’analoga scena, messain atto da Bergman pochi anni dopo, ne Il postodelle fragole (10). Con questo film, che risale al 1948, Kurosawasembra prendere in esame alcuni temi assai vicinial dibattito occidentale contemporaneo. Il suopunto di vista sul dolore della morte sembra espri-mere in termini artistici qualcosa di molto vicinoa quanto scriveva Piero Franzini, in un suo sag-gio: “... Solitudine del morente in stato termina-le... in preda alla paura, all’angoscia e al panico...perché il morente ancora vivo e cosciente abbiatutto il tempo per esperire l’indifferenza umana,mascherata da accorgimenti tecnici” (11).In molti dei film di Kurosawa peraltro la vita stes-sa si presenta come malattia, dove il tema centraletrascende le disfunzioni organiche pur presentinei vari personaggi, per concentrarsi sulla miseriaumana degli offesi e degli umiliati. Sono i temi diCane randagio (1949), I bassifondi (1957), ispira-to a Gork'ij, e infine Dodes’ka Den (1970). Comedel resto in tutto il mondo, anche nei quartieripoveri delle metropoli giapponesi la malattia è inparte costituita dalla vita stessa, trascendental-mente destinata a trascorrere male, priva di dirittie di speranze di redenzione. Sia pure nell’ambitodel “gioco di corrispondenze” di cui si parlavaprima, spero non sia una forzatura pensare aAccattone di Pasolini. Forse potremmo ricordareanche Il ponte della Ghisolfa di Testori.Certo, nel caso del nostro autore, si è parlato giu-stamente di “neorealismo del sottosuolo” (12) concaratteristiche sue proprie. Pur in un quadro deci-samente fosco, egli non si limita ai dati di fatto,ma ci spiega che anche le situazioni più aberrantipossono avere risvolti di segno opposto. Infattiegli ci racconta che alcuni di questi dannati dellaterra sono pur capaci di sognare, con grande estropoetico. Il sogno non può in alcun modo incideresulla maledizione quotidiana, che sembra accom-pagnare queste persone ma può testimoniare sulla

loro umanità, che non viene meno neanche inquesti contesti. Fra questi “dannati”, in Dodes’kaDen compare uno pseudomedico, che certo nonha particolari capacità scientifiche, ma in un suomodo empirico sa leggere nel profondo, aprendoqualche spiraglio di umanità e di acutezza in unmondo di disperazione. Un cliente in preda aprofonda depressione gli chiede un veleno perconcludere un’esistenza che ormai gli si presentasolo come dolore. Egli, per così dire, lo acconten-ta, dandogli un violento, ma innocuo purgante. Ilcontatto con l’evidenza dei crampi allo stomaco,letti dal paziente come segni di morte, lo porterà aritornare sulla sua decisione e a esprimere gratitu-dine per il medico che aveva saputo svolgere unafunzione sostanzialmente ermeneutica, in questocaso certo assai più utile di quella meccanicistica,alla quale siamo abituati. In certo senso, in questa sequenza, Kurosawaanticipa la narrazione del momento più drammati-co della propria esistenza: il tentato suicidio del1970, quando l’insuccesso di Dodes’ka Den glifece perdere ogni tipo di credito presso tutti i pro-duttori giapponesi, che lo etichettarono comeormai vecchio e inutile. Al tema della vecchiaia èper l’appunto dedicato il suo film successivo,(Dersu Uzala, 1975) realizzato, per così dire, nel-l’esilio siberiano, su commissione della Mosfilm. Qui però i termini della vicenda autobiografica siribaltano: non sarà un insuccesso a provocare lamorte del protagonista, ma un fatto organico,sempre mediato da una problematica non risoltasul piano del vivere. Dersu Uzala è un cacciatoremongolo, effettivamente esistito verso la fine del-l’Ottocento e ricordato con profondo affetto neidiari dell’esploratore Arseniev che ebbe da questimolto aiuto durante i suoi viaggi in Siberia.I termini del dramma stanno nel fatto che il gran-de cacciatore ad un certo punto della sua vita nonpuò più prendere la mira con la solita precisione,a causa di una cataratta che gli impedisce di vede-re con la consueta acutezza visiva. Le affettuosecure dell’amico russo, che cercherà in ogni mododi insegnargli a vivere nella sua casa in città, nonriusciranno a risolvere il problema. Tradito dalcorpo, sia pure in termini non gravi, il cacciatoremorirà in sostanza per una depressione, per non

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rio di un quartiere povero, dove la cura del corpoe l’attenzione per le miserie umane costituisconoin fondo uno stesso compito, individuato come unvalore. Egli contamina con il fascino ed il sensoprofondo della sua scelta una piccola schiera digiovani allievi, alcuni dei quali giungono adabbandonare carriere più appariscenti, ma prive diun autentico spessore, per vivere nell’apparentesemplicità, ricca di significato, di un quartiere diperiferia. Ritornando al paradosso iniziale, dobbiamo consi-derare che la medicina ufficiale guarisce i malati,ma medici, infermieri e pazienti tendono concor-demente a sfuggirla, quasi che una capacità empi-rica non portatrice di senso suscitasse un certoorrore, a prescindere dalla sua oggettiva efficienza(14). In questo contesto, l’opera di Kurosawa puòcostituire un contributo al dibattito, in quanto eglici rappresenta con grande efficacia il dramma uni-versale dell’uomo nel momento in cui vengonomeno le sue normali facoltà, aprendo significativispazi di riflessione sugli aspetti etici dei problemibiologici e sulle costruzioni di senso che sia ilmedico sia il paziente si trovano a dover metterein atto. Questo nell’ambito di una medicina acarattere sostanzialmente “occidentale”, dove l’e-tica e non il rituale costituisce il vero problema.Ovviamente un artista non costruisce proposizio-ni, o assiomi, ma può metterci davanti ad eviden-ze che esigono una riflessione e una risposta (15).Concludendo, vorrei ricordare che parte del miolavoro è un ripensamento di dialoghi avvenuti intempi ormai lontani con mio padre e con mio fra-tello. Erano entrambi medici, e spesso mi parlava-no del legame che intercorre fra la malattia orga-nica e la vita, ma in termini che non sempre pote-vano accordarsi con la mia formazione, squisita-mente umanistica, ben lontana dal “problem sol-ving” di cui si è già parlato. A distanza di tantianni, vorrei che i miei morti potessero accostarsia queste pagine, per trovarvi un’eco meditatadelle loro parole, e un pur modesto tentativo disintesi, per il quale sono debitore, in certa misura,alle opere di Kurosawa.

aver saputo reinventare un progetto di vita. Que-sta incapacità immaginativa gli impedirà di “dir disì al mondo sino alla fine” (13).Non seguiremo Kurosawa nell’intero percorso deisuoi trentadue film; ci basta osservare che quantoabbiamo esaminato contiene una lunga serie dimetafore, legate al senso della professione delmedico, che sembrano presentarsi con caratteriuniversali, al di là dei nazionalismi.Inevitabilmente un grande regista si esprime intermini artistici e non scientifici, ma Kurosawa cimostra con grande chiarezza come le malattie delcorpo non siano separabili dall’anima. AddiritturaRashomon si potrebbe leggere come un lavoro dianamnesi su questioni etiche il cui risultato consi-ste in una morte, confermando la dialetticità delrapporto fra res cogitans e res extensa. Altri film,a carattere storico, come Kagemusha, (Il sosia)partono da un’analoga considerazione, ma narran-do la storia di interi apparati istituzionali cheandarono incontro alla disfatta per non aver sapu-to prevedere in alcun modo, ad esempio, che ilprincipe regnante potesse morire in battaglia; lasoluzione, in questo film, consisterà in un grotte-sco come se, costituito dall’impiego di un sosiache per qualche anno, ma non oltre, riuscirà adingannare tutti i suoi interlocutori, senza che nelfrattempo emerga una soluzione ragionevole alproblema della successione. Anche in Ran (tumul-to), ultimo grande film del regista, ormai anziano,vedremo scoppiare una lunga e sanguinosa guerradi successione, inevitabile conseguenza di unademenza senile, tanto facilmente ipotizzabilequanto non prevista dal contesto in questione,dove alla sclerosi biologica del principe si con-trappone quella istituzionale che caratterizza l’in-tera corte, con esiti altrettanto letali che coinvol-gono una regione intera. Il discorso sulla malattiadiventa allora un discorso sulla fragilità umana esulle insufficienze etiche, o istituzionali, davantial fluire della vita e della morte.In questa prospettiva, la medicina si trova quoti-dianamente di fronte a problemi che solo in partesono biologici. Questo discorso compare in formamolto esplicita, e in fondo ottimistica, in Barba-rossa (1965), dove un grande medico trova ilsenso della propria vita lavorando nell’ambulato-

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Note

1 - R. Porter Cambridge illustrated history of medicine, cit in BeppeRocca La cura della salute Torino 2004 p 1

2 - Ibid, p 3

3 - B. Rocca Umanesimo postmoderno e pratica medica in la ca’granda n. 4 2002, p 3

4 - Ibid p 2

5 - Ad esempio Clifford Geerz ci racconta che gli stregoni Navajoshanno davanti a sé tutta una serie di pazienti affetti da tubercolosi,contro la quale possono fare ben poco, disponendo solo di purgantied emetici. I loro malati sembrano tuttavia trarre giovamento, ocomunque una consolazione non trascurabile, dal canto rituale, dalsudore forzato e dal vomito indotto, che certo non guariscono, mapermettono di dare un nome alla loro sofferenza ed espellerla informa simbolica. (Cfr Clifford Geerz Interpretazione di culture trad itIl Mulino Bologna 1987 p 158)

6 - Su questo tema v B. Rocca Medicine complementari oalternative? In la ca’ granda n. 4 2005, pp 8-12

7 - Faccio qui riferimento a Il trono di sangue (1957), libera trascri-zione del Macbeth e a Ran (1985), ispirato a Re Lear.

8 - I film in questione sono: L’angelo ubriaco (1948), Duello silen-zioso (1949) e Barbarossa (1965). Il tema della malattia compare tut-tavia anche in altre opere, come vedremo in seguito.

9 - A. Tassone A. Kurosawa, Il Castoro, Milano 2001, p 43

10 - Per quanto riguarda il rapporto fra i due registi, va ricordatoche, cavallerescamente, Bergman definì La fontana della verginecome una “miserabile imitazione” di Rashomon. (Cfr A. Tassone,op cit, p 146)

11 - P. Franzini Il dolore, il malato, il medico in la ca’ granda 1.2.99

12 - A. Tassone, op cit, p 37.

13 - S. Natoli L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 2004, p 179

14 - In USA nel 1997 a 385.000 visite messe in atto dalla medicinaufficiale corrispondevano 628.000 visite attuate nell’ambito dellamedicina alternativa, che sembra destinata a una crescita esponenzia-le. Cfr B. Rocca Medicine complementari, o alternative? (in la ca’granda n 4 2005, p 8)

15 - Sul nesso fra creatività artistica e innovazione scientifica, cfr F.Carmagnola Plot, il tempo del raccontare, Meltemi, Roma 2004, p142 e segg.

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Asterisco

Incredulo, credo in Dio

Incredulo, credo in Dio,perché voglio credere,perché mai uomo vivo né mortone ebbe tanto bisogno.

Irrompono dal mio cuore spezzatoi verbi amariche ancora l'altr'anno erano morti,un nulla adorno.

Adesso, ogni cosa si è fatta preghiera,ora, tutto è un flagelloche mi colpisce il cuore, il corpo e l'anima,ed è sete pietosa.

Bellezza, purezza e verità,parole prese in burla;oh, fossi morto allora,quando di voi mi beffai.

Verginità e bontà, saggia onestà,quanto ho bisogno di voi.Credo in Cristo, aspetto Cristo,sono malato, malato.

Come un sonnambulo, mi fermo e vorrei capiree dinanzi a me in sante visioniturbinano cento misteri.

Nel mondo, ogni cosa è mistero;ed anche Iddio, se c'è;e il mistero dei misteri son io,povero essere frustato.

Dio, Cristo, Virtù, e ancoratutto quel che io ambisco- e perché lo ambisco? - sono, più di me,ahi, grande mistero.

ENDRE ADY (1877-1919)

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Da Della Nuovissima Iconologia di Cesare Ripa Perugino P. II p. 143, 1642, Padova,per Pietro Paolo Tozzi nella stampa del Pasquetti (Civiche Raccolte A. Bertarelli)

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Ivan Illich soffriva nel vederci rassegnati a una«intensa medicalizzazione della vita», a una «sof-ferenza ospitalizzata» mentre, troppo in fretta, lenostre case sono divenute luoghi inospitali per lanascita, la malattia, la vecchiaia e la morte.Sono trascorsi alcuni anni dalla scomparsa di Illi-ch, eppure non ci siamo rassegnati a questa perdi-ta. Viaggiatore infaticabile, sempre pronto a farsi sor-prendere dalla vita, sperava che anche la morte locogliesse di sorpresa. E così accadde: il 2 dicem-bre del 2002, a Brema, mentre lavorava alla suascrivania, un infarto lo colpì all’improvviso. Avevasettantasei anni.Chi è Ivan Illich, questo ingegno versatile che tuttiricordano per la sua feroce critica alle istituzioni? Non basta parlare del filosofo, dell’antropologo,dell’intellettuale, del sociologo, e nemmeno delsacerdote. Bisogna sapere soprattutto chi è statol’uomo semplice e straordinario, testimone di una“vita conviviale”, per accogliere e comprendereappieno il significato delle sue opere. L’editoria, in questi anni, ha sentito la necessità dirisvegliare il nostro interesse diffondendo il suopensiero, più che mai attuale. In Italia la Monda-dori, nel 2004, ha ristampato Nemesi medicadando il via all’edizione critica delle sue opere;l’editore Boroli dal 2005 sta ripubblicando alcuni

fra i suoi più importanti testi: (Nello specchio delPassato, Disoccupazione Creativa, Nemesi Medi-ca. L’espropriazione della Salute) recentissima -settembre 2006 - è inoltre l’uscita di Ivan Illich,Una voce fuori dal coro, di Maurizio Di Giacomoper la casa editrice Áncora. Si tratta, in questocaso, di un libro che ripercorre le tappe fondamen-tali della vita di Illich (l’infanzia in Dalmazia, glianni degli studi ma anche della guerra a Firenze,la vocazione al sacerdozio, il difficile rapporto conl’istituzione ecclesiastica e con il Concilio Vatica-no II, la fondazione del Cidoc e gli incontri configure eminenti del pensiero teologico e politico)e, insieme, si presenta come un saggio critico diapprofondimento, ricco di citazioni dalle sueopere, che offre un primo piano di questo pensato-re rivoluzionario, un outsider che ha sparigliato lecarte della società di ieri per farsi anticipatore dimolti temi sociali di oggi.Ivan Illich già a cavallo fra gli anni Sessanta e Set-tanta usava aspre parole di condanna verso unasocietà capitalistica fortemente istituzionalizzata,un sapere freddo, organizzato dall’alto, e verso unmondo globalizzato dove i paesi perdono la loroidentità, la tradizione, che è l’anima dei popoli.Già allora guardava alla «standardizzazione deibisogni» come al “male”, travestito d’umanità,portato da un progresso senza limiti.

Gli spiriti liberi non possono essere ignorati a lungo, pena l’arretratezza culturale di chi finge di non riconoscer-li. Ivan Illich, inquieta anima viennese cui è toccata un’avventura intellettuale e spirituale quantomai illuminan-te, è scomparso da quattro anni. Quanto basta, dunque perché l’editoria italiana capisse di non poter trascurareoltre la forza e l’eresia di un pensatore come questo, che ha scardinato preconcetti e comodi percorsi filosoficiper restituire all’uomo il senso della propria, originaria dignità di libera creatura di fronte alla medicina, allaChiesa, alla generale modernità. Con i suoi libri, Illich ha aperto un mondo nuovo: oggi nei libri tutto questoviene finalmente raccontato.

Il dolore di Illich, un compagno da non respingere

Filosofia di un non filosofo

SARA CALDERONI

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Ma non si cerchi di restringere le sue libere idee inqualche corrente politica o ideologica, né si frain-tendano le sue parole quando leggiamo «occorredescolarizzare non soltanto l’istruzione, ma l’insie-me della società» (1), o quando parla di «autogestio-ne della salute», ribellandosi alla «medicina d’og-gi» che «mira a rendere superflua per gli uomini lacapacità di sentire e di guarire» mentre «l’ecomedi-cina promette di soddisfare la loro alienata aspira-zione a sopravvivere in un utero plastico» (2). Sonocertamente frasi iperboliche, ma Illich era davverospaventato all’idea che la nostra casa, cioè quellacosa dove vi è «una famiglia dentro» e «che puòdare ospitalità» - il mondo, appunto - diventassesolamente «un globo», «un oggetto di ingegneria emanipolazione». Ivan Illich, insomma, invitava aripensare una società in termini di «valori etici»,non di «valori tecnici».E noi cosa possiamo dire, oggi, del mondo che abi-tiamo? Di certo che l’alta velocità ci appare indi-spensabile, anche se le nostre città sono sempre piùsature di traffico, soffocate dallo smog, e gli alberidevono essere dichiarati “monumenti” perché nellaquotidianità metropolitana ci si accorga - se nondella loro bellezza - almeno di una qualche loro uti-lità; che la parola cura per noi significa farmaco,terapia o ospedale e non c’è salute senza diagnosi:cosa importa, poi, se il nostro corpo resta a noiestraneo! E il termine bioetica non incute forsetimore, non fa pensare forse a mercati di embrioni ea sperimentazioni moralmente inaccettabili? Ecco,allora, che le parole di Ivan non sembrano affattovenire da un lontano e disconosciuto passato. E lapaura di una vita concepita in maniera astratta cista addosso più che mai. Illich per molti anni vive in Messico, a Cuernavaca- nel 1966 fonda il Cidoc (Centro di documentazio-ne internazionale) - , fra la semplicità di un popoloche si muove in bicicletta, che ancora cura i suoimalati con le erbe mediche e con il suono delleparole, un popolo che sa che la vita non si chiude inuna scatola preconfezionata per tenerla al riparodalla morte, e che anche la sofferenza, come lagioia, è degna di essere accompagnata dai canti. Eproprio da quell’appartato cantuccio, che amava perla sua innocenza, Ivan guarda alla società occiden-tale moderna come a una società scombuiata, con-

fusa dai troppi prodotti della tecnologia e semprepiù distante dalla speranza che per lui è, invece,«fede ottimistica nella bontà della natura». E avevaragione nel sentirsi turbato all’idea che l’uomomoderno, «l’uomo prometeico», inseguisse soloaspettative e facesse della sua vita un programma,perché così noi tendiamo a vivere. «Si è arrivati al punto che persone non malate siassoggettano a una assistenza professionale nell’in-teresse della loro salute futura» si infuriava Illich,descrivendo «una società morbosa che chiede unamedicalizzazione universale» (3). E non di meno,attaccava il paziente moderno, l’ammalato di oggi,che ha dimenticato di sapere e si sente al sicuro sol-tanto in qualità di «diagnosticato», essendo il doloreper lui nient’altro che un «problema tecnico».Illich ci ricorda, invece, che nella tradizione europea,il dolore non fu mai considerato un disturbo esternoda eliminare. Fra i discepoli di Ippocrate esso era unimportante strumento di diagnosi perché rivelava almedico quale armonia il paziente dovesse ritrovarecon il proprio corpo. Durante la cura il dolore a voltespariva, a volte veniva lenito, ma sopprimerlo nonera l’obbiettivo che si poneva il medico. Per i Greci,insomma, la felicità non era concepibile se disgiuntadal dolore. Il concetto del dolore come inalienabilemale cosmico appartiene anche alla nostra radice cri-stiana, che ci vuole responsabili di questa «ferita». Ivan Illich soffriva, dunque, nel vederci rassegnati aun’«intensa medicalizzazione della vita», a una «sof-ferenza ospitalizzata» mentre, troppo in fretta, lenostre case sono divenute luoghi inospitali per lanascita, la malattia, la vecchiaia e la morte. Ma, seb-bene il termine «destituzionalizzare» ricorressesovente nel suo insolito vocabolario, non era davverosua intenzione rovesciare il sistema sanitario - oqualsiasi altro sistema sociale - ; soltanto avvertiva ilrammarico di far parte di una civiltà che, credendosipriva di risorse creative autonome e facilmentedisposta ad anestetizzare ogni tipo di sensazionedolorosa, va perdendo la possibilità di scoprire chesaper soffrire è non solo «segno di buona salute», maanche occasione di apprendimento e rinascita interio-re. Sono parole, quelle che leggiamo, che hanno lavoce di chi ha speso la vita per incontrare l’altro,cioè chi ci è vicino, chi ci somiglia, ma sono anchel’anima di chi ha conosciuto la malattia.

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Lo studioso fu colpito da un tumore al cervello chene sfigurava il volto. Quando il male gli fu indivi-duato, rinunciò alla chemioterapia per il timore divedere rallentata la propria facoltà intellettiva. Ini-ziò così, insieme alla sua sofferenza, la sfida. Sirivolse alle cure tradizionali (bruciava elementioppiacei in una piccola pipa di coccio per lenire ildolore), ma soprattutto fece appello alla propriacapacità di sostenere il tormento della malattia.Commuove il modo in cui quest’uomo umile porta-va sul viso quella protuberanza scura, che è untumore, ma anche segno distintivo della sua tenacia,della sua speranza. E ci fidiamo quando ci dice che,forse, la persona ammalata non vuole risposte a tuttii costi, ma desidera soprattutto che con amore siaaccompagnata «l’evoluzione» della sua domanda,perché il dolore non resti solitudine. Ivan era quiper rammentarci ogni giorno che il dolore è unadomanda sempre aperta per l’essere umano, e oraabbiamo nostalgia delle sue parole. Ci sentiamo unpo’ più soli in questa civiltà progredita e triste che«accetta la scomparsa delle foreste così come dellamemoria» e dove “incontrarsi” si sta riducendosempre più a una questione di facili collegamenti erapidi veicoli.

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Bibliografia

1 - Ivan Illich, Descolarizzare la Società, Mondadori, Milano,1970, p.3.

2 - Ivan Illich, Nemesi medica. L’Espropriazione della salute,Mondadori, Milano, 2004, p.278.

3 - Ibidem, p.134.

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L’infallibilità di giudizio non è, come noto, preroga-tiva umana. Non dovrebbe quindi sorprendere cheuomini di sicuro ingegno, e fra questi molti scien-ziati, abbiano preso nella loro onorata carriera cla-morosi abbagli. Anche se le spiacevoli conseguenzedel sostenere una castroneria dovrebbero indurre aprudenza, non sempre chi occupa posizioni domi-nanti è disponibile a riconoscere i propri limiti, aprevenire errori evitando atteggiamenti arroganti. Eproprio l’autorevolezza di chi esprime un giudizio,destinato in seguito a dimostrarsi infondato, porta asottovalutare le ipotesi diverse. In questo modosono talora accantonate ottime idee e viene sottova-lutato l’ingegno di chi, godendo di minor potere eprestigio, le abbia proposte.Un clamoroso scivolone sull’uomo di Neanderthalfu commesso da Rudolph Virchow (1821-1902).Vittima delle... conseguenze di tale errore fuJohann Carl Fuhlrott (1803-1877). Ma fu davveroun errore? Per capire meglio la storia è opportunauna breve presentazione del personaggio RudolphVirchow: non solo è ritenuto la figura più rappre-sentativa della medicina tedesca della sua epoca,ma occupa in assoluto un ruolo di primo piano nellastoria della medicina moderna. Per chi come me sioccupa di coagulazione del sangue, il nome di Vir-chow è indissolubilmente legato alla celebre teoriasulla patogenesi della trombosi, nota ancora oggicome “la triade di Virchow”. Nulla a che fare conMoggi, Giraudo e Bettega: la “triade di Virchow” ècitata in ogni testo di fisiopatologia della coagula-zione e non vi è congresso, convegno o seminariosulla trombosi nel quale il patologo Tedesco nonvenga citato con ammirazione per averla enunciata.Ad oltre un secolo e mezzo di distanza possiamoconfermare, dati alla mano, che l’intuizione di Vir-chow fu geniale, soprattutto tenendo conto degliscarsissimi mezzi sperimentali e delle rozze teorieche la precedettero. In sintesi, Virchow intuì che la

trombosi (la formazione di un coagulo di sangue, insede ed in quantità inopportuna, che determinaimportanti malattie quali infarto, ictus cerebrale,embolia polmonare) si verifica per il concorrere ditre eventi: la riduzione del flusso del sangue, l’alte-razione della parete del vaso sanguigno e l’ipercoa-gulabilità. L’ipotesi di Virchow è stata sottoposta,nei molti decenni che ci separano da lui, a verifichesperimentali sempre più sofisticate, risultando esat-ta nella sua formulazione originale. Non solo: la“triade” ha avuto ed ha tuttora una ricaduta nellapratica medica, per esempio nella prevenzione dellatrombosi, basata su strumenti che vanno ad interfe-rire, a seconda dei casi, con uno o più dei suoi com-

Rudolph Virchow e l’uomo di Neanderthal:storia di un errore?

MARCO MOIA

Il celebre patologo tedesco Rudolph Virchow (1821-1902).

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ponenti. Quella sulla coagulazione del sangue nonfu l’unica intuizione di Virchow che viene da molticonsiderato il primo patologo moderno.Nella nostra storia bisogna tener presente che, con-trariamente ad alcuni scienziati ed a molti artistiche hanno ricevuto onori e fama solo alla memoria,Virchow raggiunse già in vita autorevolezza e pote-re. Molto potere. All’apice della carriera il suoparere su argomenti di medicina veniva consideratodefinitivo, una specie di bolla papale. Con l’uomodi Neanderthal le cose andarono proprio così e…non andarono bene né per Fuhlrott né per amoredella verità.Tutto inizia verso la metà dell’800, in Germania,nella valle (in tedesco, tal) di Neander, a pochedecine di chilometri da Düsseldorf. Alcuni operaiitaliani, impegnati in una cava di calcare, trovanodelle ossa affioranti dal pavimento di una grotta:calotta cranica, coste, parti del bacino e degli arti.Ossa umane? Così sembra ma, anche ad un esamesuperficiale, sono ossa particolari. Il primo adosservarle con attenzione è Johann Fuhlrott, uninsegnante di scienze della zona. Non è un perso-naggio famoso: anzi è praticamente sconosciutonell’ambiente scientifico ed accademico. Ma, vuoiper la fortuna del dilettante, vuoi per preparazioneed intuito, vuoi perché prende a cuore il problema,capisce che quei reperti sono interessanti e li invia aHermann Schaffhausen, esperto di anatomia pressol’Università di Bonn, formulando l’ipotesi che leossa appartengano ad una “antica razza umana”,probabilmente a un “barbaro” vissuto pochemigliaia di anni prima dell'arrivo dei Celti e deiGermani. Insomma, un possibile antenato del popo-lo tedesco e non solo di questo, come in seguitodimostreranno i numerosi ritrovamenti in varie partid’Europa ed in Medio Oriente. L’unica cosa che sipuò dire con una certa sicurezza su quei reperti èche appartengano ad un individuo di sesso maschi-le, con caratteristiche peculiari. Il cranio, oltre amostrare arcate sopraorbitarie assai sporgenti, èbasso, allungato; la capacità cranica è elevata (circa1400 cc). Le altre ossa mostrano grande robustezza,con gli arti inferiori un po’ arcuati. L’aspetto fisicodell’uomo di Neanderthal, volendolo immaginarecon un po’ di fantasia nelle vesti di un nostro proge-nitore, non è certo molto rassicurante: assai peloso

(visse in condizioni climatiche avverse, da circa300.000 a circa 30.000 anni fa), robusto e muscolo-so, ma non certo slanciato.Ma ad inquietare maggiormente gli studiosi dell’e-poca, ed anche noi quando ne vediamo un’immagi-ne ricostruita, è l’espressione del volto: naso gros-so, fronte bassa e sfuggente, vistose arcate sopracci-liari. Non corrisponde certo, e non corrispondevaallora, al canone dell’essere intelligente che, per undetto popolare sopravvissuto nei secoli, deve averefronte alta e spaziosa. Insomma, anche se CharlesDarwin (1809-1882) sostiene che l’uomo derivadalle scimmie, è mai accettabile che l’anello man-cante, tra l’uomo e la scimmia, abbia un aspettocosì brutto e poco intelligente? L’ipotesi di un ante-nato dall’aspetto tanto ottuso è poco entusiasmantee contribuisce la sua parte a quanto accade in segui-to. I reperti di Neanderthal vengono esaminati danumerosi luminari dell’epoca: pur non volendoazzardare una conclusione, nessuno li identificacome possibili resti di un precursore dell'umanità

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Moderna ricostruzione dell’aspetto dell’uomo di Neanderthal:effettivamente è un po’ inquietante considerarlo come nostro antenato.

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attuale. Blake, nel 1864, decide che quel craniodalla fronte bassa e sfuggente deve essere apparte-nuto ad un idiota; nemmeno Thomas Huxley, unodei maggiori sostenitori delle teorie darwiniane, purcolpito dall'elevata capacità cranica, ritiene di dovercollocare il reperto tra le forme di passaggio tral'uomo e le scimmie.Tuttavia, a mettere la parola fine all’ipotesi di Fuhl-rott, in quella fase storica, è Rudolph Virchow: dal-l’alto della sua indiscussa autorevolezza, formulauna diagnosi di rachitismo, fondata essenzialmentesull’elevata curvatura dei femori. Nessun dubbio enessun ripensamento, neppure dopo altri ritrova-menti (cranio di Forbes Quarry, Gibilterra, trovatonel 1848, ma uscito dall'ombra soltanto nel 1863;due scheletri completi a Spy, Belgio, nel 1887).Solo dopo la morte di Virchow e dopo altri ritrova-menti (scheletro di La Chapelle-aux-Saints, Fran-cia, nel 1908; La Ferrassie, Francia, nel 1909; LaQuina, Francia, nel 1911) l’ipotesi dell’uomo diNeanderthal come precursore della specie umanariprende credibilità e vigore. Quello che colpisce glistudiosi e rivaluta l’ipotesi di Fuhlrott è che tutti ireperti assomigliano in maniera sorprendente aquello di Neanderthal, denominato nel frattempodall'anatomico inglese William King, Homo Nean-derthalensis. Purtroppo Fuhlrott è già passato amiglior vita, circa 20 anni prima del suo famoso epotente oppositore. Come capita ad alcuni intellettiincompresi e sfortunati, non può assistere alla riabi-litazione delle sue teorie.A onor del vero, ed a parziale difesa di Virchow,bisogna aggiungere alcune considerazioni. Tuttoraesistono incertezze su che cosa realmente rappre-senti l’uomo di Neanderthal nella storia della specieumana. L'estinzione dell'uomo di Neanderthal, o inalternativa la sua continuità con l'uomo anatomica-mente moderno, rappresenta uno degli enigmi irri-solti della preistoria. Ad oggi non esistono certezzesull’ipotesi che qualche tratto dell’uomo di Nean-derthal persista in noi. In passato questa teoria èstata per lo più rimossa e criticata, come se andassea incrinare in qualche modo la nostra sicurezza diessere la specie più evoluta e più intelligente ditutto il mondo naturale. D’altra parte, vi sono reper-ti che indicherebbero capacità intellettuale dell’uo-mo di Neanderthal ben superiore a quanto inizial-

mente ipotizzato: è accertato che avesse strategiedi caccia complesse e ben pianificate (è possibiledesumerlo dal tipo e dalla posizione dei resti ali-mentari) ed era in grado di costruirsi armi e stru-menti. Vi sono perfino tracce di manifestazioni chepotremmo definire artistiche. Fu probabilmente ilprimo essere vivente a seppellire i propri morti,denotando una attività intellettuale di livello supe-riore. Ma c’è anche chi pensa che l’uomo di Nean-derthal possa aver imparato alcune di queste atti-vità da occasionali contatti con l’homo sapiens,giunto dall’Africa in Europa circa 35.000 anni fa.E quasi tutti gli esperti concordano sul fatto chenon fosse in grado di comunicare con un vero eproprio linguaggio. Anche oggi, quindi, non èfacile separare i fatti dalle opinioni (e non solosull’uomo di Neanderthal…), opinioni talvoltaconseguenti a teorie precostituite piuttosto che adun lucido ragionamento su reperti e prove. Forsenon ci siamo ancora liberati del tutto dalla diffi-denza che deriva dall’aspetto esteriore, oggettiva-

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Johann Carl Fuhlrott (1803-1877): per primo suggerì che i frammentiossei ritrovati nella valle di Neander appartenessero ad un uomo primitivo.

