LA BESTIA

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Macina profitti, devasta città e campagne, corrompe i poteri. Lasciando dietro di sé una striscia di sangue che non si asciuga mai. Il libro ci consegna un ritratto sconvolgente della violenza della camorra, delle impunità e anche delle complicità quotidiane. E ci offre al tempo stesso un affresco denso di pietas del mondo delle vittime, nomi e cognomi ingiustamente dimenticati. Uomini uccisi per punire, per intimidire o semplicemente per sbaglio

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«... Non si va più per boschi, la colomba è ferita.Non andiamo più al bosco, l’abbiamo già abbattuta…»

(da La colomba di Jacques Brel, cantautore e poeta)

Iolanda se ne stava zitta su una sedia nel centro dell’androne.Attorno a lei, seduti per terra a semicerchio, aveva una ventinadi giovanissimi scout. A un certo punto iniziò a raccontar loro lastoria di suo figlio. Partendo, come faceva sempre, da quellamattina del 19 marzo del 1994, quando il giorno del suo onoma-stico sentì Peppe uscire per l’ultima volta di casa.

Si fece silenzio. I ragazzi, arrivati a Casal di Principe da Ivreain un’assolata domenica d’agosto, la guardavano dal basso inalto, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la testa fra le mani.Con la faccia rapita come nipotini che guardino la nonna intentaa raccontar loro una favola. Iolanda esordì, come al solito, conun lamento doloroso, quasi una colonna sonora che avrebbeaccompagnato il suo ricordo: «Che m’hann’ fatto, che m’hann’fatto. Nun me passa. Nun me passa», ripeteva in dialetto, comeuna cantilena, mentre scuoteva la testa. I ragazzi non capivanoogni parola, ma le sue lacrime bastavano a coinvolgerli senzaeccezioni. Piangeva come le accade sempre quando vede entra-re nel suo cortile i pantaloncini corti e le camicie azzurre degliscout. È come se rivedesse il figlio che ritorna. Don Peppe, loscout.

1. Don Peppe Diana

Iolanda, madre di scout

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Iolanda era scesa con fatica dalla sua casa al primo piano divia Garibaldi 29. Il marito, Gennaro Diana, l’aveva informatache il gruppo che aspettavano era arrivato. Lei era avanzata conil passo incerto per spostarsi fin sotto l’androne dell’abitazione.In quel cortile una volta si praticavano molte attività agricole,come certifica la classica tettoia per gli attrezzi ora inesistenti,sostituita da vasi di fiori e piante ornamentali, soprattutto cicas,una pianta sempreverde originaria dell’Asia che da queste partiè molto diffusa. Il marito anziano e i figli insegnanti hanno dettoaddio da tempo al lavoro dei campi, che aveva rappresentato alungo per la famiglia l’unica fonte di reddito.

Osservata da vicino, Iolanda zoppicava vistosamente. Nonaveva ancora assorbito i doppi postumi di un’operazione alfemore e di un tumore al seno. Indossava, come al solito, magliae gonna nera, il segno quotidiano del suo lutto. Portava un fron-tino grigio nei capelli bianchi e al collo l’inseparabile medaglinaa forma di cuore, con dentro la foto del figlio “Pinuccio”.Cercava di nascondere l’emozione alla vista degli scout, ma conscarsi risultati. Quei ragazzi erano arrivati da così lontano fino aCasal di Principe in treno, con il sacco a pelo e alcune provvisteal seguito, per conoscere la terra di don Peppe Diana, i suoiamici, la sua famiglia. La sera dovevano dormire al Santuariodella Madonna di Briano, lì vicino. E lei, Iolanda Di Tella, lamamma di don Peppino, 76 anni e molti acciacchi, il portamen-to fiero di contadina, ancora una volta non si era tirata indietro.Pronta a mostrare il suo dolore, ma anche a comunicare il suoaffetto a quei ragazzi. Battagliera come sempre. Soprattuttoquando si è trattato di difendere la memoria di suo figlio. Moltodi quel che si è fatto in proposito lo si deve anche a lei. Che nonsi è mai stancata di telefonare ai magistrati, agli amici, al vesco-vo di Caserta Raffaele Nogaro e a don Luigi Ciotti.

Gli scout di Ivrea non la conoscevano. Chi partecipò ai fune-rali di don Peppe quel 21 marzo del 1994, quando ventimila per-sone attraversarono tutta Casal di Principe dietro il feretro, se laricorda bene, invece. Dai balconi penzolavano centinaia di len-zuoli bianchi. Per una volta quei portoni impenetrabili come for-

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tini assediati avevano mostrato un altro volto: più umano, sensi-bile e solidale. Tutta la città era fuori dalle case. Anche da quel-le in stile hollywoodiano o piene di colonnati stile impero cheimperversano in ogni dove. Che vorrebbero simboleggiare lagrandezza e la potenza di chi le abita, ma raccontano solo ilgusto kitsch e l’incultura diffusi con la nuova ricchezza.

Ai lati del corteo funebre la gente piangeva sinceramentementre osservava quella fiumana di persone che avanzava lentacome un magma uscito d’improvviso da un vulcano. Pian pianola folla si spandeva per i vicoli stretti, li occupava, li copriva diuno spirito nuovo. Il vociare di sottofondo faceva uscire dallecase altra gente. E dai balconi si srotolavano lenzuoli bianchi chefacevano da ala al funerale. Una scena che si ripeteva con l’avan-zare del feretro del giovane parroco, portato a spalla dai suoiamici e dagli scout. L’uccisione di un sacerdote per mano dellacamorra era troppo anche per chi da anni era abituato a vedere ea subire decine di morti ammazzati.

Sembrava la madonna Addolorata, quel giorno, Iolanda. Congli occhi asciutti rivolti verso il cielo, senza più lacrime da ver-sare. Camminava con la testa quasi all’indietro, lo sguardoassente. «Pensavo solo al mio Peppe», avrebbe raccontato. Conil marito e i figli, Emilio e Marisa, se ne stette immobile nel piaz-zale del cimitero dove si celebrò il funerale. Uno slargo enorme, etuttavia incapace di raccogliere le ventimila persone che accompa-gnavano suo figlio. I più dovettero accontentarsi di sostare nellestrade laterali e ascoltare la messa dagli altoparlanti. Lei era tuttachiusa nel suo abito nero. Teneva lo sguardo fisso nel vuoto, comese stesse chiedendo conto direttamente a Dio di quel che era acca-duto al figliolo, che pure aveva scelto di servirlo.

«Sono passati più di tredici anni da quel giorno, ma il dolorenon mi passa, non mi può passare e non mi passerà mai» conti-nuava a ripetere sottovoce nell’androne, mentre gli scout la scru-tavano commossi. Quasi si scusò e abbassò la testa per non farsisentire. L’emozione contagiò tutti quanti. I ragazzi cercavano diresistere abbassando la testa. Qualcuno si girava di lato. Ma lelacrime di Iolanda non si fermavano. Fu Valerio Taglione, capo

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scout dell’Agesci, responsabile provinciale di Libera e portavo-ce del comitato don Peppe Diana a rompere il ghiaccio e a toglie-re tutti dall’imbarazzo. «Su, adesso non facciamo di questoincontro solo un momento di dolore». «No, è che sono conten-tissima di vedere questi ragazzi – fece lei – Ma è che ho una fittaal cuore. Non mi può passare. Non me lo dovevano fare – conti-nuava a ripetere – Non mi passerà mai».

