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51 Capitolo II LE COMPAGNIE FERROVIARIE STATUNITENSI: LE FORME DI ORGANIZZAZIONE DELLA PRIMA IMPRESA “MODERNA” 1. Le ferrovie statunitensi L’impresa complessa, di cui le Compagnie dei canali furono le proge- nitrici, si concretò attorno ad un nuovo mezzo di trasporto. A partire dal 1830, un anno dopo che George Stephenson ebbe definitivamente di- mostrato con gli esperimenti di Rainhill, in Gran Bretagna, la possibilità di utilizzare la locomotiva a vapore nei trasporti a terra 1 , quando gli statunitensi intrapresero la costruzione delle prime ferrovie. La fase pio- nieristica si può approssimativamente collocare tra il 1830 e il 1850, con un graduale sviluppo che portò – da 1.000 miglia di linee costruite a tut- to il 1835 – a 3.000 miglia esistenti nel 1840, ed a 9.000 nel 1850. In realtà le prime linee ferroviarie furono intese come uno strumento di integrazione/complemento dei corsi d’acqua, della rete dei canali e delle strade a pedaggio, non essendoci ancora la percezione – anche per l’approssimazione della tecnologia dell’epoca – che la ferrovia potesse essere utilizzata sulle lunghe distanze. E tuttavia gli Stati Uniti conob- bero in campo ferroviario uno sviluppo più rapido rispetto al continente europee, e la storiografia è ricorsa per spiegarlo ad una sorta di “via americana”, che privilegiava la velocità e l’economicità nella costruzio- ne della rete, sacrificando conseguentemente sicurezza, durata e qualità 1 Sulla tecnologia del vapore, si vedano i saggi di H.W. DICKINSON, La macchina a vapore fino al 1830, e di A. STOWERS, La macchina a vapore fissa, rispettivamente nel vol. IV (La rivoluzione industriale) della Storia della tecnologia curata da C. SINGER, E.J. HOLMYARD, A.R. HALL e T.I. WILLIAMS: Torino, Boringhieri, 1964 e 1965. Per lo sviluppo dell’ingegneria ferroviaria, cfr. il saggio dal medesimo titolo di G. HAMILTON ELLIS nel vol. V della medesima opera.

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Capitolo II

LE COMPAGNIE FERROVIARIE STATUNITENSI:

LE FORME DI ORGANIZZAZIONE DELLA PRIMA IMPRESA “MODERNA”

1. Le ferrovie statunitensi

L’impresa complessa, di cui le Compagnie dei canali furono le proge-

nitrici, si concretò attorno ad un nuovo mezzo di trasporto. A partire dal 1830, un anno dopo che George Stephenson ebbe definitivamente di-

mostrato con gli esperimenti di Rainhill, in Gran Bretagna, la possibilità

di utilizzare la locomotiva a vapore nei trasporti a terra1, quando gli statunitensi intrapresero la costruzione delle prime ferrovie. La fase pio-

nieristica si può approssimativamente collocare tra il 1830 e il 1850, con un graduale sviluppo che portò – da 1.000 miglia di linee costruite a tut-

to il 1835 – a 3.000 miglia esistenti nel 1840, ed a 9.000 nel 1850.

In realtà le prime linee ferroviarie furono intese come uno strumento di integrazione/complemento dei corsi d’acqua, della rete dei canali e

delle strade a pedaggio, non essendoci ancora la percezione – anche per

l’approssimazione della tecnologia dell’epoca – che la ferrovia potesse essere utilizzata sulle lunghe distanze. E tuttavia gli Stati Uniti conob-

bero in campo ferroviario uno sviluppo più rapido rispetto al continente europee, e la storiografia è ricorsa per spiegarlo ad una sorta di “via

americana”, che privilegiava la velocità e l’economicità nella costruzio-

ne della rete, sacrificando conseguentemente sicurezza, durata e qualità

1 Sulla tecnologia del vapore, si vedano i saggi di H.W. DICKINSON, La macchina a

vapore fino al 1830, e di A. STOWERS, La macchina a vapore fissa, rispettivamente nel

vol. IV (La rivoluzione industriale) della Storia della tecnologia curata da C. SINGER,

E.J. HOLMYARD, A.R. HALL e T.I. WILLIAMS: Torino, Boringhieri, 1964 e 1965.

Per lo sviluppo dell’ingegneria ferroviaria, cfr. il saggio dal medesimo titolo di G.

HAMILTON ELLIS nel vol. V della medesima opera.

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delle infrastrutture fisse, ma anche nella produzione dei mezzi di trazio-ne (le locomotive) e dei vagoni.

Le prime rotaie venivano infatti costruite in legno con una sola banda di ferro inchiodata sopra, sia per ridurne il costo sia per accelerare i

tempi di posa; i ponti venivano anch’essi realizzati in legno; le stazioni

erano male attrezzate; le frequenze dei convogli erano spesso appros-simative. I percorsi venivano progettati in modo da aggirare ostacoli ed

asperità del terreno, cosicché erano ridotti al minimo i lavori di sterro e si evitava salvo casi eccezionali la realizzazione di gallerie.

La velocità, tuttavia, con la quale le linee andavano espandendosi, sti-

molò presto la crescita tecnologica degli operatori: da un lato con pro-gettazioni più sofisticate dei percorsi, e dall’altro con la progressiva spe-

cializzazione ed innovazione dei produttori di materiale rotabile.

Fu ad esempio grazie all’invenzione del carrello flessibile, in grado di permettere di affrontare senza difficoltà curve anche molto strette,

che le locomotive americane divennero fortemente competitive nei mercati stranieri, anche in virtù della contrazione nei costi di pro-

duzione che la specializzazione induceva. Già verso la fine degli anni

Quaranta, due aziende di Philadelphia, la Norris Locomotive Works e la Eastwick & Harrison, iniziarono ad esportare i loro locomotori in

Europa.

Fu necessario però attendere la metà del secolo perché la ferrovia, mezzo di trasporto rapido, regolare e non soggetto ai vincoli delle con-

dizioni atmosferiche come avveniva per il trasporto via fiume e canali, divenisse l’attore principale di una autentica rivoluzione nella distribu-

zione delle merci negli Stati Uniti.

Tra il 1850 e il 1860 la ferrovia superò la barriera costituita dai monti Appalachi, penetrando rapidamente nella vallata del Mississippi. Nel

1860 le linee esistenti erano arrivate a superare le 30mila miglia, costi-

tuendo già la trama fondamentale della rete ferroviaria ad est del grande fiume.

Dopo soli nove anni, nel 1869, venne finalmente raggiunto il Paci-fico. Sei anni più tardi, nel 1875, le 74mila miglia di linee in esercizio

assicuravano ormai al paese l’ossatura di base del suo sistema di traspor-

to via terra a grande distanza. Dopo la depressione economica degli an-ni Settanta, conseguenza della guerra di Secessione, la ripresa di una

intensa attività di costruzioni ferroviarie ebbe il risultato di riempire le maglie della rete già esistente. Solo in talune regioni dell’Ovest, le nuove

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linee aprirono al trasporto su ferrovia aree ancora escluse dai grandi traffici.

la variabile densità della rete ferroviaria statunitense nel 1890

L’avanzata della ferrovia corse parallela, ed in molti casi essendone preceduta, a quella del telegrafo. Inventato nel 1844, ed utilizzato com-

mercialmente dal 1847, il telegrafo divenne subito negli Stati Uniti un

importante mezzo di comunicazione e di interscambio economico, dimo-strandosi particolarmente funzionale all’attività ferroviaria. Attraverso il

telegrafo le compagnie ferroviarie tenevano sotto controllo le loro reti, con un continuo scambio di informazioni dalle singole stazioni alla sede

centrale delle varie società, e viceversa. Fino a quando i treni viaggiaro-

no su un unico binario, era proprio attraverso il telegrafo che veniva co-municata alle stazioni interessate la partenza dei convogli evitando così

il prima purtroppo non infrequente scontro tra treni viaggianti in dire-zioni opposte. Più facile ed economico da installare delle ferrovie, negli

Stati Uniti il telegrafo aveva raggiunto prima di queste, nel 1861, la co-

sta del Pacifico. A questa data, mentre le dimensioni della rete ferroviaria si disco-

stavano poco dalle 30mila miglia prima menzionate, il telegrafo poteva

già contare su linee che superavano le 50mila miglia.

