L XX XXI - Gaetano Donizetti · Il concetto di estetica e i rapporti tra storia ed estetica nel XX...

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Storia ed estetica della musica 1 LINEAMENTI DI STORIA ED ESTETICA DELLA MUSICA NEL XX E XXI SECOLO 1. Il concetto di estetica e i rapporti tra storia ed estetica nel XX e XXI secolo L’estetica è quella branca della filosofia che indaga le condizioni del bello – del bello naturale e del bello artistico – e anche le implicazioni che legano la bellezza alle altre sfere del pensiero, l’etica in primo luogo: se una cosa è bella o butta lo sarà anche in relazione a ciò a cui si attribuisce valore positivo o negativo (l’esito di un atto creativo risulterà dotato o privo di una sua bellezza a seconda che esprima o contraddica valori che abbiano anche risvolti di ordine morale; che sia cioè percepito come adeguato o censurabile, produttivo o inerte, giusto o sbagliato, ecc.). La cultura occidentale si è sempre preoccupata di definire i caratteri del bello, poiché ha sempre percepito la problematicità di questo concetto. Alla metà del Settecento è nata una disciplina specifica che ha iniziato a indagare sistematicamente, anche su basi filosofiche, ciò che è bello e ciò che non lo è, e a differenziare anche il bello naturale – poiché la bellezza si è sempre riferita anche alla natura – e il bello artistico. Questa disciplina è appunto l’estetica (da intendersi come filosofia estetica o estetica filosofica). Nel suo senso più originario, ‘estetica’ si lega al concetto di percezione: significa appunto ‘percepire’, attiene all’esperienza sensoriale, e in quanto tale rientra nella sfera delle attività conoscitive dell’uomo. E tuttavia, proprio in quanto forma di conoscenza, ha un suo statuto specifico: non ha a che fare con la conoscenza intellettuale, cognitiva, concettuale, almeno non vi ha a che fare in prima istanza. L’estetica nasce infatti quando la filosofia e anche la scienza iniziano ad ammettere che sia possibile cogliere la realtà non solo intellettualmente, ma anche attraverso i sensi, e che questa esperienza sensoriale è una modalità di conoscenza di grado diverso, che non può e non deve essere ignorata. Ma le esperienze sensoriali sono per loro stessa natura transitorie, non si lasciano fissare, sono effimere. La nascita dell’estetica filosofica è legata aalla consapevolezza che un’esperienza sensoriale acquista rilevanza quando viene fissata in un discorso che sia in grado di fermare e descrivere l’esperienza, garantendone così la permanenza. Estetica, in un senso più specifico, significa tradurre il campo dell’esperienza sensoriale in discorso verbale. L’estetica musicale è una branca dell’estetica generale. Il concetto di musica come arte e linguaggio inizia a stabilizzarsi intorno alla metà del Settecento. I filosofi se ne sono sempre occupati, da Platone e Aristotele a Sant’Agostino, da Leibnitz a Kant e Hegel. Tra la fine del Settecento e il primo Ottocento, anche i musicisti iniziano a percepire la necessità di una conoscenza anche intellettuaIe e critica della musica. Nei decenni successivi alla Rivoluzione francese, nascono e si diffondono in tutta Europa modelli didattici e pedagogici che tendono progressivamente a valorizzare, accanto alla competenza artigianale e tecnica del mestiere di musicista e di compositore, anche un articolato bagaglio teorico. Il modello per tutta Europa sarà l’ordinamento del Conservatoire di Parigi; in Italia, uno dei primi a raccogliere la sfida di trasformare il musicista da artigiano (considerato socialmente né più e né meno di un domestico, un autista o un cuoco) a citoyen, cittadino e intellettuale, sarà Giovanni Simone Mayr. Robert Schumann, fu tra i primi ad affiancare all’attività compositiva quella di critico musicale. La mutazione diventa cruciale nel periodo di cui dovremo parlare, il tardo ’800, il ’900 e questo primo scorcio del XXI secolo. Già i compositori del ’900 storico si sono trovati, per il carattere rivoluzionario della loro esperienza artistica, nella condizione di dover spiegare le proprie opere argomentando le

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Storia ed estetica della musica

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LINEAMENTI DI STORIA ED ESTETICA DELLA MUSICA NEL XX E XXI SECOLO

1. Il concetto di estetica e i rapporti tra storia ed estetica nel XX e XXI secolo

L’estetica è quella branca della filosofia che indaga le condizioni del bello – del bello naturale e del

bello artistico – e anche le implicazioni che legano la bellezza alle altre sfere del pensiero, l’etica in

primo luogo: se una cosa è bella o butta lo sarà anche in relazione a ciò a cui si attribuisce valore

positivo o negativo (l’esito di un atto creativo risulterà dotato o privo di una sua bellezza a seconda

che esprima o contraddica valori che abbiano anche risvolti di ordine morale; che sia cioè percepito

come adeguato o censurabile, produttivo o inerte, giusto o sbagliato, ecc.).

