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LA CA’ GRANDA E MILANO

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1456-2006

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vita ospedaliera e informazioni culturali - milano - fondazione IRCCS ospedale maggiore policlinico,mangiagalli e regina elena - anno XLVII - n. 4 - 2006

sommario

Ai lettori 1

pagina

La Città e l’Ospedale. Dal Medioevo all’età spagnola Edoardo Bressan 2

Milano e l’Ospedale Maggiore fra austriaci e francesi (1706-1859) Cristina Avogadro 9

1906. Milano capitale sanitaria Giorgio Cosmacini 46

Indice generale dell’annata 49

L’Ospedale, luogo di crescita scientifico-culturalee assistenziale della Città in espansione (1860-1980) Giorgio Cosmacini 15

L’Ospedale Maggiore di Milano e il suo rapporto con la Città nella storiadi archivio, biblioteca, quadreria e altri beni culturali Elisabetta Zanarotti Tiranini 37

La Farmacia dell’Ospedale e il suo rapporto con la Città Vittorio A. Sironi 28

la ca’ granda

Direttore responsabile: FRANCA CHIAPPA. Attività e programmi culturali della Fondazione.Direzione, redazione, amministrazione: via F. Sforza 28, 20122 Milano, telefoni 02-55038311 e 02-55038376fax 02-5503.8264

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Una breve considerazione per sintetizzare le ragioni di questo numero, inteso allaconoscenza, ove possibile profonda, del rapporto secolare che esiste fra la Ca’ Grandae Milano; rapporto che è per i milanesi autentica partecipazione nello spirito e motivodi esaltazione naturale.

La Ca’ Granda e Milano. Oltre cinque secoli di storia insieme, di ricerca, di reciprocapartecipazione, di fede: fede nel valore della vita insieme. Una curiosità, un desiderio,un grande interesse a conoscerlo dal didentro questo rapporto, e farlo conoscere.I nostri autori hanno fatto una scelta. In base a questa ognuno ha cercato, esplorato,illustrato il periodo di un secolo o più: il valore degli eventi, il superamento di crisidrammatiche, le motivazioni profonde che hanno determinato nei tempi coesionistraordinarie con la città, e le coesioni destinate a favorire la crescita, quindi la cono-scenza del nostro grande Ospedale.Ogni autore porta qui per la rivista, per i nostri lettori, il frutto della sua ricerca, dal‘400 ai nostri giorni.

FRANCA CHIAPPA

Il numero è dedicato ai 550 anni dell’Ospedale Maggiore (1456-2006) e ai 100 annidella Clinica Mangiagalli (1906-2006).I cento anni della Clinica Mangiagalli, celebrati recentemente dal presidente CarloTognoli per la Fondazione Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli e ReginaElena, sono qui ricollegati da Giorgio Cosmacini al periodo storico rievocato sotto iltitolo “1906. Milano capitale sanitaria”.

Coordinatori- Edoardo Bressan- Franca Chiappa

In copertina Il diploma di Francesco Sforza duca di Milano per la fondazione dello “Spedal Grande dela Nuntiata - Milano 1456, aprile 1”.

Progetto grafico della copertinaBob Noorda

ai lettori

stampe trimestrali - Sped. abb. post. 70% - filiale di Milano - n. 4 - 2006 - registrazione Tribunale di Milano n.5379, II-8-1960.

stampa: Stampamatic Spa - Settimo Milanese (MI) - via Albert Sabin, 20; fotocomposizioni: Artea (SettimoMilanese) - via E. Fermi, 28; fotolito: Digital Seleprint s.r.l. - Milano - via Cortina d’Ampezzo,12.

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Se vi è un aspetto peculiare di Milano – di una cittàche, secondo Eric John Hobsbawm, non ha conosciu-to il mob, l’endemica forma di ribellismo che haaccompagnato la storia dei centri urbani in Europa – èquello della sua rete di solidarietà, antica e mai venutameno anche nelle ore più difficili. Milano sembrainfatti destinare maggiori risorse a una progettualitàcivile e a un intervento sociale che non hanno ilmedesimo riscontro in altre realtà della penisola e delcontinente, conoscendo in misura inferiore un atteg-giamento repressivo e colpevolizzante nei confrontidei poveri altrove diffuso. Quei poveri che – secondole Notizie naturali e civili su la Lombardia di un auto-re non sospettabile di indulgenze municipalistiche oclericali come Carlo Cattaneo – ricevono a Milano ein Lombardia “una più generosa parte di soccorsi chealtrove”, ad esempio negli ospedali “aperti a tutti” allasola condizione “dell’infermità e del bisogno”. Prima di considerare le origini e gli sviluppi, sia pure

nelle linee essenziali, dell’assistenza ospedalieramilanese alla Ca’ Granda e delle sue realizzazionidalla metà del XV secolo agli inizi del XVIII, è inte-ressante coglierne il rapporto con la recente afferma-zione e insieme con le difficoltà di un sistema basatosul modello di Welfare State. In una fase di rapidimutamenti sociali e istituzionali, si sottolinea da piùparti l’esigenza di ritrovare, fra iniziativa dei singoli eazione dei pubblici poteri, la dimensione civica dellasolidarietà, verso quella che viene definita – per usareancora una volta l’inglese – una Welfare Community,che si potrebbe appunto tradurre “comunità solidale”.Milano stabilisce fin dagli inizi della modernità unrapporto privilegiato con le istituzioni assistenziali, incui si rispecchia e alle quali dedica le sue energiemigliori, a partire non a caso dalla rete ospedaliera equindi dalla Ca’ Granda.Ci si trova di fronte a un sistema di relazioni socialiche riflette, come ha scritto Giorgio Rumi, la “voca-zione solidaristica” di Milano e rappresenta la rein-

venzione quattrocentesca dell’eredità del Medioevo,quando era sorta una rete capillare di strutture fattasoprattutto di hospitalia e pia loca di natura elemosi-niera: nel primo caso una trentina di istituti di ricove-ro, rivolti non soltanto ai malati, ma ai pellegrini, agliindigenti, agli anziani e ai minori abbandonati; nelsecondo un numero altrettanto considerevole di con-sorzi laici che provvedono, negli anni tumultuosidello sviluppo comunale, alle necessità materiali dimolte famiglie e in genere degli emarginati della città.In una Milano che si trasforma, come spesso accadenella sua storia, un rilievo fondamentale è assuntodalle grandi e anche dalle minori istituzioni di assi-stenza, sostenute finanziariamente dai lasciti e dalledonazioni di quel gruppo dirigente cittadino – di cuiormai fa parte un ceto borghese e mercantile in ascesa– che si incarica poi del loro buon funzionamento,ricoprendo le cariche amministrative all’interno deirispettivi Capitoli e spesso anche occupandosi dellemansioni tecniche. E si tratta di istituzioni già orga-nizzate secondo una tipologia tripartita che duraancora oggi (ospedali, ricoveri, enti elemosinieri),come corpi sociali largamente autonomi.Gli ospedali costituiscono il cuore di questo articolato“sistema di carità” e in effetti, a partire dal XII secolo,alcuni sono già di notevole importanza e dimensione,soprattutto quello allora nato dalla fusione degli ospe-dali di San Barnaba e di Santo Stefano in Brolo, notocome Ospedale del Brolo e che sorgeva appunto fral’omonima chiesa e il Verziere, per il quale l’arcive-scovo Galdino emana gli importanti statuti del 1168.Ai primi del Trecento sono attivi, fra gli altri, l’Ospe-dale Nuovo o di Donna Bona, quelli di Sant’Ambro-gio, San Dionigi, San Lazzaro, San Simpliciano, fon-dato alla fine dell’XI secolo dai coniugi Lanfranco eFrasia della Pila, Sant’Antonio o San Nazaro deiporci, sorto all’inizio del secolo successivo per i col-piti dal fuoco sacro, quello della Colombetta o dellaMisericordia, beneficato da Bonvesin de la Riva che

La Città e l’OspedaleDal Medioevo all’età spagnola

EDOARDO BRESSAN

Università degli Studi di Macerata

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nel De magnalibus Mediolani celebra l’eccellenzadegli istituti assistenziali milanesi. La pietà di laici ereligiosi è indubbiamente all’origine di questo grandeimpegno caritativo ormai capace di tradursi in unadimensione civile, mentre l’autorità ecclesiastica eser-cita i suoi poteri soprattutto in materia di statuti, con-troversie, nuove fondazioni e aggregazioni.A partire dalla seconda metà del XIV secolo, la crisisociale, sanitaria, demografica che investe l’Europa fasentire la necessità di un rinnovamento delle struttureospedaliere e assistenziali, che si esprime innanzitutto nella nascita dei pia loca promossi dal laicato eche si propongono di soccorrere una crescentepovertà urbana. Nel campo sanitario, in particolare, siavverte sempre più l’esigenza di una razionalizzazio-ne delle strutture, nel solco di quelle concentrazioniche già nei primi decenni del Quattrocento interessa-no molte città dell’Italia centro-settentrionale, portan-do alla nascita dei nuovi ospedali grandi o maggiori;ed è un’esigenza a cui non possono rimanere estraneesia l’autorità laica sia quella ecclesiastica. A Milano siregistra un precoce intervento pubblico per risponderealle difficoltà economiche e alle emergenze sanitarielegate soprattutto alle epidemie di peste, attraverso lacreazione dell’Officio della Pietà dei Poveri, con l’o-spedale ad esso collegato, e la costruzione del Lazza-retto. Ma occorre soprattutto dare un assetto stabile alsistema sanitario nel suo insieme: con la pubblicazio-ne del decreto del 9 marzo 1448, sanzionato dallabolla di Nicolò V del 9 luglio, il cardinale arcivescovoEnrico Rampini, dopo un non facile accordo con laRepubblica Ambrosiana, avvia la procedura per lacreazione di un’amministrazione ospedaliera laica eunificata, dettando le prime norme per l’elezione delCapitolo. La tradizione dell’umanesimo e la devozione dei cit-tadini – con il richiamo all’Osservanza francescanache soprattutto con frate Michele da Carcano avevasostenuto l’unificazione ospedaliera in diverse città –vengono a questo punto riprese dalla politica del ducaFrancesco Sforza, entrato solennemente a Milano il25 marzo 1450, festa dell’Annunciazione. Il diplomadi fondazione è da lui emanato il 1° aprile 1456 eviene quindi approvato con la bolla di Pio II del 9dicembre 1458: con essa e con una serie di provvedi-menti successivi si aggrega al nuovo istituto la mag-gior parte degli altri ospedali, fissando in diciotto il

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Primo sigillo dell’Ospital Grande della Anunziata, da un documentodel 1465.

I duchi Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti nel quadro diFrancesco da Vico (1472). “Il duca Francesco Sforza era entratosolennemente a Milano il 25 marzo 1450, festa dell’Annunciazione”.

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numero dei deputati – di cui due ecclesiastici – aiquali si aggiunge il rappresentante del duca.La posa della prima pietra da parte di Francesco

Sforza e Bianca Maria Visconti, della quale Micheleda Carcano è consigliere spirituale, è del 12 aprile1456, a coronamento di una politica dinastica e d’im-magine: il progetto del nosocomio, dedicato alla Ver-gine annunciata e affidato al grande architetto fioren-tino Antonio Averlino detto il Filarete, si collocaall’interno della città ideale da lui descritta, la Sforzin-da. Il 29 febbraio 1460 il Capitolo ospedaliero lo sce-glie quale architetto, avvertendo la responsabilità diprocedere “ad bene gerenda negotia pauperum Chri-sti”, nel solco di un’ininterrotta tradizione religiosa.La crociera filaretiana, il primo nucleo della Ca’Granda dei milanesi, diviene altresì la sede di un’im-portante trasformazione medica e scientifica. Il medi-co entra per la prima volta in ospedale a pieno titolo,incaricato di una cura dei malati che, per quantoempirica e approssimativa, rappresenta un aspettoinedito rispetto a concezioni frutto di un ricovero lar-gamente indifferenziato e non necessariamente carat-terizzato in senso sanitario. All’interno del nosocomiomilanese si istituisce una scuola di anatomia fin dal1491, dov’è possibile conseguire l’abilitazione all’e-sercizio professionale con l’ammissione al collegiodei medici fisici.Sul piano della conduzione amministrativa ed econo-mica, i vantaggi della concentrazione appaiono subitoevidenti e ben presto si costruisce una complessamacchina burocratica capace di far funzionare l’istitu-to e di gestire un sempre più cospicuo patrimonio ter-riero, come emerge dal trattato di Gian Giacomo Gili-no, redatto nel 1508 in latino e in volgare, con leregole per il “governo” dell’Ospedale. L’autonomiaistituzionale si consolida e, in modo particolare dopola morte dell’ultimo Sforza nel 1535, il ruolo del“luogotenente” ducale si fa meno rilevante, soprattut-to in rapporto all’iniziale visione, per così dire politi-co-religiosa, del fondatore, mentre si fa sempre piùsentire l’inevitabile solidarietà di ceto con gli altrimembri del Capitolo, tutti esponenti – pur senza unadisposizione esplicita in materia – delle famiglie delpatriziato. Lo stesso meccanismo delle nomine capi-tolari non solo esalta tale ruolo autonomo, ma raffor-za quel “policentrismo di istituzioni assistenziali” aegemonia nobiliare tipico di Milano, di cui ha parlato

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Il grande architetto fiorentino Antonio Averlino, detto il Filarete.

“Il trattato di Gian Giacomo Gilino, redatto nel 1508 in latino e involgare, con le regole per il ‘governo’ dell’Ospedale”.

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Giuliana Albini: l’arcivescovo sceglie i deputatisulla base di “terne” presentate dai più importantienti assistenziali cittadini e dall’Ufficio di Provvi-sione, con effettiva facoltà di scelta solo per i duemembri ecclesiastici. Il “governo” patrizio è per sua natura garanzia d’in-dipendenza e oculatezza nella gestione, favorendol’incremento ulteriore del patrimonio ospedalierocon lasciti e donazioni; per il gruppo dirigente, nelquadro di una società di antico regime, sono ingioco valori simbolici non meno d’interessi reali,esercizio di patronage e controllo di ingenti ricchez-ze. Lungo tutta l’età spagnola l’Ospedale Maggioreè così in grado di difendere la propria autonomiaanche di fronte alla Chiesa. Le grandi donazionipontificie delle abbazie di Valganna, Sesto Calende,Morimondo, lo stesso lascito testamentario di CarloBorromeo non possono celare la realtà di un con-flitto giurisdizionale che conosce, soprattutto con ilBorromeo, momenti di acuta tensione e che lo indu-ce a formulare, sia pure invano, un piano di elezio-ne dei deputati capitolari che gli avrebbe conferitoeffettivi poteri di scelta. L’indulgenza detta “del Perdono”, concessa da Pio IInel 1459 e resa perpetua dal papa milanese Pio IV nel1560, documenta bene questa caratteristica della vitaospedaliera, religiosa nelle motivazioni e laica e civilenegli esiti. La Festa del Perdono, celebrata nella ricor-renza liturgica dell’Annunciazione un anno in Duomoe un anno presso l’Ospedale Maggiore, diventa cosìoccasione privilegiata di devozione e di raccolta diofferte, nonché di profani e apprezzati intrattenimenti.Ed è la città in tutte le sue componenti a riconoscersinella Ca’ Granda, che diventa una realtà conosciuta eamata, alla quale si lega naturalmente la dimensionedel dono, caratteristica di una società ancora lontanadalla logica capitalistica. Dal Seicento in avanti il Capitolo decide non a caso difar eseguire il ritratto dei benefattori, che non è sol-tanto una concessione al gusto barocco ma un ricono-scimento della sensibilità dei milanesi, come dimo-strano le innumerevoli disposizioni in suo favore daparte di gente comune, fra le quali il commoventetestamento a disegni dell’illetterato Luca Riva. Nel1624, del resto, è l’eccezionale lascito di Gian PietroCarcano, secondo fondatore dell’Ospedale, a consen-tire la costruzione del nuovo corpo di fabbrica, con il

cortile centrale che si affianca alla crociera filaretiana.Al complesso apparato amministrativo con la suaefficiente burocrazia, già descritta nel trattato delGilino, fa riscontro l’attività sanitaria. La situazionedei malati appare soddisfacente anche ai numerosivisitatori, mentre Camillo de Lellis, nella breve per-manenza alla Ca’ Granda con i suoi “ministri degliinfermi”, detta regole infermieristiche di grandeimportanza e modernità. Se la pratica medica equella chirurgica, affidata ai “barbieri”, restanolegate all’empirismo tradizionale, non mancanoaperture alle più recenti impostazioni scientifiche,attestate dalla vivacità delle scuole interne e dal-l’importanza di non poche figure di medici. La pre-senza dell’Ospedale Maggiore nella vita cittadina sisegnala anche per la risposta offerta a due dramma-tici problemi sociali: l’esposizione infantile e leforme più gravi di marginalità, soprattutto quellelegate alla follia. Dopo la chiusura dell’anticoOspedale di San Celso, gli esposti sono accolti

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San Carlo Borromeo porta all’Ospedale Maggiore la bolla di Papa PioIV che rende perpetua la Festa del Perdono, nel 1560. Vetrata disegnatada Ludovico Pogliaghi ed eseguita da Francesco Bertini nel 1884(Chiesa dell’Annunciata in via F. Sforza).

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tardo Medioevo o del monte di pietà nato alla finedel Quattrocento ancora una volta sulla scia dellapredicazione francescana, mentre grazie all’operadei domenicani era sorta, poco prima, l’opera pia diSanta Corona per l’assistenza medica e farmaceuti-ca ai poveri, domiciliare e gratuita, che avrebbesempre agito in stretto collegamento con l’Ospeda-le, configurando un sistema di ambulatori e di con-dotte ante litteram.Se dunque è vero che Milano rimane lontana dai rigo-ri della “grande reclusione” dei poveri che altrovedomina la scena, se la stessa legislazione antipauperi-stica, con l’ospizio di mendicità aperto nella secondametà del Cinquecento non ha in effetti successo, i pialoca della tradizione dimostrano una buona capacitàdi tenuta soprattutto nell’aiuto alle famiglie. Nellaprima età moderna ne sorgono altri, con l’intento disoccorrere particolari categorie di poveri e di attutirequindi, con questa carità efficiente e per così dire spe-cializzata, i possibili conflitti. Emblematico è il casodei “poveri vergognosi”, nobili o appartenenti al cetocivile decaduti, soccorsi con larghezza e al tempostesso con discrezione, a implicita garanzia del cetodirigente nel suo insieme. Al tempo stesso vengonofondati nuovi istituti di ricovero, come l’Orfanotrofiomaschile dei Martinitt e quello femminile che piùtardi sarebbe stato detto delle Stelline, oppure i diversi“ritiri” per donne sole o anziane, caratteristici di unasocietà fondata sull’“onore”. Se da una parte la corona spagnola non intervienedirettamente, dall’altra il sistema resta sotto il control-

all’interno della Ca’ Granda nel “cortile delle balie”realizzato nel Seicento e molti di loro si “dedicano”poi al servizio ospedaliero. I folli, nell’ampia acce-zione che questo termine aveva, sono accolti nellasede del vecchio Ospedale di San Vincenzo, con untrattamento certamente duro, ma che pur semprecontempla finalità sanitarie; lì trovano rifugio ancheinabili, anziani poveri, mendicanti, una parte degliesposti, sempre al di fuori di un internamento a finidi polizia. Molti milanesi del resto, ai differentigradi della scala sociale e delle competenze profes-sionali, sono dipendenti dell’Ospedale Maggiore,che ha ormai assunto le dimensioni di una grande edinamica azienda.A Milano insomma non si perde l’attitudine solida-le della civitas e non si giunge alle asprezze di altresituazioni della penisola e del continente. Ciò èanche dovuto all’esistenza, accanto alle istituzionipiù consolidate, di spontanei movimenti di base,che riescono a dar vita a nuove strutture per rispon-dere ai bisogni emergenti, con importanti riflessianche sulla gestione della sanità pubblica. Era statoil caso di molti pia loca elemosinieri fondati nel

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“Il commovente testamento a disegni dell’illetterato Luca Riva”(Archivio storico dell’Ospedale Maggiore).

Il “cortile delle balie” all’interno della Ca’ Granda.

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lo di quello stesso patriziato che occupa le più impor-tanti cariche civili e militari, secondo una sapientealternanza familiare, ottenendo una non effimera sta-bilità sociale e soprattutto una legittimazione comeceto dirigente. Fra queste famiglie, anche se nonmanca il concorso di mercanti e popolani, si trovano ibenefattori che rendono possibile la continuità di unvastissimo patrimonio, le cui rendite finanzianoappunto la spesa assistenziale: inizia qui, come si èvisto, la consuetudine di far eseguire anche alla Ca’Granda il loro ritratto.Non diversa, nelle motivazioni e negli esiti, è l’azionecaritativa direttamente promossa in ambito ecclesiale,con le sollecitazioni della “riforma cattolica” e dell’o-pera pastorale di Carlo Borromeo. Oltre all’impulsodato all’apertura di istituti di educazione, collegi,orfanotrofi, ricoveri femminili, dello stesso ospedaledei “fatebenefratelli” di san Giovanni di Dio, si regi-stra l’impegno delle parrocchie, delle scuole delladottrina cristiana, delle confraternite, che dedicanospesso una particolare attenzione ai fedeli ricoveratinegli istituti cittadini. Per alcune confraternite questoè il compito principale, con la visita settimanale aimalati della Ca’ Granda e l’aiuto morale e materialeofferto alle loro famiglie: è una linea di volontariatoreligioso e sociale che lega ulteriormente la città el’Ospedale, riproponendosi non a caso nell’Ottocento.Il riferimento spirituale costituisce un valore larga-mente condiviso: che la vita non debba rappresentare“un peso per molti, e una festa per alcuni” (giudizioche il Manzoni attribuisce al cardinale Federico, mache in realtà trae anche dall’insegnamento di CarloBorromeo) è un impegno che fa parte dell’esperienzareligiosa e al tempo stesso civile, attraverso la stradadella condivisione dei bisogni dei meno fortunati.L’Ospedale Maggiore s’inserisce dunque in un’artico-lata trama di presenze, di cui rappresenta il momentocentrale ma non separabile dagli altri interventi di tipoeducativo, sociale, sanitario. Ai primi del Settecentoalla Ca’ Granda non manca la capacità di rinnovarsi,come dimostra il continuo progresso delle scuolemediche e chirurgiche nonché l’apertura dei “nuovisepolcri” della Rotonda. Ed è l’intera città a interro-garsi su una riforma del sistema ormai indispensabile,alla luce della riflessione di Lodovico Antonio Mura-tori, maturata non a caso negli anni milanesi dellaBiblioteca Ambrosiana alla fine del XVII secolo e

culminata nel trattato Della carità cristiana in quantoessa è amore del prossimo del 1723, che sottolinea lacentralità dell’ospedale valorizzando la tradizionecaritativa alla luce delle nuove esigenze sociali.Se non è facile seguire le fasi di una crisi che si avvi-cina e di una trasformazione che avrebbe imboccatostrade diverse, è certo che con il passaggio alla domi-nazione austriaca l’autorità governativa diviene il rife-rimento principale e più tardi esclusivo dell’attivitàassistenziale in un settore che fino ad allora era statoconsiderato “pubblico” in riferimento alla città. Tuttoquesto avrebbe comportato un inedito intervento delloStato, che si assume il dovere di rispondere al biso-gno, attraverso il controllo dei patrimoni e la nominadegli amministratori. La società civile e religiosa di Milano guarda con dif-fidenza e talora con avversione a questo mutamento.Ma è importante osservare come i suoi uominimigliori si mettano poi al servizio delle nuoveamministrazioni controllate dal governo, mentrenon si arresta il flusso dei lasciti e delle donazioni.E se la Chiesa ambrosiana viene privata delle sueprerogative – spesso formali, ma non meno impor-tanti – non fa venir meno il suo apporto alla vitaospedaliera, mentre alle confraternite che si dedica-vano alla visita dei malati subentrano moderne “pieunioni” di volontariato. L’antico legame di Milano con la Ca’ Granda conti-nua a farsi sentire, non insistendo su facili contrappo-sizioni ma interagendo positivamente con l’azionedello Stato. Ed è un’attitudine che matura fra le cro-ciere dell’Ospedale per investire la costruzione di unasocietà moderna alla ricerca di equilibrio e solidarietàsociale.