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Come è noto, le compagnie ferroviarie statunitensi rappresentarono la prima forma di grande impresa destinata a divenire la protagonista della

seconda rivoluzione industriale. Il loro sviluppo rappresentò un passaggio fondamentale nell’afferma-

zione di un sistema di produzione: l’american system of manufactoring (Asm).

Anche la produzione di locomotive, vagoni e rotaie basata sull’assem-blaggio di pezzi elementari e standardizzati rientrava nella linea di svi-

luppo della filiera tecnologica dell’Asm (dalla meccanica leggera per usi bellici alla produzione meccanica per usi civili: armi, macchine per cu-

cire, biciclette, automobili): la produzione standardizzata per le ferrovie

poteva sfruttare le economie di scala, e far fronte alla crescente doman-da con conseguente abbattimento dei costi di produzione.

Le nuove società ferroviarie, imprese complesse di grandi dimensioni,

rappresentarono – come vedremo nei paragrafi che seguono – dei veri e propri luoghi di apprendimento di capacità produttive ed organizzative,

fondamentali per la successiva affermazione dell’industria meccanica sta-tunitense a livello mondiale.

La nascita e la diffusione del mezzo ferroviario innescò una serie di

trasformazioni destinate a mutare radicalmente la struttura economica statunitense grazie alle connessioni a monte e a valle con altre parti del

sistema economico.

Per quanto riguarda le connessioni a monte, di fondamentale impor-tanza furono gli stimoli che l’industria siderurgica e meccanica ricevet-

tero dalla costruzione delle linee. Le connessioni a monte risultarono più evidenti nel Nord-Est del paese, dove era già presente un’industria

di base, pur non essendo del tutto assenti anche nel Centro-Ovest, dove

si stavano sviluppando alcuni insediamenti manifatturieri. In una prima fase, il fabbisogno di semilavorati e prodotti siderurgici

necessari alla costruzione delle ferrovie fu soddisfatto in gran parte at-traverso importazioni dalla Gran Bretagna; fu quindi solo a partire dalla

seconda metà degli anni Quaranta del XIX secolo che l’industria siderur-

gica americana trasse impulso alla sua espansione dal processo di ferro-viarizzazione del paese, conseguente aumento dell’occupazione e dei

capitali investiti; si pensi, ad esempio, che tra il 1867 e il 1891 la pro-

duzione di rotaie assorbì da sola il 50% dell’output di acciaio statuni-

tense.

Anche l’industria estrattiva del carbone ricavò effetti rilevanti a far da-ta da quel periodo; il suo consumo, trascurabile fino alla prima metà del

secolo quando le locomotive bruciavano prevalentemente legna, aumen-

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tò notevolmente in seguito fino ad assorbire il 20% della produzione na-zionale.

Per quanto riguarda le connessioni a valle con il sistema economico, è necessario anticipare che la ferrovia, eliminando l’ostacolo della distan-

za, rese possibile l’inserimento dei mercati locali nell’economia naziona-

le contribuendo in modo significativo al passaggio delle regioni centro-occidentali da una produzione per autoconsumo alla produzione per il

mercato. Grazie alla ferrovia si svilupparono flussi commerciali di prodotti pri-

mari fra Ovest ed Est, prima costretti a lunghi viaggi su strada o impos-

sibili per i prodotti deperibili, con conseguente impatto positivo sulla crescita del settore agricolo.

Rilevanti furono anche gli effetti che la ferrovia ebbe nel processo di

riallocazione del capitale umano del paese; l’avanzare della rete fer-roviaria andò infatti di pari passo con l’irrobustirsi dei flussi migratori,

sia per soddisfare la domanda di manodopera necessaria alla costru-zione delle linee, sia per sfruttare le nuove opportunità offerte dall’agri-

coltura, e in seguito dall’industria, nelle nuove zone toccate dalla rete

ferroviaria e quindi guadagnate ai circuiti commerciali e al mercato na-zionale del lavoro.

Tali flussi migratori accelerarono notevolmente il processo di urbaniz-

zazione, determinando la crescita di nuovi importanti centri manifat-turieri quali Chicago, Cincinnati, St. Louis, Minneapolis e Kansas City.

Le ferrovie si dimostrarono inoltre un ottimo affare per gli investitori privati; esse presentarono fin dall’inizio alti rendimenti che si dimostra-

rono in continua crescita parallelamente all’estensione della rete ed alla

sua capacità di seguire e sostenere lo sviluppo economico complessivo.

2. I problemi di gestione del nuovo mezzo di trasporto

Vediamo ora quali problemi pose la gestione del mezzo di trasporto

ferroviario, premettendo che il suo rapido sviluppo territoriale determi-nò a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta la nascita di impre-

se – le compagnie ferroviarie – dalle dimensioni fino ad allora scono-

sciute. Nel corso dei cinquant’anni successivi, le compagnie ferroviarie fu-

rono le imprese che in assoluto esigevano il coordinamento e il control-

lo di quantità di danaro, uomini ed attrezzature superiori a quelle in

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gioco in qualsiasi altro settore economico. Non vi era comparto in cui fosse necessario in ogni singolo momento una tale precisione operativa,

o in cui fossero richiesti investimenti di capitale delle medesime propor-zioni. Il solo tipo di attività che, per la tecnologia utilizzata, richiedesse

un controllo altrettanto centralizzato, era quella telegrafica.

Contrariamente alla prevalente presenza pubblica nel finanziamento dei canali, raramente le ferrovie furono opera degli stati locali. E le po-

chissime iniziative pubbliche avviate nell’età pionieristica si esaurirono presto, attorno al il 1850, quando furono cedute alle più consistenti com-

pagnie private sorte nel frattempo. Mancò del resto quello specifico inte-

resse degli operatori mercantili, che per i canali avevano invece solleci-tato l’intervento pubblico. privati: sia perché il business ferroviario si

presentava ben altrimenti interessante e proficuo (era infatti la generalità

delle merci, e lo stesso trasporto viaggiatori ad essere interessato al nuo-vo mezzo di comunicazione), e non difettavano i capitali interessati all’in-

vestimento, sia perché i principali potenziali utilizzatori delle ferrovie (mercanti, imprese produttive, spedizionieri per conto terzi) non si fida-

vano della gestione governativa.

Ma questi stessi – che, pur usufruendone, giustamente imputavano a-gli stati una cattiva gestione dei canali, e quindi ne paventavano un’e-

stensione alle ferrovie – temevano anche il monopolio privato: e trasferi-

rono perciò la loro capacità di pressione politica dal versante del finan-ziamento della costruzione, a quello del controllo pubblico su alcuni

aspetti della gestione. Alla fine ottenendo che le compagnie fossero as-soggettate nella loro attività ad un qualche controllo dell’autorità pubbli-

ca. Che se non sempre si verificò, tuttavia servì in una prima fase a cal-

mierare le tariffe e a impedire indebite rendite di posizione. Più tardi vi provvidero – anche se non sempre – la concorrenza, e la naturale sele-

zione del mercato. L’interesse per la creazione del sistema ferroviario, spinse peraltro il

governo federale a qualche politica di sostegno degli interventi di infra-

strutturazione: più timido prima del 1860, esso si rilevò cospicuo dopo la guerra civile. Se pochi furono i finanziamenti diretti, lo stato cedette

gratuitamente alle compagnie circa 130 milioni di acri di terre demaniali

localizzate lungo il percorso delle loro linee. Tali terreni solo in parte fu-rono fisicamente occupate dai binari e dagli altri impianti fissi (uffici,

officine ecc.), mentre il restante andò a costituire un notevole polmone finanziario delle compagnie, dato l’incremento esponenziale del loro va-

lore derivante dalla immediata prossimità alle linee ferroviarie stesse.

