La Bisanzio dei lumi. · tutto il secolo dei Lumi, l’Impero ro-mano orientale venne criticamente...

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Elisa Bianco, La Bisanzio dei lumi. L’impero bizantino nella cultura fran- cese e italiana da Luigi XIV alla Ri- voluzione, Peter Lang, Berna, 2015, pp. 396 Il 1453 è una data spartiacque fondamentale nella storia euro-me- diterranea, poiché coincide con la ca- duta del millenario Impero bizantino e la fine della sua influenza sull’Oc- cidente. Il volume di Elisa Bianco rac- coglie, con estrema cura e precisione, le diverse prospettive storiografiche che dal Rinascimento al Romantici- smo si sono adoperate nella risco- perta e nell’interpretazione della cul- tura di Costantinopoli, città dal fascino seducente, denominata dalla stessa autrice “Proteo d’Oriente”. Come già preannuncia il titolo stesso del libro, si tratta non soltanto di un confronto diretto con una tradizione di studi bizantini d’ambito francese, italiano e anglosassone, bensì di uno dei primi tentativi, il più organico e complesso apparso sinora, di rico- struzione del vasto panorama delle fonti intorno alla storia dei romani d’Oriente. Per delineare tale percorso, lo stu- dio prende avvio dall’Europa di età moderna lacerata da continue lotte confessionali, scossa dal conflitto franco-asburgico e minacciata dagli Ottomani, eventi questi che fanno da scenario perfetto agli eruditi del tempo per il ritorno in auge di Bi- sanzio e della sua antica civiltà. Se, infatti, a partire dal XVII secolo la ri- scoperta dei testi greci divenne mo- tivo di esaltazione, specie alla corte del “Re Sole” che ne promosse lo stu- dio e la pubblicazione, di contro, per tutto il secolo dei Lumi, l’Impero ro- mano orientale venne criticamente associato al dispotismo sfrenato, al- l’eresia, allo scisma e all’iconoclastia, gettando pertanto le basi del “mito della decadenza”. Soltanto l’Otto- cento, è da considerarsi il periodo culturale che inaugura un approccio prettamente scientifico alla storia bi- zantina pur tuttavia producendo un filone di letteratura romanzata e tea- trale che ha cristallizzato l’immagine di Bisanzio in un modello di metro- poli corrotta e depravata da cui pren- dere le distanze. La ricerca di Elisa Bianco che ap- pare ben informata sul dibattito sto- riografico transnazionale e ben do- cumentata sul piano delle fonti, come dimostra la vasta bibliografia finale, offre un valido apporto scientifico alle ricerche di bizantinistica, passando in rassegna oltre tre secoli di consi- derazioni sulle cause e le conse- guenze del tramonto della Megali Idea greca, attraverso le parole di autore- voli intellettuali quali Wolf, Du Cange, Montesquieu e Gibbon. Le tre 401 37 n. ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online) Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Agosto 2016

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Elisa Bianco, La Bisanzio dei lumi.L’impero bizantino nella cultura fran-cese e italiana da Luigi XIV alla Ri-voluzione, Peter Lang, Berna, 2015,pp. 396

Il 1453 è una data spartiacquefondamentale nella storia euro-me-diterranea, poiché coincide con la ca-duta del millenario Impero bizantinoe la fine della sua influenza sull’Oc-cidente. Il volume di Elisa Bianco rac-coglie, con estrema cura e precisione,le diverse prospettive storiograficheche dal Rinascimento al Romantici-smo si sono adoperate nella risco-perta e nell’interpretazione della cul-tura di Costantinopoli, città dalfascino seducente, denominata dallastessa autrice “Proteo d’Oriente”.Come già preannuncia il titolo stessodel libro, si tratta non soltanto di unconfronto diretto con una tradizionedi studi bizantini d’ambito francese,italiano e anglosassone, bensì di unodei primi tentativi, il più organico ecomplesso apparso sinora, di rico-struzione del vasto panorama dellefonti intorno alla storia dei romanid’Oriente. Per delineare tale percorso, lo stu-

dio prende avvio dall’Europa di etàmoderna lacerata da continue lotteconfessionali, scossa dal conflittofranco-asburgico e minacciata dagliOttomani, eventi questi che fanno da

scenario perfetto agli eruditi deltempo per il ritorno in auge di Bi-sanzio e della sua antica civiltà. Se,infatti, a partire dal XVII secolo la ri-scoperta dei testi greci divenne mo-tivo di esaltazione, specie alla cortedel “Re Sole” che ne promosse lo stu-dio e la pubblicazione, di contro, pertutto il secolo dei Lumi, l’Impero ro-mano orientale venne criticamenteassociato al dispotismo sfrenato, al-l’eresia, allo scisma e all’iconoclastia,gettando pertanto le basi del “mitodella decadenza”. Soltanto l’Otto-cento, è da considerarsi il periodoculturale che inaugura un approccioprettamente scientifico alla storia bi-zantina pur tuttavia producendo unfilone di letteratura romanzata e tea-trale che ha cristallizzato l’immaginedi Bisanzio in un modello di metro-poli corrotta e depravata da cui pren-dere le distanze. La ricerca di Elisa Bianco che ap-

pare ben informata sul dibattito sto-riografico transnazionale e ben do-cumentata sul piano delle fonti, comedimostra la vasta bibliografia finale,offre un valido apporto scientifico allericerche di bizantinistica, passandoin rassegna oltre tre secoli di consi-derazioni sulle cause e le conse-guenze del tramonto della Megali Ideagreca, attraverso le parole di autore-voli intellettuali quali Wolf, DuCange, Montesquieu e Gibbon. Le tre

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principali scuole di pensiero (fran-cese, inglese, italiana) su cui si foca-lizza l’attenzione di un dibattito proo anti Bisanzio, ritrovano comuni ra-dici nell’amore umanistico per la cul-tura orientale vista come emblema disapienza e maestria nelle arti e noncome exemplum vitandum di malgo-verno e fanatismo religioso. L’interesse per il mondo bizantino

prende avvio in Italia già dai primidel Quattrocento, grazie alla polie-drica figura del cardinale Bessarione,attivo nella trasmissione della culturagreco-ortodossa durante e dopo ilConcilio di Ferrara e che nel 1468,anno della morte, fece dono alla cittàdi Venezia della sua ricca biblioteca.Iniziò un lungo periodo di splendoreper la cultura bizantina che vide unserrato reclutamento di greci eruditida parte di facoltosi signori al fine dicopiare e miniare codici classiciscritti in antico demotico e riguar-danti le vicende e le imprese degliimperatori di Costantinopoli. Dopoun lungo letargo, grazie alla filologiaitaliana, videro di nuovo la luce Pro-copio di Cesarea, Agapeto e il suo Ek-thesis, le Storie di Niceta Coniate, laCronaca di Zonara e infine il de ori-gine et rebus gestis Turcorum di Lao-nico Calcondila. È interessante osservare, attra-

verso il presente studio, come la re-pubblica della Serenissima per tuttoil XV e XVI secolo si faccia promotricedella conservazione e della divulga-zione della letteratura greca, tantoche dai torchi delle proprie stamperiefurono pubblicate svariate opere an-che a soggetto turchesco. Il primovero corpus di fonti storiche sui bi-zantini fu, tuttavia, ideato in territo-rio tedesco da Hieronymus Wolf, bi-bliotecario della ricca e influentefamiglia dei Fugger, il quale volle riu-nire in una monumentale opera tutti

i testi greci riguardanti le vicende diCostantinopoli, nell’interesse di ri-vendicare per la Corona asburgica ildiritto legittimo di proclamarsi NeaRhome secondo la teoria della tran-slatio imperii, ideata da Ottone Fri-singa nel XII secolo. Nella prima parte del libro, sud-

divisa in tre capitoli, l’autrice rico-struisce con estrema chiarezza undiscorso di ampio respiro sulle inter -pretazioni storiografiche date daglieruditi francesi al tema della presadi Bisanzio e al tramonto della cul-tura greco-orientale, che ebbe iniziosin dal 1530, prima con la fondazionedel Collège de France per volere diFrancesco I, quindi con la nascita delcollegio gesuita di Clermont (1560) edi quello maurino di Saint-Germain-des-Prés (1618). L’opera di entrambigli ordini religiosi, si configura come“apripista” ai successivi studi di pa-tristica bizantina, mirando alla crea-zione di un’intensa attività editorialepost tridentina che estirpi l’eresiaprotestante e dimostri un’effettivacontinuità fra tradizione apostolica ecattolicesimo. Non meno importante, fu in tal

senso la comunità giansenista di PortRoyale che nella figura di SébastienLe Nain de Tillemont diede allestampe, a fine XVII secolo, una fon-damentale opera: Histoire des empe-reurs. Da storico e teologo, egli vedenella fondazione di Bisanzio un pec-cato, un male letale per la compat-tezza e l’unità dell’Impero romanoche, se fino a quel momento per piùdi seicento anni era riuscito a reggereil peso della sua vastità, adesso, conla creazione di una nuova capitale ela diarchia regia, si avviava inesora-bilmente alla disgregazione tanto po-litica quanto culturale. Nel secondo capitolo, il discorso

prosegue con un interessante appro-

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fondimento sugli studi bizantini allacorte assolutista di Luigi XIV, nellaquale gli interessi per la cultura grecasi intrecciarono mirabilmente con iprogetti propagandistici di grandeurborbonica. Infatti, stando ad un fi-lone storiografico che affondava lesue origini nel testo Gerarchia celestedello pseudo Dionigi, nella cui tra-duzione si cimentò lo stesso LuigiXIII, i sovrani francesi erano da rite-nersi diretti discendenti degli ultimiimperatori romani d’Oriente, consi-derato che con la quarta crociata, Bi-sanzio, seppur brevemente, venne in-globata entro i possedimenti delregno di Francia. Il cerimoniale dicorte bizantino era ben conosciuto eapprezzato specialmente dal “ReSole” che si adoperò nella diffusionedel codice de officiis di Codino, già incircolazione dal 1588 e presente nellabiblioteca del castello di Fontaine-bleau, tanto da essere stato fonte diispirazione per la festa di incorona-zione di Enrico II, durante la qualefu introdotta l’usanza di elargire (lar-gesse) ingenti somme di denaro alpopolino, pratica risalente alla dina-stia dei Paleologi. Nella stessa reggiadi Versailles e nella biblioteca nazio-nale di Parigi, sempre per volere delre, vennero raccolti numerosi manu-fatti di preziosa fattura bizantina le-gati al culto e alla devozione che an-darono ad arricchire il Cabinet desmédailles. L’influenza dei costumi orientali

alla corte francese è evidente finan-che dagli epiteti che al sovrano veni-vano un tempo attributi dai proprisudditi e dignitari; gli stessi titolionorifici di Roi Soleil o “porfiroge-nito”, infatti, deriverebbero dagli ap-pellativi dati agli imperatori bizantinie ricordati da Agapeto nei Capitoliparenetici. Si deduce, dunque, cheper tutto il XVII secolo, la promo-

zione della cultura bizantina divenneper il sovrano di Francia un validomodo per rafforzare la propria posi-zione sullo scacchiere europeo, giu-stificando in senso genealogico,guerre ed espansioni territoriali ascapito degli imperatori tedeschi, ri-tenuti detentori illegittimi e usurpa-tori di un titolo antico. Nelle pretesefrancesi di successione al tronoorientale, Luigi XIV divenne l’incar-nazione del Carolus redivivus o“l’unto del Signore” che avrebbe ri-portato alla restaurazione della respublica cristiana secondo la volontàprovvidenziale di Dio.Grazie al mecenatismo della ca-

sata borbonica, dal 1645 al 1688,prese avvio la composizione del cor-pus monumentum del Louvre sotto lasupervisione dello storico Du Cange,autore dell’Histoire de l’Empire de Co-stantinople sous les empereurs fran-çois. In quest’opera, tagliente neitoni, i Bizantini sono ritenuti colpe-voli di eccessi, crudeltà e perfidiatanto che a causa del fanatismo ali-mentato dalla propria ortodossia re-ligiosa, compromisero l’unità geopo-litica dell’Impero decretandone ilcollasso. La fedeltà alla monarchia,conduce lo storico a confrontare pa-rallelamente Francia e Bisanzio, di-mostrando come ognuno dei sovraniparigini possedesse le stesse qualità(vires, potentia, ratio) dei grandi re-gnanti d’Oriente, ma allo stessotempo superiori capacità di governoe grande acume militare. Nel terzo capitolo, l’interesse ac-

cademico di Elisa Bianco si soffermanell’analisi dei giudizi negativi che ilpredicatore Louis Maimbourg diedealla storia bizantina nella sua più ce-lebre opera Histoire des croisades,bistrattata dai contemporanei per lasua discutibile natura scientifica e leinesattezze cronologiche tanto che

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Quesnel la definì livres pour les fem-mes. L’opera appare sfaccettata peril suo carattere sia storico-encomia-stico che di intrattenimento, il cuistile narrativo dai toni mitici puntaal dilettare il lettore evocando ardi-mentose imprese di cavalieri ed eso-tici scenari. In tale contesto fiabesco,l’Impero bizantino è descritto comecorrotto, ambiguo nel suo essere cri-stiano i cui sovrani, come ad esempioManuele III Comneno denominatonouveau Neron, sembrano essere pre-disposti per natura alla malignità,alla perfidia e alla dissimulazione nel-l’intento di punire i nemici e ingan-nare l’esercito crociato. Da buon ge-suita, Maimbourg scorge nellaconquista ottomana di Bisanzio lamano castigatrice di Dio, pronta apunire severamente gli scismatici persalvaguardare la Chiesa romana; intal senso la condanna dell’iconocla-stia acquista un significato del tuttoattuale, divenendo un monito rivoltoai protestanti affinché essi si ricon-cilino con il papato. Nella seconda parte del volume,

composta da cinque capitoli, l’autricetenta di ricostruire con lavoro certo-sino, le considerazioni espresse dallastoriografia illuminista e romanticaintorno alle vicende bizantine, mo-strando il carattere pregiudizievoledei Lumi nei confronti del Medioevo,visto per antonomasia periodo buiodella cultura occidentale. Tra i primieruditi che nel XVIII secolo misero aconfronto gallicanesimo e mondo bi-zantino, furono Claude Fleury (Hi-stoire ecclésiastique) e Louis Du Pin(Nouvelle bibliothèque des auteurs ec-clésiastiques), i quali fermi su posi-zioni francocentriche evidenzianocome il proprio regno abbia ricopertoun peso rilevante nella risoluzionedei dissidi religiosi sorti fra Oriente eOccidente. Aspetti autenticamente

bizantini, individuati dai due storici,sono l’empietà, l’assenza di pietas eil disprezzo per la religione di cui ilpatriarca Fozio diviene simbolo indi-scusso perché responsabile di tolle-rare atti contro la fede cristiana. Ep-pure, se da un lato nell’opera diFleury appare accesa la critica ai co-stumi tirannici degli imperatorid’Oriente, dall’altro non vi è alcun fe-steggiamento o giubilo per l’assedioe il sacco di Costantinopoli durantela quarta crociata, né alcuna spe-ranza di riconquistare la Terrasantapoiché tale atto segnò l’inizio di tempidifficili per l’Europa in favore del-l’espansionismo turco. Nucleo centrale del libro, è certa-

mente la parte dedicata agli studibizantini di Montesquieu poiché at-traverso la sua penna furono con -segnate ai posteri infuocati giudizisull’Impero greco-orientale creandonell’immaginario collettivo l’idea diuna cultura dedita a «révoltes, de sé-ditions et de perfidies». Egli, padredell’Illuminismo francese e del liberopensiero, scrisse nel 1734 Considé-rations sur les causes de la grandeurdes Romains et de leur décadence,opera che forse trae spunto dai di-scorsi del veneziano Paolo Paruta enella quale si asserisce che tra leprincipali cause della caduta di Romavi furono: l’enorme espansione terri-toriale, la meschinità degli impera-tori, la degenerazione della disciplinamilitare ma soprattutto la diffusioneforzata del cristianesimo a scapitodella secolare eterogeneità religiosa.L’anticlericalismo e il giurisdizionali-smo, conducono Montesquieu a es-sere intransigente nei confronti dellafede cristiana, responsabile di averammollato gli animi dei cittadini ro-mani, fuso e confuso la sfera laicacon quella spirituale ed infine di averfratturato in due nette parti la com-