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L’antica Rotonda di via Besana, con i “nuovi sepolcri” (acquaforte diPaolo Mezzanotte).

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- Lombardia borromaica Lombardia spagnola 1554-1659, a cura diP. Pissavino e G. Signorotto, Roma, Bulzoni, 1995.

- L. A. Muratori, Della carità cristiana in quanto essa è amore delprossimo, trattato morale, Modena, B. Soliani, 1723.

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Il XVIII secolo si aprì per l’Europa sotto cattivi auspi-ci: il trono di Spagna era vacante per l’assenza di eredidiretti di Carlo II d’Asburgo. La posta in gioco eraalta, i domini spagnoli erano immensi e le diplomazieinternazionali avevano ipotizzato delle spartizionisenza però prevedere le ultime volontà del defunto. Iltestamento del sovrano infatti designava come eredeuniversale Filippo di Borbone, purché rinunciasse aisuoi diritti sulla corona di Francia; in subordine erastato scelto l’austriaco Carlo d’Asburgo. Riunire leterre spagnole e porre sotto tutela Filippo era il sognodi Luigi XIV; ma fiutando il pericolo l’arciduca Carlod’Asburgo promosse una coalizione antifrancese persostenere la propria candidatura al trono madrileno.La guerra per la successione al trono di Spagna (1701-1714) divenne inevitabile e fu combattuta su diversifronti spremendo uomini e risorse. Al termine del con-flitto la pace di Utrecht (1713) e quella di Rastadt(1714) segnarono rilevanti mutamenti nella carta geo-politica dell’Europa e rappresentarono una svolta perla penisola italiana, che dopo due secoli di egemoniaspagnola, passò all’impero austriaco.In Lombardia i danni bellici e l’ingente prelievo fisca-le, insieme alla perdita di alcuni ricchi territori comeAlessandria, Valenza, la Lomellina e la Valsesia, edalle calamità naturali, ridussero la maggioranza dellapopolazione in uno stato di prostrazione economica emorale (1). Molti individui non riuscendo a soddisfare ibisogni primari avevano cercato aiuto e ricovero neiluoghi pii e negli ospedali cittadini. A Milano la Ca’Granda aveva risposto a queste pressioni, nonostantele sue passività finanziarie e senza perdere di vista lacura dei malati che affollavano le crociere, con ordi-nanze capitolari inerenti l’igiene, la qualità del vitto el’uso di farmaci (2).Nei vent’anni seguenti, mentre il governo austriacoistituiva una Giunta censuaria per notificare, misuraree valutare tutti i beni, incluse le proprietà ecclesiasti-che, il grande ospedale milanese rinnovava l’interesse

per lo studio di quelle epidemie che infierivano sullapopolazione e per l’insegnamento dell’anatomia (3), eaffermava anche una più netta laicità da attuarsi conuna limitazione della visita episcopale alla sola orga-nizzazione del culto e dell’assistenza spirituale degliinfermi (4). Ma le urgenze del nuovo conflitto interna-zionale, la guerra di successione polacca (1733-1738),che movimentò la vita italiana con l’occupazione spa-gnola del Meridione e quella franco-piemontese delMilanese, spinsero l’Ospedale Maggiore ad affrontarela quotidiana miseria accogliendo tra le sue mura nonsolo gli infermi, ma anche tutti coloro che avevanobisogno di un aiuto per sopravvivere, rimandando lequestioni amministrative al tempo di pace. Con ilritorno degli austriaci in città nel 1736, alla Ca’ Gran-da si avviarono alcune indagini per adeguare la strut-tura ricettiva e per incrementare il personale medico einfermieristico; riacquistarono vitalità gli studi, in par-ticolare la Scuola di anatomia ebbe come chirurgopratico l’incisore anatomico Bernardino Moscati.Intanto le riforme volute per riorganizzare e per raffor-zare l’autorità governativa a Milano, superando cosìl’inefficienza e la corruzione esistente, e per evitare undissesto economico-finanziario nel contrastare una,non troppo remota, crisi internazionale, furono brusca-mente sospese. Nel 1740 l’ascesa al trono imperiale diMaria Teresa, legittimata dalla Prammatica Sanzione,riaccese infatti gli appetiti delle maggiori potenzeeuropee sui domini austriaci precipitando la Lombar-dia in una ennesima guerra.Dopo la pace di Aquisgrana (1748) e il riconoscimen-to di Maria Teresa sul trono d’Austria e Ungheria alprezzo di alcune rinunce territoriali (Vigevano e l’Ol-trepò pavese, l’alto Novarese), si inaugurò per i domi-ni lombardi un periodo di trasformazione e di rinnova-mento politico, amministrativo e finanziario con lasupervisione di Gianluca Pallavicini. Il ministro istituìuna nuova Giunta censuaria affidata a Pompeo Neriaffinché portasse a compimento il catasto ossia il cen-

Milano e l’Ospedale Maggiorefra austriaci e francesi (1706-1859)

CRISTINA AVOGADRO

Università degli Studi di Milano

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simento di tutte le proprietà agricole e la stima del lorovalore per una equa perequazione fiscale, così anche ilcospicuo patrimonio immobiliare dell’Ospedale Mag-giore, le destinazioni d’uso dei vari appezzamentifurono catalogati minuziosamente, ma tali beni, insie-me a quelli della Chiesa ambrosiana acquisiti primadel 1575 e quelli delle parrocchie, furono poi dichiara-ti esenti da tassazione in virtù delle trattative per ilConcordato tra la Santa Sede e Vienna (6).L’interesse di Pallavicini per l’Ospedale Maggiore siorientò allora sulla formazione del personale sanitario,concedendo a Bernardino Moscati di andare in Fran-cia a perfezionarsi nella pratica chirurgica. Tornato aMilano, egli aprì una Scuola di litotomia (1755) per lacura dei calcoli urinari, superando le querimonie e leresistenze del capo-norcino; era un evento significati-vo per il nosocomio e per la scienza: la chirurgia ana-tomo-operatoria sopravanzava la pratica chirurgicaautoptica allora in voga. Le innovazioni di Moscatiproseguirono con l’inaugurazione di una Scuola diostetricia (1767) voluta per formare i chirurghi e lelevatrici di campagna (7).Gli anni Sessanta del XVIII secolo aprirono la gran-de stagione del riformismo asburgico, che affermòl’idea del bene pubblico come scopo primario eresponsabilità del potere sovrano: il terreno piùadatto in cui muoversi era quello della beneficenza edell’assistenza. A Milano fu subito chiaro alle autorità cittadine chel’assunzione di una maggiore responsabilità nelcampo della beneficenza sarebbe stata ostacolata dal-l’arcivescovo, perché egli avrebbe perso definitiva-mente il controllo sulla nomina degli amministratoridei luoghi pii, incluso l’Ospedale Maggiore, in nomedi una pretesa razionalizzazione ed efficienza econo-mica. Lo Stato tuttavia non doveva né poteva limitarsia sorvegliare e a reprimere, perché era chiamato aun’azione responsabile per assicurare la pubblica feli-cità: l’ispezione fiscale del 1771 alla Ca’ Granda e irelativi provvedimenti per la riorganizzazione ospeda-liera andavano proprio in questa direzione. Un miglio-ramento dell’assistenza medico-sanitaria a malati, follie esposti sarebbe stato conseguibile intervenendo siacon una gestione finanziaria più oculata dei beni rusti-ci e dei luoghi pii, sia con una riforma elettorale delCapitolo ospedaliero che eliminasse definitivamentel’ingerenza ecclesiastica.

In questo momento, però, l’attenzione dei responsa-bili del governo e del nosocomio milanese era con-centrata sul problema dell’assistenza all’infanziaabbandonata a cui bisognava trovare al più prestouna nuova sistemazione. Tra le opzioni vagliate l’O-spedale di San Vincenzo non aveva locali sufficientiad accogliere i bambini e le balie, invece il monaste-ro di Santa Caterina alla Ruota era la sede ottimale.Per poter occupare lo stabile però la Ca’ Grandaimpiegò dieci anni a convincere l’arcivescovo diMilano a liberare il monastero e solo nel 1781 sirealizzò il trasferimento degli esposti (8).Un’altra urgenza riguardava la salubrità delle corsie ela carenza di infrastrutture dell’ospedale, infatti nonbastava separare i malati per sesso e età, per tipo dicura (chirurgica o medica), era fondamentale mante-nere l’igiene al fine di diagnosticare la malattia e cura-re adeguatamente ogni infermo (9).A partire dal 1780 il riformismo illuminato teresianoebbe nell’imperatore Giuseppe II non soltanto uncontinuatore, ma un interprete sagace. Infatti allesvolte più generali e intransigenti come, ad esempio,la soppressione dei monasteri e dei conventi, i cuibeni furono destinati ad attività assistenziali o all’i-struzione pubblica, si unirono interventi più incisivie circostanziati.A Milano l’intervento imperiale portò allo scioglimen-to del Capitolo dell’Ospedale Maggiore e alla nominadi un amministratore regio e di un direttore medico;alla creazione di una nuova Giunta delle pie fondazio-ni; alla concentrazione dei luoghi pii elemosinieri neicinque maggiori esistenti – Misericordia, QuattroMarie, Carità, Divinità e Loreto – con l’obbligo dimantenere la casa di lavoro volontario di San Vincen-

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Il monastero di Santa Caterina, con la Ruota degli Esposti (dipinto diG. Grossi).

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zo in Prato, quella di lavoro forzato a Pizzighettone,quella degli invalidi e degli incurabili ad Abbiate-grasso (10). In questa situazione l’arcivescovo Filippo Viscontiammonì i rappresentanti imperiali, ricordando che toc-care le antiche amministrazioni e abolire il suo dirittodi nomina significava rendere aleatorio l’afflusso dilasciti e di donazioni e, quindi, indebolire il secolarelegame tra l’istituzione ospedaliera ed i cittadini mila-nesi. Le questioni sollevate dall’autorità ecclesiasticanon rallentarono le trasformazioni della Ca’ Granda:nel 1785 alla direzione medica fu chiamato PietroMoscati, il quale si occupò di compilare un regola-mento per la farmacia e di redigere una pianta organi-ca del personale e dei relativi emolumenti al fine dimigliorare l’esercizio finanziario dell’ospedale. L’an-no seguente un decreto imperiale sancì la chiusuradelle scuole interne, lasciando all’Ospedale San Mat-teo di Pavia i compiti di insegnamento; l’OspedaleMaggiore di Milano diventava così una scuola di per-fezionamento per i laureati, i quali avrebbero potutoesercitarsi nel riscontro anatomo-clinico osservando imalati delle corsie. Nel 1786 si verificò poi l’aggrega-zione dell’istituto di Santa Corona con le case dellepartorienti e degli esposti e, nel 1787, la chiesa dell’o-spedale fu unita alla parrocchia di San Nazaro (11).Il passaggio del titolo imperiale a Leopoldo II nel1790 coincise con il trasferimento forzato di PietroMoscati all’Ospizio di Santa Caterina alla Ruota comemedico ostetrico (12) e la sua sostituzione alla direzionedella Ca’ Granda con Bartolomeo De Battisti, il qualestilò un più rigoroso piano disciplinare per il migliora-mento dell’assistenza medica e infermieristica e ripri-stinò le scuole di anatomia e di chirurgia. Ma per rea-lizzare pienamente quel buon governo dell’ospedaletanto desiderato e fortemente voluto fin dalle primeriforme, fu necessario accogliere l’istanza della Chiesaambrosiana di ricostituire il Capitolo ospedaliero,ammorbidendo il dirigismo accentratore del periodogiuseppino. Fu una soluzione di breve durata, perchéla Rivoluzione francese ruppe ogni continuità storicamodificando la vita dei singoli e quella delle istituzio-ni; infatti non solo fondò un nuovo ordine socialebasato sull’uguaglianza e sulla libertà, ma segnò inprofondità la Chiesa confiscandone i beni, sopprimen-do gli ordini religiosi e controllando la vita ecclesiasti-ca per fare dei vescovi e dei sacerdoti dei funzionari

pubblici così che fossero distolti dalla cura e dall’at-tenzione alle necessità della popolazione. Le idee rivo-luzionarie, arrivate nel 1796 al seguito del generaleNapoleone Bonaparte, condussero al vertice dell’O-spedale Maggiore un’amministrazione composta dacittadini eletti dalla Municipalità milanese, al postodei preti e dei patrizi del Capitolo, nella speranza chesi avviasse un sistema assistenziale efficiente e senzasprechi in cui la beneficenza diventasse un doveredello Stato e l’assistenza un diritto del cittadino (13).Questi principi non erano nuovi, già alla fine del Set-tecento il medico renano Johann Peter Frank dichiaròche l’individuo dovesse essere assistito in ognimomento della sua vita e che la cura della salute pub-blica spettasse allo Stato, perché la tutela igienico-sanitaria era un fattore basilare della sua potenza (14).Ciò comportò innanzitutto una maggiore considera-zione rivolta alla relazione esistente tra morbilità,ambiente e cultura al fine di prevenire le malattie ericercare i mezzi per impedirne la diffusione e perdebellarle, specie se contagiose; inoltre determinò ladistinzione tra i luoghi del soccorso e della cura deimalati e i luoghi di assistenza per gli indigenti.

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Il primo direttore medico dell’Ospedale Maggiore, Pietro Moscati(pittore Giuseppe Sogni, 1824).

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Era maturata la convinzione che la salute fosse da rite-nere un bene da tutelare con leggi e istituzioni stataliapposite perciò, fin dalla nascita della Repubblica ita-liana, Napoleone Bonaparte introdusse in ogni diparti-mento una Commissione di sanità (15), un organo com-petente di materia sanitaria e in stretto rapporto conl’Amministrazione dipartimentale e con le Municipa-lità. I suoi compiti erano molteplici: controllare ilcommercio e la qualità dei medicinali e delle droghe,vigilare sull’attività di medici, chirurghi, speziali elevatrici, ma ancora più importante era la compilazio-ne di un quadro aggiornato di tutte le malattie esistentie la prescrizione di misure idonee a impedire la propa-gazione di epidemie.Dopo il 1804 il sistema sanitario napoleonico in Italiainiziò a strutturarsi in maniera più organica con l’atti-vazione, presso il Ministero dell’Interno, di un Magi-strato di sanità nominato dal governo, responsabile ditutti gli affari inerenti la salute pubblica ed operantesul territorio tramite un Commissario generale e unaDelegazione itinerante. Un perfezionamento successi-vo del 1806 istituì tre Direzioni di polizia medicapresso le Università di Pavia, Padova e Bologna (com-posta ognuna da professori di medicina, da due mediciesercenti la professione, da un chirurgo e da uno spe-ziale) con il compito di abilitare all’esercizio dellamedicina, della chirurgia e della farmacia, di formareun albo professionale di queste arti e di determinarel’ammontare delle spese per arrestare le malattie epi-demiche e per la cura dei malati indigenti a caricodello Stato (16). Il mutato quadro istituzionale e politicodell’età napoleonica influì sull’Ospedale Maggiore diMilano: la sua struttura fu ampliata con la costruzionedi nuovi edifici grazie alla concessione di alcuni terre-ni appartenenti alla Fabbrica del Duomo e ad uncospicuo lascito testamentario (17); dal punto di vistaamministrativo, poi, si snellì la burocrazia ospedalieraaffidando a un deputato medico le mansioni dellaDirezione medica, inoltre fu potenziato il numero deimedici presenti nelle corsie e, per migliorare il servi-zio agli infermi, si compilarono i primi registri nosolo-gici catalogando tutte le malattie osservate. Quest’ulti-ma innovazione portò, nel 1806, alla nascita dellaScuola di clinica medica di Giuseppe Rasori, un inse-gnamento che si aggiungeva a quello di anatomia diPalletta, di istituzioni chirurgiche di Monteggia e dichimica farmaceutica di Gianni.

L’efficienza della Ca’ Granda, degli istituti ad essacollegati e di tutta l’organizzazione sanitaria napoleo-nica fu poi messa alla prova con la diffusione dellavaccinazione e Milano divenne il centro propulsoredella lotta al vaiolo e della profilassi jenneriana in Ita-lia. Per volontà di Napoleone la vaccinazione dappri-ma fu affiancata alla più collaudata, ma meno sicura,vaiuolazione introdotta all’inizio del Settecento, e poila soppiantò definitivamente (18). La scoperta di EdwardJenner dovette fare i conti con gli ostacoli derivantidalle abitudini, dalle mentalità e dai pregiudizi dellapopolazione e della classe medica, ma alla prova deifatti durante i periodi di epidemia, la vaccinazioneconvinse anche i più scettici. La riluttanza iniziale eramotivata anche dalla miseria delle classi popolari: lagratuità dell’innesto vaccino per i poveri, i bambiniesposti, i derelitti era vissuta come una avvilentediscriminazione. Nonostante queste resistenze la pro-filassi antivaiolosa occupò un posto di rilievo nellapolitica sanitaria napoleonica e fu grazie all’instanca-bile impegno del medico varesino Luigi Sacco, coa-diuvato dal governo, che la vaccinazione fu introdottain ogni famiglia.Dopo i pionieristici innesti di vaccino ai figli dei con-tadini della zona di Varese, il dottor Sacco fu chiamatoa Milano nel 1799 per sostituire Pietro Moscati alladirezione dell’Ospizio degli esposti di Santa Caterinaalla Ruota, qui sperimentò su larga scala gli effetti delvaccino e ne divulgò gli esiti. I positivi risultati conse-guiti gli valsero la nomina a direttore generale dellavaccinazione nel 1801, insieme a quella di medicoordinario dell’Ospedale Maggiore. Queste impegnati-ve mansioni non rappresentarono un punto di arrivoper la sua carriera, bensì un incentivo per continuare afare proseliti e infatti Luigi Sacco si prodigò a diffon-dere la vaccinazione compiendo una serie di viagginei Dipartimenti dell’Agogna, del Basso Po, del Rubi-cone e del Mella allo scopo di istruire e di addestrare imedici e i chirurghi. Con lungimiranza egli consigliòil governo napoleonico di coinvolgere le autorità localie quelle religiose nella propaganda della vaccinazione,ricordando a entrambe il dovere di tutelare la salutepubblica e il sentimento di carità cristiana verso ilprossimo.La casa degli esposti di Santa Caterina alla Ruota diMilano divenne la direzione operativa a cui tutti imedici e i chirurghi dipartimentali si rivolgevano per

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essere riforniti di pus vaccino fresco e per avere infor-mazioni sul modo di innestarlo, ma anche per segnala-re le loro osservazioni e tutti i casi dubbi. L’anticoricovero per l’infanzia abbandonata non fu più solo unluogo di accoglienza e di beneficenza, ma diventò unlaboratorio sperimentale e un luogo di confronto per lascienza (19).L’Ospedale Maggiore all’avanguardia in campo sani-tario non trasse però un giovamento finanziario néamministrativo dalle riforme attuate e così nel 1808 fuposto alle dipendenze della Congregazione di caritàper regolare le sue entrate. Questa soluzione permisedi gestire meglio la ragguardevole eredità lasciata dal-l’arcivescovo Giovanni Battista Caprara, che servì adacquistare i generi di prima necessità e a pagare gli sti-pendi del personale, perché le casse dello Stato eranostate svuotate dalla preparazione delle campagne mili-tari di Napoleone.Con il ritorno degli austriaci in Lombardia nel 1815prevalse la tendenza a un intervento graduale nella

gestione e per dare una parvenza di autonomia siabolì la Congregazione di carità, ma poi si affidò laguida del nosocomio e degli altri istituti a direttori eamministratori nominati dal governo e scelti tra igruppi dirigenti cittadini. La Chiesa ambrosiana,intanto, mantenne vivo il suo legame con la Ca’Granda attraverso le esperienze dell’associazioni-smo laico e del volontariato ospedaliero, proseguen-do nelle antiche esperienze delle confraternite e deiserventi che si recavano in visita ai malati per assi-sterli e confortarli (20).Il dirigismo asburgico proseguì con la regolamentazio-ne degli ingressi all’ospedale, una misura resa neces-saria dalla diffusione prima dell’epidemia di tifo del1817 e poi di quelle ricorrenti di colera; inoltre pervolontà governativa le scuole interne all’OspedaleMaggiore furono definitivamente chiuse consentendoall’Università di Pavia di avere il monopolio dell’inse-gnamento della medicina. La chirurgia, però, dovevarimanere l’elemento qualificante della Ca’ Granda;

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L’antica facciata della Ca’ Granda verso via Festa del Perdono: disegno di L. Rupp, incisione di F. Brancati (Civiche Raccolte Bertarelli, 1833).

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8 - Cfr. E. Bressan, Chiesa milanese e assistenza nell’età delleriforme, cit., pp. 162-166.

9 - Cfr. G. Cosmacini, La Ca’ Granda dei Milanesi…, cit., pp. 128-132.

10 - Cfr. E. Bressan, Chiesa milanese e assistenza nell’età delleriforme, cit., pp. 167-172.

11 - Cfr. G. Cosmacini, La Ca’ Granda dei Milanesi…, cit. pp.140-142; anche in E. Bressan, Ospedale Maggiore…, cit. pp.2602-2603.

12 - Cfr. P. Zocchi, L’assistenza agli esposti e alle partorienti nel-l’Ospedale Maggiore di Milano…, cit., pp. 169-170.

13 - Cfr. G. Cosmacini, La Ca’ Granda dei Milanesi…, cit. pp.149-150.

14 - Cfr. G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia.Dalla peste europea alla guerra mondiale (1348-1914), Roma-Bari,Laterza, 1987, pp. 235-237, pp. 252-253.

15 - La Commissione di sanità dipartimentale era composta dal pre-fetto, due consiglieri di Prefettura, un presidente di tribunale e tresanitari. Cfr. M. Roberti, Milano, capitale napolonica. La formazionedello Stato moderno 1796-1814, vol. III, Milano, Treccani, 1947, p.539; anche in C. Zaghi, L’Italia di Napoleone, Milano Utet, 1989,pp. 142-147.

16 - Cfr. C. Avogadro, Un aspetto della politica sanitaria in etànapoleonica: la vaccinazione nel Dipartimento dell’Agogna, tesi dilaurea, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Mila-no, a.a. 1999-2000, relatore Edoardo Bressan, pp. 46-48.

17 - Il lascito del notaio Giuseppe Macchi permise all’ingegnere Pie-tro Castelli di costruire i due nuovi corpi ai lati del cortile centrale delFilarete potenziando così la ricettività del nosocomio, che divenne ilpiù grande d’Italia. Cfr. L. Franchini, L’architettura dell’OspedaleMaggiore di Milano, in Dizionario della Chiesa ambrosiana, vol. IV,Milano, Ned, 1990, p. 2609; anche in G. Cosmacini, La Ca’ Grandadei Milanesi…, cit., pp. 152-154.

18 - Decreto del 5 novembre 1802, in Bollettino delle leggi dellaRepubblica italiana, Milano, Veladini Stamp. Naz., 1802, pp. 420-422; decreto del 9 maggio 1804, in Bollettino delle leggi…, cit.,Milano, Veladini Stamp. Naz., 1804, pp. 573-575.

19 - Cfr. C. Avogadro, Un aspetto della politica sanitaria... cit. pp.89-104, pp. 120-126.

20 - L’ambiente milanese mostra una particolare vitalità: accantoall’esperienza comunitaria delle Amicizie cristiane operanti già afine Settecento per l’educazione e l’assistenza popolare, e della Piaunione di beneficenza per il conforto dei malati dell’OspedaleMaggiore, nasce e cresce l’attività delle Canossiane. Cfr. G. Rumi,Santità sociale in Italia tra Ottocento e Novecento, Torino, SEI,1995. Per una breve storia della beneficenza e dell’assistenza crf.C. Avogadro, E. Bressan, La carità come dimensione dell’espe-rienza cristiana, in L’amicizia si fa strada, Milano, Fondazioneper la Sussidiarietà, 2005.