La cultura occidentale si è sempre preoccupata di definire i caratteri del bello, poiché ha

sempre percepito la problematicità di questo concetto. Alla metà del Settecento è nata una disciplina

specifica che ha iniziato a indagare sistematicamente, anche su basi filosofiche, ciò che è bello e ciò

che non lo è, e a differenziare anche il bello naturale – poiché la bellezza si è sempre riferita anche

alla natura – e il bello artistico. Questa disciplina è appunto l’estetica (da intendersi come filosofia

estetica o estetica filosofica).

Nel suo senso più originario, ‘estetica’ si lega al concetto di percezione: significa appunto

‘percepire’, attiene all’esperienza sensoriale, e in quanto tale rientra nella sfera delle attività

conoscitive dell’uomo. E tuttavia, proprio in quanto forma di conoscenza, ha un suo statuto specifico:

non ha a che fare con la conoscenza intellettuale, cognitiva, concettuale, almeno non vi ha a che fare

in prima istanza. L’estetica nasce infatti quando la filosofia e anche la scienza iniziano ad ammettere

che sia possibile cogliere la realtà non solo intellettualmente, ma anche attraverso i sensi, e che

questa esperienza sensoriale è una modalità di conoscenza di grado diverso, che non può e non deve

essere ignorata. Ma le esperienze sensoriali sono per loro stessa natura transitorie, non si lasciano

fissare, sono effimere. La nascita dell’estetica filosofica è legata aalla consapevolezza che

un’esperienza sensoriale acquista rilevanza quando viene fissata in un discorso che sia in grado di

fermare e descrivere l’esperienza, garantendone così la permanenza. Estetica, in un senso più

specifico, significa tradurre il campo dell’esperienza sensoriale in discorso verbale.

L’estetica musicale è una branca dell’estetica generale. Il concetto di musica come arte e linguaggio

inizia a stabilizzarsi intorno alla metà del Settecento. I filosofi se ne sono sempre occupati, da Platone

e Aristotele a Sant’Agostino, da Leibnitz a Kant e Hegel. Tra la fine del Settecento e il primo Ottocento,

anche i musicisti iniziano a percepire la necessità di una conoscenza anche intellettuaIe e critica della

musica. Nei decenni successivi alla Rivoluzione francese, nascono e si diffondono in tutta Europa

modelli didattici e pedagogici che tendono progressivamente a valorizzare, accanto alla competenza

artigianale e tecnica del mestiere di musicista e di compositore, anche un articolato bagaglio teorico.

Il modello per tutta Europa sarà l’ordinamento del Conservatoire di Parigi; in Italia, uno dei primi a

raccogliere la sfida di trasformare il musicista da artigiano (considerato socialmente né più e né meno

di un domestico, un autista o un cuoco) a citoyen, cittadino e intellettuale, sarà Giovanni Simone

Mayr. Robert Schumann, fu tra i primi ad affiancare all’attività compositiva quella di critico musicale.

La mutazione diventa cruciale nel periodo di cui dovremo parlare, il tardo ’800, il ’900 e questo primo

scorcio del XXI secolo. Già i compositori del ’900 storico si sono trovati, per il carattere rivoluzionario

della loro esperienza artistica, nella condizione di dover spiegare le proprie opere argomentando le

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loro scelte poetiche in scritti di carattere teorico, estetico, poetico. Man mano che si complicavano

le forme, man mano che il linguaggio musicale, la sua grammatica e la sua sintassi, perdevano il

carattere di struttura data una volta e per sempre, si avvertì l’esigenza di motivare i mutamenti, le

evoluzioni, gli sviluppi delle poetiche musicali, che implicavano anche una progressiva trasformazione

delle strutture linguistiche; e lo si fece ricorrendo a una disciplina teorico-filosofica che giudicava ogni

scelta in termini di adeguatezza e conformità a una certa idea di bellezza. Ora, quel che risulta

evidente, seguendo le vicende della musica attraverso i secoli, è che quest’idea di bellezza è

costantemente mutata: non soltanto la musica è soggetta alle dinamiche del mutamento storico,

anche l’idea di bello appare storicamente determinata.