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pagine politica dell’Impero con il tra-sferimento della capitale dall’Italia alBosforo, ad opera di Costantino ilGrande. Interessanti appaiono le conside-

razioni del filosofo sul mal governobizantino, poiché offrono l’occasioneper affrontare due temi di riflessione,già discussi nell’Esprit des Lois, a luiparticolarmente cari: la tolleranza ela libertà confessionale. L’Impero, in-fatti, nella sua natura pagana, primaancora di essere contaminato dal cri-stianesimo, è oggetto di lode per latolleranza culturale che seppe dimo-strare nei riguardi dei popoli accoltientro i confini del suo territorio. Suquesta scia, imperatori come Giu-liano l’Apostata vengono rivalutatiagli occhi della storia dopo esserestati cancellati dalla damnatio memo-ria cristiana, mentre, di contro, ven-gono sminuite le figure di Giustinianoo Basilio I, ritenuti scellerati e su-perstiziosi despoti pronti a mutilare,accecare e incarcerare ingiustamentei sudditi. A questo punto, sorge spontanea

al lettore la domanda: l’età dei Lumiè da considerarsi un unico compattoattacco sferrato alla cultura di Bi-sanzio e alle sue multiformi manife-stazioni? La risposta dell’autrice è ov-viamente negativa. Ciò lo si puòfacilmente dedurre leggendo il capi-tolo dedicato agli studi voltairiani sultema dell’iconoclastia e del fenomenodelle crociate francesi a Gerusa-lemme nell’Alto Medioevo. Voltaire,pur essendo uno dei maggiori rap-presentanti dell’anti-bizantinismo delSettecento, nel suo volume Le pyr-rhonisme de l’histoire, se da un latovede in Bisanzio un chiaro esempiodi regime assolutistico, dall’altro con-danna gli abusi dell’iconodulia cat-tolica appoggiando di buon grado lapolitica iconoclasta degli imperatori

orientali, intenti ad arginare il mo-nopolio economico raggiunto dai mo-naci nel fiorente mercato delle reli-quie e delle immagini sacre. Lecrociate, inoltre, danno modo a Vol-taire di lanciare una dura invettivacontro il potere temporale e teocraticodei papi, specialmente quello di Ur-bano II e Gregorio VII, poiché dietrol’apparente pellegrinaggio armato inTerrasanta si celò il desiderio di sot-tomettere Bisanzio alla Chiesa latina. Questo contraddittorio atteggia-

mento filo bizantino di Voltaire sievince anche dal fatto che nel 1778a Parigi compose e mise in scenal’Irène, una tragedia ambientata allacorte orientale, in cui il protagonista,l’imperatore Alessio I Comneno, è ri-tratto come un saggio eroe che haliberato il trono dal giogo del tirannoNiceforo. La storia trae spunto daun’opera greca al tempo conosciuta,l’Alessiade, scritta dalla principessaAnna Comnena in ricordo del padre,dove vengono denunciati i misfatti ei crimini commessi dall’orda latinadei crociati che come barbari osa-rono violare le nobili terre d’Oriente,offendendo la millenaria civiltà bi-zantina. Eppure il 1261 diviene ilturning point nelle relazioni bizan-tino-voltairiane poiché a partire daquesto momento la prospettiva delfilosofo cambia, tornando ad esseredi nuovo anti-bizantina a seguitodella salita al trono della dinastia diMichele VIII, ritenuta artefice di uninarrestabile processo di decadenza.La critica illuminista ai costumi bi-zantini, inoltre, prosegue in campogiuridico nelle opere del franceseCharles Le Beau (Histoire du BasEmpire) e in quelle italiane di Ales-sandro Verri (Caffè o sia brevi e varidiscorsi) e Cesare Beccaria (Dei de-litti e delle pene), dove sembra deli-nearsi un forte spirito “antitribo-

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niano” ovvero di ostilità e diffidenzanei riguardi del Corpus Iuris Civilisgiustinianeo, considerato soltantoopera di manipolazione e frammen-tazione del diritto classico romano,la cui responsabilità venne attribuitaa Triboniano. Nel penultimo capitolo del libro,

l’autrice si sofferma a ricostruire leconsiderazioni fatte oltralpe da emi-nenti studiosi italiani come LudovicoAntonio Muratori e Francesco Be-cattini, spese tra erudizione e pro-paganda patriottica. L’immaginemuratoriana dell’Impero bizantinoemerge soprattutto dagli Annalid’Italia, dalle Dissertazioni sopra leantichità italiane e in Rerum italica-rum scriptores, opere complesse perla cui realizzazione furono utilizzatefonti inusitate e rare. Nel pensierodi Muratori, influenzato dallo storicomodenese Carlo Sigonio, il principiodella translatio imperii di Carlo Ma-gno non ha alcuna solida validitàgiuridica poiché, pur considerandoche nel IX secolo a Bisanzio regnavaillegittimamente una donna, Irenel’Ateniana, il titolo di Imperator SacriRomani Imperii appare del tutto ono-rifico e anacronistico. C’è di più, ilgusto patriottico dello storico fa sìche i regni longobardi e gotici del-l’Italia centrosettentrionale siano vi-sti come esempi di buona autonomiagovernativa e di età dell’oro della pe-nisola, fortemente minacciati dalleambizioni dispotiche di Giustinianoe del suo fedele generale Belisario. Il capitolo conclusivo che sug-

gella la ricerca scientifica di ElisaBianco, è tutto incentrato sul dibat-tito storiografico bizantino in ambitoanglosassone e sull’eredità illumi-nistica riscontrabile nell’opera De-cline and fall of the Roman Empire(1776-1788) di lord Edward Gibbon.Questi, partecipe della cultura

franco-britannica, condivide con iphilosophes l’idea dell’unità della de-cadenza che coinvolge tutto l’Imperola cui origine sarebbe da ricercarsinella vastità dei suoi possedimentie nella tetrarchia diocleziana checondusse alla quadripartizione dellacompagine romana. Gibbon, tutta-via, prende le distanze da Voltaire eMontesquieu sul tema delle crociatepoiché sono ritenute dallo storicomotivo di acceso fanatismo religiosooltre che ponderato progetto degliStati europei di esportare il feuda-lesimo in Oriente. In diversi capitoli,Gibbon, si sofferma sull’analisidell’organizzazione dell’esercito edella marina bizantina, sull’equipag-giamento e le fortificazioni, sulle tec-niche di combattimento e sull’im-piego di mercenari, concludendo chele forze militari orientali non eranoper nulla inferiori a quelle arabo-persiane né a quelle franche. Unicopunto debole delle armate greche,secondo lo storico, era l’assenza divalore, di coraggio e amor patrio,fondamentali caratteristiche re-presse da un senso di remissività erassegnazione contaminati dal fer-vore ecclesiastico. Gibbon, inoltre, continua gli

studi sui costumi bizantini, pre-stando il proprio supporto allacausa iconoclasta cercandone i mo-tivi che nell’VIII secolo ne determi-narono la sconfitta e otto secolidopo, con la Riforma luterana, ilsuccesso. Lo storico inglese riscon-tra una reale degenerazione nelculto delle icone sacre a partire daCostantino e, spingendo la sua ri-flessione attraverso i secoli, giungead esprimere un sintetico giudiziosulla condanna dell’idolatria dellereliquie nel tardo Medioevo e sullecritiche mosse da Lutero attorno atale pratica oscurantista.

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Concludendo, possiamo dire cheil volume di Elisa Bianco, nella cuiparte finale troviamo la lista dellefonti e una ricchissima bibliografia,rappresenta il punto di arrivo di de-cenni di ricerche, ma contestual-mente un importante punto di inizioper approfondire i futuri studi su Bi-sanzio e il suo multiforme mondo.

Andrea Ferruggia

Cesarina Casanova, Per forza o peramore. Storia della violenza familiarenell’età moderna, Salerno editrice,Roma, 2016, pp. 157

Sono oltre cinquanta i casi di fem-minicidio nei primi sei mesi del 2016.Una pagina web del Corriere dellasera, in costante aggiornamento e in-teramente dedicata a La strage delledonne, mostra i volti, l’età e ildramma subito dalle vittime di vio-lenza. Senza entrare troppo nel me-rito di dati statistici va detto che, se-condo l’ultimo rapporto Eures(Secondo Rapporto sul femminicidio inItalia Caratteristiche e tendenze del2013, Roma 2014), a fronte di unadiminuzione dei casi di omicidio nondiminuiscono i femminicidi. Appareforse inutile rimarcarlo troppo, ma iltema non solo e non tanto dei fem-minicidi quanto, più in generale,della violenza di genere nelle sue mol-teplici sfumature e accezioni è un ar-gomento di scottante attualità.

Per forza o per amore, il breve, perestensione, ma intenso per contenuti,libro di Cesarina Casanova, riper-corre alla luce di quella che ormaiappare essere un’emergenza sociale,la Storia della violenza familiare nel-l’età moderna, come recita il sottoti-tolo dello stesso. Sin dalle ricche pa-gine introduttive l’Autrice è condotta

in un serrato, ma necessario, con-fronto tra passato e presente. Il rac-conto dei fatti accaduti nella Bolognadi età moderna sono lo stimolo perrecuperare le fila e le radici di un re-taggio culturale tutt’oggi ancoratroppo difficile da sradicare. È notorioche «chi ha pagato di più la presuntastabilità sociale del passato – scrivela Casanova – sono stati le donne e iminori, soggetti all’autorità dei padrie dei mariti ampiamente riconosciutadalle leggi civili e canoniche» (p. 18).In tal senso, è inevitabile il richiamo,nelle pagine del libro, alla storia degliistituti giuridici le cui origini si collo-cano in epoche lontane ma la cuiabrogazione si è avuta solo in tempimolto recenti. L’abolizione della doteo del delitto d’onore, avvenuti in Italianel 1975 il primo e nel 1981 il se-condo, sono solo due dei diversi isti-tuti giuridici su cui per secoli si sonorette le trame socio-culturali e chevengono prese in considerazionedalla Casanova. Numerosi e vari sono gli spunti

trattati e da tener necessariamentein considerazione per discutere leforme assunte dalla violenza di ge-nere nell’età moderna: la trattati-stica, le relazioni familiari e con essele questioni matrimoniali. Attornoalla possibilità o meno di avere unadote e soprattutto circa la sua com-posizione e il suo valore ruotava granparte potremmo dire – senza esage-rare troppo – del sistema familiare esocio-economico dell’Antico Regimee anche oltre.La Casanova tratta attentamente

ognuno di questi aspetti nei cinquecapitoli che compongono il libro,componendo un quadro dettagliato ecomplesso dal quale dedurre i profilidelle vittime (donne e bambini di ognisesso) e dei carnefici (mariti, parentie frequentatori degli ambienti dome-

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stici), ma anche e soprattutto per de-lineare «le strutture mentali e i riferi-menti culturali condivisi» tra i diversiprotagonisti delle storie (p. 33). Il ri-gido schema sociale che contraddi-stingueva le società di epoca mo-derna e di cui possono notarsipropaggini anche in tempi non troppolontani da noi, prevedeva, senza al-cuna eccezione, la subalternità fem-minile alla quale faceva da contral-tare o comunque era sostenuta dauna ferma e altrettanto longeva tra-dizione misogina, tramandata da unavasta letteratura. In tal senso, ilprimo capitolo del volume è dedicatoa ripercorrere la lunga “stagione diproduzione pedagogico-moraleggian -te” (p. 24), inaugurata nel corso delQuattrocento dai numerosi trattatiintenti a fornire modelli edificanti perdettare i diversi stili comportamentaliche ciascuno doveva assumere a se-conda del proprio ruolo nella società(padre, madre, figlio, figlia, balia, mo-glie, etc.). In diversi casi si trattava,come fa notare l’Autrice, di testi cheebbero un ampio successo, contandonumerose ristampe a distanza dimolti secoli.Il vero cuore del libro è, poi, rap-

presentato dallo spoglio delle carteprocessuali conservate nel fondo delmaggiore tribunale criminale, il Tor-rione, della Bologna di età moderna.Il complesso documentario analizzatorappresenta, come sottolinea la Ca-sanova, un unicum nel panorama ita-liano. Degli oltre tremila processi,consultati a campione, è stato con-dotto uno spoglio sistematico sui fa-scicoli processuali per il quinquenniodal 1671 al 1676, all’epoca in cui fuuditore Gian Domenico Rainaldi, unodei più rilevanti giuristi della Bolognadel tempo. Nel raccontare e descri-vere l’organizzazione del foro bolo-gnese e le sue interazioni con il con-

testo sociale, la Casanova sottolineaanche le dinamiche operative del tri-bunale: «il processo veniva avviatoquando una denuncia era sostenutada indizi sufficienti e da testimoni di-sposti a confermare l’accusa del que-relante» (p. 35), fatta eccezione per icasi in cui l’uditore riteneva di doverprocedere d’ufficio. Rientrava traquesti ultimi casi lo “stupro violento”. Quasi a voler seguire un fil rouge,

nei restanti quattro capitoli del libro,l’Autrice traccia via via i diversi casidi violenza, dai meno gravi a quellipiù gravi, subiti nelle diverse fasidella vita di una donna in età mo-derna. Il secondo capitolo è, in talsenso, dedicato ai “minori”, tenendoconto di due distinti aspetti, vale adire la prematura età delle donne almomento in cui contraevano matri-monio di fatto combinato dalla fami-glia di origine e, dall’altro lato, altema assai più delicato degli abusisui minori. «La precoce nuzialità fem-minile è un elemento fondante il si-stema dei lignaggi e l’asimmetria, inessi dei ruoli di genere» (p. 49). Le vi-cende matrimoniali dei più alti ranghidella società di Antico Regime e, nellafattispecie, le trattative matrimonialitra le case regnanti attestano comenon si tenesse affatto conto dell’etàdei contraenti. Anzi, le condizioniideali per favorire la politica del li-gnaggio erano un’alta dote e unabassa età della sposa. La fanciullezzadi queste piccole donne portate al-l’altare è per altro documentato dallapresenza, in diversi casi, di bambolenegli inventari dotali (p. 49). La questione dell’infanzia e degli

abusi sui minori, invece, è un argo-mento di fatto già indagato per Bolo-gna e anche per altre realtà italiane,come dimostrano i confronti che laCasanova propone nel testo e nell’ap-parato delle note critiche al volume