Quel giorno di agosto gli scout erano arrivati alla stazioneferroviaria di Aversa alle 9,00 del mattino. Ad attenderli c’era,appunto, Valerio Taglione. A lui si erano aggiunti SalvatoreCuoci, presidente della scuola di Pace “Don Peppe Diana”, ealtri due scout di Aversa, Emiliano Addelio e Lucia Cacciapuoti.Tutti insieme se li erano portati con le proprie auto al Santuariodella Madonna di Briano, una chiesa costruita intorno all’annoMille, che si trova nelle campagne di Casal di Principe, e checonserva all’interno alcuni affreschi medioevali e bizantini. Eralì che gli scout avevano stabilito la loro base per alcuni giorni.La piccola carovana di macchine si era avviata verso la meta pre-vista, attraversando la periferia di Aversa. Poi San Marcellino,Frignano, Villa di Briano. E finalmente via Kruscev, quella cheporta direttamente al Santuario, diventato negli anni il luogosimbolo del movimento anticamorra. Qui avvengono le manife-stazioni più importanti: tutte quelle che ricordano don Diana; icampi antimafia; i convegni di Libera. E ci arrivano pure le caro-vane antimafia. A reggere il Santuario è don Paolo dell’Aversana,uno dei sacerdoti che firmò con don Peppe Diana il documentoPer amore del mio popolo.

Un percorso fatto chissà quante volte. Ma quando la stessastrada si fa con i “forestieri”, si notano meglio quanto sono spor-che le vie di questi paesi. Capita anche a quelli che in queste con-trade ci vivono da sempre e che sono assuefatti a tutte le bruttu-re del territorio. Sì, viaggiare con i forestieri fa bene. I rifiutierano sparsi dappertutto; l’incuria dei marciapiedi saltava agliocchi; le strade piene di buche; le tabelle pubblicitarie rotte; isegnali stradali inesistenti; i muri pericolanti; le auto parcheggia-te ovunque; i ragazzi in motorino senza casco. «A un certo punto

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abbiamo cominciato a provare vergogna dei nostri paesi» avevaconfessato Salvatore Cuoci, quando finalmente, dopo una deci-na di chilometri, erano arrivati al Santuario della Madonna diBriano a cui la devozione popolare attribuisce molti miracoli, apartire dalla scampata peste del 1656. Là, dopo aver posato i sac-chi a pelo e trovato una sistemazione per la notte, gli scout primadi incontrare la famiglia di don Diana avevano chiesto di assiste-re alla proiezione del film documentario Per amore del miopopolo. Volevano saperne di più su quel prete ammazzato dallacamorra e di cui avevano sentito parlare solo dai loro amici piùgrandi.

La casa di don Peppino Diana, quasi al centro di Casal diPrincipe, è una tappa obbligata per gli scout. E la madre e ilpadre ne sono felici. Don Diana era un loro capo e nessuno infamiglia se lo è dimenticato. È ancora vivo il ricordo di quandopartiva per i campi dopo essersi preparato lo zaino. Pantaloncinia gamba corta, una camicia azzurra, calzettoni, un foulard alcollo, un cappello boero a falda larga, scarpe pesanti, e via.Nemmeno gli scout l’hanno dimenticato quel prete così anoma-lo. Ne arrivarono tantissimi ai suoi funerali. E in migliaia sfila-rono a un mese dalla sua morte per le strade di Casal di Principe.Così come di nuovo a migliaia arrivarono da ogni parte d’Italianel marzo 2004, per ricordarlo a dieci anni dalla sua uccisione.E poi sempre, anche una settimana prima di quel 5 agosto, quan-do era venuto un altro gruppo dal Piemonte.

Prima di andare a casa della famiglia, i ragazzi erano passatidal cimitero, in via Cavour. Avevano espresso il desiderio di“andare a salutarlo”. Il sole picchiava forte. E nei viali del cam-posanto si incontravano poche persone. Che non si meraviglia-vano affatto della loro presenza. Sapevano che sarebbero andatisulla tomba di don Peppe. Il piccolo corteo di visitatori era pas-sato tra viali di loculi e cappelle gentilizie. Alcuni scout si eranoavvicinati, colpiti, incuriositi, a diverse tombe per leggere l’etàdi morti che dalle foto sembravano giovani. Lo erano davvero.Quasi tutti morti tra i venti e i trent’anni. Decine di ragazzi. Perlo più affiliati ai clan della camorra. Vittime delle guerre intesti-

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ne. Una vita breve, trascorsa sognando potere e ricchezza. Lacappella gentilizia della famiglia Diana era chiusa. Avevanodovuto accontentarsi di guardare la tomba dall’esterno. ValerioTaglione, da buon capo scout, aveva invitato tutti a tenersi permano e a recitare un padrenostro, il modo dei seguaci di BadenPowell per condividere un momento particolarmente emozio-nante.

Pochi minuti dopo il gruppo era finalmente arrivato in viaGaribaldi 29. In linea d’aria sono sì e no ottocento metri dalcimitero. La via dell’abitazione è una stradina cieca. Era quasimezzogiorno. Venne ad aprire l’enorme portone di legno colormarrone Gennaro Diana, l’anziano padre, 80 anni ben portati. Listava aspettando. Portava il cappello come sempre, nonostante ilcaldo di agosto. Li accolse con un largo sorriso. «Per voi la nostracasa è sempre aperta – disse mentre spalancava il portone – Hosempre la stessa sensazione quando entra qui un ragazzo vestitoda scout. Mi sento più vicino al mondo di mio figlio. E questoallevia un po’ le nostre sofferenze. Perché era davvero questo ilsuo mondo. Anche se io gli dicevo sempre di finirla di andare afare tutte quelle riunioni, perché oramai si era fatto grande e contutti gli impegni seri che aveva non poteva continuare a indossa-re quei calzoncini corti, a fare campi, uscite, a correre avanti eindietro… no! Ma ora me ne dispiace di avergli detto quellecose, e sono orgoglioso che mio figlio facesse parte della comu-nità degli scout. Ma entrate, vi prego…».

Killer in sagrestia

«…La sera prima non aveva fatto molto tardi perché l’indo-mani doveva alzarsi presto, e non cenò nemmeno. Solamente unbicchiere di latte – Iolanda, sempre seduta sulla sedia sotto l’an-drone, riannodò per loro i suoi ricordi – Venne a salutarmi incucina e poi si diresse verso la sua camera. È l’ultima immagineche ho di don Peppe. Il giorno dopo si alzò più presto del solito,alle 6,00. Era il suo onomastico. Aveva dato appuntamento al barai suoi amici, subito dopo la messa. Qui noi usiamo che si offre

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a tutti un caffè con una bella polacca calda, un dolce tipico diqueste zone. Praticamente è un cornetto più elaborato, con alcentro crema pasticcera e amarene. Stessa cosa avrebbe fattopoco più tardi all’Itis Alessandro Volta di Aversa, dove insegna-va religione. Aveva già dato incarico ad alcuni suoi amici di fararrivare polacche per tutti i colleghi. Lo sentii che camminavaper le stanze e, poco dopo, udii provenire dalla cucina i solitirumori: il frigo che si apriva, il caffè che saliva, il profumo cheinvadeva la casa, le ante dei mobili che si chiudevano, la tazzinasul lavandino. Conoscevo a memoria quei rumori, perché ognimattina erano uguali. Spesso ero io ad alzarmi prima di lui perpreparagli il caffè. Poco dopo la porta si chiuse dietro di lui esentii i suoi passi mentre scendeva le scale della cucina. Aprì ilportone per uscire e si incamminò a piedi verso la sua parrocchiadi San Nicola di Bari, che da qui dista dieci minuti.