21 - L’importanza della chirurgia è dimostrata dal fatto che il dottorCarlo Dall’Acqua espresse la volontà di dare in eredità alla bibliotecadell’Ospedale Maggiore tutti i suoi volumi di chirurgia e di medicina,e di vincolare la rendita del suo lascito all’acquisto di riviste e dinuovi testi più aggiornati. Cfr. G. Cosmacini, La Ca’ Granda deiMilanesi…, cit., p. 169.

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Note

1 - Cfr. C. Capra, La Lombardia austriaca nell’età delle riforme1706-1796, Milano, Utet, 1987, pp. 13-19.

2 - Cfr. G. Cosmacini, La Ca’Granda dei Milanesi. Storia dell’Ospe-dale Maggiore, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 117-122.

3 - Alla Ca’ Granda era stata creata nel 1678 una Scuola di anatomia,dove un medico aveva l’obbligo di leggere e dettare anatomia, manon di praticare le incisioni perché queste erano un compito riservatoai chirurghi secondo una divisione specialistica, che era anche dicasta. Cfr. G. Cosmacini, La Ca’ Granda dei Milanesi…, cit. pp.122-123; anche E. Bressan, Ospedale Maggiore, in Dizionario dellaChiesa ambrosiana, vol. IV, Milano, Ned, 1990, pp. 2601-2602.

4 - Cfr. E. Bressan, Chiesa milanese e assistenza nell’età delle rifor-me, in Ricerche sulla Chiesa di Milano nel Settecento, a cura di A.Acerbi e M. Marcocchi, Milano, Vita e Pensiero, 1988, p. 155.

5 - Cfr. C. Capra, La Lombardia austriaca…, cit. pp. 101-113.

6 - Cfr. C. Capra, La Lombardia austriaca…, cit. pp. 160-178.

7 - La Scuola di ostetricia sostituiva una secolare pratica tramandataoralmente, senza alcuna preparazione scientifica, con una praticaappresa sul campo assistendo le partorienti ricoverate all’OspedaleMaggiore. Cfr. P. Zocchi, L’assistenza agli esposti e alle partorientinell’Ospedale Maggiore di Milano e nell’Ospizio di Santa Caterinaalla Ruota tra Settecento e Ottocento, in “Bollettino di DemografiaStorica”, n. 30/31 (1999), pp. 166-168.

infatti, intorno agli anni trenta del XIX secolo si istituìun servizio di guardia chirurgica e la Direzione medi-ca prescrisse le norme per le operazioni più delicate,come quelle di vascolarizzazione (21). Negli anniseguenti al fine di migliorare il servizio agli infermi,l’amministrazione ospedaliera approvò prima l’acqui-sto di nuove stufe per riscaldare le crociere e di letti-ghe per la sosta dei malati durante le pulizie e il riordi-no dei letti, poi deliberò la spesa per la manutenzionedei bagni e per la distribuzione dei bicchieri di latta.Queste migliorie tornarono particolarmente utilidurante le Cinque Giornate di Milano, quando l’Ospe-dale Maggiore accolse tra le sue mura, per ordine deldottor Andrea Verga, tutti i feriti e i moribondi. Nelfrattempo i fondi a disposizione si assottigliavano, manon si rinunciava ad offrire un servizio competente edi qualità e a potenziare l’azione di controllo medico-sanitario come ebbero modo di constatare nel corsodell’Ottocento gli illustri visitatori: dall’imperatored’Austria Francesco Giuseppe, all’imperatore franceseNapoleone III, infine Vittorio Emanuele II, perché laCa’ Granda rispondeva alla nascente modernizzazioneeconomica e all’industrializzazione non solo comeluogo della cura, ma come luogo della prevenzione edella tutela della salute dei Milanesi.

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Dopo l’unità d’Italia

Nel 1860 il mutamento politico approdato all’unifi-cazione territoriale del paese segnò una svolta nellecose d’Italia: anche per l’Ospedale Maggiore. Nel1861, dopoché la «pianta morale per il personalesanitario» ebbe portato a 113 il numero complessi-vo dei medici e dei chirurghi ospedalieri, in data 18ottobre «il Governo con circolare ai Sindaci ordinache non siano inviati all’Ospedale individui affetti osospetti di cronicismo» e in data 25 novembre «1aPrefettura di Milano raccomanda ai medici condottidi campagna di essere circospetti e prudenti nelrilascio di certificati ad infermi per il ricovero nel-l’Ospedale».Era una tempestiva anticipazione di quanto la nuovaamministrazione ospedaliera avrebbe provveduto aelaborare nel nuovo statuto dell’Ospedale, approva-to con decreto reale del 2 dicembre 1866. L’ammi-nistrazione, sulla base del regolamento in vigore(fondato sulla legge del 20 novembre 1859 modifi-cata il 3 agosto 1862), fu insediata il 1° dicembre1863, sotto la presidenza del marchese Carlo D’Ad-da, dopoché il 30 agosto era stato «istituito condecreto reale un Consiglio degli Istituti Ospitalieriper la direzione e amministrazione dell’OspedaleMaggiore e degli annessi Luoghi Pii», ivi compresoil neo-aggregato Ospedale Ciceri-Fatebenesorelle.Appena insediato, il 29 dicembre 1863 «il Consi-glio raccomanda ai Parroci di andare guardinghi eprudenti nel rilasciare le fedi di miserabilità per ilricovero nell’Ospedale» L’obiettivo era quello dicontenere al massimo il numero dei ricoverati, limi-tando il beneficio dell’assistenza gratuita agli

«infermi di malattie acute o sanabili e non croni-che» dei quali fosse inoltre certificato lo stato dipovertà. Ma, da un lato lo statuto ospedaliero,costretto per motivi politici a recepire l’obbligo(risalente ai tempi della fondazione sforzesca) dicorrispondere il beneficio assistenziale a tutti gli838 comuni dell’ex ducato di Milano (ivi compresele province di Como, Bergamo, Cremona, Pavia),teneva troppo larghi i cordoni dei diritti al ricovero;dall’altro le rimesse monetarie da parte dei comuni,dilazionate e non commisurate al continuo incre-mento dei costi assistenziali, facevano sì che i cor-doni dei rimborsi restassero troppo stretti, con con-tinuo e progressivo disavanzo fra entrate e uscite.Tuttavia, nel nuovo clima di «austerità», di «econo-mia all’osso», di «politica della lesina», di «maninette», che caratterizzò in larga misura il periododella Destra storica al potere (con il contenimentodel debito pubblico e il pareggio del bilancio rag-giunto nel 1875), la nuova amministrazione ospeda-liera volle e seppe contrarre le spese senza sover-chio discapito dell’assistenza; però con forte pena-lizzazione degli investimenti in campo tecnico-sani-tario e, conseguentemente, degli avanzamenti incampo medico-scientifico. Ciò fu verosimilmentealla base dell’attrito che venne a crearsi tra i nuoviamministratori e il direttore Andrea Verga, il qualevedeva con disagio che il più grande ospedale della«nuova Italia» segnava il passo, mentre all’estero imaggiori ospedali incominciavano a dotarsi deiprimi attrezzati «gabinetti d’analisi» necessari alleapplicazioni pratiche dei principi e dei metodi della«nuova scienza medica» di Rudolf Virchow («pato-logia cellulare») e di Claude Bernard («medicinasperimentale»).«Fra Amministrazione e Direzione nacque un con-flitto che la prima, con la forza che le veniva dallalegge, decise a proprio favore in un modo assairadicale, sopprimendo cioè la Direzione medica» e

L’Ospedale, luogo di crescita scientifico-culturalee assistenziale della città in espansione (1860-1980)*

GIORGIO COSMACINI

Università Vita-Salute dell’IRCCS Ospedale San Raffaele - Milano

* Il presente contributo riproduce parzialmente, con modifiche, icapitoli III e IV della parte terza del libro di Giorgio CosmaciniLa Ca’ Granda dei milanesi. Storia dell’Ospedale Maggiore(Laterza, Roma-Bari 1999) e del saggio di Id., L’evoluzione dellamedicina al Policlinico di Milano nel XX secolo, in AA. VV., IlPoliclinico di Milano e il suo Ospedale (Nexo, Milano 2005).

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istituendo una «Sezione medica» presso gli ufficidel Consiglio ospedaliero. La dura decisione fu inqualche modo mitigata: nella seduta consiliare del20 febbraio 1865 Verga fu nominato «professorestraordinario di dottrina e di clinica delle alienazio-ni mentali», serbando lo stipendio di direttore. «IlConsiglio - si disse - deve essere ambizioso di con-servare al grande Ospitale la sua illustrazione, ildottor Verga».Lo scorcio temporale della direzione verghiana e ilsuccessivo settennio di vacanza direttoriale (1865-72) furono anni difficili anche perché furono anni dicambiamento o di vero rivolgimento nella classifi-cazione delle malattie, cioè dei criteri clinico-noso-logici di riferimento della patologia ospedaliera. Lemalattie erano fino allora suddivise in 5 grandi clas-si: «febbri intermittenti e continue», «cachessie»,«eccrisi» (tra cui l’emottisi, l’ematuria, le emorroi-di), «vizi organici locali» (dai tumori ai geloni),«vizi dei sensi» (dalla cataratta alla sordità). Questaclassificazione arcaica stentava a lasciare il passoalla nuova nosologia, correlata alle sedi e cause dimalattia e alle acquisizioni della nuova patologia

virchowiana. Il nuovo assetto nosografico contem-plava 4 classi di malattie, 2 mediche (a sede «mani-festa» e a sede «indeterminata») e 2 chirurgiche(«comuni» e «particolari»): ogni classe era distintaa sua volta in ordini, 7 per le malattie mediche asede manifesta (negli apparati respiratorio, cardio-vascolare, digerente, nervoso, locomotore, genito-urinario, cutaneo) e 6 per le malattie mediche asede indeterminata (altrettanto dicasi per le malattiechirurgiche). Era un nuovo assetto che presuppone-va, nei medici e chirurghi, uno sforzo d’aggiorna-mento faticoso, culturale prima che scientifico-tec-nico, oltralpe già in atto.Il 1866 era l’anno in cui, il 31 marzo, «si introducenell’Ospedale la illuminazione a gas». Sedici annidopo, il 25 agosto 1882, si introduce un «impiantodi apparecchi telefonici». Fra le due innovazioni,non mancano indizi dell’adozione di nuove tecnichee pratiche mediche: nel 1869 un «regolamento perla commissione sperimentale dei rimedi nuovi», nel1871 l’istituzione di «un posto di conservatore delgabinetto elettrico», nel 1873 la prescrizione che «imedici dell’Ospedale debbono essere provveduti aspese proprie dei mezzi diagnostici e curativi tasca-bili, [come] termometri, siringhe Pravaz, ecc.»Il medico ospedaliero che eseguiva la visita quoti-diana nelle sale non si limitava più a toccare lafronte del malato, a tastarne il polso, a scrutarnel’urina nell’orinale. Ora si soffermava ad appren-derne la storia scritta nella «cartella medica», a leg-gerne la temperatura corporea sul «termometro cli-nico» di Wunderlich, a ispezionarne il cavo oralecon l’«abbassalingua», a palparne l’addome con«tecnica mono o bi-manuale», a percuoterne il tora-ce con il «plessimetro» di Piorry, ad auscultarne ilpetto con lo «stetoscopio» di Laënnec. La raccoltadell’ «anamnesi» precedeva 1’«esame obiettivo»,campo d’azione della consolidata semeiotica (ispe-zione, palpazione, percussione, auscultazione).Nella stanza delle «analisi» i vetri con le urineattendevano l’«esame chimico-fisico», la «prova diRivalta» (che con una goccia d’acido acetico rivela-va l’eventuale presenza della nubecola albuminuri-ca), la «prova di Fehling» (che saggiava l’eventualepresenza di zucchero con criterio più attendibiledell’assaggio in punta di lingua di una goccia delliquido organico in esame). Le diagnosi di bronco-

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Andrea Verga, “professore straordinario di dottrina e di clinica dellealienazioni mentali” (scultore Giulio Branca, 1895).

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polmonite, nefrite, diabete diventavano via via piùfrequenti di quelle, via via superate, di peripneumo-nia, flegmasia, marasma.Il chirurgo ospedaliero metteva da parte il sanguisu-gio e il salasso per dedicarsi prevalentemente a ope-razioni agevolate dall’«arte di togliere sensibilità aldolore» e rese più efficaci dai «lavaggi delle particon acqua di cloro o con acido fenico». In campofarmacologico, la digitale purpurea fornita dalla far-macia dell’Ospedale non era più impiegata ad altedosi (tossiche) come vomitivo controstimolo, maera usata a dosi graduate come tonico del cuore(cardiotonico) in grado di regolarne l’attività. Alcu-ni farmaci non erano più somministrati per bocca,ma «iniettati» con la «siringa per iniezioni ipoder-miche» messa a punto da Pravaz nel 1850. Nell’ap-posito gabinetto, le «macchine elettriche» consenti-vano una «elettrojatria» sempre più praticata, inun’epoca in cui la produzione di elettricità aumen-tava sempre più per via degli effetti della rivoluzio-ne industriale.Nel 1882 Robert Koch scopriva al microscopio ilbacillo tubercolare (e quasi contemporaneamente ilvibrione del colera). Il «tarlo» della tubercolosi -l’epidemia del XIX secolo - rodeva la popolazionemilanese. «A fronte di una mortalità tubercolareche a Milano, tra il 1884 e il 1900, raggiunse lamedia di quasi 1.100 decessi annui, per un totale dicirca 19.000 morti, gli esami di sputi fatti dallaSezione microscopica», istituita nell’OspedaleMaggiore nel 1889, «furono complessivamente322». Una ventina all’anno era una percentualemolto piccola, tenuto conto dell’alto numero degliospedalizzati per tubercolosi. Ciò dimostrava laportata diagnostica per lungo tempo scarsa della purimportantissima rivoluzione batteriologica.L’Ospedale tardo-ottocentesco, in un periodo stori-co che registrava tutte insieme le scosse dell’indu-strializzazione e le scoperte della batteriologia, cheassisteva contemporaneamente al lancio della scien-za medica su basi «sperimentali», «positive», e allacrescita vigorosa dell’igiene scientifica (un igieni-sta, Luigi Pagliani, era l’ispiratore della riformasanitaria attuata da Francesco Crispi nel 1888),appariva «invecchiato» e «stazionario, quando tuttogli si muove[va] intorno». Lo sguardo dell’igienistavi coglieva ancora quel «nocumento alle condizioni

igieniche» e lo sguardo del clinico ancoraquell’«ostacolo alle cure e all’assistenza» che muo-vevano entrambi dalla medesima causa: «1’accu-mulo dei malati». Nel 1883 in una relazione alConsiglio provinciale di sanità di Milano, aventeper oggetto L’Ospitale Maggiore e le pie caseannesse, si scriveva: «Gli ultimi ospitalucci dellepiù piccole città austriache o germaniche sonomolto meglio organizzati; qui c’è molta architettura,ma poco riguardo ai bisogni dell’uomo ammalato».L’impietosa diagnosi faceva parte dei Giudizi dimedici ed igienisti italiani sull’Ospitale Maggioredi Milano, allegato alla predetta relazione. Per ade-guare l’antico e glorioso Ospedale Maggiore allemoderne e concrete necessità, l’«azienda» (sic!)ospedaliera doveva essere, secondo il clinico medi-co di Padova Achille De Giovanni, «affidata a mentimeno causidiche e a mani meno massaie».Il giudizio era un’espressione del dibattito tecnicofra chi voleva conservare e ammodernare l’anticoospedale e chi voleva invece lasciare le vecchiestrutture e costruire altrove le nuove. A tale proposi-to il clinico chirurgo di Pavia Enrico Bottini, reduceda un viaggio di aggiornamento in Germania e neiPaesi Scandinavi, affermava che rispetto agli ospe-dali di quei paesi quelli italiani sul tipo dell’Ospe-dale Maggiore di Milano «sono agli antipodi» epertanto «conviene non correggere, ma abbattere edabbandonare e rifare».Questi orientamenti, di una parte, erano anche un’e-spressione del dibattito politico tra chi consideravala sanità, in particolare quella ospedaliera, una«spesa» da contenere e chi, nel mutato clima ideo-logico caratterizzante il periodo della Sinistra stori-ca al potere, considerava invece la sanità un «inve-stimento» da incentivare e gli ospedali, in particola-re, luoghi pii da riformare. La riforma ospedalieradel 1890, meglio nota come «legge Crispi sulleOpere Pie», mirò proprio a questo: trasformare le«pie opere», sostenute da volontarie elargizioni edonazioni benefiche, in «servizi di pubblica assi-stenza», da supportare con programmati stanzia-menti e finanziamenti. Pur tra le molte carenzed’impostazione e di applicazione, il tentativo diriforma operato dalla legge crispina (che prevedevatra l’altro la conversione e concentrazione nella«Congregazione di Carità» delle «Opere Pie» non

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più rispondenti a effettivi bisogni sociali) sortìalmeno l’effetto non caduco di mutare la dinamicaospedaliera da inerziale in attiva, costituendo un’a-gevolazione di percorso per l’«avvento della tecno-logia di fine secolo» e per «la costruzione dell’ordi-ne clinico».La riforma delle opere pie non era incompatibilecon l’esercizio autentico della pietà. Tutt’altro: dal1887, nell’Ospedale Maggiore, il personale di assi-stenza era integrato, supportato, surrogato dai mem-bri della Commissione visitatrice dell’Ospedale,istituita il 16 aprile allo scopo di «porgere confortoagli ammalati, sentire gli eventuali loro lagni sulservizio, farli conoscere al Consiglio, quando sianofondati e di non lieve importanza e non si riferisca-no ai metodi di cura e alle prescrizioni dietetiche, esuggerire al medesimo quei provvedimenti di assi-stenza che siano votati collegialmente dalla Com-missione stessa».Quanto alla proposta di rifare l’Ospedale, fu il con-sigliere Edoardo Porro, clinico ostetrico e pionieredell’«amputazione uterina» (isterectomia), a trac-ciare in una relazione dal titolo Progetti e proposteper l’Ospedale Maggiore (Milano 1885), «i1 pianodella riforma da eseguirsi immediatamente», inte-grato dalla proposta di «quell’ampliamento dell’o-spedale sforzesco, al di là del Naviglio, che fuattuato nel cinquantennio successivo con la creazio-ne di numerosi padiglioni». Ma non precorriamo itempi: «i1 piano del Porro presupponeva un accor-do con la Provincia per l’acquisto degli immobilioccupati dall’istituto di maternità e degli esposti edin tal senso vennero fatte le [necessarie] pratiche».Dieci anni dopo, sotto la presidenza ospedaliera diGiulio Vigoni (fratello di Giuseppe, il popolare«Pippo», sindaco di Milano dal 1892 al 1899), laquestione fu finalmente impostata e brillantementerisolta: si decise di evitare forti spese di adattamen-to del vetusto fabbricato e di costruire un ampio emoderno padiglione chirurgico, capace di 120 letti -tanti ne richiedevano i competenti - e dotato diluminose e ben attrezzate sale operatorie e di perfe-zionati servizi. Si demolì la vecchia, inadatta suc-cursale ospedaliera detta «del Gallo» - un cadentefabbricato, malamente trasformato in ospedale - econ la cospicua cifra (all’incirca 120.000 lire) offer-ta dalla duchessa Eugenia Litta Bolognini Attendo-

lo Sforza in memoria del figlio Alfonso immatura-mente perduto, si pose mano ai lavori per la costru-zione del nuovo padiglione.«L’edificio fu inaugurato il 4 giugno 1895 e, attiva-to l’anno seguente, raccolse unanimi lodi e plausida medici italiani e stranieri». Il nuovo padiglioneLitta era «la prima pietra per la rinascita dell’Ospe-dale».

Nascita del Policlinico

Il 1° gennaio 1900, all’esordio di un secolo che siriprometteva di risplendere excelsior!, illuminatodalla «scienza tutta per l’umanità», l’OspedaleMaggiore di Milano conferì la qualifica di «medicoelettricista» al dottor Umberto Zambelli, autore

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Il padiglione Litta, 1895, “la prima pietra per la rinascita dell’Ospedale”.

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l’anno successivo di una documentata memoria Perun nuovo gabinetto di elettroterapia che prevedevaanche una spesa di 3.210 lire «per l’impianto diradioscopia e radiografia»Con le «macchine elettriche» entravano in ospedalele prime autoclavi: le «camere di operazione»diventavano «templi silenziosi» dove gradatamentesvaniva la chiassosità ottocentesca e dove la setti-cità lasciava definitivamente il campo all’asepsi. Ilnuovo impianto radiologico, funzionante dal 1903,fu collocato nel padiglione meccanoterapico Ponti,inaugurato nel maggio 1902 e destinato alla «curafunzionale meccanica» degli organi offesi. Talepadiglione veniva ad aggiungersi a un padiglionegemello, inaugurato il 12 novembre 1900 e destina-to ai «colpiti da infortuni sul lavoro bisognosi dicure chirurgiche». Il processo di industrializzazionecontava, in una Milano che si candidava a capitaleeconomica e morale dell’Italia giolittiana, le sueprime, numerose vittime. Ambedue i padiglionierano sorti in pochi anni, non lontano dal Litta, gra-zie al lascito testamentario di 600.000 lire del cava-lier Francesco Ponti, da questi legato al nipote, l’in-dustriale Ettore Ponti (poi sindaco di Milano dal1905 al 1909), perché operasse «in adempimentodella sua volontà».I due padiglioni Ponti furono aperti durante l’ammini-strazione retta dall’avvocato Mario Martelli (1900-1902), deputato e poi senatore di parte radicale (inti-mo amico di Felice Cavallotti e del sindaco di Mila-no, dal 1899 al 1903, Giuseppe Mussi), al quale ilfiero laicismo non impedì di condurre una «vigorosacampagna contro la sostituzione delle suore, propostada qualche anticlericale, ma che egli difese, ritenen-dole indispensabili nell’opera di assistenza».«Ancora durante la presidenza Martelli furono gettatele basi per la fondazione dei due padiglioni Beretta,per la chirurgia e la medicina pediatrica», capacicomplessivamente di 120 letti, dedicati dai familiarialla memoria di Paolo Beretta, «spentosi nel fiored’una vita nobilmente iniziata», con un legato di150.000 lire; e «nel 1902 fu staccato dal Consigliodegli Istituti Ospitalieri il pio Istituto di Santa Coronae reso indipendente, con amministrazione propria».In una città di mezzo milione di abitanti - tanti necontava Milano nel 1905 - e che accoglieva ognianno 20.000 immigrati provenienti da varie regioni

d’Italia, l’Istituto Santa Corona forniva di medicinali50.000 malati poveri. I 52 medici condotti, le 22 leva-trici condotte, la Poliambulanza di via Arena e lequattro ambulanze chirurgiche, che costituivano ilnerbo del Servizio sanitario municipale, non riusciva-no a soddisfare la domanda di salute di una popola-zione la cui metà era di condizione operaia.L’Ospedale Maggiore ospitava 26.000 malati l’anno,ma era largamente insufficiente. La «questione ospe-daliera», da tempo sul tappeto, non trovava azioni eattori in grado di risolverla. L’apertura dei due padi-glioni Beretta, nel gennaio e nel marzo 1904, contri-buì a risolvere parzialmente i bisogni sanitari dellapopolazione infantile, sempre ad alto rischio. I nuovipadiglioni furono inaugurati durante l’amministrazio-ne retta dall’avvocato Bortolo Federici (1902-1905),deputato repubblicano. Tale amministrazione, «tro-vando necessario gareggiare con la beneficenza priva-ta o più tosto sollecitare questa con l’esempio, volleanche dotare la grande azienda sanitaria d’un nuovocomparto chirurgico femminile».

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I padiglioni Francesco ed Ettore Ponti, 1900-1902.