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mente un po’ inquietante, dell’uomo di Nean-derthal, dalla nostra riluttanza a sentirci in qualchemodo imparentati con lui.A questo dobbiamo aggiungere che, ai tempi diVirchow e Fuhlrott, l’osservazione e la sperimen-tazione come base di un ragionamento scientificonon erano procedure molto diffuse e non solo permancanza di strumenti. Spesso e volentieri il datoosservato veniva sacrificato sull’altare di teorieprecostituite che derivavano da antiche credenze,dalla tradizione, dalla coincidenza con testi sacri ofilosofici. Ne è un esempio la teoria del nucleofreddo della terra, chiamata nettunismo, che anda-va per la maggiore agli inizi dell’800, strenuamen-te sostenuta da Abraham Werner (1750-1817). Taleteoria si basava essenzialmente su di una costru-zione filosofica, in quanto tutti i dati osservatidicevano esattamente il contrario e cioè che ilnucleo della terra doveva essere incandescente(tale ipotesi passava sotto il nome di plutonismo).Ma i plutonisti non avevano vita facile: venivanoderisi, se non proprio perseguitati. Il nettunismoaveva infatti potenti sponsor, quali alcune confes-sioni religiose (in particolare, sia la chiesa cattoli-ca che quella protestante, ed in Germania non erapoco) ed alcuni uomini di intelletto, come Goethe:per questo non fu facile eradicarlo. Si raccontaperfino che Werner facesse celebrare messe fune-bri per i detrattori della sua teoria. Probabilmenteoggi verrebbe accusato di mobbing ed i plutonistiaprirebbero un sito web, ma allora... sopportavano.In una simile epoca non doveva essere agevole faraccettare i reperti di Neanderthal come apparte-nenti ad un progenitore della razza umana.Torniamo dunque alla contesa fra Virchow e Fuhl-rott: avverto il lettore che a questo punto intro-durrò alcune ipotesi, basate su considerazionipersonali per le quali, sia chiaro, non ho alcunaprova. La prima considerazione è che un perso-naggio come Virchow aveva certamente la staturaper poter sostenere opinioni controcorrente. Unamente lucida come la sua avrebbe potuto, o meglioavrebbe dovuto, valutare con maggiore attenzioneed apertura la teoria di Fuhlrott. Perché non lofece? Perché, invece, ne divenne un fiero opposito-re? Anche Virchow fu influenzato, fu in qualchemodo spaventato dal truce aspetto dell’uomo di

Neanderthal? Dall’idea che un simile individuopotesse essere tra gli antenati del popolo tedesco?Aveva forse timore di inimicarsi una parte delmondo scientifico, politico, religioso? Perché unacosa è chiara: anche se ammettiamo che nei nostrigeni non vi è traccia alcuna dell’uomo di Nean-derthal, i reperti analizzati da Fuhlrott e Virchownon appartenevano di certo ad un uomo affetto darachitismo. È plausibile che Virchow commise ungrossolano errore, scambiando il cranio dell’uomodi Neanderthal con quello di un rachitico? Mah,una simile sciocchezza poteva venire da un medio-cre tirocinante, non dal principe dei patologi.Insomma, la statura scientifica, il prestigio perso-nale ed il potere accademico di Virchow mi indu-cono a scartare tutte le precedenti ipotesi. Azzardoquindi un paio di alternative: 1) Virchow non volleneppure prendere in considerazione l’ipotesi cheuno sconosciuto insegnante di scienze fosse autoredi una scoperta di rilevante interesse scientifico; 2)Virchow prese in considerazione l’ipotesi di Fuhl-rott, addirittura la trovò corretta, ma… non vollemai dare pubblico riconoscimento ad un antagoni-sta che non riteneva al suo livello. Insomma, credoche Virchow affossò la teoria di Fuhlrott per moti-vi personali: certamente usò il peso del suo presti-gio per farlo. Questa lite di oltre un secolo fa (della quale sonovenuto a conoscenza durante una mia visita casua-le al museo di Neanderthal) mi ha reso meno sim-patica la figura di Virchow: geniale enunciatoredella “triade” sulla trombosi ma, da quanto emer-gerebbe, uomo arrogante e vendicativo. A rivaluta-re Fuhlrott e la sua teoria hanno pensato i tedeschidedicandogli un museo nella città di Wuppertal. Una riflessione finale: siamo sicuri che casi analo-ghi alla diatriba Virchow-Fuhlrott non avvenganoanche oggi? Certo, ora il Fuhlrott di turno ha qual-che occasione in più per far valere le proprieragioni: può aprire un sito web o, con un buonavvocato, un contenzioso per mobbing. Oppuredovrà anche lui rassegnarsi ad aspettare almenomezzo secolo per vedere riconosciute le sue idee.Del suo nome, a grandi caratteri sul frontespizio diun museo, potranno godere solo i suoi eredi.

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Un’ idea non solo stravagante...L’idea che un filosofo, ancor più un filosofo comeSocrate, passeggi liberamente in corsia nei nostri ospe-dali e luoghi di cura, potrà apparire assai bizzarra, tantoai curanti come ai pazienti. “Che cosa mai ci starebbe afare in un luogo come questo un filosofo socratico?”.L’idea poi che tra i curanti e le persone che sono prese incura, tra i diversi curanti, o addirittura tra la società civi-le, politica e il mondo della salute si possano istituire deipercorsi di senso e di riconoscimento ispirandosi allafigura di Socrate, potrà sembrare frutto della fantasia diuna persona assai lontana dalle vicende legate alla nostrarealtà. Pensare di proporre dialoghi socratici in unmondo come quello della salute, quand’anche fosse sen-sato, apparirebbe probabilmente qualcosa di utopico. Eppure nei luoghi di cura, di cui le corsie non sono altroche una delle possibili vie di comunicazione e di intera-zione, (qualcosa come la circolazione sanguigna delcorpo, ospedaliero e non) quotidianamente si incontranoe si confrontano persone diversissime tra loro, per espe-rienza di vita, vissuti, professionalità, ruoli e competenzeacquisite. Tra questi volti si trovano quelli di chi cerca dirispondere a una domanda di aiuto, a una situazione divulnerabilità, più o meno esplicitata, confidando nellapropria professionalità e umanità (i diversi professioni-sti); quelli di chi spera di poter ritornare alla vita di sem-pre, di superare nel modo più rapido e indolore possibilel’impaccio del trovarsi malati (i pazienti); quelli di chi èchiamato al compito di garantire l’efficienza del servizionel suo insieme e la sua sostenibilità, (i vari amministra-tori), e molti altri ancora... Spesso tali persone si con-frontano, più o meno esplicitamente, con interrogativimolto concreti, interrogativi che, al di là delle singole e

concretissime risposte che rivendicano, in realtà hanno ache fare con questioni più ampie concernenti la salute, ilbenessere, la sofferenza, la qualità e il senso della vitadelle persone coinvolte. Non è improprio pensare che lepersone coinvolte in questi percorsi allora sentano ilbisogno di dialogare e di pensare insieme, “gli uni congli altri” invece che “gli uni contro gli altri”; quello ditrovare un senso e di decidere in modo ragionevole cosasia più opportuno fare; quello di essere riconosciuti inciò che fanno o richiedono. È in fondo a questo bisognoche cerca di rispondere il richiamo alla figura di Socratecome cercheremo di mostrare in questo breve scritto,non prima di avere fornito alcuni spunti per la lettura.

“Costruire ed abitare” insieme ad altri spazi di curaIl titolo che abbiamo suggerito, forse risulterà menoincomprensibile se, invece di essere preso alla lettera,pensando di chiamare in corsia un filosofo, una personasocratica, verrà inteso metaforicamente. In fondo in essosi cela un invito: quello di considerare nel nostro interlo-cutore, in ciascuna delle persone che incontriamo nellemolte “corsie” che attraversiamo nei percorsi di cura, inqualità di curanti o pazienti, una figura analoga a quelladi Socrate: una persona che, pur non sapendo nulla, è ingrado, confrontandosi con noi, di intraprendere con noiuna ricerca, ponendosi in ascolto e dialogando. Con l’invito a intraprendere “percorsi” di senso e di rico-noscimento con altri, facendo in modo che ciascunodivenga maestro, Socrate per l’altro, allora ci piacerebbedisporre il lettore, pur nel rispetto della sua esperienza divita, a “guardare” in un modo peculiare ai luoghi di curain cui si trova e a “starvi” con una consapevolezza anco-ra maggiore.

“Socrate in corsia”: percorsi di senso e di riconoscimento nella Babele della salutePAOLO DORDONI

A volte in una corsia di ospedale sembrano risuonare voci, linguaggi che non si capiscono, tra sofferenze eprofessionalità contrapposte, percezioni individuali della propria qualità di vita, di salute e saperi cosid-detti esperti. Persone diverse con esperienze e competenze diverse faticano ad incontrarsi nonostante ilcomune obiettivo: la tutela e la cura della salute. Socrate con il suo concreto dialogare, attraverso lariflessione appassionata di Paolo Dordoni, ci suggerisce come ognuno “a modo suo” sia portatore di indi-spensabili conoscenze e valori, senza cui qualsiasi percorso di cura sarebbe incompiuto.

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Gli spazi di cura, in questo senso, piuttosto che comespazi di esecuzione di progetti già predeterminati, posso-no essere “visti” come spazi di confronto, di dialogo e diricomposizione, spazi di costruzione di significati chenon sono già dati, ma ancora tutti da fare e da precisare.Si tratta di luoghi, questi, infatti, in cui sono in giocoquestioni di senso, in cui le esigenze di una cura equa,efficace, efficiente e partecipativa (sembra che per ilmomento la lista degli aggettivi si possa arrestare a que-sto punto) cercano di trovare una loro realizzazione, al dilà di una semplice ripetizione verbale. Luoghi in cui ilsenso di tali espressioni, per quanto apparentementenoto ad un livello astratto, rivendica il modo di farsicomprensibile, visibile, anche nella concretezza dei sin-goli progetti di cura, delle decisioni, siano esse preseinsieme oppure no. Il mondo della salute, poi, riflette come in uno specchioil nostro modo di interagire con la diversità dell’“altro”,quando questa è incontrata in situazioni di estrema vul-nerabilità e bisogno. È così allora che nei luoghi e nelleoccasioni di cura possono risultare particolarmente visi-bili, a volte quasi sfacciatamente, alcune delle modalitàcon cui di fatto riusciamo o meno a rispettarci, a intera-gire e progettare insieme, a dare forma a certi rapporti dipotere e responsabilità piuttosto che ad altri. Infatti,“stare” in questi spazi è sia avere già dato, come contri-buire a dare forma a pratiche concrete di convivenza, dirispetto, di solidarietà e relazione tra le persone coinvol-te, più o meno convincenti. Ci auguriamo che questi luo-ghi di cura possano essere vissuti senza paure e timori dachi vi abita o vi transita, come una scuola di vita, in cuici si educa e allena reciprocamente, o, se si vuole, comeun laboratorio a cielo aperto, in cui passando dalla viastretta della clinica, forse è possibile apprendere a cono-scere se stessi, i propri limiti, come a trovare forme dirispetto accettabili dalle persone coinvolte. In questo articolo cercherò di presentare come nel solcodi tali riflessioni sia stato possibile pensare e progettarenei contesti della salute delle pratiche socratiche peculia-ri: dei dialoghi socratici veri e propri.

Una proposta: i discorsi socratici nella tradizione diNelson, Specht e Heckmann Quando si pensa al dialogo socratico, di solito, secondol’immagine che ci è stata tramandata di esso da Platone,si pensa a un dialogo che avviene tra due o poco più per-sone, retto dalla personalità e autorevolezza di Socrate.

Socrate, avvalendosi dell’arte maieutica e prendendoegli stesso parte in modo attivo a ciò che di volta involta è oggetto di discussione, spesso riesce a far rivivereai suoi interlocutori quanto da egli stesso vissuto a pro-posito della consapevolezza del proprio sapere di nonsapere: la crisi e lo smarrimento di fronte alla messa inquestione delle proprie convinzioni e lo sgomento chespesso ne insorge. È questa una crisi che non ha lo scopoprincipale di demolire quanto già posseduto, ma di faremaggiore chiarezza su di esso per aprirsi, eventualmente,a nuove conoscenze, le cui doglie certamente da Socratenon venivano risparmiate a nessuno. In questi dialoghisappiamo che Socrate assume ancora un ruolo centrale,quello del maestro. Come si ricorderà, però, abbiamoiniziato questo scritto suggerendo che ciascuno, in certecondizioni può divenire Socrate per l’altro, può divenir-ne maestro: in essi, ciascuno degli interlocutori e nonsolo Socrate, può assumere per gli altri il ruolo dimaieuta.I dialoghi socratici che abbiamo praticato in diversi con-testi, nel mondo sanitario e non, hanno cercato propriodi fare in modo che ciascuno degli interlocutori potesseesercitare questo ruolo. Una situazione, questa piuttostodifficile, quando il discorso coinvolge un numero mag-giore di persone (e si fa discorso) e quando ciascuno siconsidera già esperto nel proprio ambito. Per fare ciò cisiamo riferiti a una modalità peculiare di praticare i dia-loghi socratici, quella risalente alla tradizione del secoloscorso inaugurata da Leonard Nelson, prima e poi daMinna Specht e Gustav Heckmann, tradizione che ormaiha raggiunto quasi un secolo di attività (1). Si tratta di una pratica discorsiva peculiare di cui quioffriamo solo brevi cenni. In essa un gruppo, di solitonon superiore a una decina di persone, dopo avere sceltoun tema di interesse e aver formulato una domanda diindagine, si riunisce per ricercare insieme di giungere, sepossibile, a trovarvi delle risposte o, in alternativa, delleasserzioni condivise. Per poter essere di aiuto agli altri intale impresa collettiva e stimolarne l’attività e la confi-denza nei propri mezzi, un facilitatore socratico moderala sessione, astenendosi dal partecipare attivamente alladiscussione sui contenuti del dialogo e visualizzando aipartecipanti i passi di volta in volta presi dal loro argo-mentare. La sessione solitamente si sviluppa nel modo seguente. Ipartecipanti cercano di esaminare il tema da loro sceltonon in modo astratto, ma facendo riferimento all’espe-

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rienza a loro disposizione, solitamente un esempio diuno di loro. In tal modo essi possiedono un terreno abba-stanza fermo. Un terreno che permette loro di poter arti-colare e chiarire le proprie convinzioni con qualcosa cheè comprensibile e discutibile da parte di chiunque. Alvantaggio di avere disposizione un’esperienza alla lucedella quale poter discutere insieme, l’esempio aggiungequello di permettere di mettere alla prova le convinzionipiù astratte con la realtà e i giudizi più concreti, giudiziche vengono formulati di volta in volta in riferimentoalla esperienza oggetto di discussione dai partecipantinel corso della discussione. È opportuno ricordare chel’esempio, di solito è una esperienza reale, vissuta e giàtrascorsa. È grazie ad esso che si istituisce il filo rossoper la prosecuzione dell’argomentazione. I partecipanti,infatti, dopo aver chiarito e discusso l’esempio scelto -spesso trascrivendolo nella forma narrativa di una brevestoria - si accingono a estrapolarne quelle riflessioni eindicazioni che permetteranno loro di approssimarsi allarisposta della domanda in oggetto, astraendo in talmodo lentamente, ma progressivamente. Il percorso èlento e graduale. Sono spesso gli stessi partecipanti adecidere cosa approfondire o meno e a cercare diaccordarsi per iscritto sui risultati da loro raggiunti. Laricerca di un consenso argomentato, che sia non strate-gico e occasionale; il desiderio di giungere a cono-scenze a cui effettivamente si presta il proprio assenso,a degli insights e la capacità di pensare insieme, gli“uni con gli altri” e non “a fianco” o “contro gli altri” -per usare una traslitterazione dei termini adoperati intedesco per descrivere le peculiarità di tale pratica -sono alcune delle sue caratteristiche principali, in cuiil sapere di non sapere, al di là di una formulazionevuota diviene una pratica intersoggettiva.Ai partecipanti è richiesto di avvalersi soltanto dellapropria capacità critica e del proprio bagaglio espe-rienziale. Lo sviluppo del pensiero autonomo di cia-scuno è fondamentale come lo è la capacità di svilup-pare tale pensiero insieme ai contributi degli altri. Ilricorso all’argomento di autorità viene escluso, nontanto per dover ricominciare su ogni cosa da capo, maper favorire la propria capacità di riflessione. A ciascu-no viene richiesto di esprimere effettivamente ciò chepensa; di esprimersi in modo comprensibile, anche daparte degli altri; di partecipare alla discussione, dichia-rando, qualora fosse necessario, le proprie difficoltà oincomprensioni del momento.

La fiducia prestata al proprio interlocutore e al gruppo;la confidenza di poter giungere a un risultato, anche seprovvisorio e ancora non noto; la passione di trovarsieffettivamente a ricercare insieme qualcosa attingendodal patrimonio esperienziale personale e altrui, insiemeall’incessante lavoro interpretativo e argomentativo checomporta di volta in volta la discussione, ne fanno unaesperienza particolare, conoscitiva come etica, nonesente talora da inconvenienti, ma gravida anche diconseguenze per chi vi partecipa. È difficile infatti chei risultati raggiunti, siano essi delle tesi, delle domande,dei nuovi aspetti da considerare o delle ragioni benfondate, non siano anche vincolanti l’assenso dei parte-cipanti, almeno per quella discussione concreta. Trattandosi di una autentica pratica discorsiva, il saperedi non sapere ne rappresenta un aspetto essenziale.Difatti in essa non solo si impara a difendere delle tesioffrendo ragioni e argomenti, ma si impara a precisarlee modificarle ascoltanto gli altri e mettendosi in discus-sione. La ricostruzione insieme agli altri dell’esempioda cui prende le mosse la discussione e l’articolazionescritta delle proprie concezioni condivise ne è una testi-monianza efficace. Qui ci si rende conto davvero chespesso, nonostante si usino delle parole simili, si attri-buiscono ad esse significati differenti. La compren-sione dunque non è un fatto già dato, ma un processoche si realizza, poco a poco, non certo senza unaqualche fatica. Anche la chiarificazione delle ragioniche vengono addotte a sostegno delle proprie tesi o diquelle del gruppo richiede un certo tempo e impegno.Perché esse non si limitino a un mero flatus vocis, auna dichiarazione di principio, ma siano invece ilrisultato di un processo astrattivo che prenda lemosse dalla esperienza concreta; perché siano effetti-vamente il distillato di una discussione effettiva enon di un semplice chiacchiericcio in cui ciascunonon fa altro che ripetere opinioni comuni, è necessa-rio avere pazienza, confronto e attenzione, oltre alladisponibilità a cogliere il nocciolo di verità presente,anche se non sempre esplicitato, nelle affermazionialtrui. La costruzione di significati e l’accordo sulleragioni che ne consegue, così, è ad un tempo unmodo per rispettarsi, prendere sul serio l’altro, lasciar-si mettere in questione (componente etica), come unmodo per affrontare insieme un percorso di ricerca dicui non è possibile prevedere in anticipo l’esito (com-ponente conoscitiva).

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Percorsi di senso e riconoscimento: spuntiSenza volere avere la pretesa di descrivere una praticache è anzitutto da vivere più che da presentare, cer-cherò ora di indicare alcuni dei contesti applicativi edelle domande su cui in questi anni è stato possibileaffrontare dialoghi socratici in sanità ispirandosi a taleproposta. In tal modo penso di poter dare una idea dellaestensione che in realtà possono avere tali pratiche, pen-sate per “guardare/considerare” ma anche per “stare” inmodo diverso in quella che abbiamo chiamato essere laBabele della salute. Le proposte socratiche che sono state sperimentate edi cui io personalmente sono stato moderatore si sonorivolte prevalentemente a professionisti della salute(quali, medici di famiglia, specialisti, clinici e ricerca-tori di diverse specialità e discipline, infermieri, oste-triche, amministratori...), anche se in taluni casi vi èstata l’occasione di includere tra i membri delladiscussione altri soggetti (quali, pazienti o rappresen-tanti di pazienti, della società politica e civile, assi-stenti pastorali, persone che a diverso titolo collabora-no con i curanti nella presa in cura dei pazienti, ricer-catori di discipline differenti, membri di comitati dibioetica, studenti in formazione...) a seconda del tematrattato di volta in volta e del tipo di dialogo proposto. I contesti prevalenti in cui è stato possibile praticarlehanno riguardato prevalentemente la formazione e laconsulenza, a livello locale, pubblico o privato, ospe-daliero come universitario, diversificandosi natural-mente a seconda del gruppo dei partecipanti, e esten-dosi anche a esperienze di ricerca internazionali. In talcaso, cercando di cogliere le potenzialità che tale pro-posta dialogica potesse avere nelle questioni di politicapubblica, considerando come culture differenti affrontas-sero un medesimo problema: nella fattispecie, la que-stione della accettazione legittima o meno dei rischilegati agli xenotrapianti da parte dei diversi gruppi inte-ressati e coinvolti. Anche i temi di volta in volta esaminati si sono rivolti auna molteplicità di questioni presenti nel mondo dellasalute, a testimonianza della molteplicità degli interroga-tivi con cui quotidianamente professionisti e non hannoa che fare in esso. Tra essi ricordiamo l’eccellenza, lacura, il consenso, la razionalizzazione, l’equità, l’inclu-sione, la prudenza, l’empatia, la condivisione... Ledomande ad esse corrispondenti, forse, ci potranno aiu-tare a rendere più chiaro, se non il tipo di indagine, il

punto di partenza della ricerca svolta da quei gruppi dicirca una decina di persone che si sono lasciati metterein questione da tali temi e che hanno accettato di farlosocraticamente. Eccone solo alcune: “Quando una rela-zione clinica è eccellente?” “Cosa significa prendersicura?” “È importante includere l’altro per prendersenecura?” “In quali circostanze i benefici individuali giusti-ficano i rischi collettivi?” “A quali condizioni una sceltapuò dirsi condivisa?” “Come è possibile mettersi neipanni di una persona?” “Che rischi possiamo/dobbiamoassumere?”... I dialoghi hanno avuto una durata che è oscillata da unminimo di tre ore ad un massimo di sei, ad eccezione diquelli sviluppati in contesti non sanitari, che si sonopotuti svolgere anche nell’arco di una settimana formati-va o di più giorni.Una valutazione puntuale dei loro limiti e delle loropotenzialità andrebbe sviluppata in riferimento ai diversicontesti, agli interlocutori, e agli obiettivi formativi,pedagogici o consulenziali, di volta in volta proposti edeccede gli scopi di questo contributo. Con questo nostrointervento ci limitiamo a fornire alcune indicazioni eriflessioni generali, lasciando a ulteriori occasioni lospazio per un confronto più analitico (2). Eravamo partiti da un suggerimento: quello di apriredei percorsi di senso e di riconoscimento in un conte-sto sanitario fortemente marcato da una pluralità divoci e attori in gioco: la Babele della salute. Una pale-stra di vita e una finestra aperta sui modi con cui prati-chiamo il rispetto dell’altro, ma soprattutto un luogo diconfronto. A tale proposito ci preme svolgere leseguenti considerazioni. I dialoghi socratici ci consentono di riprendere temi chea volte sono considerati ovvi, già affrontati, quali, adesempio sono il consenso o la cura, temi su cui a volte,pur parlando una stessa lingua, si fatica a intendersi.Cercare insieme di capire in che senso in una determina-ta storia clinica o non, si sia realizzata della cura e perquali ragioni o in quali modi, ad esempio, è una espe-rienza che ci permette di dare contenuti e riflettere criti-camente sulla cura stessa e sul suo significato, facendotesoro delle molte voci che vi entrano in gioco. Unaesperienza che è tanto conoscitiva, come etica. Anche la stesse modalità con cui vengono realizzati talidialoghi sono significative. Lo stesso riscrivere insiemela storia (l’esempio oggetto di indagine) è un esercizioad un tempo critico e empatico che permette alla molte-

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non avere più paura della diversità, a pensare didover ritornare a parlare una sola lingua - essendoincapaci di ascoltare quella degli altri - ma a impara-re a fare tesoro dei molti linguaggi acquisiti, facen-doli interagire tra loro per costruirne di nuovi, fruttodell’apporto di ciascuno. Forse anche la cura, comedel resto era nel desiderio di Socrate, ne sarà arric-chita e parole come “progetto di cura”, “interdisci-plinarietà”, “consenso informato”, “ragionevolezza”,troveranno uno dei tanti modi possibili per rendersipiù concreti e riconoscibili nel contesto sanitario, ilquale, proprio perché luogo di cura, resta prima ditutto, un luogo di confronto tra persone in cammino.

plicità dei partecipanti di ascoltarsi e apprendere acogliere la posizione dell’altro in una situazioneconcreta, senza banalizzarla, ma anche senza esclu-dere un atteggiamento critico nei confronti di essa.Altrettanti spunti interessanti si possono dire per ciòche concerne il consenso peculiare che viene prati-cato nei dialoghi socratici. Cercare insieme, ragio-nando, di giungere a un consenso, da un parte è unaesperienza che ci permette di capire quanto sia diffi-cile e come sia processuale prestare il nostro effetti-vo consenso a una proposta. In tal senso, la praticasocratica diviene dunque un vero e proprio esercizio.Dall’altra è un modo per prendere davvero sul seriola posizione diversa sostenuta dall’interlocutore, nonrestandone indifferenti, ma lasciandosi interrogare. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Il dialogosocratico ci consente di articolare quanto detto conquanto agito, la teoria con la prassi e questo in con-testi diversi tra loro quali possono essere quelli dellarelazione clinica, del lavoro di équipe e nei comitatidi etica, della ricerca di criteri condivisi a livello dipolitiche sanitarie. Da una parte ci permette di riap-propriarci in modo critico della nostra esperienza,dall’altra ci spinge a fare nuove ricerche e a formu-lare con più precisione alcuni interrogativi che con-sideravamo dati già per risolti. In questo senso, ildialogo socratico scardina la mentalità abituale conla quale in sanità, usualmente, ci si dispone nei con-fronti di un qualsiasi metodo. Esso non ci aiuta arisolvere problemi, ci invita invece a pensare. Pensa-re prendendo le mosse dalla realtà, però, non fanta-sticare; pensare per capirsi meglio, trovare critericondivisi, acquisire un linguaggio comune, un terre-no provvisorio in cui poter lavorare, non per daresfoggio della propria abilità; pensare per apprendere,per non eseguire soltanto un compito già dato e pro-gettato da altri. L’autoapprendimento, l’uguaglianzae il rispetto che esso comporta, costituiscono un veroe proprio esercizio per lo sviluppo di una competen-za etica, una attitudine alla ricerca e una praticademocratica e responsabile richiesta a diverso titoloe ai professionisti della salute e ai pazienti e cittadi-ni. Prima ancora di svilupparne delle parti o di privi-legiarne alcuni aspetti in modo tecnico per risponde-re ai bisogni di un determinato contesto piuttostoche non di un altro ci pare fondamentale sottolinear-ne l’aspetto esperienziale. In essa siamo chiamati a

Note

1 - Un’ introduzione al dialogo socratico, di taglio più generale si tro-verà in lingua italiana in Arrigoni Tatiana. Dordoni Paolo. “Il discorsosocratico” Nuova secondaria. 21; 2 (15 ottobre 2003): 90-94. In linguatedesca rimando invece a Krohn Dieter. “Theorie und Praxis des sokra-tischen Gesprächs” in AA.VV. Akademische Philosophische zwischenAnspruch und Erwartungen. A cura di Lohmann Karl Reinhard. Sch-midt Thomas. Suhrkamp. Frankfurt 1998: 119-133. In inglese infinerimando alla recente miscellanea AA.VV. Enquiring Minds. SocraticDialogue in Education. A cura di Rene Saran e Barbara Neisser.Trentham Books 2004. I testi di riferimento sono Heckmann Gustav.Das sokratische Gespräch. Dipa Verlag. Frankfurt am Main 1993 eNelson L. Die sokratische Methode. di cui il testo inglese sopra citatooffre una traduzione rivista. Ulteriori informazioni si potranno racco-gliere al sito www.philosophisch-politische-akademie.de e al sitowww.sfcp.org.uk. Per un’esame del mito di Babele reinvio a PetrosinoSilvano. Babele. Architettura, filosofia e linguaggio di un delirio. IlMelangolo. Genova 2003.

2 - Per un approfondimento del dialogo socratico nei contesti sanitari siveda in lingua italiana Dordoni Paolo. “Il metodo socratico di Nelson eHeckmann e la sua rilevanza in pedagogia medica”. Tutor, 3 (novem-bre 2002): 113-19. Dordoni Paolo. (2002) "Il ritorno del metodosocratico". Ianus. 8 (inverno 2002): 34-42. Dordoni Paolo. (Per unamedicina socraticamente orientata) Towards a socratic oriented medi-cine. In Philosophy in practice/ Pratiche filosofiche 2005. In ingleseinvece: Birnbacher Dieter. “The Socratic Method in Teaching MedicalEthics: Potentials and Limitations” Medicine Health Care and Philo-sophy 2; 3 (1999): pp. 219-224. Fitzgerald L. van Hooft S. “A SocraticDialogue on the Question 'What is Love in Nursing?” Nursing Ethics.2000 Nov; 7 (6): 481-91 Dordoni Paolo. Van Hooft Stan. “Socratic dia-logue and Medical Ethics en Ethics and Socratic Dialogue in CivilSociety”. A cura di Patricia Shipley and Heidi Mason. Lit Verlag. Mün-ster 2004. In tedesco, Gronke Horst. Dordoni Paolo. Littig Beate. “Sok-ratische Gespräche zu den ethischen Fragen den Xenotrasplantation”in AA.VV. Orientierung und Verantwortung. Begegnungen und Ausei-nandersetzungen mit Hans Jonas. A cura di Böhler Dietrich; BruneJens Peter. Königshausen & Neumann. Würzburg 2004: 349-367.

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La crociera del Filarete nell’antico Ospedale Maggiore. La ripresa fotografica di uno dei bracci risale alla seconda metà del sec. XIX.