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I nuovi impieghi del vapore e del ferro nell’attività economica, e del-l’energia elettrica nel caso del telegrafo, se da una lato contribuirono ad

una autentica rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni, dall’altro portarono alla nascita delle prime imprese moderne nella storia dell’Occi-

dente: e cioè le prime destinate a coordinare in modo centralizzato, sor-

vegliare, valutare e pianificare le attività di un numero crescente di unità operative specializzate.

La gestione di imprese di questo tipo – dapprima nei trasporti, e più tar-di nell’industria manifatturiera – richiese il ricorso ad una inedita figura

di operatore economico: il dirigente come professionista a tempo pieno,

e regolarmente stipendiato. Chi andò a costituire questo nuovo ceto di professionisti, solo in rari

casi proveniva da precedenti esperienze mercantili od artigiane. In gene-

rale ebbe origini nuove, formandosi come ingegnere: solitamente nelle accademie militari, prima fra tutte quella di West Point, e più tardi nei

politecnici universitari come ingegnere civile e/o industriale. I primi po-litecnici furono del resto creati – dopo la positiva applicazione nei setto-

ri civili degli ingegneri di origine militare, o l’esperienza acquisita sul

campo pratico da tecnici di particolare valore – per rispondere alle esi-genze delle imprese di poter disporre in vasto numero di ingegneri pro-

fessionisti.

Fu questo, probabilmente, il primo ceto professionale americano (e del mondo industrializzato) a costituire proprie associazioni, che divennero

il canale privilegiato della diffusione delle nuove conoscenze tecniche, delle esperienze applicative, di una vera e propria religione industria-

lista. La formazione di questi professionisti della tecnica, la loro espe-

rienza, spesso il loro stesso stile di vita, differivano in modo assoluto da quelle dei mercanti-imprenditori che avevano portato l’economia pre-

industriale all’età della fabbrica: almeno quanto le tecniche economiche

da loro utilizzate contrastavano con quelle dell’età mercantile. Fu questo ceto di nuovi professionisti a trasformare la costruzione, e

più ancora la gestione delle ferrovie nel primo big business: della società

americana come dell’intera civiltà industriale.

Poiché le ferrovie dovettero affrontare (più ancora dei canali) tutti i

problemi del finanziamento e dell’amministrazione di imprese di grandi dimensioni, ai loro dirigenti capitò di assolvere al ruolo di pionieri nel-

l’adozione delle moderne forme di gestione. Sin dall’inizio, la costruzio-ne e l’esercizio delle linee ferroviarie richiesero infatti capitali ingentis-

simi ed un numero elevato di dipendenti.

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Questo ruolo pionieristico non si esercitò tuttavia sino alla tumultuo-sa espansione ferroviaria degli anni Cinquanta del XIX secolo. Prima di

allora, le strade ferrate non modificarono infatti in modo sostanziale le vie od i metodi di trasporto – e quindi non necessitarono di nuovi meto-

di gestionali – assolvendo quasi esclusivamente il compito di integrare o

collegare i tragitti dei vari canali, o delle vie d’acqua naturali. Fu del resto con gli anni Quaranta che la tecnica dei trasporti su rotaia subì de-

cisivi perfezionamenti, grazie alla messa a punto di metodi tendenzial-mente uniformi per la costruzione delle linee, dei tratti in pendenza, del-

le gallerie e dei ponti.

La rotaia a “T” cominciò ad essere usata su tutti i percorsi, mentre verso la fine del decennio la locomotiva assumeva caratteristiche tecni-

che più mature, ed entravano in funzione i nuovi vagoni “lunghi” per

passeggeri, che potevano ospitare sessanta persone sedute, e i carri chiu-si (ancorché di dimensioni inferiori) per il trasporto delle merci, del be-

stiame e del legname che rimasero pressoché invariati per tipologia di costruzione fin quasi la metà del Novecento. Fu l’evoluzione tecnica, e

l’espansione delle prime reti, a rendere rapidamente le ferrovie il privile-

giato mezzo di trasporto terrestre. Il motivo del rapidissimo successo commerciale delle ferrovie – che

emarginò i trasporti fluviali, lacustri e costieri ai piccoli percorsi, mentre

segnò la morte dei trasporti via canale – dipese dal fatto che la strada fer-rata offriva un tipo di comunicazione più immediato e costante, essendo

indifferente alle condizioni atmosferiche. Salvo che in caso di ingenti ne-vicate, almeno fino a quando non vennero approntate locomotive dotate

di rostri spazzaneve.

Dal punto di vista dei costi, le ferrovie consentirono percorsi più diretti, e quindi un costo miglio/tonnellata inferiore agli altri mezzi di

trasporto. Ed anche quando si cominciò a contabilizzare nei costi (come

si dirà più avanti) l’ammortamento delle spese di costruzione, questi ri-masero competitivi2. Ma più di tutto furono l’affidabilità del servizio (che

garantiva orari e date certe di consegna delle merci) e la maggiore velocità – che consentì, per la prima volta nella storia, di trasportare co-

2 Mentre il costo della costruzione dei canali in pianura era sensibilmente inferiore

a quello della strada ferrata, esso era enormemente superiore in caso del supe-

ramento di zone collinose o montagnose. Le spese di gestione erano poi netta-

mente a favore delle ferrovie: i canali implicavano costi di manutenzione elevati,

specie a causa dei ricorrenti ed improvvisi aumenti del livello delle acque.

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se e persone in terra ferma a velocità superiore a quella del cavallo – a determinare il primato della ferrovia3.

Già a metà degli anni Cinquanta, e cioè quasi un venticinquennio do-po l’avvio delle prime linee, e quando ancora le maggiori imprese

manifatturiere del paese superavano di rado (e per poco) il milione di

dollari di capitale investito, esistevano negli Stati Uniti almeno 15 com-pagnie ferroviarie il cui capitale fisso superava i 5 milioni di dollari. Le

quattro maggiori linee interregionali, quelle che collegavano le regioni orientali alla valle del Mississippi, e che erano state completate tra il

1851 e il 1854, avevano accumulato investimenti varianti tra i 17 e i 35

milioni di dollari. Questa enorme differenza si rifletteva anche sul capitale circolante: se

nelle maggiori imprese manifatturiere oscillava tra i 300mila e i 500mila

dollari, nelle compagnie ferroviarie esso arrivava facilmente ai 3 mili-oni. Né diversa era la disparità di numero e funzioni assolte dai dipen-

denti nei due tipi di imprese: le ferrovie potevano, all’epoca, arrivare infatti facilmente ai 4.000 dipendenti, adibiti ad un’ampia gamma di

mansioni, mentre le maggiori imprese manifatturiere (prevalentemente

tessili) raramente superavano i 1.500 addetti, occupati per lo più – pur nella inevitabile divisione del lavoro – in compiti tutto sommato simili o

fungibili.

L’ingente fabbisogno finanziario delle compagnie ferroviarie provocò consistenti conseguenze nella struttura dell’impresa.

Innanzitutto, se anche all’inizio molte di esse furono iniziativa di singoli capitalisti legati alla specificità economica della zona in cui la

linea ferroviaria doveva essere costruita, l’urgenza di reperire liquidità

per gli investimenti portò presto a strutturare l’impresa sotto forma di società anonima.