Immaginai il percorso che faceva, perché l’avrò fatto centina-ia di volte. Lo seguii col pensiero. Ecco, adesso avrà girato l’an-golo. Ora, magari, avrà salutato le prime persone mattiniere cheha incontrato sui suoi passi. Udii le campane che il sagrestano,Agostino Iaiunese, aveva incominciato a suonare. Pochi altripassi ed era arrivato nello slargo davanti alla parrocchia. Adaspettarlo all’entrata della chiesa c’era il suo amico fotografo,Augusto di Meo, per fargli gli auguri. Le suore e una decina didonne anziane erano già dentro, sedute nei banchi a pregare.Entrò in sagrestia per prepararsi per la messa. Incominciò aindossare i paramenti sacri. Erano da poco passate le 7,20. Nelfrattempo anch’io mi ero alzata e stavo sistemando la sua stanza,come tutte le mattine. Prima di andare a scuola Peppe ripassavada qui e gli preparavo un altro caffè. Quella mattina non sarebbetornato perché andava di fretta. Proprio in quei minuti arrivòanche il killer che non lo conosceva di persona. Indossava ungiubbotto di pelle e aveva i capelli lunghi. La sua età potevaessere quella di una persona sulla trentina. Avanzò a passi velo-ci. Chiese a una vecchietta dove fosse il prete. E lei gli indicò lasagrestia. Pochi momenti prima era uscito il fotografo. Incrociòil killer, che entrò mentre Peppe stava ancora preparandosi. Miofiglio era girato di spalle. “Chi è don Peppe?”, chiese ad alta

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voce l’uomo appena entrato in sagrestia. E lui, sentendosi chia-mato, si girò: “Sono io don Peppe”. Ebbe solo il tempo di direqueste parole e di guardare in faccia il suo assassino. Il killer tiròfuori dalla cintola una pistola, ed esplose quattro o cinque colpi.Due dei quali lo colpirono al volto, mentre gli altri, esplosi alladistanza di qualche metro, lo colpirono al capo, al collo e allamano destra provocandogli una morte istantanea. Cadde all’in-dietro. Il sangue cominciò a scorrere sul pavimento. Il killerfuggì. In chiesa furono attimi di terrore. Accorsero le pochedonne che erano lì, le suore, il sagrestano e Augusto il fotografo.Le urla attirarono altre persone che in quel momento passavanofuori la chiesa. Qualcuno tentò di rianimarlo. Ma non c’era piùnulla da fare. Era morto. Passarono pochi minuti e venne di corsail sagrestano ad avvisarmi. Suonò il citofono in maniera concita-ta. Mi spaventai. Il cuore cominciò a battermi. Aprii il portone dasopra, con il pulsante elettrico. Mi affacciai alla balconata e vidiil suo volto pieno di disperazione. Ebbi paura: “Iolanda, Iolà –gridò – hanno levato ’a don Peppe ’a miézo”. Capii bene chevoleva dire che l’avevano ucciso, ma non ci volevo credere. Misembrava una cosa così assurda, che risposi con scetticismo:“Ma che stai dicendo?”. “Sì, Iolanda, hanno ucciso a donPeppe”. Mi crollò il mondo addosso. Dovetti sedermi. Mi pare-va una cosa talmente impossibile che stentavo a prenderla pervera. Ma quando vidi che fuori casa mia si faceva un vociare dipersone che accorrevano dopo aver appreso la notizia, il miocuore cominciò a sussultare forte. Sembrava che dal petto fossepassato alla gola e mi sentii scoppiare. Chiamai mio marito e miofiglio Emilio: “Gennaro..., Gennà…, Emilio…, correte..., correte,andate a vedere cosa hanno fatto a Pinuccio”. Aveva 36 anni eancora tanto da vivere».

Gli sguardi dei ragazzi che ascoltavano immobili, in un silen-zio assoluto, il racconto di Iolanda Di Tella, si velarono.

Lei abbassò la testa. Si guardò l’immaginetta che portavaappesa al collo con la foto del suo Pinuccio. La baciò, la strinsetra le mani e continuò con i ricordi delle prime ore dopo la morte.Quelle delle discussioni sul perché e sul percome era stato ucci-so e su chi avrebbe avuto interesse a farlo. «In casa mia erano

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venuti un po’ tutti a portarmi le condoglianze. Anche quelli dellafamiglia Schiavone, con la quale c’è una parentela alla larga. Iprimi giorni girava la voce che era stato proprio il gruppoSchiavone a fare assassinare mio figlio. È stata dura in queimomenti. Pregai mio figlio morto di farmi rimanere calma. Feciricorso a tutte le mie residue forze, altrimenti in quelle ore avreicacciato quelli che mi erano stati indicati come i mandanti. Mirivolsi ancora al mio Peppino che stava in una cassa da morto:“Fammi restare serena, non farmi prendere dall’odio”. Non socome, ma ebbi la forza per riuscirci. Questa ostilità nei confron-ti di quelli che io consideravo comunque colpevoli l’ho espressaapertamente. Tanto che per molto tempo la moglie di FrancescoSchiavone, Giuseppina Nappa, cercò di parlarmi. Lei è coetaneadi don Peppe. Si conoscevano. Erano andati a scuola insieme.Alcuni giorni dopo il delitto aveva cercato di contattarmi attra-verso don Carlo Aversano, ma io avevo sempre declinato l’invi-to. Lei voleva chiarire che la famiglia del marito non c’entravaniente con la morte di mio figlio. Non gliene diedi l’occasione.Però, siccome abbiamo parenti in comune, avremmo potutoincontrarci casualmente da qualche parte. Ma ogni volta chec’era questo rischio, se io ero da un parente o c’era già lei, glialtri uscivano di casa e avvertivano: c’è la mamma di donPeppino, non ti vuole incontrare, non entrare.

Qualche anno dopo, io mi trovavo a casa di una mia zia e arri-vò anche lei, Giuseppina Nappa. Fu un incontro occasionale. Ionon la conoscevo. C’era mio figlio Emilio che stava con me. Leientrò e disse a Emilio che voleva parlarmi. Così si presentò evolle spiegarmi la sua versione dei fatti: “Voi avete pianto donPeppe perché è vostro figlio, ma il dolore nostro è stato altrettan-to forte. Con don Peppe ci conoscevamo da piccoli, eravamoandati a scuola insieme e spesso ci incontravamo. Aveva battez-zato un mio bambino. Mio marito, per come la pensa, non avreb-be mai ucciso un sacerdote, perché se avesse avuto qualcosa dadire, avrebbe anche avuto il coraggio di parlare con don Peppe edon Peppe faceva lo stesso. Dovete sapere che a casa ho l’imma-gine di don Diana con i fiori davanti”. Le risposi che a me non

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interessava quale fazione avesse ucciso mio figlio. Quelli chescelgono certe strade, per me sono tutti uguali. Poi mi hannodetto che il 19 marzo del 2004, quando c’è stato il corteo per ildecennale della morte di don Peppe, era presente anche lei».