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La medicina ha raggiunto oggi traguardi impor-tanti, avendo conseguito in pochi decenni risultatiinsperati. Il progredire della scienza e della tecni-ca, come in molti altri campi, in medicina hamodificato il decorso della vita, diventato piùlungo e più sicuro.La sofferenza peraltro non è scomparsa dalla vitadegli uomini, ma è quasi sempre vissuta in uncontesto di ricerca di soluzioni e di provvedimen-ti terapeutici, anche essi impensabili fino ad alcu-ni decenni fa. In conseguenza di ciò, anche il rap-porto medico-paziente è cambiato: il medico èvisto come il depositario di un sapere e di unpotere tecnologici, che hanno non poco appanna-to la figura buona e saggia del medico di unavolta, conoscitore dei propri limiti e abituato adaffacciarsi senza troppe risorse sui misteri dellavita. La fretta ha preso il posto del silenzio trepi-do e della vicinanza affettuosa; il fare ha preso ilposto dell’ascolto e del colloquio con il malato.L’oncologia ha aspetti illuminanti a questo pro-posito. Poiché molti malati di tumore oggi posso-no guarire, secondo alcuni quello che importa èfare, fare in fretta, fare un po’ di tutto. Le parole,la comunicazione che spiega, chiarisce e condivi-de non sono altrettanto importanti.Nella letteratura oncologica e nei racconti deimalati di tumore emergono, per chi sa ancoraascoltare e leggere dentro le cose, esempi di que-stioni aperte sulle quali, a mio avviso, è bene farechiarezza: una di queste questioni è la prosecu-zione o l’attuazione di un trattamento chemiote-rapico alla fine della vita; un’altra è la sovrastimadella libertà di scelta terapeutica da parte delmalato, il quale finisce per scegliere da solo non

accompagnato e poco consigliato dal suo medico.La prima questione (chemioterapia alla fine dellavita) ha in letteratura una eco non rilevante. Rias-sumendo le informazioni dai pochi lavori in pro-posito, si ricava l’opinione che la chemioterapia èancora effettuata in molti pazienti terminali(almeno in un terzo di essi), dei quali per di più imedici sovrastimano la sopravvivenza mediana incirca il 75% (1, 2, 3) . Tale prescrizione risponderebbeessenzialmente ad un bisogno dei curanti; menofrequentemente è richiesta dai parenti del malato,ancor meno frequentemente dal malato stesso. Loscopo è di fare qualcosa di nuovo o di non nuovo,fingendo di combattere ancora la malattia. Non sitiene presente, però, che questa illusione di tera-pia non porta per lo più vantaggi al malato, maanzi può frequentemente produrre disturbi nontrascurabili. E allora ci si chiede: “Perché?”. Eperché invece non cambiare programma, orien-tandosi ad effettuare le cure palliative, o in assi-stenza domiciliare, o in hospices?Certo, una decisione siffatta non può essere presasenza coinvolgere l’ammalato e senza concordarecon lui i motivi e le modalità, facendo attenzionedi garantire la continuità di un rapporto di cura eche la speranza non sia tolta.Oramai, nonostante le molte difficoltà degli annipassati, vi è nel nostro paese una rete a maglieineguali di cure palliative (prevalente concentra-zione sia di organizzazioni di medicina del terri-torio per l’assistenza domiciliare, sia di hospices,nel nord-Italia), avviata e in fieri per l’interventodelle regioni e per l’impegno delle organizzazionidi volontariato e più in generale del non-profit 4.È importante, dunque, che si diffonda l’idea,

Competenza, esperienza, profondità d’informazione fanno di questo intervento del prof. Enrico Ghislandi unarisposta ad alcuni lettori che sempre nell’ambito dell’intesa medico-paziente e soprattutto sul piano umano,esprimevano inquietudine e desiderio d’informazione per sé e per i familiari.

Questioni aperte in oncologia, che è bene chiarire ENRICO GHISLANDI

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ancora un po’ “carbonara”, di curare anche chinon può guarire, usando i mezzi che in parte cisono e in parte bisogna far crescere e diffondere.Non potrebbe essere questo uno dei punti qualifi-canti del programma sanitario del nostro paese?

Una seconda questione su cui è bene fare chiarez-za è forse meno drammatica della precedente, manon è trascurabile.Si va sempre più affermando la convinzione chegli ammalati oncologici debbano essere informatisulla loro malattia, sulle possibilità di cura, sulprogramma terapeutico, più di quanto si facessequalche decennio fa. Questo comporta un impe-gno per il medico a spiegare, senza fretta e conimpegno, molte cose inerenti diagnosi, prognosi eterapia. È un compito difficile che non può essereesaurito né in pochi minuti, né con autoritarismi edeve comunque dare una speranza al malato. Leinformazioni non possono non comportare undiscorso sugli aspetti tecnici del programma dicure, in modo che il malato conosca e valutirischi e benefici. Appare pertanto strano il com-portamento, oramai non più eccezionale, di chilascia al paziente la scelta sul programma tera-peutico, in nome di un malinteso rispetto dell’au-tonomia del malato. Un esempio: viene diagno-sticato in un uomo in età medio-avanzata untumore della prostata in fase non diffusa. Dopoalcune informazioni non esaustive, viene chiestoal malato se preferisce essere operato, o inveceirradiato, o invece ancora essere sottoposto allaterapia medica (“deprivazione androgenica”).L’ammalato, tranne in casi particolari (esseremedico, aver seguito da vicino un parente o unamico affetto dalla stessa malattia), non può esse-re in grado di decidere, se non su base emotiva enon razionale. È vero che il malato deve dare ilsuo consenso alla cura, ma si tratta di un consen-so “informato”, cioè un consenso dopo spiegazio-ni esaustive sui rischi e sulle possibilità di ognu-na di queste scelte terapeutiche, tenendo presenteil risultato che si vuole e si deve conseguire, cioèla guarigione (oramai possibile in non pochicampi dell’oncologia) e non solo la comodità peril paziente e il disturbo minore procurato.Proprio perché il consenso e la scelta del paziente

devono fare seguito ad una informazione ampia edocumentata, non si può sovrastimare la scelta inlibertà del paziente che difficilmente riesce adessere una scelta ponderata, responsabile, magaricoraggiosa. Il medico deve perciò essere docu-mentato, orientato e persuasivo, e non frettolosoe disimpegnato. Il paziente è – beninteso – liberodi rifiutare il piano terapeutico del curante: ma ilpiano terapeutico ci deve essere e deve essereillustrato con pazienza e autorevolezza. Si tratta,in buona sostanza, di dare al malato informazionie non rigide regole e di adattare informazioni eregole al caso concreto. Addurre a giustificazionedi un comportamento più sbrigativo le pressioniderivanti dai problemi organizzativi della medici-na di oggi non è corretto. Non bisogna infattistancarsi di ripetere che managerialità, DRG,aziendalizzazione dei luoghi di cura, contenimen-to della spesa sanitaria sono tutte esigenze impor-tanti, ma la cura personalizzata di ogni ammalatoche si affida a ciascuno di noi (e non solo la curafredda e indifferente della sua malattia) resta il“primum” e il “proprium” del nostro mestiere (5).

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Bibliografia1 - Earle C.C., Neville B.A.,Laudrum M.B., Ayanian J.Z., Block

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3 - Costantini M. La prognosi nella malattia oncologica avanzata eterminale τεχυη 9, 110-112, 2005

4 - 13° Congresso Nazionale della Società Italiana di Cure Palliative. Atti. Bologna 26-29 aprile 2006

5 - Ghislandi E. Curare l’ammalato, non curare solo la malattiaLa Ca’ Granda 1, 14-15, 2005

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“Le mie gambe bruciavano” racconta un paziente edescrive con quest’espressione la condizione didolore vissuta prima di effettuare un intervento chi-rurgico alla schiena, al fine di risolvere questo pro-blema.Non è così inusuale l’utilizzo della metafora delfuoco per descrivere il dolore, così come il ricorsoa immagini per parlare dell’esperienza della malat-tia che si sta vivendo. La metafora - e la narrazione nella quale essa trovaespressione - è stata fatta oggetto di studio damolte e diverse discipline, a partire dalla retorica,la filosofia e la linguistica, sino alle neuroscienze,la psicologia e la psichiatria. Più di recente il valo-re della narrazione è stato evidenziato anche all’in-terno della medicina, e secondo alcuni bioeticistiun recupero della narrazione potrebbe aiutare lamedicina a risolvere alcuni dei suoi attuali proble-mi, quali l’impersonalità, la frammentarietà, lafreddezza e la scarsa coscienza sociale, perchéalcune abilità che le mancano sono proprio di tiponarrativo e comunicativo.Ci sono metafore molto significative, usate perparlare della malattia: “il dolore era come unmostro, una cosa gigantesca”, “io non funzionavopiù”, qualcuno rappresenta la chemioterapia cuista per essere sottoposto come “il bambino catti-vo” che arriva, o ci si può autorappresentare ilproprio corpo a seguito della malattia come “uncorpo rotto”. La metafora di “una guerra civilenella testa”, usata da un paziente per descrivere lasua esperienza di tumore al cervello, o quella deldolore come un pesce, che esprime la difficoltà dilocalizzare un dolore, perché si muove e guizza inpunti diversi del corpo, sono rimaste impressenella memoria di due medici, che le avevano tro-vate particolarmente efficaci per accostare inmaniera più profonda quello che i loro pazientistavano provando.

Che cosa comunicano queste persone e che cosadicono le loro immagini? L’autobiografia - che rappresenta spesso il generenarrativo nel quale questi racconti possono esserecollocati - è una struttura narrativa che aiuta a darsignificato, a conferire senso alla nostra esistenza:il filosofo Alasdair McIntyre afferma che noi siamonient’altro che coautori dei racconti della nostravita, proprio perché è soltanto in una dinamicainterpersonale che noi possiamo dar forma allanostra stessa storia. Nel raccontare la nostra storianoi abbiamo bisogno di qualcuno che ci ascolti, diun destinatario della nostra comunicazione: qual-cuno che ascolti, che raccolga questa storia nediventa poi parte strutturale ed è presenza indispen-sabile al suo dispiegarsi.L’identità, secondo alcuni autori, sarebbe di per sénarrativa, perché noi ci strutturiamo proprio rac-contandoci e perché noi e la nostra storia siamo anostra volta parte di altre storie, che già esistono.Ci sono molte storie che possono essere raccontate,a seconda di chi le narra e del punto di vista che sisceglie per raccontarle. Il nostro racconto, quellocompiuto in prima persona, rappresenta un puntodi partenza, che può essere integrato, arricchito ocambiato nel confronto con altre voci. Il racconto rivestirebbe anche una funzione di rico-struzione e ristrutturazione della personalità làdove ci sono identità che sono state danneggiate, avolte anche dalle storie che le hanno vincolate astereotipi e che chiedono di essere per questo rivi-sitate: gli stereotipi possono essere cambiati, viola-ti anche nella loro struttura marginalizzante o pena-lizzante, e così l’immagine letteraria del folle o lastoria clinicamente corretta possono essere rirac-contate, attraverso delle contro-storie. Nelle con-trostorie c’è lo spazio per l’espressione di nuovemetafore, che possono rappresentare la nuova posi-zione che si assume, in particolare dal momento

Io mi racconto, tu mi comunichiMetafore e immagini nell’esperienza della malattia

LUCIA GALVAGNI

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che dopo la diagnosi di una malattia grave ilmondo si trasforma, in termini non solo fisici, maanche morali ed esistenziali.È stato sottolineato che il significato e l’identità siacquisiscono anche cercando di definire un’imma-gine coerente della malattia e per far questo si puòricorrere a generi narrativi diversi, quali il raccontodella propria vita, gli aneddoti, il racconto di uncaso, i miti o le metafore. Nel raccontare storie sipuò attuare anche una condivisione delle esperien-ze, comunicando la propria personale vicenda, e apartire da questi diversi racconti è possibile poi farincontrare le esperienze individuali e collettive:tale condivisione può già rappresentare un percorsoterapeutico.Va detto che in certi casi, soprattutto nei casi dimalattie contestate, incerte o rare, come la faticacronica o il dolore cronico, la narrazione, il raccon-to e la condivisione delle esperienze possono esse-re molto importanti, e possono diventare una viaprivilegiata per la cura: per i pazienti un confrontocomune può rivelarsi essenziale, perché esse almomento attuale rimangono difficili da spiegare eda interpretare. Le storie aiutano anche a coltivare la sensibilitàmorale, e a migliorare la percezione morale, per-mettono di chiarire e di comunicare le ragioni dellescelte, a noi stessi e agli altri, di esprimerci e direimpostare la nostra esistenza secondo una diversaprospettiva.Perché la narrazione può risultare significativaanche rispetto alla dimensione morale e all’etica?C’è un legame profondo tra le dinamiche narrativee comunicative e il piano morale: i momentidescrittivi di una storia sono ricchi di indicazionimorali, intese soprattutto come la prospettiva che lepersone hanno sulla vita. La metafora, in forza del proprio “dire qualcosa inluogo di qualcos’altro”, si trova a poter veicolaresignificati che sarebbero altrimenti destinati arestare non detti o inespressi. C’è sempre unacomunanza profonda tra l’esperienza della personae le immagini che questa può scegliere come pro-prio riferimento nelle fasi di cambiamento e transi-zione, tra le quali si colloca anche la malattia. Ipazienti, se interrogati, raccontano quasi semprevolentieri la propria storia. Soltanto alcuni chiedo-

no di evitare di parlare di una situazione che èmolto negativa e che desiderano per questo soloallontanare: anche in questo caso, in realtà, a voltesi utilizza un’immagine, quella dell’allontanamen-to o della separazione.Sono molte le metafore e le immagini utilizzate: visono alcune immagini che riflettono serenità epositività, quando non addirittura speranza, chepotrebbero ad esempio indicare una condizione diaccettazione della malattia o di convivenza conessa, mentre altre immagini riflettono immedita-mente la negatività dell’esperienza, o il suo caricoemotivo e morale. Alcune di queste metafore sono metafore di movi-mento: il viaggio, la corsa, il viaggio spirituale, ilballo.Nei racconti viene spesso nominata la famiglia e inquesti casi le viene riconosciuta una funzione posi-tiva, di risorsa, sostegno, accompagnamento: sem-bra che la relazione giochi un ruolo essenziale,anche rispetto alla nuova condizione che si stavivendo.Una differenza significativa è giocata dalla dimensio-ne temporale della malattia: se una malattia è acuta ebreve, se si è stati sottoposti ad operazione, se il dolo-re è intenso l’attenzione è molto concentrata su di untempo limitato, come se il momento presente assor-bisse l’intera persona (manca ad esempio il sensodella propria storia, sono molto limitati i riferimentiad eventi del passato anche recente o del futuro piùprossimo). Nel caso invece di situazioni croniche, lepersone manifestano di essere attente alla ricerca diun modo di convivere con la malattia e nei raccontitornano più di frequente le metafore del viaggio. In alcuni casi dalle metafore emergono immaginisociali della malattia (come nel caso di una donnaafricana malata di Aids che dice di sé “Non ero unmostro”), o le autorappresentazioni della malattia,per come la si percepisce a livello esistenziale oper come essa si manifesta da un punto di vistaorganico, o ancora si possono individuare le auto-rappresentazioni simboliche che di sé e della pro-pria funzione formulano i curanti.Numerosissime sono le metafore utilizzate per par-lare della morte prossima: spesso i pazienti parlanodi una partenza, dicendo “Sono pronto per partire”,oppure “Ho preparato la mia valigia”, “Ho bisogno

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di andare a casa”. Talvolta essi dicono anche diaver l’impressione di avere fretta e che non ci siapiù tempo. In altri casi descrivono la morte comeun prendere il volo, e la rappresentano con l’imma-gine dell’albatros.I curanti raccolgono moltissime di queste narrazio-ni, a volte pacate, altre volte molto dinamiche eviolente. Molte sono anche le metafore che si incontrano nellaletteratura e nella poesia per parlare della malattia:David Maria Turoldo alla fine della sua vita, nellepoesie raccolte in O sensi miei, parla della sua malat-tia, un cancro, come del “drago che è in me” e lapoetessa americana Flannery O’Connor descriveva lasua malattia come “un cane pazzo”. Non rimane però soltanto letterario l’interesse chequeste diverse immagini possono avere. Esse pos-sono rivelarsi come uno strumento molto particola-re della narrazione di una storia o di un’esperienzadi malattia anche in una prospettiva morale.Nell’esperienza della malattia, dopo il suo inizio ela sua diagnosi, di frequente il paziente ridefiniscequel che rappresenta il suo bene. In questo tempopossono cambiare infatti sia le sue priorità sia lasua visione della vita, talvolta anche la visione delmondo, poiché l’esperienza che la persona stavivendo porta a riconsiderare le prospettive di vitae a ridefinire le proprie prorità.La creatività etica, intesa come la nostra capacità dirimodellare la nostra propria esistenza, sembraessere in gioco nel tempo e nell’esperienza dellamalattia, e quindi sembra giocare un ruolo rilevanteper il paziente, innanzitutto, ma anche per il curan-te. Mediante le metafore è possibile osservare icambiamenti morali che il paziente, in quantoagente morale, sta vivendo e in tal modo è possibi-le anche per i curanti entrare in relazione ed incomunicazione in maniera più profonda. La narra-zione infatti richiede per definizione di entrare inuna dinamica intersoggettiva e di esercitare in taledirezione ascolto e attenzione, che rappresentanogià una prima forma di cura.Nel momento in cui si devono affrontare e gestiregrandi cambiamenti e a volte anche trovare unanuova posizione nel mondo, la narrazione può gio-care un ruolo determinante e fornirci strumentiadatti ad affrontare la traversata del guado.

Bibliografia

Pia H. Bülow, Sharing Experiences of Contested Illness by Storytel-ling, in “Discourse and Society” 1 (2004), pp. 33-53

Rita Charon, Narrative Medicine. Honoring the Stories of Illness,Oxford University Press, New York 2006

Byron J. Good, Narrare la malattia. lo sguardo antropologico sulrapporto medico-paziente, Edizioni di Comunità, Torino 1999

Hilde Lindemann Nelson, Damaged Identities, Narrative Repair,Cornell University Press, Ithaca and London 2001

Paul Ricoeur, La metafora viva, Jaca Book, Milano 1976

Lara Stern, Laurence J. Kirmayer, Knowledge Structures in IllnessNarratives, in “Transcultural Psychiatry” March 2004 (2004), pp.130-142

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In questo caso il solo approccio biomedico è insuf-ficiente, poiché sono molteplici gli aspetti in gioco:le aspettative, i bisogni, le rappresentazioni delpaziente. Non solo: il contesto sociale, le informa-zioni spesso non corrette o “miracolistiche” deimedia e le false credenze spesso hanno presso ilpaziente più credito delle informazioni fornite dallefigure sanitarie.Il diabete mellito rappresenta un modello per lagestione delle malattie croniche, e come si puòevincere dalla letteratura scientifica, molti sono statigli sforzi dei diabetologi per mettere a punto le stra-tegie di cura più efficaci.Uno dei maggiori esperti nella gestione delle malat-tie croniche è il prof. Jean-Philippe Assal di Gine-vra, il cui Centro è referente per l’OMS.Secondo il prof. Assal, per poter correttamenteaffrontare e gestire la malattia cronica, è fondamen-tale applicare un approccio bio-psico-sociale epedagogico, ponendo al centro della cura il pazien-te, che deve diventare primo attore nella gestionedella malattia (schema 2).

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La maggior parte delle malattie, sebbene sia curabiledal punto di vista medico, non è ancora guaribile eciò rappresenta, per coloro i quali ne sono affetti, l’in-gresso in una condizione di cronicità, caratterizzatada lunga durata e da possibili aggravamenti dellostato di salute.Anche per questo, nelle malattie croniche l’annunciodella diagnosi e delle limitazioni legate al trattamentoè un momento estremamente delicato a cui va dedica-to tempo e un’attenzione particolare.A livello biomedico la capacità di identificare lamalattia è una sorta di vittoria perché permette almedico di prescrivere il giusto trattamento. Questoapproccio è sufficiente nel caso della malattia acuta,dove il trattamento è temporizzato, ha un limite, oltreil quale si ha la guarigione. Tutto ciò facilita la “com-pliance” del paziente, l’aderenza del paziente al tratta-mento.Molto diversa è la diagnosi di una malattia cronica,da cui il paziente non guarisce, ma necessita di uncontinuo trattamento, che dura per tutta la vita e cheè fondamentale per la sopravvivenza, per evitare lecomplicanze e il peggioramento dello stato di salute(schema 1).

L’approccio al malato cronico: esperienze in diabetologia

EMANUELA ORSI

MALATTIA ACUTA

INSORGENZA DI SEGNI E DI SINTOMI

ITER DIAGNOSTICO

FORMULAZIONE DELLA DIAGNOSI

TRATTAMENTO

CRONICIZZAZIONE

EVOLUZIONE VERSO COMPLICANZE CRONICHECON PERDITA GRADUALEDELLO STATO DI SALUTE

GUARIGIONE MORTE

TRATTAMENTOPER TUTTA LA VITA

MALATTIA CRONICA

(schema 1)

APPROCCIO BIO-PSICO-SOCIALEE PEDAGOGICO

IL MEDICO AIUTAIL PAZIENTE AD ESPRIMERE:

• SUE IDEE PRECONCETTE• ATTESE• TIMORI

• SUA ESPERIENZA

GRUPPO SOCIALE

(schema 2)

MEDICO

MEDICO

PAZIENTE

DIAGNOSIE TRATTAMENTO

BIO-PSICO-SOCIALE

CONOSCENZEPSICOSOCIALI

CONOSCENZEBIOMEDICHE

SEGNI ESINTOMI

ASSENZA

DISTURBIOBIETTIVI

DISTURBISOGGETTIVI

MALATTIAPAZIENTE

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Se si sposta l’attenzione dalla malattia al pazientecome persona, è necessario più che sommergere diinformazioni, dare uno spazio di ascolto, di espres-sione, di riflessione. Solo così è possibile iniziare ilpassaggio verso la ristrutturazione della quotidia-nità. Bisogna ricordare inoltre che, quando viene fattauna diagnosi di malattia cronica, il paziente attra-versa le fasi psicologiche di adattamento allamalattia, che sono riconosciute come rifiuto onegazione, collera, negoziazione, depressione,accettazione: è necessario riconoscere in che fasesi trova il paziente, per applicare l’approccio piùcorretto ed utile.Nella fase iniziale, l’obiettivo principale è quellodi entrare in contatto col paziente, ponendo lebasi alla relazione terapeutica, e di dare le pocheindicazioni che permettono al paziente la soprav-vivenza (es. come praticare l’iniezione di insuli-na, come trattare l’ipoglicemia..); successivamen-te si pone il problema dell’accompagnamento neltempo, durante il quale possono intervenire nuovicambiamenti e rendersi necessarie importantimodifiche terapeutiche e nuove ristrutturazionidello stato di salute.In questa fase il terapeuta deve continuamentechiedersi:- se viene capito dal malato- se il malato trova difficoltà nel seguire la suacura- se comprende appieno le aspettative e i timori

del malato- se comprende appieno le rappresentazioni della

sua malattia e del suo trattamento.L’educazione terapeutica è lo strumento fonda-mentale per il curante ed il paziente, nella gestio-ne comune della malattia cronica, e deve essereapplicata fin dalla diagnosi. Rappresenta con ladieta, l’esercizio fisico e la terapia farmacologica,uno dei pilastri per la cura del diabete.Nella definizione dell’OMS, essa implica attivitàorganizzate di sensibilizzazione, d’informazione,di apprendimento all’autogestione, di sostegnopsicologico riguardo la malattia, il trattamentoprescritto, le cure, il quadro ospedaliero, le infor-mazioni relative all’organizzazione e i comporta-menti di salute e malattia (OMS - 1998).

L’obiettivo è quello di fornire al paziente corrette edaggiornate informazioni sulla malattia (sapere), leterapie, i controlli necessari, le complicanze e laloro prevenzione e gestione; inoltre il paziente deveessere addestrato (saper fare) a gestire praticamenteed autonomamente la terapia e ad effettuare l’auto-controllo. Tutto ciò permette al paziente, attraversoun cambiamento permanente del proprio stile divita (saper essere), di gestire nel quotidiano la pro-pria condizione, attraverso scelte corrette e consa-pevoli, in autonomia e nella piena accettazionedella malattia.L’educazione terapeutica prevede la realizzazionedi interventi individuali o in gruppo.Attraverso la identificazione di obiettivi, metodolo-gia e verifica, vengono strutturati percorsi educativispecifici.L’esperienza diabetologica in campo educativo èiniziata da molti anni: Elliot Joslin già negli anni‘20, dopo la scoperta dell’insulina, capì che era fon-damentale che il paziente venisse istruito per rende-re efficace la terapia insulinica, e fondò a Boston laJoslin Clinic in cui l’aspetto educativo rivestiva unruolo fondamentale nella cura del diabete mellito.In Italia, le prime esperienze risalgono agli anni’70, e all’interno della Società Italiana di Diabeto-logia nasce il GISED, Gruppo di Studi per l’Educa-zione nel Diabete.Presso l’U.O. di Endocrinologia e Malattie Meta-boliche della Fondazione sono state organizzate leattività di diabetologia e obesità, tenendo comebase fondamentale l’attività educativa, sia indivi-duale che di gruppo.In particolare, la gestione della malattia diabeticaviene effettuata dal team diabetologico, costituitoda diabetologo, infermiere, dietista e dallo stessopaziente. Ogni membro del team ha un proprioruolo, che permette di rendere più completo possi-bile l’approccio alla malattia.Per l’approccio educativo individuale è statamessa a punto una Istruzione Operativa, contenen-te gli obiettivi informativi e di addestramento pra-tico, e la verifica prevista con il questionario diconoscenza, la griglia osservazionale per l’ adde-stramento pratico e la check list generale.Per l’educazione terapeutica in gruppo, è attivauna collaborazione per una ricerca multicentrica,

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coordinata dall’Università degli Studi di Torino,per la validazione del sistema di Group Care inpazienti diabetici di tipo 2 non complicati. Nellapratica, si tratta di uno studio randomizzato e con-trollato, in cui viene valutata l’efficacia dell’ap-proccio di educazione terapeutica in gruppo, conmetodologia interattiva, sui parametri metabolici,la qualità di vita e le condotte di riferimento. I risultati ottenuti a 5 anni dimostrano che nelgruppo trattato rispetto ai controlli migliorano ilcontrollo metabolico, la qualità di vita e le cono-scenze rispetto alla malattia e che tali migliora-menti permangono nel lungo termine, a differenzadi quanto accade nel gruppo di controllo, cheperde i benefici inizialmente ottenuti.L’educazione terapeutica non può essere improv-visata, e gli operatori devono essere formati perpoterla applicare ai pazienti. Richiede la conoscenza e l’applicazione di strumentiche provengono da discipline come la psicologia e lapedagogia, per ottimizzare l’apprendimento nell’adul-to (andragogia): spesso queste conoscenze non fannoparte del bagaglio culturale dell’operatore sanitario,che deve acquisirle in altri ambienti. Da ultimo, è fondamentale lavorare sull’aspettomotivazionale, sia del paziente che dell’operatore. Il confronto quotidiano con la malattia, che nonguarisce, e comporta la messa in atto di comporta-menti di controllo continuo della propria condizio-ne di salute (iniezione di insulina, pratica dell’au-tocontrollo della glicemia capillare, ecc.), nonchélo sviluppo delle complicanze, mettono il pazientein una condizione di stress e di sfiducia nelle pro-prie capacità, che può sfociare nell’abbandonodella terapia e dei controlli.L’educazione terapeutica in gruppo permette ilconfronto di esperienze e la correzione di errori inun contesto privo di giudizio e può essere un vali-do strumento per rinforzare la motivazione delpaziente a curarsi.L’operatore sanitario, peraltro, deve continuamen-te fare i conti con l’impossibilità a guarire ilpaziente, con i numerosi insuccessi terapeuticilegati alla malattia cronica e spesso con il limitatoriconoscimento per il proprio valore professionale,condizioni che facilitano lo sviluppo della sindro-me del burnout.

Il confronto con altri operatori, il lavoro in team el’acquisizione di nuove strategie di lavoro possonocontribuire alla rimotivazione del terapeuta.

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Bibliografia

A Lacroix , JP Assal: Educazione terapeutica dei pazienti. Ed Miner-va Medica 2005

Trento M et al.: A 5-year randomized controlled study of learning,problem solving ability and quality of life modifications in peoplewith type 2 diabetes managed by group care. Diab Care 27:670-75,2004.

Trento M et al: Lifestyle intervention by group care prevents deterio-ration of type 2 diabetes: a 4-year randomized controlled clinicaltrial. Diabetologia 45:1231-39, 2002

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Visita e cura ai malati della vista e interventi diversi in un’antica stampa (dalle Civiche Raccolte Bertarelli)

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Nell’arco di pochi decenni, la medicina è passatada doversi occupare prevalentemente di proble-matiche acute nelle quali è fondamentale la capa-cità di organizzare interventi molto intensi e limi-tati nel tempo, con una buona collaborazione direlativamente pochi specialisti “on the spot”, adoversi confrontare con una vera e propria“esplosione” di patologie croniche e complesse,che pongono trasversalmente e a lungo nel tempouna molteplicità dei problemi assistenziali chesono sempre meno di pertinenza esclusiva di sin-gole professionalità e sempre più spesso richie-dono risposte multispecialistiche, multiprofessio-nali e soprattutto negoziali.L’elemento critico ai fini di una buona qualitàdell’assistenza diviene quindi il coordinamento el’integrazione tra servizi e professionalità distintechiamati a intervenire nei diversi momenti di unostesso percorso evolutivo della patologia, attra-verso quelle che vengono chiamate “reti assisten-ziali integrate”. La struttura e la qualità della reteè uno degli elementi cruciali dell’assistenza, mala parola “rete” è ampiamente abusata, e spessointesa in modi molto diversi. La rete può esseresolo dei clinici, magari anche organizzata topdown, o invece includere familiari e utenti. Puòessere maggiormente gerarchica (come una“piramide” egiziana, o in parte come la rete “huband spoke” di cui parleremo poi, in cui chi sta al“centro” ha “responsabilità-privilegi-autorizza-zioni d’accesso” man mano maggiori rispettoalla periferia), o addirittura può diventare una“trappola” come per le reti per le aragoste. Ilproblema maggiore oggi è capire quale tipologiadi rete sia più funzionale per ciascuna diversatipologia di problematica assistenziale, e soprat-tutto quali siano le strategie che permettono dicostruire, sostenere e fare crescere i diversimodelli possibili.

Uno dei modelli di rete che sta prendendo mag-giormente piede è quello detto “hub & spoke”(mozzo e raggio), caratterizzato dalla concentra-zione dell’assistenza di elevata complessità incentri di eccellenza (centri hub) supportati da unarete di servizi (centri spoke) cui compete la sele-zione dei pazienti e il loro invio ai centri di riferi-mento, quando una determinata soglia di gravitàclinico-assistenziale viene superata. I pazientivengono poi rinviati alla periferia per il prosegui-mento delle cure. L’idea è che per dare un’assi-stenza di qualità adeguata sia necessario avereesperienza del trattamento di un “numero minimodi casi”, e che il raccordo continuo con la perife-ria consenta nel tempo la strutturazione di comu-ni strategie di intervento. Si tratta di un modellorealizzato positivamente in diverse regioni italia-ne ed in particolare in Emilia Romagna per quan-to riguarda l’assistenza cardiologica e cardiochi-rurgica, neurochirurgica, le gravi cerebrolesioniacquisite, la talassemia ecc. Benché si tratti di un modello molto interessantee assolutamente funzionale in situazioni cliniche,quali quelle indicate, con una forte attenzionealla necessità di aumentare la cooperazione tra icentri anziché la competizione, non appare suffi-ciente per la gestione di situazioni di complessitàpiù elevata, nelle quali sia necessario un maggiorlivello di partecipazione tra i centri e con gliutenti e le famiglie. Nell’ambito delle possibili modellizzazioni dellereti assistenziali, la disabilità complessa e malat-tia rara in età evolutiva, con presenza di compro-missione neuropsichica, può forse rappresentareun buon esempio per la riflessione.Si tratta infatti di un’area clinica variegata, nellaquale sono presenti diversi elementi di comples-sità. Da un lato, la scarsa incidenza statisticacomplessiva fa sì che le competenze necessarie

Verso quali modelli di “rete” nella medicina dellacomplessità?