Ciò fu vero in particolare a partire dall’inizio degli anni Cinquanta.

Quando, per far fronte ad esigenze finanziarie del tutto nuove, trovò fer-tile terreno di sviluppo un particolare tipo di istituzione bancaria: la

banca d’investimento specializzata. E dietro a questa si produsse quel fatto straordinario costituito dalla centralizzazione (ed istituzionaliz-

zazione) a Wall Street, New York, di un mercato di intermediazione fi-

3 Nel 1830, per percorrere a cavallo la distanza tra New York e Chicago erano

necessarie quasi tre settimane di tempo; meno di trent’anni dopo (1857), la ferrovia

copriva il medesimo tragitto in soli 3 giorni. Cfr. C.O. PAULLIN, Atlas of the Histo-

rical Geography of the United States, Washington, Carnegie Institute and American

Geographical Society, 1932.

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nanziaria di portata nazionale. Tanto che dei circa 1,5 miliardi di dollari investiti a tutto il 1859 nelle ferrovie americane, poco meno della metà

(0,7 miliardi) fu raccolta solo dopo il 1850. Fu questa enorme massa di danaro riversata negli investimenti ferroviari, a provocare la messa a

punto delle moderne tecniche della speculazione di Borsa, dall’opzione

doppia – tanto per fare un esempio – alla vendita allo scoperto, all’ac-quisto al margine.

Contemporaneamente vennero sviluppati nuovi sistemi, per certi versi ancora attuali, di provvista dei capitali. Uno dei più usati (e poi dive-

nuto classico) fu quello delle obbligazioni, peraltro già sperimentato dal-

le compagnie dei canali: e cioè dell’emissione di titoli di debito, che non comportavano responsabilità dei sottoscrittori nella gestione, né rappre-

sentavano cointeressenza degli stessi agli utili, bensì garantivano la

corresponsione di un interesse fino al rimborso (a data certa) del capitale prestato all’impresa.

Poiché le ingenti somme necessarie alla costruzione delle varie linee, dovettero per la maggior parte essere raccolte presso investitori diversi

da quelli locali (ad esempio delle regioni orientali per le costruzioni ad

Ovest, o delle piazze europee sia per le linee che sorgevano ad Est come per quelle ad Ovest), e quindi impediti dalla lontananza fisica a parte-

cipare al controllo della gestione, questi mostrarono subito di preferire i

titoli obbligazionari alle azioni (scelte invece dall’investitore locale, che pensava così di disporre di un più efficace strumento di controllo sul-

l’investimento), soprattutto quando cominciarono ad essere emesse obbligazioni garantite da ipoteche di primo, secondo e financo di terzo

grado, e/o da altri cespiti delle compagnie ferroviarie4, od obbligazioni

successivamente convertibili in azioni, o i più diversi tipi di azioni do-tate di “privilegio”, e cioè di un trattamento particolarmente favorevole

in cambio del quale tale categoria di azioni non concorreva però né a

determinare gli organismi di comando della società, né a partecipare alla gestione della stessa. Fra il 1865 e il 1893, sulle piazze europee fu

collocato la metà del debito obbligazionario delle compagnie ferroviarie, e un quarto del loro capitale azionario.

4 Ad esempio, reddito da fondi investiti in titoli pubblici, o da terreni e immobili

“non strumentali” affittati dalla società a terzi ecc. Questi terreni erano in gran

parte quelli provenienti dalla “dote” fondiaria che abbiamo ricordato come dopo la

guerra civile essere stata concessa a titolo gratuito dal governo federale alle varie

compagnie titolari di concessioni ferroviarie.

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Le compagnie ferroviarie statunitensi

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Una delle tipiche forme di “privilegio” era, ad esempio, che in caso di utili insufficienti a remunerare sia le azioni privilegiate sia quelle ordi-

narie, si iniziava a remunerare quelle privilegiate fino alla copertura di una percentuale prefissata sul capitale nominale, il restante essendo di-

stribuito tra le azioni ordinarie. Similmente in caso di scioglimento della

società, alle azioni privilegiate spettava di essere “liquidate” per prime: per cui in caso di un capitale netto insufficiente a rimborsare al 100% sia

le azioni privilegiate che quelle ordinarie, si procedeva rimborsando le prime, e solo successivamente le seconde.

Data la varietà e l’importo totale dei titoli emessi, i tesorieri della

maggior parte delle compagnie presto dovettero dedicare tutto il loro tempo alla provvista e all’allocazione del capitale fisso e circolante, così

da non poter più essere in grado di svolgere anche le funzioni riguar-

danti l’approvvigionamento di beni e materiali, come invece continuò ad avvenire nelle tradizionali imprese manifatturiere. Essi cominciarono

perciò a far ricorso sempre più spesso ad impiegati di grado elevato che, alle loro dirette dipendenze, assolvessero a queste funzioni ed assumes-

sero altresì la sorveglianza delle transazioni interne all’impresa.

Tale figura di impiegato, il Comptroller, fu resa necessaria dal fatto che

le compagnie ferroviarie – a differenza delle industrie manifatturiere

tradizionali (ad esempio gli opifici tessili), ma anche delle ferriere – si

ritrovarono per forza di cose a dover contare su un elevato numero di dipendenti coinvolti lungo la linea nel maneggio quotidiano di danaro

(dagli addetti alle biglietterie delle varie stazioni al personale viaggiante, o comunque adibito alla gestione delle merci e dei passeggeri traspor-

tati), dovendo contabilizzarlo e rendicontarlo fino all’ultimo centesimo.

Nelle industrie manifatturiere, invece, il solo dipendente adibito all’im-piego di contante era, a parte il tesoriere, il direttore (od agente) dei sin-

goli stabilimenti che lo utilizzava per il pagamento settimanale delle maestranze.

L’ufficio del Comptroller divenne presto uno degli snodi vitali dell’im-

presa, estendendo la sua supervisione anche al delicato comparto ammi-nistrativo che si occupava della fissazione delle tariffe, e a quello che

cominciò ad affrontare il complesso problema del costi industriali.

Le tariffe, ovvero i prezzi di vendita del “prodotto trasporto ferro -viario”, dipendevano infatti strettamente dalla corretta valutazione dei

costi dello stesso: e qui nascevano i problemi. In una impresa mani-fatturiera, infatti, la fissazione del prezzo di vendita di un manufatto era

semplice, dato che in genere essa trattava pochissimi articoli, ed il prez-

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zo dipendeva solo dai costi di una materia prima e di poche materie ac-cessorie, da quelli della manodopera e da un limitatissimo mix di spese

generali. Una compagnia ferroviaria trasportava invece beni molto diversificati tra

loro (per peso, volume, destinazione ecc.), a fronte dei quali la tariffazione

doveva tener conto di un ampio spettro di variabili di costo, spesso tra loro interagenti a seconda di una serie di evenienze esterne. Le compagnie

ferroviarie si ritrovarono perciò per prime a dover elaborare complesse metodiche per lo studio dei costi, tanto che si può affermare che la con-

tabilità industriale – che dagli Stati Uniti dilagò poi nel resto dell’Oc-

cidente industrializzato – nacque proprio dall’importanza che le imprese ferroviarie dovettero presto dare alla distinzione tra costi fissi e costi va-

riabili: i quali si presentavano diversi a seconda dei percorsi e delle at-

trezzature. E fu sempre presso di esse che per la prima volta ci si pose concre-

tamente il problema degli ammortamenti, e cioè delle (enormi) somme da accantonare per far fronte al rapido deperimento e all’obsolescenza de-

gli impianti.