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(si veda a riguardo e prima di tuttoO. Niccoli, Il seme della violenza.Putti, fanciulli e mammoli nell’Italiatra Cinque e Seicento, Roma-Bari1995). La Casanova ritorna, dunque,sull’argomento ricostruendo i sei casiriscontrati nelle fonti processuali og-getto della sua indagine. Un numeroche solo in parte può sembrare esi-guo se si tiene conto delle informa-zioni che, invece, possono dedursi daessi. Tra le vittime di abuso vi eranoindistintamente maschi e femmine,di età compresa tra i dieci e i dodicianni, originari della città così comedella campagna, di ceti sociali piùagiati così come di ceti meno agiati.A questo riguardo, ciò che appare in-teressante porre in evidenza è, in-tanto, il processo in sé, che in alcunicasi non andò oltre la denuncia e chesolo in un caso portò all’impiccagioneper il violentatore della piccola Fran-cesca Zappoli. Scrive l’Autrice, infatti,che: «molti di questi processi – rife-rendosi per altro a gran parte dei casitrattati nel volume – non si conclu-devano con l’applicazione della penaordinaria (l’impiccagione) e spessoneppure con altre sanzioni perchél’accusa non era sostenuta da proveinoppugnabili ma solo dalla testimo-nianza delle vittime» (p. 54). La com-plessità e l’eterogeneità dell’operatoistituzionale è, tra gli altri, uno deicampi di indagine privilegiati dall’Au-trice, sempre attenta a tener contodel decorso dell’iter burocratico. Trale altre cose, però, appare a mio diremolto singolare notare il ruolo “at-tivo” delle donne – maritate e non ve-dove – che sceglievano di denunciaregli abusi perpetrati ai danni dei pro-pri figli e su cui forse sarebbe statointeressante sviluppare qualche mag-giore considerazione. Entrando, poi, negli interni dome-

stici e provando a scorgere e riper-

correre le storie di violenza familiareci si trova davanti a una “realtà in-confessabile”: i rapporti incestuosi.Questi ultimi erano tra i frequenti eimpenetrabili segreti della mentalitàe del costume dell’epoca di cui nonresta traccia nelle fonti processuali,ma di cui è tramandata nella lettera-tura un’immagine a tratti anche “no-bilitata”, come mostra l’Autrice pro-ponendo alcuni tra i casi più noti, daEdipo a Lucrezia Borgia. Con il quarto capitolo si analizza

la casistica, a quanto pare, più nu-merosa di molestie o violenze ses-suali ai danni di fanciulle in età damatrimonio e prossime alle nozze.In Antico Regime per stupro si in-tendeva ogni tipo di rapporto ses-suale – anche consensuale – conl’amata illibata o presumibilmentetale. Ed è proprio nella fase o, permeglio dire, in età di corteggiamentoche venivano denunciati i casi di“stupro” perpetrati “per forza o peramore”, riprendendo le parole del ti-tolo del volume e del quarto capitolo.Attraverso la discussione di questiultimi si apre la strada a considera-zioni di varia natura circa i diversiescamotage messi in atto dalle gio-vani coppie per convolare a nozzenon sempre approvate dalle rispet-tive famiglie. In tal senso, la Casa-nova offre tutti gli elementi neces-sari a contestualizzare correttamentequesti casi di violenza a volte quali-ficati come forzati e altre volte orga-nizzati “per amore”. Ancora unavolta, l’attenzione all’operato del forocriminale fa emergere che la neces-sità di preservare l’onore dell’indi-viduo o della famiglia e, molto piùspesso, l’impossibilità di avere delleprove certe, difficilmente compor-tava l’adozione di pene dure e severenei confronti dei numerosi «reati,nascosti, circoscritti alla sfera in-

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tima, quindi quasi sempre sfuggentiper un giudice che non si acconten-tasse di vaghe dicerie divulgate dafonti malevole o da un amante de-luso» (p. 90). Chiude il libro il capitolo dedicato

a quelli che noi oggi chiameremmofemminicidi. Due in particolare sonoi casi presi in esame, quello di MariaGentile Nanni e quello di GiacomaAvanzi, i cui cadaveri furono trovatilungo i canali dei mulini rispettiva-mente di Granaglione e di Pontec-chio, comunità dell’entroterra bolo-gnese. Entrambe le donne erano,stando alle numerose testimonianzeraccolte durante i lunghi processi delTorrione, mogli di uomini particolar-mente lascivi. In nessuno dei duecasi fu appurata la causa della loromorte, in quanto l’esame dei corpilasciava troppi dubbi per poter ipo-tizzare sia un omicidio che un suici-dio. Le diverse testimonianze, dal-l’altro lato, denunciavano icomportamenti dei rispettivi maritie le frequenti intenzioni degli stessiad avvelenare le mogli o a commis-sionarne l’uccisione. Insomma, i singoli casi proposti

nel volume sono stati appositamenteselezionati per il loro forte valore em-blematico. Attraverso la loro letturapossono trovarsi spesso elementi dicontinuità, nei moventi e nelle dina-miche, con i fatti cui ormai quotidia-namente veniamo informati dai me-dia. Lo sfondo comune a tutte lestorie raccontate si compone di «in-terni domestici, stili di corteggia-mento, rapporti brutali [classificati]come abituali e comuni ad ampistrati della società, non necessaria-mente quelli inferiori» (p. 131).

Per forza o per amore concorre aoffrire interessanti spunti e consi-derazioni necessari per inquadraresempre più chiaramente il fenomeno

della violenza di genere in una pro-spettiva di lungo periodo. Esso sipone peraltro all’interno di un re-cente filone di studi della gender hi-story proiettato a interrogare conun’ottica multidisciplinare la vio-lenza di genere in un confronto dia-lettico tra passato e presente e i cuiesiti di ricerca stanno via via ve-nendo alla luce (si veda per questoil numero monografico dedicato altema in questione della rivista «Ge-nesis», o ancora gli atti del convegno,in corso di pubblicazione, La vio-lenza contro le donne in una prospet-tiva storica. Contesti, linguaggi, poli-tiche del diritto (secoli XV-XXI), Roma,27-28 novembre 2015). Nel moltiplicarsi di interventi

normativi a livello mondiale, euro-peo e nazionale, da oltre un venten-nio è stato stabilito ormai in via de-finitiva che la violenza di genere è,a tutti gli effetti, una violazione deidiritti umani. Eppure appare evi-dente che ancora molti passi deb-bano farsi per riconoscere e contra-stare qualsiasi forma di violenza.Anche l’emergenza contemporaneasu questo fronte e la necessità difavorire e garantire la prevenzionedi abusi di ogni tipo ai danni del ge-nere femminile e non solo, è allabase di studi come quello di Cesa-rina Casanova volti a favorire la co-noscenza complessiva di un feno-meno che, pur apparendo diestrema attualità, in realtà affondale proprie radici molto lontano neltempo. Non ci sono confini geograficio culturali per la violenza di genere.Uno sguardo nel lungo periodo allastoria della violenza pur mostrando– a dir vero pochi – elementi di cam-biamento denuncia l’immutata per-vasività e pericolosità che essa haper la società.

Valeria Cocozza

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Guido Candiani, Dalla galea alla navedi linea. Le trasformazioni della ma-rina veneziana (1572-1699), Città delSilenzio, Novi Ligure, 2012, pp. 344

Quello di Guido Candiani è un la-voro con alle spalle un’accurata epuntuale indagine archivistica e bi-bliografica, che va ad affrontare unodei periodi cruciali della storia marit-tima veneziana, il XVII secolo, trat-tandolo attraverso un approccio nonesclusivamente navalista ma a tutto-tondo. Il Seicento è il secolo dellagrande trasformazione della Marinadi San Marco, della nascita della com-ponente velica (Armata grossa) e delprogressivo declino, come forza dibattaglia, della flotta remica, con ga-lee e galeazze sempre più relegate aimargini dei grandi eventi bellici dalprotagonismo dei vascelli da guerra(dapprima mercantili armati, olandesie inglesi principalmente, poi navi dilinea statali costruite in Arsenale).La composizione, l’organizzazione

e il funzionamento della marina ve-neziana sono oggetto di una storio-grafia ricchissima, ma sostanzial-mente limitata al Medioevo e al XVIsecolo. Ciò non deve sorprendere: ilcliché del protagonismo delle cittàmarittime italiane nell’età medievalecon un’appendice che tocca l’età mo-derna arrivando a Lepanto, per poilasciar spazio, fino all’età contempo-ranea, alla decadenza, ha condizio-nato pesantemente la storiografia na-vale fino a tempi recentissimi. Solonegli ultimi anni, grazie anche al la-voro del gruppo di ricerca che fa capoal Laboratorio di Storia marittima enavale dell’Università di Genova (dicui Candiani è socio fondatore), sista riscoprendo – attraverso un’inda-gine archivistica a tutto campo, unapproccio metodologico multitema-tico e una riflessione che va oltre la

dicotomia splendore/decadenza –una realtà le cui caratteristiche sonoben lontane da quelle che le attri-buiva il cliché. Invece di un mondo sclerotizzato,

incapace di evolvere e tecnicamentearretrato gli studi ci presentano unarealtà vivace, dinamica e tecnica-mente in grado di stare al passo conle novità di matrice nordica. Una re-altà mediterranea in cui la gente dellaPenisola è ancora presente sul mare;non protagonista assoluta come nelMedioevo ma non certo scomparsa.Le marinerie italiane non perdono leproprie attitudini, conoscenze e com-petenze e non vengono emarginatedallo strapotere dei nordici. Anzi, inuno spazio, quello mediterraneo, incui va via via aumentando la pre-senza e il peso di inglesi, olandesi efrancesi, gli armatori e i marinai degliStati italiani sanno ritagliarsi i proprispazi: commerciano, combattono, pe-scano, interagendo con i nuovi pro-tagonisti e con gli altri attori in scenanel Mare Nostrum (gli ottomani, i bar-bareschi, gli spagnoli, ecc.).Ciò è vero soprattutto per Venezia,

la cui Marina da guerra, nel XVII se-colo, lungi dall’essere in una fase diirreversibile decadenza, combatteconflitti per il controllo dell’Adriaticoe per la supremazia navale nel Le-vante mediterraneo, ha potenzialitàumane e materiali notevoli ed evolvesotto il profilo tecnico accogliendo lenovità nordiche – la nave da guerraa vela e la tattica della linea di fila,in primo luogo – e adattandole al tea-tro mediterraneo (per il quale, è benesottolinearlo, non sempre erano diper sé idonee). L’attenzione di Candiani si con-

centra non a caso sulla fine del XVI esul XVII secolo, una fase cruciale,come ho già accennato, nella storiamarittima veneziana, scandita da una

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serie ininterrotta di conflitti navali:due particolarmente intensi e lunghi– la guerra di Candia (1645-1669) ela prima guerra di Morea (1684-1699)–, altri parimenti lunghi ma meno in-tesi – come la guerra di corsa con gliAsburgo in Adriatico e il conflitto congli uscocchi (1574-1615) –, altri an-cora più brevi – come la campagnadel 1572 contro gli ottomani, laguerra di Gradisca (1615-1617) e ilconflitto col viceré di Napoli, duca diOsuna (1616-1620). Più in generale,gli anni che vanno dal 1572 al 1699sono caratterizzati, dopo lo strascicodella guerra di Cipro (campagna na-vale del 1572), dapprima da un lungoperiodo di tensione “a bassa inten-sità” con gli Asburgo (1574-1635), epoi da un altrettanto lungo e ben piùintenso periodo di rinnovata conflit-tualità con l’Impero ottomano.È questo il quadro di riferimento

in cui Candiani colloca la grande tra-sformazione della Marina veneziana:se alla fine del Cinquecento la flottadella Serenissima era ancora compo-sta esclusivamente da galee e gale-azze, cento anni dopo essa sarà com-posta in primo luogo da vascelli dabattaglia, con le unità a remi relegatea compiti operativi complementari:pattugliamento, controllo del mare,polizia marittima, controcorsa e sup-porto delle unità a vela. Compiti com-plementari, ma non subordinati: èbene sottolineare, infatti – come pun-tualmente fa Candiani – le unità aremi continuarono a essere presentinella flotta «non come un sempliceretaggio del passato, ma come unarisposta concreta a determinate esi-genze di politica navale che, consi-derata nella sua totalità, non si è maiesaurita, oggi come allora, nella solalotta tra flotte da battaglia».Questa grande trasformazione è

scandita da due fasi. La prima, che

Candiani individua negli anni 1610-1670, caratterizzata da una politicadi noleggio di vascelli mercantili, os-sia di utilizzo di mercantili armati,preferibilmente stranieri (olandesi einglesi) ma anche veneziani. La se-conda, che prende avvio negli anniSettanta, durante la quale venne va-rato un programma di costruzione divascelli da guerra statali, con lasquadra pubblica di navi di linea (for-mata a partire da un nucleo di unitàottomane, catturate ed inglobatenella flotta nel 1651) che andò pro-gressivamente a prendere il posto deimercantili armati come nerbo dell’Ar-mata grossa. Un passo decisivo che non mancò

di incidere in modo determinantesulla fisionomia della Marina daguerra e della cantieristica militareveneziana, portando alla riorganizza-zione della flotta (rivoluzionata sottoil profilo dell’organica, della tattica edella dottrina operativa) e alla ristrut-turazione dell’Arsenale; senza peròsconvolgere le linee guida della poli-tica navale veneziana, incardinata sudue saldi pilastri: la flotta permanentee la riserva navale da armare in casodi necessità (siano esse remiche o ve-liche). Alla fine di questa seconda fase,il passaggio epocale dalla preminenzadel remo a quella della vela si puòdire compiuto, con la consegna allaVenezia del Settecento di uno stru-mento marittimo-militare nuovo, mo-dernizzato sotto il profilo materiale,duttile e flessibile, che coniugava insé le novità nordiche, l’esperienza me-diterranea e la tradizione gestionalesemiprivata veneziana.Candiani affronta questi temi at-

traverso un’esposizione ricca e densa,che principia dalla storia delle ope-razioni navali per approdare al deli-cato tema del rapporto tra Stato, pa-triziato e flotta. Il lavoro si sviluppa

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in due parti. Nella prima si ripercor-rono gli avvenimenti che interessanola marina della Serenissima dal 1572al 1669: una storia politica e navale-operativa – poco quotata negli ultimidecenni e di cui si sentiva la man-canza, soprattutto nella misura incui essa costituisce il quadro di rife-rimento nel quale va collocata l’ana-lisi tematica – trattata con un ap-proccio agile, snello, arricchito da unpuntuale ricorso alle fonti d’archivio.La seconda parte è dedicata alla de-scrizione e all’analisi delle strutturedella Marina veneziana in una pro-spettiva dinamica, articolata non soloattraverso la distinzione tra Armatasottile e Armata grossa, ma anche,trasversalmente, attraverso l’analisidella componente permanente e diquella straordinaria (ossia delle ri-sorse navali sempre in servizio e diquelle mobilitate solo in risposta acircostanze di emergenza). L’analisi dell’organizzazione della