2. Centralità di Richard Wagner

La storia di cui dobbiamo occuparci ha le sue radici nel secondo Ottocento. Il punto di partenza

potrebbe essere individuato nell’esperienza artistica di Richard Wagner, non solo perché Wagner fu

tra i primi a motivare nella forma del saggio filosofico-letterario le sue scelte poetiche – tra i molti

titoli: Die Kunst und die Revolution (Arte e rivoluzione, 1849), Das Kunstwerk der Zukunft (L’opera

d’arte dell’avvenire, 1849), Oper und Drama (Opera e dramma, 1851), Deutsche Kunst und deutsche

Politik (Arte tedesca e politica tedesca, 1867) –; non solo, ancora, perché ha posto le premesse per

un passaggio fondamentale, ovvero il superamento della tonalità, ma soprattutto perché ha

contribuito in modo decisivo a fissare alcuni principi dell’estetica moderna. Con lui si afferma l’idea

dell’arte come esperienza fondativa dell’esistenza umana, come riscatto spirituale, che consente

all’uomo moderno di sollevarsi sulle miserie della vita ordinaria e quotidiana. La musica non è più una

semplice attività di intrattenimento, ma una forma di conoscenza. E in quanto forma di conoscenza

deve necessariamente votarsi all’esplorazione e alla conquista di nuovi territori dell’immaginazione

e della realtà sonora. L’artista, non più artigiano, ma sacerdote di un rito mistico-religioso, entro il

quale l’arte sprigiona la sua energia rigeneratrice e catartica, assume un ruolo guida all’interno della

società, indicando con le sue creazioni forme di vita più evolute. E l’arte, e in modo specifico la musica

in quanto arte, dovrà riflettere questa nuova condizione in un rinnovamento continuo. Si radicherà

così, nell’estetica moderna, il principio dell’originalità, come esito del rinnovamento continuo delle

forme artistiche, e l’opposizione tra arte autentica, come avamposto della crescita spirituale, e il

kitsch, termine con il quale si indicavano le forme degradate della musica di intrattenimento e del

consumo.

È da questo momento che si afferma l’idea che la musica debba animata da una tensione al

continuo auto-superamento, che non segue le convenzioni, che non ripete il già noto. Il principio

dell’originalità diventa una delle discriminanti estetiche fondamentali. Il carattere del bello viene

fatto aderire all’idea del ‘Nuovo’. È in relazione al valore estetico positivo del ‘Nuovo’ che si definisce

anche il concetto di epigonismo: epigoni sono coloro che si limitano a ripetere le conquiste degli

autori maggiori, ma che per questo vivono di vita riflessa, mancano di originalità. Poi, il valore

conoscitivo, di esperienza inesauribile, di cui sono funzioni la complessità e la densità: Wagner diceva

che un’opera d’arte è tale quando non si può padroneggiare in un solo ascolto, dev’essere piuttosto

come una foresta intricata, in cui ci si può continuamente perdere, e in cui è possibile tracciare

percorsi continuamente nuovi; una melodia è degna di attenzione – gli fa eco Adorno – quando non

può essere fischiettata per strada, altrimenti scade nel banale e nel volgare, dunque nel kitsch.

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3. Wagnerismo e decadentismo

Il wagnerismo fu una vera e propria epidemia che si diffuse dagli anni Sessanta dell’Ottocento e si

prolungò in vario modo fino ai primi decenni del ’900. Un’impronta wagneriana si coglie nelle sinfonie

di Mahler, nei poemi sinfonici di Strauss, e in tutto il teatro musicale del primo Novecento. Un uso

della tecnica sinfonica costruita sul leitmotiv fu praticato perfino da Puccini, almeno in Manon e nella

Bohéme. In Italia, prima di lui, vi erano state personalità assai influenti che furono wagneriani convinti

come Arrigo Boito, che non fu solo un letterato raffinatissimo, ma anche un compositore, autore di

due opere, il Mefistofele (1868 e 1875) e il Nerone (1862-1915, prima rappresentazione postuma, nel

1924). Esponente assai influente del Decadentismo italiano, dopo aver criticato il teatro verdiano per

il suo attaccamento alla tradizione dell’opera italiana, divenne il librettista delle due ultime opere di

Verdi: Otello (1887) e Falstaff (1893), e in una certa misura ne riorientò la drammaturgia musicale.

In Francia, il documento più eloquente dell’invasamento wagneriano fu la nascita della «Revue

wagneriénne». Fondata a Parigi nel 1885, e pubblicata per tre anni, fino al 1888, uscì mensilmente

con scritti di letterati, critici, musicisti. Subì gli effetti di un’infatuazione wagneriana perfino Debussy,

e una versione del wagnerismo totalmente piegata a finalità ideologiche ebbe una parte importante

nella propaganda nazista. Hitler si fece strada nei salotti buoni tedeschi e costruì la sua carriera

politica su un’ardente passione per la musica di Wagner e grazie a una profonda conoscenza delle

sue opere.