Ma all’interno delle ferrovie si svilupparono anche le prime forme di organizzazione aziendale. La ricerca di metodi oggettivi con cui rendere

più efficiente, efficace e profittevole (e, quindi, con cui organizzare) il

lavoro nelle aziende, fu la logica conseguenza della crescente comples-sità dell’impresa ferroviaria, che ancora una volta si trovò per prima ad

avere i propri impianti non già concentrati in un unico sito (come era fi-no ad allora avvenuto per gli opifici manifatturieri), bensì disseminati su

territori estesi. Ciò riguardava non solo le linee propriamente dette, ma

anche quelle particolari unità di produzione che nell’impresa ferroviaria sono le officine di riparazione, i depositi dei materiali, le stazioni, gli uf-

fici ecc. Il coordinamento ed il controllo di migliaia di lavoratori, e di svariate

decine di unità periferiche addette ai più diversi compiti, il fatto stesso

che l’impresa ferroviaria fosse ad un tempo costruttrice della linea, ne dovesse assicurare la manutenzione ed esercisse sulla stessa l’attività di

trasporto di merci e persone, implicò il ricorso ad una rete di comu-

nicazioni e di relazioni gerarchiche che coinvolse un numero crescente di impiegati.

Era pressoché la prima volta che una tale complessità si presentava, o almeno su scala così grande.

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Le compagnie ferroviarie statunitensi

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Un problema organizzativo che le compagnie ferroviarie si trovarono fin da subito ad affrontare, e forse uno più delicati dato che metteva in

gioco i beni fisici delle imprese, fu di evitare – essendo le varie linee do-tate ancora di un solo binario – le collisioni tra i convogli, e di assicurare

una utilizzazione ottimale delle locomotive e dei vagoni per il transito

di merci e passeggeri nelle due direzioni. In ciò, come ricordato, fece la sua prima positiva prova il telegrafo,

che divenne – anche perché i suoi cavi furono dapprima stesi proprio parallelamente ai binari – lo strumento essenziale di comunicazione (in

tempo reale, per dirla con termini di oggi) tra le varie sedi logistiche delle

imprese ferroviarie. Il coordinamento della gestione, comunque, non pose reali difficoltà

fino a quando i tracciati delle linee non superarono le dimensioni re-

gionali, riguardanti tracciati brevi, ad esempio fino a 80-100 miglia5. La struttura organizzativa era incentrata sul Sovrintendente, da cui

dipendevano quattro uffici preposti a quattro distinte attività (movimen-to dei treni e del traffico, manutenzione della linea, manutenzione delle

locomotive e del restante materiale rotabile, contabilità e finanza). Essa

appare così rappresentabile:

Le cose mutarono dopo il 1850, quando alcune compagnie comin-

ciarono a gestire linee colleganti tra di loro località di regioni e stati lon-tani. Se fino alle dimensioni prima indicate, il Sovrintendente riusciva

ad avere il polso di tutta l’attività, nella nuova situazione si dovette ri-correre ad una diversa articolazione.

Le linee vennero infatti frazionate in tratte di 75-80 miglia, a ciascuna

delle quali (progenitrici delle “divisioni” che fecero la loro comparsa nell’impresa statunitense tra il finire dell’Ottocento ed il primo decennio

5 CHANDLER, op. cit., cita il caso delle 44 miglia di linea tra Boston e Worcester,

(Massachusetts) dove ogni giorno partivano tre treni da ambedue le stazioni di

testa; si incrociavano a metà strada, alla stazione di Framingham, e ciascuno di

essi ripartiva senza problemi e rischi di collisione per la propria destinazione.

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Capitolo secondo

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del Novecento) venne conferita la medesima struttura funzionale dell’u-nità orignaria.

Ognuna era retta da un Sovrintendente con i quattro uffici a lui sotto-posti. Ed in capo ad essi venne posto un Sovrintendente generale coadiu-

vato, per l’intera rete, da responsabili da quattro uffici omologhi a quelli

dei sovrintendenti di tratta.

Già a metà degli anni Cinquanta, la maggioranza della decina di com-

pagnie che avevano raggiunto e superato le 200 miglia di rete, si erano strutturate in questo modo, con un numero di tratte che variava da tre a

cinque. Ma non fu che una informe trasformazione iniziale. Presto i Sovrin-

tendenti generali delle più grosse compagnie furono indotti, dalla confu-

sione di ruoli e responsabilità che cominciò a crearsi da una siffatta strut-tura, a porsi il problema di che tipo di rapporto dovesse esistere tra i di-

rigenti responsabili centralmente delle quattro funzioni prima indicate e

quelli responsabili all’interno delle singole tratte, altrimenti chiamate “divisioni operative”, definendo anche le modalità di trasferimento del-

l’autorità decisionale da quelli centrali ai principali uffici periferici, o – come si cominciò a dire – “regionali”.

La svolta avvenne agli inizi degli anni Sessanta, quando Daniel C.

McCallum (Sovrintendente generale della New York and Erie Railroad) e

J. Edgar Thomson (che da analoga funzione passò poi alla presidenza

della Pennsylvania Railroad), sciolsero ognuno per proprio conto questo

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Le compagnie ferroviarie statunitensi

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nodo, introducendo una distinzione tra le responsabilità gerarchiche od operative (dette di line) e quelle di indirizzo strategico (chiamate di staff,

e cioè – giusto la terminologia militare – di stato maggiore).

In virtù di questa distinzione tra staff e line, ai sovrintendenti di tratta

(o di “divisione”) fu attribuita tutta la responsabilità gerarchica (cosiddetta

di line) sui movimenti dei treni e del traffico merci e passeggeri, sulla

gestione del personale nonché su ogni misura d’urgenza imposta dalle

necessità di manutenzione delle attrezzature e del tratto di linea di com-

petenza. Gli Uffici di staff, concepiti come Dipartimenti funzionali (alla “mo-

vimentazione e traffico”, alla “manutenzione delle linee”, a quella dei “materiali”, alla “contabilità e finanza”) direttamente dipendenti dal

Sovrintendente generale, furono invece incaricati di determinare le norme

generali, e cioè strategiche, per la ottimale gestione dei vari settori della compagnia, e di assumere, valutare, promuovere, e licenziare i dirigenti

che nelle singole divisioni facevano funzionalmente capo ai loro dipar-

imenti. Tali dipartimenti di staff, oltre che a fissare le più complessive norme

di comportamento e di gestione, furono anche chiamati a svolgere fun-zioni di consulenza per i problemi che via via potevano crearsi nei dipar-

timenti omologhi delle singole divisioni.

Veniva così introdotta una netta distinzione tra la responsabilità funzio-

nale dei dirigenti e dei quadri di staff, che agivano di supporto all’Alta

Direzione e che concorrevano con essa a definire le linee strategiche di sviluppo e gestione della società, e la responsabilità gerarchica di quelli di

line incaricati di tradurre nella pratica operativa tali scelte strategiche.

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All’epoca si semplificò dicendo che i quadri gerarchici erano preposti agli uomini, e quelli funzionali alle cose: intendendo per queste ultime

non la loro gestione (che dovendo essere assicurata da uomini, ricadeva nelle competenze della line) bensì la responsabilità sugli investimenti fis-

si e sulla loro profittevolità.