Marina diventa poi occasione – comedetto – per trattare del rapporto fraStato, patriziato e flotta. Ma non solo,anche di politica navale e commer-ciale (nella misura in cui, ad esempio,la decisione di noleggiare mercantiliarmati olandesi e inglesi piuttostoche veneziani era determinata dallavolontà di non distogliere risorse na-vali dal commercio e al contempo sot-trarne ai concorrenti) e di leva ma-rittima nelle sue declinazioniter ritoriali – Venezia, Dogado, Terra-ferma veneto-lombarda, Levante(Dalmazia, Isole Ionie, Creta) – comeistituto sul quale agiscono al con-tempo i rapporti fra il governo, lacittà, i suoi domini, gli interessi delpatriziato veneziano e della nobiltàlocale. E ancora: del rapporto tra co-mandanti patrizi (ufficiali militari) ecapitani non nobili (capitani di co-perta), un tema centrale nella genesi

della professione navale; di lavoromarittimo (sulle navi e sulle galee);di relazioni internazionali e, infine,di rappresentazioni, comportamentie mentalità (nella misura in cui, adesempio, il comando delle galee erapreferito a quello delle ben più po-tenti navi da guerra a vela perché piùprestigioso. La galea: elegante, ma-gnifica a vedersi, con una ciurma di-sciplinata che si muoveva all’uni-sono; immagine del potere delpatriziato della Serenissima).Il tema centrale resta tuttavia

quello del rapporto tra Stato, patri-ziato e flotta, su cui si concentrano,non a caso, le conclusioni. Candianimette l’accento su un’iniziale condi-zione di maggior presenza dello Statonella gestione della flotta attraversol’incremento delle galee ciurmate conforzati, introdotte a metà Cinquecentoe arrivate, negli anni Novanta del se-colo, a costituire la quasi totalità dellaflotta permanente. Un processo distatalizzazione della Marina quindi,precedentemente formata da galeeciurmate con rematori liberi reclutatidai patrizi al comando delle unità eora da unità equipaggiate diretta-mente dallo Stato con forzati (galeestatali con ciurme statali). Un pro-cesso caratterizzato da una bruscainversione a partire dalla metà deglianni Novanta con l’introduzione dellagalea a ciurma mista (rematori forzatie liberi): una soluzione che coinvol-geva nuovamente il patrizio coman-dante nella gestione economica del-l’unità, attraverso l’investimento didenaro proprio nel reclutamento dellaciurma, e che dava quindi nuova-mente una connotazione privatistica– o meglio semiprivatistica – alla flotta(galee statali con ciurme in parte sta-tali e in parte private). Ma non bisogna vedere nella

mancata statalizzazione della flotta

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remica necessariamente un fattoredi arretratezza. Se è vero che «stata-lizzati e burocratizzati già nei secoliprecedenti i mezzi, il governo vene-ziano si mostrò molto più restio aseguire questa strada per gli uo-mini», è anche vero che il rinnovatocoinvolgimento del patriziato nellagestione economica delle galeespinse i nobili veneziani a mantenereuna stretta interconnessione tral’amministrazione dello Stato e i loropatrimoni privati (investiti nelle ga-lee), legando quindi strettamente alservizio pubblico buona parte delceto dirigente, attraverso l’interesseeconomico, fino alla definitiva stata-lizzazione della flotta remica nel1774. Tutto ciò relativamente all’Ar-mata sottile.Per l’Armata grossa – che dalla

fine del Seicento diviene la compo-nente principale della flotta, costi-tuendone la forza da battaglia – lacompleta statalizzazione non arriveràmai. Candiani sottolinea come lasquadra di navi di linea, sebbenecomponente primaria della flotta, re-sti un «mondo estraneo alla mentalitànavale del patriziato della Repub-blica». Il comando di una nave di li-nea rimane un incarico meno presti-gioso rispetto al comando delle galee,nonostante siano le navi la compo-nente militarmente più importantedella flotta. E anche le maggiori diffi-coltà nella gestione di equipaggimeno militarizzati contribuiscono alloscarso appeal che il comando di unvascello esercita sui patrizi veneziani.La Marina veneziana che ha la

propria genesi nel Seicento è quindiun organismo articolato in due com-ponenti, remica e velica, entrambestatalizzate solo parzialmente. UnaMarina moderna sotto il profilo tec-nologico, operativo e tattico ma cheresta, per così dire, «in mezzo al

guado, tra tradizione e modernizza-zione», perché la statalizzazione deimezzi non è accompagnata da quelladegli equipaggi. Dall’analisi di que-sta peculiare trasformazione biva-lente, all’insegna di una parziale eincompleta modernizzazione, emergeuna Marina che è «molto meno na-zionale di quanto la storiografia siastata indotta a ritenere»: una Marinalegata a doppio filo a quel patriziatocittadino che era chiamato a gestirlae a investire in essa. Lo Stato erapresente, sotto il profilo materiale elogistico, ed era partecipe dei costidi gestione che tuttavia ricadevano,come del resto le responsabilità, ingran parte sui privati, cioè sui pa-trizi. Quel che ne derivò fu un rap-porto patriziato-Marina che impedìla formazione, la definizione e il con-solidamento di quel naval serviceche, su modello inglese, divennetratto caratteristico di tutte le mo-derne Marine da guerra europee: «laflotta rimase fino all’ultimo patrizia,ma non divenne mai realmente“veneziana”».

Emiliano Beri

Fabrizio D’Avenia, La Chiesa del re.Monarchia e Papato nella Sicilia spa-gnola (secc. XVI-XVII), Carocci, Roma,2015, pp. 183

Fornire un quadro della situazionegiurisdizionale della Sicilia spagnolaè un compito arduo. La pletorica or-ganizzazione istituzionale dell’isola, lenumerose figure e i molti interessiche vi agivano, con suddivisioni e so-vrapposizioni di competenze inevita-bilmente incerte e conflittuali, ren-dono più ricco di asperità un terrenogià di per sé generalmente acciden-tato. Per giunta, quasi a complicareulteriormente le cose, l’autore parte

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da una interpretazione di giurisdi-zione non limitata alla mera azionegiuridica, ma estesa anche e soprat-tutto alla facoltà di esprimere un po-tere decisionale politico. Lettura im-prescindibile della questione, perchégiustizia e potere politico non sonocertamente distinguibili in manieranetta: non in Antico regime, e forseneppure nelle epoche successive, sinoai giorni nostri. Ma questa visioneampliata getta la Chiesa del Re nelbel mezzo del ginepraio siciliano, edei suoi innumerevoli piani di poterecontinuamente intersecati tra loro. Lasfera ecclesiastica e quella secolare, ipoteri locali e il governo centrale diMadrid, gli ambivalenti e ambiguirapporti tra Corona spagnola e SantaSede: un mare magnum dai moltiabissi oscuri, nel quale D’Avenia s’im-merge – altro elemento di complessitàdell’intero lavoro – senza limitarsi alleacque siciliane. Anzi, con una pro-grammatica enunciazione introdut-tiva, l’autore spiega di non voler ce-dere a quella «tentazione “siculo-centrica”», che è stata a lungo un viziopernicioso di una storiografia locale«assillata dall’ansia della sua unicità,dallo spettro delle famigerate “domi-nazioni straniere” (quella spagnola in-nanzi tutto), nonché dall’ambivalentegiudizio sulla sua classe dirigente ele sue istituzioni, ora baluardo dellelibertates del Regnum Siciliae […], oraostacolo di gattopardesca memoria atutti i tentativi di modernizzazione»(pp. 13-14).Con tutti questi elementi da rac-

cogliere, indagare, riunire e confu-tare, questa Chiesa del re richiamal’annosa “questione divulgativa” deglistudi storici. Maneggiare la com-plessa strutturazione giurisdizionalesiciliana, conciliando lo sforzo di ap-profondimento con la trasmissionedei risultati che ne fuoriescono, è

l’ennesima difficoltà che ha dovutoaffrontare l’autore, consapevole cheistituzioni come il Regio patronato ela Regia monarchia non sono un as-sunto storiografico diffuso. Con mi-rabile sistematicità, D’Avenia operauno sforzo chiarificatore che dà ri-sultati di grande interesse, rendendoperò inevitabilmente densa e faticosala stesura; il che fa sospettare che laChiesa del re colga l’importante ri-sultato di accostare alla materia glistudiosi, scoraggiando però l’indo-lente lettore non specializzato. Di ri-flesso, queste stesse difficoltà si pre-sentano anche in sede di recensione,dove – per ragioni di stringatezzariassuntiva – ci si potrà affidare sol-tanto ad alcune coordinate generali.Vediamole. Si parte da Filippo II, de-ciso sostenitore delle prerogativedella Legazia Apostolica: organo isti-tuzionale ereditato dai normanni,che garantiva il privilegio dell’esclu-siva competenza di governo sullachiesa siciliana. Fortemente soste-nuta da Madrid per puntellare il pro-prio potere sull’isola, la Legazia èfonte di inevitabili frizioni con le au-torità romane, preoccupate dall’in-staurarsi di un fenomeno proto-scismatico simile a quello del gal -licanesimo. Ne seguono trattative, di-spute e accesi scontri destinati a unnulla di fatto. Due cardinali partico-larmente battaglieri, Bellarmino eBaronio, patirono il loro impegno inquesta battaglia: il primo rischiandodi finire sotto processo davanti alSant’Uffizio spagnolo, ch’era slegatoda quello romano; il secondo man-cando l’elezione papale «a causa delveto opposto attraverso lo ius exclu-sivae dal re di Spagna (e quindi diSicilia)» (p. 19). L’ingresso in scenadel Sant’Uffizio spagnolo in Siciliaevidenzia uno scontro interno alleautorità spagnole, perché i Viceré si-

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ciliani cercarono di contrastarne ilpotere: chi aveva precedenza giuri-sdizionale – e dunque politica – sul-l’isola? Alla base del problema vi erauna «contraddizione sostanzialmenteinsanabile: la maggior parte dei ma-gistrati […] da un lato appoggiavanola politica viceregia a favore della Re-gia Monarchia, dall’altro erano allostesso tempo foristi del Sant’Uffizio,che a loro si rivolgeva in qualità diconsultori» (p. 32). In questa compe-tizione, concorreva, poi, lo jus pre-sentationis: la facoltà cioè dei sovranispagnoli di nominare i presuli sici-liani. Un diritto a lungo concesso erinnovato pro tempore dai pontefici aogni singolo monarca sul trono diMadrid sino al 1621, quando Grego-rio XV gli diede un carattere perpe-tuo destinato però presto ad affievo-lirsi e a rimanere aleatorio. Con isuccessivi avvicendamenti al sogliopontificio, quel provvedimento perseogni carattere definitivo, e continuòil confron to/scontro tra Madrid e laSanta Sede.Questo garbuglio di autorità e di

poteri in lotta tra loro, non può dun-que spiegarsi soltanto ricorrendoalle trattative e alle dispute tra po-teri e organi di governo formali; maoccorre penetrare quelle logiche pa-rentali e clientelari che miravano adassicurare fedeltà al potere centraledi Madrid. Una “alternativa” all’im-possibilità di giungere a una nor-mativa chiara e impersonale, cheperò sollevava altri conflitti, adessodi natura privatistica. La gratifica-zione di parenti del sovrano non erasolo frutto dell’uso familistico delpatronage ecclesiastico: «nella cor-nice della Union de las armas, rien-trava in una più ampia consuetu-dine di utilizzare le rendite diimportanti benefici di una provincia“periferica” della monarchia per […]

le necessità finanziarie di altri do-mini più direttamente coinvolti nelleoperazioni della Guerra dei Tren-t’anni» (p. 42). Una realpolitik dallaquale era difficile derogare, ma cheincontrò un’altra contrapposizione– in questo caso interna al Consigliod’Italia – tra due partiti: «da unaparte siciliani e napoletani, unavolta tanto uniti, e dall’altra spa-gnoli» (p. 49). E, con la puntualitàche caratterizza l’intero lavoro,D’Avenia rintraccia due “alterna-tive”: una “ristretta” ai più viciniclienti della Corona spagnola, l’altra“allargata” ai patriziati dei suoi do-mini. «All’interno del Consiglio d’Ita-lia si stava dunque dibattendo unaquestione squisitamente politica,ovvero il delicato equilibrio tra leesigenze della monarchia spagnolae le prerogative proprie delle sueprovince» (p. 51). Ne segue un’ampiacasistica che, sviscerata nelle suepeculiarità, dà conto di un altro ter-reno di scontro a lungo incerto, matendenzialmente pendente in favoredel potere centrale di Madrid. E così,ancora in pieno Seicento, «effettiva-mente nulla era cambiato»: «FilippoIV, anche quando non erano in ballosuoi consanguinei, disponeva del re-gio patronato soprattutto a favoredi spagnoli e altri italiani, lasciandoai siciliani solo qualche briciola» (pp.69 e 72). Non s’arrivò, dunque, aquell’alternanza delle diverse “alter-native”, che, già evocando un bef-fardo gioco di parole, denunciavatutta la sua natura contorta. Ai pa-triziati locali, non restava dunqueche la carriera ecclesiastica di altorango, secondo dinamiche di ascesanon diverse da quelle operanti in al-tri contesti; e che D’Avenia definisceefficacemente con la «metafora del“gioco di squadra”» (p. 83). Un atti-vismo congiunto di membri di fami-

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glie aristocratiche decise ad affer-mare e ad ampliare il proprio pre-stigio e il proprio potere, ritenendo«strategica [la] “vocazione” ecclesia-stica dei propri cadetti» (p. 97). Manon diversamente andarono le cosetra quelle «famiglie di giuristi, ap-partenenti al “ceto ministeriale”, checostruirono la loro ascesa sociale at-traverso l’esercizio di alte carichenelle magistrature o tribunali delRegno di Sicilia […] e/o della mo-narchia spagnola […] per approdarefinalmente anche loro ai ranghidella feudalità parlamentare» (p. 97).D’Avenia non rimane tuttavia in-

vischiato in questa dimensione tuttapolitica e di potere. Indagando l’atti-vità pastorale dei presuli, rileva comequelle «logiche molto poco “spirituali”»non comportassero «automatica-mente un danno per la cura pasto-rale delle diocesi» (p. 119). Non man-cano ancora gli intrecci: tra politichelocali e centrali, e tra le incerte ecomplicate istanze riformistiche dellaChiesa post-tridentina. Emergono al-tre infuocate contese su singoli casi;e la Chiesa del re rimane insommaun rovo pieno di spine anche in pienoSettecento, quando la perdurante «di-fesa a tutti i costi della Legazia Apo-stolica rappresentò uno dei limiti delrinnovamento culturale avviatosi conla dominazione piemontese». «La Si-cilia fu più di altre volte […] quasi“violentemente” sollecitata a confron-tarsi con la sua storia e con altreesperienze culturali, religiose e isti-tuzionali». Un complicato camminonel rinnovamento settecentesco dellareligione e delle strutture ecclesiasti-che che coinvolse appieno anche laSicilia, che, dal cesaro-papismo dellaprima età moderna, «si avviava a di-ventare anche una Chiesa “senzapapa”» (p. 158).