ANTONELLA COSTANTINO

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per alcuni aspetti della diagnosi e della cura deb-bano certamente essere concentrate in singolicentri di eccellenza, e non possano essere dispo-nibili in modo omogeneo in tutte le strutture sani-tarie regionali; dall’altro è necessaria la continuagestione delle conseguenze della “malattia” dibase nel tempo, sia in termini strettamente sanita-ri (la riabilitazione, la grave scoliosi, la disfagia,le deformità ortopediche conseguenti, la depres-sione, il disturbo di comunicazione, l’epilessia, lepolmoniti ricorrenti, i problemi cardiaci, il distur-bo visivo ecc.) che di abilitazione (sociale e sani-taria) del contesto di vita. La realtà di un bambi-no con disabilità grave e complessa è altamentemultiproblematica e sono contemporaneamentepresenti intorno a lui più centri e più professiona-lità, con diversi punti di vista, che possono impli-care obiettivi diversi se non opposti. Il modo concui il bambino deve essere tenuto seduto in car-rozzina per minimizzare il rischio di scoliosi puòessere molto diverso dal modo necessario perconsentirgli di utilizzare al meglio gli arti supe-riori per giocare e comunicare. La terapia riabili-tativa basata sulle migliori evidenze proposta nelcentro di eccellenza può non essere adatta quan-do quel bambino torna nel territorio dove vive edove deve poter essere effettuata la sua presa incarico di lungo periodo. Secondo “l’InternationalClassification of Functions” dell’OMS, la perso-na affetta da una patologia si caratterizza per varipatterns di funzionamento in diversi contesti, inbase al fatto che gli elementi ambientali agiscanoda barriere o da facilitatori. Per mettere incampo una presa in carico neuropsichiatrica e ria-bilitativa adeguata, che vada a ridurre per quantopossibile la disabilità della persona, è quindinecessario non solo essere formati nell’applica-zione delle diverse terapie riabilitative (formazio-ne assai diversa da quella necessaria ad esempioper la gestione di terapie farmacologiche), maanche descrivere in dettaglio le componenti delfunzionamento di quel bambino, analizzare leinterazioni ambientali, in particolare se esse agi-scono da barriere o da facilitatori per la persona,ed a questo punto strutturare interventi indirizzatia tutti i fattori in gioco. Se l’importanza della ria-bilitazione e dell’educazione per il bambino stes-

so è intuitiva ed evidente, meno scontata è l’im-portanza di “educare l’ambiente” alla sua acco-glienza, attraverso una vera e propria “trasmissio-ne di competenze specifiche” per adattare l’am-biente alle necessità di quel bambino e supportarela sua qualità di vita e quella della sua famiglia.In un ambito così complesso e di lungo periodo,con in più un alto rischio che il bambino e la suafamiglia vengano a trovarsi al centro di conflitticreati dai punti di vista dei diversi operatori, èmolto importante un cambiamento di modelloanche relativamente alle modalità di erogazionedegli interventi, nella direzione di un approcciopartecipato tra i clinici e con i familiari (e quandopossibile anche con i ragazzi) all’interno delquale poter definire insieme alla famiglia le prio-rità e gli obiettivi significativi nel tempo. Il numero di s-nodi della rete è quindi estrema-mente elevato (è come se si intrecciassero diversiHub intorno allo stesso bambino: il centro dieccellenza per la diagnosi e il follow up della sin-drome genetica rara XYZ, il centro di eccellenzaper la gestione del problema W, trasversale a piùpatologie, e così via fino anche a contarne alcunedecine), la loro “gerarchia” molto meno definita ela sequenza temporale tra di essi spesso contem-poranea e prolungata. Ogni nodo diventa quindiHub per una cosa e Spoke per un’altra, e partico-larmente forte è l’esigenza di continua trasmis-sione di competenze in modo biunivoco tra i cen-tri e con le famiglie. Va ricordato che in unmodello partecipato di intervento tra i nodi sonoa pieno diritto inclusi il bambino e la famiglia.L’intreccio delle diverse complessità rende peròpoco agevole la conoscenza dei centri di riferi-mento più adeguati per i diversi aspetti sanitari eassistenziali, sia per gli utenti sia a volte per imedici stessi e tra i centri, e l’accesso ai servizi èspesso difficoltoso. In modo analogo, l’esistenzadi servizi per la successiva presa in carico nel ter-ritorio, sia sanitari (servizi di neuropsichiatriainfantile o in alcuni casi servizi riabilitativi) chesociali (servizi disabili ecc.) è poco nota, sia intermini di strutture esistenti, sia di funzioni, spe-cificità e obiettivi, e le competenze e “buone pra-tiche” di tali strutture sono spesso sottovalutateproprio a causa del loro essere “periferiche”.

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Verrebbe da immaginare che la rete più consonasia una rete che assomiglia alle reti neurali, di cuimolto ora si parla ma ancora poco si sa, in cuiogni snodo può avere competenze maggiori su uncerto aspetto rispetto agli altri, ma contempora-neamente sempre avviene anche il contrario, e incui vi è un continuo scambio, apprendimento epotenziamento reciproco. Per il funzionamento diun modello di rete di questo tipo non è sufficientemettere in relazione i centri, migliorando leattuali modalità di comunicazione, informazione,relazione sul caso. È necessaria l’individuazionedi modalità che consentano di tenere continua-mente aperte e attive le connessioni tra i nodi,affrontando in modo adeguato sia gli aspetti con-nessi alla gestione amministrativa (legate allapresa in carico formale) che quelli della gestioneclinico-assistenziale (legate al sistema delle deci-sioni e dei comportamenti dei professionisti).Perché in realtà la “vita” delle reti è data piùdalla qualità e quantità delle connessioni (e dallaconseguente necessità di garantire la loro “manu-tenzione” e il loro “nutrimento”) che dai nodi.

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Asterisco

Frammenti di un Vangelo apocrifo

Felice colui che non insiste nell'aver ragione,perché nessuno ha ragione o tutti l'hanno.Beati i mansueti perché non consentonoalla discordia.Beati coloro che non hanno fame di giusti-zia, perché sanno che la nostra sorte avver-sa o benigna è opera del caso, che è inscru-tabile.Beati coloro che soffrono persecuzione acausa della giustizia, perché ad essi impor-ta più la giustizia che il loro destinoumano.Che la luce d’una lampada si accenda,anche se non c’è alcuno a vederla. Dio lavedrà.Non odiare il tuo nemico, perché se così faisei in qualche modo suo schiavo. Il tuoodio non sarà mai migliore della tua pace.Se la tua mano destra ti offenderà, perdona-le; tu sei il tuo corpo e la tua anima ed èarduo, o impossibile, stabilire la frontierache li divide. Io non parlo di vendette né di perdoni; ladimenticanza è l'unica vendetta e l'unicoperdono.Fare il bene al tuo nemico può essere operadi giustizia e non è arduo; amarlo è impre-sa d'angeli e non di uomini.Cerca per il piacere di cercare, non perquello di trovare…Non giudicare l'albero dai suoi frutti nél'uomo dalle sue opere; essi possono esserepeggiori o migliori di quelli.Nulla si edifica sulla pietra; tutto sulla sab-bia, ma noi dobbiamo edificare come se lasabbia fosse pietra. Felici i coraggiosi, coloro che accettanocon animo uguale la sconfitta o la palma.

JORGE LUIS BORGES

(Elogio dell'ombra, Einaudi, 1971)

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Purtroppo, nell’ambito della psicopatologia infanti-le, assistiamo ancora oggi all’uso improprio di alcu-ne strategie terapeutiche che contrastano profonda-mente con le più importanti innovazioni introdottedalle neuroscienze e dalla psicologia dello sviluppo.La traduzione nella pratica clinica, diagnostica eterapeutica di queste nuove concezioni è indubbia-mente ancora in divenire, tuttavia è indispensabileattingere da questo nuovo sapere per rendere inostri interventi clinici più efficaci. Un primo progresso alla comprensione delle dina-miche che sottendono lo sviluppo è stato portatodalla radicale revisione del concetto di “funzione”introdotto dalla scuola neurofisiologica russa, chepure conservava ancora l’idea di organizzazionegerarchica così come espresso da Luria (1967): “lefunzioni psichiche superiori si organizzano sullabase di processi percettivo motori più elementari”.Queste concezioni erano in sintonia con il modelloproposto dalla psicologia genetica (Piaget, 1936),che vedeva lo sviluppo come il risultato di unasequenza di tappe che partivano dalle percezionisenso-motorie più elementari, tipiche del neonato,fino a giungere al raggiungimento della capacità dipensiero: preoperatorio prima, poi concreto e infineastratto. Analogamente, il modello proposto dallapsicanalisi, interessato non tanto allo sviluppocognitivo quanto alle motivazioni pulsionali (Freud,1965), indicava il necessario susseguirsi di fasi disviluppo nel corso della vita dell’essere umano: unaprima fase orale, seguita poi da quella anale, edipi-ca, di latenza ecc. Nell’uno e nell’altro caso si trattadi descrizioni di comportamenti e di abilità che sisusseguono nel tempo, in modo così lineare e stabi-le da far ritenere che la patologia consista nell’arre-sto dello sviluppo all’uno o all’altro stadio o addi-rittura nella regressione a una fase precedente.Nell’ultimo decennio, l’evoluzione delle scienzebiologiche e psicologiche ha proposto schemi dina-

mici di maturazione differenti, in quanto vannooltre il progetto di evoluzione intrinseca e indipen-dente dall’ambiente, e, anzi, incorporano propriol’effetto che l’ambiente esercita sul potenzialeumano.La trasformazione sostanziale del modello di svi-luppo riguarda appunto un capovolgimento delleconcezioni che stanno alla base delle modificazionianatomiche e funzionali del Sistema Nervoso Cen-trale in relazione alla crescita. Si è passati cioè daun modello di funzionamento in cui a uno stimolopercepito (input), segue, attraverso un’opportunaelaborazione, l’emissione di un output, a una conce-zione molto diversa in cui è lo stesso evento psico-logico (l’attività mentale) a influenzare il modo dipercepire il mondo. In altre parole è stata data cit-tadinanza al bambino come attivo promotore delsuo sviluppo. Questa peculiarità del processo di apprendimentotrova la sua più alta interpretazione nella Teoria del-l’attività mentale basata su processi di selezione deigruppi neuronali (Edelman, 1991). Essa parte dalpresupposto che il Sistema Nervoso Centrale è pla-stico e adattabile, nel senso che la rete sinaptica(formata dalle varie cellule cerebrali, i neuroni) simodifica, momento per momento, in base all’espe-rienza, selezionando cioè quegli elementi dell’am-biente che vengono considerati, per così dire, i piùutili e significativi. Ciò accade già nell’embrione,dove tutto il repertorio di modificazioni neuronali(divisioni cellulari, morte di cellule, estensione oeliminazione di prolungamenti delle cellule) avvie-ne come risposta a stimoli portati dall’ambientebiologico in cui l’embrione è immerso. Dopo lanascita, il sistema nervoso si modifica ulteriormen-te, e le reti neurali si organizzano e si stabilizzanosulla base di una selezione operata proprio a partiredalle esperienze che il bambino fa in relazioneall’ambiente (selezione esperienziale): le sinapsi

Nuovi orientamenti per capire e prevenirela psicopatologia dello sviluppo

ADRIANA GUARESCHI CAZZULLO

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mutano di intensità, alcune rinforzandosi e altreindebolendosi, e alcuni nuovi gruppi neuronali siformano in seguito a stimoli specifici come, peresempio, il linguaggio. Un’altra caratteristica interessante, suggerita sem-pre da Edelman, riguarda la capacità del cervellodi organizzarsi in ”mappe”, utili per riconoscere ecatalogare cose e avvenimenti. Anche in questocaso, le mappe si formano perché alcuni neuroni ealcuni circuiti vengono selezionati sulla base dell’e-sposizione a certi stimoli; esse possono mantenereun continuo dialogo fra di loro (mappe rientranti),in modo da conferire continuità all’esperienza.Questo è il motivo per cui la percezione dell’espe-rienza attuale è influenzata dall’esperienza passata,nel senso che il soggetto mantiene in memoria,associati ad alcuni eventi, quei significati affettivied emotivi che sono stati legati alle primissimeesperienze: con il ripetersi degli stessi eventi, o dieventi simili, il soggetto si trova ad esperire nuova-mente le stesse emozioni e affetti. Questa continuitàcostituisce la base della cronistoria, o meglio del-l’autobiografia, del bambino, la quale consente alclinico, in caso di patologia, di accedere ad elemen-ti preziosi ai fini terapeutici. Proprio queste caratte-ristiche del Sistema Nervoso Centrale e della mentedel bambino, che andiamo via via meglio compren-dendo, insegnano al clinico a prestare attenzionenon solo alle esperienze che sono state e saranno adisposizione del bambino grazie all’ambiente che locirconda, ma anche al temperamento del bambino eall’effetto che lui stesso esercita sull’ambiente. Se ci rappresentiamo questo processo dinamico disviluppo nell’arco della vita del bambino, possiamorenderci conto di quanto variabili e diversi possanoessere i percorsi dello sviluppo patologico, in rela-zione vuoi a fattori genetici, vuoi a quelli ambienta-li. È indubbia l’importanza del contributo che lagenetica ha portato e porterà in questo ambito distudi, tuttavia, poiché il DNA cellulare contiene unnumero limitato di informazioni, non tutti gli eventidello sviluppo possono essere controllati diretta-mente dai geni e pertanto l’esito dello sviluppodeve intendersi come il risultato dell’interazione trai geni e l’ambiente. Ciò significa che bisogna sem-pre tenere in considerazione l’azione reciproca trabambino e contesto, nel senso che lo stato dell’uno

influenza lo stato dell’altro secondo un “modellointerattivo” (Sameroff, 1996). Quando si parla di contesto e di ambiente, natural-mente si fa riferimento anche e soprattutto a chi siprende cura del bambino. In questo senso, la Teoriadell’attaccamento di Bowlby (1980) ha fornito unacornice teorica coerente ma anche elastica, in quan-to passibile essa stessa di ulteriori sviluppi. Il qua-dro teorico formulato da Bowlby fa riferimento astudi etologici e indica che fra il bambino e unafigura preferita, o meglio da lui “discriminata” frale altre (il cosiddetto “caregiver”), si stabilisce unlegame, una relazione di attaccamento come deriva-to del desiderio di vicinanza, del bisogno di una“base sicura”. D’altro canto, è proprio l’esperienzadi avere una base sicura a permettere al bambino disepararsi gradualmente dalla figura di accudimento,di esplorare con sicurezza, di diventare curioso diconoscere il mondo, e quindi di apprendere dall’e-sperienza.Le osservazioni seriali del comportamento del neo-nato e del bambino nei primi mesi di vita, condottedagli psicologi dello sviluppo, hanno sottolineatol’importanza dei processi di attenzione e di perce-zione, di selezione degli affetti e di memoria cheesprimono la versione personale dell’esperienza eche sono già identificabili in epoche molto precocidello sviluppo. Il neonato, infatti, è dotato allanascita di numerose competenze che lo rendonocapace di interagire attivamente con l’ambiente(Diamond A.,1990); per esempio, il bambino di dueo tre settimane è già capace di imitare espressionifacciali dell’adulto, oppure è in grado di riconosce-re con la vista un succhiotto bitorzoluto rispetto aun altro liscio con cui ha appena familiarizzato toc-candolo. Il bambino dimostra, quindi, di saper inte-grare le informazioni che provengono dai diversicanali sensoriali tanto da poter trasferire le informa-zioni visive in quelle motorie (come nel primoesempio) e quelle tattili in quelle visive (come nelsecondo esempio).Sappiamo oggi (Guareschi Cazzullo et al.,1998)che il bambino non ha bisogno di un periodo pro-lungato di maturazione per essere in grado non solodi registrare in memoria gli eventi percettivi e diprocedere nell’apprendimento, ma anche di provareemozioni che a loro volta incidono sull’apprendi-

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mento stesso: per esempio, un bambino la cui figuradi attaccamento sia una madre gravemente depres-sa, sarà esposto ad uno stato emotivo che inciderànon solo sul suo sviluppo affettivo, ma anche sullosviluppo cognitivo, cioè sulla sua capacità di pensa-re. Altrettanto precocemente, i bambini acquistanouna rudimentale capacità di attribuire stati mentali ase stessi e agli altri – ciò che Premack e Woodruff(1978) hanno chiamato Teoria della mente - e ini-ziano a capire che una mente può avere un’interfac-cia comune con un’altra, rappresentata da segnaliconvenzionali o comunque comprensibili. La rap-presentazione della realtà è quindi fondata sull’inte-razione fra sé, l’altro e il “mondo”.In questo contesto assumono particolare importanzai contributi più recenti della neurofisiologia cheriguardano il Sistema dei neuroni specchio (Rizzo-lati et al., 2004 e 2006), sistema che consente ilriconoscimento, a livello neuronale, dell’azione chel’altro sta compiendo. Gli autori infatti hanno rile-vato che l’osservazione di un’azione compiuta daaltri, attiva in colui che osserva le stesse strutturenervose coinvolte in colui che sta compiendo l’azio-ne osservata. I neuroni che vengono attivati “simul-taneamente” sono definiti “specchio” perché l’azio-ne osservata sembra venga riflessa, come in unospecchio, nella rappresentazione che l’osservatoreelabora della stessa azione, tanto che lo specificomeccanismo funzionale che la sottende viene defi-nito “simulazione incarnata”. La definizione “simu-lazione incarnata” sembra essere particolarmenteappropriata per descrivere l’effetto di esperienzeprecoci di affetti negativi che il bambino può speri-mentare sin dalla nascita, in relazione a stress biolo-gici o carenze affettive, esperienze queste che sem-brano “marcare” il soggetto, essere cioè tanto“incarnate“ nella memoria da risultare quasi indele-bili. Il fatto che l’effetto di tali memorie sulla mentedel soggetto sia spesso resistente alla terapia, sem-bra confermare ulteriormente questa ipotesi.Si intuisce quindi la grande apertura verso nuoveconoscenze avviate da queste ricerche. In particola-re, si stanno aprendo nuove prospettive per la cono-scenza dell’emergere del linguaggio nella specie edel suo sviluppo nel bambino. Inoltre, queste ricer-che sono di grande aiuto per la comprensione dellapsicopatologia, in quanto costringono il clinico a

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“... il bambino di due o tre settimane è già capace di imitare espressionifacciali dell’adulto...”

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Bibliografia

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Diamond A.: The development and neural bases of higher cognitivefunctions. Annales New York Academy of Sciences,1990

Edelman G.M.: Il presente ricordato (trad.it.). Rizzoli, Milano, 1991.

Freud A.: Normality and pathology in childhood. New York, Interna-tional Universities Press, 1965. Trad. it. Feltrinelli, Milano, 1969.

Guareschi Cazzullo A., Lenti C.,Musetti L., Musetti MC.: Neurolo-gia e psichiatria dello sviluppo. Cap.2 “Fondamenti della patologiadello sviluppo” MacGraw-Hill, pagg 9-16, Milano 1998.

Luria A.R.: Le funzioni corticali superiori nell’uomo. C.E. GiuntiUniversitaria, Firenze, 1967.

Piaget J.: La naissance de l’intelligence chez l’enfant. Neuchatel,Delachaux § Niestlé, 1936. Trad. it. Giunti e Barbera, Firenze, 1968.

Premack D.,Woodruff G.: Does the chimpazee have a theory ofmind? Behavioural and Brain Sciences, 4:515-526, 1978.

Sameroff J.: Modelli di sviluppo e rischio evolutivo, in Neanah C.H.Jr. (ed): Manuale di salute mentale infantile. Masson, Milano, 1996,pgg. 3-12.

Rizzolati G., Sinigaglia C.: So quel che fai. Il cervello che agisce e ineuroni specchio. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006.

prendere in considerazione funzioni fino a pocotempo fa relativamente trascurate in ambito diagno-stico, per esempio la memoria e l’attenzione. Un intelligente riferimento a questi criteri dovrebbeinnanzitutto farci molto riflettere sulla formulazionedella diagnosi di autismo, che ha subito una perico-losa inflazione in questi ultimi anni. In secondoluogo, dovrebbe farci altrettanto riflettere sull’usoimproprio di strategie terapeutiche che sono in pale-se contrasto con quanto continuiamo ad apprenderedello sviluppo del bambino sano. Per esempio, sitende ad esaltare alcune strategie terapeutiche (qualiad es. il Teach o la Comunicazione Aumentati-va/Alternativa - AAC)) in caso di ritardi o di deficitfunzionali, come ad esempio il ritardo del linguag-gio. Noi sappiamo invece che in età precoce il bam-bino ha ancora molte potenzialità di sviluppo, e chetali potenzialità sono condizionate dall’esperienzache deriva dalla sua interazione con l’ambiente.L’uso di modalità terapeutiche altamente strutturate,basate sulla ripetizione di stimoli privi di un signifi-cato relazionale e sull’uso pressoché esclusivo dimotivatori esterni, impedisce l’espressione dellepotenzialità del bambino. In effetti queste procedu-re terapeutiche, qualunque siano le variabili meto-dologiche privilegiate, tendono a incrementare larigidità del sistema stimolo-risposta secondo i cano-ni di una concezione ormai superata dello sviluppo.Facendo invece riferimento al dinamismo dei nuovimodelli che la ricerca ci propone, appare semprepiù opportuno attivare le funzioni generalizzatricidella mente, e ciò è possibile favorendo l’iniziativache il bambino esprime nel dare significato all’e-sperienza. Questo significa privilegiare la modula-zione dell’attenzione e degli affetti, la memoriadichiarativa e la comunicazione narrativa in un con-testo affettivo interattivo, rispetto alla scelta di atti-vare alcune funzioni specifiche e settoriali, comeaccade, ad esempio, con l’uso di tecniche compor-tamentiste o logoterapiche basate sull’esposizione astimoli parziali e sulla ripetizione di suoni alienatidal significato, i quali perciò rischiano di conferirealla funzione stessa (per esempio al linguaggioappreso in questo modo) un effetto a sua volta alie-nante.

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La civiltà del lavoro, che si traduce nell’assistenza organizzata ai diseredati e agli invalidi del lavoro. Particolare dell’opera scultorea“Il buon governo dell’istituzione ospedaliera” di Angelo Biancini, situata nel giardino antistante la sede amministrativa della nostra Fondazione.

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Questo articolo – sintetico di considerazioni ben piùampie - nasce dall’essere stato specialista ospedalieroprima e, negli anni più vicini e successivi agli studi indirezione e gestione della sanità, dall’aver lavoratoallo start up di Residenze Sanitarie Assistenziali(RSA), al fiancheggiamento dello sviluppo di varietipologie di servizi socio-sanitari e all’ideazione econcretizzazione di microprogetti di collaborazionecon l’Est Europa principalmente in campo sanitario. Tale retroterra professionale e culturale mi ha consen-tito non solo di conoscere teoricamente ma anche diesaminare nella pratica le diversità di configurazionegiuridico-normativa, di modalità profit non profit opubbliche di gestione (con le conseguenti inconcilia-bilità nella direzione), di standard strutturali tecnolo-gici e organizzativi, di competenze richieste, di pro-cessi, di potenziamento e certificazione della qualità,di clima interno e di aspettative dell’utenza, ecc.Ho studiato carte dei servizi, protocolli, procedure,linee guide, e mi sono occupato della loro elaborazio-ne sperimentando la fatica nel concepirli, nel concor-darli con gli organi di controllo istituzionali e nel con-testualizzarli, ovverosia adattarli a precisi contesti efarli accettare dal personale coinvolto. Insomma hoconstatato, in termini di fatica intellettuale psicofisicae relazionale, il peso organizzativo ed economicodella formalizzazione del lavoro per la salute. Nonchéla penuria di approcci comparati a tanta disuguaglian-za di servizi, pur unificati dallo scopo di assistenza esalute dei cittadini, e che sta alla base delle difficoltànell’attuazione di percorsi di continuità assistenziale edi interrelazione tra i servizi.Tutto ciò è stato lo sfondo sia d’esperienza sul camposia emotivo su cui recentemente si è innestato l’im-patto determinante di tre convegni, nel corso dei qualigran parte dei relatori ha proposto nuove batterie ditest valutativi della salute fisica mentale e relazionale,aggiornati diagrammi di flusso per la diagnosi e laterapia in linea con modernissime apparecchiature di

imaging o interventistiche, innovative forme di attua-zione verifica e certificazione della qualità nelle suemolteplici estrinsecazioni.Nel mentre i relatori parlavano, citando organismiinternazionali ed esperienze validanti realizzate all’e-stero, e avendo interpretato il loro tono assertivoquale pressante incitamento ad adeguarsi tutti e ovun-que al più presto alle novità, ho cominciato a chieder-mi seriamente quanti di loro avessero un’idea sistemi-ca delle proprie affermazioni. Intendo dire che sonorimasto perplesso se fossero in grado di comprenderele inferenze di quel che desideravano si attuasse sulpiano pratico e l’effetto domino - le successioni obbli-gate - che avrebbe investito tutti i componenti di unsistema. Forse, mi sono risposto interiormente, simuovono in un ambito di “ricerca di base”, studianotutte le possibilità evolutive di singoli elementilasciando poi a chi agisce nella realtà ordinaria di farea tempo debito le scelte sistemicamente più redditizie.Perché allora tanta malcelata fretta di indurre all’ade-guamento?In una di queste tre occasioni di aggiornamento, misono anche alzato per porre una domanda proprio neitermini appena detti anche se con maggior diploma-zia. Sorprendentemente ho ricevuto un applausoquasi generale dai molti professionisti della salutepresenti in sala e sicuramente da annoverare tra colo-ro che abitualmente debbono addossarsi la quotidia-nità del creativo pensiero altrui.Non ho potuto, ovviamente, esprimere in quelladomanda tutto quello che sto per dire.Personalmente e dopo tanto tempo trascorso sulcampo e non nei pensatoi sono arrivato alla formula-zione dei seguenti principi: I. I processi di erogazione di servizi alla persona sonotanto meno formalizzabili e standardizzabili quantomaggiormente implicano l’interazione -un rapportoscambievolmente dinamico sul piano operativo edemotivo - col destinatario.

La formalizzazione del lavoro per la salute

ANTONIO MONTELEONE

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II. I processi di erogazione di servizi alla persona checomportano una forte interazione col destinatariodevono lasciare al personale di contatto la possibilitàdi trovare soluzioni “creative” per meglio risponderealle esigenze individuali dei destinatari.III. In un processo di erogazione di servizi alla perso-na anche i servizi fortemente interattivi e quindimolto personalizzati, finché mantengono le stessecondizioni (setting, bisogni, personale) possono esse-re ripetitivi e quindi “standardizzabili” ad personam,ossia senza trascrizione formale ma con possibilità ditrasferimento verbale nel passaggio di consegne.Indubbiamente la “formalizzazione” metodica ecapillare migliora l’efficacia e la qualità hard dell’attocurativo e assistenziale, ma non lascia esprimere tuttala serietà di una competenza professionale, scarnificail rapporto umano e tutela poco e male il paziente ol’ospite dagli atti inutili e sproporzionati. Il “protocol-lo” a volte prevale sulla presa in carico totale dellasituazione concreta e sul consenso del beneficiario.La “formalizzazione” sempre più sistematica migliorarealmente (ma non quanto esaltato teoricamente) l’ef-ficacia dell’atto medico e assistenziale, ma può atte-nuare la peculiarità relazionale se distrae l’attenzioneverso una sequenza ideale di atti di cura o di assisten-za a scapito della presenza concreta, al cospetto di unerogatore di servizi, di un soggetto con la sua perso-nalità, temperamento, idiosincrasie, sensibilità allasofferenza e modalità di rapportarsi con gli altri.Ossia, le “formalità” nelle loro varie espressioni nonandrebbero ideologizzate, nel senso che non dovreb-bero essere trasformate in uno stampo rigido, entro ilquale forzatamente inserire la situazione concreta, ilconsenso del paziente e la propria opera. Detto diversamente: le norme razional-precettorialinei servizi alla salute sono per sé sole prive di unacompleta efficacia, perché costituiscono una dellecomponenti, anche se spesso non eludibile, di unsistema di servizi relazionali che deve generare l’u-mano (una condizione innanzitutto di dignità umana)in modo più complesso che non in passato.Le soluzioni devono essere di carattere“generativo”(1), tenere conto delle molte variabili“umane” che intervengono in una circostanza deter-minata e agire per il meglio in quel momento e inquel determinato setting, facendo tesoro della propriaesperienza e dell’istruzione ricevuta, essendo “autori”

del lavoro e sapendo che l’esito - successo o insuc-cesso - del proprio agire non è sempre prevedibilein anticipo e si può basare nel migliore dei casi solosu dati di probabilità statistica. Inoltre, la formalizzazione dell’azione operativapresuppone:A. Uniformità culturale, scientifica, sociale, econo-mica in tutte le aree geografiche in cui si vuole ren-dere vincolante tale formalizzazione. Ma... la velo-cità del progresso non è la stessa neanche in unamedesima regione (differenze tra provincia e pro-vincia) e ancor meno, perciò, in una medesimanazione (differenze tra nord, centro e sud).B. Una certa immutabilità del presente, per consoli-dare le esperienze che giustifichino prescrizioni eregole direttive. Ma... sempre meno tempo è neces-sario perché in qualche zona del mondo compaianoprogressi che rendono arretrato il già acquisito (2).C. L’assenza di imprevisti. Ma... una certa casualitàè insita nella condizione umana e il futuro ha comesuo tratto distintivo l’insolito, infatti si cerca di trac-ciare ipotesi di prevedibilità tramite scenari moltodiversi tra loro.D. L’egemonia della razionalità. Ma... viviamo inun epoca in cui sono i trends a dettare legge, e itrends si servono della razionalità per conseguireobbiettivi nati in ambito emotivo o passivamenteemulativo.E. Un operatore piuttosto passivo le cui azioni scor-rono lungo binari prestabiliti: più che pensare appli-ca. Ma... come si concilia ciò con l’autonomia e laconseguente responsabilità etica, scientifica, com-portamentale? Come si concilia ciò con la gover-nance clinica, che mette l’accento sull’autonomiaprofessionale non in senso astratto ma dei concretiprofessionisti agenti in un determinato ambiente?F. Costringere a una qualità elevata e costante. Ma...nei servizi alla persona la qualità non può esserepersistente. Realizzando essi fondamentalmente unincontro tra individui, conta molto l’esperienza vis-suta, in un tempo e in un luogo concreti, sia daparte di chi eroga il servizio sia da parte di chi nebeneficia. Esperienza legata a condizioni contingen-ti e soggettive, anche di malessere, di cattivo umoree di differenti criteri di apprezzamento delle circo-stanze, che danno luogo spesso a fenomeni di bene-ficiari di una medesima prestazione e quasi conco-