Per determinare con chiarezza le relazioni tra staff e line, concetti che

furono subito mutuati dalle altre compagnie, Thomson e McCallum con-

cepirono un’articolazione organizzativa – nota poi come struttura – nella

quale le relazioni di autorità, responsabilità e trasferimento delle in-

formazioni aziendali vennero statuiti in quelli che furono i primi

“organigrammi” nella storia d’impresa. In particolare, l’Alta Direzione diede vita ad un complesso sistema di

rapporti giornalieri, settimanali e mensili che dovevano fluire dalla base

al vertice dell’azienda: che fu così in grado di seguire costantemente la vita della compagnia. Questo flusso dettagliato di informazioni operati-

ve, indispensabile per coordinare e controllare il movimento giornaliero di centinaia di locomotive e di migliaia di vagoni lungo centinaia di mi-

glia di linee, fu quasi subito utilizzato a fini amministrativo-gestionali. E

sin dagli anni Sessanta, le informazioni statistiche così raccolte serviro-no a valutare i risultati raggiunti dai dirigenti nell’ambito di ciascuna del-

le divisioni operative regionali. A partire dai primi anni Settanta, risolto il problema dell’articolazio-

ne organizzativa, e pungolata dal lievitare degli investimenti in capitale

fisso, l’attenzione dei vertici delle grandi compagnie puntò soprattutto sul calcolo dei costi. I forti investimenti per la costruzione delle linee re-

sero infatti indispensabile distinguere tra le capitalizzazioni da essa ri-

chieste, e i costi di esercizio, arrivando – come già accennato – alle prime forme di ammortamento, e ad una determinazione il più realistica pos-

sibile degli effettivi costi di gestione in relazione sia al numero dei treni in circolazione che alla quantità e qualità delle merci e dei viaggiatori

trasportati.

In realtà, già nei primi anni Cinquanta qualche tecnico ferroviario aveva cominciato a denunciare i rischi insiti nel confondere, secondo la

vecchia pratica mercantile della contabilità a partita doppia, le spese

correnti d’esercizio e le spese in conto capitale. Confusione che, tra l’al-tro, deprimeva pericolosamente l’entità degli utili, e quindi dei dividendi

distribuibili, ed in ultima istanza l’appetibilità della sottoscrizione di azio-ni delle compagnie. E nel 1859 fu la Pennsylvania Railroad la prima so-

cietà ferroviaria a calcolare il deprezzamento annuo dei binari, delle

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Le compagnie ferroviarie statunitensi

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traversine e del materiale rotabile e ad iscrivere a bilancio un “fondo di contingenza e rinnovo”, il cui controvalore veniva immobilizzato in at-

tesa di essere utilizzato in investimenti sicuri. Il metodo contabile scelto era tuttavia ancora primitivo, e consisteva nel costituire il fondo a par-

tire dagli utili d’impresa.

Dall’inizio degli anni Ottanta tale pratica, nel frattempo adottata an-che da altre società, fu sostituita dalla imputazione – nelle spese correnti

d’esercizio – del valore di ripristino andato perso per l’usura nel corso dell’anno.

Fu proprio il perfezionamento della contabilità dei costi d’esercizio a

richiedere gli approfondimenti, e la messa a punto di metodi più com-plessi. Non soltanto dovettero essere contabilizzate poste in uscita di

gran lunga più numerose di quelle necessarie nelle tradizionali imprese

manifatturiere, ma fra esse cominciarono ad essere numerose quelle che restavano costanti indipendentemente dalla mole di attività svolta dalla

ferrovia. Ad opera di tale Albert Fink, un ingegnere civile esperto nella costruzione di ponti che divenne presidente della Louisville and

Nashville Railroad, e che assieme a Thomson e a McCallum rimane uno

dei pionieri delle ferrovie statunitensi, fu ad esempio messa a punto all’inizio degli anni Settanta una formula per il calcolo del costo

tonnellata/miglio di merce trasportata che valutava 70 voci diverse, 19

delle quali considerate costi costanti, 9 più costanti che variabili, 32 più variabili che costanti, le restanti 10 solo variabili.

Al pari di McCallum e Thomson, anche Fink iniziò ad usare i risulta-tati contabili non solo per determinare le tariffe, ma anche per valutare

l’efficienza delle diverse divisioni operative e dei vari dipartimenti che li

componevano.

3. Tra concorrenza e pratiche collaborative

La corretta formazione delle tariffe – essenziale per garantire reddi-

tività all’impresa – era tuttavia complicata anche da altri fattori di cui occorreva tener conto: la concorrenza esercitata dalle vie d’acqua anco-

ra in funzione, quella delle ferrovie correnti su tracciati analoghi o che –

attraverso tracciati diversi – raggiungevano comunque le medesime località, ed infine (ma non ultima) la qualità delle merci trasportate.

Nella formazione delle tariffe si doveva infatti valutare il peso ed il

valore delle merci: se la tariffa applicata a prodotti di limitata dimen-

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sione – leggeri, ma di valore – poteva anche essere elevata, il traffico pesante e/o di maggiore ingombro (come il bestiame, il carbone od i

prodotti cerealicoli) necessitava di quotazioni variabilmente più basse. La struttura tariffaria era inoltre condizionata dal calcolo degli eventuali

ritorni a vuoto dei vagoni e dalla dimensione dei convogli, in quanto le

spedizioni di maggiore consistenza costavano unitariamente meno di quelli più piccoli.

Man mano che si giunse ad accordi di collegamento delle linee delle diverse compagnie in un sistema federale integrato, si pose il problema

di definire d’accordo con tutte le compagnie interessate al sistema le c.d.

“tariffe di transito”, così come di determinare la quota di spettanza di ognuna di esse.

La diversificata tipologia delle merci trasportate (e quindi la necessità

di tariffazioni che ne tenessero conto, tanto che dagli anni Settanta le principali compagnie praticavano tariffe differenziate per centinaia e

centinaia di tipi diversi di beni, all’interno di grandi categorie di classificazione merceologica), ed il fatto che ogni singola compagnia si

trovasse a dover trattare con un numero elevato di trasportatori e di

agenti di linee concorrenti e/o interconnesse, resero la determinazione delle tariffe una delle funzioni altamente specialistiche – e vitali – delle

ferrovie. Tanto che questa centralità venne presto sancita con la creazio-

ne di dipartimenti funzionali a ciò unicamente adibiti. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio di quelli Ottanta, questi nuovi

Dipartimenti del Traffico videro il loro lavoro farsi ancor più complesso e sofisticato, di pari passo che l’espandersi delle varie compagnie aveva

portato a coprire a maglie più o meno fitte quasi tutto il territorio del-

l’Unione. L’esigenza di collaborazione tra le compagnie ferroviarie, il cui ri-

sultato più evidente fu la costruzione dei tracciati di interconnessione tra

le varie reti aziendali, rappresentò un fenomeno nuovo nella storia del-l’impresa.

Che si esplicò attraverso l’approntamento di sedi istituzionali (ad es. i periodici meetings interaziendali che ne derivarono, la formazione di as-

sociazioni regionali ecc.), in cui potessero essere sistematicamente af-

frontati e risolti tutti i problemi di normalizzazione delle attrezzature e di uniformità delle procedure. Fu quello della collaborazione interazien-

dale il terreno privilegiato in cui si manifestò l’elevata professionalità dei nuovi managers delle ferrovie, e più ancora la loro presa di coscienza del

ruolo che erano chiamati a svolgere nel tessuto economico del paese.

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Le compagnie ferroviarie statunitensi

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Le riunioni ed i veri e propri dibattiti cui diedero vita i dirigenti fer-roviari sui temi organizzativi e sulle innovazioni tecnologiche, contri-

buirono al rapido perfezionamento di tutto ciò che di nuovo veniva proposto sul duplice terreno tecnico ed amministrativo. Tanto che lo

scambio di esperienze favorì non solo il perfezionamento (e la diffusio-

ne ovunque nel variegato mondo ferroviario americano) delle procedure innovative, ma determinò anche un cambiamento radicale nel ruolo dei

costruttori di attrezzature e materiali: non più fornitori di soluzioni ai problemi tecnici delle ferrovie, ma esecutori delle specifiche (e delle in-

novazioni) elaborate di comune accordo dalle compagnie. Qualcosa di

simile a quanto avverrà nella distribuzione di massa, i cui operatori for-niranno – come si vedrà – gli input fondamentali ai produttori dei beni.