Diego Pizzorno

E. Novi Chavarria (a cura di), Eccle-siastici al servizio del Re tra Italia eSpagna, «Dimensioni e problemi dellaricerca storica. Rivista del Diparti-mento di Storia, Culture, Religionidella Sapienza Università di Roma»,2/2015, Carocci, Roma, 2016, pp. 237

Il tema del rapporto tra religionee politica, particolarmente in riferi-mento all’età moderna, può esseredeclinato attraverso le categorie – nononnicomprensive ma sicuramenterappresentative – di collusione e colli-sione; in una prospettiva – più ampiarispetto alla precedente tradizione distudi – tipica della più recente sto-riografia: «“Elementi di sistema”, sesi vuole usare il concetto di “sistemaimperiale spagnolo”, o “elementi diconnessione”, nella terminologia uti-lizzata a proposito della Monarchiaispanica dai sostenitori del “modellopolicentrico”, gli ecclesiastici al ser-vizio del Re tra Italia, Spagna e gli al-tri domini della Corona funsero moltevolte da trait d’union nelle magliedelle reti dell’Impero e del suo ineso-rabile potenziale di risorse, in virtùdella mobilità e circolazione delle lorocarriere. Anelli di congiunzione di al-leanze e reti trasversali, essi contri-buirono a legittimare scelte e lineapolitica dei gruppi cortigiani sulpiano sia delle pratiche e delle istanzeoperative sia per loro apporto teoricodi riflessione» (Novi, p. 15).Proprio in questa prospettiva e alla

luce delle più recenti tendenze storio-grafiche si pone il numero monogra-fico (2/2015) di «Dimensioni e pro-blemi della ricerca storica», curato daElisa Novi Chavarria e contenentescritti di Ida Mauro, Fabrizio D’Avenia,Sara Caredda, Silvia Canalda i Llobet,Giulio Sodano e Valeria Cocozza.Ida Mauro analizza come «corpo

“specializzato”» il gruppo di ecclesia-

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stici chiamato a esercitare il mini-stero episcopale nelle 25 sedi di regiopatronato del Regno di Napoli: «Perevitare lunghi viaggi, ricoprire al piùpresto le sedi vacanti e affidarsi acandidati preparati nella guida dellediocesi locali, si preferiva ricorrere asoggetti che erano già presenti sulterritorio, fossero o no abitanti delRegno. Si promuoveva, dunque, unacontinua circolazione di questiesperti nella guida degli episcopatiregi sullo scacchiere delle diocesi delRegno, in base alle ambizioni e allequalità dei candidati disponibili»(Mauro, p. 26).Importante indicatore delle dina-

miche politiche interne al “sistemaimperiale spagnolo” e della posizionedegli attori nel complesso rapportotra sfera laica ed ecclesiastica risul-tano le consulte del Consiglio d’Italiadedicate alle presentazioni, da partedel viceré, dei candidati all’elezione oalla traslazione nelle sedi episcopalivacanti: «emerge di volta in voltacome fattore decisivo il curriculumdel presule, l’influenza dei suoi pro-tettori, il contesto della diocesi, lecongiunture politiche o la possibilitàdi scegliere tra la classe dei regnicolie quella degli stranieri» (Mauro, p.28); grande incidenza avevano poi la“prassi” dell’alternativa e le pressionidelle élite cittadine.In una prospettiva analoga, quella

di considerare tanto la «compositemonarchy» quanto il «sistema impe-riale» come «spazio aperto per le car-riere e la circolazione delle élite»(D’Avenia, p. 45) – funzionari, militaried ecclesiastici –, si pone il saggio diFabrizio D’Avenia Lealtà alla prova:“Casa”, Monarchia, Chiesa. La car-riera politica del cardinale GiannettinoDoria (1537-1642). Infatti, particolar-mente indicativo della dialettica col-lisione-collusione è «il caso delle car-

riere dei cardinali fedeli alla Monar-chia spagnola, per nascita o per ap-partenenza di fazione». Si tratta di fi-gure caratterizzate da oscillazione oequilibrio tra «lealtà alla Chiesa e allaCorona di Spagna»: elettori del pon-tefice e vescovi di diocesi importantima allo stesso tempo «titolari di cari-che istituzionali, diplomatiche e mi-litari nel “sistema imperiale spa-gnolo”» (D’Avenia, p. 45).Importante lente di osservazione

di questo tipo di dinamiche è il Regnodi Sicilia – dove per ben dieci voltedurante la presenza spagnola si regi-stra l’attività di un cardinale-viceré –, per la «particolare configurazione ec-clesiastico-giurisdizionale dell’isola»,motivata dallo «statuto di regio patro-nato di tutte le diocesi» e dalla «com-presenza di tribunali come quelli dellaRegia Monarchia… dell’Inquisizionespagnola e della crociata», che «so-vrapponevano… le competenze supersone e reati e moltiplicavano i con-flitti, che spesso coinvolgevano la sedeapostolica». In questo interessanteteatro politico, sociale e culturale sisviluppò importante parte della car-riera del cardinale Giannettino Doria(1537-1642), «membro di una dellepiù autorevoli famiglie del patriziatogenovese con ampi interessi nei do-mini iberici», arcivescovo di Palermoe più volte presidente del Regno diSicilia (D’Avenia, pp. 46-47).D’Avenia ne legge la figura alla

luce di alcune caratteristiche comuniad altri «cardinali viceré», che «dasempre hanno definito il profilo “pro-fessionale” dell’ecclesiastico “pre-stato” all’alta politica nell’ambitodella Monarchia spagnola» (D’Avenia,p. 47): una coerente condotta filo-asburgica che in qualche momentolasciava spazio alle rivendicazioni ro-mane; un concreto e attivo appoggioalle strategie della propria famiglia,

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tanto in ambito matrimoniale quantoecclesiastico-beneficiario.Sara Caredda nel saggio vescovi

regi e linguaggio del potere nella Sar-degna spagnola. La committenza ar-tistica di Diego Fernandez de Angulo(1632-1700), mette in evidenza comeper la Corona fosse fondamentalenon solo un «rigido controllo» sullageografia ecclesiastica dell’isola, masoprattutto sulla scelta degli uominiposti a capo delle diocesi, resa pos-sibile dal diritto di regio patronatoottenuto nel 1531. Particolare atten-zione e controllo “ferreo” furono eser-citati sull’arcidiocesi di Cagliari e sulsuo presule: «la prassi era che il reconcedesse tale prestigiosa carica aun ecclesiastico spagnolo, normal-mente ben inserito nell’entouragedella Corte, che fungesse allo stessotempo da guida spirituale e daagente politico della Corona» (Ca-redda p. 75). La Caredda punta la sua atten-

zione in particolare su Diego Fernan-dez de Angulo, arcivescovo di Ca-gliari dal 1676 al 1683: «la sua pienapadronanza del linguaggio del poteree le sue strette relazioni con la cortedi Madrid emergono chiaramentedalle imprese artistiche che pro-mosse in Sardegna» (Caredda, p. 78).Conclude sottolineando come la bio-grafia di Angulo «ha molti punti incomune con quella di tanti altri ar-civescovi cagliaritani … questi per-sonaggi, ognuno con la propria sto-ria, costituiscono nel loro insiemeun’élite dai caratteri molto omogeneiper estrazione sociale, cursus hono-rum e soprattutto fedeltà incondizio-nata al sovrano, arbitro dei loro de-stini. Per l’importanza del suo ruolopolitico e la rilevanza della sua com-mittenza artistica, che lo colloca apieno diritto tra i principali mecenatidella cattedrale cagliaritana, Diego

de Angulo è quindi uno dei più emi-nenti rappresentanti di questa cate-goria di vescovi regi, i cui profili sonofondamentali per comprendere lacomplessa rete di relazioni politiche,ecclesiastiche e artistiche tra Madride la Sardegna nel corso dell’età mo-derna» (Caredda, p. 88).Su una linea parallela a que-

st’ultimo si colloca il saggio di SilviaCanalda i Llobet, Estrategias visua-les de promocion del cardenal Porto-carrero por tierras de Italia (1669-1679). L’autrice sottolinea conefficacia come Luis Fernandez dePortocarrero, durante il decenniodella sua presenza in Italia, abbiautilizzato la committenza artisticacome strumento per costruire e pro-porre alla società la sua immaginenon solo di cardinale ma anche diuomo di stato.Alla capacità dei “vescovi regi” di

intervenire in modo autorevole nelladiscussione pubblica su temi politicie culturali è dedicato il saggio di Giu-lio Sodano Tra politica e religione: leriflessioni di un vescovo regio sulduello. Il teatino Gregorio Carafa, alsecolo Carlo Marcello, apparteneva aun ramo cadetto del prestigioso li-gnaggio aristocratico ma godette lostesso di «grande fortuna»: provin-ciale di Napoli e generale del suo or-dine, dal 1644 al 1647, vescovo diCassano nel 1648 e di Salerno dal1664; «nobile per nascita, sebbenecadetto e non di famiglia di alto rangofeudale, sacerdote di un ordine par-ticolarmente sensibile alle esigenzedel mondo aristocratico; legato a rap-porti di collaborazione e servizio aiviceré; vescovo di diocesi regie di pri-mario valore» (Sodano, p. 126).Nel corso del suo governo gene-

rale dei Teatini diede alle stampel’opera De Monomachia seu Duelloopus theologico-morale, da cui emer-

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gono tanto il suo legame col potereviceregio, quanto lo stretto nesso tral’ordine a cui apparteneva e l’aristo-crazia. Secondo Sodano, la rispostadi Carafa al quesito sulla liceità delduello fu efficace ma allo stessotempo densa e diplomatica: «Qualemigliore servizio un aristocratico ec-clesiastico poteva prestare a séstesso e al proprio sovrano se nonmilitando per le guerre giuste delproprio principe nelle quali riversaretutta la carica aggressiva dell’eticadell’onore? Quale migliore monitodare, però, al potere regio che l’ar-dimento nobiliare restava la compo-nente che maggiormente poteva ri-solvere le guerre» (Sodano, pp.137-138).Nell’ultimo saggio, dal titolo “Hom-

bres de pecho y inteligencia en nego-cio de estado”: il cappellano maggioredi Napoli tra Cinque e Seicento, Vale-ria Cocozza illustra le dinamiche po-litiche sottese alla nomina del cap-pellano da parte del sovrano.Si trattava di una figura che as-

sommava innumerevoli competenzeal confine tra la sfera del potere laicoe quella del potere ecclesiastico e ad-dirittura pertinenti alla sfera cultu-rale, era infatti prefetto dell’Univer-sità degli studi di Napoli ed esercitavail controllo sulla produzione libraria.Secondo l’autrice «i casi proposti …offrono un altro angolo visuale da cuiosservare la circolazione delle eliteche caratterizzò il sistema politicodell’Italia spagnola»: gli ecclesiasticinominati a quella prestigiosa carica«dovevano vantare un cursus hono-rum tessuto nel tempo grazie a poli-tiche clientelari promosse dalle fami-glie di origine che, da più generazioni,avevano maturato esperienze e provedi lealtà al servizio della Corona» (Co-cozza, p. 158).

Daniele Palermo

G. Foscari, La gran machina della sol-levatione. Due città e un capopopolonella rivolta di Masaniello (1647-1648), Ipermedium libri, Salerno,2015, pp. 239

Giuseppe Foscari, autore di im-portanti lavori sulle rivolte nel Regnodi Napoli nel 1647, presenta nel vo-lume La gran machina della solleva-tione ancora un’interessante tratta-zione del problema della diffusionenel territorio delle grandi rivolte ur-bane. In particolare, attraverso i casidi Cava e Salerno, prova a fornireun’interpretazione d’insieme dellecomplesse vicende del Regno di Na-poli nel biennio 1647-1648.Indice della complessità della trat-

tazione di Foscari è già la confuta-zione dell’espressione «un po’ iperbo-lica» “gran machina della solle vatione”utilizzata da Giuseppe Donzelli nel-l’autunno 1647, nella sua opera Par-tenope liberata, caratterizzata da «unpunto di vista dichiaratamente anti-spagnolo». La frase «non ci allontanatroppo dall’idea di una rappresenta-zione complessa e architettata dellaribellione, un modello meccanico dicartesiana memoria, e dunque, persua natura, strategico, un teoremaprogettuale di liberazione dell’interopopolo napoletano dai nobili e dagliSpagnoli, che evidentemente era nellecorde e negli auspici di Donzelli e deicapi napoletani della sommossa.Nella sua percezione, la gran machinadella sollevatione richiamava allamente in qualche modo la dimensionespazio-temporale del conflitto che siera scatenato, che da urbano e me-tropolitano si era amplificato in tuttele aree del Regno e che sarebbe du-rato ancora per molti mesi del 1648,o ne lasciava presagire l’ampiezza ela consapevolezza» (pp. 11-12).Il complesso dibattito storiografico

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dei secoli successivi ha progressiva-mente ridimensionato «l’ipotesi diun’organizzazione su base nazionaledella rivolta … e, con essa, forse, an-che l’idea di un congegno ad orologeriaimmaginato su larga scala per esau-torare il dominatore spagnolo per affi-darsi ai francesi», tuttavia, notal’autore con efficacia, «il fascino del - l’espressione di Donzelli resta … in-tatto e, addentrandoci nella narrazionee nell’analisi della rivolta del 1647-48con lo sguardo puntato su un osser-vatorio periferico, la complessità dellasollevatione, le città protagoniste, il ca-popopolo implicato, le strategie adot-tate, i ripetuti e non sempre prevedibilicolpi di scena, le profonde relazionicon la più generale dinamica dellasommossa, lasciano ben intenderequello scenario di macchinazioni a cuialludeva il medico-storico. Se non c’èstata una vera e propria condivisionedel progetto … c’è stata sicuramenteuna condivisione dell’azione ribelle el’idea stessa di insorgere, protestarecon violenza, dissentire, è corsa inlungo e in largo per il Regno» (p. 13).Per rappresentare dalla periferia

questo inestricabile intreccio di pro-getti e pulsioni, scelte pianificate ecasualità, obiettivi di gruppi e fazionie azioni individuali, Foscari scegliedue punti di osservazione privilegiatie tutt’altro che marginali come Cavae Salerno, «città tipo della fedeltà mo-narchica»: demaniali «in un quadrodi dilagante feudalità» e luogo di os-servazione delle due tipiche modalitàdella rivolta, il conflitto fazionale perla conquista del potere cittadino el’azione sobillatoria di un capopopolo.Entrambi i centri poi, anche se conmodalità molto diverse, viderol’azione di Polito Pastena, leader dellarivolta di stampo “masanielliano”, lacui capacità di mobilitazione travali-cava i confini di città e distretti.

Cava, città nettamente filomonar-chica e «tradizionalista», fu teatro delconflitto tra due «fronti patrizi» che,approfittando della congiuntura at-traversata dal Regno di Napoli, en-trarono in dura competizione perconquistare il controllo del teatro po-litico ed economico cittadino. Salernofu invece scenario dell’azione del ca-popopolo Pastena: la città «non ebbe,nell’immediato, alcun motivo legatoa vicende interne al patriziato per ri-bellarsi, sicché, quasi da subito,toccò a Polito Pastena sobillare laplebe dei suoi casali, caricando lasommossa di altri contenuti e riven-dicazioni» (p. 15). Particolarmente indicativa degli

equilibri politici e territoriali nel Re-gno di Napoli a metà secolo è propriola vicenda di Cava; infatti la sua iden-tità civica aveva la «demanialità»come caposaldo pressoché indiscuti-bile e «cardine politico e culturale».Tutto questo è frutto di un «pragma-tismo che, in verità ha permeatotutta la vicenda… di Cava e che con-sisteva nell’essere sempre fedele allaMonarchia al potere» (p. 53). Inoltre,la riforma dello «statuto cittadino» del1556 aveva costituito uno strumentodi equilibrio nel teatro politico muni-cipale: le cariche venivano assegnatein base a un criterio di eguaglianza ealternanza tra distretti «e quindi trai casali che li componevano», al fine«di evitare dispute accanite fra le fa-miglie cittadine più in vista» (pp.56-57). Da notare anche i legami tral’élite cittadina e un «partito cavese»a Napoli, originato, tra ‘400 e ‘500,dall’emigrazione di centinaia di fami-glie, che, ormai «napoletanizzate», se-condo «non pochi scrittori contempo-ranei», svolsero un «ruolo attivo …nel supportare Giulio Genoino nellesue istanze filopopolari ed antiaristo-cratiche» (p. 60).