La capacità di suggestione della musica wagneriana, la sensazione di una musica che accede

a una dimensione trascendente, risiede soprattutto nel flusso melodico continuo, ininterrotto, che

Wagner chiama ‘melodia infinita’, privo di cesure nette, e che costantemente elude una ritmica

regolare. L’idea stessa di infinità è data dall’assenza di scansione ritmica. Già nel Preludio del

Lohengrin questo aspetto è del tutto evidente: c’è sempre la stessa figura musicale che viene ripetuta

e fatta scorrere. Ci sono pochissimi tratti ritmici, prevale la tendenza al suono continuo, lungo e

tenuto, e la capacità di far scorrere e riprendere costantemente presentandolo in figure nuove e

sviluppate il medesimo elemento. L’idea del motivo continuamente presente, ripreso in forme

sempre rinnovate è il cuore del Musikdrama wagneriano. L’elaborazione motivica si accompagna alla

modulazione incessante, al punto da rendere sempre più indefiniti i contorni tra una tonalità e l’altra;

il paradigma di questa labilità armonica, e della sfuggente definizione tonale che ne consegue è il

famoso accordo del Tristano, inclassificabile, metamorfico, intrinsecamente ambiguo.

L’indefinitezza armonica è decisiva per due motivi: da una parte, fa sì che la musica wagneriana sfugga

alla prevedibilità delle direzioni tonali; dall’altra realizza nel concreto l’idea di una musica che pur

essendo interessante e coinvolgente, risulti inafferrabile, e susciti per questo il bisogno di essere

continuamente ripercorsa.

4. Debussy e il Simbolismo

Nel 1861 un evento preciso condizionò la cultura francese in modo duraturo: la prima

rappresentazione a Parigi del Tannhäuser di Wagner. Malgrado l’antagonismo tradizionale

dei francesi verso lo spirito germanico, che aumentò dopo la sconfitta della Francia nel

conflitto franco-tedesco del 1870, non vi fu influenza capace di suscitare tanto interesse e di

lasciare un segno profondo come quello del wagnerismo in Francia. All’indomani della

rappresentazione del Tannhäuser Charles Baudeleaire scrisse che nessun musicista eccelleva

come Wagner nell’evocare «lo spazio e la profondità materiale e spirituale». Cresceva una

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generazione di intellettuali e di artisti sempre più inclini a contrapporre al positivismo e al

materialismo un atteggiamento di alta e quasi mistica spiritualità, a cercare le proprie verità

oltre il mondo reale e quotidiano. La dimensione estetica assumeva il carattere di via maestra

per accedere a questa ‘ulteriorità’, e l’espressione non si esauriva più nel semplice atto

comunicativo di individuale commozione, ma come realtà che rispecchiava leggi cosmiche le

quali agivano attraverso l’artista ma al di là della sua responsabilità individuale. La teoria e la

pratica del Wort-Ton-Drama, cioè l’unione di varie pratiche artistiche, poesia, musica,

funzione drammatica del mito, arte visuale e arte scenica, incarnava questa idea di arte come

elevazione all’altezza di verità soprannaturali attraverso il superamento delle specificità

artigianali e tecniche di ogni singola arte. La forza d’impatto di Wagner si spiega come

risposta a questa prospettiva estetica della cultura francese, che trovò espressione

programmatica nei poeti decadenti e nel Simbolismo, il cui ispiratore principale fu Stephan

Mallarmé. In questo clima crebbe e si formò Achille Claude Debussy.

Debussy nasce a Parigi nel 1962 da una famiglia di piccoli commercianti. A dieci anni entra

in conservatorio. Nel 1880 ottiene un primo premio nella classe di accompagnamento

pianistico, che gli valse l'ingresso nella classe di composizione e una segnalazione a M.me

von Meck, già nota come protetrice di Caicovskij. Nelle tre estati passate al seguito della

nobildonna russa, Debussy affinò i propri gusti, le sue conoscenze musicali, e in genere la sua

cultura; soggiornò a Mosca, a Vienna, dove ascoltò per la prima volta Tristan und Isolde, poi

a Venezia.

Rientrato a Parigi, Debussy visse di lezioni di pianoforte e accompagnando strumentisti e

cantanti. Nel 1884 partecipa al Prix de Rome e lo vince. Si trasferisce a Roma dal 1885 al

1887 e durante il soggiorno di studio romano all’Accademia di Belle Arti compone una suite

sinfonica, Printemps, in riferimento alla quale il segretario dell’Accademia Hébert, nel suo

rapporto sul brano del musicista, usò per la prima volta il termine «impressionismo», per

definire il prevalere del colore sulla precisione del disegno e della forma. Quel termine ebbe

fortuna e per molto tempo ha accompagnato la musica di Debussy, anche in virtù del fatto

che legava il musicista all’emergente movimento di pittori impressionisti, con i quali

sembrava effettivamente che vi fossero tratti in comune.

In realtà, lo stesso Debussy confidò di non aver pensato a un programma per Printemps, ma

di aver cercato di seguire il movimento interno, nascosto delle cose, non allo scopo di

trasmetterne una pura impressione, bensì di penetrarvi in profondità, verso ciò che vi è

celato. Era la prima testimonianza di una spontanea convergenza verso il Simbolismo.