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«Sotto l’amministrazione che segui [1905-1909] eche era sempre di sinistra, furono costruiti il padi-glione per la chirurgia femminile intitolato alMoscati», capace di 140 letti e costato 210.000 lire(metà in opere murarie e metà in attrezzature), e«1’edificio dei servizi generali per i padiglioni»,con un dormitorio per i serventi e una casetta per imedici e i sacerdoti di guardia. Fu costruita anche«la chiesa, dedicata a S. Giuseppe, aperta al cultonel 1908» e in questo stesso anno, il 24 aprile, fudeliberato di dar corso a «studi solleciti e concretiper la fondazione di un nuovo ospedale di 1.200letti alla periferia della città».Nel luglio 1908 fu aperto, in via della Pace, cioèancor più all’esterno del corso del Naviglio e più invicinanza delle mura spagnole, un complesso ospe-daliero costato circa un milione e composto da 11padiglioni, capaci di 430 letti destinati alla curadelle malattie dermatologiche. La «dermatologia»aveva alle spalle un lungo passato di «medicinaesterna», rivolta alla cura delle malattie della pelle edelle malattie veneree (aventi nella pelle una dellesedi preferite). L’applicarsi alla più grave e diffusamalattia venerea, la sifilide, faceva della dermatolo-gia una «sifiloiatria». Promotore del nuovo «Ospe-dale dermosifilopatico di via Pace» fu AmbrogioBertarelli, il medico-filantropo che reclamava per ipazienti affetti da «mali esterni» il triplice rimediosovrano: «più acqua, più aria, più luce». La pres-sante richiesta fece sì che il nuovo complesso ospe-daliero avesse 70 vasche da bagno, viali e aiuole

verdi, ampie terrazze per l’elioterapia. Ai «bagni disole» si aggiungevano i «bagni di luce», realizzatinelle sale dello speciale padiglione per la «fotoradio-terapia», facente parte del complesso ed eroganteanche cure con i nuovi raggi di Röntgen e di Finsen.Nel maggio 1911 fu inaugurato, in via della Com-menda, il padiglione intitolato a Cesarina Riva, unagiovane spentasi poco dopo le nozze e onorata inmemoriam dal marito con un legato di 100.000 lire.Il padiglione, destinato in un primo tempo ai malatidi erisipela e setticemia (malattia di cui era morta lagiovane Riva), fu poi assegnato ai malati chirurgicicon affezioni degli organi urogenitali maschili: sirealizzò così un «comparto speciale», distaccatodalle divisioni dermosifilopatiche e di chirurgiagenerale, pronto per il trapianto in Italia, anticaterra di empirici frangipietra (litotomi) e di chirur-ghi delle «parti di sotto» (norcini), dalla grande«urologia» transalpina.Il padiglione Riva era sorto nel triennio in cui l’am-ministrazione ospedaliera fu retta dall’avvocatoFerdinando Giulini (1909-11). Il successore di que-sti, l’avvocato Temistocle Castelli (1911), ebbe ilmerito di destinare l’ingente somma - parecchimilioni di lire - data all’Ospedale dalla Cassa diRisparmio delle province lombarde, in occasionedalla celebrazione cinquantenaria dalla proclama-zione del Regno d’Italia, alla soluzione della «que-stione ospedaliera» nei modi - decentramento eospedali di circolo - che vedremo più avanti. Allamorte di Castelli la presidenza dall’amministrazio-ne passò all’avvocato Filippo Mezzi (1912-14),«ultimo degli amministratori di destra» il qualecontribuì in maniera notevole all’ulteriore avanza-mento strutturale ospedaliero al di là del Naviglio.Nel maggio 1912 fu portato a compimento il padi-glione intitolato ad Antonio Biffi (fratello del cele-bre neuropatologo Serafino Biffi), il quale, mortoquattro anni prima, aveva legato il cospicuo lascitodi un milione e mezzo di lire a un’istituenda divi-sione di medicina generale. Ma era il tempo in cuila neuropsichiatria, clinica del corpo e della mentecon radici nell’unità psicofisica dell’uomo, rinasce-va per un verso come biologizzazione della psiche(Freud) e per altro verso come scorporo dalle malat-tie somatiche delle malattie del sistema nervoso,cioè come separazione dai malati in genere non

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La Chiesa di San Giuseppe ai Padiglioni, 1903.

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solo dei malati della specie mentale, ma anche deimalati neurologici, al cui studio e alla cui cura i cli-nici medici avevano fornito un grandissimo appor-to. Il nuovo padiglione divenne sede (anche in osse-quio alla memoria del fratello del donatore), oltre-ché della prevista divisione medica in due sezioni di30 letti ognuna, di un «comparto neuropatologicocomposto d’un ambulatorio, d’una infermeriamaschile di 30 letti e d’una femminile per 15 e didue camere d’isolamento ognuna con due letti».Il 15 luglio 1914 fu inaugurato il padiglione di«astanteria e guardia», sorto con annesso «isola-mento» sull’area del vecchio brefotrofio di SantaCaterina alla Ruota e dovuto alla generosa disposi-zione testamentaria (250.000 lire) del nobile Pom-peo Confalonieri, morto nel 1905, e all’integrazionefinanziaria (393.000 lire) resa possibile dalla sparti-zione con la Fabbrica del Duomo della cospicuaeredità del benefattore Aristide De Togni.Erano gli anni in cui, nel fervido mondo milanesepiù che altrove, scienza medica e sanità pubblicaavevano un loro punto d’incontro nella «medicinapolitica», teorizzata come sintesi tra clinica e igie-ne, ma in pratica intesa come campo d’impegnounitario di medici e di uomini con responsabilità digoverno, ai vari livelli. Nei suoi vertici «scientifici»la medicina si faceva carico delle basi «sociali»delle malattie. Giuseppe Forlanini, primario medicodell’Ospedale Maggiore, metteva a disposizione delfratello Carlo, clinico medico a Pavia e inventoredel pneumotorace artificiale nella terapia della tisipolmonare, la copiosa casistica delle due sale ospe-daliere da lui dirette e nel contempo, convinto chela lotta antitubercolare fosse un problema di preven-zione primaria prima e più che un problema tera-

peutico, stimolava al riguardo i membri dell’Asso-ciazione sanitaria milanese di cui era presidente,dicendo: «I medici sono uomini di scienza che sisforzano con ogni mezzo di applicare quello chehanno riconosciuto utile e buono, che assillano anzila lenta società, maestri d’igiene, maestri di moralefisica».Appassionato interprete di analoghe istanze socialiin intima connessione con i progressi della scienzamedica era anche il promotore e artefice dell’istitu-zione sorta in quegli stessi anni in stretta contiguitàlogistica, e ideale, con i nuovi padiglioni del vec-chio Ospedale: Luigi Mangiagalli, deputato radicalee «medico politico» con la stoffa dell’imprenditore,fondatore nel 1906 degli Istituti Clinici di Perfezio-namento.La nuova istituzione, nata da una convenzione traComune, Provincia e Ospedale Maggiore, compren-deva la Clinica ostetrico-ginecologica, affacciata suvia della Commenda (e diretta da Mangiagalli stes-so, «principe della ginecologia operativa»), la Clini-ca delle malattie epidemico-contagiose (che aggre-gava l’Ospedale municipale di Dergano e si avvale-va della consulenza di Serafino Belfanti, direttoredell’Istituto sieroterapico milanese) e la Clinica dellavoro affacciata sulla strada di San Barnaba (ediretta da Luigi Devoto). Quest’ultima, prima delsuo genere nel mondo, era stata aperta nel 1910 inottemperanza al dettato dell’ex sindaco Mussi, capodella «giunta popolare» che nel 1902 ne aveva deli-berato la creazione: «studiare scientificamente lecause delle malattie professionali» e «controllareperiodicamente lo stato di salute degli operai addet-ti alle industrie».«Nei tre Istituti», al dire di Mangiagalli, «erano rap-presentati non uno, ma tre concetti sociali di fonda-mentale importanza: la difesa della maternità, ladifesa contro l’infezione, lo studio della patologiadel lavoro». Nel contiguo Ospedale Maggiore sisviluppava, quasi per contatto, lo stesso modello diassistenza, «basato», al dire di Ronzani, «su dueelementi: il malato in sé, e l’ambiente o le condizio-ni di vita. [...] Di questo secondo importantissimofattore noi medici, e più che tutto uomini di cuore,vogliamo tener calcolo».Tale modello assistenziale, nella fase storica dellamaggior crescita tecnico-scientifica della medicina,

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Il padiglione Cesarina Riva, 1911.

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portava quest’ultima a innalzarsi dalle sue basinaturalistiche (biologiche, chimiche, fisiche) e atendere verso un’antropologia medica dove il soma-tico si faceva «umano» e l’umano «sociale». Laguerra 1915-18 alterò profondamente, con le condi-zioni di salute della popolazione milanese (e, ingenerale, italiana), anche le condizioni di sviluppodi questo ordinato e integrato modello, fondatosulla osmosi tra medicina di territorio e medicinaospedaliera.Nell’Ospedale Maggiore l’ultimo padiglione pre-bellico al di là del Naviglio fu quello chirurgicoaffacciato alla via Lamarmora, dovuto alla munifi-cenza dei fratelli Enrico ed Emilio Zonda e capacedi 120 letti. Inaugurato il 1° maggio 1915, agli inizidell’amministrazione retta dal medico EnricoArienti (1914-17) e alla vigilia dell’ingresso dell’I-talia nel conflitto mondiale, fu tosto destinato allacura dei feriti di guerra.Racconta, una dozzina d’anni dopo aver vissuto l’e-sperienza di ferito di guerra sul fronte italiano, iltenente americano Henry, protagonista del romanzoautobiografico A Farewell to Arms (edito nel 1929)

di Ernest Hemingway: per localizzare la scheggia dibombarda ritenuta nel ginocchio destro, il medicodell’ospedaletto americano di Milano «mi disse cheera meglio fare una radiografia. La sonda non basta-va, disse. La radiografia venne fatta all’OspedaleMaggiore e il dottore che la fece era nervoso, abilee allegro»: quasi certamente Luigi Parola, elettroia-tra «con ufficio di radiologo». La prognosi era riser-vata. «Non le dispiace far venire un altro chirurgo avisitarmi?», fu la richiesta del ferito al propriocurante. «Lo dirò a Valentini». «Chi è?». «È un chi-rurgo dell’Ospedale Maggiore». «Bene, così vabene». «Le gambe mi guarivano in fretta», prosegueil racconto. «Incominciai le cure all’Ospedale Mag-giore per articolare il ginocchio. Kinesiterapia,arrostendomi in una scatola di specchi coi raggivioletti, i massaggi e i bagni»: tali cure non poteva-no essere prestate in altro luogo che nel padiglionemeccanoterapico Ponti, dove Baldo Rossi - il baldo«dottore con la barba» del romanzo? - praticavaquella avanzata «chirurgia dell’apparato locomoto-re» che avrebbe di lì a poco trasferito al padiglioneZonda.

Clinicizzazione universitaria

L’Ospedale Maggiore, come e più di altri in Italia,usciva dissestato dal disastro della grande guerra.Due fattori sopra tutti avevano determinato tale dis-sesto: il «tumultuoso inurbamento, che ha accre-sciuto a dismisura la clientela degli ospedali»,anche perché «1e folle non sentono più per l’ospe-dale l’invincibile ritrosia» del passato, e la crisifinanziaria provocata, sotto il torchio perverso del-l’inflazione post-bellica, dall’«aumento progressivodi tutti gli elementi di costo dei singoli servizi» edalle «pessime condizioni finanziarie della quasitotalità dei Comuni» cui spettava l’obbligo, poiribadito dal decreto legge del 30 dicembre 1923, dirimborsare le spese di degenza relative ai ricoveratipoveri aventi nel comune il proprio «domicilio disoccorso».Per un risanamento sostanziale e non provvisorio,l’Ospedale avrebbe dovuto essere sganciato dalleprecarie finanze dei comuni inadempienti e aggan-ciato invece a un ben più solido cespite di finanzia-mento e a una ben più organica base di funziona-mento tecnico: la mutualità riformata, cioè la rifor-

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Luigi Mangiagalli, fondatore nel 1906 degli Istituti Clinici diPerfezionamento (pittore Giovanni Maria Rastellini, 1910).

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ma dell’assistenza mediante l’assicurazione genera-le obbligatoria contro le malattie.La soluzione adottata fu il decentramento. Con ildecreto legge del 6 novembre 1924 e successiva-mente con la legge del 21 marzo 1926, l’OspedaleMaggiore di Milano vedeva la propria utenzaristretta al solo circolo ospedaliero di Milano, costi-tuito dalla città e da ventidue comuni circonvicini;mentre nel restante territorio dell’antico ducatovenivano creati altri 30 ospedali di circolo. All’at-tuazione del piano concorsero il Comune di Milanocon 20 milioni di lire e la Cassa di Risparmio delleprovince lombarde con altri 30 milioni. In questaprospettiva di riassetto ospedaliero e di maggioragio finanziario, una delibera consiliare del 1°marzo 1926, «premessa la necessità di studiarel’abbandono il più sollecitamente possibile del vec-chio edificio dell’Ospedale Maggiore e la sua sosti-tuzione con un nuovo ospedale alla periferia dellacittà sul terreno in parte già a tal uopo acquistato»,approvava la costruzione «del nuovo padiglione di100 letti per malati di forme mediche, da destinarsia sede della clinica medica e da intitolarsi ai coniu-gi Sacco».Si trattava di un programma in linea con l’atto roga-to il 28 agosto 1924 - atto di fondazione dell’Uni-versità di Milano - con il quale «il Consiglio degliIstituti Ospitalieri si obbligava a mettere a disposi-zione della Università, senza verun corrispettivo eper i fini didattici e scientifici della facoltà medico-chirurgica, i suoi reparti nosocomiali (circa 1.800letti in padiglioni) con i gabinetti e laboratoriannessi». La trasformazione automatica delle Divisioni ospe-daliere in Cliniche universitarie, in aggiunta a quel-le già esistenti o istituite ex novo negli Istituti clinicidi perfezionamento (ostetrico-ginecologica, pedia-trica, odontoiatrica, del lavoro con annesso Istitutodi radiologia), contribuiva a fare di Milano l’«Atenelombarda», come aveva detto Mangiagalli, in togadi rettore magnifico, inaugurando la sua creatura,l’Università degli Studi, «creata con tanti dolori,con tanti spasimi, con tante lotte».Nell’area, il triennio l926-l929 vede sorgere i padi-glioni Sacco, Bosisio, Borghi, Monteggia, cui siaggiunge nel 1933 il Granelli. Quest’ultimo padi-glione - recita l’annuario della Regia Università

degli Studi per l’anno accademico 1933-1934 -“viene a integrare quello che ormai può chiamarsi ilPoliclinico universitario”.Nel padiglione Sacco, sede della Clinica medicagenerale, Luigi Zoja imprime alla clinica uno slan-cio scientifico d’avanguardia. A essa egli dà basebiochimica, fondativa di un orientamento funziona-le e metabolico, e substrato teorico, collegato alladottrina della individualità costituzionale e dellapredisposizione organica.Le coordinate della “buona clinica” sono, per Zoja,da un lato una scientificità d’alto grado, con massi-ma aderenza alla realtà fisio-patologica del malato,dall’altro una personalizzazione accurata, con mas-sima approssimazione alla realtà antropologico-sociale del malato stesso: “queste ragioni”, dice,“mi spinsero a far sorgere due distinti ambulatoriper forme diabetiche e asmatico-allergiche per lequali ci sono attualmente mezzi di cura o possibilitàdi alleviare le sofferenze”.

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I padiglioni Sacco e Bosisio, 1926-1929.

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Nel padiglione Granelli, sede dell’Istituto di pato-logia medica, Domenico Cesa-Bianchi, già aiutomedico di Luigi Devoto nella Clinica del lavoro,passa dallo studio delle manifestazioni visceralidelle due maggiori piaghe urbane, tubercolosi esifilide, allo studio delle nefriti e delle malattie delsangue. Passa anche da una “diagnostica di stocca-ta”, basata sull’intuito clinico e sul colpo d’occhio,a una tecnica più elaborata che, in forza della suagrande capacità creativa e organizzativa, è provvi-sta di tutto quanto è necessario per “soddisfare leesigenze della ricerca scientifica, della funzionalitàdidattica e dell’assistenza più confortevole”.Nel padiglione Zonda, Mario Donati, subentratonel 1932 a Baldo Rossi, secondo rettore universi-tario, deceduto in quell’anno, fa scandire alla chi-rurgia “tappe gloriose” così rievocate dall’allievoAntonino Ciminata: “asportazione di tumoriendocranici, strumectomia, toracoplastica nellatubercolosi polmonare, resezione di stomaco percarcinoma e per ulcera, colecistectomia e coledo-cotomia per calcolosi, resezione intestinale,appendicectomia a caldo, erniotomia con la tecni-ca dell’operazione del Bassini, nefrectomia”.Questa chirurgia si è data basi scientificheapprofondendo gli studi dell’asepsi, dell’aneste-sia, della “resistenza dell’operando”, del “decorsopost-operativo”, dell’ “idratazione dell’operato”,del suo “ricambio idro-salino”.Un altro dei meriti di Donati è quello di concepirela “chirurgia dell’avvenire: non distruggere, rico-struire, sostituire”. Il suo presentimento di una chi-rurgia degli innesti, dei trapianti, delle protesi saràrievocato anni dopo dal clinico chirurgo di RomaRaffaele Paolucci: “Mario Donati aveva intravistotutto ciò e parlava volentieri di chirurgia fisiologicacome della chirurgia del futuro”.Nel padiglione Riva, in via Commenda, la Scuolaurologica di Giovanni Battista Lasio studia i pro-blemi della prostata, delle ritenzioni e incontinenzevescicali, della tubercolosi renale; la Scuola di viaPace, sotto la guida di Agostino Pasini successoredi Ambrogio Bertarelli, approfondisce la ricerca incampo dermosifiloiatrico e prolunga l’attività clini-ca ospedaliera in una organizzazione antivenereache ha in Milano una efficienza e una efficaciasuperiori a quelle di altre città.

Il Policlinico universitario ha ricevuto la sua defini-tiva consacrazione ufficiale con il rinnovo, in data19 giugno 1941, della convenzione tra Università eOspedale. A tale data l’Italia è già in guerra da unanno. La congiuntura bellica è apportatrice di rovi-ne: i bombardamenti aerei dell’agosto 1943 distrug-gono mezza Milano, riducono l’antica Ca’ Granda aun campo di ruderi, colpiscono e feriscono anche ilPoliclinico. Quando questo risorge dalle macerie,nel clima della ritrovata pace planetaria e della“ricostruzione del paese”, la rinascita dell’istituzio-ne registra molti cambiamenti, incarnati nelle figuredi nuovi maestri: tra gli altri, Augusto Giovanardiall’Istituto di igiene, Luigi Pisani al Riva, AgostinoCrosti in via Pace, Gian Maria Fasiani allo Zonda,Luigi Villa al Granelli, Guido Melli al Sacco, GuidoOselladore al Monteggia. In poco più di un lustro(1944-1949) il patrimonio umano - assistenziale,scientifico, didattico - è, ai suoi vertici, completa-mente rinnovato.Nel ventennio 1948-1968 l’igiene coltivata al Poli-clinico si orienta verso l’epidemiologia e la virolo-gia e verso i problemi dell’inquinamento ambienta-le, in particolare dell’aria e dell’acqua nei grandicentri urbani. L’urologia rafforza le sue basi biolo-giche e si apre alla nefrologia. La dermatologia siestende alla pediatria e la venereologia accentua ilsuo impegno contro le malattie da contagio sessua-le. Allo Zonda nasce e cresce la neurochirurgia che“anche in Italia procede a vele spiegate sotto l’altaguida di Gian Maria Fasiani”, il quale fonda altresìla Scuola anestesiologica milanese. Al Granelli laclinica medica muta e ammoderna i propri fonda-menti passando dalle basi di micromorfologia e bio-chimica a quelle di enzimologia, fisiologia dinami-ca e biologia molecolare: l’alto tasso di scientificitàdella clinica esercitata da Luigi Villa consente a luie agli esponenti della sua Scuola di coltivare icampi più svariati senza perdere in profondità e col-tivando con pari interesse problemi di nosologia,metodologia e terapia sistematica. Al Sacco vengo-no promossi e sviluppati due grandi filoni di ricer-ca: l’immunologia clinica, che Guido Melli consi-dera il naturale coronamento dei propri interessiallergologici, e lo studio dell’ipertensione arteriosa,affezione dei tempi moderni meritevole di studioapprofondito; si inaugura inoltre la medicina

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nucleare con l’impiego clinico degli isotopi radioat-tivi. Al Monteggia conosce un vero e proprio decol-lo la chirurgia toracica, di cui Guido Oselladore èuno dei pionieri; quando egli succede a Fasiani, nel1965, il suo successore Armando Trivellini potenziale tecniche della chirurgia addominale e dà inizioall’endoscopia digestiva (poi evoluta in chirurgiaendoscopica).Collimato sui “quattro padiglioni portanti” (Sacco,Granelli, Zonda, Monteggia) delle istituzioni di cli-nica e di patologia generali, medica e chirurgica, losguardo non dimentica di contemplare gli sviluppiche nel Policlinico hanno le neuroscienze, dallaneurologia di Giuseppe Carlo Riquier, al Ponti, allaneurochirurgia di Paolo Emilio Maspes, al BerettaNeuro, e alla neuropsichiatria di Carlo LorenzoCazzullo, al nuovo padiglione Guardia II. Nédimentica l’operosità di Luigi Pietrantoni, fondato-re della Scuola otorinolaringoiatrica al Moneta e,nello stesso padiglione, il consolidamento dellaoculistica con Francesco Orzalesi; né dimentica, alLitta l’opera magistrale di Giuseppe Daddi, il qualetrasforma la tisiologia del suo predecessore Umber-to Carpi de’ Resmini nella moderna pneumologia,protesa nello studio delle broncopneumopatie croni-che, delle pneumopatie professionali e allergiche,

dei tumori del polmone. Il 1968 rappresenta unacesura emblematica. “Formidabili quegli anni”, diràun “sessantottino” nostalgico della “rivoluzione stu-dentesca”. La protesta giovanile porta in primopiano i problemi della riforma universitaria. In per-fetta sincronia, la riforma ospedaliera (legge 132del 12 febbraio 1968) sancisce che gli ospedali, cre-sciuti nel corso del Novecento secondo una linea disviluppo atta a potenziarne le finalità assistenzialisotto l’aspetto diagnostico-terapeutico, siano tra-sformati in enti con finalità anche di prevenzione eriabilitazione, nonché di integrazione con i bisognisanitari territoriali. In questo campo il Policlinicoha una sua peculiare tradizione; comunque, investi-to dalle istanze riformatrici, incomincia a mutare lapropria fisionomia in contemporaneità con quellaradicale mutazione tecnico-scientifica che va sottoil nome di rivoluzione tecnologica.Come vent’anni prima, in un breve volgere d’anni(l965-l972), i vertici dell’assistenza, della didattica,e della ricerca cambiano identità. Nei “quattro padi-glioni portanti” ora ci sono: allo Zonda, EdmondoMalan; al Sacco, Cesare Bartorelli; al Monteggia,Luigi Gallone; al Granelli, Elio Polli. Ci sono inol-tre: in pneumologia, al Litta, Mirthad Pasargiklian;in neurologia, al Ponti, Gildo Gastaldi; in oculisti-ca, al Moneta, Carlo Toselli e, nello stesso padiglio-ne, Francesco Carnevale Ricci in otorinolaringoia-tria e Massimo Del Bo in audiologia. Ci sono altre-sì: in urologia, al Riva, Edoardo Lasio e in dermato-logia Vittorio Puccinelli, nei padiglioni di via Pace.Qui, nella cattedra di semeiotica e patologia medicalasciata da Polli passato al Granelli, c’è, dal 1968,Nicola Dioguardi; e in chirurgia d’urgenza, nelpadiglione di Guardia e Pronto Soccorso, c’è, dal1971, Vittorio Staudacher.È iniziato il periodo delle grandi trasformazioni.Allo Zonda, Malan fonda la Scuola di chirurgiavascolare, poi passata a Ugo Ruberti, e dà inizio altrapianto di rene, reso possibile dagli studi diimmunopatologia e di nefropatologia promossi daMelli: nel 1976 la trapiantologia renale, in cuieccelle Antonio Vegeto, conta al proprio attivo 300interventi. Al Sacco, e nell’annesso Istituto di ricer-che cardiovascolari, lo studio dell’ipertensione arte-riosa ha in Bartorelli e nella sua Scuola i maggioriprotagonisti in campo internazionale.