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mitanti ma in contrasto tra di loro nei giudizi sullaperformance dell’operatore.In altri termini, la ricerca esasperata di ridurre l’incer-tezza, imprigionandola non tanto in consigli di buoneprassi ma in precetti, si risolve molte volte in un tradi-mento della realtà. Non voglio a questo punto farmiseguace di Eraclito per sostenere che “tutto scorre” eil mondo vada tutto relativizzato, affermazioni cherappresenterebbero l’esaltazione dell’indeterminatez-za, ma unicamente rilevare l’importanza di mettered'accordo la regolazione delle esperienze con la legit-tima e auspicabile discrezionalità del professionista odi ogni altro operatore di fronte al caso singolo in unadefinita circostanza di luogo e di tempo.Prendo spunto esemplificativo dalle normative sullatutela della riservatezza. Normative che, costruite suun abbondante sottofondo di pessimismo circa laserietà di moltissime persone in molteplici ambientilavorativi, vogliono enunciare in termini cogenti edentro una ragnatela di procedure quella che per moltiaspetti, salvo alcuni elementi opportunamente sottoli-neati nella legge, è e deve rimanere buona educazio-ne. Se ne trae quasi la convinzione che si creino a tavoli-no regolamenti su situazioni ipotetiche, sovente pro-gettate da una fantasia pesantemente disfattista (“l’in-ferno sono gli altri!”: direbbe Sartre), segnata da unaburocrazia di stampo neosovietico e priva di percezio-ne pratica della vita. Sembra in certi momenti che siproceda con scarso rigore, vale a dire senza pienaconsapevolezza dei comportamenti umani e del dove-re d’incoraggiare l’autoresponsabilità, e valutandopoco o niente l’impatto in regime di routine di certesoluzioni del problema, che alla resa dei conti si rive-lano meno sostenibili del problema stesso. Piuttosto che considerare in che modo è abitualmenteaffrontata la questione in oggetto, quali sono i puntimaggiormente critici e i rimedi da proporre senza farcollassare l’impianto generale di uno o più servizi,con quali costi e benefici umani prima che economici,con quali interferenze rispetto ad altre esigenze ugual-mente importanti, ecc.; sembra si tenda a fare al con-trario, a studiare una situazione ideale ultima e decon-testualizzata che garantisca totalmente, sulla carta, ilpostulato di partenza e si definisce una regola, magaritramutabile in legge, per arrivarci. Non allontanandosi dal tema della riservatezza, non

c’è il rischio di abolire, perché proibito, un rapportoumanizzato? Non si mette a repentaglio tutto l'effettopositivo di un coinvolgimento familiare nelle cure enell’assistenza (la sbandierata alleanza terapeuticoassistenziale), al punto da poter preconizzare un futu-ro con pazienti da non poter vedere, né toccare e cui èdato il diritto di non rispondere anche se hanno decisodi porsi davanti a un professionista?Una simile visione procedurale intorpidisce l’intui-zione - anche quella clinica –, comporta una segmen-tazione del sapere e dell’agire con eterogenesi dei finida conseguire (efficienza, efficacia, appropriatezza,qualità dinamica, ecc.), in quanto viene meno la glo-balità della persona e del processo assistenziale–cura-tivo. Ciascun aspetto finisce con l’andare avantidisgiuntamente verso obiettivi di perfezione assoluta,così che tutto si colloca sul medesimo piano d’impor-tanza: è abolita la logica della gradualità e dell’inte-grazione che definisce le priorità (e a volte le necessa-rie pause) per ottimizzare l'assistenza globale e l'allo-cazione delle risorse.Va pure preso in considerazione che velocità e tassosociale d’innovazione sono più rilevanti nelle regionipiù avanzate, esattamente quelle più portate alla for-malizzazione, vale a dire a cristallizzare un presenteche proprio presso di loro dura poco. La propensione a formalizzare il lavoro per la salutesi spiega principalmente con i seguenti fatti:- Necessità da parte della Pubblica Amministrazionedi garantire e accertare legalità e livelli equi d’assi-stenza e cura, nonché definire e vigilare il buon usodella ridistribuzione della fiscalità generale. Lo siconsegue mediante standard e indicatori per l’autoriz-zazione e per l’accreditamento che tutelino e promuo-vano l’efficacia, l’efficienza, l’accessibilità, l’appro-priatezza nelle attività e prestazioni, la continuità assi-stenziale, la promozione di un sistema di qualità dina-mica in continuo esame e perfezionamento, la verificadell’attività svolta con le professionalità adeguate edei risultati raggiunti.- Ingresso nel mercato della salute di società di certifi-cazione della qualità, che variando costantemente cri-teri e indicatori legittimano la propria permanenza.Mi consento una breve digressione a questo riguardo.Tali società hanno una spiegazione genetica laddovesussiste una reale competizione nell’offerta e laSanità è quasi esclusivamente demandata a privati. In

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Italia, com’è stato detto al punto precedente, ledisposizioni e i controlli istituzionali impongono everificano seriamente avanzati e diversificati fattoriqualitativi. Per giunta talune Regioni incentivanocon remunerazione extra l’incremento della qualità:vedi a riguardo il DGR 17617 della Regione Lom-bardia sulla qualità aggiunta dell’offerta delle RSA.Pertanto il ricorso a società di certificazione ester-na, in particolare se effettuato da parte di strutturepubbliche o strettamente connesse col pubblico, dif-ficilmente si giustifica in termini di corretta gestio-ne e getta un alone di sfiducia sul corretto svolgi-mento di doveri e compiti istituzionali e sullasocietà scientifiche e le associazioni professionali dicui le istituzioni si avvalgono. Simile ricorso sipotrebbe giustificare in caso di offerta a forte inno-vazione o per contrastare viaggi fuori zona, ossiaper finalità prioritariamente di comunicazione omarketing e solo secondariamente di evoluzionequalitativa. - Il progresso incrementa ambizioni intellettuali econ esso la voglia di arrivare prima degli altri,anche nella formalizzazione scientifica e in quellaoperativa, senza considerare, per assenza o trascura-tezza della visione sistemica, in quali scenari - realio virtuali - tali traguardi si dispongono.- Il processo di entitlement e di empowerment deicittadini in ordine ai loro diritti, soprattutto nellearee a più elevato tenore di vita, ha portato a riven-dicazioni esasperate. Rivendicazioni rivolte nonsolo a ottenere cure adeguate, ma anche a vederecorrisposti i semplici desideri di star meglio, rispet-to a una condizione ritenuta insoddisfacente sullabase di parametri soggettivi e non oggettivi. Perfare contrasto a tali rivendicazioni, spesso sfociatein denunce, il medico utilizza la formalizzazionecome trincea da cui difendere le sue posizioni difronte ai giudici. Rinuncia all’autonomia professio-nale per sopportare minor onere legale.Infine bisogna sempre aver presenti le specificitàdei singoli servizi e non fare indebite trasposizioni.Riporto qualche esemplificazione qui di seguito.Nell’ospedale prevale l’utilizzo in un arco di tempobreve di un servizio più o meno complesso lungo unprocesso diagnostico e curativo a discrete o altetecnologie e preparazione professionale. Nella RSAprevale, in un arco di tempo che oscilla da almeno

un mese a vari anni, e in un ambiente a ridotta tec-nologia e competenze professionali snellite, la con-divisione esistenziale e la relazione significativa. Lì c’è un problema acuto da risolvere, qui c’è fon-damentalmente da seguire e accompagnare le realtàspicciole della vita quotidiana. Lì è la professiona-lità che è fruita e cura in un ambiente dove i profes-sionisti in attività sono di casa, qui la professiona-lità ha pochi, anche se importanti momenti, ed è laconvivenza con ospiti che si sentono a casa loro adover curare o accompagnare il decadimento psico-fisico. Lì si giustifica un discreto rigore proceduraleper conseguire rapidità, efficienza ed efficacia, quila rigidità si scontrerebbe con la quotidianità di vitada proteggere. Lì un’attitudine a chiudersi a guscio- senza esagerazione - protegge il sistema nei suoiingranaggi finalistici, qui occorre atteggiarsi adorganismo vivente in osmosi empatica con le perso-ne circostanti.In entrambe le circostanze precedenti non si devemai scadere nello “spazio della norma”, ossia unospazio comune tra molte persone dove anzichécreare relazioni, il cui senso principale sta nel ritro-varsi insieme come essere umani e il ruolo rimanein secondo piano, emergono invece scambi consu-mistici di beni e servizi senza mai superare l’inter-faccia tra la funzione sociale e l’ambito personale.Chi invece è consapevole di occupare uno “spaziodel valore o relazionale” è se stesso, narra se stessonel mentre svolge dei compiti, attivi o passivi chesiano, e non si arrocca dentro la gabbia dei doveri odei diritti instaurando con gli altri un mero linguag-gio procedurale senza reale interesse o rispetto esenza riconoscer loro valore professionale o di altrise stesso.

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Bibliografia

1 - Pierpaolo Donati, Il problema dell’umanizzazione nell’eradella globalizzazione tecnologica, in Prendersi cura dell’uomonella società tecnologica, EDIUN AsRui, Roma 2000

2 - Daniel Innerarity, El futuro ya no es lo que era, Nuestro Tiem-po n° 538, Aprile 1999

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Numerosi sono i compiti di un Ufficio Tecnico diun grande ospedale. Uno dei principali è dareattuazione agli interventi richiesti dalla DirezioneSanitaria, sia quelli necessari per l’adeguamentodelle strutture e degli impianti alla normativavigente e ai requisiti di accreditamento delle atti-vità sanitarie, sia a quelli relativi al miglioramen-to delle condizioni di sicurezza dei dipendentidell’Ospedale all’interno delle strutture in cuioperano.Deve, inoltre, assumersi la responsabilità del pro-cedimento di tutti gli interventi, di piccola o gran-de entità, dallo specifico intervento di manuten-zione, a progetti di più ampia complessità, finoalla demolizione ed alla ricostruzione di interipadiglioni.Si deve incaricare della funzionalità delle struttu-re edilizie, della condizione della circolazioneinterna e della segnaletica di sicurezza, di adottaremisure tecniche che non compromettano la salutedella popolazione e che non deteriorino l’ambien-te esterno.Individua i casi particolari in cui le operazioni dimanutenzione comportano la cessazione dell’atti-vità di lavoro e, quindi, la necessità di un isola-mento dell’area interessata a tutela di lavoratori eutenti.Effettua acquisti in coerenza con gli indirizzidella Direzione Sanitaria e del Servizio di Preven-zione e Protezione secondo specifiche di protocol-lo. Si occupa della manutenzione generale dellestrutture e degli impianti della Fondazione.Questi compiti sono diventati tanto più numerosie delicati nel momento in cui è stata costituita laFondazione Ospedale Maggiore Policlinico, Man-giagalli e Regina Elena, con il conseguente inseri-mento, tra le strutture da gestire, dei padiglioniMangiagalli, Devoto, Alfieri, De Marchi, ReginaElena e Bergamasco, che si sono aggiunti ai già

oltre trenta padiglioni facenti parte del complessodi via Sforza e di via Pace. È stato allora necessa-rio unificare i sistemi di gestione delle strutture edi manutenzione delle stesse, provvedere all’inte-grazione del personale, duplicare i rapporti con leDirezioni Mediche di presidio, far fronte a nuovee diverse esigenze derivanti da attività sanitariedifferenti, capire e far proprie le modalità consue-te nei rapporti con gli utilizzatori interni e con ifornitori esterni, tendere per passi calibrati auniformare quanto più possibile, senza però sna-turare le caratteristiche precipue delle due struttu-re organizzative. E tutto ciò anche attraverso unaserie di passi formali quali i recepimenti di deter-minazioni, di aggiudicazioni, di appalti in essere,di progetti e capitolati.L’Unità Operativa (U.O.) Funzioni Tecniche dellaFondazione è composta da un gruppo di personechiamate ad assolvere compiti differenti, secondole singole competenze e capacità professionali; dinorma sono coinvolti vari settori, da quello edile,a quello idraulico, elettrico e impiantistico. Fannoparte del sistema di gestione di manutenzioneoperai specializzati, addetti alle operazioni diriparazione e manutenzione, a loro volta coordi-nati da capi operai, tecnici abilitati, progettisti efunzionari amministrativi. L’organico della U.O.Funzioni Tecniche, dopo la fusione con partedegli Istituti Clinici di Perfezionamento (ICP), ècomposto da due ingegneri, un architetto, quattrogeometri, quattro periti industriali, un laureato ingiurisprudenza, quattro amministrativi, un com-messo e dal personale delle officine (42 unità).Quest’ultimo presente in Ospedale (per entrambi ipresidi) 24 ore su 24 garantisce, oltre ai normaliinterventi diurni, le emergenze notturne, il servi-zio di pronta reperibilità e la partecipazione alGruppo Operativo Mobile previsto dal piano diemergenza aziendale.

L’Ufficio Tecnico di un grande ospedale

SANTO DE STEFANO

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L’Ufficio è strutturato per gestire autonomamentetutte le procedure amministrative previste dallenormative vigenti. Esplica infatti, con propriopersonale, gare di progettazione, gare di appalti dilavori pubblici sotto e sopra soglia, gare di forni-tura, gare di servizi, attraverso pubblici incanti,licitazioni private, trattative private, assegnazionidirette (ove consentito dalle norme). Le procedurevengono seguite dagli studi di fattibilità e attra-verso le pubblicazioni dei bandi, l’espletamentodelle sedute di gara e il controllo delle documen-tazioni, sino alla stipula dei contratti.L’U.O. Funzioni Tecniche procede anche allaredazione di progetti preliminari, definitivi edesecutivi per interventi di piccole e medie dimen-sioni. Per interventi di elevata rilevanza sceglie,attraverso le procedure di gara, gli studi di proget-tazione esterna con i quali poi collabora stretta-mente per la redazione dei progetti.L’ufficio si occupa anche di particolari prestazionio servizi, quali la presentazione di pratiche edili-zie e catastali o la richiesta di pareri preventivipresso l’ASL (al fine degli accreditamenti o certi-ficazioni di qualità); anche in questo caso è talorarichiesta un’elevata esperienza specifica nelcampo e, dunque, risulta necessario avvalersidella consulenza e della collaborazione di liberiprofessionisti esterni.Risulta chiaro che l’U.O. Funzioni Tecniche debbacollaborare strettamente con la Direzione Sanitaria,il Servizio di Prevenzione e Protezione e le U.O.interessate dai vari interventi in atto o programmati.Tiene, inoltre, stretti contatti con il Comune diMilano, il Settore di Programmazione dell’ediliziasanitaria della Regione Lombardia, la ASL, laSoprintendenza ai Beni Paesaggistici ed Architetto-nici, la Soprintendenza ai Beni Archeologici con iquali si rapporta per l’ottenimento degli atti autoriz-zativi necessari per l’inizio dei vari lavori. Se in passato esistevano squadre interne che, inmodo autonomo, gestivano ed eseguivano quasitutt i gli interventi di manutenzione edile eimpiantistica, con gli inevitabili pensionamenti ele difficolatà di assunzione, il numero degli addet-ti alle officine, nel tempo, è diminuito e, con esso,anche l’apporto diretto all’esecuzione dei lavori.Attualmente, dunque, ci si avvale anche di impre-

se esterne che, aggiudicatesi il lavoro tramite gared’appalto, eseguono, su progetti redatti interna-mente (o esternamente), con la supervisione e ladirezione del personale dell’U.O. Funzioni Tecni-che, la maggior parte degli interventi di manuten-zione ordinaria e straordinaria.In ultimo, nel caso di affidamento di lavori a ditteesterne, l’Unità Operativa Funzioni Tecniche, qua-lora l’oggetto del contratto dell’appalto sia di suacompetenza, esercita un attento controllo e cooperaall’attuazione delle misure e al coordinamento degliinterventi di protezione e prevenzione dei rischi.I settori ai quali corrispondono le imprese cheeseguono le manutenzioni sono: gli ascensori, letinteggiature, le opere edili, gli impianti elettrici etermomeccanici, le opere da fabbro, falegname,vetraio, gli impianti di condizionamento, le opereidrico-sanitarie, le autoclavi, gli impianti gas-medicinali, il verde.Sinora per la maggior parte di interventi si è proce-duto a una manutenzione “su chiamata”, ma con lacontinua ristrutturazione di aree dei vari padiglionie, quindi, con la conseguente diminuzione delnumero di chiamate, ci si orienta sempre più versola manutenzione programmata e preventiva.Questa è già in atto per impianti e apparati rile-vanti quali: gruppi elettrogeni, gruppi di conti-nuità (ups), rilevatori di fumo, sottocentrali termi-che, impianti termici, di condizionamento ed elet-trici in ambienti particolari e impianti di gasmedicinali.La manutenzione “su chiamata” è regolamentatatramite una procedura inserita all’interno delsistema di qualità aziendale “gestione delle abbi-sogne”, che permette di monitorare tutte le richie-ste di intervento e i loro esiti, ottenendo anche deireport statistici sul numero, le tipologie e le tem-pistiche di intervento e le percentuali di incidenzadelle singole voci sul totale. Nel 2004 le richiestedi intervento sono state complessivamente circa8950, nel 2005 sono state 8838 e nel 2006 laproiezione porta a stimarle intorno a 8300 (adoggi sono 4103). Sul totale delle richieste quelleedili incidono per circa il 51%, seguite dalle elet-triche (31%), idrauliche (13%), di condiziona-mento (2,5%) e, per la restante parte ripartite tragas medicinali, riscaldamento e varie.

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Il database ci consente anche di verificare da qualireparti arrivino il maggior numero di chiamate e inparticolare la loro tipologia: sistema che ci permettedi programmare interventi risolutivi a riguardo diproblematiche esistenti in determinati luoghi.Quest’ultima risulta ormai la strada intrapresa alfine di diminuire il numero di chiamate e cioèeseguire interventi completi che portino all’am-modernamento delle strutture e degli impianti.In tale ottica, e considerando le esigenze dell’Am-ministrazione, derivanti dall’accordo di program-ma e dalla fusione con parte degli ICP, da qualcheanno si sta operando per eseguire ristrutturazionicomplete necessarie all’umanizzazione delledegenze, all’adeguamento delle strutture alle nor-mative vigenti e ai requisiti di accreditamento e,infine, agli accorpamenti e ai trasferimenti di atti-vità. Postosi il problema di quale strumento utiliz-zare per l’esecuzione di tali lavori, non risultandole manutenzioni ordinarie certamente il mezzo piùadeguato a tale necessità, sono state espletate pro-cedure di gara attraverso le quali poter appaltarepiù interventi di medie dimensioni a un'unicaimpresa, con il risultato di un notevole risparmiodi tempi e di risorse.Questa modalità, ormai positivamente sperimentatada un paio di anni, pur trattandosi di una vera e pro-pria novità all’interno delle Pubbliche Amministra-zioni, è risultata certamente vincente e ha consentitodi procedere contemporaneamente nell’esecuzione diinterventi di ristrutturazione presso vari reparti.Inoltre, con il mese di settembre si è dato avvioalla ricostruzione del padiglione Monteggia conun anticipo di un mese rispetto al cronogrammapresentato al Consiglio di Amministrazione. Pre-sumibilmente entro la fine dell’anno in corso siinizierà la demolizione del padiglione Pasini, invista della realizzazione del nuovo Dipartimentodi Emergenza Urgenza. Quest’ultima contemplala costruzione di un nuovo edificio e la ristruttura-zione del Guardia Accettazione.In tutti i settori essenzialmente indicati e illustratida chi scrive, gli interventi richiesti ed eseguitinelle rispettive annate, significativamente nel2005 e 2006, raggiungono un numero altissimo.Impossibile elencarli qui (il lettore attento lo puòimmaginare).

L’impegno richiesto nell’ambito di un grandeUfficio Tecnico ospedaliero e degli estesi settoriche vi gravitano è quotidianamente enorme eimpone volontà e collaborazione costante.

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Gli archivi, nella loro più vasta accezione, e idocumenti in essi conservati, sono una categoriaun po’ speciale tra i beni culturali e hanno rap-presentato troppo a lungo, nel panorama italiano,se mi si consente il termine, la “cenerentola” delsettore.È certamente inutile nascondere il fatto che, perloro stessa natura, i documenti d’archivio sianodecisamente meno appariscenti di altre categoriedi beni culturali: come potrebbe competere unamostra documentaria di fronte al susseguirsi sceni-co di quadri e sculture di una mostra d’arte?I documenti e gli archivi sono oggetti e luoghimolto più discreti, appannaggio, sino a non moltidecenni fa, di solitari ricercatori e “polverosi”archivisti.Da alcuni anni a questa parte è invece maturata inmodo più adeguato la consapevolezza non solodell’importanza degli archivi, quali testimonianzeuniche e irripetibili della storia umana, ma anchedella necessità di promuoverne meglio la conser-vazione, la fruizione e la valorizzazione.Il documento d’archivio non serve più solamenteper la testimonianza storico-giuridica di fatti e cir-costanze; non è più solo un oggetto “ancillare”delle più nobili scienze storiche: il documentod’archivio è di per se stesso un bene culturale datutelare e fare conoscere al meglio possibile.Un progetto concepito dalla Regione Lombardianel 1998, intitolato I documenti raccontano, hapermesso di valorizzare gli archivi in una forma,se non esattamente nuova, per lo meno diversa.I documenti raccontano è un progetto grazie alquale le “storie” presenti e nascoste nei documentidegli archivi possono uscire allo scoperto e riesco-no a farsi raccontare, come soggetti privilegiati diracconti e perfino di romanzi.È a tutti evidente come non sia davvero un concet-to nuovo il fatto che i documenti d’archivio costi-

tuiscono una fonte preziosa per gli scrittori e i nar-ratori in genere, così come, d’altra parte, non èuna novità l’immaginario che il lavoro dell’archi-vista ha da sempre comportato: tenere gli archiviin buon ordine, renderli consultabili mediante laredazione di inventari, di titolari e di strumenti dicorredo, aprire le sale di consultazione agli stu-diosi.Che gli archivisti stessi, dal quotidiano lavoro ditutela a loro da sempre attribuito, abbiano potutodiventare i “narratori” dei documenti da loro stessicustoditi, invece, è un nuovo concetto, maturatocon I documenti raccontano a Milano ed “esporta-to” ormai in molte altre realtà archivistiche.(1)

I documenti d’archivio, dunque, non sono solo lefonti per le ricerche degli storici, per gli studiosidell’arte e di ogni altra disciplina umanistica; idocumenti, a ben vedere, imprigionano anche sto-rie e fantasmi, la cui caratteristica è quella di esse-re stati inconfutabilmente “reali”: i fatti e le vicen-de descritti sono concreti e sono appartenuti aindividui realmente vissuti. (2) Gli archivi e i lorodocumenti sono i testimoni (a ben guardare nonpiù molto “silenziosi”) di migliaia di vite e divicende trascorse.Non è questa la sede per riproporre racconti giàediti, ai quali rimando volentieri il lettore. (3)

Vorrei qui cercare soltanto di fornire alcuni spunti,prendendo a modello una tipologia di documentomolto presente negli archivi, i testamenti e gliinventari, e cercando in essi nuove opportunità enuove angolazioni di lettura.Prendiamo ad esempio un inventario d’eredità. Nel novembre 1435 moriva a Genova il commissa-rio ducale Opizzino de Alzate, vittima della rivoltadei cittadini contro la città viscontea, da lui rap-presentata. Opizzino era stato condottiero al servi-zio del duca di Milano, Filippo Maria Visconti, eaveva ricoperto anche diversi incarichi diplomatici

I fantasmi negli archivi

CRISTINA CENEDELLA

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e di governo. Crudele, testardo e infaticabile sol-dato (così lo descrivono le fonti), non pensando diessere vicino alla morte, non aveva lasciato testa-mento. I suoi beni, perciò, furono oggetto di unaccurato e scrupoloso inventario e di successivecontese tra i due figli. (4)

Fonte per uno studio socio-economico di unafamiglia nobile milanese del primo Quattrocento,questo inventario, tuttavia, ci introduce anche nelmondo personale di Opizzino: al di là degli incari-chi ufficiali e del “mestiere delle armi” che eserci-tava, egli aveva una vita privata, una famiglia e deifigli. Gli oggetti, i mobili e i beni della sua casapossono raccontarci non solo il tenore di vita e lostatus sociale raggiunti, ma anche le inclinazioni,il carattere e talvolta la visione della vita.Ad esempio sappiamo dalle fonti che il nostrocondottiero, una volta conquistata una solida posi-zione alla corte ducale (con relativi appannaggi),decise di cambiare la propria abitazione, sceglien-do una casa più grande, con una torre “da nobile”,emblema della condizione sociale ben consolidata.La casa è quella descritta nell’inventario: ottocamere spaziose, quasi tutte provviste di caminet-to, una grande sala e la cucina.

La ricchezza degli ambienti era notevole per l’epo-ca e può far trapelare, con certezza, il desiderioprofondo di Opizzino di far bella mostra della suaagiatezza alla cittadinanza e soprattutto agli invitati,ai conoscenti della sua cerchia, ai suoi pari. Era un ambizioso, il nobile Opizzino, che esibiva atutti il suo stato sociale? Parrebbe di poter risponde-re decisamente di sì. Ed ecco che, dai freddi docu-menti d’archivio, apparentemente asettici inventarinotarili, ci appare il “fantasma” stesso del condot-tiero.Gli oggetti e i mobili parlano per lui: cassapanchedipinte e intagliate, letti a baldacchino con materas-si e sovramaterassi di piuma, coperte di pelliccia,credenze e una quantità inconsueta di lenzuola,coperte, stoffe e corredi in genere. Nella stanza della torre, la più ricca, forse quella dirappresentanza, troneggiavano, oltre a una campanadi bronzo, una pelle di leopardo, dodici candelabri,vasi di alabastro, tappeti, un reliquiario argenteocon “il corpo” di S. Onorato, arazzi a vari riquadricon scene diverse (valutati in inventario una sommaletteralmente astronomica per l’epoca) e poi man-telli, corredi, coperte di pelliccia. Così lo stesso desiderio di mostrare la propria ric-chezza si rivela negli arredi della grande sala, dovesono enumerati sedie, credenze e ben otto cavalletticon relative assi, segni evidenti che in casa veniva-no allestiti tavolate e banchetti. La cucina era ben fornita degli utensili necessari:caldaie, ventun pentole di rame, numerosi paioli dipeltro e diversi altri utensili non specificati.Il lusso che il condottiero si permetteva, concernevaanche i suoi figli, Filippo e Maddalena (con il maritoAmbrogio), tutti residenti nella casa paterna. Nellacontesa per le divisione dei beni, Filippo venne con-dannato a restituire alla sorella alcuni capi di vestia-rio indebitamente tenuti. In questo breve elenco sicoglie, forse ancor di più che nel padre, il desideriodi sfoggio di Maddalena de Alzate. I suoi vestiti parlano di lei e del suo status sociale,secondo il quale poteva esibire un mantello brunofoderato di pelo nero, un mantello di seta scarlatto euno di damasco nero, un mantello invernale di drap-po londinese, foderato di volpe e un secondo, sem-pre di lana londinese, foderato di lupo, un mantelloin damasco foderato di martora, una pelliccia di

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Inventario dell’eredità del principe Antonio Tolomeo Trivulzio (1769).

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martora con le maniche e un’altra di vari colori. Eancora: due vestiti di drappo di seta, uno verdechiaro e l’altro verde scuro, un vestito di vellutocremisi e tre vestiti di fustagno bianco. E questierano solamente i capi di vestiario che il fratelloavrebbe dovuto restituirle!La curiosità di sapere come fossero realmente equali fogge avessero questi vestiti, appassionerebbe,a questo punto, chiunque. Viene istintivo immagi-narsi questa nobildonna camminare per le viuzzecontorte della Milano medioevale e forse elargiredelle monete ai mendicanti accovacciati alle portedella cattedrale. E viene in tutta onestà da chiedersi anche che aspet-to avessero e come passassero il loro tempo Madda-lena e il fratello Filippo.Di chi potevano essere le altre pellicce ritrovate incasa, una di volpe e una di lince, i cappelli e gli altrimantelli citati? Di sicuro le due paia di guanti foderati di pelo dimartora erano di Filippo, ritrovati nella sua stanza,così come gli unici libri annotati nell’inventario. Sitratta di una Bibbia, un commento all’opera di

Dante, un volume con le tragedie di Seneca ed unocon le commedie di Terenzio, un volume di un nonmeglio identificato Uguccione (Uguccione da Lodi?)e altri quattro il cui titolo non è stato esplicitato. Sitrattava, ovviamente, di codici manoscritti, prodotti daqualche copista del primo Quattrocento, dei qualipossiamo ipotizzare anche, probabilmente, il costoelevato, tanto che il notaio stesso, nell’inventario, nonseppe quantificare. Nel Medio Evo, infatti, il libro eraun bene di lusso, paragonabile a gioielli e stoffe pre-ziose: attraverso lo studio delle vicende economichedei manoscritti emerge l’immagine della società ita-liana benestante, popolata da ecclesiastici, notai, giu-risti, signori, medici, mercanti e studenti. (5)

Filippo, oltre a essere un benestante, era dunque unapersona colta? Di sicuro amava la letteratura, conside-rati i titoli dei suoi volumi. Una interessante ricerca compiuta da Carla Bozzoloper il CNRS francese, ha riportato alla luce la presen-za e la struttura delle biblioteche familiari dei notabilicittadini della cittadina fiamminga di Tournai alla finedel XIV secolo, partendo proprio dalla lettura deitestamenti. I volumi lasciati in eredità erano quasiesclusivamente di carattere sacro: bibbie, breviari,libri delle ore etc., mentre solo sporadicamente com-paiono libri di letteratura. (6)

Dunque Filippo era davvero appassionato alla lettera-tura; forse aveva frequentato la scuola di grammatica.Ma che lavoro svolgeva?Di lui le fonti non ci rivelano altro se non il fatto che,dopo la morte del padre, si trovò fortemente indebita-to con la sorella a causa di somme da lui riscosse invendite e transazioni (dall’imbottato del fieno, ai fittilivellari), che, con ogni evidenza, non aveva poi spar-tito con Maddalena. Quest’ultima, inoltre, aveva pagato anche per il fratel-lo tasse, gabelle e balzelli e la somma prevista per ilmantenimento dei due figli naturali del padre. Ecco,infatti, che alla morte di Opizzino, nell’inventario e inqualche documento successivo compaiono i fratella-stri Cristoforo e Martino: un vero colpo di scena perun archivista narratore!Filippo era forse un imbroglione, che si disinteressavadella sorella e dei fratellastri, trattenendo per lui solotutto il denaro che riusciva a incamerare?Le fonti non ce lo dicono palesemente; forse ce losuggeriscono sottovoce.

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Inventario dei denari rinvenuti in casa del principe.

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Ad ogni buon conto il tutto finì in un arbitratoamichevole, nel quale venne stabilito che per sod-disfare i crediti di Maddalena, Filippo avrebbedovuto cedere a lei e al marito tutti i beni posse-duti dal padre a Monticello, compresi il mulino, ipascoli, i boschi e gli incolti, oltre agli affittilivellari percepiti per alcune case in Milano. La faccenda, però, non si concluse tanto tranquil-lamente nel 1437!Ancora 5 anni più tardi Filippo non aveva pagato isuoi debiti e, di lite in lite, finì per rimettercianche tutti i possedimenti di Marzano, nell’epi-scopato di Lodi, che passarono in proprietà aMaddalena e al marito. Non aveva neppure prov-veduto al mantenimento dei due fratellastri, unodei quali nel frattempo era morto. Da uno dei tanti documenti di arbitrato amichevo-le tra le parti si scopre che Cristoforo e Martino, idue fratellastri, avrebbero dovuto essere mantenu-ti alla scuola di grammatica sino all’età di 22 annie in seguito provvisti della somma di 6.000 fiorinie di una sufficiente quantità di suppellettili, mobi-li, oggetti derivanti dall’eredità del condottiero.Dunque: Filippo era uno sfaccendato, che non siinteressava agli affari di famiglia, o soltanto unuomo sfortunato?I documenti d’archivio non ce lo rivelano, ma ciconcedono un’ultima supposizione: egli aveva ungrosso debito con un mercante per una partita dilana grezza che non aveva mai pagato. ForseFilippo svolgeva lo stesso lavoro dei suoi parentidi altri rami familiari, che erano grandi mercantidi lana, con filiali a Londra, Valenza e Bruges. Oforse no: un solo documento non può testimoniarecon alcuna approssimazione il fatto che lui fosseun mercante.È davvero molto più probabile che fosse un perdi-giorno, al quale nemmeno il padre, quando era invita, delegava gli affari di famiglia.Un dato di fatto che emerge dalla documentazioned’archivio, infatti, è che gran parte dei negozi giu-ridici condotti da Opizzino vivente, vennero fattiper procura, grazie ai servigi del genero, Ambro-gio de Cisnuschulo. Il condottiero, infatti, rimaneva assente da Milanoper lunghi periodi, mesi e a volte anni, durante iquali o era in guerra o svolgeva delicati compiti

governativi. I suoi affari, che consistevano soprat-tutto nell’acquisto e nella messa a reddito di terre-ni, case e intere possessioni nelle zone più redditi-zie della campagna lombarda, vennero svolti condelega al suo procuratore generale, Ambrogio,marito della figlia. Era davvero così bravo costui da meritarsi la fidu-cia di un uomo potente e temibile come il com-missario ducale? Oppure era riuscito a ingraziar-selo sposandone la figlia?In ogni caso non si fa cenno mai, nei documenti, auna possibile attività di Filippo come curatoredegli affari paterni e di famiglia. Esistevano dunque reali problemi che ostavanoalla partecipazione attiva di Filippo nella gestionedell’economia familiare.Fin qui le fonti. Filippo in effetti dovette cederequasi tutte le proprietà ereditate, ma a questo punto

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Inventario della biblioteca del principe e dei suoi documenti d’archivio

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un vuoto di notizie (cioè di documenti d’archivio)lo circonda e lo avvolge nel più fitto dei misteri.Che fine avrà fatto Filippo de Alzate, figlio delnobile ed egregio Opizzino?