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I caratteri particolari della rivoltadi Cava sono anche importanti indi-catori di dinamiche più generali. Inun costante obiettivo di persegui-mento di un’inviolabile e perpetua de-manialità, si articolò in due fasi: «Laprima, durata praticamente dall’11luglio 1647 alla fine del mese, è statacaratterizzata dall’iniziativa politicadel patriziato escluso dal potere; unceto variegato, professionale, mercan-tile, commerciale, capace di dialogaree accordarsi con la plebe più esaspe-rata dalle condizioni del Regno e dellacittà … e di avvalersi della sua pre-ziosa collaborazione per esercitare unforte pressing su quanti gestivano ilpotere locale … la seconda fase,quella della lotta plebea, ispirata espesso fomentata da Polito Pastena,che si è registrata nel momento in cuiil legame tra il gruppo ribelle e laplebe si è dissolto per le troppe diffe-renze sociali, culturali e per la diver-sità delle istanze che rispettivamentemisero in campo» (p.62).L’autore sottolinea con efficacia la

diversità del caso salernitano rispettoa quello di Cava: «Salerno fu uno deiluoghi chiave e più rappresentatividella conquista del potere dei popo-lani. Per nove mesi … seppure in unquadro politico che andò mutando,la città fu tenuta in scacco da PolitoPastena e dai suoi uomini» (p. 220).Il lavoro di Foscari è caratterizzato

non solo da una visione d’insiemedelle rivolte nel Regno di Napoli at-traverso la lente della periferia, maanche da un respiro globale dato al-l’argomento, soprattutto allorché, inriferimento alle rivolte in Europa enelle colonie tra il 1647 e il 1660,cita gli scritti di Rediker e Linebaugh,che, «in buona sostanza … hanno ri-proposto i temi del conflitto di classe,suggerendo l’idea di una circolaritàdell’esperienza rivoluzionaria … una

matrice comune sembra metteretutto assieme, a loro giudizio, in unagigantesca protesta sociale determi-nata dalle evidenti disuguaglianzedella società». Pur non volendo ripro-porre il conflitto di classe comechiave di lettura, l’autore ritiene chenon si possa smettere «di pensareall’esistenza di un conflitto socialeche ha caratterizzato l’Europa (e nonsolo) nel corso del XVII secolo; chenon esclude un certo grado di con-sapevolezza delle proprie condizionisociali da parte della plebe e neppureun antagonismo plebeo e “popolare”verso i poteri forti, un’insofferenzasfociata in una ribellione con l’elo-quenza primitiva dei plebei, per usareil lessico di Linebaugh e Rediker,dunque astiosa, rancorosa, ribelle,istintiva, non programmabile, noncoerente e violenta» (pp. 219-220).

Daniele Palermo

L. Braida, S. Tatti (a cura di), Il Libro.Editoria e pratiche di lettura nel Set-tecento, Edizioni di Storia e Lettera-tura, Roma, 2016, pp. XVIII, 446

Il volume raccoglie gli atti di unconvegno dedicato al libro e all’edito-ria nel Settecento. I saggi sono orga-nizzati in una struttura tematica lacui lettura ci fornisce il quadro com-plessivo del progetto disegnato dagliorganizzatori del convegno. Un per-corso apparentemente frammentato,ma con una forte coerenza proget-tuale, giacché la stampa e la suacapillare diffusione in ogni stratosociale diventano uno degli strumentiche contribuiranno a costruire lanuova realtà sociale e politica euro-pea che segnò la fine della società diantico regime. Gli interventi pubbli-cati affrontano cinque temi: «il rap-

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porto tra l’autore e i suoi editori; letrasformazioni del mestiere del libroe del mercato editoriale; i generi edi-toriali di larga circolazione; la mobi-lità dei testi pensati per i nuovicontesti cultural; (traduzioni, mate-rialità delle edizioni); l’attenzione ailettori, alla storia delle biblioteche ealle nuove forme di lettura» (p. X).Il Settecento è un momento di

svolta per la realtà editoriale euro-pea: la cartina di tornasole è data daicataloghi degli editori che aumen-tano a dismisura l’offerta dei titoli.Gli scaffali della bottega del libraio siriempiono di volumi in modo espo-nenziale. Il mercato librario siespande in maniera a macchia d’olio,creando canali commerciali che per-mettono una circolazione dell’oggettolibro massiccia e tempestiva. Utiliz-zando un osservatorio formalmenteperiferico come la Sicilia vediamo chei dati di crescita che si riferiscono almercato siciliano e palermitano inparticolare sono in piena sintoniacon quelli europei. BartolomeoInbert, “gallicus”, nel 1523 nella suabottega di mercerius, che rispecchia icanoni organizzativi delle analoghestrutture francesi, ha la disponibilitàdi 166 titoli e 414 volumi; il libraioAchille Piffari nel 1597 ha sugli scaf-fali 1217 titoli e 2816 volumi;Luciano Meli nella sua bottega nel1623 offre 2039 titoli con 7612volumi. Nel Settecento il volume delleofferte dei titoli e dei volumi disponi-bili raddoppia ulteriormente.Un mercato in crescita imponente

che evidentemente è alimentato dauna sinergia che si sviluppa sualcuni snodi importanti: l’autore, illettore, l’editore e il circuito di com-mercializzazione. Tutte queste realtàinteragiscono tra di loro e contribui-scono alla creazione di una nuovarealtà del rapporto del lettore con il

libro. Cambia radicalmente l’approc-cio alla lettura della pagina stam-pata: si legge silenziosamente e nonsi rendono partecipi gli altri alle emo-zioni legate alla trasposizione dellascrittura in parole. Un segno tangi-bile della trasformazione del nuovoapproccio è segnato tipograficamentedall’abbandono dei segnali tipograficiche segnalavano a chi leggeva ad altavoce dei necessari cambiamenti ditono per partecipare agli ascoltatoril’opportuna emozionalità. Il nuovo modo di leggere è rico-

struito da Tiziana Plebani nel saggioLa rivoluzione della lettura e la rivolu-zione dell’immagine della letturaanche per il tramite di un’analisidelle rappresentazioni iconografichedei lettori del Settecento. La presenzadelle donne nelle immagini legate almondo della lettura è un altro indi-catore per comprendere come siacambiato l’approccio alla paginascritta, che non è più uno strumentodi lavoro per il giurista, per il filosofo,per l’ecclesiastico o per il medico,bensì un oggetto che stimola unapproccio emozionale. Si legge unromanzo d’amore, si legge in villeg-giatura, ma ci si preoccupa di avvici-nare al mondo della lettura anche ibambini come ci mostra l’immaginedi una bambina che si appresta aleggere un libro mentre le donnedella famiglia lavorano al tombolo.Altro momento importante per il

processo di ampliamento della plateadei lettori, che s’indirizzano a un tipodi lettura non professionale e che siapprocciano alla carta stampata perdiletto, è individuato nell’irromperesSl palcoscenico della lettura di unprodotto editoriale specifico: il gior-nale, il periodico che stravolge com-pletamente l’approccio alla cartastampata. Roberto de Romanis nelsuo saggio sui riti della sociabilità

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inglese invita a riflettere che i gior-nali, che s’inseriscono nel sistemadella comunicazione del Settecento,hanno una costruzione della notiziache non invecchia e non si consumain un giorno. In particolare affermache «i contenuti di quel genere distampa, proprio per prestarsi comeoggetti del vivace dibattito cui siaccennava poc’anzi, sono più chealtro echi di notizie, o meditazioni ospunti cui quelle notizie o altri mate-riali apparsi in qualche volumerecente potevano dare origine, ol’avevano già data su altre testate ocontesti; …imponendo ai lettori deiritorni, degli approfondimenti, deiripensamenti con passaggi da unperiodico all’altro o da un giornale aun volume e viceversa».La lettura dei giornali e il loro

commento in Inghilterra avevanoluogo non già nel silenzio degli studi,bensì nel rumoroso scenario dei clube delle coffee-houses – nella sola Lon-dra si contavano almeno duemilacaffè – innescando la costruzione direti relazionali che coinvolgevanospesso anche gli autori. Il romanzo eil saggio costituivano il carburanteprincipale con il quale alimentare ildibattito all’interno delle predetterealtà con i vantaggi e gli svantaggiche ne derivavano. Inoltre, il caffè eil club erano strutture che avevanobisogno della città per nascere e svi-lupparsi, mentre nei villaggi di cam-pagna o nei piccoli centri la realtà deigiornali e della loro lettura condivisanon riusciva a consolidarsi.I temi affrontati nel volume sono

numerosi e complessi e meritereb-bero una lettura specifica e attenta.Un esempio valga per tutti: SerenellaRolfi Ožvald dedica il suo saggio pro-prio al tema dell’uso delle immaginiin una rinnovata editoria di qualità,dedicata a uno specifico circuito

dell’editoria di “alta divulgazione”legato alla stampa di volumi corre-date da incisioni spesso a colori. Unmercato difficile che si alimentavacon le sottoscrizioni delle associa-zioni di lettori specializzati che ali-mentavano un’editoria di lussocriticata da chi vede nel libro unostrumento culturale e non già unoggetto di collezione. Francesco Mili-zia nel 1797 criticava «quegli amatoricuriosi, i quali tengono fin i libricome chincaglierie di lusso e temonodi toccarli affinché non perdanoniente del loro valore pecuniario. Aquesto valore la ciarlataneria sacri-fica il merito intrinseco delle opere, ecosì avvelena le arti e i costumi» (pp.237-238).In realtà, ci si trova davanti a un

mondo tipograficamente nuovo, dovesi sperimentavano le diverse tecnichein uso per la riproduzione su cartadelle immagini colorate. Un’espe-rienza che necessitava dell’attiva-zione di una stretta collaborazionedell’arte della tipografia con quelladella calcografia. I costi di produ-zione di questo specifico prodottolibrario erano molto elevati ma essocostituiva uno strumento essenzialeper gli autori e gli editori «specializ-zati nello specifico campo della storiae della critica delle belle arti» (p.245).L’ultima sezione di questo volume

è dedicata a “Editoria e bibliotechenella Sicilia del Settecento”, con cin-que saggi che aprono degli squarcisulla realtà siciliana del Settecentopoco conosciuta da sviluppare e daapprofondire in un contesto tempo-rale che necessita in molti casi diuna rilettura. Michela D’Angelo aprela sezione con un saggio dedicatoall’editoria e libri nel ‘lungo’ Sette-cento messinese (1678-1783); DilettaD’Andrea continua con la sua rifles-sione su “Stampatori e librai a Mes-

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sina nel tardo Settecento” ; RosarioLentini illustra il funzionamentodella Reale Stamperia di Palermo nelprimo ventennio di attività ( 1779-1799); Danilo Siracusa presenta l’ini-ziativa voluta dal viceré Caracciolodella pubblicazione dei calendari delRegno di Sicilia (1759-1805); Cate-rina Sindoni si sofferma su i libri perle scuole e la Biblioteca dei maestrinella rivoluzione scolastica di Gio-vanni Agostino De Cosmi. Le analisi di Michela D’Angelo e di

Diletta d’Andrea mostrano una Mes-sina profondamente segnata daalcuni eventi traumatici come larivolta contro la Spagna (1674-78), lapeste del 1743 e il terremoto del1783. Avvenimenti che hanno dellericadute negative sia sul numerodelle tipografie, che operavano all’in-terno delle mura cittadine, sia sul-l’attività dei librai e degli editori.Un’attività editoriale che supportavail “consumo” locale sfornando librettidi devozione, spartiti musicali, bandima, nello stesso tempo, garantiva lepubblicazioni di maggiore peso scien-tifico stimolate dalla presenza ope-rante di accademie e di biblioteche lequali dedicavano numerose letture aitemi scientifici e culturali di rilievo.Diverse pubblicazioni, ad esempio,sono dedicate all’analisi dei terremotiche squassarono in quel periodo siala Calabria sia la Sicilia. Le officinetipografiche messinesi garantivano,inoltre, settimanalmente la stampadi “gazzette”, con le quali la realtàpolitica e culturale europea fece irru-zione in Sicilia grazie alle notizietratte dai fogli di Venezia, Trieste,Napoli e di altre capitali europee, chesi mescolavano a quelle della guerracontro la Francia rivoluzionaria e airiferimenti alla cronaca locale.Altra riflessione è dedicata all’espe-

rienza legata alla creazione a Palermo

della Reale Stamperia, uno stabili-mento tipografico funzionale al pianogovernativo di realizzare una strutturadi supporto all’Accademia palermi-tana, primo nucleo del futuro Ateneo,e all’ambizioso progetto della riformadel sistema scolastico siciliano. Il sag-gio di Rosario Lentini disegna i per-corsi di questa ambiziosa intrapresaaffidata alla Deputazione dei RegiStudi che ne avrebbe fatto uno deisuoi più importanti riferimenti per lasua politica culturale. Il progetto eradi far sì che la stamperia si autofinan-ziasse obbligando il Tribunale del RealPatrimonio e gli altri uffici della RegiaCorte a servirsi della Real Stamperiadi Palermo per produrre tutta lamodulistica necessaria per la loro atti-vità istituzionale. Una privativa chesuscitò le ire degli altri stampatoripalermitani che si ritennero danneg-giati dalla scelta della Deputazione. Ladocumentazione, conservata pressol’archivio storico dell’Ateneo palermi-tano, ci permette di avere il quadrocomplessivo della produzione cheusciva annualmente dai torchi giac-ché si conservano i dati relativi alletirature e alle giacenze di magazzino.I torchi della stamperia reale produr-ranno, su specifico mandato di mons.Airoldi, i volumi del Il Consigliod’Egitto frutto della arabica imposturadell’abbate Vella ma, anche, gramma-tiche, libri di diritto, opere devozionalie altro materiale didattico. L’ampliamento della platea dei let-

tori è legato anche agli sforzi che sonoriservati alla formazione culturale edidattica del maestro di scuola. Cate-rina Sindoni con un saggio sui libriper le scuole e la biblioteca dei maestriapre un ampio squarcio sul ruoloavuto dal De Cosmi nella moderniz-zazione e laicizzazione della forma-zione dei maestri delle scuoleelementari. Dalle prime indagini

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emerge che l’impostazione delle strut-ture didattiche della scuola elemen-tare siciliana, sotto l’impulso decisivodel De Cosmi, sia stata «orientataverso quel modello scolastico offertodal sistema in vigore nel Lombardo-Veneto tutto basato, come sottolineaPiseri, sul principio della necessitàdella formazione dei maestri» (p. 403).Una formazione che passa sempreper il tramite dell’oggetto libro.Le stamperie palermitane si occu-

pavano anche della pubblicazione deicosiddetti Calendari di corte, il cuiprimo esemplare fu stampato aPalermo nel 1759 da Epiro, ma que-sta linea editoriale non ebbe ungrande successo. La svolta si ebbecon il viceré Caracciolo, il quale nel1785 dette vita al Notiziario del Regnodi Sicilia con l’obiettivo di creare unsupporto in funzione della formazionedi una opinione pubblica favorevolealle iniziative del governo. La scelta diutilizzare il Gregorio come redattore ecoordinatore della redazione dei Ca -lendari non è casuale, ma funzionalealle scelte politiche anti baronali delviceré. Il libro e la scolarizzazionediventano le armi con le quali suppor-tare la politica riformistica.Il volume, come Silvana Braida e

Silvia Tatti sottolineano nella lorointroduzione, riapre il dibattito sulruolo che la produzione, la diffusionee, soprattutto, la fruizione dell’oggettolibro ha avuto nei processi di destrut-turazione dell’antico regime. Ognunodei saggi pubblicati offre lo spuntoper nuove riflessioni e riletture, masoprattutto mette in luce che la rete,con la quale si supportano i processiriformistici che demoliranno gli statidi antico regime, sarà costruita grazieagli editori, agli stampatori e ai libraiche assicureranno la capillare diffu-sione delle nuove idee.