Tornato a Parigi, Debussy inizia a frequentare la libreria di Edmond Bailly, dove si potevano

incontrare scrittori come Villiers de l'Isle-Adam, André Gide, Paul Claudel, Pierre Louys, Henri

de Règnier, e soprattutto Mallarmé, che Debussy conosce nel 1887. L’Aprés- midi d’un faune

che Mallarmé aveva scritto più di dieci anni prima, nel 1876, era diventato il testo di

riferimento del nuovo movimento che era sorto dalla costola francese del decadentismo.

Decadentismo e Simbolismo costituiscono anzi due fasi successive della stessa rivoluzione

poetica, in cui il primo appare come la reazione più lirica ed emotiva alla generale crisi di

valori che si profilava alla fine dell’Ottocento, mentre il secondo come risposta più

intellettuale a quella crisi, una fase di riflessione che puntava alla conquista di una poetica

unitaria, coerente, consapevole. La ‘poetica delle corrispondenze’ di Baudeleaire (il ‘tempio

della natura’ che diviene ‘foresta di simboli’) perviene in Mallarmé ad un ‘linguaggio di

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rapporti simbolici’, ad effetti calcolati di musicalità, di suggestione e mistero, insomma alla

‘poesia pura’. La rivelazione della realtà vi avviene tramite operazioni di «decifrazione» e

«traduzione» con i mezzi connaturati all’attività poetica, e dunque, metafore, similitudini,

simboli.

All’ammirazione di Mallarmé per la musica di Wagner corrispose un’iniziale infatuazione

di Debussy. Tra il 1889 e il 1889 il musicista si reca a Bayeruth. Ma i pellegrinaggi wagneriani

testimoniano solo di una parte dei suoi interessi, che si nutriva comunque di una gammma

molto vasta di esperienze. Ascolta il gregoriano a Solesmes, ascolta i gamelan giavanesi alla

Esposizione Universale di Parigi, ‘scopre’ il Boris Godunov di Mussorgskij. Ma soprattutto

Debussy inizia a comporre. Le sollecitazioni di cui s’è appena accennato spingono a

composizioni di liriche per voce e pianoforte, su testi di Baudelaire (Cinq poèmes, 1887-89),

di Verlaine (Ariettes oubliées, 1888; Trois mélodies, 1891; la prima serie delle Fêtes galantes,

1892), di Pierre Louÿs (Chansons de Bilitis, 1897). Nei Cinq poèmes l’influenza di Wagner è

molto evidente, molto meno nelle Ariettes, per la minor sontuosità del testo di Verlaine.

Anzi, proprio a partire da quest’ultima composizione per voce e pianoforte, l’iniziale

infatuazione per Wagner si tramuterà in crescente insofferenza, spingendo Debussy alla

ricerca di strade alternative e perfino antitetiche. Raccolta dal musicista tedesco la

dimensione intellettuale, Debussy ne rigettò ben presto l’armamentario tecnico. Le linee

vocali delle liriche debussiane evitano il tono alto ed enfatico della declamazione drammatica

e melodrammatica per avvicinarsi ad una prosa colloquiale, con profili melodici e inflessioni

ritmiche che seguono gli accenti e le durate del parlato. Decisamente antiwagneriane sono

una certa allergia per le ripetizioni, e un generalizzato atteggiamento di discrezione

espressiva: in tutta la musica di Debussy ogni idea sonora non assume mai il tono affermativo

di un enunciato definito, ma sembra ritrarsi nell’ombra nell’esatto momento in cui viene

delineata. È in questo modo che Debussy traduce l’estetica simbolista, e particolarmente

l’idea di ‘oggetto taciuto’ di Mallarmé, per il quale, ad una percezione di indeterminatezza

della realtà – sia fisica che emozionale – corrisponde l’idea che al poeta come al musicista,

sia concesso evocare di quella realtà nulla più che la sua risonanza interiore.

Così, proprio partendo da queste affinità di concezione e da una emblematica

dichiarazione di fede simbolista di Debussy, secondo cui la musica non sarebbe limitata «à

une réproduction plus ou moins exacte de la nature, mais aux correspondances mystérieuses

entre la Nature et l’Imagination» (a una riproduzione più o meno esatta della natura, ma a

corrispondenze esatte nella Natura e nelll’Immaginazione) uno studioso polacco, Stefan

Jarocinski ha potuto mostrare in modo convincente la maggior fondatezza di un legame col

Simbolismo piuttosto che alla più semplificatoria nozione di impressionismo, che implicava

solo un rapporto di riproduzione della realtà.

Le due composizioni strumentali che seguiranno l’iniziale gruppo di liriche segnano nei

rispettivi campi della musica da camera e di quella sinfonica, la nascita della musica moderna:

il Quatuor à cordes del 1893, e il Prélude a l’aprés-midi d’un faune scritto tra il 1892 e il 1894.