* * *L’esempio sopra riportato testimonia di come sipossa analizzare una manciata di documenti da unparticolare punto di vista, grazie al quale riesconoad affiorare dai secoli passati storie, fantasmi evite vissute. Raccontare le storie nascoste nei documenti d’ar-chivio, però, non è operazione semplicissima, per-ché occorre liberarle dal linguaggio giuridico oamministrativo nel quale sono calate. Così comeoccorre liberarle dallo stile tecnico-scientificodella saggistica storica.Apprendere le regole della scrittura narrativa èstato, dunque, il passo necessario: mettere insie-me le conoscenze derivate dal lavoro d’archivio ela capacità di raccontare una storia è stata la cartavincente di questo progetto.E non è stato davvero molto facile per gli archivi-sti novelli aedi, perché raccontare non è inventa-riare documenti, né descriverli, né classificarli. È,invece, farli parlare di tutto quello che nascondo-no nelle pieghe polverose.E i documenti che sonnecchiano oggi negli archi-vi, sanno che, un giorno o l’altro, verrà il loromomento di farsi conoscere.Quante storie saranno nascoste nelle migliaia difaldoni dell’archivio dell’Ospedale Maggiore?Quanti fantasmi, quali drammi familiari, cheingiustizie o che magnificenze si celano tra lecarte di un ente tanto antico e splendido come l’o-spedale? Quanti atti di causa o passaggi di pro-prietà hanno determinato l’ascesa o la rovina diintere famiglie? O forse anche omicidi e fatti disangue?Tutte storie da raccontare, come ci insegna dalungo tempo il più grande dei letterati lombardi,profondo conoscitore di archivi e documenti.

Note

1 - I documenti raccontano è attualmente promosso dalla RegioneLombardia in collaborazione con la Fondazione Mondatori, che needita una omonima collana.

2 - Si prescinde in questa sede dal concetto di “vero storico”; è noto atutti, infatti, che è possibile trovare documenti falsi o falsificati inogni epoca storica. Individuare con certezza i falsi è compito propriodegli studiosi (paleografi e storici), compito che forse meno bene siaddice all’attività dei “narratori”.

3 - Ad oggi nella collana I documenti raccontano sono usciti iseguenti volumi: I documenti raccontano. Luoghi e personaggi ritro-vati negli archivi lombardi a cura di Laura Lepri, Milano, FondazioneArnoldo e Alberto Mondadori, 2001.

Roberto Grassi: L'onore della Virginia ovvero Insane passioni edefferate gesta di Hadrowa Oreste, detto il Dottorino, Milano, Fonda-zione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2002.

Cristina Cenedella: Le terre, le armi, la brama. Breve storia diOpizzino de Alzate, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mon-dadori, 2005.

4 - L’inventario è conservato nell’archivio della Fabbrica del Duomo,Fondo Case in Milano, cart. 260.

5 - Alle caratteristiche tecniche del libro manoscritto, agli artigianiche lo realizzavano e ai signori che lo commissionavano, è dedicato ilrecentissimo volume Liber-libra. Il mercato del libro manoscritto nelMedio Evo italiano in Quaderni CISLAB 1, 2006 a cura di C. Trista-no, L. Devoti, F. Cenni. Si veda anche E. Barbieri: Il libro nella sto-ria: tre percorsi, Milano, CUSL. 2000.

6 - La conferenza di Carla Bozzolo, Libri e gente della città fiammin-ga di Tournai nel ‘300 e ‘400, è stata tenuta al convegno Testi, libri ebiblioteche in età medioevale e moderna, Montepulciano, 7-9 giugno2006, organizzato dall’Università degli Studi di Siena.

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Il titolo propone un percorso molto interessante evasto su un tema sempre attuale, che coinvolgecontemporaneamente chi legge e chi scrive, chi saleggere e chi sa scrivere, chi vuol leggere e nonpuò o non sempre trova quanto lo soddisfi. Quinon s’intende dare giudizi, ma osservare la realtànelle esigenze, nelle offerte, nelle proposte e nellerisposte.Tutto può essere oggetto di lettura. Sappiamoquanto interesse susciti fin dalla prima infanziauna bella pagina a figure colorate di animali, dinumeri, di lettere dell’alfabeto, di oggetti comuni,di paesaggi che da adulti scopriremo superando lostupore infantile con ben più profondo stupore. Èuna lettura fatta di scoperta, di meraviglia, di scel-ta istintiva, dove la distinzione degli opposti(bello-brutto, simpatico-antipatico, mi piace-nonmi piace) denuncia il gusto, un giudizio senzaincertezze, immediato, quasi irrazionale. Domaniquel tipo di lettura sarà un’analisi dettagliata ecritica di opere d’arte d’ogni tempo, comunicataverbalmente a chi le osserva con noi e poi forseanche annotata su una pagina di diario per meglioricordare.Tra i due momenti, l’infanzia e l’età matura, nellavita umana corre tutta una serie di interessi benprecisi e definiti, necessariamente predisposti nel-l’età scolare, poi liberi e dinamici, come lo sonola nostra mente e la nostra fantasia.Dopo l’impatto con le favole, le leggende, i miti,si offre a chi studia una ricchezza di argomentinon trascurabile, se si vuole preparare una basesolida di cultura avviata a scelte personali.Il libro è il supporto indispensabile e la manierainesauribile della conoscenza, senza togliere nullaall’immediatezza della comunicazione dei media.Ci si chiede come si legge studiando, come perdiletto. Prevale la fretta? È sufficiente sintetizzarei contenuti richiesti per un’interrogazione trascu-

rando i particolari ritenuti non necessari? Si salta-no pagine di descrizione in un romanzo impegna-tivo quale ostacolo alla conclusione? Se quello èil metodo, si perde sempre qualcosa: non si arric-chisce il proprio vocabolario, si trascura una sfu-matura di pensiero essenziale alla sua compren-sione, non si approfondisce il significato delleparole. La migliore lettura invita a evitare lasuperficialità, ad analizzare e interpretare, a supe-rare ingannevoli imbonimenti. Con l’esperienza ela maturità gli stessi contenuti saranno visti sottoun’altra luce.Quindi è molto utile leggere, ma occorre saperleggere. La lettura personale è silenziosa, piace-vole, meditativa. La lettura per il pubblico presup-pone l’ascolto attento, interessato, e può convin-cere e soddisfare ancor più se accompagnata esostenuta da chiarezza di voce e partecipazione altesto di chi la offre. Ricordiamo le meraviglioseletture dantesche di Sermonti e di Benigni, mentrealtre si sono realizzate a Milano al Teatro di Ver-dura con la nota attrice Monica Guerritore. Mila-no offre anche la poesia italiana contemporanea:“Cosa sta scrivendo il fuoco” dall’opera di DavideRondoni (Corriere della Sera, 22.5.06).Sono commemorazioni, presentazioni di progettie di impegni politici, omelie, a cui non manca ilsuccesso di audizione. Non tutti possono parteci-pare, ma non si vuole escludere nessuno, anche daun minimo di conoscenze, aiutando soggetti inparticolari situazioni di vita. Per esempio, per idislessici è sorta una nuova collana di libri espres-samente pensati per loro, nata dall’esperienzadiretta di Cristina Ceola, insegnante di sostegno edirettrice della collana stessa (Corriere della Sera3 e 6 giugno 06, pag. 37, “Un libro per guarire.Dalla dislessia”, articolo di Giulia Ziino).Sappiamo quanto si fa per i non vedenti e per glianziani, al fine di supplire con supporti auditivi

Il libro, la lettura, l’età

MARISA PISANI

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alle loro limitazioni e costruire o ricostruire lafiducia del vivere. Negli ospedali per rimuovere lasofferenza di bambini, colpiti da mali anche gravi,si alternano alle cure necessari momenti ricreativie qualche impegno scolastico con i mezzi che lapsicologia ritiene efficaci all’applicazione menta-le e adatti alle varie età.Protagonista di questa chiacchierata è sempre illibro, che interessa per il suo contenuto e per lasua veste editoriale. Gli argomenti spaziano dallaletteratura alla storia, dalla scienza alla tecnica,dalla filosofia alla medicina, dalla saggistica alromanzo, ecc.I bei volumi ordinatamente esposti lungo i corri-doi di una grande libreria sono lì, in attesa del-l’acquirente, che arriva già sicuro della sua scelta,ma anche il più sprovveduto e distratto può esseresorpreso dalla presenza di un autore, fino almomento sconosciuto, e trovarlo allettante nellapresentazione sintetica di copertina. Oggi anche isupermercati offrono un aiuto all’acquisto, favo-rendo il cliente casalingo, che ha fretta e può tro-vare per l’infanzia, per l’adolescenza e oltre quan-to da tempo desidera.L’editoria è molto ricca, offre il classico, lenovità, la revisione e non si ferma soltanto a con-siderare l’età anagrafica dei possibili e probabililettori, anzi propone argomenti a parità coi tempie con le loro problematiche che sembrano “nihilnovi sub sole” ma denunciano con la ricerca el’approfondimento il mutare della società e deisuoi valori. Così, superati contenuti e forme, alcu-ni testi sono scomparsi.Qualche esempio personale:Esiste ancora “Il canzoniere della nonna” diNeera, con illustrazioni a matita di Aldo Mazza,gioiello artistico e tipografico, lire 3,50 (gli anniVenti del secolo scorso)?È una ricchezza di semplicità di vita, di insegna-mento senza pedanteria, di un umorismo da cuitraspare lo sguardo convincente dell’autrice;oppure “Ciò che una donna a quarant’anni devesapere”. Ne avevo quindici. Troppo presto. Laguerra l’ha distrutto, forse ha pensato che avreitrovato altre risorse in materia, sempre che nonvolesse portar via anche me (Milano, 1939).Alcune novità:

per i giovanissimi il mercato offre i vari SpiderMan, i libri dell’orrore, della violenza, del mistero.- Nuove collezioni sull’amicizia, Le Winx, paginedi diario romanzo a puntate. Moderne signorinet-te, amiche confidenti insegnano, sperimentanodelusioni e felicità.- Altra collezione sono i classici della letteraturaDisney, i cui titoli si rifanno a opere del passatomolto note, riviste di Paperino e Topolino, ispiratia sentimenti positivi e associati a cose piacevoli,mentre rivivono l’anelito dei vari eroi (Corrieredella Sera, 28/5/06).- C’è chi propone una controstoria della filosofia,che cancella idealisti e credenti ed esalta gli edo-nisti (Michel Onfray) (Corriere della Sera29/5/06, articolo di Armando Torno).Ci si può aggiornare e lo si deve, a vantaggiodella propria cultura personale, finché si riesce,con la convinzione che la maggior utilità in questalaboriosa fatica è l’allenamento mentale nello sti-molo di rivedere se stessi.E ciò non solo nella terza o quarta età. Ogni libroè un gioco di parole. Non so se influisca sia posi-tivamente sia negativamente più la parola scrittadi quella udita (scripta manent, verba volant) contutte le sue sfumature intenzionali. In essa sta ildono dell’esclusività e la forza della conseguenteresponsabilità. È la voce unica e inconfondibiledell’uomo.

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Gli Istituti Clinici di Perfezionamento di Milanonel 1966 e 1968 istituirono due concorsi a premiodestinati alle opere d’arte contemporanea legateal tema della maternità. Il promotore di tali ini-ziative fu il segretario generale dell’Ente AlfredoLanocita, fratello del più noto Arturo, criticocinematografico a lungo attivo per il Corrieredella Sera. La giuria della prima edizione, tra gli altri, com-prendeva il celebre giornalista e scrittore DinoBuzzati, il pittore Renzo Biasion, più tardi attivoper la quadreria dei benefattori dell’OspedaleMaggiore (1), e il critico e storico dell’arte Marzia-no Bernardi, presidente della commissione giudi-catrice. Il successo della manifestazione è confer-mato dai circa trecento artisti che inviarono leproprie opere e dalla notorietà di alcuni di essi. Ilpremio della giuria consisteva nell’acquisizionedel lavoro da parte della Clinica, così da compor-re una rassegna di arte contemporanea sul genere.La Clinica Mangiagalli acquistò così dipinti rea-lizzati da alcuni dei protagonisti della correnteitaliana dell’arte figurativa della seconda metàdel Novecento: Trento Longaretti, Cristoforo DeAmicis e Francesco Tabusso, premiati insiemeagli apprezzati ritrattisti Mario Donizetti, lunga-mente impegnato nel recupero stilistico del Rina-scimento italiano, e Renato Vernizzi; inoltre Atti-lio Alfieri, Renato Borsato, Tullia Matania, GigiMorbelli, Renato Bertoloni, Roberto Terracini,Walter Piacesi, Romano Conversano, ArmandoDonna, Ettore Fico, Carlo Cuneo videro i loroquadri riconosciuti. Al contrario Aldo Carpi, Gia-como Manzù ed Aligi Sassu, personalità di spicconel panorama europeo, parteciparono fuori con-corso donando un dipinto ciascuno (2).L’introduzione al catalogo fu curata da GiovanniMosca, umorista e scrittore, spesso presente sullecolonne del Corriere, a confermare il rapporto tra

l’ente ospedaliero e la redazione del giornale, dicui faceva parte anche Buzzati. Le opere inviaterimasero esposte per alcuni giorni tra l’aprile edil maggio 1966 nei corridoi della Clinica Mangia-galli.Due anni dopo, in occasione del secondo premiod’arte “Maternità”, fu introdotta una sezionedestinata alle opere di poesia, la cui giuria fu pre-sieduta da Dino Buzzati, affiancato, tra gli altri,dallo scrittore Alberico Sala. Gli autori che parte-ciparono, tra cui molti dilettanti, furono centi-naia: vale la pena di citare almeno lo scrittore ecritico d’arte Raffaele Carrieri.Tra i pittori che affidarono le proprie opere allagiuria, presieduta da Marziano Bernardi, furono

I dipinti della Clinica MangiagalliIl premio d’arte “Maternità” (1966-1968)

DANIELE CASSINELLI

Trento Longaretti: Madre e figlio (dalle Raccolte d’Arte dell’OspedaleMaggiore).

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premiati i dipinti di alcuni artisti che in queglianni erano presenti nelle diverse gallerie italianeattente ad una maniera di fare arte più conserva-trice e lontana dalle sperimentazioni d’avanguar-dia allora in voga: Orazio Toschi, Xavier Bueno,Silvio Consadori, Piero Martina, Luigi Filocamo,Francesco Speranza, Bernardino Palazzi, BertoRavotti, Fulvio Pendini, Luca Vernizzi, Elsa DeAgostani, Lisel Höhs, Albino Lorenzo. Ricono-scimenti speciali furono inoltre riservati alle inci-sioni e ai disegni, tra i quali vale la pena di men-zionare i rispettivi vincitori, lo scultore e incisoreEros Pellini, attivo anche per il Duomo di Mila-no, e Virginio Ciminaghi (3), autore tra 1972 e1977 di cinque formelle in bronzo raffigurantifiori commissionate dall’Ospedale Maggiore (4).

Grazie alle acquisizioni di quegli anni le collezio-ni della Clinica comprendono ancora oggi dipintidi Trento Longaretti, maestro bergamasco attivoanche come ritrattista per la quadreria dei bene-fattori dell’Ospedale Maggiore e a lungo membrodella commissione artistica dell’Ente, e di Cri-stoforo De Amicis, che nel 1967 realizzò il ritrat-to gratulatorio di Maria Vidoni, sempre per l’anti-co nosocomio (5). Tra gli altri che hanno lasciatoun dipinto in collezione si menziona Luigi Filo-camo, autore nel 1962 del Ritratto di GiovanniMarinoni (6), il quale presentò diverse opere trac-ciate con una caratteristica linea rigida e dai colo-ri che suggeriscono il rapporto con la figura adaffresco, ed Augusto Colombo, di cui restano undisegno datato 1948 - forse presentato fuori con-corso, giacché non fu compreso nei cataloghi astampa - e l’immagine di un altro dipinto, unadelle opere tarde dell’artista (7). Durante la rasse-gna del 1966, l’Ospedale Maggiore acquistò latela di Oreste Zuccoli intitolata Primo Nutrimen-to per decorare il reparto maternità dell’OspedaleSan Carlo, inaugurato l’anno successivo (8). Inquesto dipinto, oggi conservato nelle collezionidella Fondazione Policlinico, come in molte delleopere in gara, il tema della maternità è trattato inmaniera gradevole e delicata, ma secondo canonilegati ad una tradizione esausta, sia per quantoriguarda il taglio compositivo, sia per la sceltadella tecnica pittorica. Gli altri dipinti rimasti sono di Silvio Consadori,allora insegnante dell’Accademia di Brera, e diFulvio Pendini, che presentò una Adorazione deiMagi stilisticamente vicina alle esperienze deipittori Naïf, un movimento seguito con interessein quel giro d’anni. Inoltre restano opere di Albi-no Lorenzo, che tratteggiò a rapide pennellate ilritratto di una madre che allatta il figlio, di Rena-to Bertoloni, che dipinse a carboncino una figurafemminile che pare una allegoria della carità e,infine, di Aligi Sassu, che, come Lorenzo, incisead acquatinta la scena dell’allattamento.

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Luigi Filocamo: Omaggio alla vita (dalle Raccolte d’Artedell’Ospedale Maggiore).

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Note

1 - A Renzo Biasion fu affidato nel 1988 il ritratto di Francesco Rosti(Esposizione dei ritratti dei benefattori, Milano, 24 marzo 2003,Milano 2003, p. 10). In prcedenza Biasion era stato contattato dallaCommissione artistica per eseguire il Ritratto di Luigia ColomboTroci nel 1970, ma aveva dovuto rinunciare a favore di BernardinoPalazzi (Ospedale Maggiore/Ca’ Granda. Ritratti moderni, a cura diMaria Teresa Fiorio, Milano 1987, cat. 923, p. 127).

2 - Per quella edizione del premio fu pubblicato un opuscolo conl’elenco delle opere: Premio d’arte “Maternità”. Esposizionepresso la Clinica ostetrico-ginecologica “Mangiagalli”, Milano12 marzo – 8 maggio 1966, Milano 1966 e un catalogo illustrato:Maternità, a cura degli Istituti Clinici di Perfezionamento. Milano,1966.

3 - Il catalogo illustrato pubblicato si intitola: Maternità, a cura degliIstituti Clinici di Perfezionamento. Milano, 1968.

4 - Ospedale Maggiore/Ca’ Granda. Collezioni diverse, a cura diMaria Teresa Fiorio, Milano 1988, catt. SC69-73, p. 120.

5 - Ospedale Maggiore 1987, cat. 913, p. 125.

6 - Ospedale Maggiore 1987, cat. 886, p. 120.

7 - Maternità 1966, p. 18.

8 - Ospedale Maggiore 1988, cat. Q172, p. 43.

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L'atto dello scegliere, (dal latino exeligere, com-posto di ex- e eligere, corrispondente a “elegge-re”) è così frequente negli esseri viventi che, tal-volta, diventa inconscio o già programmato dallanatura e, in questo ultimo caso, si tratta di unascelta preordinata per il mantenimento di un equi-librio costante. Quando si interviene per mutare un fenomeno chea noi sembra ingiusto o crudele, si può incorrerein un sovvertimento anziché in un beneficio.Nel mondo animale, tutto è lecito per la sopravvi-venza della specie e se stimola la nostra emotivitàe commozione assistere alle lotte cruente, sappia-mo dagli studi continui degli zoologi e dei natura-listi che tutto è nella norma e si ripete da secoli esecoli in perfetta sintonia.Però, quando parliamo di esseri umani, il discorsoassume un’altra valenza, offrendo infiniti spunti amedici neuropsichiatri e a una pletora di psicolo-gi, sociologi, antropologi, filosofi, ecc. Sono da considerare alcuni fattori fondamentalidella “scelta” il cui presupposto è la libertà, men-tre componente è il rischio.Libero è chiunque non subisca costrizioni o impe-dimenti, ma anche chi in perfetta autonomia edeterminazione sappia distinguere i mezzi ade-guati per raggiungere i suoi fini senza prevaricaregli altri.L’ambiente esterno e la propria interiorità (pulsio-ni) giocano un ruolo assai importante: in pratica,ci sono fattori all’interno e all’esterno di noi checi incentivano e la scelta si colloca fra delibera-zione e esecuzione, dove la responsabilità indivi-duale si intreccia inesorabilmente ponendoci difronte al rischio delle conseguenze.L’atto dello scegliere presuppone o presupporreb-be momenti di analisi per evitare, appunto, rischie pentimenti. Il vagliare tutti i lati positivi e nega-tivi provoca in noi la decisione quando formulia-

mo un giudizio per l’attuazione o meno di un’a-zione e la selezione si materializza secondo ilriferimento agli elementi migliori di una serie,misurati in base a criteri funzionali.Salvo alcuni individui che per debolezza caratte-riale o per gravi disturbi psichici (innati o acquisi-ti) o per limiti ambientali non sono capaci di sce-gliere, tutti hanno il diritto e il dovere di poterprogrammare ciò che ritengono possa essere con-facente alla loro esistenza, sempre senza lederequella altrui!Può apparire strano, ma ci sono alcuni bambiniche fin da piccoli, hanno desiderio di realizzare“un qualcosa” di duraturo nella loro vita Per esempio un sogno, una professione, sapendoche ciò costerà sacrifici, impegno e costanza, non-ché qualche rischio. Se noi comprendessimoquanto può essere intensa e sincera questa aspira-zione, riusciremmo anche a capacitarci che non sitratta di un capriccio infantile o di un volo pinda-rico, ma di una propensione individuale che nonsi esaurirà, ma lascerà nell’animo di chi la provauna voglia struggente fino a realizzazione com-piuta. Nella normalità, le prime persone che si prendonocura del bambino e che lo amano con tenerezza,solitamente, sono i suoi genitori i quali vivonoquesto ruolo con immensa gioia, ma anche con unsenso di responsabilità infinito e sempre incom-bente, tanto da renderli spesso iperprotettivi,quasi oppressivi. Perfino il bene, se spinto all’ec-cesso, provoca danni invece di benefici. Questaiperprotezione, peraltro abbastanza diffusa (oraun po’ meno), ha come conseguenza e alla distan-za, risultati non del tutto positivi: spesso figlitimidi e impacciati, oppure ingiustamente credutitali. Genitori, frustrati nelle proprie aspirazionigiovanili da genitori autoritari e autorevoli, river-sano a loro volta sulle proprie creature, desideri

La scelta e l’imposizione

ELISABETTA ZANAROTTI TIRANINI

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repressi e mai realizzati. A questo punto, sorge-ranno almeno due obiezioni: la buona fede deigenitori normali che vedono, con l’applicazionedelle proprie scelte per la generazione da lorocreata un futuro sicuro, oppure la possibilità diribellione da parte di essa (generazione).Non dubitiamo dell’amore, né della buona fede,ma gli errori commessi sotto l’egida dell’uno edell’altra, comunque e purtroppo, lasciano traccedurature non indifferenti, Ognuno di noi vive il difficile ruolo di figlio; poimolti di noi a seconda delle vicende personali,hanno optato (alcuni in piena consapevolezza,altri purtroppo un po’ meno) anche per quello piùarduo e complicato di genitori. Ritengo personal-mente essere sempre utile il dialogo fra persone,addirittura fondamentale quello costante frapadre, madre e figli, perché è un dovere morale,un diritto reciproco e una gratificazione aiutare leproprie creature nelle loro scelte esaminandoinsieme con serenità, oggettività e pazienza i latipositivi e negativi di ogni situazione. La scelta diessere vicino a chi amiamo e a chi ci ama, discre-tamente senza mai essere ossessionati o ossessio-nanti, viene spontanea.Il polo opposto della libera scelta è l’imposizione.Un atto che spersonalizza l’individuo sul qualecade. Un ruolo determinante è offerto dalle circo-stanze, dalle occasioni, dalle consuetudini delluogo dove le tradizioni hanno valore di legge equindi di coercizione, soprattutto se le norme sca-turiscono o coincidono con i precetti religiosi omorali. In questi ultimi anni se ne parla frequentemente,perché le informazioni, le immagini e i continuicontatti con gente di altri popoli, soprattuttoextra-europei, ci mostrano che la libertà è un con-cetto assai vago, soprattutto assai limitativo neiriguardi di donne, bambini e poveri.In tale contesto, i condizionamenti sociali, famiglia-ri o etici sono così antichi, radicati e cristallizzatiche chiunque cerchi di ribellarsi per affermare lapropria personalità o dissidenza, o semplicemente ildesiderio di essere considerato un essere umano,rischia di mettere a repentaglio incolumità e vita.Non è facile scegliere di fuggire o di sfuggire,perché opzione è, intrinsecamente, possibilità di

metterla in pratica. Adeguarsi a determinati costu-mi fa parte di un certo “abito mentale” e subirlisembra assai grave per noi che viviamo in unadimensione molto diversa, dove possiamo, almenoparzialmente, programmare liberamente la nostragiornata.Gli esempi su scelta e imposizione sono infiniti,come sono infinite le vicende umane. La società èuna comunità dove è indispensabile ci siano delleregole di condotta, in quanto l’organizzazione e ilrispetto reciproco fra le persone costituiscono ilfulcro sul quale si basa il vivere civile.Subire delle imposizioni è triste e, come diceva-mo, difficile uscirne. Cedere a ricatti morali, acompromessi o perfino a minacce, non fa altroche dimostrare la nostra debolezza. Ma sta innan-zitutto alla nostra volontà e tenacia cercare pro-prio dentro noi stessi il coraggio e la forza pernon soccombere. Se in un’amicizia sincera trovia-mo consigli e disponibilità di aiuto per raggiunge-re finalmente la nostra agognata libertà e smetteredi crogiolarci nel timore, nella depressione e nel-l’autocommiserazione, siamo fortunati e apprez-ziamo l’occasione favorevole, perché incremente-remo l’autostima.Ci sono casi-limite per i quali la scelta è quasiimpossibile, perché è obbligata e quindi mostraun “vizio di consenso”.Tutto richiede tempo, osservazione e raziocinio.Importante non è correre, ma analizzare con accu-ratezza, facendo tesoro delle nostre esperienzeprecedenti per scegliere nel momento adeguato,affinché non ci siano recriminazioni quando ètroppo tardi. Non riusciremmo a perdonarcelo.

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è cominciato l’afflusso delle persone, soprattuttofedeli abitanti nei dintorni del Policlinico; più tardi,alla spicciolata, sono arrivati medici di vari reparti,sia del Policlinico, sia della Mangiagalli; molto ridot-ta la presenza degli infermieri, non agevolati dall’o-rario. Anche la presenza dei malati è stata alquantoridotta: due degenti sono stati condotti da via Pace,grazie alla disponibilità di un mezzo fornito dallaDirezione Sanitaria, una è stata accompagnata in car-rozzina dal reparto di Neurochirurgia; dunque intotale vi erano tre pazienti.Il cardinale Tettamanzi è arrivato in auto alle 15,25,accolto dalle autorità della Fondazione: Presidente,Direttore Generale, Direttore Sanitario e altri, nonchédal Rettore Vicario e dagli altri sacerdoti. Dopo que-sti saluti l’Arcivescovo è entrato in chiesa e quasisubito ha iniziato la sua conversazione, inserita in unmomento di preghiera.Il ciclo di catechesi quaresimali di quest’anno avevacome titolo “Testimoni della beatitudine cristiana”;il terzo incontro, quello svoltosi nella nostra chiesa,aveva come titolo “La vita promessa a chi soffre” etraeva spunto dal versetto evangelico “Beati voi cheora piangete, perché riderete” (Luca 6,21).Il Cardinale ha esordito affermando che, pur essendoveramente commosso nel pronunciare questo verset-to in un luogo di dolore e di speranza come il nostroospedale, le sue parole in realtà sono presenti e vivelà dove c’è una sofferenza, perché il luogo del doloree del pianto possa essere trasformato, con la grazia diDio e il nostro impegno, secondo la logica nuovadella beatitudine evangelica. La riflessione è prose-guita con la domanda sul significato del pianto, che èla reazione spontanea e immediata dell’uomo davantial dolore; il pianto è segno di sensibilità, delicatezzadi sentimenti, vero affetto, quindi è indice di veraumanità, di tenerezza, è una testimonianza di amore,uno dei modi con cui l’amore contrasta il male ecombatte il dolore.