«Ora senza mio figlio la mia vita non è più la stessa – disseIolanda – Avevo avuto sempre paura che gli potesse accaderequalcosa. Quando andavo a messa ed era lui a spiegare il vange-lo, parlava spesso contro la camorra. Io mi sedevo sempre nelleultime file dei banchi, quasi per non farmi vedere. Ma dopo lafunzione andavo in sagrestia e con la scusa di prendergli i para-menti sacri per lavarli, lo prendevo da parte e gli dicevo: “Peppì,ma perché parli sempre di queste cose. Qui l’ambiente è diffici-le...”. “Mammà – mi rispondeva – ma è la Chiesa che mi dice diparlare così. La Chiesa di Roma”. Allora io, non convinta, quan-do andavo a casa accendevo il televisore e lo sintonizzavo dovefacevano la messa. Volevo ascoltare con le mie orecchie se eravero che anche a Roma parlavano in quel modo o era lui che insi-steva. Avevo paura per la sua incolumità. Poi a volte sentivo cheanche in televisione parlavano come lui e mi calmavo. Pensavoche qui ai preti, in fondo, non li hanno mai toccati. Queste cose,fino a qualche anno prima, accadevano solo in America Latina.Solo che pochi mesi prima accadde una cosa che mi turbò molto,come turbò anche mio figlio. Il 15 settembre del 1993 venneucciso a Palermo, nel quartiere di Brancaccio, don Pino Puglisi,nel giorno del suo compleanno. Me la ricordo bene quella sera incui diedero la notizia in televisione. Stavamo in casa, in cucina,e c’era anche lui. Quando sentii che avevano ucciso un prete inSicilia, mi sentii mancare. Era proprio accanto a me che prepa-ravo la cena. Gli dissi: “Peppì, hai sentito? Ora se la prendonoanche con i preti”. “Mammà – mi fece – ma perché ti preoccupi?Se ci ammazzano, in qualche modo dobbiamo esserne contenti,perché noi abbiamo fatto la scelta di servire il Signore. E, se ènecessario, dobbiamo donare anche la vita per testimoniarlo”.Non risposi, ma ci restai male, perché vidi che lui parlava dellamorte come di una cosa che poteva accadere. Come mamma mene preoccupavo. Avevo paura. Sapevo bene che aveva fatto lascelta di opporsi apertamente alla camorra. “Se hanno ucciso

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Gesù Cristo – mi ribadì – vuol dire che potranno ammazzare anchenoi che seguiamo i suoi insegnamenti”. E io insistevo, per cercaredi proteggerlo: “Ma tu porti anche questa barba che sembri un pre-giudicato. Cammini a ogni ora del giorno e della notte. E se tiprendono per un malvivente?”. “Mamma, ma di che ti preoccupi– mi diceva – se mi fermano, io gli caccio il rosario, gli dico chesono un sacerdote, e se vogliono togliermi l’auto o i soldi, glieli dòvolentieri. Ma sono sicuro che vicino a me non ci vengono”. Lodiceva per tranquillizzarmi. Invece non è stato così».

A quel punto Iolanda abbassò la testa e mise le mani davantiagli occhi. Voleva nascondere le lacrime. Ma ancora una voltanon ci riuscì.

Il risveglio

Ma com’era andata davvero? Che cosa aveva portato, annodopo anno, la camorra fin dentro la sagrestia di don PeppinoDiana? Forse è bene ripartire dal 1990. Quell’anno prese il viauna guerra tra i clan per definire i nuovi equilibri di potere dopola morte di Antonio Bardellino, il grande capo ucciso in Brasilead opera di Mario Iovine nel maggio del 1988. Lo Stato sembra-va assente. Gli omicidi si susseguivano a ritmo quotidiano. Acadere sotto i colpi delle lupare e dei kalashnikov furono moltigiovani e anche persone innocenti capitate per sbaglio sulla lineadi fuoco dei camorristi. Tra questi un giovane testimone diGeova di Casapesenna. Si chiamava Angelo Riccardo e faceva ilmuratore. Era il 21 luglio del 1991. Venne ucciso nella sua autoda un proiettile “impazzito”, mentre attraversava la strada checollega Casal di Principe a San Cipriano d’Aversa. In quell’oc-casione furono ferite anche altre cinque persone. Un clima daguerra civile permanente. La gente non ne poteva più, ma nonaveva la forza per reagire, né c’erano organizzazioni sociali epolitiche in grado di rappresentare la voglia di dire basta. Sino adallora il silenzio complice della stragrande maggioranza dei cit-tadini di Casale ma anche di Casapesenna, San Cipriano diAversa, Villa Literno, San Marcellino, Frignano, Villa di Briano,era stato l’humus su cui la camorra aveva proliferato e di cui si

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era alimentata. I clan avevano assicurato alle popolazioni del ter-ritorio una piccola fetta della spesa pubblica intercettata con ilavori del dopo terremoto. Negli ultimi decenni le braccia deicasalesi hanno costruito strade, ponti, case, palazzi in tutta Italia.Sono di qui, quasi per antonomasia, gli operai specializzati del-l’edilizia. Una merce preziosa per le società edili di Casale,ramificate dove meno te l’aspetti. E ramificatesi anche al segui-to dei clan, autentici maestri nel controllare il ciclo del cemento.Durante la ricostruzione post terremoto non fu lasciato niente alcaso. Tutto pianificato, controllato: dal movimento terra fino agliimpianti elettrici nelle case. Famiglie intere erano state garantiteda questa economia parallela che spesso diventava l’unica fontedi reddito.

Con quella mattanza, però, il rapporto tra il clan dei casalesie la sua base sociale si incrinò. Fu la Chiesa di Casal di Principea proporsi come punto di riferimento e don Peppino Dianadivenne la guida e la voce del movimento di protesta. Non s’eramai vista una cosa del genere.

Fu distribuito fuori da tutte le chiese un volantino. Aveva untitolo emblematico: Basta con la dittatura armata della camor-ra. Fece il giro di tutte le case del circondario. Venne inviato allepiù alte cariche dello Stato e al Vescovo di Aversa. Ci fu un forteconsenso. Si capiva che il vento stava cambiando anche dalpunto di vista politico. La prima Repubblica cominciava a scric-chiolare. Il prefetto di Caserta, Corrado Catenacci, portò perso-nalmente ai parroci firmatari del volantino un messaggio di soli-darietà del Ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti. E il 29 settem-bre del 1991, furono sciolti «perché condizionati dalla camorra»i consigli comunali di Casal di Principe e Casapesenna.

La causa scatenante della lunga guerra di camorra era statal’interruzione di un summit del clan dei casalesi da parte deicarabinieri. Era il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre del 1990.A quella riunione, che si svolgeva nella casa di un assessore delComune di Casal di Principe, Gaetano Corvino, mancava unodei pezzi da novanta del clan, Vincenzo De Falco, su cui ricad-dero subito i sospetti di una soffiata. Vi fu un conflitto a fuoco efurono catturati Francesco Schiavone (Sandokan), Raffaele

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Diana, Francesco Schiavone di Luigi, Giuseppe Russo,Salvatore Cantiello e Francesco Bidognetti, mentre, copertodalle armi dei complici, era riuscito a fuggire Mario Iovine, unodei capi storici del clan. L’assessore Corvino, nel frattempo, sene stava in Municipio per una seduta di Giunta.

Per Vincenzo De Falco, il “traditore”, fu emessa una senten-za di morte senz’appello. La sentenza venne eseguita a Casal diPrincipe il 2 febbraio del 1991. Quasi un mese dopo, il 6 marzo,Mario Iovine, il latitante, fu raggiunto e assassinato inPortogallo, a Cascais. A ordinarne l’uccisione era stato NunzioDe Falco, fratello di Vincenzo.