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Luigi Villa, clinico medico milanese (1896-1992).

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Al Monteggia la tradizione di chirurgia digestivaè ripresa e arricchita da Gallone e dal suo succes-sore Walter Montorsi, continuatore della Scuolachirurgica di Oselladore, mentre Giorgio Vincrecontinua la tradizione della chirurgia toracica.Dinangelo Galmarini dà impulso ai trapianti difegato. Al Granelli Polli orienta l’attività clinicain più direzioni, con particolare riguardo all’ema-tologia, e dà impulso agli studi di genetica mole-colare; promuove inoltre la creazione di un Cen-tro trasfusionale, del quale Girolamo Sirchiaamplia le competenze aprendolo al campo del-l’immunologia dei trapianti.Anche negli altri padiglioni l’attività clinica e diricerca tocca vette elevate, come al Beretta est peropera di Gianfranco Pellegrini, maestro di valentichirurghi, e come in Guardia e Pronto Soccorso peropera di Staudacher, che dà basi biologiche alla chi-rurgia d’emergenza e alla terapia intensiva chirurgi-ca, avviando altresì, nello stesso padiglione, l’istitu-zionalizzazione della medicina d’urgenza, affidataad Antonio Randazzo. Nella Scuola di patologia epoi di clinica medica in via Pace, Dioguardi indi-rizza gli studi verso l’epatologia, applicando a essala teoria generale dei sistemi e altri principi ad altocontenuto teorico, e verso altri campi quali l’emato-logia e la gastroenterologia.Una trasformazione di grande rilievo è quella isti-tuzionale (legge regionale 50 del 19 novembre1976): “Gli stabilimenti ospedalieri di MilanoNiguarda Ca’ Granda [nato nel 1939], di MilanoBaggio San Carlo Borromeo [nato nel 1966] e diCittà di Sesto San Giovanni [nato nel 1960] sonoscorporati dall’Ente ospedaliero Ospedale Mag-giore”. “L’Ente Ospedale Maggiore rimane con ilPoliclinico di via Francesco Sforza e di via Pacecon 1600-l800 posti letto e con tutto il patrimo-nio”. “Il patrimonio che rimane all’OspedaleMaggiore servirà, con altri interventi, per fare ilnuovo grande Policlinico”.Quando, in data 7 agosto 1981, l’Ospedale Mag-giore Policlinico viene riconosciuto come “Istitu-to di ricovero e cura a carattere scientifico”, cioécome “istituto che insieme a prestazioni sanitariedi ricovero e cura svolge specifiche attività diricerca scientifica biomedica”, risulta “ampiamen-te dimostrato”, come si scrive, “che esso ancora

una volta mantiene la leadership dell’attivitàscientifica che si attua nei grandi Ospedali e neiPoliclinici Universitari del Paese”.Alle soglie del terzo millennio dell’era cristianatorna a risuonare la parola d’ordine “scienza eumanità” che cent’anni prima era stata l’istanzabinominale di una classe medica “positiva e pro-gressiva”, avviata a percorrere fiduciosa l’avven-turoso cammino del XX secolo. Lasciato allespalle quel secolo il binomio d’allora è la rina-scente premessa programmatica di un riassetto giàiniziato e in divenire, e di un ulteriore avanzamen-to scientifico, umano e sociale: un avanzamentocompiuto e da compiersi all’insegna della voca-zione che è propria da sempre, quasi per statuto,dell’Ospedale Maggiore Policlinico.

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Gian Maria Fasiani, fondatore della neurochirurgia e della Scuolaanestesiologica milanese (scultore Arrigo Minerbi, 1959).

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Il Naviglio di via Francesco Sforza (pittore Giuseppe Canella, 1845, Museo di Milano).

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Un sentito, quasi “affettuoso” rapporto è quello chela Ca’ Granda ha sin dalla sue origini stabilito con imilanesi. Un più complesso, articolato e variegatorapporto è quello che storicamente si è invece anda-to strutturando tra l’antica farmacia dell’ospedale ela città, tra i suoi farmacisti e i cittadini (1).

“In epso hospitale grande è ordinata una grandeofficina de speciaria instructa de omne copia medi-cinale, così per i chirurghi come per i fisici, [chè]senza li quali vano et infructuoso saria el consilio etaiuto de li medici et ad epsa è deputato uno peritospeciale con doi boni garzoni” (2).

Con queste parole Gian Giacomo Gilino descrivevanel 1508 la spezieria dell’Ospedale Maggiore diMilano le cui costituzione era verosimilmente con-temporanea alla nascita dell’ospedale, anche se ilprimo documento ufficiale relativo ad essa è del1470. Il libro mastro registrava in quello stessoanno una nota di spese “pro spetiaria posita inHospitale Magno” e dava notizia di alcuni patti sti-pulati tra i deputati dell’ospedale e l’aromatarioGiovanni da Vailate, in base ai quali quest’ultimos’impegnava a fornire di medicinali due bottegheposte sotto il portico dell’ospedale. L’anno succes-sivo l’amministrazione acquistava sei grossi alam-bicchi per la distillazione delle acque, giustificando

l’uscita di Lire 55, soldi 18 e denari 4 a titolo di“expense facte pro spetiaria”. Nel 1474 nel libromastro è indicato un credito di Lire 240 a favore delmaestro speziale Giovanni per le forniture farma-ceutiche eseguite dal figlio Bernardo. Da questistessi scritti si evince anche che il pagamento deimedicinali forniti all’ospedale avveniva convenzio-nalmente due volte all’anno: a Pasqua e a San Mar-tino. Il primo documento notarile, che sancisce chiara-mente i patti tra amministrazione e conduttore dellaspezieria, è un rogito su pergamena del “notaroJacobus de Rottiis” del 24 settembre 1476, resonecessario dalla nomina del primo successore diGiovanni da Vailate nella persona di Giorgio Chi-gnolo. Il testo, di estremo interesse per le preciseindicazioni relative agli impegni e ai compiti spet-tanti al maestro di spezieria che vi sono elencate,configura una vera e propria gestione in appalto delservizio farmaceutico.

“Secondo le disposizioni capitolari aveva abitazionecon la propria famiglia in locali annessi alla farma-cia e ‘cum famulo uno bono et esperto in arte spe-tiaria et aromataria’. Non pagava pigione, o fitto,ma doveva risiedere sempre nella ‘apotheca’ peressere pronto a prestare l’opera sua per i poveriammalati; in caso di assenza aveva l’obbligo di farsi

Il saggio ripercorre, lungo cinque secoli, l'evoluzione della “spezieria ospitaliera” della Ca’ Granda, l’istituzionedeputata dentro l’ospedale alla preparazione e alla distribuzione dei medicamenti. Le vicende storiche si delineanoattraverso il rapporto dialettico che s’instaura tra l’Ospedale Maggiore e la città, rappresentati in questo caso da unlato dai farmacisti ospedalieri e dall'altro dai pazienti cittadini. Si tratta di un percorso che doveva inevitabilmentepartire dal momento della fondazione dell’ospedale e, attraverso la verifica del continuo confronto tra istituzione ecittà, giungere sino ai giorni nostri. Una “storia sanitaria a tutto campo” vista da una prospettiva insolita (quelladella terapia farmacologica) e poco nota, meritevole pertanto di essere meglio conosciuta.

La Farmacia dell’Ospedale e il suo rapporto con la Città

VITTORIO A. SIRONI

Università degli Studi di Milano-Bicocca

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sostituire e non poteva allontanarsi dalla città senzauno speciale permesso ‘domini Priori set domino-rum deputatorum’. Doveva mantenere l’officinadell’Ospedale Maggiore provvista del necessarioper tutti gli Ospedali di Milano e del suburbio; imedicinali dovevano avere il collaudo di due fisici edi un esperto aromatario. Era fatto obbligo a Mae-stro Giorgio di registrare su un libro speciale ognisomministrazione e di trascrivere su altri libri lericette ordinate dai medici per controllarne e stabi-lirne il prezzo: tali ricette gli venivano pagate infine di ciascun anno […] Il Capitolo forniva vasi,utensili, alambicchi, vasche, caldaie di rame equant’altro formava la dotazione permanente del-l’officina, che lo speziale riceveva in deposito, pre-via stima, con l’obbligo della riconsegna all’Ospe-dale in buono stato. E di ciò doveva rendersi garan-te con tutti i suoi beni mobili e immobili, rispon-dendone anche nei casi di furto o di violenza” (3).

In ambito farmaceutico, gli scopi di chi reggeva inuovi grandi ospedali nati dalla “reformatione”quattrocentesca (che per la prima volta aveva sepa-rato gli acuti – suscettibili di guarigione – dai croni-ci – che non si dovevano ricoverare negli ospedalima negli “ospizi” per loro appositamente creati –)erano principalmente due: uno medico-sanitario,teso a garantire per la maggiore efficacia della tera-pia dei malati ivi ricoverati un’adeguata qualità deiprodotti medicamentosi e dell’assistenza speziale;l’altro economico-amministrativo, mirante a pro-durre un funzionamento efficiente e una spesa ocu-lata per evitare, nella produzione e nel consumo deirimedi, lo sperpero ingiustificato di eccessive quan-tità di denaro pubblico. I “medicamenti del duca”(come venivano chiamati quelli cioè prodotti e uti-lizzati alla Ca’ Granda, l’Ospedale Maggiore volutodal duca Francesco Sforza, per differenziarli daifarmaci delle altre botteghe speziali della città)dovevano essere insieme validi ed economici. Unesempio di buon governo medico che s’iscrivevanel più ampio alveo del cambiamento culturale,sociale e finanziario che caratterizzò la metà delsecondo millennio. In questo nuovo rapporto tra medicina e terapia, trafarmacia ed economia, tra efficienza e risparmio sidelinea dunque il ruolo particolare di una figura

nascente: quella dello speziale ospedaliero. Unaprofessione solo in apparenza simile a quella delcollega che possiede bottega sulla pubblica via. Inrealtà un mestiere differente, che esige più dedizio-ne, maggiore attenzione, un impegno a tempo pienoe la capacità di interagire attivamente e positiva-mente con i medici dell’ospedale. È quanto emergechiaramente dalla citata relazione del Gilino, chenel capitolo relativo all’officio del spetiale e deisuoi coadiutori recita testualmente:

“Il spetiale douerà essere huomo esperto et praticonella sua professione, né si ammetterà che primanon sia esaminato da i Consoli et Abbati de i spetialidi Milano et da medesimi approbato, et haurà dueadiutori et un garzone i quali insieme con lui faran-no continuamente residenza in casa, per prouederealle cose appartenenti alla spetiaria, ponendo mentecon diligenza che i semplici siano buoni et le com-posizioni siano rinouate a tempi debiti, dimandandotutto al bisogno per la sua fornitura alli Deputati atal’impresa, et haurà da mandare uno dei suoi coa-diutori con libro delle ricette di ciascun Medicoappartato, quando essi Medici vengono a scriuere irimedij per gl’infermi, et composti che saranno dettirimedij, si porteranno di crociera in crociera con libolettini de i nomi e de i numeri delle lettiere,acciocchè i serventi non fallino nel dar le medicine,siroppi et altre cose ad uno in cambio di un altro” (4).

Lo speziale e i suoi aiutanti avevano dunque unduplice compito: preparare i farmaci richiesti egestire la spezieria; seguire il medico durante lavisita dei malati per riceverne le prescrizioni e assi-curarsi poi che i pazienti assumessero correttamentee realmente i medicamenti prescritti. Non restavanoquindi relegati nella bottega o nel laboratorio, mapartecipavano attivamente all’assistenza. La lorofunzione era insieme farmacologica e assistenziale.Il loro lavoro richiedeva competenza tecnica (anchese modesta dato il periodo) e disponibilità umana(assai importante per quei tempi), dovendo unire algesto professionale della preparazione del medica-mento la capacità esistenziale di fornire il farmacoal malato attraverso una relazione interpersonalepositiva che costituiva un momento fondamentaleper l’efficacia della cura.

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detto pretio e a questo non si deve mancare […]Non darà mai robba della spetiaria ad alcuno, chenon sia persona appartenente a gli hospitali, peròcon le ricette de i Medici d’essi” (5).

Disposizioni simili si applicavano anche alla“modesta bottega speziale” aperta nel 1499 nellasede del Pio Istituto di Santa Corona di Milano(fondato nel 1497 per assistere i malati poveri) perprovvedere alla distribuzione gratuita dei farmaci aibisognosi per la “sublevazione de li poveri infirmidi Milano” (6). Un servizio pubblico rivolto sia all’i-stituto che al territorio, che configura un altromodello d’ispirazione tardomedioevale che andràesaurendosi solo nei secoli successivi: la possibilitàdi fornire medicamenti, oltre che ai malati interni,ricoverati in ospedale, anche ai malati esterni, rima-sti nelle proprie case, per supplire, integrare o sosti-

L’Ospedale Maggiore di Milano e la sua spezieriacostituirono per secoli un modello di valore euro-peo nell’indicare il modo migliore per attuare unabuona assistenza e un’efficiente terapia. Scrive ancora il Gilino nella sua relazione:

“Le composizioni che accaderanno a farsi, se como-damente si potrà, anchor che ‘l spetiale fosse prati-co, per più sicurezza e discarico d’esso […] sidovranno fare con l’assistenza di uno degli Abbati oConsoli delli spetiali di Milano: e alle medicine ealtre cose che si distribuiranno in essa spetiaria, sifarà il pretio secondo la lor qualità, appretiandolequel medesimo valore, che saranno costate all’ho-spitale, o come saranno appretiate nel nuovo Inven-tario che si farà in principio d’ogni anno, acciocchéal fine d’esso, o come tornerà meglio a detti deputa-ti, renda poi a loro conto del consumato, secondo il

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Interno dell’antica spezieria ospedaliera: veduta d’insieme. La ripresa fotografica è degli anni intorno al ‘30.

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tuire l’attività delle spezierie private con il dupliceintento di offrire una “qualità alta” (o comunquebuona) e un “prezzo basso” (o meglio equo o addi-rittura nullo nel caso della distribuzione gratuita)dei prodotti medicinali. Anche se rigidamente regolamentata, la distribuzio-ne – gratuita o, nei casi di solvenza, a prezzi equi –dei medicinali al di fuori dell’ospedale era un’atti-vità consentita (forse anche incentivata) dalle spe-zierie ospedaliere. “Al continuo ministerio che infir-mi et de altri poveri miserabili fora del hospitale,alli quali, sotto la informatione de li parochiani, èprovveduto per amore de Dio de medicine”, comericorda il Gilino, era tenuto per contratto anche lospeziale della Ca’ Granda (7). Era peraltro proibita qualsiasi attività extraospe-daliera poiché “tanto il Maestro che gli aiutantierano tenuti a dare garanzia di ciò che avevanoavuto in consegna, ed era loro fatto obbligo di‘non far mercanzia, bottega o traffico né alcunimpiego d’altra sorte diretta, né indirettamente dicose spettanti alla Spezieria, sotto pena di priva-zione dell’Ufficio ipso facto’” (8). Essi cioè nonpotevano vendere “privatamente” i farmaci chefabbricavano dentro la spezieria dell’ospedale apazienti esterni. La qualità delle cure dentro l’ospedale dovevaessere sempre ai livelli migliori. Particolare atten-zione perciò andava posta nella scelta dei “prepa-ratori” di tali cure e nel controllo della loro atti-vità. Le disposizioni riguardanti lo speziale ospe-daliero della milanese Ca’ Granda emanate nel1642 non lasciano dubbi al riguardo:

“Il Mastro di speciaria doverà essere homo esper-to nella sua professione, né si admetterà cheprima non sii stato approbato e admesso nel Col-legio de i Speciali di Milano, et doppo il concorsonon sia anco esaminato da Periti […] Haveràquelli Agiutanti, che parerà al Capitolo, i qualiinsieme con lui faranno continua residenza nel-l’Hospitale, per essere pronti a provvedere le cosepertinenti alla Speciaria, né potranno uscire dal-l’Hospitale sotto qualunque pretesto, senzaespressa licenza di detto Mastro […] Doverannoil Mastro e Agiutanti rispettivamente dare idoneasigurtà a laude del Capitolo, sì di dar buono conto

di tutto ciò che pervenerà alle loro mani, et portarsiin tutto, con quella diligenza, et fedeltà, che si con-viene, come anco di non far mercantia, bottega,traffico, né altro impiego d’alcuna sorte diretta, néindirettamente di cose spettanti alla Speciaria, sottopena della privazione del’Ufficio ipso facto,senz’altra dichiarazione del Capitolo” (9).

Capace e onesto, abile ma retto: la competenzatecnica non poteva né doveva essere disgiunta dalrigore morale. Pratica ed etica erano (o più corret-tamente avrebbero dovuto essere), per medici espeziali, due facce inscindibili della stessa meda-glia sanitaria. Tra le altre incombenze organizzati-ve v’era anche il controllo periodico delle adegua-te disponibilità dell’officina e la gestione ammini-strativa.

“Visiterà la Speciaria ogni mese, e più spesso sefarà bisogno, per riconoscere se vi manca alcunacosa, acciò con ogni pronta diligenza sii subitofabricata, et tutte le compositioni siino rinnovate atempo debito, avertendo che li simplici sianobuoni, et se ne facci solo nella quantità che sarànecessaria per conservarsi, et non gran quantitàcon pericolo di guastarsi o divenire inutile, et iltutto si doverà fabricare alla sua presenza, metten-do anchesso le mani dove farà bisogno. Doman-derà tutto quello che farà bisogno per la fornituradella Speciaria […] tenendosi conto distinto d’o-gni cosa, con li debiti ordini in iscritto, et nonaltrimenti, avertendo che non si facci mandatod’alcun pagamento, che prima non sia stata rico-nosciuta la qualità et peso della robba […] Qualimandati tenerà sopra libro particolare notatidistintamente di tempo in tempo, con la qualità,peso, et prezzo del tutto […] acciò quando liSignori Provinciali vedranno li conti […] possinotrovar tutto notato giustamente conforme agliordini haverà havuto il Speciale […]

In principio di ciascun’anno doverà il Mastro diSpeciaria far nota chiara di tutte le robbe, si trove-ranno in Bottega […] con li suoi pesi, misure etprezzi distintamente notati […] Avvertirà ilMastro di Speciaria, si facciano li stilati a tempodebito, et in poca quantità, con la metà di carne di

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vitello, et l’altra metà di manzo, quale teneràseparati, et se qualche cosa sopravanzerà sì dicarne, come d’altro, farà che si restituisca oveanderà restituito. Et per poter fare il mandato giustoal Canevaro della quantità precisa del vino, ènecessario per le ricette ordinate de’ Fisici, etChirurghi, doverà prima veder con diligenza lilibri, dove saranno notate delle ricette, et poi invi-gilare, perché non vada in sinistro con tanto pre-giudizio de poveri […]

Starà sempre vigilante, perché venendo li signoriFisici, ciascun degli Aiutanti sia pronto alla suaCrocera col libro delle ricette appartato, per scri-vere distintamente li rimedii, quali composti chesaranno, con ogni puntualità all’hore ordinate daSignori Fisici, si porteranno di Crocera in Croce-ra, con li bolettini de’ nomi degl’infermi, et denumeri delle lettiere, acciò li serventi non piglinoerrore nel dar li medicamenti ad uno per l’altro,nel che doveranno essere molto occulati, trattan-dosi della vita de poveri infermi” (10).

Preparare, vigilare, somministrare: le funzionidello speziale spaziavano dall’officina apotecariaalla corsia ospedaliera, dalla gestione del lavorodegli aiutanti ai rapporti con i degenti. Egli dove-va essere abile non solo nella composizione tecni-ca dei medicinali, ma anche nella sorveglianzaorganizzativa. Era suo compito seguire il medicodurante la visita dei malati, raccogliere le ricettedei medicamenti e preoccuparsi che essi venisseropoi dati alle persone giuste e nelle ore prescritte.

“Le decottioni et altre cose doveranno farsi secon-do gli ordini precisi de’ Signori Fisici, et nonaltrimenti per sparmiar la fatica, et doveranno gliAgiutanti tener netti, et coperti tutti li vasi, bocca-li, olle, et altre cose per servitio della Speciariadestinate, tenendoli riempiti a tempo debito,conforme al bisogno, et facendo ognuno a gara diadoperarsi per servitio de’ poveri, con quellacarità, che richiede questo maneggio sì importante[…] Non s’occuperanno in sonare né in cantare,né altra sorte d’intrattenimento, che li possi sviaredalla perfettione dell’Esercizio loro, acciò il ser-vitio de’ poveri non resti abbandonato; ma subito

mangiato dovrà ognuno ritrovarsi in Speciaria, perricevere, et essequire gl’ordini li saranno dati dalMastro di Speciaria [al quale] porteranno […]quella riverenza, et rispetto, che a persona di talcarico si deve” (11).

La lunga citazione fornisce un quadro ben precisodella realtà professionale dello speziale ospedalieroa metà del XVII secolo: un personaggio autorevoleche svolgeva un lavoro importante, anche se vinco-lato da obblighi precisi, più nei confronti dell’am-ministrazione che dei medici. Il personale di spezie-ria era facilmente riconoscibile anche per l’abbi-gliamento. Doveva indossare una veste di tela, ini-zialmente nera, poi successivamente grigia o addi-rittura bianca: più ricercata per il maestro, più sem-plice per gli aiutanti. Nonostante l’abito costituisse motivo di pubblicadistinzione e di qualificante appartenenza all’artespeziaria, questo elemento di riconoscimento nonrisultava essere particolarmente gradito. Perciòsovente in ospedale la disposizione veniva disatte-sa, sicché non è infrequente trovare ordinanze(come quella dell’Ospedale Maggiore di Milanodel 16 maggio 1651, ribadita da un’analoga del 28febbraio 1667) nella quale si legge che i Signoridel Capitolo “hanno di nuovo ordinato che perl’avvenire i suddetti aggiuntanti di Spezieria […]habbino da portare la veste di tela […] continua-mente per l’Ospitale et caso che qualcuno ricusas-se, o per l’avvenire negligesse, vuole in Ven.Capitolo che subito sii licenziato” (12).