Dalla nostra unità ospedaliera: il trimestre

Martedì 14 marzo u.s. la chiesa di San Giuseppe haavuto per la seconda volta la gioia di ricevere la visi-ta del suo Parroco, l’arcivescovo cardinale DionigiTettamanzi. La prima presenza nella chiesa ospeda-liera dell’attuale Arcivescovo si era avuta il 9 maggio2003, quando Sua Eminenza aveva presieduto unRosario durante le celebrazioni per il centenario del-l’edificio sacro. Questo secondo incontro si è realiz-zato in occasione di una catechesi quaresimale, il tra-dizionale appuntamento che vede l’Arcivescovotenere delle riflessioni a tutta la Diocesi grazie allepossibilità offerte dai mezzi radiotelevisivi. Que-st’anno si è deciso di registrare questi interventi delCardinale in luoghi significativi della città di Milano:dunque il cardinale Tettamanzi si è recato dapprimain una parrocchia di periferia, poi in una sede univer-sitaria, quindi al Policlinico. È rilevante il fatto che ilnostro Arcivescovo abbia scelto personalmente ilnostro Ospedale, tra i tanti presenti in città; questo hamostrato il legame del Parroco con la sua comunitàdi sofferenti; non a caso, già prima del suo ingressoufficiale in Diocesi, a fine settembre 2002, il Cardi-nale era venuto privatamente presso il reparto diEmatologia per incontrare un seminarista ammalato.La nostra Parrocchia ospedaliera ha concordato conl’Ufficio Stampa della Curia Arcivescovile la presen-za dell’Arcivescovo nel pomeriggio di martedì 14marzo; la catechesi sarebbe stata poi trasmessa mar-tedì 21 marzo sera.Nel giorno convenuto già da metà mattina c’era ani-mazione in chiesa: operatori e tecnici del suono con-cordavano con il regista la collocazione dei vari stru-menti tecnici, mentre per l’Arcivescovo era stato pre-disposto un sobrio tavolo con una sedia davantiall’altare, in posizione centrale, ma non elevata.L’appuntamento per la registrazione era fissato per le15,30, ora in cui di solito viene celebrata la Messa,ora che sembrava la più adatta alle esigenze deimalati. Terminata la preparazione tecnica, alle 14,30,

Il Parroco, cardinale Dionigi Tettamanzi, in visita alla sua Parrocchia

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Ma, al di là dei significati umani del pianto, il Cardi-nale ha voluto chiedersi quale sia il centro della fraseevangelica “Beati voi che ora piangete”. Il centro ènaturalmente la persona di Gesù che non solo ha pro-nunciato, ma ha anche vissuto queste parole: Lui è ilbeato per antonomasia, anche dal punto di vista delpianto. Diverse pagine dei vangeli ci offrono testimo-nianze sul pianto di Gesù; ad esempio, nell’episodiodella vedova di Nain, Luca dice che “vedendola, ilSignore ne ebbe compassione e le disse ‘Non piange-re’” (Luca 7,13). Ancora Luca ci parla del pianto diGesù mentre, dal monte degli Ulivi, guarda alla cittàdi Gerusalemme e pensa alla sua devastazione (cfr.Luca 19, 41-44). Invece nel vangelo di Giovanni c’èla testimonianza, molto viva e forte, del pianto diGesù davanti alla tomba dell’amico Lazzaro (Gio-vanni 11, 35). Da questi cenni emerge il grandecuore di Gesù, il suo desiderio di difendere l’umanitàda ogni male; su questa linea si pone tutta l’attivitàterapeutica di Gesù, che è insieme liberazione dalmale, guarigione e consolazione. Il vangelo ci sor-prende con il suo messaggio di speranza: esso ciassicura che è possibile piangere senza disperarsi,vivere la propria e altrui malattia senza cadere predadella paura e dell’angoscia senza chiudersi e rimane-re imprigionati nella solitudine. La perdita della salu-te, temporanea o definitiva, non è una tragedia irre-parabile, non è una condanna senza appello.Nel mondo della salute e della malattia la Chiesadiviene segno nuovo di speranza: una speranza che èinsieme frutto e fonte di amore concreto e operoso.Esso scaturisce dall’interiore ‘compassione’ e siesprime nella ‘condivisione’ della prova della soffe-renza; sentirsi amati, non abbandonati, capiti, per-mette di superare momenti difficili e pesanti, mentreanche il solo pensiero di dover dipendere dagli altrifinisce spesso per essere sentito come la prova piùgrave. Risulta allora benefica e importante la ‘testi-monianza’ dei medici, degli infermieri, dei volontari,in un ospedale o in una casa di cura; così pure èimportante la testimonianza dei cappellani, dei dia-coni, delle religiose, degli operatori pastorali e si puòrivelare molto preziosa la visita dei parenti e degliamici.Il cardinale ha poi accennato a un altro tipo di pianto,in rapporto a un altro tipo di sofferenza, cioè quellamorale. È possibile piangere sulle fragilità morali, sia

proprie, sia altrui, sulle scelte e sui comportamentisbagliati, che rovinano l’esistenza; tutto ciò in riferi-mento non solo al male compiuto dalla singola per-sona, ma anche al male sociale che inquina la nostrasocietà mediante tante forme di ingiustizia e di vio-lenza. Anch’esso provoca il pianto dei giusti, unpianto che diviene fonte e forza di impegno anchesociale e politico, che fa nascere una nuova moralitàe rettitudine interiore e alimenta la preghiera diintercessione presso il Signore giusto e misericordio-so. Infine c’è un pianto che sgorga dalle proprie fra-gilità e colpe morali, esso non deve essere disperato esenza speranza; non dobbiamo diventare vittime dei‘sensi di colpa’ che finiscono per paralizzarci edistruggerci moralmente. È diverso invece il ricono-scimento del peccato che sfocia nel pentimento, resopossibile dalla fiducia che sempre dobbiamo averenell’amore misericordioso di Dio.Al termine della sua esposizione il Cardinale ha con-cluso il momento di preghiera, impartendo la suabenedizione ai presenti, poi si è trattenuto in chiesa asalutare gli intervenuti: malati, medici, personale,volontari e semplici fedeli che hanno occupato buonaparte dell’edificio di San Giuseppe ai Padiglioni.Uscito dalla chiesa, il Cardinale è stato accompagna-to nel rinnovato reparto di Ematologia, al primopiano del padiglione Granelli, proprio là dove si erarecato nel settembre 2002 nella sua prima visita pri-vata al nostro Ospedale. L’Arcivescovo si è intratte-nuto cordialmente con medici e infermieri del repar-to, poi è entrato nelle diverse camere, ristrutturate edotate di ogni comfort, e ha salutato tutti gli ammala-ti, non facendo mancare la sua parola di conforto e disperanza ai degenti che si trovano alle prese con unapatologia che richiede molta pazienza e impegno dicura.Terminata la visita a questo reparto, il Cardinale èstato accompagnato alla clinica De Marchi, dove havisitato il nuovo Pronto Soccorso pediatrico, è salitoai diversi piani per incontrare i bambini degenti con iloro familiari. Un momento cordiale e gioioso. SuaEminenza si è dimostrato non solo pastore, ma anchepadre per i piccoli ricoverati, che l’attendevano.Una giornata particolare per la Parrocchia e per tuttinoi: ci auguriamo affettuosamente che questo dono sirinnovi.

don Daniele Grassi

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In data 24 giugno 2006 è scomparsa, causamalattia incurabile, la nostra carissima col-lega ed amica Nicoletta Milani, dipendentee prima ancora contrattista della DirezioneScientifica sin dal 1989.Nicoletta ha per anni curato - tra l’altro - lagestione dei fondi e la rendicontazione perla ricerca corrente e finalizzata dell’IRCCS,con la passione, l’impegno e la dedizioneche ha sempre profuso e che ha caratteriz-zato la sua attività lavorativa sino all’ultimogiorno.Come colleghi ci mancheranno la suadisponibilità e pazienza oltre all’acume,alla lucidità mentale con cui era solitaaffrontare ogni problema sino ad arrivarnealla soluzione, il suo punto di vista semprelogico e concreto, volto a giungere rapida-mente al cuore di ogni singola situazione.Come amici invece non sappiamo in chemodo affrontare la sua mancanza, abituati acondividere con lei ogni gioia o affannopersonale e quotidiano. Ci aiutiamo pen-sando a cosa avrebbe potuto ancora raccon-tarci o consigliarci in un determinato fran-

gente, ed ora più che mai avvertiamo il suoaffetto e calore umano. L’enorme forza d’animo, la determinazionee la dignità con le quali ha combattuto ilmale da cui era affetta sono state e conti-nueranno ad essere per tutti noi di grandeesempio morale.

Silvia Panico

Su proposta del direttore scientifico prof.Ferruccio Bonino, il Consiglio di Ammini-strazione della Fondazione IRCCS Ospeda-le Maggiore Policlinico, Mangiagalli eRegina Elena ha deliberato di intitolare aNicoletta Milani l’aula situata in prossimitàdell’Archivio Storico, sede dei lavori delComitato Tecnico Scientifico.

Ricordiamo Nicoletta Milani

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Il 5 aprile 2006, presso l’Aula Crociera Altadell’Università degli Studi di Milano, la Fon-dazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlini-co Mangiagalli Regina Elena e il Centro StudiPoliteia hanno realizzato una giornata didibattito pubblico e un laboratorio intorno agovernance, salute ed esperienze di medicinapartecipativa.A sottolineare che la pertinenza del benesseree della cura riguarda, seppur diversamente,ciascuno di noi, hanno contribuito alla sessio-ne aperta studenti, malati, professionisti dellasalute, volontari, membri di associazioni dimalati, cittadini, docenti universitari, ricerca-tori. L’incontro è stato allora, non casualmen-te, parte del programma del Dottorato inScienza, Tecnologia e Diritto della Facoltà diGiurisprudenza dell’Università di Catania consedi associate presso l’Università Cattolicadel Sacro Cuore di Piacenza, la Luiss e laLumsa di Roma.Punto di partenza dei lavori è stato il numeromonografico di Notizie di Politeia, Governan-ce e salute: un laboratorio tra ricerca e cura,risultato di studio e confronto tra storie ecompetenze differenti, accomunate da proget-ti ed esperienze di pratiche e modelli parteci-pativi.Nella mattinata, dalla riflessione e discussio-ne intorno alle tematiche espresse in Politeia,che ha raccolto rielaborazioni teorico-criticheed interdisciplinari sulla partecipazione inmateria di salute, si è passati, nel pomeriggio,alla rappresentazione di uno spazio reale econcreto, una condivisione di testimonianze eracconti in prima persona su percorsi di curapartecipata o meno.

Proprio questo approccio, diretto al cuoredelle azioni cliniche, che vede cittadini, sog-getti malati e professionisti della salute lavo-rare insieme agendo competenze, valori, biso-gni e responsabilità in vista della realizzazio-ne del percorso terapeutico e di assistenza, siè concretizzato e verificato attraverso l’analisicritica di percorsi di cura vissuti.La sessione pomeridiana si è aperta con la let-tura di alcune storie, raccontate da operatoriche ci hanno offerto la loro “messa in gioco”,il loro “stare nelle pratiche” in modo parteci-pativo e complesso, costruendo insieme al cit-tadino malato, risorsa da rispettare/considera-re quale interlocutore, un processo di cura co-prodotto e condiviso. Se e quando “non èandata”, spesso è mancato o fallito il rapportocon l’istituzione più che la relazione con ilprofessionista che, comunque, ci ha provato.Infatti, sono state proprio le storie personali,espressione di un fare comune, dove si intrec-ciano e compenetrano linguaggi e vissutiestremamente differenti, ad illuminare leriflessioni teoriche sulla medicina, rimarcan-

Una giornata di medicina partecipativa

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Due momenti della giornata di medicina partecipativa.

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done, a volte, l’inadeguatezza e la lontananzadai veri bisogni e dai desideri della personamalata. I percorsi teorico-decisionali e le azioni par-tecipate, esplicitate nel corso del dibattitomattutino e del laboratorio, trovano nellaFondazione Policlinico un ospite emblemati-co, che offre la possibilità di costruire unaprospettiva pratica e culturale condivisa sullasalute. Il Policlinico, la “Ca’ Granda dei Milanesi”,rappresenta per Milano e non solo, un luogodi incrocio e partecipazione pubblica fra asso-ciazioni dei malati, volontari e donatori, doveil cittadino-malato può inserirsi in una rete dirisorse e servizi territoriali che lo tutelano elo proteggono nel suo percorso di cura parte-cipata. In più, la stessa Fondazione Policlini-co è un attore principale nel gioco della salu-te, in quanto si dispiegano, al suo interno,alcune esperienze concrete di cura nelcampo della medicina partecipativa, comedescritto nel numero monografico di Politeia.Qual è stato il plusvalore della giornata?Quali le tematiche rimaste inesplorate? Sonoconcepibili e praticabili ulteriori spazi perfacilitare una concreta partecipazione pubbli-ca in medicina? L’orizzonte rimane aperto: laFondazione Policlinico cerca di coniugaremodelli clinici con pratiche di medicina per-sonalizzata, “tagliata” su misura del cittadinomalato.Così, l’interrogarsi sulla realtà e sul futuro diuna medicina partecipativa prosegue, promos-so in primo luogo dalla Direzione Scientificadella stessa Fondazione, attraverso l’elabora-zione di progetti di ricerca, seminari e work-shop. La salute è un bene che riguarda tutti econ modalità differenti, tutti siamo chiamati aparteciparvi. Comunque vada, anche se rinun-ciamo all’opportunità di giocare in prima per-sona al gioco della nostra salute e ci “tiriamofuori”, delegando ad altri, diventiamo centro

di decisioni e scelte intersoggettive cheriguardano non solo i processi e le azioni dicura, ma anche e, forse soprattutto, hanno ache fare con il riconoscimento di essereun’alterità da considerare e da interpel-lare/consultare/interrogare di fronte agli sce-nari sempre diversi e pluralisti che la medici-na contemporanea ci offre.

Simonetta Bottardi

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Giorgio Cosmacini, Un medico trafilosofia e medicina, Viennepierre,Milano 2006

“Io volevo studiare medicina, perònon potevo abbandonare la filoso-fia […] Così l’interna lotta sirisolvette in una conciliazione”.Queste parole di Jakob Mole-schott, il medico-fisiologo di fineOttocento oggetto nel 1977 delletesi di laurea in filosofia del medi-co-filosofo Giorgio Cosmacini, sisarebbero potute ben adattare conqualche variazione anche a que-st’ultimo: “Ho studiato medicina,ma non ho potuto abbandonare lafilosofia”. Sicché per entrambirisultava più che mai vera l’affer-mazione del primo:”Fu per meevidente che ogni mia ora dedicataalla filosofia doveva approfondirele mie basi della medicina”.Questo il “programma di lavoro”del medico-radiologo GiorgioCosmacini giunto ormai, nel cam-mino della sua vita, alla maturitàdei quarant’anni e al ruolo di pri-mario nel grande Ospedale Poli-clinico di Milano. Rievoca questopercorso culturale, questa nuovastrada esistenziale, questa nuovasfida professionale ripercorrendole tappe vitali di una nuova stagio-ne. Perché “i ricordi sono il saledella vita”, costituiscono il “sapo-re” dell’esistenza, la “salute del-l’anima”, rappresentano il “salutodel tempo che passa”. “I ricordi,come le parole, sono pietre.Costruiscono, ricostruiscono, sono

Per tentare di dare una risposta aquesta domanda egli riscopre lasua vocazione filosofica e inizia laricerca delle radici storiche del“mestiere di medico”. In ambitomedico la prassi risulta inscindibi-le dall’ideologia. Prendendo spun-to dalla sua tesi di laurea scrivenel terzo volume degli Annalidella Storia d’Italia (Einaudi1980) un saggio intitolato “Pro-blemi medico-biologici e conce-zione materialistica nella secondametà dell’“Ottocento” e l’annosuccessivo, nel quarto volumedegli stessi Annali un altro contri-buto dedicato a “Medicina, ideolo-gie, filosofie nel pensiero dei cli-nici tra Ottocento e Novecento”.Nel 1982 pubblica un libro pressol’editore Franco Angeli su Scienzamedica e giacobinismo in Italia sul-l’impresa politico-culturale di Gio-vanni Rasori tra il 1796 e il 1799.Sono le prime pubblicazioni delmedico-filosofo Giorgio Cosmaci-ni riguardanti la storia della medi-cina, nelle quali emerge già chia-ramente quale è il suo innovativomodo d’indagine e di lettura del-l’evoluzione del pensiero medico:non un’analisi “interna”, “trionfa-listica”, come sovente presentenegli scritti storico-medici, maun’indagine degli eventi che tengaconto, insieme ai fatti, contestua-lizzati nella realtà storica e socialein cui si svolgono, anche dellavisione ideologica che sottendel’agire medico dei protagonisti.Sono saggi esemplificativi di

indispensabili per tenere in piedil’edificio del nostro vissuto”.Con queste parole Giorgio Cosma-cini rende esplicito il senso dellariflessione esistenziale che costi-tuisce la struttura del nuovo volu-me autobiografico Un medico trafilosofia e medicina. Diario deglianni d’argento: 1971-1989 (Vien-nepierre edizioni, 2006). Il quartodi una fortunata serie iniziata conLa stagione di una fine. 1943-1945(Terziaria, 2002) e proseguita conUna famiglia qualunque. 1918-1940, Solomenevò 1945-1950, Ilromanzo di un giovane medico.1951-1971 (Viennepierre edizioni,2003, 2004, 2005), trilogia que-st’ultima alla quale è stato asse-gnato nel 2005 il premio AMSI(per medici scrittori) come primoclassificato nella narrativa allaXXII edizione del Premio lettera-rio “Cesare Pavese” - “GrinzaneCavour”.La vita professionale del medicos’interseca e s’interroga con lariflessione culturale dell’uomo; latecnologia sanitaria - di cui comeprimario radiologo di un grandeospedale milanese vive in primapersona lo straordinario sviluppo -,basta da sola ad assicurare il pro-gresso della salute collettiva e amigliorare la qualità di vita deisingoli? È un quesito cruciale, nonsolo speculativo, ma principalmen-te ed essenzialmente pratico, lega-to al modo di esercitare la medici-na e calato nella realtà quotidianadell’agire dentro l’ospedale.

Recensioni

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come la storia del pensiero medicopossa essere estremamente utileper capire i problemi della medici-na attuale.Questo modo di procedere piaceagli storici, ma molto meno aimedici, che ritengono sconvenien-te sottoporre a critica storica unamedicina che è già in crisi per suoconto. Non piace affatto, comerievoca lo stesso Cosmacini, “airari professori di storia delle medi-cina, ch’era una disciplina scadutadalla sua migliore tradizione cul-turale, ridotta a campo di esercita-zioni marginali e divenuta ines-senziale alla cultura del medico”.Nel 1984 escono due nuovi sagginel settimo volume degli Annalidedicato a “Malattia e medicina”e, per i tipi della Rizzoli, il libroRöntgen, un’ampia biografia sulloscopritore dei raggi X, che ottieneun grande successo di pubblico edi critica. Segue qualche mesedopo un altro volume, della stessaserie, dedicato a Gemelli , “ilMachiavelli di Dio”. Un libro que-st’ultimo che rompe molti tabù esuscita grandi dibattiti, ma che rile-va ancor di più uno “storico dirazza” sui generis che sa leggere inmodo nuovo vicende, episodi edeventi della storia medica italianaEgli inaugura così una originaleriflessione sulla storia della medi-cina e della sanità in Italia, desti-nata a trovare la sua realizzazionemaggiore in un’opera epocale,mirante a rinnovare la culturamedica italiana. Lo ricorda conparole vibranti lo stesso autore:“Che la medicina abbia o debbaavere una propria intrinseca filo-sofia è un’idea fattasi dominante,che spesso in ospedale lo fa senti-re un pesce fuor d’acqua; a colle-

ghi che parlano di ‘tempistica’massima o minima da riservare aquesto o a quell’esame radiologicoper rendere più ‘produttive’ le pre-stazioni, le citazioni da Platone fattedal primario radiologo fanno pensa-re che questi sia fuori del tempo emagari anche fuori di testa.Eppure Platone ha lasciato scrittonelle Leggi che ci sono ‘due speciedi quelli che si chiamano medici’: imedici degli schiavi e i medici degliuomini liberi. Tra i primi ‘nessunodà o ascolta e, prescritto ciò che parmeglio alla loro esperienza come sene avessero scienza perfetta, fannocome un tiranno superbo e tosto sidiscostano’. Tra i secondi, invece,ognuno agisce ‘dando informazio-ni allo stesso ammalato [e] nonprescrive nulla prima di aver per-suaso per qualche via il paziente, eallora si prova di condurlo allaperfetta guarigione’.Platone non era medico, era filo-sofo. Eppure capiva di medicinapiù di molti medici suoi contem-poranei […]La medicina aveva dunque biso-gno d’essere ‘filosofa’ […]. Lamedicina ha infatti una sua propriametodologia, che si chiama ‘meto-do clinico’; ha una sua propriaepistemologia, cioè una peculiareconcezione scientifica del corpo,della mente e dell’ambiente, vale adire dell’uomo e del mondo: hauna sua propria etica […], nellaquale si disegnano i problemimorali e giuridici delle scienzedella vita con il fine preciso d’in-dicare che ogni conquista incampo medico-biologico dev’es-sere utilizzata per migliorare laqualità del vivere.Metodo, episteme, senso etico epolitico: cos’altro ci voleva per

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ribadire che medicina est philo-sophia seconda, come aveva affer-mato […] Isidoro di Siviglia,vescovo e medico? IppocrateGaleno, Platone, Isidoro e poi su,fino all’Ottocento e ai giorninostri… Tutta la storia del mondocivilizzato era lì a dimostrare chela medicina è un’arte lunga cheper essere ben esercitata va com-presa nella sua vera ‘essenza’ onella sua evidente ‘fenomenolo-gia’. Per comprenderla al meglioera necessario passare attraversola storia”.Questo l’antefatto ideologico eprofessionale che, grazie al soste-gno culturale, umano e intellettua-le di un illuminato editore, VitoLaterza, porterà il nostro medico,divenuto anche storico e filosofoconvinto, a pubblicare nel 1987 ilvolume Storia della medicina edella sanità in Italia, un “avveni-mento editoriale” che, dalla pesteeuropea alla Guerra Mondiale(1348-1918), come precisa il sot-totitolo, si pone lo scopo di rac-contare e indagare per la primavolta in modo documentato e criti-co le vicende mediche e sanitarieche per più di mezzo millenniohanno interessato la penisola.È un “libro meraviglioso”, che silegge “tutto d’un fiato” come hascritto d’impeto ma con sincerità daParigi - dove lavora - il maggiorstorico europeo, Mirko D. Grmek,che subito propone che l’operavenga tradotta e pubblicata in fran-cese (cosa che accadrà poco dopocol titolo Soigner et réformer).Il successo di critica e di pubblicoè pari allo scalpore suscitato negli“addetti ai lavori”. “Al caldo con-senso di Grmek - annota nella suaautobiografia l’autore, - di un

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vasto pubblico e di non pochi“addetti ai lavori” - storici, filoso-fi, sociologi, antropologi e medici- si giustappongono i consensitiepidi di alcuni colleghi e si con-trappongono i consensi frigidi o itaciti dissensi degli storici mediciimpancati nelle cattedre, disturbatida quella che evidentemente con-siderano una inaccettabile conta-minatio tra medicina e sanità, trauna scienza presunta, della cui‘tecnica’ si ritengono depositari, ela storia ‘sociale’, a parer loropericolosamente intinta o intrisa disociologia e di politica. Che dia-mine! Rendere spuria una storiapura? Aprire una storiografiagestita in regime protezionistico,di monopolio, alla libera concor-renza di storici e filosofi? Conta-minare le teorie mediche con leideologie? Intingere i fatti scienti-fici in eventi coevi che scientificinon sono? Rapportare dialettica-mente fra loro Rivoluzione scien-tifica e Controriforma? Correlarele trasformazioni ospedaliere, uni-versitarie, sanitarie tra Settecentoe Ottocento con la Rivoluzionefrancese? Che tipo di storia dellamedicina è mai questa? Il veronodo è un groppo che non vienedigerito, ed è il fatto che un medi-co radiologo, laureato in filosofiae in veste di storico, ha osato trac-ciare una storia nuova, che trovagli storici medici delle cattedreculturalmente impreparati, spiaz-zati”.Le prime recensioni, su giornaliautorevoli, sono però tutte ampia-mente favorevoli. Perciò, concludeil nostro autore, “non ti curar diloro…: mai il padre Dante fu piùmaestro di vita”. FortunatamenteGiorgio Cosmacini ha seguito alla

viviamo (…) dobbiamo rientrarein noi stessi e risvegliare in noiquel senso e impegno morale cheè proprio degli esseri ragionevo-li”.Con questa frase, scritta più di unsecolo fa da Leone Tolstoy(“Sulla follia”) ma di drammaticaattualità, le autrici del collettivoMatuta danno inizio alla tratta-zione di un tema assai complesso,quello del rapporto tra problemi efatti dell’economia e problemidell’etica (pag 19).Il Collettivo Matuta, che prende ilnome dall’antica dea italica del-l’aurora (da cui deriva il termine“mattina”) è un gruppo di perso-ne che “… si propone di contri-buire alla diffusione di una cultu-ra a favore della vita (umana,vegetale, animale) servendosianche delle specifiche qualitàfemminili di istruzione, sensopratico e cura” (pag 168). Leautrici che ne fanno parte sonoquattro valenti professioniste:Marinella Correggia, giornalista,Maria Grazia Gazzeri, del gruppoAmici di Tolstoy; Monica Onnis,mediatrice interculturale; MartinaPignatti Morano, economistagandhiana.Va dato atto alla serietà e allacompetenza di queste donne nel-l’attuare il loro impegno sia nellaricerca critica nell’ambito delsistema economico, che nellaproposta di possibili rimedi, inprimo luogo a livello personale,per contrastare l’attuale anda-mento distruttivo di tale sistemase scollegato da principi morali.Da Tolstoy, il cui pensiero apparecome guida profetica della lorodissertazione, le autrici prendonoil titolo “E dunque che fare?”,

lettera questo consiglio e, comecertamente egli ci racconterà nelprossimo volume, vedremo inquale modo sono continuati sia ilsuo percorso ideologico sia la sua“rivoluzione” storiografica chehanno entrambi contribuito inmodo sostanziale al rinnovamentodella cultura medica e alla crescitadella coscienza sanitaria nelnostro paese.In queste pagine appare evidenteanche come la vicenda storiografi-ca di Giorgio Cosmacini s’intrec-cia con la vita storica di GiorgioCosmacini. La sua vita pubblica eaccademica è inscindibile dallasua vita privata e familiare. Ognievento autobiografico dell’uomocontribuisce alla crescita culturaledello storico. Biografia e storio-grafia si arricchiscono reciproca-mente. Questo libro è un’ulteriorelezione di Giorgio Cosmacini atutti noi: prassi e cultura, metodoed etica, episteme e ideologianella vita come nella professionerappresentano spesso un unicuminscindibile, un “nucleo” che deveguidarci per capire da dove venia-mo e dove dobbiamo andare.

Vittorio A. Sironi

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Collettivo Matuta, E dunque chefare? Cambia il tuo stile di vita esalverai il pianeta. Prefazione diAlex Zanotelli . Ed. Paoline,Milano, 2006

“Noi viviamo una vita folle, con-traria ai più semplici ed elemen-tari dettami del buon senso; persalvarci dall’orrore nel quale

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titolo che Tolstoy aveva dato adun proprio scritto riflettendo sullamiseria di tanta parte dell’uma-nità (pag. 20).Poiché l’intento delle autrici èformativo oltre che informativo,il libro è strutturato in una formadidatticamente interessante percoloro che, non essendo addetti ailavori, hanno bisogno di sapernedi più, ed in modo adeguato percapire, comportarsi, decidere,essendo coinvolti in un sistemaeconomico che li riguarda, ma lacui complessità li rende estranei.Appare altro significativo intentoquello di aiutare il lettore adapprendere un metodo per legge-re criticamente le situazioni eco-nomico sociali in cui viviamo ed icui squilibri, indotti dalla scissio-ne tra l’economia moderna e l’e-tica, ricadono in modo perversosulla vita umana e sull’ambiente.Sebbene ci sia dato oggi di fruiredi un grandioso progresso tecno-logico che sembrerebbe soddisfa-re tutti i bisogni umani, non pos-siamo ignorare i dati allarmantiche ci provengono dal mondo intermini di inquinamento, disastriecologici, guerre, violenze sullepersone; così come non possiamonon renderci conto di vivere in unmondo economico diretto daorganizzazioni che sfuggono alcontrollo delle popolazioni e chedominano i principali settori dellavita sociale, quelli dell’alimenta-zione, dell’energia, della sanità,dei farmaci, dei trasporti; orga-nizzazioni, quindi, che detengonoun enorme potere (pag 49).La ragione, mettono in evidenzale autrici, va ricercata negli erroriconcettuali elaborati dall’econo-mia moderna, la quale ha espulso

sociale riguardanti il guadagno,le proprietà, ne vediamo gli squi-libri che producono sperequazio-ni nelle remunerazioni, eccessidella ricchezza e del lusso, da unlato, e dell’estrema povertà dal-l’altro; essi rappresentano unostacolo allo sviluppo sociale,morale e spirituale, poiché i trop-po poveri, privi di istruzione e dibeni sufficienti, non possonoaffrancarsi dalla miseria, mentre itroppo ricchi, impegnati nel pos-sesso e nella conservazione deibeni, non riescono a liberarsidalle cose materiali.Nel confronto con l’etica l’uma-nità si trova di fronte a due siste-mi contrapposti; pertanto si apreil problema della “scelta” cheimplica il raffronto tra le tenden-ze egoistiche dell’uomo e il benecollettivo.Mentre non mancano studi criticisull’economia moderna, menoincisiva appare la parte propositi-va, spesso presentata a livelloteorico e, comunque, non coin-volgente la partecipazione e ilcontrollo della gente comune.È ben vero che oggi crescono leproteste di gruppi di popolazionisfruttate, penalizzate sul pianoambientale e della salute, o digruppi di pressione, come il Col-lettivo Matuta, volti ad informaree soprattutto a coinvolgere le per-sone sul piano della conoscenzadei problemi e delle relativeresponsabilità anche a livelloindividuale.Si coglie tuttavia che la denunciadei rischi di collasso cui vaincontro il pianeta e tutta l’uma-nità, può talvolta suscitare sde-gno, preoccupazione; ma spessonon giunge ad incidere sulle

l’etica, proclamando come valoriquelli relativi al guadagno senzascrupoli, allo sviluppo materialesenza distinzione tra bisogni fisi-ci e psichici, all’uso apparente-mente illimitato dei beni econo-mici, alla superproduzione senzaattenzione agli sprechi e all’accu-mulo dei rifiuti, allo squilibrio trachi consuma in modo insensato echi muore di fame.L’avvento dell’economia comescienza indipendente è statasostenuta anche da “cattivi mae-stri”, i quali hanno esaltato, comeobiettivo dell’azione umana, l’u-tile, il guadagno a tutti i costi,l’egoismo, lo sfruttamento; persostenere tali iniqui principi essihanno usato sia l’inganno intel-lettuale, ovvero la persuasioneocculta che dal male potessenascere il bene,sia il perversoconsiglio a comportarsi senzascrupoli, senza altruismo, poiché“il grande affare è guadagnaredenaro”, come diceva l’economi-sta Adam Smith (pag. 45).Prima di affrontare il “Che fare?”le autrici propongono delle rifles-sioni in chiave religiosa con rife-rimento sia alla “sobrietà”, cheimplica autocontrollo, sia alla“carità” nel senso di condivisionedei beni con altri uomini. Ciò inbase al principio fondamentaledella paternità divina che fa degliuomini figli di Dio e fratelli fra diloro.Tali principi, almeno nel sensodella condivisione, sono presentianche nella cultura laica, nelladichiarazione dei diritti dell’uo-mo; ma in pratica rimangono ina-scoltati.Se analizziamo infatti le piùcomuni categorie dell’economia

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coscienze, a far crescere l’esigen-za di un cambiamento; sia perchéil l inguaggio della denunciaappare ormai logoro, sia perchéle quote di popolazione chehanno raggiunto un minimo dibenessere sentono il problemalontano dalle loro responsabilità;mentre quelle più povere, ai limi-ti della sopravvivenza non hannorisorse né forze per tentare uncambiamento. Anzi, proprio que-ste masse vengono ingannate conun modello economico che fa ilgioco degli oppressori.Le autrici chiamano allora a rac-colta quelli che rifiutano l’attualesistema economico, quelli che siindignano per motivi morali ereligiosi, che sentono amore perla vita e rifiutano il “relativismo”come atteggiamento negativo chemisconosce verità e fede e lasciala valutazione del bene e del maleal soggettivismo.È con questi “altromondialisti”che esse sviluppano un dialogoper immaginare un mondo diver-so, un’utopia che richiede però,anche nell’immaginare, un cam-biamento di ottica, un modonuovo di vedere la realtà, di inter-rogarsi sulle proprie responsabi-lità.Si tratta di una vera e propria“conversione” interna quella chearriva a modificare il pensierosotto la spinta di motivazioni nonsolo utilitarie, ma anche eticosociali e religiose.Cosa può fare il cittadino peropporsi alle lusinghe economi-che? Come ci indica Tolstoy cia-scuno può modificare il propriostile di vita, il suo rapporto con ildenaro, con i beni della natura edella tecnologia. Si tratta della

ricerca, perlopiù inconsapevole epaziente.Le diverse scienze che compongo-no il sapere, attraverso i proprirami accademici e applicati, hannocostruito percorsi di ricerca tecni-ca e scientifica allo scopo di defi-nire e descrivere i fenomeni che lacomplessa realtà del divenire pro-pone alla loro attenzione.Marisa Cantarelli, attraverso que-sto libro di metodologia dellaricerca infermieristica e sociale,descrive il senso stesso dell’esserescienza, disciplina e, più in defini-tiva, uomini inseriti nelle variabilidi tempo e di spazio.L’autrice, per molti anni docentedi ricerca infermieristica presso laScuola Universitaria di DisciplineInfermieristiche dell’Universitàdegli Studi di Milano (di cui èstata lungamente vice-direttricema, soprattutto anima pulsante),accompagna il lettore, in un per-corso scientificamente rigoroso edaffascinante, all’interno dellaricerca sociale e della ricercainfermieristica.Per molti secoli, nella sommariadefinizione storica delle scienzetra esatte e non esatte, si è ritenutoche la metodologia di ricerca –nella sua impostazione post gali-leiana – non fosse applicabile allescienze di tipo sociale. È infattistoria recente la nascita dellaricerca sociale come ambito lecitoe possibile di ricerca scientifica.Oggi la ricerca sociale, ed in essala ricerca infermieristica, ha unastoria, una tipicità di approccio,una specificità metodologica.Marisa Cantarelli non solo ha vis-suto questo periodo di costruzionedi ricerca, ma lo ha di fatto gene-rato, accompagnato, realizzato.