Ormai si era scatenata una guerra aperta tra i clan Schiavone-Bidognetti e i clan Caterino-De Falco. Fu in quel clima che, inun giorno di ottobre del 1991, un corteo di auto sfilò per le stra-de del paese. L’insolita folla di persone si mosse lentamente perle strade di San Cipriano, Casapesenna e Casal di Principe.Budelli stretti dove è già difficile passare quando si incrocianodue auto. A fianco e dietro le macchine c’erano uomini armati ditutto punto. Alcuni erano seduti sui cofani. Erano circa le sei delpomeriggio. I negozi, i bar, i circoli e tutti i locali pubblici abbas-sarono le saracinesche. La gente scappava. Le tapparelle dellefinestre affacciate sulla via si chiudevano una dopo l’altra. Lestrade furono ben presto deserte. Come se fosse stato decretato ilcoprifuoco. Come se si fosse nel far west, quando all’improvvi-so arrivano i banditi a cavallo per scorrazzare nei saloon, rapina-re banche o ammazzare persone. Qui al posto dei cavalli c’eranole auto. Ma la situazione era la stessa. Nemmeno un poliziotto,né un carabiniere passò in quel momento, né intervenne dopo.Per tornare al far west, proprio come quando lo sceriffo sinasconde nel momento del bisogno. Fu una dimostrazione diforza che il clan Schiavone-Bidognetti diede davanti a tutti i cit-tadini. Il controllo del territorio, se ancora fosse stato necessariodimostrarlo, era pienamente nelle mani della camorra. Il corteopassò sotto le case degli esponenti del clan perdente. I guaglionidegli Schiavone li provocavano, li invitavano a uscire di casa perammazzarli. Durò circa un’ora. Per due giorni di seguito al

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primo imbrunire ci fu il coprifuoco senza che nessuno lo avesseproclamato. Per le strade non si trovava anima viva. La Chiesa,ancora una volta, scelse di non stare in silenzio.

A Natale del 1991 i parroci della Foranìa di Casal di Principe(di cui fanno parte le parrocchie dei comuni di Casal di Principe,San Cipriano di Aversa, Casapesenna, Villa Literno, Frignano,Villa di Briano e San Marcellino) stilarono un documento con ilquale invitavano il popolo a ribellarsi. Il titolo, che riprendeva undocumento dei vescovi meridionali di alcuni anni prima, era sim-bolicamente forte: Per amore del mio popolo. Cominciava conqueste parole:

«Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedo-no i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle orga-nizzazioni della camorra.

Come battezzati in Cristo, come pastori della Foranìa diCasal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostraresponsabilità di essere “segno di contraddizione”.

Coscienti che come Chiesa “dobbiamo educare con la parola ela testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è lapovertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambi-guo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino aldono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà».

Il documento esprimeva un giudizio di condanna senzaappello per la camorra e i suoi affiliati.

«La camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura,impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemicanella società campana.

I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, rego-le inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diven-tare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonomacapacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavo-ri edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffi-ci illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti ilcui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza adisposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diversefazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle fami-

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glie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adole-scenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenzae del crimine organizzato».

Individuava, infine, nella politica le responsabilità di una cor-ruzione e di una inefficienza che devastava tutte le istituzionidemocratiche.

«È oramai chiaro – scrivevano i parroci – che il disfacimentodelle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del poterecamorristico a tutti i livelli. La camorra riempie un vuoto di pote-re dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratteriz-zato da corruzione, lungaggini e favoritismi.

La camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispettoa quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari chesono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politicheoccupazionali, della sanità ecc. non possono che creare sfiducianegli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischioche si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguatatutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le caren-ze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere chel’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neu-trale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi peruna “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e diservizio.

Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli dicomportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esem-pi, per essere credibili (…)».

E concludeva con un appello alla mobilitazione per ridaresperanza ai cittadini:

«Le nostre chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioniarticolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti allanuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie ana-lisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciògli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe.

Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chia-ro nelle omelie e in tutte quelle occasioni in cui si richiede unatestimonianza coraggiosa.

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Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinchégli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzinonella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giu-stizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26).

Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli edire con Geremia “siamo rimasti lontani dalla pace... abbiamodimenticato il benessere... La continua esperienza del nostroincerto vagare, in alto e in basso,... dal nostro penoso disorienta-mento circa quello che bisogna decidere e fare... sono comeassenzio e veleno”».

Per la prima volta la Chiesa parlava un linguaggio chiaro,netto, immediato, capace di arrivare subito al cuore del proble-ma. Il documento fu distribuito nelle chiese. Furono soprattuttoi giovani dell’Azione Cattolica a impegnarsi per la sua diffusio-ne. Il consenso riscontrato tra i cittadini di Casal di Principe e deicomuni limitrofi fu straordinario. La voce della protesta varcò iconfini dei paesi dov’era nata. Don Peppino Diana incominciò agirare per le scuole della provincia e della regione. A portare lavoce del suo popolo alle marce anticamorra. Diventò un simbo-lo riconosciuto da quanti volevano combattere la camorra.

Tuttavia la guerra combattuta a furia di omicidi tra le duefazioni del clan non conobbe praticamente sosta. Furono uccisedecine di persone. Quando non si potevano uccidere i direttiavversari, a cadere sotto il piombo della camorra erano i parentipiù prossimi. Nel giro di qualche anno il clan Schiavone-Bidognetti, numericamente più consistente, ebbe la meglio suisuoi nemici. Fu così che la fazione De Falco-Caterino decise digiocare una carta decisiva: uccidere il parroco della chiesa di SanNicola di Bari di Casal di Principe, “quello che parlava sempre”.La sua morte – questa era la strategia – avrebbe provocato unareazione dello Stato. La repressione che ne sarebbe seguitaavrebbe decimato il clan Schiavone-Bidognetti.

Ma, ovviamente, non si trattava solo di questo. L’obiettivoera doppio. Con la morte di don Peppino Diana si voleva ferma-re anche la voglia di riscatto delle popolazioni locali, impartireloro una terribile lezione a futura memoria.

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Delitto passionale

Per l’uccisione di don Giuseppe Diana, il 27 marzo 2003 laquarta sezione della Corte di Assise d’Appello di Napoli ha con-dannato all’ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti qualicoautori dell’omicidio, mentre ha riconosciuto come autoremateriale Giuseppe Quadrano. L’autopsia ha accertato che donGiuseppe Diana fu colpito da quattro o forse cinque colpi dipistola semiautomatica calibro 7.65 Browning Beretta a cannarigata. La Corte ha smontato gli alibi del killer e dato credito aidue testi più importanti, in particolare al fotografo Augusto DiMeo che sin dalle prime ore aveva riconosciuto il Quadranonelle foto segnaletiche. Quest’ultimo, diventato collaboratore digiustizia, ha beneficiato di uno sconto di pena, venendo condan-nato, invece che all’ergastolo, a quattordici anni. Il 4 marzo 2004i giudici della Corte di Cassazione hanno confermato l’ergastoloper Santoro e Piacenti e la condanna minore per Quadrano.

Quanto ai mandanti, la giustizia ha accertato che la morte didon Diana venne ordinata dalla Spagna dal boss Nunzio DeFalco detto ’o Lupo, con l’intento di colpire il clan Schiavone-Bidognetti. In altra sentenza il 20 gennaio 2003 la prima Corted’Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, presiedutada Maria Rosaria Casentino, ha accolto in pieno la richiestaavanzata in proposito dal pm Francesco Curcio della Dda, con-dannando il boss all’ergastolo.