L’espansione che le ferrovie così conobbero, ebbe riflessi sulla strut-

tura interna delle singole società, in quanto le maggiori di esse comin-ciarono ad assumere funzioni imprenditoriali fino ad allora svolte da a-

ziende distinte, in particolare da quelle nate negli anni Cinquanta per organizzare il trasporto merci per conto terzi via ferrovia, o tramite la

rete dei canali e le linee di navigazione costiera. Sviluppatesi in modo

tumultuoso al seguito del mercato dei beni, già verso il 1860 esse dispo-nevano di propri parchi di vagoni ferroviari viaggianti al traino dei con-

vogli regolari delle varie compagnie, di propri uffici e di propri carri per

il prelievo delle merci e la loro consegna a domicilio nelle più impor-tanti città del paese.

Nell’ultimo periodo della guerra civile, queste imprese cominciarono tuttavia ad entrare in crisi di crescita, necessitando di ulteriori cospicui

investimenti che non erano in grado di effettuare, o a divenire oggetto di

vantaggiose offerte d’acquisto. Incorporate nelle compagnie ferroviarie, che dipendevano da esse per una consistente parte del proprio volume di

traffico, le loro attività poterono essere efficacemente gestite solo grazie al decisivo ampliamento dei relativamente recenti dipartimenti del traf-

fico, e delle loro competenze.

E furono così le ferrovie stesse, e non più le ditte di trasporto spe-cializzate, ad assicurare il prelievo e la consegna della maggior parte del-

le merci (soprattutto manufatti industriali) da un punto all’altro del

paese, dal domicilio del cliente a quello del destinatario. Le ferrovie ri-mediarono così alla loro pregressa incapacità di fornire servizi specia-

lizzati ai piccoli e medi operatori economici, fino ad allora intercettati solo presso le stazioni delle località rurali, non servite dagli intermedia-

tori specializzati nella veicolazione del c.d. trasporto collettaneo.

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L’acquisizione di questi, ora consentiva alle compagnie di approdare al più interessante segmento del mercato urbano delle piccole spedizio-

ni, particolarmente remunerative in rapporto al peso e/o volume traspor-tato.

Questa integrazione di funzioni (gestione di linee, ma anche gestione

specifica, e quasi monopolistica, dei servizi di trasporto e consegna) ac-celerò la crescita organizzativa delle ferrovie. Man mano infatti che au-

mentò il volume del trasporto gestito direttamente, più si fece urgente il coordinamento dell’interscambio di vagoni-merci tra le diverse com-

pagnie.

Già sul finire degli anni Settanta si firmarono i primi accordi, poi per-fezionati nel decennio successivo, che permisero un interscambio libero

e rapido dei vagoni e del traffico (e quindi anche dei vagoni passeggeri)

tra le varie compagnie, ciascuna delle quali (o almeno la maggior parte) trovò necessario dotarsi di uffici appositi dedicati unicamente a contabi-

lizzare e seguire lo spostamento dei propri vagoni utilizzati su altre stra-de ferrate, e di quelli di terzi (privati o altre compagnie) viaggianti sulle

proprie linee.

Questi accordi determinarono di fatto la formalizzazione di un siste-ma nazionale di trasporti, già abbozzato alla fine della guerra civile sia

dalla costruzione – all’interno delle città terminali delle linee delle varie

compagnie – di passanti ferroviari che unirono fisicamente le principali reti risolvendo il problema delle costose rotture di carico costituite dal

trasbordo tramite carriaggi delle merci dal terminal di una compagnia a quello di un’altra, che dal processo di unificazione dei materiali6 e delle

procedure in vigore nelle diverse compagnie, rese possibili dall’opera

svolta dalle associazioni di categoria cui finirono per aderire tutte le aziende del settore.

Ne discese che, nella seconda metà dell’Ottocento, la produttività dei

servizi ferroviari americani crebbe più rapidamente di quanto avvenne negli altri settori economici, riversandosi nelle tariffe a vantaggio degli

utilizzatori finali7.

6 Tale processo riguardò in particolar modo il miglioramento e la unificazione delle

caratteristiche tecniche delle locomotive e degli agganci dei vagoni, l’uso di

materiale rotabile di maggiori dimensioni, e l’adozione (1886) di uno “scarta-

mento” unificato per i binari. 7 Cf. A. FISHLOW, Productivity and Technological Change in the Railroad Sector, 1840-

1910, in Output, Employment and Productivity in the United States after 1800, New

York, National Bureau of Economic Research, 1966.

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E ciò anche per la elevata professionalità via via acquisita dagli addet-ti, e per lo sviluppo di tecniche e procedure organizzative tali da as-

sicurare l’uso continuo e regolare dei mezzi e delle installazioni fisse nell’ambito di ogni impresa ferroviaria, e nei rapporti tra ciascuna di es-

se e le altre.

Se la cooperazione interaziendale provocò un notevole incremento della velocità dei trasporti tra i diversi centri mercantili, ed una riduzio-

ne del loro costo, essa portò per forza di cose anche ad una qualche atte-nuazione della concorrenza tra le compagnie. Anzi, la collaborazione

sembrò divenire mezzo di controllo, o meglio di contenimento, della

concorrenza. Che però riesplose virulenta molto presto, dato che il pur considere-

vole incremento del traffico commerciale non riuscì – soprattutto dopo

il completamento delle principali linee del paese tra la fine anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta – a far fronte ai costi crescenti di funziona-

mento e di manutenzione degli enormi beni capitali posseduti dalle com-pagnie. Essa assunse – soprattutto durante la depressione economica de-

gli anni Ottanta – le caratteristiche di una vera e propria guerra delle tarif-

fe, volta mediante continui ribassi più che ad accaparrarsi un maggior volume di traffico, a mantenere costante nel tempo quello già acquisito:

la solvibilità finanziaria di quasi tutte le compagnie dipendeva infatti

dalla conservazione di flussi regolari nel traffico di transito. Per sottrarre questo vitale settore agli effetti devastanti della guerra

tariffaria, le compagnie cominciarono a cercare intese dando vita a gran-di “cartelli”, dapprima informali e poi formalizzati, per garantire a cia-

scuna delle imprese concorrenti quote stabili di traffico e di reddito. Si

trattò, tuttavia, di sforzi inutili. Era infatti abbastanza agevole aggirare i vincoli di cartello, e vanificare – con ristorni sottobanco alla clientela – i

minuziosi accordi sul livello minimo delle tariffe.

Il fallimento dei cartelli – e quindi del primo tentativo di imprese con-correnti di sottrarsi all’anarchia del mercato, e quindi di regolamentarlo

– spinse le principali compagnie ferroviarie ad una nuova corsa all’am-pliamento delle loro reti, in modo da renderle – per usare l’espressione

coniata dal presidente di una compagnia dell’epoca – autosostentantisi,

vale a dire in grado di controllare il proprio bacino di alimentazione senza dover dipendere da accordi con gli altri vettori. Il che implicò che

ognuna delle grandi società ferroviarie cercasse di raggiungere autono-nomamente i principali centri commerciali delle regioni su cui le loro

reti insistevano.

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Un tale obiettivo – che si rivelò spesso disastroso dal punto di vista finanziario, e dell’efficienza tecnica dell’intero sistema ferroviario statu-

nitense – fu perseguito sia attraverso la costruzione di nuove strade fer-rate, che mediante l’acquisto (o l’affitto) di tratte di società minori in

grado di collegare le reti possedute alle località che si volevano raggiun-

gere. La enorme richiesta di capitali che ciò implicò, portò ad una sempre

maggiore influenza delle banche d’investimento – presenti ormai con propri rappresentanti nei Consigli d’amministrazione delle maggiori

compagnie – nella definizione delle singole strategie di espansione. Non

sempre questa influenza fu felice: più che frenare la corsa all’anti-economico ed irrazionale ampliamento delle reti, molti di questi ban-

chieri sposarono (in apparenza acriticamente) la tesi della necessità di

sistemi autosostentantisi, rafforzando così la tendenza all’indebitamento

delle società.