Il ruolo dei “preparatori di medicinali” all’internodegli ospedali nel Settecento subì dei mutamenti:non cambiava di molto per il maestro speziale (alquale però s’iniziò a chiedere, come si vedrà, unaprestazione aggiuntiva), ma si trasformava invecenotevolmente in buon parte dei nosocomi, a partiredalla metà del secolo, per gli aiutanti di bottega. I regolamenti riguardanti lo speziale, anche neisuccessivi adeguamenti, ribadivano i consuetiobblighi e precisavono i relativi divieti. Tra questiultimi due erano particolarmente messi in eviden-za: la necessità di un rapporto esclusivo con l’o-spedale – sotto pena di essere immediatamentelicenziato – e l’opportunità di evitare qualsiasi

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conflitto di interessi, mediante il divieto di vende-re o somministrare medicamenti a qualsiasi perso-na al di fuori dell’ospedale e di esercitare qualsia-si commercio, diretto o indiretto, di droghe omedicinali. Gli era inoltre proibito portare all’in-terno dell’ospedale armi di qualsiasi genere. Nelle seconda metà del Settecento la figura del-l’aiutante di spezieria si trasformava notevolmen-te nel giro di pochi anni: da personale retribuito apersonale volontario. Il cambiamento era dovutoal nuovo ruolo che le officine ospedaliere inizia-vano a esercitare e al nuovo compito che di conse-guenza veniva richiesto allo speziale: essere, oltreche preparatore di farmaci, anche preparatore difarmacisti. Educare: questa la funzione aggiunti-va che egli doveva svolgere a favore dell’ospedaleper insegnare in modo autorevole la nobile e anti-ca arte della farmacia. Gli aiutanti si iscrivevano per un quadrienniopresso la spezieria pagando una retta per il perio-do di tirocinio e di pratica, conseguendo poi, altermine del periodo di praticantato, un titolo pro-fessionale che apriva le porte alla carriera ospeda-liera. Era l’inizio di una piccola rivoluzione cultu-rale: allo speziale ospedaliero veniva conferitaun’autorità didattica che lo assimilava al docenteuniversitario, il bancone della spezieria si trasfor-mava in cattedra accademica e nell’officina noso-comiale divenuta aula d’ateneo la sua pratica arti-

gianale valeva tanto quanto (se non di più) delleteoriche dissertazioni professorali. Accanto all’u-niversità l’ospedale era destinato a diventare qua-lificata e qualificante “scuola farmaceutica” e glispeziali ospedalieri ricevevano sul campo un pre-stigioso riconoscimento alla loro professionalità. Facendo leva sullo spirito riformatore che negliultimi decenni del Settecento stava interessando laLombardia teresiana, Giuseppe Cicognini nel1772 aveva avanzato la proposta d’istituire aMilano un’autonoma Scuola di Farmacia sulmodello di quella di Pavia, organizzando un appo-sito laboratorio di chimica presso la farmacia del-l’Ospedale Maggiore. Superate le opposizioni ini-ziali e la resistenza del Collegio degli Speziali,aggirate le insidiose e lunghe difficoltà burocrati-che, egli riuscì a realizzare il suo proposito. Il 4febbraio 1784 la nuova “Scuola di pubblica istru-zione delli Speziali” venne solennemente inaugu-rata presso l’Ospedale Maggiore di Milano con un“discorso accademico recitato dal regio professo-re [di Medicina chirurgica] Pietro Moscati” che,insieme allo speziale Antonio Sangiorgio, vennenominato direttore della Scuola.Al Moscati venne conferito l’incarico “di fare nellidovuti tempi due volte la settimana delle lezioni diChimica e Materia medica nella Spezieria delloSpedale non solo ad uso di medici militanti maanche di tutti i giovani speziali della città” (13).

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Alcuni vasi della farmacia.

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erano in grado di offrire ai malati era sempre mag-giormente apprezzato e risultava, di fatto, un aiutoprezioso nella gestione della sanità milanese. Un rapporto ancora più stretto tra farmacisti dellaCa’ Granda e cittadini andò instaurandosi – permotivi non solo medici ma anche e soprattuttopolitici – dopo la Restaurazione del 1815, cheaveva visto il maltollerato ritorno a Milano degliaustriaci in seguito alla caduta di Napoleone. Tra coloro che, animati da coraggioso amor patriopresero le armi per ribellarsi contro gli austriacinelle famose “cinque giornate di Milano”, tra il18 e il 23 marzo 1848, riuscendo a mettere in fugal’esercito del colonnello Radestzky, v’era anchelo speziale dell’Ospedale Maggiore, GiovanniBelloni (1807-1892). Rievoca con viva penna lavicenda Giuseppe Castelli:

“Abbandonata la Farmacia, egli corre dove piùferve la mischia e sulle barricate di Porta Roma-na, non solo combatte, ma si prodiga in aiuti aiferiti. A un certo punto si trova isolato di fronte alnemico. Un soldato austriaco si lancia contro dilui con la baionetta inastata. Nonostante si difen-da con una sciabola, il Belloni sta per essere col-pito, e solo per un fortunoso incidente ha salva lavita. Una lastra di pietra della pavimentazionestradale, smossa durante il conflitto, quando lafolla si era servita di sassi come di proiettili, erarimasta alquanto sollevata in bilico. Il Belloni,arretrando per evitare di essere infilzato dallabaionetta, è seguito dal nemico che, nella smaniadi colpire l’avversario, posa il piede sulla lastrache si rovescia, gli fa perdere l’equilibrio e lo facadere a terra. Il Belloni ne approfitta in tempo,ferisce l’austriaco e si ritira sotto un portone,mentre una squadra di insorti sopraggiunge arespingere i soldati croati” (15).

La nascita, a metà Ottocento, dei farmaci di sinte-si apriva nuove strade alla terapia, trasformando ilmodo di curare dei medici, cambiando il ruolo delfarmacista dietro il bancone della bottega e inne-scando l’inizio di una “crisi d’identità” del farma-cista, in particolare di quello ospedaliero. Dentro l’ospedale al ruolo di preparatore iniziavaa sovrapporsi quello di distributore dei prodotti

Dopo un inizio travagliato (il vecchio ordinamentocorporativo di propedeutica professionale convissecon la nuova istituzione ancora per 5 anni prima diessere del tutto abrogato) e dopo un breve periodod’interruzione per difficoltà economiche, la Scuoladi farmacia di Milano riuscì a superare brillante-mente i rapidi e radicali cambiamenti politico-isti-tuzionali di quei periodi continuando a svolgere lasua funzione sino al 1850, anno in cui cessò defini-tivamente di esistere (14). Dopo l’incorporazione, avvenuta nel 1786, dell’Isti-tuto di Santa Corona (e della sua farmacia già aper-ta al pubblico) da parte della Ca’ Granda, venneroaperte diverse succursali delle farmacie interne delgrande complesso ospedaliero che s’andava realiz-zando in Milano grazie alla “politica delleannessioni” delle diverse istituzioni sanitarie in ununico ente amministrativo. Il rapporto tra farmacie ospedaliere e città s’anda-va stringendo sempre più e il servizio che esse

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L’arco di accesso alla farmacia dell’Ospedale; i medaglioni e i bassorilievidecorati sono della scuola dell’Amadeo (1497).

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“preconfezionati” dall’industria farmaceutica. Ilfenomeno avrebbe assunto proporzioni più vastenel Novecento, anche se la parentesi di autarchiafarmaceutica avrebbe contribuito, in qualchemodo, a ridare uno slancio professionale ai farma-cisti ospedalieri che si trovavano a dover supplirele manchevolezze di una produzione industriale difarmaci che si vedeva precluse le vie estere d’ap-provvigionamento. Nel secondo dopoguerra nuove forme associative(come ben evidenziava la nascita della SocietàItaliana di Farmacia Ospedaliera nel 1952) favori-vano un processo di qualificazione d’una profes-sione che aveva smarrito il senso della sua funzio-ne. La riforma ospedaliera prima (1968) e la rifor-ma sanitaria poi (1978) contribuivano ulterior-mente a fornire precise indicazioni per dare pesoe prestigio crescente al ruolo del farmacista ospe-daliero che – almeno nelle intenzioni del legisla-tore – avrebbe dovuto essere una figura professio-nale presente in ogni presidio ospedaliero. Un’importante funzione di informazione sul far-maco e di formazione del personale sanitario siarricchiva poi, nei decenni successivi, con l’evol-versi di competenze sempre più qualificanti, comequelle della farmacovigilanza, della farmacoeco-nomia e della farmacoepidemiologia. Come ha scritto recentemente Giovanna Scroccaro:

“Se si guarda allo sviluppo della professione far-maceutica nel corso degli anni, è possibile identi-ficare tre fasi. Nella prima il farmacista focalizza-va la sua attenzione prevalentemente al farmaco,tramite il suo allestimento, approvvigionamento,conservazione e distribuzione […] La seconda[…], chiamata Farmacia Clinica, comprendenumerose attività, tra cui la farmacocinetica clini-ca [….], l’epidemiologia, l’informazione sul far-maco e l’attività di selezione dei farmaci (Pron-tuari Ospedalieri). Con la Farmacia Clinica il far-macista sposta la sua attenzione sulle malattie econseguentemente alla farmacoterapia delle stes-se: il suo interlocutore principale è il medico alquale egli fornisce tutte le informazioni utili adottimizzare la terapia. La terza fase è rappresenta-ta dalla Pharmaceutical Care, dove l’interlocutoreprincipale diventa il paziente, che è anche colui

che maggiormente trae beneficio da questa nuovaattività” (16).

Afferma Francesca Venturini:

“La nutrizione artificiale e l’allestimento degli anti-blastici nella farmacia dell’ospedale costituisconouno spunto importante per passare da una galenicadi allestimento ad una farmacia clinica (presa incarico del problema clinico) alla pharmaceuticalcare (presa in carico del paziente in toto). La distri-buzione diretta dei farmaci di fascia H [di esclusivapertinenza ospedaliera] ed il primo corso di terapiaper i pazienti in dimissione [legge n. 405 del 2001][…] danno per la prima volta l’occasione ai farma-cisti ospedalieri di avere un contatto diretto con ilpaziente. L’alta specificità delle terapie, la ricorren-za della presentazione al centro per le visite di con-trollo (e quindi il ritiro dei farmaci in farmacia),costitituiscono elementi chiave per fare sì che il far-macista possa veramente avere un impatto sugliesiti del paziente” (17).

Questa evoluzione è stata percorsa in questi ultimidecenni, passo per passo, anche dai farmacistidell’Ospedale Maggiore Policlinico. La recentenascita di questa nuova farmacia clinica, col recu-pero dell’originaria “dimensione clinica” del pro-prio lavoro e di un ritrovato rapporto diretto colpaziente, ha proiettato i farmacisti ospedalieri

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L’antica spezieria ospedaliera. Scaffali barocchi in noce e corredo di vasiin ceramica veneziana del XVIII secolo, molti dei quali andati distruttidurante i bombardamenti bellici.

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all’interno di una più responsabile “assistenza far-maceutica” (pharmaceutical care) del malato, che livede ogni giorno in prima linea, accanto ai medici,nell’affrontare le sfide sanitarie del terzo millennio. Come i loro colleghi degli altri ospedali, in questanuova “dimensione clinica” del loro lavoro i farma-cisti della Ca’ Granda riscoprono in modo nuovol’antico rapporto tra farmacia e città, tra farmacistie cittadini.

Note

1 - Alcuni brani del presente testo sono ripresi da Vittorio A. Sironi,Ospedali e medicamenti. Storia del farmacista ospedaliero, Laterza,Roma-Bari 2006.

2 - Le parole di Gian Giacomo Gilino, tratte dall’edizione in volgaredella sua Relazione ai deputati dell’Ospedale Grande di Milano del 4novembre 1508, sono riportate in G. Castelli, La farmacia dell’Ospe-dale Maggiore nei secoli, Medici Domus, Milano 1940, p. 39.

3 - Ivi, p. 38.

4 - G. Castelli, op. cit., p. 40.

5 - G. Castelli, op. cit., pp. 40-41.

6 - La “farmacia dei poveri” continuò la sua autonoma attività sino ache, nel 1786, venne incorporata con tutto l’Istituto nella strutturadell’Ospedale Maggiore. G. Castelli, op. cit., p. 29-30. In propositosi veda anche P. Canetta, Storia del Pio Istituto di S. Corona di Mila-no, Milano 1883.

7 - G. Castelli, op. cit., p. 39.

8 - Ivi, pp. 41-42.

9 - G. Castelli, op. cit., p. 43.

10 - Ivi, pp. 44-47.

11 - Ivi, p. 47.

12 - Ivi, p. 50.

13 - Ivi, p. 61.

14 - V. A. Sironi, La farmacologia a Milano dagli erbari alle biotec-nologie, in Uomini e farmaci. La farmacologia a Milano tra storia ememoria (a cura di F. Berti, E. Chiesara, F. Clementi, W. Montorsi, V.A. Sironi), Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 10-11.

15 - G. Castelli, op. cit., pp. 197-198.

16 - G. Scroccaro, Nuovi sviluppi nella professione del farmacista: laPharmaceutical Care, “Bollettino Sifo”, vol. 47, n. 6, novembre-dicembre 2001, p. 281.

17 - F. Venturini, La Pharmaceutical Care per coniugare conoscenzeteoriche ed assistenza farmaceutica, “Bollettino Sifo”, vol. 48, n. 6,novembre-dicembre 2002, p. 336.

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Nel periodo compreso fra i mesi di marzo e agosto1981, a Milano nella sede di Palazzo Reale, dopolunga preparazione è stata realizzata una Mostramemorabile comprendente l’imponente rassegna dicinque secoli di storia dell’Ospedale Maggiore-Policlinico, che ha visto associati all’impresa ilnosocomio stesso e la Regione Lombardia. La finalità di un evento così importante è statamolteplice. Poiché, di solito, l’attenzione dei cit-tadini era ed è rivolta alla secolare istituzionecome edificio e alle sue prestazioni sanitarie, si èvoluto incentivare e gratificare la curiosità deiMilanesi portando alla luce il patrimonio cultura-le, artistico e scientifico della Ca’ Granda (oMagna Domus); infatti, salvo appassionati e stu-diosi, forse pochi conoscono la sua storia. Quindiè stata colta l’occasione di celebrare la Festa delPerdono (commemorata ogni anno dispari) inmodo più solenne e grandioso, riunendo tutto etutti in una manifestazione che ha avuto econazionale e un meritato successo.Questo momento di aggregazione ha rinnovato ilsentimento dei Milanesi per il proprio Ospedale,oggetto di stima e di duraturo affetto verso un’or-ganizzazione oggi all’avanguardia per tecnologia,ma che anticamente era nato come Spedale deipoveri, luogo sì di cura però in senso lato, cioè dicarità e di assistenza. Grazie alle elargizioni dellacittadinanza, dai più ricchi ai meno abbienti, laCa’ Granda è cresciuta come una creatura sempreviva e vitale, che nei momenti più duri della suaesistenza ha trovato sostegno e solidarietà . Unrapporto di scambio che, da sempre, lega la cittàdi Milano al suo Ospedale in modo indissolubile,riconoscente ed affettuoso. Nel principale capoluogo lombardo, la primametà del XV secolo fu caratterizzata da conflittidi vario genere, interni e esterni che, alla morte

del duca Filippo Maria Visconti (13 agosto 1447),culminarono con la proclamazione dell’AureaRepubblica Ambrosiana da parte di un gruppo diaristocratici e giuristi, illusi di far rinascere l’anti-co spirito comunale; ma per tre anni alternevicende portarono la città sull’orlo dello sfacelo,stretta dall’assedio di diversi nemici e dalla fame.In una situazione così insostenibile, l’unico adavere forze sufficienti, esperienza e carisma fu ilcondottiero Francesco Attendolo Sforza, al qualevenne chiesto l’intervento.Si rivelò abile stratega: dopo aver sbaragliato inemici, con il consenso dei cittadini entrò inMilano disarmato, facendosi precedere da carricolmi di vettovaglie e fu scortato da una popola-zione in festa fino in Duomo, dove intonò il TeDeum. Qualche giorno dopo, esattamente il 25marzo 1450, ricorrenza dell’Annunciazione, Fran-cesco Attendolo Sforza e sua moglie BiancaMaria Visconti (figlia del defunto Filippo Maria)furono nominati duchi per acclamazione popolare.Il nuovo duca ebbe diversi obiettivi: l’ampliamen-to e la sicurezza, l’evoluzione economica e socia-le della Lombardia, l’incentivazione della borghe-sia produttiva, ma soprattutto una convivenzapacifica e serena determinata dal governo stesso.Ecco, dunque, un sovrano illuminato che, semprecoadiuvato e consigliato dalla consorte e avutol’assenso benedetto dei pontefici, nel 1456 diedel’avvio alla nascita di un grande Ospedale proprionel cuore della città. La duchessa mise a disposi-zione terreni e beni di sua proprietà per la costru-zione affidata a un celebre architetto chiamato daFirenze, Antonio Averulino o Averlino, detto ilFilarete. Fu quindi l’inizio di una riforma sanita-ria e sociale volta al benessere dei Milanesi, iquali devolveranno costantemente e generosamen-te all’organizzazione ospedaliera molti lasciti.

L’Ospedale Maggiore di Milano e il suo rapportocon la Città nella storia di archivio, biblioteca,quadreria e altri beni culturali

ELISABETTA ZANAROTTI TIRANINI

Università degli Studi di Milano

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L’Archivio, “la maggior cosa ch’habbi l’Hospitale”

È già insito nella dichiarazione di queste parole ilconcetto dell’importanza assoluta dell’archivio cheriunisce documenti molto antichi, addirittura ante-cedenti alla costruzione stessa dell’Ospedale.Il 9 marzo e il 27 aprile 1448, proprio un secoloesatto dopo la famosa peste nera, il cardinale EnricoRampini, arcivescovo di Milano dal 1443 al 1450,aveva emanato un decreto per la riforma degli ospe-dali milanesi, mentre il 1° aprile 1456 il duca Fran-cesco Attendolo Sforza, per ringraziare Dio della“ducale dignità” e donare ai poveri della città unluogo di cura e di ricovero, sottoscriveva manu pro-pria il solenne diploma miniato pro uno magno etsollenni hospitali errigendo, fundando et con-struendo. Fu l’occasione per risistemare l’apparato ospedalie-ro di Milano, farraginoso e in dissesto. Inoltre l’ap-provazione canonica dei papi: Niccolò V (TommasoParentucelli, 1447 - 1455), Callisto III (AlonsoBorja, 1455 - 1458) e soprattutto Pio II (Enea Silvio

Piccolomini, 1458 - 1464) fu sinergica per il poterecivile e quello religioso. Più precisamente, l’ultimopontefice, con la bolla del 9 dicembre 1458,accordò il titolo di parrocchia alla comunità nascen-te autorizzando l’aggregazione al nuovo istitutodegli antichi preesistenti ospedali milanesi con tuttii loro beni (terreni, case, chiese, oratori, diritti diacque e di pesca, di caccia, ecc.) ma anche docu-menti. Ciò chiarisce la presenza nell’Archivio dell’Ospe-dale Maggiore di Milano di una vasta quanto pre-ziosa documentazione anteriore alla costruzione delnosocomio.Sotto il titolo Aggregazioni sono raccolti tutti gliarchivi - ciascuno conservato nella propria unitàcon inventario sommario - degli ospedali della città,ma anche del contado e della diocesi (almeno unaventina).Al diploma ducale che diede l’avvio alla nascitadell’Hospitale Grande di Milano e al relativo archi-vio, si sono aggiunte le carte provenienti da oltrequattrocento archivi privati del patriziato e dellaborghesia lombarda (quasi dodicimila pergamenedal secolo XI al XVI) per eredità, legati e donazio-ni, nonché documenti di carattere privato e pubblicoper la soppressione di istituti ecclesiastici, confra-ternite, comunità religiose e per la fondazione diOpere Pie da parte di benefattori. Sono da menzio-nare anche gli archivi “minori” dell’ospedale dellaSenavra (1780 - 1866), di Santa Caterina alla Ruotae Luoghi Pii annessi (1780 - 1866) e della Congre-gazione di Carità (1808 - 1825) .Migliaia sono le cartelle di documenti, mastri dicontabilità, registri e protocolli degli atti notarili,pergamene, carte iconografiche (mappe e disegni),incunaboli, codici, stampe antiche e rare, sigilli,medaglie. Queste testimonianze di inestimabilevalore formano uno dei maggiori e più ricchi com-plessi documentari d’Italia.Purtroppo, come è già accaduto per altre raccoltepreziose, l’azione devastatrice e deleteria non ètanto quella del tempo, ma superiore a questa èstata l’incuria degli uomini. Per esempio: l’incendiodel 30 gennaio 1635 che distrusse molti mastri con-tabili; la vendita del 1907 di pergamene come“materiale di scarto”, l’invio consapevole al macerodi trecento quintali di “carte inutili senza valore sto-

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La secentesca sala riunioni dell’Amministrazione dell’OspedaleMaggiore, oggi sede dell’Archivio storico.

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rico”, cioè interi archivi ereditari, archivi di anti-chissimi ospedali e istituzioni come l’Immacolata,Santa Maria della Pietà, il Chiesuolo, il Cavallino, ilCollegio Elvetico dei quali tutto è sparito per sem-pre! Infine l’ultimo conflitto mondiale, quandospezzoni incendiari e bombe dirompenti lanciatedagli aerei anglo-americani indiscriminatamenteanche su ospedali, incrementarono il vuoto. Glieventi bellici costrinsero i cittadini di tante istituzio-ni pie o socio-culturali a fortunosi viaggi per tentaredi trasportare con carri traballanti e salvare il piùpossibile altre persone, documenti e valori in zonedi campagna. Come sappiamo, questi trasferimentiavevano ed ebbero effettivamente rischi di ognigenere: molte carte andarono disseminate, disperseo distrutte, rubate o usate quale materiale per riscal-damento.La custodia, la conservazione e l’ordinamento deidocumenti furono affidati, dall’inizio e fino al secoloXVIII ad un notaio, secondo l’ordinazione capitolaredel 9 gennaio 1499, con la raccomandazione chescripturas et iura collocati nell’ufficio del notaio,fossero raccolti ed ordinati nel locale della libreria,secondo le esigenze del materiale archivistico.Dopo le disposizioni del 1605, un nuovo regola-mento del 1642 stabiliva che l’archivio fosse affi-dato ad un notaio fedele e diligente il quale avreb-be dovuto mantenere la cura di tutte le scrittureimportanti appartenenti all’ospedale (fondazioni,privilegi, donazioni, concessioni, eredità, perti-nenze e così via). Prerogativa del notaio e del suo collaboratore-archi-vista era la conoscenza di buone lettere latine,soprattutto quelle relative ai negozi giuridici, dirit-tura morale e grande affidabilità, perché l’integritàpersonale doveva essere al di sopra di tutto.Il 31 gennaio 1553 un’ordinanza capitolare decide-va che tutti i documenti venissero conservati con trechiavi: la prima tenuta dall’archivista, la secondadal priore e la terza dal rappresentante dell’autoritàdi governo in seno al Capitolo.Abbiamo testimonianze dell’interessamento di sanCarlo Borromeo circa l’attività dell’Ospedale Mag-giore, poi designando questo ente come suo eredeuniversale, e delle congratulazioni espresse dal car-dinale Federico Visconti durante una sua visitapastorale all’archivio il 30 marzo 1683.