Ma prima di arrivare, dieci anni dopo l’omicidio, alla senten-za definitiva contro il mandante, la figura di don Giuseppe Dianaè stata oggetto di vari tentativi di infangarne la memoria.Tentativi che iniziarono sin dalle prime ore dopo la sua morte,quando venne fatta circolare la voce che fosse stato ucciso pervicende di donne. La camorra casalese, a cadavere ancora caldo,aveva sguinzagliato i suoi affiliati diffondendo la voce che fossestato un delitto passionale. Una strategia tipica della mafia sici-liana che il clan dei casalesi – sin dall’epoca di AntonioBardellino, che con Cosa Nostra aveva stretto un patto di ferro –aveva imparato a utilizzare con grande disinvoltura. Le voci

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ebbero un effetto immediato: indirizzarono le forze dell’ordineproprio verso questa pista. Il vescovo di Aversa, LorenzoChiarinelli, qualche ora prima dei funerali, ebbe un colloquioriservato con il prefetto di Caserta, Luigi Damiano. Si incontra-rono in un autogrill nei pressi del casello autostradale di CasertaNord. Damiano comunicò al presule che la ragione per cui erastato ucciso don Diana forse era più imbarazzante di quel che sipotesse immaginare. Tanto che monsignor Chiarinelli nella suaomelia funebre, tenuta il 21 marzo, adottò una “linea di pruden-za” e non nominò mai la parola “camorra”. Una prudenza chepurtroppo la Chiesa ha fatto sua fino alla sentenza definitivadella Cassazione.

Ci hanno pensato infatti i tribunali della Repubblica a farecrollare accuse e illazioni contro don Peppe, stabilendo che eglifu condannato a morte per quel che rappresentava: un simbolonella lotta alla camorra.

I giudici smontarono almeno tre teoremi: 1) quello del delit-to passionale; 2) quello di avere, don Diana, rifiutato di celebra-re in chiesa i funerali di un parente di Giuseppe Quadrano; 3)quello di aver custodito armi di proprietà del clan De Falco e diaverle poi consegnate al clan avversario di Francesco Schiavone.

«…La scelta di uccidere don Giuseppe Diana – recita la sen-tenza di secondo grado, confermata in Cassazione – ebbe soprat-tutto una forte carica simbolica, come segnale che avrebbe dovu-to essere dirompente e risolutorio nella contrapposizione tra ilgruppo De Falco-Quadrano e i casalesi (mafia docet!)».

«La cosa che più di ogni altra mi ha procurato immensodispiacere – continuò a raccontare Iolanda ai ragazzi venuti dalPiemonte – è stata quella di sentire e di leggere un sacco di schi-fezze sul conto di mio figlio. Scrissero che l’avevano ucciso perquestioni di donne. Neanche fosse stato il peggiore dei crimina-li. Per tutta la durata del processo, ci siamo sentiti anche noi dellafamiglia come dei criminali.

Mi riferirono anche di amministratori comunali che alcunigiorni dopo i funerali dissero ai preti di Casal di Principe, riuni-ti da don Carlo nella chiesa del Santissimo Salvatore: “Ma chi ve

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lo fa fare, non lo sapete che don Peppe è stato ucciso per viadelle donne?” Ho chiesto a Dio in quel momento, con tutte lemie forze, di punire coloro che andavano diffondendo quellevoci infamanti. È come se me l’avessero ucciso ancora unavolta».

Quelle infamie furono riprese e amplificate dal quotidiano ilCorriere di Caserta. Un’innocente foto scattata in un momentodi svago durante una gita, dove venivano ritratte persone sedutesul letto, venne fatta passare da quel giornale come la foto di unprete che faceva sesso a letto con donne e uomini.

«Quei titoloni sul Corriere di Caserta: Don Peppino a lettocon due donne, erano una pugnalata allo stomaco – continuòIolanda mentre si girava verso una ragazzina fissandola negliocchi – Tutto falso, ovviamente. La giornalista che firmò quel-l’articolo si venne a scusare da me in lacrime. Voleva essere per-donata per quell’infamia. Mi confessò che era stata costretta ascrivere quelle cose».

La famiglia di don Diana citò in giudizio il Corriere diCaserta. Il 3 aprile del 2003 venne emessa anche una dura sen-tenza nei confronti del quotidiano, del suo direttore responsabilee del giornalista estensore dell’articolo. «E poi quell’altro titolo:Don Diana era un camorrista, sempre sul Corriere di Caserta –ricorda ancora Iolanda – Una nuova infamia per una campagnadi stampa che voleva mio figlio coinvolto nella guerra tra clan.Nulla di più lontano dalla realtà».

A difendere la memoria di don Peppe ci ha spesso pensato ilvescovo di Caserta, Raffaele Nogaro. Il prelato reagì sui giorna-li contro il procuratore di Napoli, Agostino Cordova, che avevapreso per buona la tesi che il parroco avesse nascosto un borso-ne con le armi nella sua chiesa. Anche questa accusa evaporòmolto presto. Nogaro andò a testimoniare al processo su questavicenda.

«Certo, nella vita può capitare di tutto – dichiarò il vescovodi Caserta – ma i racconti fatti erano così fantomatici come leporcherie che dicevano, che assumevano proprio i toni del gial-lo. Conoscevo bene don Diana e non sono mai riuscito a credere

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che quelle insinuazioni, quelle calunnie che gli venivano rivolte,potessero essere vere».

In tanti si domandavano perché, e per conto di chi, venisseroarchitettate quelle campagne di stampa. Chi volesse alimentarequello squallido scenario per delegittimare l’immagine del par-roco che predicava contro la camorra. La risposta non era diffi-cile. Il tentativo arrivava da più parti: dai collaboratori di giusti-zia, dagli avvocati difensori degli imputati e dal Corriere diCaserta, pronto ad accreditare le tesi più svariate. L’opera didemolizione della figura di don Peppe aveva un obiettivo piùambizioso e andava oltre la stessa figura del parroco: si volevacolpire, delegittimare il movimento anticamorra che si era svi-luppato a Casal di Principe e nell’Agro aversano dopo la suauccisione.

Così il 30 marzo del 2003 fu avviata dal comitato “don PeppeDiana” una campagna di boicottaggio del Corriere di Casertache all’epoca veniva venduto nelle edicole insieme a La Stampadi Torino. Fu anche dato un titolo alla campagna di boicottaggio:“Non comprate i giornali spazzatura”.

In seguito alla denuncia di alcuni imprenditori casertani, l’11dicembre del 2003 fu arrestato Maurizio Clemente, definito daimagistrati “l’editore occulto” del Corriere di Caserta. Fu accu-sato di “estorsione a mezzo stampa”. Il processo è ancora incorso. In realtà, spiegò Iolanda quel mattino ai giovani scout pie-montesi, lei e i familiari avevano dovuto subire polemiche e insi-nuazioni già quando don Peppe era in vita. Vere assurdità. Comequando don Diana girava con un braccio fasciato e voci malevo-le dissero che lo avevano picchiato perché infastidiva qualchedonna della sua parrocchia.

«Cadde dalle scale – raccontò la mamma – nella parte anco-ra in costruzione, dove adesso abita mio figlio Emilio. Nonc’erano le transenne di protezione alle scale. Doveva uscire lamattina presto e per non svegliarci non accese la luce, credendodi potercela fare. Ma il caso volle che cadde da un’altezza diquattro o cinque metri. Dal primo piano andò a cadere sulla cap-

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potta del trattore che stava di sotto. E lì si fece male. Alle brac-cia, alla gamba destra e al torace. E poteva anche morire inseguito a quella caduta. Nonostante il dolore, però, decise di nonchiamarci per non farci preoccupare. Quando andò in bagno,quello al piano terra, per vedere cosa si era fatto, s’accorse diessere tutto insanguinato. Solo allora chiamò il fratello Emilio, ilquale si rese conto subito che la cosa era seria. Così venne a bus-sare alla nostra porta: “Mamma, papà, svegliatevi, Peppe è cadu-to dalle scale. Si è fatto male”. Lo portammo in ospedale.