Antonino Giuffrida

Marcella Aglietti, L’istituto consolaretra Sette e Ottocento. Funzioni istitu-zionali, profilo giuridico e percorsi pro-fessionali nella Toscana granducale,Edizioni ETS, Pisa, 2012, pp. 438

L’obiettivo e la metodologia di que-sto lavoro sono ben chiariti fin dal-l’inizio: capire l’evoluzione della figuradel console, nel suo passaggio da or-gano rappresentativo di una comunitàmercantile a ufficiale di un’ammini-strazione statale, «con gli strumenti ele inquietudini della storia delle isti-tuzioni». Un libro d’altro canto inter-disciplinare, che vuole «ricorrere a unamolteplicità di prospettive […] propriedella storia economica, della storia deldiritto internazionale e delle relazioniinternazionali», e che si distingue peruna cronologia non proprio usuale,ponendosi sul crinale tra due secoli,il XVIII e il XIX, caratterizzati da frat-ture che spesso creano barriere anchenella comunità degli studiosi. Lachiave di lettura, per contro, è tradi-zionale ma storiograficamente valida:la storia dello Stato come percorso dimodernizzazione, che pure fra rallen-tamenti e difficoltà si vede bene anchedalla prospettiva del console, il qualene interpreta con l’ampliamento e ladefinizione delle sue funzioni il raffor-zamento nelle relazioni interstatuali enell’ambito degli equilibri interni dipotere. Rispetto alla letteratura esi-stente sul tema (relativa alla Spagna,alla Francia, all’Inghilterra, agli StatiUniti, ai paesi scandinavi, ai vari Statiitaliani ecc.), l’originalità della ricercasta nella capacità di ripercorrere e se-guire lucidamente la transizione del-l’istituto consolare nel passaggio daltramonto dell’antico regime alla genesidelle «moderne nazioni di età contem-poranea».Figura sfuggente, quella del con-

sole, che a differenza dell’ambascia-

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tore non sempre gode di una rap-presentanza pubblica ufficiale e chenel suo agire quotidiano dipende daimargini che gli vengono concessi da-gli usi e dalle consuetudini locali,ma che da un certo momento inavanti (il caso francese è emblema-tico) comincia a essere nominata re-golarmente dal Principe (non piùdalla comunità dei mercanti), hal’obbligo di risiedere nel luogo di de-stinazione e riceve precise consegnein merito alla sua condotta (adesempio, non può più svolgere atti-vità commerciali). Per spiegare questa lenta ma de-

cisiva trasformazione, Aglietti fa in-telligentemente ricorso ad una trat-tatistica ampia e in certi casi anchemolto prestigiosa (anche se talora suposizioni contrastanti). Una trattati-stica alla quale sul finire del XVIIIsecolo fa seguito una legislazionesempre più precisa in materia (a par-tire dal Real decreto di Carlo III diBorbone, per poi passare alle leggifrancesi e veneziane e alle disposi-zioni toscane di Cosimo III ben cono-sciute dall’A.). Viene realizzato inquesto modo il perfezionamento del-l’istituzione consolare, «formalizzatae sottoposta a una massiccia opera-zione di riforma» con la quale «se nedefiniscono competenze e qualità,modalità di investitura e di legittima-zione, gerarchie e prerogative». In al-tre parole, si tratta della compiutadefinizione normativa – in un certosenso una vera e propria metamor-fosi – di una figura che era stata l’em-blema di quella «commistione inscin-dibile fra interesse pubblico einteresse privato precipuo delle so-cietà pre-contemporanee».Sullo sfondo di questo solido e ni-

tido contesto, nella prima parte del li-bro Marcella Aglietti si sofferma sulcaso del Granducato di Toscana, che

per la presenza del cosmopolita scalolivornese («città portuale multietnica»)ben si adatta allo studio delle tensioni,di cui i consoli si fanno catalizzatori,fra la giurisdizione sovrana e «quellamiriade di privilegi e giurisdizioni par-ticolari» che le comunità straniere pro-vano a esercitare. Naturalmente, trat-tandosi di Settecento toscano, benforti sono le differenze fra «l’equilibri-smo strategico» dei Medici e la ten-denza all’affermazione del principio disovranità dello Stato di cui si fannoportatori gli Asburgo-Lorena: una ce-sura che gli specialisti del Granducatoconoscono bene, e che si avverte con-tinuamente nel libro. Al frastagliato Settecento, nella

trattazione dell’autrice segue un Ot-tocento più “granitico”, in cui anchela Toscana partecipa a quel processodi omologazione e di mutuazione reci-proca che mettono in atto gli Stati alfine di ottenere la «burocratizzazionee [la] uniformizzazione della caricaconsolare e delle sue competenze».Nella Livorno del XVIII secolo i

consoli sono l’espressione più lam-pante del favore con il quale i mer-canti forestieri sono considerati etrattati. Il granduca sa che bisognatrattarli bene (gli uni e gli altri). Manon sempre fila tutto liscio. Anzi, «lanatura delle relazioni fra le istituzionitoscane e le agenzie consolari esteresi delinea come un continuo bracciodi ferro condizionato da una molte-plicità di fattori non riducibili al merodialogo di carattere istituzionale».Detta altrimenti, è talmente intensoil movimento commerciale del portolabronico che spesso insorgono di-sguidi e controversie tali da metterea repentaglio la cortesia formale deirapporti consoli esteri-Firenze. E poinon tutti i consoli sono uguali: diversipossono essere i legami fiduciari fraconsoli e “nazioni”, così come diversi

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si rivelano i rapporti fra consoli e mi-nistri toscani di Livorno e Firenze(rapporti che si costruiscono «su baseconcordataria e permanentemente ri-negoziabile», e che tanto sono in-fluenzati dallo scenario internazio-nale del momento). Ancora, il caso dei consoli fran-

cesi, sotto questo ultimo aspetto, ladice lunga: un po’ per l’influenza po-litico-militare esercitata dalla grandepotenza borbonica, un po’ perché ri-flesso della razionalità normativadella Corona francese in materiaconsolare, essi si considerano «mi-nistres publics» investiti di «pienaautorità giuridica nei confronti deisudditi francesi per delega sovrana»,e in pratica giudicano nelle cause incui sono implicati dei connazionali.I granduchi considerano la praticauna mal tollerata «eccezione alla re-gola», mai formalmente ratificata,tanto è vero che, quando il consolea Livorno di Giorgio II incarica unnotaio locale di redigere gli atti diprede corsare alle quali sono inte-ressati i mercanti britannici (è il1741), viene aspramente redarguitodal governo fiorentino. Specie quando arrivano gli As -

burgo-Lorena, Firenze vorrebbe ri-durre i consoli esteri nello scalo livor-nese a mere figure di mercanti privati,laddove questi personaggi chiamanoi loro scrittoi «cancellerie», «ove affet-tano di parlare e scrivere in stile can-celleresco e diplomatico, a similitu-dine delli tribunali legittimi». Certo, loripetiamo, le situazioni non sono tutteuguali: nella Livorno ancora medicea,ai consoli di Francia, Inghilterra eOlanda, le cui pretese si fanno via viasempre più insistenti, fa da contrap-peso il ridicolo consolato sardo, conun incaricato (Gregorio Mendes) chenon si sa neppure se si possa definireconsole, vede cadere più volte nel

vuoto le proprie richieste di istruzionial governo di Torino e finisce in mise-ria perché resta privo di compensoper ben quattro anni di fila.Ma al di là delle vicende perso-

nali e delle parabole professionali,nell’analisi dell’Aglietti emerge conevidenza l’eccezionalità del casostudiato – quello di Livorno – in cuila figura del console raggiunge ilclimax della sua ambivalenza: sog-getto istituzionale in potenziale col-lisione con il governo dello Stato incui risiede; prezioso garante delbuon ordine e della permanenzapacifica (e possibilmente proficua)di una comunità mercantile. Ledue cose devono essere in qualchemodo conciliate. Ma come cercaredi limitare le ingerenze giurisdizio-nali dei consoli proprio in un portodove ai forestieri «giova fare mag-giori agevolezze» che ai «paesani»?Le ovvie ripercussioni sul pianodelle relazioni internazionali chepuò avere il comportamento neiconfronti di un console estero ri-chiedono dunque un astuto dosag-gio dell’«arte del compromesso edella dissimulazione». Illuminante,a questo proposito, che Firenze ab-bia disposto più volte, nel corso delXVIII secolo, che «il governatorenon [debba trattare] alcuno affarecon i consoli in scritto». Tutto vienelasciato all’improvvisazione degliapprocci informali: in un certo qualmodo, li si favorisce nel loro con-creto operato, si chiude un occhiosulle loro prerogative, ma si staben attenti a non pronunciarsi maiufficialmente in materia. All’esattoopposto, la lunga trattativa fra ilGranducato e lo Stato Pontificioper lo stabilimento di un consoleromano nei «porti di Toscana» –che, più di una trattativa, si rivelauna «operazione di ostruzionismo»

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– mostra bene l’importanza dellaforma, delle procedure e delle for-mule retoriche nella produzionedelle patenti consolari, che è soloil punto di partenza dell’ampia at-tività di un console.Nel secondo capitolo si passa a

esaminare il sistema consolare to-scano, ramificato sulle due spondedel Mediterraneo e in quasi tutta Eu-ropa, che si contraddistingue peruna certa eterogeneità (vedi i casidelle sedi romana e napoletana, doveil ruolo del centro nella scelta delconsole è ben diverso). Con l’ecce-zione proprio di Roma, il tentativodei Medici è quello di svincolare l’uf-ficio dall’influenza delle comunitàmercantili locali e di esercitare uncontrollo maggiore al fine di faredella figura consolare un «organo digoverno coerentemente inserito al-l’interno del sistema statuale to-scano». E la tendenza all’interventi-smo di governo si fa ancora più fortecon gli Asburgo-Lorena, i quali esor-discono con un censimento di tutti i«ministri ed agenti» nominati o con-fermati presso le corti estere; e chearrivano in breve tempo a perfezio-nare un sistema consolare che saràpreso a modello dall’Impero, il quale«riconosce ai toscani una maggioreesperienza nelle attività mercantili»(e che materialmente comincia ad af-fidarsi per le proprie sedi a sudditigranducali). Quando la macchinaasburgica sarà ben oleata, i rapportisi invertiranno, e sarà Firenze ad af-fidarsi ai consoli nominati da Vienna(o ad accettare rappresentanze co-muni); ma non è la sede per entrarein questi dettagli. Ulteriore conferma del carattere

bicefalo dello Stato toscano (a Fi-renze la capitale politica, a Livornoil cuore pulsante dei traffici com-merciali), tutti i consoli del granduca

in servizio all’estero devono corri-spondere con il Governatore labro-nico (la cui figura è stata al centrodi una precedente monografia del-l’autrice), che in generale ha ampieprerogative in materia consolare.Quanto al loro operato, malgradol’esistenza di precise patenti di no-mina, i margini d’azione sono dettatipiù dalla prassi che dal diritto: siguarda in sostanza a quanto è inuso negli altri consolati e a quantoviene concesso nelle situazioni di re-ciprocità. Pesa poi la congiunturapolitico-militare, nella vita di unconsole: il secondo paragrafo di que-sto secondo capitolo è dedicato pro-prio a spiegare come nel Mediterra-neo altamente militarizzato delSettecento le fortune delle comunitàmercantili toscane all’estero possanovariare anche di molto a distanza dipochi anni (in particolare, molto di-pende se si è, o meno, in pace con lereggenze barbaresche). Ed è proprioin queste occasioni che il console fasfoggio della sua importanza: «l’esi-stenza di un console di Toscana […]è ugualmente utile e necessaria inogni tempo, ma soprattutto il tempodi guerra», scrive nel 1780 il mini-stro plenipotenziario per gli As -burgo-Lorena a Londra. Al lettore, giunto a questo punto

del libro, al termine di questa ope-razione speculare (l’analisi dei con-solati esteri a Livorno, quella deiconsolati toscani all’estero), non puòsfuggire una cosa. La peculiarità diLivorno rende più stimolante e riccodi prospettive il primo campo di in-dagine, mentre il secondo presentamolti aspetti generalizzabili ad altrerealtà statuali. Non è un caso se unodei capitoli più originali di tutto illavoro è quello sul consolato spa-gnolo a Livorno, che tra l’altro, peril fatto di essere rimasto appannag-

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gio di una sola famiglia (i de Silva)fra 1677 e 1802, permette di verifi-care da un’angolatura particolare iprocessi di costruzione delle élite in-ternazionali della diplomazia, e diapprezzare la vastità della rete dicorrispondenti di un console sette-centesco (si veda l’elaborazione di p.191). L’eccezionalità di Livorno sivede anche dal fatto che «le sedi con-solari [lì] di stanza attraversanopressoché indenni i turbolenti annifrancesi», quelli della tempesta na-poleonica, «proprio per l’importanzastrategica della sede livornese». Enon è un caso se la restaurata mo-narchia sabauda confida nel proprioconsole a Livorno (Luigi Spagnolini)per potenziare la navigazione dei na-tanti “nazionali” nel Mediterraneo: ènello scalo labronico che risiedonole ricche case di negozio ebraiche ingrado di rabbonire le potenze bar-baresche. Nell’Ottocento, è significativo che

il testo delle istruzioni per i consolitoscani all’estero del 1820 (integratonel 1826) ricalchi in maniera pres-soché identica quelle redatte per ilconsole genovese a Livorno del 1767:retaggi di antico regime. Cambia in-vece tutto a partire dal 27 aprile1859: se ancora nei mesi precedentiil Governatore di Livorno aveva ri-cevuto ragguagli da buona parte delMediterraneo e dal resto d’Europa,all’inizio dell’estate si sondano gliorientamenti politici dei consoli to-scani presso le sedi straniere, e poiquesti stessi personaggi vengonoesautorati e sostituiti dai sardi.Mentre la “vecchia” prestigiosapiazza livornese diventa una «sedeconsolare di rango inferiore rispettoal passato». La sezione sui «percorsi profes-

sionali», dopo un primo capitolo incui si esaminano il sistema delle pa-

tenti e delle istruzioni, l’usanza (so-vente contrastata) di tenere le inse-gne presso le residenze consolari ele modalità (molto diversificate) dielargire compensi ed emolumenti – eche segna l’apice della pratica dellacomparazione all’interno del libro –si concentra sul curriculum del con-sole toscano e sull’identikit del con-sole estero a Livorno. L’obiettivo èdelineare come i consoli arrivino acostituire una sorta di «oligarchia»,altamente professionalizzata e dotatadi un patrimonio di competenze tra-smissibile. «Il profilo del suddito to-scano adatto a rivestire un incaricoconsolare non differiva […] molto daquello richiesto negli altri Paesi». Ilsegreto, per farsi scegliere, è coniu-gare l’animo del commerciante conl’esperienza del funzionario, fidatoservitore mosso da «amorevole af-fetto» verso il proprio governo. Di so-lito si tratta di un cittadino fioren-tino, che può usare il consolatoanche come rampa di lancio per unacarriera nelle magistrature della Do-minante, e per eventualmente acqui-sire la nobiltà. Con la Restaurazionenon cambia granché: nella scelta sitiene sempre conto della «moralità,condotta e buona reputazione», oltreche della «posizione sociale» e dellacapacità di «disimpegnare le conso-lari ingerenze»; e la proposta dellecandidature rimane costantementea carico del Governatore di Livorno,vero perno del sistema consolare to-scano all’estero tra Sette e Ottocento.Curioso il fatto che la dinastia asbur-gica non permettesse la coperturadelle carica ai religiosi, neppure invia interinale.Il console estero nella piazza la-

bronica è invece tradizionalmente un«negoziante», inteso quale soggettodotato di notevole disponibilità eco-nomica e di un’ampia rete di contatti