Il Quatuor introduce la modernità in una delle forme della letteratura musicale più restia ai

cambiamenti, il quartetto per archi, liberandolo da quell’estetica di rigore elaborativo nella

quale era stato bloccato dall’affermazione di riferimento indiscusso dei modelli

beethoveniani. Ciò che qui viene superata è proprio la concezione della variazione

elaborativa e dello sviluppo a partire da un tema definito e identificabile dato all’inizio. Qui,

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nel quartetto debussiano, il discorso procede attraverso una sequenza di configurazioni

musicali il cui collegamento tematico è comunque presente, ma è reso decisamente più

labile dall’allentamento dei rapporti di identità dei motivi e delle cesure stabilite dalle

funzioni cadenzali.

Ma la vera rivelazione fu il Prélude a l’aprés-midi d’un faune, dato in prima esecuzione nel

1894, dove la forma più libera del poema sinfonico consentì a Debussy di liberare per la

prima volta il suo potenziale di nuova immaginazione sonora. Si è detto numerose volte che

fin dalla frase iniziale affidata al flauto, il Prélude instaura una respirazione nuova dell’arte

musicale, che dà libero corso ad una espressività sciolta e mobile. Anche qui, come nel

quartetto per archi, invece di scegliere un tema distinto e svilupparlo in vari modi, Debussy

sceglie un’idea di per sé esitante, non assertiva, che ritorna su se stessa, non utilizzabile per

una elaborazione logica. Ma è soprattutto nell’uso della tavolozza orchestrale che Debussy

fonda le premesse del suo stile maturo. Agli enfatici apparati orchestrali wagneriani Debussy

contrappone una leggerezza del tessuto sonoro ottenuto con una ricerca accuratissima sui

modi d’attacco del suono: frullati, tremoli, armonici, differenziazione del tocco e delle

emissioni, effetti percussivi. Procede poi ad una scissione degli impasti timbrici tradizionali,

con sonorità inattese e uso frequente di timbri puri. Questo paricolarissmo tessuto

orchestrale verrà sviluppato e riarticolato nella sua opera per il teatro, Pélleas e Melisande,

su soggetto di Maeterlinck, alla quale Debussy lavorò dal 1894 al 1902; nei Trois Nocturnes:

Nuages, Fetes, Sirènes, che risalgono al 1897-99; in La mer (1904-05) e nelle Images (1913).

In La mer e nelle Images per orchestra e poi ancora di più in Jeux, del (1912), porta a logica

conseguenza le ricerche avviate con il Prelude à l’aprés-midi d’un faune, relative sia

all’individuazione timbrica, sia agli stessi procedimenti compositivi: l’immaginazione del

compositore non agisce componendo un gesto musicale e poi rivestendolo con i colori

strumentali, ma la stessa orchestrazione diviene un atto di vera e propria composizione,

influendo non solo sulle idee musicali, ma anche sul modo di scrittura destinata a renderne

conto.

Emergeranno d’ora in avanti altre influenze, le sonorità sospese e fluttuanti della musica

gamelan giavanese, ascoltate all’Esposizione Universale parigina del 1889 e con quelle

sonorità, scale modali di varia derivazione. Questi aspetti si fanno più evidenti nelle

composizioni per pianoforte dove si mescolano molte altre componenti, che hanno il loro

punto d’avvio nel pianismo rapsodico di Liszt e nell’arte dell’arabesco chopiniano. E ancora,

l’idea del clavicembalismo settecentesco: Pour le piano (1901) e Suite bergamasque (1905).

Una forma di raffinato esotismo pentatonico si trova in Pagodes, primo pezzo contenuto nel

trittico di Estampes (1903). Su elementi di varia provenienza si costruiscono anche le due

serie di Images per pianoforte (1905 e 1907), che segnano la pienezza di una certa forma di

scrittura pianistica in cui sono esplorate tutte le risorse timbriche. Analoga ricchezza di

soluzioni si trova nei due volumi di Préludes (1910 e 1913): aloni e morbidezze timbriche nei

bassi, pulviscolo luminoso negli acuti, che ricorda un certo Liszt; il gusto aspro della

percussione; un pianismo nel complesso discontinuo, imprevedibile, mobile e calcolatissimo

nonostante i momenti di sognante abbandono. Spagnolismo in forme visionarie e

trasfigurate, dove del cante hondo e della onnipresente chitarra si danno frammenti e

accenni: la Serenade interrompue è in questo senso molto rappresentativa. I Douze études

ancora per pianoforte, En blanc et noir per due pianoforti, chiudono il ciclo pianistico, e

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l’intera attività di Debussy insieme agli ultimi lavori – i Trois poèmes de Mallarmé (1913) per

canto e pianoforte, la Sonata per violoncello e pianoforte (1915), le ultime opere tre sonate

(per violoncello e pianoforte, per flauto, viola e arpa, per violino e pianoforte) – prima della

morte che lo colse nel 1918.