In realtà il vero obiettivo di una siffatta politica si palesò quando, nell’ultimo decennio del secolo, le banche d’investimento imposero –

con la motivazione di dover ridurre la loro ingentissima esposizione – la

capitalizzazione dei crediti pregressi, prendendo di fatto in mano (prima fra tutte la J.P. Morgan & Co.) le redini delle maggiori Compagnie.

Varando altresì quei grandi piani di risanamento e risorganizzazione

finanziaria, tecnica e amministrativa che, ponendo fine alla guerra com-merciale, razionalizzarono nel giro di un decennio l’intero sistema. Al

prezzo, tuttavia, del definitivo primato del capitale finanziario nella ge-stione delle ferrovie americane.

Il risultato fu l’accorpamento dei due terzi dell’intera lunghezza delle

linee in venticinque grandi sistemi regionali, tra loro strettamente colle-gati, che garantivano la maggior parte del traffico merci e passeggeri del

paese. Il restante terzo era ripartito tra 1.725 compagnie con dimensione e giro d’affari estremamente limitati.

Questa struttura rimase pressoché immutata fino alla metà del Nove-

cento, allorché l’importanza delle ferrovie scemò rapidamente sotto l’incalzare della motorizzazione di massa e del trasporto aereo.

Per il controllo di questi nuovi imperi ferroviari, fu necessario dar

forma a unità di gestione ancora più grandi, con la creazione di due nuovi livelli: uno intermedio, e l’altro di vertice. Un certo numero di ter-

ritori cui erano preposti Sovrintendenti generali, vennero integrati in una organizzazione guidata da un Direttore generale dotato di un proprio

staff. I principali sistemi ferroviari avevano – sotto la responsabilità del

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Le compagnie ferroviarie statunitensi

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Direttore generale, figura intermedia tra il Presidente del consiglio d’am-ministrazione e il suo staff da un lato, e la struttura operativa dall’altra –

da due a cinque di queste organizzazioni regionali, su ciascuna delle quali vigilava anche un vicepresidente della compagnia. Nel caso di tre

grandi compagnie, la Pennsylvania, la Burlington e la Santa Fe, i Di-

rettori generali godettero dello stesso grado di autonomia che qualche decennio dopo, nel Novecento, sarebbero state attribuite ad direttori di

divisione dei grandi gruppi industriali diversificati, mentre ai quadri dirigenti di alto livello delle Direzioni centrali fu specificamente riserva-

ta la valutazione dei risultati raggiunti dalle divisioni operative, e l’allo-

cazione delle risorse.

4. Il telegrafo e il telefono

Analoga, e al tempo stesso subito diversa, fu la crescita delle grandi

imprese private che si trovarono a dar vita, e poi a gestire, i nuovi stru-menti di comunicazione: il telegrafo dapprima, e poi – dagli anni Ottan-

ta del XIX secolo – il telefono.

Lo sviluppo del telegrafo era iniziato negli Stati Uniti ad opera del governo federale, che proprio nel 1844 aveva stanziato una consistente

somma per la costruzione di una linea sperimentale tra Washington e

Baltimora, affidandone la gestione all’amministrazione postale. Nel 1847, tuttavia, a causa di difficoltà finanziarie, e probabilmente gestio-

nali, il Post Office lasciò all’iniziativa privata il business telegrafico.

Che conseguì eccezionali risultati in termini espansivi: se nel 1861,

come accennato all’inizio di questo capitolo, le linee telegrafiche già

superavano le 50mila miglia, nel corso delle tre decadi successive esse raggiunsero quota 300mila: nel 1880, e quindi prima del conseguimento

di tale traguardo, esse veicolavano qualcosa come 100mila dispacci al giorno. Questa cifra spiega da sola le ragioni per cui le compagnie tele-

grafiche avevano rapidamente percorso la strada della concentrazione

con, nel 1860, sei sistemi regionali che controllavano la quasi totalità delle reti inoltrando regolarmente i dispacci l’uno dell’altro. Da una po-

litica reciprocamente collaborativa all’integrazione, il salto di qualità fu

conseguente, con la creazione nel 1866 di un’unica grande compagnia, la mitica Western Union. Essa, al momento della sua costituzione, già

si trovò a dover coordinare una rete di oltre 2.500 uffici, che crebbe per molto tempo ad un ritmo annuo variante tra i 500 ed i 1.000 nuovi reca-

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Capitolo secondo

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piti. Questo articolato complesso di unità operative venne gestito me-diante un certo numero di uffici regionali, che dovevano sovrintendere

la rete regionale, garantire la manutenzione e la riparazione delle linee, rispondere del corretto assolvimento delle procedure definite in sede cen-

trale per assicurare la trasmissione fluente e regolare dei dispacci tra le

diverse località del grande paese. Se, come per le ferrovie, anche lo sfruttamento commerciale del tele-

grafo aveva inizialmente determinato la comparsa di un elevato numero di operatori, essi compresero presto (e più che una opzione volonta-

ristica, si trattò di una imprescindibile esigenza tecnica) che il nuovo

mezzo di comunicazione aveva un senso ed una utilità (e quindi un mercato…) solo se capillarmente diffuso nel paese, ed interconnesso in

tutti i suoi terminali.

Il telefono si distinse invece nel primo decennio di vita, tra il 1880 e il 1890, per il suo utilizzo esclusivo all’interno di singole reti urbane, ge-

stite da imprese locali che fruivano di brevetti e di materiale loro ceduti dalla società di A.G. Bell. Negli anni Novanta, quando cominciarono a

stabilirsi le prime interconnessioni tra reti urbane, la Bell iniziò ad ac-

quisire il controllo (ben presto quasi monopolistico) delle società locali tramite la American Telephone and Telegraph Co. (AT&T), una com-

pagnia sorta per costruire e gestire le linee a lunga distanza, e nella

quale – per le sinergie connesse all’uso delle palificazioni su cui corre-vano i collegamenti telegrafici tra città e città – confluì più tardi anche la

Western Union. Una unione proficua, perché dotò tra l’altro l’AT&T del collaudato modello a base regionale di organizzazione tecnico-ammi-

nistrativa della Western.

In conclusione, da quanto visto per le ferrovie, il telegrafo ed il tele-fono, si può affermare che sin dai loro inizi le moderne forme di tra-

sporto e di comunicazione necessitarono, per essere efficacemente gestite,

di imprese articolate in molteplici unità operative. In questo senso, furono esse ad aprire la via del big business. Rendendo

possibile un grado di velocità, regolarità e densità dei trasporti e delle comunicazioni per l’innanzi sconosciuto, esse ampliarono infatti a di-

smisura il mercato per i produttori di beni e di servizi del paese.

L’abbassamento dei costi di distribuzione, e l’incremento delle quan-tità producibili, resi possibili dalle ferrovie e dal telegrafo, servirono in

primo luogo a incoraggiare lo sviluppo delle nuove tecniche della mo-derna commercializzazione e produzione di massa, e poi a favorire l’av-

Page 25: L’ · 2018. 7. 18. · che le locomotive americane divennero fortemente competitive nei mercati stranieri, anche in virtù della contrazione nei costi di pro-duzione che la specializzazione

Le compagnie ferroviarie statunitensi

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vento della grande impresa industriale basata sull’integrazione di produ-zione e distribuzione dei beni.