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personali, al fine di espletare al me-glio le due funzioni che gli vengonogeneralmente richieste: tutelare itraffici dei connazionali «come fosseroi propri», informare il proprio governosu tutto quello che accade nella suasede di residenza. Ciò non toglie chei vari Stati abbiano orientamenti an-che dissimili: i sovrani di Francia pre-feriscono uomini altolocati, con pre-cedenti esperienze negli ufficipubblici, che in loco non commercinoin prima persona (su quest’ultimopunto non transigono neppure i Sa-voia e gli Hannover); agli spagnoli in-teressa che il console sia di cristallinafede cattolica (ne vogliono controllareanche le scelte matrimoniali!); gliolandesi (ma anche gli svedesi) pun-tano sui mercanti e su persone “pra-tiche”; i veneziani badano molto alladote della «fedeltà»; i genovesi consi-derano molti elementi ma in linea dimassima preferiscono optare per chiha già fatto esperienza, magari alfianco del padre (non sono mancatedifatti alcune dinastie consolari, lapiù importante delle quali è proprioquella dei Gavi a Livorno, di cui l’au-trice parla nel libro, e che risultamolto studiata dalla più recente sto-riografia genovese). In definitiva, il libro di Marcella

Aglietti è frutto di una ricerca ampiae originale, ed è uno strumento utileper ben comprendere nelle sue sfac-cettature e nelle sue vicende nonsempre ben lineari il passaggio dellafigura del console da rappresentantedi una comunità mercantile, im-merso in un orizzonte giuridico in-certo e di carattere pattizio, a buro-crate del nuovo Stato ottocentesco.Riprendendo il titolo dell’ultimo ca-pitolo, da console della “nazione” aconsole dello Stato.

Paolo Calcagno

Emiliano Beri, Genova e La Speziada Napoleone ai Savoia. Militarizza-zione e territorio nella Liguria dell’Ot-tocento, Città del Silenzio, Novi Li-gure, 2014, pp. 240

Nel corso dell’Ottocento la Liguria– così come molte altre parti della pe-nisola toccate dall’epopea napoleonicae dall’ascesa di casa Savoia – vide mu-tare drasticamente alcune aree delproprio territorio sotto la spinta inva-siva di una massiccia militarizzazione,diretta risposta alle rapide innovazioniin campo bellico che interessarono ilXIX secolo. Le città di Genova e LaSpezia, per effetto del loro rilievo stra-tegico, furono protagoniste primariedi quest’evoluzione militare, pur contempi e modi completamente diversi:se per la prima si trattò del prosieguodi un fenomeno già avviato da qualchesecolo, per la seconda determinò –nelle parole di Emiliano Beri – unavera e propria «genesi della città e[del]le sue vie di sviluppo» (p. 8).Proprio per questo motivo, l’autore

ha deciso di studiare due casi tantodifferenti in un approccio comparativo,volto a indagare l’impatto che la mili-tarizzazione ebbe sui centri liguri nonsolo dal punto di vista strettamentetecnico-militare, ma anche in relazioneal territorio, all’economia, alla demo-grafia e all’urbanistica dei poli spez-zino e genovese. La via seguita è stataquella di un’analisi trasversale, tesaper un verso a donare organicità a fi-loni di ricerca che fino a ora – almenoin campo ligure – s’erano mossi pre-valentemente su binari paralleli senzadialogare in maniera proficua, e perl’altro, grazie allo scavo di una vastadocumentazione archivistica in granparte inedita, ad ampliare significati-vamente con nuovi dati lo studio diuna fase tanto cruciale per lo sviluppodelle due piazze liguri.

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La prima parte del lavoro si foca-lizza sui mutamenti subiti dall’areadel Golfo della Spezia. Se l’insedia-mento dell’Arsenale della Marina mi-litare – a partire dalla metà dell’Ot-tocento – fu sicuramente il momentodi gran lunga più significativo per latrasformazione del «grosso borgo son-nacchioso» (p. 17) levantino in unadelle maggiori basi navali della peni-sola italiana, Beri sceglie di princi-piare la sua trattazione con un saltoindietro, delineando il ruolo dellapiazza e del territorio immediata-mente circostante all’interno del si-stema difensivo del Dominio di Ter-raferma genovese. I secoli XVII e XVIIIvidero un graduale incremento delleopere di fortificazione intorno alGolfo, che assurse a caposaldo stra-tegico della Riviera di Levante in virtùdella sua caratteristica di straordi-nario porto naturale, capace di atti-rare le pericolose mire dei concorrentidella Repubblica nel controllo del Tir-reno settentrionale. Caratteristicaquesta che non mancò di suscitareanche la viva attenzione di Napo-leone, quand’egli designò idealmenteSpezia come «grande arsenale marit-timo in funzione anti-inglese» (p. 24)da sfruttare in concerto con Tolonenel teatro mediterraneo, teorizzandoun fondamentale ribaltamento diprospettiva che sarebbe poi statomantenuto in età sabauda: da sitovulnerabile, possibile punto di pres-sione per un potenziale invasore edunque necessitante protezione,l’area spezzina divenne un fulcroideale per operazioni offensive, dasfruttare come polo navale per co-struire, ospitare e rifornire una flotta. Anche se la breve durata della co-

meta napoleonica non permise agli in-gegneri imperiali di realizzare i lorograndiosi piani, il portato dell’intensastagione progettuale francese si deli-

nea nell’analisi di Beri come un ele-mento fondamentale per lo straordi-nario salto compiuto dalla città sotto iSavoia. È grazie agli scrupolosi sopral-luoghi sul territorio effettuati in questoperiodo che per la prima volta si rag-giunse una conoscenza dello Spezzino«non solo descrittiva ma anche scien-tifica, sviluppata in funzione della pro-gettazione dell’arsenale, della nuovacittà, del sistema difensivo e, più ingenerale, della necessità di governaree amministrare» (p. 57). Gli anni Qua-ranta e Cinquanta dell’Ottocento vi-dero la gestazione dei primi grandi la-vori per la costruzione di infrastrutturemarittime nella zona del Varignano,ma fu con la nascita della Marina mi-litare italiana – nel novembre del 1860– che Spezia subì un radicale muta-mento della propria identità. Per descriverne la complessa me-

tamorfosi sotto la spinta cavurrina, losguardo dell’autore attraversa diversiquadri prospettici: le relazioni tra svi-luppo militare e vocazione turisticadel borgo fino alla metà del XIX secolo,la sua trasformazione in città, gli ef-fetti demografici ed economici del ve-loce – e drasticissimo – cambiamentodel Golfo. Il risultato che emerge daquesto grande affresco è quello di «uncaso macroscopico e assolutamentesingolare di rapida, intensa e perva-siva militarizzazione, con rilevanticonseguenze tanto sul tessuto urbanoquanto sul territorio circostante» (p.213), tratteggiato da Beri con l’ausiliodi fonti di natura molto differente, eproprio per questo esaustivo nella suaprofondità d’analisi.L’unicità dell’esperienza spezzina

è ancor più evidente se comparata aquella genovese, protagonista dellaseconda parte del volume. Per questapiazza la militarizzazione avvenutasotto la bandiera sabauda non rap-presentò un fenomeno nuovo, ma

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piuttosto una prosecuzione – pur inscala maggiore – degli interventi chedal secondo Settecento al periodo na-poleonico avevano interessato la cittàe le sue difese. In questo caso la me-todologia utilizzata nel lavoro per-mette di portare alla luce linee di svi-luppo assai differenti da quelletratteggiate per Spezia: se il volto diquest’ultima fu radicalmente modifi-cato dalla presenza dell’Arsenale,delle sue difese e del suo personale,la documentazione archivistica stu-diata per Genova mostra come lamaggior parte degli interventi inte-ressarono aree marginali rispetto altessuto cittadino – sia dal punto divista meramente geografico, sia peril trascurabile valore economico dellearee coinvolte – non comportandodunque alcuna sensibile modificaalla morfologia, alla demografia e al-l’economia del centro. «Lungi dal generare una nuova

città e dal rappresentare un motoreindustriale», si legge riguardo al ca-poluogo nelle conclusioni del volume,«la militarizzazione – sebbene forieradi ricadute positive sull’attività edili-zia, e non solo – non influì nemmenosull’espansione dell’abitato, sebbeneandasse a incidere in modi diversi(realizzazione di caserme, magazzini,strade, piazze, acquedotti, ecc.) sultessuto urbano, secondo forme pe-raltro comuni ad altre città militaricoeve» (p. 213). Contestualmente, c’èda rilevare come gli intenti con i qualigli ingegneri dei Savoia posero manoalla città murata, sancendone la de-finitiva trasformazione in piazzaforte,partissero da presupposti differenti.Oltre a contemplare un rafforza-mento delle difese genovesi da possi-bili aggressioni esterne – e, in parti-colare, dalla minaccia francese – ilpotenziamento dell’impianto fortifi-catorio e l’organizzazione dell’acca-

sermamento furono pensate per for-nire in egual maniera ai nuovi pa-droni piemontesi una prudente ca-pacità di sorveglianza sull’urbe,nell’eventualità – non così remota –di sollevazioni interne.Beri individua in ultima analisi

nell’elemento del controllo stretto sulterritorio della città ottocentesca unodei tratti salienti che accomuna ledue esperienze liguri prese in esame,evidenziandone le diverse declina-zioni che le necessità particolari dipunti strategici tanto sensibili impo-sero ai dominatori nella progettazionee nella costruzione dei loro nuovi cen-tri militari.

Matteo Barbano

G. Ferraro, Il prefetto e i briganti. LaCalabria e l’unificazione italiana (1861-1865), Quaderni storici fondati daGiovanni Spadolini, Le Monnier/Mon-dadori, Firenze, 2016, pp. 228

Il volume affronta la vicenda po-litica di Enrico Guicciardi, originariodella Valtellina, prefetto di Cosenzatra il 1861 e il 1865, anno in cuivenne rimosso e trasferito a Lucca.Partendo da fonti archivistihce pub-bliche e private inedite e in partico-lare dai carteggi di Guicciardi conesponenti di primo piano dellaclasse dirigente italiana (come Spa-venta, Torelli, Visconti Venosta,etc.), l’autore ricostruisce uno spac-cato della storia della Calabria neglianni immediatamente successiviall’unificazione italiana. Emerge ilritratto di un territorio influenzatodai “signori della terra”, spesso ma-nutengoli dei briganti e nella mag-gior parte intenzionati a mantenereil controllo politico-economico sulterritorio, anche a costo di rallen-tarne i processi di rifoma e cambia-

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mento portati avanti dalle primeclassi dirigenti italiane. L’autore nel suo lavora evidenzia

anche le dinamiche che portaronoall’esclusione di Guicciardi dal go-verno della provincia cosentina, no-nostante si fosse addossato tutte leresponsabilità nella gestione del bri-gantaggio, preferendo all’uso esclu-sivo della forza repressiva anche so-luzioni politiche e sociali. Infatti ilduro regime repressivo inaugurato inmolte province meridionali dopol’unità inflazionò non poco alcuniproblemi già radicati, non ultimo pro-prio quello del brigantaggio.Il primo capitolo descrive la situa-

zione in Calabria dal sistema borbo-nico a quello italiano, e l’arrivo diGuicciardi alla prefettura di Cosenza.Nel secondo capitolo particolarmenteinteressante è la ricostruzione deirapporti tra Guicciardi e Pietro Fu-mel, originario di Ivrea, colonnellodella Guardia Nazionale e principaleartefice della repressione. Il terzo ca-pitolo tratta invece le divergenze trapotere militare e politico per quantoriguardava il governo del territorio,soprattutto con l’invio del generaleEmilio Pallavicini di Priola in Cala-bria. Il quarto delinea i diversi metodidel “salutare terrore” messi in campodalle autorità per sconfiggere il bri-gantaggio. In questa parte si eviden-zia l’inefficacia della legge Pica del1863, il ruolo della Chiesa e di altreparti sociali nella lotta al brigantag-gio. Il quinto capitolo affronta invecela questione dell’occupazione delleterre demaniali da parte dei proprie-tari terrieri e i suoi riflessi sul bri-gantaggio. Conclude il libro il sestocapitolo, con delle considerazioni ge-nerali sulla vita politica e le riforme

portata avanti in Calabria in quelquinquennio; seguono due appendici:una documentaria, con delle letteredi Guicciardi, e una fotografica.La pubblicazione si rivela in de-

finitiva originale e utile per la com-prensione non soltanto della storiadella Calabria nei primi anni uni-tari, ma anche dei diversi approccida parte del governo centrale allequestioni territoriali. Giuseppe Fer-raro riesce a descrivere con preci-sione i vari intrecci della vicenda,evidenziando chiaramente le singoleresponsabilità e i mezzi, più o menorigidi, per garantire stabilità a uncontesto particolarmente instabilee delicato come la Calabria nellafase postunitaria. Il prefetto Guic-ciardi emerge come personalitàcomplessa, combattiva, ma anchesensibile ai problemi socio-econo-mici del territorio.Uno dei pregi del volume è, anche,

quello di porre l’attenzione sulla rile-vanza dei carteggi nella ricerca sto-rica. Infatti, grazie proprio a quest’ap-proccio, il lavoro permette di farcapire con profondità e accuratezzacerte dinamiche politiche, sociali,culturali nella fase postunitaria nelMezzogiorno. Infatti solo nei carteggiprivati gli esponenti della classe diri-gente italiana potevano esprimerecon totale schiettezza e chiarezza al-cune valutazioni sul processo unita-rio e le sue conseguenze. In conclu-sione, il volume si rivela un preziosoquanto utile contributo, che gettaluce – direttamente e per riflesso –su una delle pagine più controversedella storia dell’unificazione italiananel Mezzogiorno.

Francesco Corigliano

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