L’età dell’Illuminismo incrementò il valore storicodegli archivi, tanto che lo storiografo Giorgio Giuli-ni, deputato del Capitolo e incaricato nel 1765 disistemare organicamente la documentazione, dispo-se di mantenere il metodo adottato fino a quelmomento, in quanto valido e organico.Una ventina di anni dopo, il sacerdote Carlo Giu-seppe Borbone responsabile dell’archivio della Ca’Granda, purtroppo rivoluzionò il sistema adottando-ne uno enciclopedico, creando così una tale confu-sione da smembrare l’aspetto e la storia di un’istitu-zione secolare.Il grande merito di aver fatto chiarezza e ordine sideve a Pio Pecchiai, archivista dal 1906 al 1931, ilquale con infinita pazienza e intelligenza ricostituìl’originaria struttura e tradizione di fondi e unitàcome erano prima della farragine borboniana,vagliando fascicolo per fascicolo. Innanzi tutto, separò il complesso documentario indue sezioni: storica e amministrativa, partendo dal-l’anno 1863 data di inizio del nuovo sistema ammi-nistrativo delle Opere Pie (secondo le leggi emanatedal Regno d’Italia) e l’istituzione del Consigliodegli Istituti Ospitalieri di Milano.Ricordiamo che il riordino effettuato da Pio Pec-chiai culminò con la redazione di un inventario tut-tora valido e di utile consultazione. Questo è un breve quadro storico dell’Archivio i cuilocali sono situati al piano terreno dell’edificio sfor-zesco, attuale sede amministrativa dell’OspedaleMaggiore. Gli arredi sono di tipo antico, comunquefunzionali e si respira quasi un’aria di sacralità:infatti, qui si hanno le testimonianze di tanti anni edell’interesse che suscita la storia delle istituzioni,del costume, dell’arte, lo studio della paleografia ele vicende civili, sociali, economiche, politiche,religiose di Milano, con la sua assistenza, benefi-cenza e orgoglio. È un mondo tutto da scoprire,conoscere e amare; ecco perché a questo punto ègiusto soddisfare la curiosità e citare seppur a gran-di linee il prezioso contenuto. - Un rotolo di papiro egizio (m. 6,71 x cm 18,5)perfettamente conservato - donato con la mummia,nel 1854, dal marchese Ludovico Busca - contenen-te il testo, illustrato, del cosiddetto “Libro deiMorti”, composto a Tebe in caratteri geroglificimescolati a numerosi segni ieratici all’inizio della

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XIX dinastia (1305 - 1200 a.C.) oggetto di partico-lare studio da parte degli egittologi per il tipo di scrit-tura e la scelta delle formule (questo è il pezzo piùantico in assoluto); - una pergamena del 1068 per due atti notarili di com-pravendita di terreno proveniente dall’abbazia cister-cense di Morimondo;- statuti emanati dagli arcivescovi Uberto nel 1161 eda san Galdino nel 1168, che sono fra i più antichistatuti ospedalieri d’Italia;- gli atti di donazione di Barnabò Visconti agli ospe-dali milanesi, 1359 e 1366;- diploma miniato di fondazione dell’Ospedale Mag-giore di Milano sottoscritto da Francesco AttendoloSforza, 1° aprile 1456, già citato;- bolla di papa Pio II Piccolomini per l’approvazionecanonica dell’Ospedale, 9 dicembre 1458;- diplomi dell’imperatore Carlo V d’Asburgo per laconcessione di particolari privilegi alla Ca’ Granda,1532, 1538, 1550;- diploma del privilegium amplum concesso dal re diSpagna Filippo II d’Asburgo, 1° luglio 1559;- bolle e brevi pontifici, diplomi imperiali anche ric-camente miniati, per donazioni, aggregazioni, privile-gi ed esenzioni; bolla originale del Concilio di Basi-lea per l’istituzione della solennità dell’ImmacolataConcezione (17 settembre 1439); diplomi episcopali,monastici, reali, principeschi e feudali; diplomiviscontei e sforzeschi; atti del governo di Milano(Comune, Repubblica Ambrosiana, dominazionefrancese, spagnola, austriaca) e di altre città italiane;diplomi di magistrati, militari, mercantili, accademicied, ovviamente, dell’Amministrazione ospedaliera;- autografi di sovrani, duchi, arcivescovi e prìncipi, dinoti uomini d’armi, magistrati, patrioti e uomini poli-tici, artisti e poeti, letterati e storici, scienziati e dipersonaggi comunque illustri (per es. Filippo II diSpagna, Galeazzo e Gian Galeazzo Maria Sforza,Napoleone Bonaparte, san Carlo Borromeo, Massimod’Azeglio, Giuseppe Mazzini, Mosè Bianchi, Giovan-ni Segantini, Tristano Calco, Giuseppe Parini, Giaco-mo Leopardi, Alessandro Manzoni, Tomaso Grossi,Cesare Cantù, Barnaba Oriani, Bernardino e PietroMoscati, Andrea Verga, Pietro Paleòcapa, ecc.; - il quattrocentesco Codex statutorum veterumMediolani, 1351-1481, cartaceo, uno dei più antichie completi esemplari;

- l’ Extimum legatorum totius cleri civitatis et dio-cesis Mediolani, sec. XIV;- un codice membranaceo del se. XIII con il testo,ed interessanti glosse della Summa artis notariaedel bolognese Rolandino de’Passeggeri;- pagine di libro corale e frammenti di antifonaricon notazioni musicali non comuni, del sec. XIV;- una carta nautica (portolano) del sec. XIV con laraffigurazione delle Isole britanniche, la costa fran-cese e quella dei Paesi Bassi;- un curioso manoscritto sui caratteri cinesi (Cha-racteres seu litterae sinensis) curato dal milaneseG. Battista Morandi nel 1748.Inoltre l’archivio contiene moltissimi fascicoli rela-tivi al personale medico, paramedico, amministrati-vo che ha prestato e presta la sua opera nell’interes-se della struttura ospedaliera.

La Biblioteca storica/antica della Ca’ Granda

L’origine e la fondazione della biblioteca risalgonoal 1842, grazie alla donazione effettuata dal medicomilanese Carlo Dell’Acqua, come si legge nel suotestamento olografo: “...considerando di quantanecessità sia che nell’Ospedale Maggiore esista unaraccolta di opere mediche e chirurgiche perché lagioventù, che vi esercita la pratica, possa attingerele cognizioni che più conducono al grande intentodi giovare alla umanità sofferente...” Egli lasciò la sua raccolta di libri di medicina e distoria naturale (250 opere e moltissimi opuscoli rac-colti in miscellanee), ma soprattutto legò al nosoco-mio la cospicua somma (per l’epoca) di 50.000 lire,inoltre volle che essa fosse impiegata nell’acquistodelle migliori opere mediche, a giudizio del diretto-re dell’Ospedale nonché per “... l’associazione aigiornali di medicina e chirurgia pubblicati in Italia,Francia, Allemagna e Inghilterra...”.Il dottor Carlo Dell’Acqua era consapevole dell’im-portanza circa l’acquisto e la diffusione dei conte-nuti dei periodici stranieri, stabilendo che le rivistevenissero lette e recensite durante le sedute mensiliaperte a tutti i medici e chirurghi milanesi, racco-mandando in particolare la pubblicazione degliestratti sulla Gazzetta medica italiana, allora il piùdiffuso periodico italiano di medicina. In questo modo e fino ai primi anni del Novecento,la biblioteca fu punto di incontro, di scambio cultu-

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li delle vicende che hanno visto lo sviluppo e ildeclino di molte patologie, le correnti filosofico-scientifiche, le decisioni economico-politiche; tuttoquesto è anche assai utile da un punto di vista stati-stico e demografico e perfino linguistico, perché èinteressante confrontare la terminologia scientificae la sua evoluzione nel corso di anni e anni.Poiché ciò che interessa a noi, oltre naturalmentel’intrinseco valore antiquario, è quello legato al rap-porto cittadinanza-Ospedale, daremo qualche noti-zia riguardante le altre numerose encomiabili dona-zioni avvenute quasi tutte tramite successioni testa-mentarie.Carlo Ampellio Calderini (1808 - 1856) alla suamorte lasciò al nosocomio oltre 200 opere, alcunesettecentesche provenienti da medici famosi, come

rale e di dialogo fra i medici milanesi, mentre l’am-ministrazione ospedaliera focalizzò la sua attenzio-ne all’acquisto di importanti opere scientifiche ita-liane e straniere, in edizioni soprattutto francesi.Intanto la biblioteca incrementava il suo patrimoniobibliografico anche in seguito a donazioni e lasciti,alcuni di notevole entità e valore. In pratica, la suacostituzione si avvaleva di due filoni: uno istituzio-nale e l’altro privato, perché molti medici destina-vano pubblicazioni scientifiche e volumi a quellache era l’unica biblioteca specializzata della città. Gli storici della medicina e della sanità sanno cheessa è una miniera di informazioni e di notizie pro-prio sulla “storia sociale, assistenziale, ideologica eepidemiologica”, in quanto è possibile reperire unavalida documentazione e ricostruire le linee genera-

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Prezioso volume cinquecentesco della biblioteca ospedaliera. Opera diGiovanni De Vigo (1540) il volume illustra studi e pratiche di chirurgia;restaurato, è ora custodito nell’Archivio storico dell’Ospedale Maggiore.

Ancora dalla biblioteca storica: trattato di chirurgia del bologneseGiuseppe Tagliacozzi, stampato a Venezia nel 1597.

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per esempio i libri di Giovanni Rasori, figura assaifamosa nel panorama del primo Ottocento in Lom-bardia e dell’antagonista di questi, Valeriano LuigiBrera, docente all’università di Pavia. Gaetano Casati, con testamento del 28 gennaio1897, destinò la somma di lire 100.000 e oltre 250volumi e più di 900 opuscoli.Carlo Labus (1844 - 1909), fondatore dell’otorino-laringoiatria in Italia, nel 1903 regalò almeno 2000testi; mentre i docenti di oculistica Romolo e Anto-nio Quaglino, rispettivamente padre e figlio e l’ana-tomo-patologo Achille Visconti, donarono tutta laloro raccolta scientifica.Ma le più prestigiose da ricordare sono le donazionidi Serafino Biffi (1822 - 1899) e di Giovanni Batti-sta Palletta (1748 - 1832).La raccolta di Serafino Biffi, uno dei maggiori neu-ropsichiatri della seconda metà dell’Ottocento, nel1908 pervenne all’Ospedale Maggiore per meritodel fratello Antonio (1831 - 1908), celebre chimicomilanese, e costituì una biblioteca a sé stante annes-sa a quella del nosocomio, curata dal direttore delreparto di neuropatologia. Fu fornita anche una ren-dita per l’acquisto di altre pubblicazioni scientifichee periodici. Nella citata biblioteca confluironoanche libri appartenuti ad alcuni illustri colleghi frai quali Gaetano e Giovanni Strambio, nonché a Pie-tro Moscati.Marco Palletta consigliere degli Istituti ospitalieri,nipote del chirurgo Giovanni Battista, con testa-mento olografo del 15 giugno 1886 destinò all’O-spedale lire 100.000 e 1.855 volumi più 703 opu-scoli posseduti dallo zio.Questa donazione, contrariamente ad altre, non fumai smembrata, anzi fu costituito un fondo a partedenominato appunto “Fondo Palletta”. Contieneopere di celebri medici stranieri come, per esempio,l’anatomo-fisiologo svizzero Albrecht von Haller(1708 - 1771).Nel 1932, l’annuario Milano sanitaria informavache la consistenza della biblioteca, escluso il“Fondo Biffi” era costituita da 46.000 volumi,14.000 miscellanee, 500 testate di periodici. Subito all’inizio della seconda guerra mondiale, unabuona parte della biblioteca fu trasferita in un’a-zienda agricola di proprietà ospedaliera, mentre laparte rimasta a Milano subì i gravi danni dei bom-

bardamenti, come già accennato nel profilo storicodi questo articolo. Dopo le prime incursioni, ilmateriale salvabile fu caricato su una cinquantina dicarri rustici trainati da cavalli e trasferiti in alcunioratori di campagna presso Abbiategrasso, dove fusistemato un po’ alla rinfusa.Alla fine del conflitto, i volumi (circa 700 casse)furono trasferiti all’Ospedale di Niguarda (dove giàesisteva una biblioteca dal 1937), in attesa di collo-carli in via Festa del Perdono accanto alla bibliote-ca dell’Università degli Studi e a quella della Fon-dazione Donati. Questo progetto, non fu mai realizzato, perché neglianni Ottanta si pensò di trasferire tutte le pubblica-zioni presso l’Abbazia di Mirasole (1), (riportata agliantichi splendori con un ottimo progetto e un enco-miabile lavoro di restauro e ristrutturazione), dovesono tuttora.Nello stesso periodo, un valido e notevole contribu-to fu dato dalla direzione della Biblioteca nazionaleBraidense che, nel recupero della biblioteca storicadell’Ospedale Maggiore, organizzò un intervento dicompletamento e di complemento di storia dellascienza, avvalendosi dell’opera di inventariazione ecatalogazione da parte della Cooperativa archivisti-ca e bibliotecaria. La biblioteca, come è ovvio, contiene moltissimicapolavori inestimabili quali incunaboli e mano-scritti; a questo proposito è giusto sapere chequello di più antica datazione risale al 1476. Sitratta di un incunabolo voluminosissimo, il Trac-tatus aureus de conservanda sanitate del celebredottore Bartolomeo Montagna, splendida opera infolio magnificamente conservata in tutto, peròpurtroppo mancante del frontespizio. Il valoreconsiste inoltre nell’appartenenza a quella parti-colare classe di opere scientifiche che interessanoanche lo storico, perché gli ammaestramenti dot-trinari sono compilati in forma di consulti e vi sicitano persone dell’epoca, curate dall’autore odalle quali l’autore fu consultato (2). Fra i testi di maggiore preziosità spicca la editiolatina del trattatello sine titolo scritto da Gian Gia-como Gilino, priore del capitolo dei deputati algoverno degli ospedali milanesi, pubblicato nel1508 da Giacomo Ferrari o De Ferrari di Milano.Esso non fa parte degli antichi fondi librari dell’O-

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spedale, ma fu acquisito dalla Ca’ Granda verso lafine del Settecento, ex viro clarissimo Balthasariode Altrocchi, secondo quanto risulta dall’annota-zione posta a matita sul verso della prima carta ereplicata a penna sul diritto della dizione “dono diBaldassarre Oltrocchi, che fu prefetto della Biblio-teca Ambrosiana (morto nel 1797) (3). Fra molte pubblicazioni, la biblioteca contiene inumeri di due prestigiose riviste:- L’Ospedale Maggiore. Rivista scientifico-praticadell’Ospedale Maggiore di Milano ed Istitutiannessi, fondata nell’aprile del 1906, il cui primoredattore capo fu il dottor Enzo Moretti (oftalmolo-go). Facevano parte della direzione o del comitatodi redazione i primari e i medici collaboratori degliIstituti di Medicina interna, Neuropatologia, Anato-mia Patologia e Bacteriologia, Dermosifilovenero-logia, Urologia, Chirurgia generale, Ostetricia eGinecologia, Oftalmologia, Otorinolaringoiatria,Radiofotoelettromeccanoterapia e infine Podoiatria. La rivista visse successivamente un periodo di circatrent’anni utilizzando collaborazioni redazionalidiverse. Nel 1973 una convenzione unanime fra lequattro unità ospedaliere (Ospedale Maggiore Poli-clinico, Niguarda Ca’ Granda, san Carlo Borromeoe Sesto San Giovanni) portò la rivista alla ripresa dinormali pubblicazioni. Nel 2001 chiuse i suoi 96anni di vita, dopo aver mantenuto gli iniziali propo-siti come l’invito offerto a illustri maestri di espri-mere con pagine magistrali le loro esperienze e lapossibilità di affrontare criticamente l’attualitàmedico-scientifica e la sua evoluzione.- La ca’ granda, vita ospedaliera e informazioniculturali, fondata nell’aprile del 1960 su iniziativadel professor Carlo Masini, prima bimestrale e poitrimestrale dal 1973, contiene dissertazioni di sva-riati argomenti: dalla medicina alla filosofia, dal-l’arte all’etica, dalla storia alla critica letteraria ealle recensioni di saggi, e corredata da illustrazionie riproduzioni storiche.Entrambe le riviste hanno visto la loro puntualerealizzazione grazie a numerosi collaboratori ani-mati da entusiasmo, competenza e grande parteci-pazione. Ma queste peculiarità unite ad una forzainteriore e intellettuale eccezionale sono prerogati-va indiscussa della dottoressa Franca Chiappa che,su incarico della presidenza, dal 1960 dirige la ca’

granda e ha diretto dal 1973 al 2001 l’OspedaleMaggiore.

La Quadreria dei benefattori

La “Quadreria dei benefattori”, con quasi milleritratti, rappresenta il nucleo più consistente e signi-ficativo delle varie raccolte d’arte dell’OspedaleMaggiore. L’origine risale alla deliberazione capitolare del 6dicembre 1602 con la quale l’amministrazioneospedaliera desiderava onorare e perpetuare lamemoria dei benefattori tramite la loro rappresenta-zione pittorica o statuaria.È profondo il significato di tale iniziativa: un atto diringraziamento conseguente a un atto caritativo;quindi un legame ininterrotto, responsabile, affetti-vo e solidale fra il nosocomio di Milano e i suoiconcittadini.

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Particolare della biblioteca storica di medicina a Mirasole.

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la forza del dialogo con lo spettatore, perché ilpregio dei vari pittori sta nella forza comunicativache hanno saputo imprimere alla loro opera, esecondo me, questo è il valore. Per giungere atanta intensità ci voleva una grande passione, daparte del personaggio-benefattore ritratto e daparte dell’artista. Il quadro raggiungeva diversiscopi: ringraziare per sempre, immortalandola, lapersona che generosamente aveva dimostrato ilsuo rispetto e il suo affetto nei confronti dell’O-spedale e dare celebrità a un artista talvolta sco-nosciuto fino a quel momento.Dal 1810, le norme stabilivano che per la realiz-zazione delle tele fosse necessario un lascito dialmeno 40.000 lire per il ritratto a mezzo busto edi 80.000 lire per quello a figura intera.In questa sede, non citerò qualche opera in parti-colare, mi sembrerebbe di fare torto a quelle nonmenzionate, però posso affermare che di fronte adipinti, statue, busti marmorei, il nostro animo neviene profondamente toccato e questo è ciò chepiù conta nella nostra sensibilità.Nel 1914 l’archivista Pio Pecchiai iniziò la com-pilazione in un registro manoscritto dell’inventa-rio dei ritratti dei benefattori, dando alle stampenel 1927 l’elenco dei ritratti corredato da riprodu-zioni fotografiche di ogni singolo pezzo, in mododa creare una catalogazione inventariale comple-ta; i successivi aggiornamenti arrivano al 2001.L’Ospedale Maggiore - Policlinico già da tempoha deciso e iniziato i lavori per il recupero di duegioielli: l’Abbazia di Mirasole (come già detto) ela grande quadreria, sistemata in sede definitiva esicura in tale prestigioso contesto architettonico.

Le collezioni di altri beni culturali. (4)

Come si può intuire, appartengono all’Ospedalemolti altri oggetti assai preziosi per un valoreintrinseco, di antiquariato e affettivo.Innanzi tutto, molte opere sono state commissio-nate direttamente dall’Ente (per es. ritratti dimedici, o quelli dell’Ospedale stesso) e alcunepervenute ad esso e già pertinenti ad altri antichiedifici nosocomiali o di culto (dipinti, sculture,arredi, paramenti, vasellame). Numerose sonostate le donazioni di ogni genere, devolute tramiteelargizioni, lasciti testamentari ecc.

Il valore morale è inconfutabile, ma a questo siaggiunge quello degli aspetti sociali, storici, artisti-ci, una testimonianza continua del costume e deicostumi dell’epoca. Come forse c’è già stata occasione di scriverlo suquesta rivista, ribadiamo che la tradizione del ritrat-to gratulatorio risale al XV secolo, precisamente dal1464 quando si stabilì di immortalare in “uno finis-simo lapide marmoreo” i duchi Francesco Attendo-lo Sforza e sua moglie Bianca Maria Visconti, e, nel1472 due dipinti, per manifestare gratitudine allaloro inestimabile opera di fondazione dell’OspedaleMaggiore; infatti, si ritennero insufficienti gli affre-schi, ora perduti, che li ritraevano insieme ad altripersonaggi convenuti in solenne processione per laposa della prima pietra della Ca’ Granda. Mentre nel Quattrocento la scelta del Capitoloospedaliero era finalizzata ad onorare i benefattoriappartenenti ai vertici del potere, abitudine che duròanche per tutto il Cinquecento, dal 1606 si stabilivaun diritto paritario per tutti i benefattori dell’Ospe-dale, dal più nobile al più umile.Soltanto da questo periodo i documenti sono ingrado di fornire adeguate informazioni relativamen-te all’itinerario della Quadreria della Ca’ Granda,ricordando che per i periodi precedenti non cono-sciamo con sicurezza i nomi degli autori delleopere.Mentre la tradizione del ritratto era fiorentissimaper tutto il Cinquecento in altri centri, a Milanoera più debole, qui forse suggestionata dalle teoriee critiche di Leonardo da Vinci che osservava consospetto il non facile rapporto dell’uomo con sestesso.Ma nel XVII secolo, grazie al monito di san CarloBorromeo che consigliava di non vedere l’uomosoltanto come un essere evanescente o sogno, siincentivava la ritrattistica milanese, proprio in unperiodo di crisi, quando guerre, epidemie, tensio-ni spirituali rischiavano di offuscare la memoria eil ricordo delle persone.Si contrappose, quindi, un movimento di rinnova-mento e la Galleria dei benefattori della Ca’ Gran-da assume il valore di documento della realtàsociale, come accennato qualche riga sopra. I personaggi ritratti, se li osserviamo con moltacura, non sono soltanto pure immagini, ma hanno

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L’Ospedale, esaudendo una richiesta proveniente dalComune di Milano, fra la fine del XIX secolo e l’ini-zio del XX, ha reso fruibili al pubblico alcune opered’arte, depositandole presso il Museo Civico delCastello Sforzesco, favorendo anche l’occasione perla compilazione di un elenco generico degli Oggettidepositati presso le Civiche Raccolte d’Arte delCastello Sforzesco, e di una nuova serie inventarialedetta “Castello”.Nel 1935, l’avvocato Salvatore Spinelli (1892 - 1969)vice segretario dell’Ospedale Maggiore, direttore dellarivista “l’Ospedale Maggiore”, critico letterario, scrit-tore, insieme con l’archivista Giacomo Carlo Bascapècompilò una relazione e delle schede per inventariarequadri (che non facevano parte della collezione),opere marmoree, candelabri, pendole, vasi di farma-cia, arredi vari, campane, mobilio e suppellettili.È stato fatto qualche altro inventario, ma i dati piùrecenti e attendibili sono quelli che hanno visto unascrupolosa ricognizione inventariale redatta fra il2001 e il 2003, durante la quale sono stati presi inesame i beni ubicati nella sede amministrativa di viaFrancesco Sforza, nei padiglioni del Policlinico, inchiese e oratori di proprietà dell’Ente. Grazie a diversisopralluoghi, sono stati reperiti altri beni ed è statopossibile effettuare confronti e integrare i dati, con-cludendo i lavori alla fine del 2005. Per completare le notizie, è utile sapere che l’Ospeda-le Maggiore possiede anche “Serie Ritratti dei Presidenti”: 39 dipinti eseguiti frail 1863 e il 1994, di cui 2 scomparsi;“Serie Farmacia”: 193 opere inventariate (mentresono scomparsi 32 antichi vasi di farmacia);“Serie Eredità e Doni”: 4 collezioni delle famiglie:Litta (1899), Rapetti (1938 1942), Alberti (1936 -1943), Fragni Sichirollo (1972); inoltre le seguentiopere: una Testa di Cristo, attribuita a Leonardo daVinci pervenuta con l’eredità di Antonio Mussi del1810; lo Sposalizio della Vergine di Raffaello Sanzio,venduta all’Accademia di Brera, insieme a unaMadonna di Giovanni Bellini, all’Assunta di Marcod’Oggiono e altre di inestimabile valore. “Serie Chiese”: sono di proprietà dell’Ospedale Mag-giore 17 chiese disseminate sul territorio lombardo,ciascuna dotata del proprio corredo di culto.Nella Cappella della Ca’ Granda risalta il dipintodell’Annunciazione di Guercino.

“Serie Poderi”: patrimonio artistico, storico, eetnoantropologico conservato negli edifici di usocivile e rurale ubicati sul territorio lombardo, inattesa che il Servizio Beni Culturali effettui piùcomplete verifiche. Attualmente si contano 33campane di bronzo.

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Note

1 - L’Abbazia di Mirasole, fuori Porta Vigentina ma nel comune diOpera (MI), fra le numerose case fondate in Lombardia dall’anticoOrdine degli Umiliati è forse l’esempio più completo. Risale al 1201,anno in cui il loro stato (regola mista di Benedettini, Agostiniani eCanonicali) fu regolato dal “Propositum” che deriva dalla lettera dipapa Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni 1198 - 1216) del 7 giu-gno 1201. L’Ordine degli Umiliati fu soppresso dall’ex grande inqui-sitore poi divenuto papa Pio V (Antonio Ghislieri 1566 – 1572) conbolla del 7 febbraio 1571.

2 - Dal testo di Pio Pecchiai, Guida dell’Ospedale Maggiore di Mila-no e degli Istituti annessi, cap. XV La Biblioteca, Milano 1926, pag.193.

3 - La carità e la cura. L’Ospedale Maggiore di Milano nell’etàmoderna, a cura di Giorgio Cosmacini; testi di Giorgio Rumi e Gior-gio Cosmacini, Ospedale Maggiore di Milano, 1992; in cap. III Larelazione ai deputati dell’Ospedale Grande di Milano di Gian Giaco-mo Gilino, Nota ai testi di Giorgio Cosmacini, pag. 83.

4 - Alcune informazioni sono state desunte consultando la tesi di lau-rea di Daniele Cassinelli “Le raccolte d’arte dell’Ospedale Maggio-re di Milano. Vicende storiche.” Università degli Studi di Milano,Facoltà di Lettere e Filosofia. Scuola di Specializzazione in Storiadell’arte. Anno accademico 2004-2005.

L’Abbazia di Mirasole (destinata a ospitare la famosa Quadreria deibenefattori) ricordata qui nel suo stemma.