Questo accadde molto tempo prima che venisse ucciso. Ealcuni giornali locali, durante il processo ai suoi assassini, disse-ro che era stato picchiato. Un’altra volta scrissero che gli aveva-no sparato. Ma era tutto falso. A sostenere le nostre ragioni,c’erano solo gli amici di don Peppe, pochi preti, e il vescovo diCaserta, Raffaele Nogaro, sempre in prima linea a difendere lamemoria di mio figlio. Quello che ha fatto Nogaro me lo sareiaspettato anche dalla diocesi a cui apparteneva Peppino. E inve-ce non mi sono sentita circondata da affetto, non mi sono senti-ta confortata, amata. La Chiesa di Aversa mi ha fatto soffrire. Macome? – mi sono detta – mio figlio è morto in quel modo, den-tro una chiesa e voi ve ne lavate le mani? Eppure Peppe era unsacerdote, uno di loro. Avrei voluto che mi dicessero una paroladi bene. Mi sarebbe bastato solo questo, perché quando vedo unodi loro è come se vedessi mio figlio. Invece niente. Solitudine eamarezza sono state le mie compagne in questi anni. La diocesidi Aversa non si è mossa nemmeno per scrivere a Roma per chie-dere la beatificazione di Peppe. E vorrei capire perché! Il mioPeppe non era un prete come gli altri. Non era uno che si mette-va in chiesa, diceva la messa e pensava di avere assolto il suoministero. Ed è forse questo che gli altri sacerdoti non hanno maivoluto accettare come esempio da seguire».

È un silenzio che le brucia come il fuoco. Le è bruciatosoprattutto nei giorni precedenti il tredicesimo anniversario dellamorte del figlio a causa di un libro, Il costo della memoria, pub-blicato nel marzo del 2007. Lo ha scritto un sacerdote siciliano,Rosario Giuè, che è stato anche parroco di San Gaetano

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Brancaccio, a Palermo, dal 1985 al 1989, il quartiere dove fuammazzato don Pino Puglisi. Giuè nel suo libro pone unadomanda semplice: don Puglisi è stata ammazzato ed è statoaccolto dalla propria Chiesa nel suo seno ed è stato elevato suglialtari. Perché questo non è successo per don Diana? La rispostaè altrettanto semplice, e la dà con il suo realistico buon senso lamamma di don Peppe: «Non hanno avuto il coraggio di prende-re a modello don Giuseppe Diana. Un modello di sacerdote pertutta la Chiesa e non solo quella aversana. Una persona che perservire il suo Cristo ha dato anche la vita». Un messaggio sco-modo, scomodissimo, che poteva mettere in crisi il modello delprete che vive all’ombra del potere, ossia quello praticato dalladiocesi di Aversa negli ultimi cinquant’anni.

Ma la cosa più grave è che quelle accuse hanno attecchitoanche all’interno della Chiesa. «Qualche sacerdote della Foranìa– spiegò sempre Iolanda ai suoi visitatori – ha sostenuto chec’era un’appartenenza ai clan da parte di alcuni sacerdoti. In par-ticolare si diceva che don Peppe Diana apparteneva al clan DeFalco. Don Armando Broccoletti apparteneva ai Bidognetti edon Carlo Aversano agli Schiavone. E questa sarebbe stata anchela ragione della morte di mio figlio. Come si può arrivare a tantacattiveria, come si può…». Certo, come si può... Eppure dopo glianni della mobilitazione e del sostegno coraggioso a una cresci-ta della coscienza civile, la Chiesa locale sembra essersi smarri-ta. E in questo “smarrimento” sono piombati perfino alcuni deisacerdoti che insieme a don Peppe Diana avevano firmato ildocumento Per amore del mio popolo. Anche questi sono, pur-troppo, gli effetti dei messaggi scritti con il piombo.

La Chiesa abbassa la testaSe ne ebbe un piccolo, ma amarissimo saggio per il tredicesi-

mo anniversario dell’assassinio, il 19 marzo del 2007, quando ilcomitato “don Peppe Diana” e l’associazione Libera organizza-rono una serie di manifestazioni. Poco più di un mese primac’era stato il tentativo di concordarle con i sacerdoti della

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Foranìa di Casal di Principe e la diocesi di Aversa. Nella giorna-ta di sabato 17 marzo, era prevista la manifestazione più impor-tante, dal titolo “Io c’ero”. Una sorta di giorno del ricordo e dellamemoria per quanti erano stati a Casal di Principe sia nel giornodella uccisione di don Peppe che ai suoi funerali. Luogo prescel-to dal comitato per le iniziative era il Santuario della Madonnadi Briano, quello dove è parroco don Paolo dell’Aversana, che èanche vicario della diocesi.

L’invito era stato rivolto pure a vescovi di altre diocesi, comeRaffaele Nogaro di Caserta, Lorenzo Chiarinelli di Viterbo eAntonio Riboldi, vescovo emerito di Acerra. Ovvero i tre prela-ti che nel pomeriggio del 19 marzo 1994 parteciparono alla mar-cia di protesta contro l’assassinio. Il vescovo della diocesi aver-sana, Mario Milano, seppur con qualche cautela, aveva dato ilsuo via libera. Era stata programmata anche la presentazione dellibro già ricordato, Il costo della memoria. Ma proprio sul librodi Giuè la diocesi di Aversa iniziò un ostracismo che finì percoinvolgere anche tutti i sacerdoti locali.

Il libro doveva essere presentato simbolicamente nella par-rocchia di San Nicola di Bari, quella della sagrestia violata einsanguinata. Una iniziativa analoga fu concordata anche con ilportavoce della curia di Aversa per presentare il libro di Giuè inalcune chiese della città. Ma, inspiegabilmente, la curia aversa-na decise di non partecipare alla presentazione del libro, ritenen-dolo offensivo nei confronti della Chiesa. Addirittura RosarioGiuè, che era venuto per tre giorni a Casal di Principe e dovevaessere ospitato al Santuario della Madonna di Briano, venne con-siderato come “ospite non opportuno”.

Morale, la sera della presentazione ci furono diverse sedievuote. C’erano solo gli amici stretti di don Diana. Quelli di sem-pre. Mancava la gente comune. Mancavano i preti amici di donDiana che con lui avevano condiviso tante battaglie. La Chiesacosì fortemente radicata da queste parti aveva scelto di non farpartecipare “il suo popolo”. Fu come se fosse stato organizzato

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un cordone di isolamento. Lo percepì e lo disse apertamente ilviceprocuratore nazionale antimafia Lucio Di Pietro, relatore conil magistrato Donato Ceglie e con la giornalista Tina Cioffo. «Nonci si comporta così» si lamentò la mamma di don Diana, dopo aversaputo dell’atteggiamento della Curia aversana e dei sacerdoticasalesi. Lo avrebbe fatto sapere anche al vescovo di Aversa,Mario Milano. «Il libro dice tutte verità. Dopo tredici anni, subirequesto affronto è un dolore che si rinnova». A casa della signoraIolanda Di Tella si recò allora don Franco Picone, il parroco cheha preso il posto di don Diana. «Mi disse che il libro l’aveva lettoanche il vescovo – raccontò Iolanda – e che ci sono scritte cose cheloro non condividono. Ma io gli ribadii che quelle contenute nellibro sono tutte verità. Quello della Chiesa aversana è un atteggia-mento negativo che continua nel tempo. E non vuole finire».