L’avvio che Debussy diede alla modernità musicale trova il suo centro nell’aspetto che

appare oggi, guardando tutto il Novecento retrospettivamente, quello decisivo e più

duraturo, e cioè l’attenzione al suono preso in sé, colto nell’istante della sua apparizione

come entità discreta e autonoma, piuttosto che come elemento di un discorso che si

costruisce attraverso di esso.

Nonostante queste posizioni avanzate che hanno permesso la consacrazione di Debussy

come padre del moderno pensiero musicale, Debussy non soffrì l’isolamento che colpì gli

altri musicisti che inaugurarono quella nozione di avanguardia; questa differenza va colta

nella via scelta da Debussy, cioè non nel rifiuto radicale dell’orizzonte musicale precedente

ma attraverso l’allargamento progressivo e anche estremo, del vecchio sistema armonico

funzionale, senza tuttavia dissolverlo mai completamente.

5. Radicalizzazione del pensiero wagneriano.

Arnold Schoenberg: musica come verità

Dopo Wagner, Mahler, Richard Strauss, la musica parla di un profondo disagio esistenziale. Il periodo

tra fine Otto e inizio Novecento è stato attraversato, da una profonda inquietudine, dalla sensazione

che tutte le certezze sul destino dell’uomo, sulla civiltà occidentale, sulla permanenza e sulla stabilità

degli ordinamenti politici, sulla stabilità delle istituzioni sociali stessero per sbriciolarsi sotto la

pressione di forze incontrollabili. Non erano sensazioni infondate: di lì a poco sarebbe crollato l’ultimo

grande, secolare impero d’Occidente, l’impero asburgico; gli effetti della seconda rivoluzione

industriale si sarebbero fatti sentire con il progressivo svuotamento delle campagne e il gonfiarsi a

dismisura delle città, la nascita dei grandi gruppi industriali, i nuovi modi di vita urbana, le forme di

consumo, il disgregarsi delle istituzioni famigliari allargate, la disfatta sempre più evidente e

irreversibile dell’ancient régime, l’ingrossarsi di masse di operai salariati, il consolidamento di una

piccola borghesia impiegatizia. Sarebbero arrivate la Prima guerra mondiale (1914-1918) e la

Rivoluzione d’ottobre (1917). L’inquietudine ben presto si trasformò in angoscia, e questo

sentimento prevalente trovò le sue forme di rappresentazione musicale nell’implosione della tonalità

e nel disordine dei linguaggi dell’arte contemporanea: il tramonto della prospettiva e la dissoluzione

della figura nelle arti visive; il definitivo superamento di una fraseologia regolare e coordinata nella

musica, l’instabilità e l’angosciosa asprezza di armonie dissonanti.

Si fece più stretto il legame tra verità e bellezza: l’arte, e la musica in particolare, apparivano

tanto più efficaci e necessarie quanto più divenivano lo specchio di questo disordine; ma le direzioni

che presero non furono univoche. Di certo non si poteva pensare di riprodurre un mondo che non

c’era più, oppure, se lo si faceva, l’opera prendeva il senso di un’evocazione nostalgica, il ricordo di

un mondo svanito per sempre. Nella maggioranza dei casi tesero a rappresentare il cambiamento,

sia nella sua dimensione tragica, come il tramonto definitivo del soggetto e la fine dell’umanesimo;

sia con atteggiamenti di resistenza, provocatoria e ironica; sia, ancora, come promessa di un mondo

nuovo, liberazione di energie primitive, arcaiche, rigeneranti. Da una parte i tratti tragici

dell’Espressionismo austro-tedesco, dall’altra l’esotismo e il primitivismo e lo sperimentalismo

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futuristico di una moltitudine di compositori, da Ferruccio Busoni a Skrjabin, da Debussy a Stravinskij

a Bartók.

L’Espressionismo austro-tedesco risultò l’epicentro di questa evoluzione, e Schoenberg

(1874-1951) ne fu l’esponente più rilevante.