“strategia dei piccoli passi” checonsiste nell’organizzare lespese, nel sottrarsi alla dipenden-za consumistica diventandopadroni di se stessi e della rela-zione con il mondo. Cosa chenessuno può impedire a chi lovoglia.Conclude il testo il “Decalogo delconsumatore critico ecosolidale”contenente un insieme di regolecomportamentali che ciascunopuò applicare a se stesso superan-do l’errata convinzione che acambiare debbano essere gli altri.Ciò non solo per ragioni morali,ma anche sulla base del principiosistemico che il cambiamento,pur a livello di una piccola partedel sistema di regole e di relazio-ni, influisce sul cambiamento delsistema nel suo complesso.Come afferma Padre Zanotellinella sua intensa e significativaintroduzione: “O facciamo unsalto di qualità, o nasce l’uomonuovo, o non ci sarà più umanità.Ecco la sfida”.

Milena Lerma

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Marisa Cantarelli. Gli infermierinella ricerca. Metodologia dellaricerca sociale applicata all’infer-mieristica. McGraw - Hill, Mila-no, 2006, 323 pagg., 26,00 euro

Da sempre, ed oggi più che mai, laricerca è sinonimo del vivere del-l’uomo. Ciò che oggi noi siamo è,anche e soprattutto, risultato diuna lunga ricerca umana. Una

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Autore infermieristico molto notoin Italia ed in Europa, Cantarelliè stata ed è ricercatrice attenta deifenomeni infermieristici; ellainfatti ha consegnato alla comu-nità scientifica ed al serviziosanitario nelle sue varie evoluzio-ni, alcune delle più importantiricerche su cui oggi si basa lamoderna concezione di salute, diservizio sanitario e di assistenzainfermieristica.Il testo si articola in tre diverseparti. La prima parte definisce la meto-dologia della ricerca sociale, laseconda parte la metodologiadella ricerca infermieristica, laterza parte descrive gli infermieriquali necessari protagonisti diricerca.La logica del testo, rigorosamentescientifica,muove dal presuppostoche non può esistere assistenzainfermieristica senza ricercainfermieristica e che ogni feno-meno di interesse disciplinaredebba essere sottoposto a verificaempirica.Tale presupposto trova giustifica-zione nella prima parte del testoed in particolare nel capitolo Iche mette da subito a fuoco ladifferenza esplicativa tra ricercascientifica classica e ricercasociale. Nel secondo capitolo,l’autrice, propone, in modoapprofondito, la caratterizzazionedei procedimenti teorico e praticodel processo di ricerca sociale.La parte seconda del libro costi-tuisce il più completo ed origina-le contributo di letteratura neldefinire compiutamente la ricercainfermieristica con una dettaglia-ta panoramica sugli strumenti diraccolta dei dati di ricerca.

sto testo, ci cattura pedagogica-mente nel cammino di ricerca e cichiama alla responsabilità diviverla, nei diversi ruoli che eser-citiamo.Leggendo questo libro non pos-siamo fare a meno di sentire innoi un appello a partecipare allacostruzione della scienza, essen-done origine e destino.

Edoardo Manzoni

Nella terza parte vengono analiz-zati i diversi ruoli che gli infer-mieri possono svolgere in ambitodi ricerca. In tal senso l’autriceconcepisce la ricerca quale veromotore di cambiamento delmondo professionale, quale luogodi coinvolgimento di tutti i pro-fessionisti capaci, nei diversiruoli, di utilizzare i risultati diricerca, di collaborare alla suarealizzazione, di progettare e rea-lizzare un percorso di ricercainfermieristica.La sua ben nota capacità didatticaci offre un libro arricchito dacontinue schede applicative, pro-tocolli esecutivi, esempi concretidi ricerca; in essi il lettore sisente accompagnato, affascinatoe, di fatto, educato.Il libro non si propone quindicome un semplice testo di consul-tazione, ma come un vero e pro-prio manuale rivolto a tutti gliinfermieri e a tutti i professionistidella ricerca sociale.Un libro scritto per essere utiliz-zato concretamente.Attraverso di esso, infatti, l’autri-ce riesce a porre a frutto l’espe-rienza personale di cinquantaanni di attività educativa e diricerca creando uno strumentosemplice, chiaro e utilizzabile pertutti.Il libro colma una duplice lungaassenza scientifica. In primoluogo descrive finalmente laricerca infermieristica in unpanorama di assoluta carenza diletteratura; in secondo luogodistrugge il mito secondo il qualei ricercatori non sanno insegnaree trasmettere il proprio lavoro,metodologico e contenutistico.Marisa Cantarelli, attraverso que-

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Il Consiglio di Amministrazione della Fondazione ha, traaltro, adottato le seguenti deliberazioni:

a - direzione amministrativa- convenzione per comodato d’uso con la Fondazione Istitutonazionale di genetica molecolare;- convenzione con l’Università degli Studi di Milano per laregolamentazione dei reciproci rapporti ai fini didattici, diricerca e per le attività assistenziali;- convenzione con l’Associazione Amici dell’Ospedale Poli-clinico Donatori di Sangue;- intitolazione dell’Aula sita presso l’Archivio storico (pianoterra Palazzo Uffici) al nome di “Nicoletta Milani”.

b - unità operativa amministrazione e finanza- approvazione del bilancio 2005.

c - unità operativa funzioni tecniche- intervento per la “realizzazione del nuovo dipartimento diemergenza” attraverso la ristrutturazione e l’ampliamento delpadiglione guardia e accettazione della Fondazione: fase diricostruzione, approvazione del progetto preliminare.

d - servizio beni culturali- mostra celebrativa dei 550 anni di fondazione dell’OspedaleMaggiore di Milano e del centenario di inaugurazione dellaclinica “L. Mangiagalli” (Museo di Milano, 22 novembre2006 - 28 febbraio 2007).

****Il Direttore generale della Fondazione ha, tra altro, adottato leseguenti determinazioni:

a - direzione amministrativa- determinazioni circa il servizio di medico competente aisensi dellla D. Lgs. 626/94;- centro di epidemiologia molecolare e genetica;- formalizzazione del protocollo per la regolamentazione delpassaggio, alla Fondazione, delle consegne relative al sistemadi prevenzione e protezione ai sensi del D.L.vo 626/94 eS.M.I.;- supporto manageriale ai dipartimenti sanitari;- convenzione con l’Ente per la formazione professionale

“IAL Lombardia” per lo svolgimento di tirocini formativi peroperatori socio-sanitari: autorizzazione allo svolgimento deitirocini;- convenzione per l’utilizzo delle strutture del servizio di gene-tica medica nell’ambito del master interuniversitario in “Gene-tica Clinica: le malformazioni congenite”;- determinazioni in ordine all’approvazione del piano annualedelle attività di Risk Management per il 2006;- unità operativa di riabilitazione psichiatrica: progetto “For-marsi alla relazione interpersonale: percorsi integrati di forma-zione per le équipes della riabilitazione psichiatrica”; contrattodi collaborazione coordinata e continuativa.- D.L.N. 233 del 4.7.2006: disciplina per il conferimento degliincarichi di collaborazione;- Associazione Amici dell’Ospedale Policlinico donatori disangue: contributo per l’anno 2006;- formalizzazione del protocollo per la gestione dell’hardware,delle reti e dei contratti relativi alle strutture afferentidell’A.O. ICP alla Fondazione IRCCS;- progetto di utilizzo dei fondi regionali destinati al centro diriferimento fibrosi cistica per l’anno 2006;- procedure amministrative relative alle attività svolte daldipartimento di medicina preventiva in ordine a varie tipologiecontrattuali;- programma regionale di collaborazione e sviluppo interna-zionale in ambito sanitario. Gemellaggio con l’OspedaleManuel de Jesus Rivera “La Mascota” di Managua (Nicara-gua): utilizzazione del finanziamento, approvazione del pianodi spesa anno 2006 e liquidazione spese periodo 1.1.2006-31.5.2006;- regolamentazione dell’Albo dell’Ente;- istituzione del Comitato Ospedale senza dolore: nomina deicomponenti.

b - unità operativa risorse umane- concorso pubblico per titoli ed esami per la copertura di cin-que posti di dirigente medico per la disciplina di anestesia erianimazione; sostituzione di un componente titolare con uncomponente supplente della commissione esaminatrice;- comando del dott. Alberto Edefonti, direttore dell’U.O. dinefrologia e dialisi pediatrica e della dott.ssa GiuseppinaMarra, dirigente medico pediatra, nell’ambito del progetto digemellaggio con l’Ospedale Manuel de Jesus Rivera “LaMascota” di Managua (Nicaragua);

Cronache amministrative

secondo e terzo trimestre 2006a cura del Consiglio di Amministrazione

e del Direttore generale della Fondazione IRCCS OspedaleMaggiore Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena

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- immissione nell’attività assistenziale in regime di convenzio-ne del professore di 2a fascia Giovanni Costa presso l’U.O.Medicina del lavoro;- unità operativa di chirurgia d’urgenza: gestione del pazientecon problemi ortopedico-traumatologici derivanti da politrau-ma e definizione di un’organizzazione funzionale medianteformalizzazione di aggregazione (o dipartimento) interospeda-liera con l’Azienda ospedaliera Gaetano Pini;- assunzione a tempo determinato per dodici mesi di dodicicollaboratori professionali sanitari (infermieri) a tempo pieno,a seguito di pubblica selezione e indizione di una nuova pub-blica selezione;- concorso pubblico per titoli ed esami per la copertura di cin-quanta posti di collaboratore professionale sanitario (infermie-re) a tempo pieno: ammissione dei candidati;- assunzione a tempo determinato (dodici mesi) di diciottocollaboratori professionali sanitari (infermieri) a tempo pienoa seguito di pubblica selezione.

c - direzione scientifica- convenzione n. CS 137 per lo svolgimento del programma diricerca: “A bank of extensively characterized human stem cellsuitable for in vitro studies and for therapeutic purposes”.Acronym: Stembank 2006;- progetto di ricerca: “Meccanismi infiammatori alla basedella conversione del mild cognitive impairment in demenzadi Alzheimer”. Nuove strategie terapeutiche nell’ambito delprogetto “malattie neurodegenerative” finanziato dall’IstitutoSuperiore di Sanità; coordinatore dott. Luigi Bergamaschini:presa d’atto dell’assegnazione di finanziamento all’Istituto diricerche farmacologiche Mario Negri quale unità operativapartecipante e approvazione del protocollo d’intesa e assegna-zione di due borse di ricerca sui temi 1 e 2;- assegnazione di varie borse di studio di ricerca;- collaborazione della Fondazione al progetto di ricerca fina-lizzata 2005: “Stress ossidativo e fattori di protezione inmodelli cellulari di neurodegenerazione” - convenzione n. 77,assegnata dal Ministero della Salute all’IRCCS “EugenioMedea” dell’associazione “La Nostra Famiglia”;- progetto di ricerca finalizzata 2005: “Markers genetici nellaprevenzione farmacologica dell’ictus ischemico giovanile”,convenzione n. 73, assegnato dal Ministero della Salute nel-l’ambito progetti di ricerca finalizzata art. 12 e 12 bis del D.Lgs 502/92 modificato ed integrato dal D. Lgs 229/99: accet-tazione;- progetto di ricerca: “Ricerca e sviluppo di sonde fluorescentiper analisi multi-parametrica di patologia su cromosomiumani mediante Tecnica Fish (Fluorescence in Hybridisa-tion)” finanziato da Euroclone S.p.A.: istituzione di una borsadi ricerca sul tema n.1;- contributo assegnato dalla Regione Lombardia a favore delcentro di riferimento per la Fibrosi cistica; II clinica pediatricadi Milano della Fondazione; coordinatrice prof.ssa CarlaColombo: rinnovo borse di studio a favore di: dott. Cristina

Martorana, dott.ssa Adriana Biffi, signora Vincenza Consalvo,signor Dario Alban, dott.ssa Maddalena Zanardelli e dott.Luigi Porcaro;- progetto di ricerca: “Epidemiologia della donazione e deltrapianto di organi in Lombardia: valutazione dinamica”finanziato dal Centro Nazionale Trapianti (C.N.T.) Istitutosuperiore di Sanità: accettazione e sottoscrizione della conven-zione;- organizzazione meeting per “Lo stato dell’arte - fase 1 dellostudio 177P2 e metodo di reclutamento dei partecipanti”,tenutosi a Pisa presso l’Hotel Royal Victoria il 21 e 22 feb-braio 2006;- collaborazione della Fondazione a progetto di ricerca finaliz-zata 2005: “Produzione in condizione GPM e caratterizzazio-ne di cellule staminali mesenchimali per uso clinico in approc-cio di terapia cellulare riparativa e immuno-modulatoria”,convenzione n. 97 assegnata dal Ministero della Saluteall’IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia;- convenzione n. CS 137 per lo svolgimento del programmadi ricerca “Stembank 2003”: parziale utilizzo del finanzia-mento;- organizzazione e finanziamento di alcuni eventi scientifici eculturali nell’ambito dell’iniziativa “Primavera prevenzione2006”.- indizione di selezione pubblica per il conferimento di uncontratto di ricerca presso l’unità operativa complessa Ostetri-cia, sterilità di coppia e andrologia;- progetto di ricerca “Global gene-expression profiling of mul-tiple myeloma; insights into the bio-clinical diversity of thedisease”, responsabile scientifico il dott. Antonino Neri, finan-ziato dall’Associazione italiana per la ricerca sul cancro(AIRC): istituzione di una borsa di ricerca sul tema n. 4;- borse di ricerca e progetti di ricerca vari tra cui:collaborazione dell’Ospedale Maggiore di Milano al progettodal titolo “Ruolo della plasticità neuronale nell’evoluzionedella malattia di Parkinson e nella risposta al trattamento; stu-dio multintegrato mirato all’individuazione di nuovi protocollidiagnostico-trerapeutici” (convenzione n. PS/03.13) assegnatodal Ministero della Salute all’IRCCS Fondazione CasimiroMondino, parziale utilizzo del finanziamento; “Raccolta eanalisi dei dati dei pazienti trapiantati al fine di verificare laqualità dei risultati” finanziato da Wyeth Lederle Spa: accetta-zione del contributo e autorizzazione alla sottoscrizione dellaconvenzione;- premi di ricerca assegnati al Centro di emofilia e trombosi“A. Bianchi Bonomi” della Fondazione da parte della BayerHealthcare LLC-Biological Products Division: assegnazionedi una borsa di ricerca sul tema n. 3;- accordo di collaborazione con l’Associazione italiana CopevOnlus Nazionale per la conduzione del progetto di ricerca“Studio e caratterizzazione della cellula staminale epaticanella sua evoluzione in senso rigenerativo e oncologico”,responsabile scientifico il dott. Mario Scalamogna: assegna-zione di una borsa di ricerca sul tema n. 1;

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- conferimento di un incarico di ricerca nell’ambito delprogetto di ricerca corrente 2006: “Selezione dei gametiumani al fine di migliorare il tasso di sopravvivenza e difecondazione dopo congelamento e scongelamento deglistessi”;- convenzione n. 526/A41 per lo svolgimento del program-ma di ricerca “Modulazione citochimica dell’attività clono-genica midollare in pazienti affetti da emoglobinuria paros-sistica notturna e aplasia midollare. Effetto del trattamentocon anticorpo monoclonale anti-C5” nell’ambito del pro-getto “Malattie anti-C5” nell’ambito del progetto “Malattierare” proposto dall’Istituto Superiore di Sanità: parzialeutilizzo del finanziamento;- progetto di ricerca: “Early innovative diagnostic procedu-res of lung cancer progression” sotto la responsabilitàscientifica del prof. Luigi Santambrogio, unità operativaChirurgia generale ad indirizzo toracico, finanziato dal-l’AIRC; accettazione dell’ulteriore contributo: parziale ret-tifica della determinazione n. 1815 del 14.7.2006:- collaborazione della Fondazione a progetti di ricerca fina-lizzata 2005 assegnati dal Ministero della Salute all’Istitutonazionale per lo studio e la cura dei tumori: “Cellule tumo-rali staminali; caratterizzazione biofunzionale a fini dia-gnostici e terapeutici” convenzione n.69 e “Terapia cellula-re somatica di tumori umani TRIL-R+ mediante infusionedi cellule emopoietiche CD34+ geneticamente modificatead esprimere MTRAIL dopo trasduzione con adenovettorecodificante TRAIL” – convenzione n. 7;- progetto di ricerca nell’ambito del SAPRE (settore abili-tazione precoce dei genitori): “Razionalizzazione ed uma-nizzazione dei servizi sanitari e della qualità delle curedella famiglia con neonati e lattanti affetti da SMA tipo 1 e2” sotto la responsabilità scientifica della dott.ssa MariaAntonella Costantino, unità operativa neuropsichiatriainfantile – UONPIA: istituzione di due borse di ricerca suitemi nn. 1 e 2;- progetto di ricerca finalizzata 2005: “Markers geneticinella prevenzione farmacologia del ictus ischemico giova-nile” (convenzione n. 73), coordinatore il prof. Pier Man-nuccio Mannucci: presa d’atto dell’assegnazione dei singo-li finanziamenti alle singole unità operative partecipanti eapprovazione dei protocolli di intesa con le unità operativeesterne;- collaborazione al progetto “Malattie del motoneurone:genomica e proteomica per la definizione di marcatori bio-logici diagnostici in cellule e fluidi umani con traslazione amodelli murini (BIOMAR)” nell’ambito del progetto malat-tie neurodegenerative (conv. N. 533/F/N/1) assegnato dall’I-stituto superiore di Sanità all’Istituto Auxologico Italiano;- progetto di ricerca: “Applicazione della risonanza magne-tica funzionale (FMRI) nella diagnosi precoce delledemenze” nell’ambito del progetto “Malattie neurodegene-rative” finanziato dall’Istituto superiore di Sanità; istituzio-ne di tre borse di ricerca sui temi nn. 1,2 e 3.

d - direzione sanitaria- istituzione del servizio infermieristico tecnico e della riabili-tazione (STRA) della Fondazione.

e - unità operativa progetti speciali e processi amministrativi- indizione di selezione pubblica per l’affidamento dell’incari-co di validazione del progetto definitivo relativo alla realizza-zione della sede dell’Istituto nazionale genetica molecolarepresso il padiglione “Romeo ed Enrica Invernizzi”; aggiudica-zione e approvazione della bozza di disciplinare di incarico;- servizi di progettazione preliminare, definitiva e direzionelavori per il successivo affidamento ai sensi dell’art. 19,comma 1, lett. B) della L. 109/04 (appalto integrato) per larealizzazione della sede dell’Istituto nazionale genetica mole-colare: ulteriori determinazioni;- D.G.R. Lombardia n. 20112 del 23.12.2004: elenco deisanitari deputati ad espletare attività di prelievo e trapiantodi fegato;- approvazione della convenzione con l’Azienda ospedalieraOspedale di circolo di Busto Arsizio per la cessione del radio-farmaco 18F/FDG.

f - unità operativa approvvigionamenti- trattativa privata diretta per l’acquisto di due spettrofotometriad assorbimento atomico con doppio atomizzatore originaleSolaar M6 da installare presso il presidio ospedaliero Ospeda-le Maggiore Policlinico e il P.O. Commenda-Regina Elena:aggiudicazione;- indizione trattativa privata per l’acquisizione di un elettroen-cefalografo necessario all’U.O. neurorianimazione – Berettaneuro – mediante l’utilizzo dei fondi derivanti dall’attività diespianto organi di cui alla deliberazione della Giunta regionaledella Lombardia n. VII/7987 dell’ 8.2.2002:- trattativa privata per la fornitura di arredi e attrezzature diver-se da destinare al nuovo reparto di Fibrosi cistica adulti facen-te parte della Fondazione: aggiudicazione;- indizione di trattativa privata diretta per l’acquisizione di unecotomografo Hitachi serie Logos HI Vision, distribuito dallaEsaote, completo di sonde da installare presso il servizio diradiologia senologica della Clinica “L. Mangiagalli”;- acquisto, a seguito di trattativa privata diretta, di un ecotomo-grafo Esaote mod. H19 completo di tre sonde da installarepresso la II clinica ostetrica ginecologica “L. Mangiagalli”;- indizione di trattativa privata per l’affidamento del servizioinfermieristico-personale di camera operatoria – presso leunità operative di degenza – per un anno a far tempo dalla dataeffettiva di inizio del servizio;- acquisizione di una TAC multislice di ultima generazione arotazione continua con scansione volumetrica da installarepresso il padiglione Sacco – sostituzione apparecchiatura daSomaton Sensation cardiac 64 a Somaton definition e conte-stuale acquisizione di accessori opzionali, ditta Siemens;- ati-Gemeaz Cusin- Serist per il servizio di ristorazione perle esigenze del P.O. Commenda e dell’Ospedale Maggiore

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Policlinico: adeguamento Istat dall’1.1.2006 alla scadenzadel contratto 18.4.2008;- trattativa privata per l’affidamento del servizio di sommi-nistrazione lavoro a tempo determinato per sei mesi a fartempo dalla data effettiva di inizio del servizio: aggiudica-zione;- acquisto di due ecotomografi da installare presso U.O.cardiologia padiglione Sacco e U.O. chirurgia vascolaredel presidio ospedaliero Commenda;- pubblico incanto per la fornitura di dispositivi per la chi-rurgia della grande obesità per tre anni: integrazione delladisponibilità economica, deliberazione n. 67 del14.1.2004;- trattativa privata per l’affidamento del servizio infermie-ristico – personale di camera operatoria – presso le unitàoperative di degenza – per un anno a far tempo dalla dataeffettiva di inizio del servizio;- acquisto di tre ecografi portatili modello Mylab 25 Esao-te da installare presso il presidio ospedaliero OspedaleMaggiore e Commenda Regina Elena;- indizione di procedura negoziata per l’affidamento delservizio di somministrazione lavoro a tempo determinato –personale infermieristico – per sei mesi a far tempo dalladata effettiva di inizio del servizio.

g - unità operativa funzioni tecniche- presa d’atto ed approvazione del quadro economico defi-nitivo per la ricostruzione del padiglione Monteggia;- aggiudicazione della gara d’appalto mediante pubblicoincanto per la fornitura di gas medicali del presidio Man-giagalli per il periodo 1.4.06-30.9.2007;- appalto per le opere di demolizione di fabbricato dellaFondazione: approvazione e liquidazione 3° SAL;- aggiudicazione gara d’appalto, mediante pubblico incan-to, per le opere di elettricista occorrenti per la manutenzio-ne della Fondazione (periodo 1.7.2006 - 30.6.2009);- aggiudicazione gara d’appalto mediante pubblico incantoper la manutenzione del verde della Fondazione (periododall’ 1.7.06 al 30.6.2009);- aggiudicazione gara d’appalto per pubblico incanto perla manutenzione straordinaria delle strutture della Fonda-zione per due anni;- aggiudicazione gara d’appalto mediante pubblico incantoper la ristrutturazione del padiglione Monteggia (fase diricostruzione);- ristrutturazione del padiglione Monteggia (fase di rico-struzione): nomina del collaudatore strutture in cementoarmato;- intervento per la “realizzazione del nuovo dipartimentodi Emergenza e Accoglienza” attraverso la ristrutturazionee l’ampliamento del padiglione guardia e accettazione del-l’Ospedale Maggiore Policlinico; prima fase: demolizionedel padiglione Pasini, scavi ed opere impiantistiche prope-deutiche e approvazione del progetto definitivo.

h - unità operativa sviluppo e promozione- rinnovo delle seguenti convenzioni: con l’Azienda ospedalie-ra San Paolo di Milano per l’esecuzione di consulenze neuro-logiche nel trattamento chirurgico della malattia di Parkinson;con l’Ospedale San Gerardo di Monza e il Comitato MariaLetizia Verga Onlus per la tipizzazione e la criopreservazionedi sacche di sangue placentare; con l’Ospedale San Gerardo diMonza per l’esecuzione di biopsie neuromuscolari a favore dipazienti degenti; con l’Azienda ospedaliera Ospedale di Trevi-glio Caravaggio per l’esecuzione di prestazioni radiologiche afavore di degenti;- convenzione attiva con l’Azienda ospedaliera Istituti clinicidi perfezionamento per l’esecuzione di test di biologia mole-colare per il programma di screening neonatale della fibrosicistica;- convenzione attiva con l’A.S.M.E. (Fondazione e Associa-zione Onlus per l’assistenza e lo studio malati ematologici)per l’esecuzione di esami di laboratorio;- convenzione attiva tra la Regione Lombardia - direzionegenerale Sanità, l’Università degli Studi di Milano (diparti-mento di medicina del lavoro) e la Fondazione (dipartimentodi medicina preventiva) per lo svolgimento di attività di ricer-ca epidemiologica volta allo studio dei rischi ambientali edalla programmazione di interventi per la salute della popola-zione lombarda;- convenzione per l’esecuzione di prestazioni di neuroradiolo-gia diagnostica ed interventistica a favore dei pazienti dell’A-zienda ospedaliera universitaria Policlinico Tor Vergata;- accordo di collaborazione tra 1a Fondazione e l’Istitutosuperiore di Sanità per l’attuazione del progetto “Sperimen-tazione di modelli operativi per la riduzione del rischio car-diovascolare”;- rinnovo della convenzione per l’esecuzione di prestazionidi neurochirurgia a favore di pazienti degenti presso la con-gregazione delle suore infermiere dell’Addolorata “Ospeda-le Valduce” - presidio di riabilitazione “Villa Beretta” diCosta Masnaga;- rinnovo delle convenzioni: per prestazioni di fisiatria tra l’A-zienda di servizi alla persona Istituti milanesi Martinitt e Stel-line e Pio Albergo Trivulzio e l’Ospedale Maggiore per presta-zioni di chirurgia generale e d’urgenza, chirurgia toracica,nefrologia, psichiatria con formazione psicosomatica, tisiolo-gica e oculistica e ortopedia traumatologia da effettuarsi afavore di degenti dell’Istituto Ortopedico “G. Pini”;- convenzione con l’Azienda ospedaliera Ospedale NiguardaCa’ Granda P.O. Villa Marelli per l’esecuzione di test tuberco-lari e con l’Istituto Nazionale neurologico C. Besta per consu-lenza nefrologica su pazienti degenti (periodo 1.6.06 -31.5.07);- rinnovo della convenzione attiva con l’A.O. Istituti clinici diperfezionamento per l’effettuazione del servizio di medicocompetente;- convenzione attiva con l’A.S.L. Città di Milano per: parteci-pazione al programma di screening dei tumori alla mammella

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e per l’effettuazione di un progetto di ricerca sui rischi ebenefici dell’ecografia di screening;- rinnovo della convenzione attiva con l’Azienda ospedalie-ra “San Gerardo di Monza” per prestazioni specialistiche difisiatria tramite il dott. Odoardo Picciolini;- collaborazione, a titolo gratuito, con l’Istituto ClinicoHumanitas per pazienti con paralisi cerebrale infantile;- convenzione attiva con l’Istituto nazionale neurologico “C.Besta” per l’effettuazione di prestazioni di chirurgia vasco-lare;- convenzione con l’Istituto Lombardo per la medicina iper-barica srl di Milano per l’esecuzione di trattamenti di ossi-genoterapia iperbarica a favore di pazienti degenti presso laFondazione;- rinnovo ed estensione di convenzioni attive varie tra lequali: con l’Azienda ospedaliera “G. Salvini” di GarbagnateMilanese per prestazioni di sindromologia e genetica clini-ca; con l’Istituto nazionale neurologico “C. Besta” per l’ef-fettuazione di prestazioni specialistiche di ostetricia e gine-cologia e dismorfologiche; con l’ASL Città di Milano per lavalutazione specialistica dell’immunoprofilassi;- convenzione per l’esecuzione di prestazioni di telereferta-zione e teleconsulto cardiologico a favore dell’Aziendaospedaliera Istituto ortopedico G. Pini;- convenzione con la Banca del Monte dei Paschi di Sienaspa per l’effettuazione di controlli di idoneità fisica al per-sonale dipendente: rinnovo;- convenzione per l’esecuzione di consulenze ecografiche afavore dell’Associazione Amici dell’Ospedale PoliclinicoDonatori di sangue: rinnovo;- convenzione attiva tra la Regione Lombardia Direzionegenerale Sanità, l’Università degli Studi di Milano (diparti-mento medicina del lavoro) e la Fondazione (dipartimentodi medicina preventiva) per lo svolgimento del progetto“E.S.S.I.A.: effetti sulla salute degli inquinanti aerodispersiin Regione Lombardia”.

i - unità operativa sperimentazione farmaci e supportospedalità- studio clinico spontaneo “Progetto pilota per l’individua-zione di approcci riabilitativi ottimali per ridurre la disabi-lità del paziente affetto da sclerodermia” presso l’U.O. ope-rativa di allergologia e immunologia clinica.

l - servizio prevenzione e protezione- iscrizione della Fondazione all’AIAS (Associazione Italia-na tra Addetti alla sicurezza) per gli anni 2005 e 2006.

m - ufficio relazioni con il pubblico- approvazione del progetto di applicazione della DGRVII/8504 del 22.3.2002 sulla qualità percepita dei servzisanitari e sui metodi e strumenti per la rilevazione del gradodi soddisfazione dei pazienti degenti e ambulatoriali perl’anno 2006.

n - unità operativa patrimonio- indizione di aste pubbliche per l’alienazione di immobilivari di proprietà dell’Ente.

o - servizio beni culturali- prestito di un dipinto dell’Ospedale Maggiore di Milano alMuseo Guggenheim, in occasione della mostra “Divisioni-sm/Neo - Impressionism: Arcadia and Anarchy” (Berlino -New York, 27 gennaio - 6 agosto 2007) e restauro del medesi-mo.- restauro di fotografie storiche della Fondazione.

p - unità operativa sistemi informativi e informatici- acquisto di hardware e software necessari al servizio di neu-roradiologia;- contratto per la fornitura dei servizi di assistenza e di rete delprogetto CRS-SIS per la Fondazione fino al 15 settembre2009;- acquisto di software per la disabilità complessa in età evolu-tiva per l’U.O.N.P.I.A. della Fondazione.

q - contributi e beneficenzaL’Associazione Genitori Neonati ad alto rischio ha donatoapparecchiature informatiche; il signor Giovanni Oberti diBarsizza Gandino cinque pulsossimetri; la Rai-Segretariatosociale e rapporti con il pubblico un pletismografo ad aria“Pea Pod Infant Composition System” da destinare all’unitàoperativa di neonatologia e terapia intensiva neonatale; l’As-sociazione per il bambino nefropatico ABN Onlus ha offertoapparecchiature varie per l’Unità operativa di terapia intensivadella Clinica pediatrica De Marchi; la dottoressa GiovannaCantarella ha donato apparecchiature informatiche per l’U.O.di otorinolaringoiatria.Sono inoltre giunte le seguenti donazioni:dalla Roche Diagnostics un video proiettore Epson EMP-X3per l’unità operativa Laboratorio di analisi chimico cliniche;da privati due pulsossimetri per l’unità operativa di neonatolo-gia e terapia intensiva neonatale; dalla società Baxter due tele-visori LCD Sharp LC 20sh1 (completi di staffe pareti) e duetelevisori LCD20’’ dalla società Gambro per l’unità operativadi nefrologia e dialisi; dall’Associazione Talassemici Drepa-nocitici Lombardi Onlus un registratore Holter digitale e duecarte memorie per il Centro Anemie congenite.

Per la continuità di questa rivista concorre ancheuna disposizione testamentaria della benefattriceGemma Sichirollo.

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