A parlare di «incomprensibile boicottaggio da parte dellaCuria» furono in quell’occasione anche don Luigi Ciotti, presi-dente di Libera, e il sostituto procuratore in forza alla Procuradella Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, Donato Ceglie,presenti alla manifestazione “Io c’ero”. Ma il giudizio più durofu espresso da Emilio Diana, il fratello di don Peppe: «Mi mera-viglio – dichiarò – che la curia aversana non si sia scandalizzatapiù di tanto quando alcuni mesi fa a San Cipriano d’Aversa èstato intitolato un centro pastorale a una persona coinvolta nelprocesso Spartacus, mentre oggi si scandalizza di un libro.Questo è un anniversario amaro. Ma oramai ci siamo abituatiall’indifferenza del mondo ecclesiastico».

Emilio Diana si riferiva alla vicenda del Centro diocesanodella chiesa di Santa Croce di San Cipriano d’Aversa, comunelimitrofo a Casal di Principe. Il quale è stato intestato a DantePassarelli, coinvolto nel maxi processo Spartacus, concluso inprimo grado il 15 settembre 2005, con ventuno ergastoli commi-nati al gotha del clan dei casalesi. Passarelli morì mentre il pro-cesso era ancora in corso. A tirare fuori tutta la vicenda fu il quo-tidiano Il Mattino, il 19 dicembre 2006, con un articolo a firmadi Rosaria Capacchione, che ricordò come Passarelli, arrestatoper associazione camorristica, fosse destinatario di una richiestadi condanna a otto anni di reclusione.

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Amici miei

«Qualche volta me lo sono sognato il mio Peppino. Quandoerano passati solo pochi mesi dalla sua morte, mi venne in sognoper dirmi che era innocente». Iolanda di Tella riscoprì il sorrisomentre proseguiva il suo racconto ai giovanissimi ospiti, affasci-nati dalla forza dolorosa di una donna di cui a volte capivanodalla mimica ciò che non capivano dalle parole. Iolanda trasmet-teva sentimenti ed emozioni forti. «Era un periodo durissimo –continuò – Anche i miei familiari, mio marito e mio figlio, nonriuscivano a farsene una ragione. E avevano il rimorso di nonaverlo fermato, di non avergli impedito di andare oltre un certorischio. “Se avesse fatto il prete come gli altri...” mi dicevanospesso. Ma lui mi venne in sogno una notte. Era tutto vestito dibianco. Entrò nella mia camera da letto, non lo faceva mai, siavvicinò a me delicatamente, mi prese la mano, e guardandoanche il padre, disse: “Ma che volete da me, io sono innocente”.Quando mi svegliai e ripensai al sogno, scoppiai a piangere. Hosempre saputo che il mio Peppino si comportava in quel modoperché voleva solo aiutare le persone, soprattutto quelle che nehanno più bisogno. Per questo aveva tanti amici. Gli scout sonola sua seconda famiglia. Si sono costituiti parte civile al proces-so e sono loro, con gli amici, che oggi, più di tutti, ne custodi-scono la memoria.

È grazie a loro se in questo territorio gli vengono intestatestrade, piazze e scuole. Se torno con la memoria a quel periodo,cosa che faccio ormai tutti i giorni da quando il mio Peppe nonc’è più, insieme a tanto dolore mi viene sempre in mente uncolore: l’azzurro. L’azzurro cielo delle camicie degli scout. Nonso quanti ce n’erano in quei giorni a riempire le strade di Casaldi Principe. Quasi tutti volti sconosciuti. Possibile, mi chiedo,che il mio Peppe avesse conosciuto così tante persone? E chetutti gli volessero così bene?».

«Sono passati quasi quattordici anni, e ce l’ho sempre davan-ti agli occhi. Spesso mi domando se sia servita a qualcosa la sua

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morte. E cerco di rispondermi da sola. Per gli altri sì. È servitaper la gente, per quelli di fuori Casale, perché don Peppe è diven-tato un simbolo. Ma per me non è servita proprio a niente. Mel’hanno levato e basta. Io sono la mamma, vorrei averlo ancoraqui. A me non ha dato niente nessuno. Io ho avuto solo il doloredalla sua morte. Se potessi tornare indietro gli direi di non farepiù quelle cose per le quali è diventato protagonista. Ma sonoaltrettanto sicura che lui continuerebbe a farle, come sempre».

Ora la memoria di don Peppe si consolida anche a Casal diPrincipe. Appena dopo la sua morte era difficile entrare nellescuole e tenere conferenze o dibattiti su quello che era accadutoil 19 marzo del 1994. Oggi non è più così. Tante scuole chiedo-no al “Comitato don Peppe Diana” di partecipare a dibattiti,manifestazioni per la legalità, di testimoniare il ricordo del pretecoraggioso. Anche sulla sua tomba non mancano mai i fiori fre-schi e qualche cero acceso. «Sono i cittadini di Casale che siricordano del mio Peppino – volle precisare Iolanda – Hannopianto in tantissimi per lui. Ogni anno il 19 marzo gli facciamodire una messa. E ci sono tante persone che partecipano. Ricordoquei lenzuoli bianchi e la gente a migliaia, nel giorno dei suoifunerali. Queste memorie mi aiutano a vivere. Per me sonoimportanti. Perché gli acciacchi che ho mi danno sempre più pro-blemi. Sono stanca di vivere. Il dolore è stato tremendo e non sene va. È il mio Peppe che mi dà la forza. Quando vado in ospe-dale ho paura, ma so che lui è vicino a me. Quando lui riterrà chesono pronta per raggiungerlo, per me sarà un sollievo, un dolcepiacere».

Appena Iolanda terminò il suo racconto, gli scout vollerovisitare la stanza del figlio. È rimasta intatta, come allora. C’è ilsuo letto, e sul letto un bambinello. «È lì da sempre», spiegò ilpadre, Gennaro, accompagnando gli scout in visita alle due stan-ze e allo studio al primo piano che don Peppe condivideva nel-l’appartamento con i suoi genitori. Ci sono la sua scrivania, isuoi libri. Ci sono i ricordi, le foto, i regali e i pensieri che por-tano gli scout. Ognuno viene da un paese. «Qui dov’è?» doman-

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dò una ragazza indicando una foto. «Dove stanno i coccodrilli –rispose il padre – Era andato con il suo amico fotografo, Augustodi Meo, il quale cadde dalla barca e finì nel fiume e Peppe situffò per ripigliarlo». Poi videro una foto di Peppe con i panta-loncini. Papà Gennaro raccontò che quella foto l’aveva scattatain un mese di giugno, durante la mietitura del grano. Era in cam-pagna ad aiutarlo, proprio nella proprietà di famiglia, perciò lo sivedeva avanzare a torso nudo nel vialetto di campagna.

«Questa che cos’è?» chiese un altro giovane scout, fermando-si davanti a una Madonnina. «Questa – rispose la madre – arrivòda Fatima proprio il giorno che lui cadde dalle scale e si ruppe ilbraccio. L’aveva comprata qualche settimana prima in uno deisuoi viaggi all’estero. Peppe era anche assistente generaledell’Opera pellegrinaggi Foulards Blancs. Andava a Lourdes adaccompagnare i malati. L’avevano spedita per posta». Un segnopremonitore, fa intendere Iolanda. Non doveva morire quel gior-no e in quel modo. Qualcuno in cielo aveva riservato a lui unsacrificio più grande.

Scendendo dalle scale un giovane scout domandò d’improv-viso a Iolanda: «Ma se oggi, a tanti anni di distanza, incontrassegli assassini di suo figlio cosa le verrebbe da dire?». «Niente –rispose lei – Gli farei quello che hanno fatto a mio figlio».