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A sei anni dall’inizio del Novecento - il “secolnovo” che si ripromette di risplendere Excelsior!come vaticinato da un famoso ballo ispirato a unapoesia di Longfellow e celebrante la vittoria dellascienza sull’oscurantismo - la pubblicazioneMilano nel 1906, edita nell’occasione della “espo-sizione d’arte e industria” indetta per festeggiareil compiuto traforo del Sempione, curiosamente sichiede “Quanto vale Milano?” e si risponde: “Laricchezza pubblica e privata di Milano si aggiradagli otto ai nove milioni di lire”.Milano è una città industriosa e opulenta checonta 541.148 abitanti e che, nello sventrato ericostruito Cordusio, innalza il sontuoso palazzodestinato a nuova sede della Borsa. Ma è anche lacittà in cui la metà delle famiglie residenti è dicondizione “operaia”; molte di esse vivono in unastanza sola, molte persone non hanno un lettosicuro e 15.000 di queste sono annualmente immi-grate da altre parti d’Italia.La città che alle soglie del secolo XX si autocandi-da a capitale non soltanto economica dell’Italia gio-littiana, incarnando, come è stato detto, “l’unicomito ideologico serio, non retoricamente fittizio,elaborato dalla borghesia dopo l’Unità”, non è piùda tempo una città d’antico regime in cui le risaie ele marcite, terre di miasmi e “mal’aria”, giungevanofin sotto la cinta delle mura spagnole. Mortalitàgenerale, natimortalità e mortalità infantile, que-st’ultima soprattutto, sono indici in calo. Sotto que-sto aspetto l’igiene urbana, supportata dalla neona-ta igiene scientifica, ha bene funzionato.Peraltro, in aggiunta alle sacche di perdurante“pauperismo” e di avviata o inoltrata “proletariz-zazione”, il sovraffollamento delle abitazioni,accentuato dalla crisi edilizia e dall’inurbamentoa flusso continuo di nuovi residenti, penalizzanopesantemente un cospicuo numero di milanesi,molti dei quali “necessitati” ad ammalarsi. Molti

immigrati, disinformati dal punto di vista immunita-rio, contribuiscono a fare di Milano, nel primo Nove-cento, ancora una città ad alto rischio sanitario.La vita associata delle fabbriche e delle scuole inuna città sempre più industrializzata e alfabetizza-ta, la densità abitativa e la suscettibilità a infettar-si dei soggetti ricettivi inurbati sono co-fattori cheincrementano l’aggressività della “peste bianca”,la tubercolosi.Ubi morbus, ibi remedium: secondo l’antico afori-sma, “dove c’è la malattia, lì c’è chi vi pone rime-dio”. A Milano, Giuseppe Forlanini, primariomedico dell’Ospedale Maggiore e sodale di moltiper l’impegno nella “medicina sociale”, mette adisposizione del fratello Carlo, clinico medico aPavia e inventore del pneumotorace artificialenella terapia della tisi polmonare, la copiosa casi-stica dei malati ricoverati nelle due sale ospeda-liere da lui dirette; ed è nella stessa città lombardache lo studio clinico della tubercolosi, che ha neifratelli Forlanini gli artefici del suo rilancio, trovanella ricerca pioneristica di Serafino Belfanti,direttore dell’Istituto Sieroterapico Milanese, ilsupporto al principio d’ordine generale che ilpotenziamento delle difese organiche tramite sierie vaccini (in assenza di farmaci efficaci) è la prin-cipale risorsa medica nella lotta alle infezioni.Nello stesso anno 1906, nella metropoli lombardasi compie un evento di grande importanza: vengo-no fondati gli “Istituti Clinici di Perfezionamen-to”, ubicati, con accesso da via della Commenda,nell’area urbana compresa tra lo stradone di SanBarnaba e il padiglione Litta del nascente Policli-nico. Gli “Istituti” sono la creatura di Luigi Man-giagalli, l’ostetrico-ginecologo che, lasciata lacattedra universitaria pavese per il primariatoospedaliero milanese, s’è dato tutto all’industriosae intraprendente Milano, dopo essersi dedicatoalla dotta e appartata Pavia.

1906. Milano capitale sanitaria

GIORGIO COSMACINI

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Milano è stato l’approdo definitivo della sua“ginecologia operativa” d’avanguardia, che hainaugurato la nuova era del “taglio cesareo”seguito dall’ “amputazione utero-ovarica”, onderimuovere il “fomite d’infezione” che penalizza di“setticemia puerperale” il destino di molte giovanidonne divenute madri. Ma Milano è anche illuogo necessario all’espansione della sua attivitàdi uomo d’impresa e di uomo politico.Al momento della fondazione dei suoi “IstitutiClinici” egli è senatore del Regno e usa il laticla-vio come strumento privilegiato per far approvarenelle competenti sedi romane quel che più gli staa cuore: realizzare, negli “Istituti” neofondati,“non uno, ma tre concetti di fondamentale impor-tanza: la difesa della maternità, la difesa control’infezione, lo studio della patologia del lavoro”.La difesa della maternità, nella quale è impegnatoin prima persona Mangiagalli stesso, si avvale, inuna clinica di più di 200 letti, di concetti, metodie mezzi al passo con i tempi che corrono: dal for-cipe a trazione assiale alla concezione scientificadel bacino ristretto, dal taglio cesareo perfeziona-to all’interpretazione biologica anziché meccanicadel rapporto materno-fetale. La difesa dellamaternità si salda alla difesa dell’infanzia, a parti-re dall’età prenatale, affinché il momento positivodel venire al mondo non coincida più, come trop-pe volte in passato, con il momento negativo del-l’uscita dal mondo dei vivi.L’organizzazione di questa duplice difesa sanitariafa parte di una politica dello sviluppo che si adeguaalla crescita demografica innescata dalla rivoluzio-ne industriale in una Milano sempre più interessataalla quantità della propria popolazione e quindi allaqualità esistenziale primaria di essa, la natalità. Unanatalità protetta è il primo requisito di una societàcivile, tutelato dalla “ostetricia straordinaria” della“Guardia ostetrica” soccorrente a domicilio e dalla“ostetricia ordinaria” affidata alle levatrici abili,abilitate dalla “Scuola di ostetricia” della Clinicadiretta da Mangiagalli stesso.La difesa dell’infanzia recepisce la nozione sug-gerita dalla nascente immunologia circa l’impor-tanza della predisposizione organica e dei fattorinaturali e sociali da cui essa dipende. Ma nonporta a svalutare l’importanza degli agenti micro-

bici: Mangiagalli, presidente dell’Istituto Sierote-rapico Milanese”, coglie la palla al balzo e “per-feziona” nei suoi “Istituti Clinici” anche l’infetti-vologia, da un lato chiamando a insegnarla e adaggiornarla il direttore del’“Sieroterapico” Serafi-no Belfanti, dall’altro aggregando la “Clinicadelle malattie epidemico-contagiose”, ubicatanell’“Ospedale municipale per i contagiosi” inDergano.Con la difesa della maternità e dell’infanzia, conla difesa contro le infezioni, tertium datur: ladifesa dai pericoli e dai danni del lavoro, in parti-colare del lavoro industriale, con ricerca, aldilàdei meccanismi fisiopatologici e delle manifesta-zioni cliniche, delle cause e concause delle malat-tie professionali. Degli “Istituti Clinici di Perfe-zionamento” è parte integrante la “Clinica dellemalattie professionali”, istituita con il fine dichia-rato di “studiare scientificamente le cause dellemalattie professionali, diffondendone la cono-scenza clinica fra i medici, ospitare a scopo dia-gnostico e terapeutico i lavoratori sospetti, iniziatio inoltrati” nelle malattie medesime e “controllareperiodicamente lo stato di salute degli operaiaddetti alle industrie in genere e ai lavori insalubriin modo speciale”: sono parole lapidarie dettatequattro anni prima dal sindaco di Milano Giusep-pe Mussi, capo dell’Amministrazione comunaleche ha deliberato la creazione della “Clinica delLavoro”, come viene comunemente chiamata lanuova Clinica.La mutazione pragmatica delle opere sfocia inquella teorica dei concetti, che nel fervido mondomedico milanese trovano aggiornati e avanzatiriscontri. Lo studio clinico della tubercolosi, cheha nei fratelli Forlanini gli artefici del suo rilan-cio, dimostra l’importanza delle condizioni gene-rali nel contrarre la malattia e nel difendersi daessa. L’opera pioneristica di Serafino Belfantidimostra che la difesa dai germi è favorita dalsiero degli organismi vaccinati; e si acquistanozione che tale difesa è invece ridotta in carenzadi “alimenti accessori” - denominati dal 1911“vitamine” - i quali ripropongono, in termininuovi, il problema dei fattori nutrizionali e quindidelle condizioni di vita. Le condizioni di lavorosono oggetto di studio specifico nella Clinica

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delle malattie professionali di Luigi Devoto; enell’ambito della stessa istituzione scientifico-sanitaria d’avanguardia, dove Luigi Mangiagalli sioccupa e preoccupa della difesa della maternità edell’infanzia, Edoardo Bonardi svela i meccani-smi fisiopatologici e le manifestazioni clinichedelle “malattie sociali”. Nello stesso milieu PaoloPini, figlio di Gaetano Pini, per quanto appartatonel ruolo di “medico dei poveri”, forse proprioper questo si avvede con altri, sempre più nitida-mente, dell’incidenza dei fattori psicologico-ambientali nella patogenesi delle malattie neuro-psichiche. Tisiologia, sierologia, immunologiaante litteram, clinica del lavoro, ostetricia orga-nizzata, ginecologia d’avanguardia, medicinasociale, neuropsichiatria sono i principali referen-ti, in Milano, di una scienza medica concettual-mente mutata tanto quanto socialmente impegna-ta. Si profila quel ruolo di cui Milano sarà inter-prete protagonista nella prima metà del Novecen-to: Milano come polso delle salute del paese,Milano come cuore pulsante delle sue risorseumanitarie, Milano come mente pensosa dei pro-blemi inerenti alla previdenza-prevenzione-pro-mozione della salute. Il ruolo, formulato nel titolodi questo intervento, di Milano capitale sanitaria.

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per autore

Avogadro, CristinaMilano e l’Ospedale Maggiore fra austriaci e francesi (1706-1859)fascicolo 4 – pagg. 9-14(ill.)

Binotto, Maria ChiaraScienziate dimenticatefascicolo 2-3 – pagg. 13-19 (ill.)

Bottardi, SimonettaUna giornata di medicina partecipativafascicolo 2-3 – pagg. 77-78 (ill.)

Bressan, EdoardoLa Città e l’Ospedale. Dal Medioevo all’età spagnolafascicolo 4 – pagg. 2-8 (ill.)

Brivio, ErnestoDue policlinici così diversi, un’“unica missione”: la Ca’ Granda perla salute dell’uomo, la “Veneranda Fabbrica” per quella del Duomofascicolo 2-3 – pagg. 5-10 (ill.)

Calderoni, SaraFilosofia di un non filosofo. Il dolore di Illich un compagno da nonrespingerefascicolo 2-3 – pagg. 25-27

Cantarelli, MarisaLa professione infermieristica oggi: per non restare mai senza“nuovi” obiettivifascicolo 2-3 – pagg. 27-30 (ill.)

Casati, SaraLa Geriatria nell’Ospedale Policlinico - Intervista a Carlo Verganifascicolo 1 – pagg. 2-6 (ill.)

Cassinelli, DanieleI dipinti della Clinica Mangiagalli - il premio d’arte “Maternità”(1966-1968)fascicolo 2-3 – pagg. 69-71 (ill.)

Cenedella, CristinaTra moda e rivoluzione: la Lombardia nel 1848fascicolo 1 – pagg. 31-35 (ill.)I fantasmi negli archivifascicolo 2-3 – pagg. 62-66 (ill.)

Cosmacini, GiorgioL’Ospedale e la Città: Milano e il “Gaetano Pini”fascicolo 2-3 – pagg. 11-12L’Ospedale, luogo di crescita scientifico-culturale e assistenzialedella Città in espansione (1860-1980)fascicolo 4 – pagg. 15-26 (ill.)1906. Milano, capitale sanitariafascicolo 4 – pagg. 46-48 (ill.)

Costantino, AntonellaVerso quali modelli di “rete” nella medicina della complessità?fascicolo 2-3 – pagg. 47-49

Cremonese, AntonellaLa chiarezzafascicolo 1 – pagg. 35-36

Crespi, AlbertoDal Passato - La verità al malatofascicolo 1 – pagg. 46-49

De Filippis, MaurizioElisabetta Zanarotti Tiranini: La luce nella mente. Eugenio Medea,precursore della neuropsichiatria e riabilitazione infantile (rec.)fascicolo 1 – pagg. 44-45

De Stefano, SantoL’Ufficio Tecnico di un grande ospedalefascicolo 2-3 – pagg. 59-61

Dordoni, Paolo“Socrate in corsia”: percorsi di senso e di riconoscimento nellaBabele della salutefascicolo 2-3 – pagg. 32-37 (ill.)

Eulisse, FrancescaScienziate dimenticatefascicolo 2-3 – pagg. 13-19 (ill.)

Eulisse, GiuseppeScienziate dimenticatefascicolo 2-3 – pagg. 13-19 (ill.)

Ferretti, MarcoLa cura del malato - il mondo dell’anzianofascicolo 1 – pagg. 7-9 (ill.)

Finzi, AndreaFra Serendipity ed “effetto Hawthorne” il difficile percorso delclinico che vuol essere “anche” ricercatorefascicolo 1 – pagg. 22-26

Galvagni, LuciaIo mi racconto, tu mi comunichi - Metafore e immagininell’esperienza della malattiafascicolo 2-3 – pagg. 40-42

Ghislandi, EnricoQuestioni aperte in oncologia, che è bene chiarirefascicolo 2-3 – pagg. 38-39

Grassi, don DanieleIl Parroco, cardinale Dionigi Tettamanzi, in visita alla sua Parrocchiafascicolo 2-3 – pagg. 74-75

Guareschi Cazzullo, AdrianaNuovi orientamenti per capire e prevenire la psicopatologia dellosviluppofascicolo 2-3 – pagg. 50-53 (ill.)

Indice generale dell’annata 2006

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Lerma, MilenaCollettivo Matuta: E dunque che fare? Cambia il tuo stile di vitae cambierai il mondo (rec.)fascicolo 2-3 – pagg. 81-83

Mantero, MarioCarlo Lorenzo Cazzullo: Un medico per la libertà (rec.)fascicolo 1 – pagg. 43-44

Manzoni, EdoardoMarisa Cantarelli: Gli infermieri nella ricerca. Metodologia dellaricerca sociale applicata all’infermieristica (rec.)fascicolo 2-3 – pagg. 83-84

Moia, MarcoRudolph Virchow e l’uomo di Neanderthal: storia di un errore?fascicolo 2-3 – pagg. 28-31 (ill.)

Monteleone, AntonioLa formalizzazione del lavoro per la salutefascicolo 2-3 – pagg. 55-58

Offeddu, LuigiIl mondo assistenziale e la culturafascicolo 2-3 – pagg. 3-4

Orsi, ManuelaL’approccio al malato cronico: esperienza in diabetologiafascicolo 2-3 – pagg. 43-44 (ill.)

Panico, SilviaRicordiamo Nicoletta Milanifascicolo 2-3 – pag. 76 (ill.)

Pisani, MarisaIl libro, la lettura, l’etàfascicolo 2-3 – pagg. 67-68

Sironi, Vittorio A.Il cambiamento del rapporto medico-paziente negli ospedali: ilmodello milanesefascicolo 1 - pagg. 17-20 (ill.)Giorgio Cosmacini: Un medico tra filosofia e medicina (rec.)fascicolo 2-3 - pagg. 79-81La Farmacia dell’Ospedale e il suo rapporto con la Cittàfascicolo 4 - pagg. 28-36 (ill.)

Trimarchi, GianniKurosawa e la malattia del viverefascicolo 2-3 – pagg. 20-23

Vecchio, LauraUn inaspettato giacimento di sapere: la Biblioteca dell’Istitutoostetrico ginecologico “Luigi Mangiagalli”fascicolo 1 – pagg. 37-39

Vergani, CarloLa Geriatria nell’Ospedale Policlinico - intervista di Sara Casatifascicolo 1 – pagg. 2-6 (ill.)

Vettore, LucianoCome si trasformano e trasformano i processi in una prospettivapartecipativafascicolo 1 – pagg. 10-15

Zanarotti Tiranini, ElisabettaLuigi Offeddu: Storia del bene (rec.)fascicolo 1 – pagg. 40-43La scelta e l’imposizionefascicolo 2-3 – pagg. 72-73L’Ospedale Maggiore di Milano e il suo rapporto con la Città nellastoria di archivio, biblioteca, quadreria e altri beni culturalifascicolo 4 – pagg. 37-45 (ill.)

per argomento

Assistenza sanitariaLa professione infermieristica oggi: per non restare mai senza“nuovi” obiettivi - Marisa Cantarellifascicolo 1 – pagg. 27-30 (ill.)Il mondo assistenziale e la cultura - Luigi Offeddufascicolo 2-3 – pagg. 3-4Marisa Cantarelli: Gli infermieri nella ricerca. metodologia dellaricerca sociale applicata all’infermieristica (rec.) - EdoardoManzonifascicolo 2-3 – pagg. 83-84

Etica medicaKurosawa e la malattia del vivere - Gianni Trimarchifascicolo 2-3 – pagg. 20-23

Fondazione Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli eRegina ElenaCronache amministrativeRubrica fissa trimestraleUn inaspettato giacimento di sapere: la Biblioteca dell’Istitutoostetrico ginecologico “Luigi Mangiagalli” - Laura Vecchiofascicolo 1 – pagg. 37-39L’Ufficio Tecnico di un grande ospedale - Santo De Stefanofascicolo 2-3 – pagg. 59-61I dipinti della Clinica Mangiagalli - il premio d’arte “Maternità”(1966-1968) - Daniele Cassinellifascicolo 2-3 – pagg. 69-71 (ill.)Il Parroco, cardinale Dionigi Tettamanzi, in visita alla suaParrocchia - don Daniele Grassifascicolo 2-3 – pagg. 74-75La Città e l’Ospedale. Dal Medioevo all’età spagnola - EdoardoBressanfascicolo 4 – pagg. 2-8 (ill.)Milano e l’Ospedale Maggiore fra austriaci e francesi (1706-1859)- Cristina Avogadrofascicolo 4 – pagg. 9-14(ill.)L’Ospedale, luogo di crescita scientifico-culturale e assistenzialedella Città in espansione (1860-1980) - Giorgio Cosmacinifascicolo 4 – pagg. 15-26 (ill.)La Farmacia dell’Ospedale e il suo rapporto con la Città - VittorioA. Sironifascicolo 4 - pagg. 28-36 (ill.)

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L’Ospedale Maggiore di Milano e il suo rapporto con la Città nellastoria di archivio, biblioteca, quadreria e altri beni culturali -Elisabetta Zanarotti Tiraninifascicolo 4 – pagg. 37-45 (ill.)1906 - Milano, capitale sanitaria - Giorgio Cosmacinifascicolo 4 – pagg. 46-48 (ill.)

GeriatriaLa Geriatria nell’Ospedale Policlinico - Carlo Vergani- intervista diSara Casatifascicolo 1 – pagg. 2-6 (ill.)La cura del malato - il mondo dell’anziano - Marco Ferrettifascicolo 1 – pagg. 7-9 (ill.)

Individuo e societàLa chiarezza - Antonella Cremonesefascicolo 1 – pagg. 35-36Luigi Offeddu: Storia del bene (rec.) - Elisabetta Zanarotti Tiraninifascicolo 1 – pagg. 40-43Kurosawa e la malattia del vivere - Gianni Trimarchifascicolo 2-3 – pagg. 20-23Il libro, la lettura, l’età - Marisa Pisanifascicolo 2-3 – pagg. 67-68La scelta e l’imposizione - Elisabetta Zanarotti Tiraninifascicolo 2-3 – pagg. 72-73

MedicinaIl mondo assistenziale e la cultura - Luigi Offeddufascicolo 2-3 – pagg. 3-4“Socrate in corsia”: percorsi di senso e di riconoscimento nellaBabele della salute - Paolo Dordonifascicolo 2-3 – pagg. 32-37 (ill.)Io mi racconto, tu mi comunichi - Metafore e immagininell’esperienza della malattia - Lucia Galvagnifascicolo 2-3 – pagg. 40-42L’approccio al malato cronico: esperienza in diabetologia - EmanuelaOrsifascicolo 2-3 – pagg. 43-44 (ill.)Verso quali modelli di “rete” nella medicina della complessità? -Antonella Costantinofascicolo 2-3 – pagg. 47-49La formalizzazione del lavoro per la salute - Antonio Monteleonefascicolo 2-3 – pagg. 55-58Una giornata di medicina partecipativa - Simonetta Bottardifascicolo 2-3 – pagg. 77-78 (ill.)Giorgio Cosmacini: Un medico tra filosofia e medicina (rec.) -Vittorio A. Sironifascicolo 2-3 - pagg. 79-81

Milani, NicolettaRicordiamo Nicoletta Milani - Silvia Panicofascicolo 2-3 – pag. 76 (ill.)

OncologiaQuestioni aperte in oncologia, che è bene chiarire - Enrico Ghislandifascicolo 2-3 – pagg. 38-39

Organizzazione sanitariaLa formalizzazione del lavoro per la salute - Antonio Monteleonefascicolo 2-3 – pagg. 55-58

Problemi del medicoCome si trasformano e trasformano i processi in una prospettivapartecipativa - Luciano Vettorefascicolo 1 – pagg. 10-15Il cambiamento del rapporto medico-paziente negli ospedali: ilmodello milanese - Vittorio A. Sironifascicolo 1 - pagg. 17-20 (ill.)Fra Serendipity ed “effetto Hawthorne” il difficile percorso delclinico che vuol essere “anche” ricercatore - Andrea Finzifascicolo 1 – pagg. 22-26Dal passato. La verità al malato - Alberto Crespifascicolo 1 – pagg. 46-49

PsichiatriaCarlo Lorenzo Cazzullo: Un medico per la libertà (rec.) - MarioManterofascicolo 1 – pagg. 43-44Elisabetta Zanarotti Tiranini: La luce nella mente. Eugenio Medea,precursore della neuropsichiatria e riabilitazione infantile (rec.) -Maurizio De Filippisfascicolo 1 – pagg. 44-45

PsicopatologiaNuovi orientamenti per capire e prevenire la psicopatologia dellosviluppo - Adriana Guareschi Cazzullofascicolo 2-3 – pagg. 50-53 (ill.)

RicercaFra Serendipity ed “effetto Hawthorne” il difficile percorso delclinico che vuol essere “anche” ricercatore - Andrea Finzifascicolo 1 – pagg. 22-26Rudolph Virchow e l’uomo di Neanderthal: storia di un errore? -Marco Moiafascicolo 2-3 – pagg. 28-31 (ill.)Scienziate dimenticate - Francesca Eulisse, Maria Chiara Binotto,Giuseppe Eulissefascicolo 2-3 – pagg. 13-19 (ill.)

Storia di MilanoTra moda e rivoluzione: la Lombardia nel 1848 - Cristina Cenedellafascicolo 1 – pagg. 31-35 (ill.)Due policlinici così diversi, un “unica missione”: la Ca’ Granda perla salute dell’uomo, la “Veneranda Fabbrica” per quella del Duomo -Ernesto Briviofascicolo 2-3 – pagg. 5-10 (ill.)L’Ospedale e la Città: Milano e il “Gaetano Pini” - GiorgioCosmacinifascicolo 2-3 – pagg. 11-12I fantasmi negli archivi - Cristina Cenedellafascicolo 2-3 – pagg. 62-66 (ill.)

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Per la continuità di questa rivista concorre ancheuna disposizione testamentaria della benefattriceGemma Sichirollo.

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Dal Codice Magliabechiano del Trattato di architettura del Filarete: il fronte dell’Ospedale Maggiore. Il pilastrodisegnato in alto commemora la fondazione dell’Ospedale.

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