Negli anni della formazione e della prima maturità di Schoenberg, Vienna può essere

considerata il punto nevralgico della cultura europea: nella città che Karl Kraus chiamò «stazione

metereologica per la fine del mondo» maturavano in campi diversi idee e riflessioni fondamentali per

la cultura del nostro secolo. Nella stessa città e negli stessi anni vissero Freud (che nel 1895 pubblicò

gli Studi sull’isteria insieme con Breuer e nel 1900 l’Interpretazione dei sogni), Hofmannstahl,

Schnitzler, Weininger (che morì suicida nel 1903, nello stesso anno in cui venne pubblicato il suo testo

Sesso e carattere), Kraus, Mach, Musil, Wittgenstein. Mahler arriva a Vienna mentre nasce la

Secessione: da quell’esperienza artistica presero forma i mondi figurativi di tre artisti molto diversi,

Schiele, Kokoschka e Loos. L’elenco potrebbe continuare, ma qui importa soprattutto sottolineare

che personalità tanto diverse e attive in ampi disparati sembrano trovare un terreno di indagine

comune nella riflessione sulla crisi della nozione tradizionale del soggetto e del suo linguaggio. È la

crisi testimoniata da Hofmannsthal in Ein Brief (Lettera di Lord Chandos), un breve racconto il cui

protagonista vive una sorta di scollamento tra le proprie emozioni e il linguaggio che dovrebbe

permettere di esprimerle verbalmente in modo ordinato: «Mi è venuta completamente a mancare la

capacità di pensare o di parlare su qualsiasi cosa in modo coerente»; oppure nell’Uomo difficile, un

dramma teatrale, nel quale il protagonista – uomo difficile, appunto – avverte l’impossibilità di

parlare, poiché ha la sensazione del disfarsi e decomporsi delle parole prima di riuscire a

pronunciarle. È la percezione del dissolversi della capacità del soggetto di porsi come principio

ordinatore della realtà. Non è difficile individuare legami tra questa perdita di controllo dell’Io e la

scoperta dell’inconscio in Freud, il lavoro letterario di Musil e Schnitzler, o la radicale revisione della

riflessione sui processi conoscitivi e sulla logica operata da Wittgenstein e dal Circolo di Vienna.

«La musica non deve ornare, deve essere vera», ha scritto Schoenberg, e questa sua frase

rivela un punto di contatto non soltanto con Mahler, ma con tutti i grandi protagonisti della cultura

viennese, le cui diversissime esperienze possono essere ricondotte a una generalizzata indagine sul

linguaggio, vissuta con strenuo impegno etico, nella consapevolezza dell’impossibilità di chiudersi

ormai nell’ordine dei linguaggi tramandati, della necessità di sperimentare ordini nuovi sapendo che

non vi sono soluzioni su cui contare, né vie d’uscita certe e rassicuranti. Quasi completamente

autodidatta, ebbe solo qualche lezione da Zemlinsky, Schoenberg si confrontò inizialmente con

l’eredità di Wagner e Brahms: da Wagner recuperò il potenziale dissolvente della modulazione

continua, per giungere tramite il processo modulante prima a un indebolimento della tonalità, poi a

un’armonia fortemente segnata dal cromatismo, poi ancora alla pura atonalità’; da Brahms ricavò le

possibilità costruttive dell’elaborazione motivica e del contrappunto applicati alle forme della musica

strumentale. Un’opera assai significativa in questo senso è Verklärte Nacht (Notte trasfigurata) per

sestetto d’archi, del 1899. È un poema sinfonico «da camera», con tanto di testo poetico di

programma, il cui autore è il poeta Richard Dehmel. Vi viene narrato il turbamento di un uomo, al

quale una notte la sua donna confessa di essere incinta di un altro; lo svolgimento della composizione

punta a rappresentare l’incalzare della sorpresa, poi della disperazione, del furore, dello sprofondare

nello sperdimento, della tensione tra la volontà di chiudere una relazione culminata nel tradimento

e l’impossibilità di recidere un legame profondo, fino alla risoluzione di accettare l’accaduto e il suo

esito. L’opera si apre in un re minore ancora ben definito e si chiuderà in re maggiore. Ma in mezzo,

Storia ed estetica della musica

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ogni riferimento tonale viene gradualmente abbandonato. L’azione è insomma tutta interiore, vi

viene estesa ed estremizzata l’idea del ‘sonoro silenzio’, che in Wagner designava i lunghi momenti

in cui i personaggi restano muti sulla scena, mentre l’orchestra canta in loro vece.

Una ricerca di essenzialità unita all’urgenza di un’espressività incandescente si ritrova nei Gurre-

Lieder (composti nel 1900-1901, ma strumentati in due fasi, nel 1901-1903 e nel 1910-11), destinati

a un organico gigantesco, con orchestra, coro e voci soliste; oppure nella Kammersymphonie op. 9,

del 1905-06. Concepita in un blocco unico, ma che ingloba nel suo scorrere senza soluzione di

continuità quattro sezioni riconducibili a tempi di sonata (come aveva già fatto Liszt nella Sonata in si

minore per pianoforte), questa ‘sinfonia da camera’ è composta per 15 strumenti (8 legni, 2 corni, 5

archi). La dimensione melodica e armonica appaiono fortemente integrate (in modo tale che i temi

d’apertura generano accordi basati sulla successione di intervalli di quarta e sulla scala per toni interi.

Accanto alla densità contrappuntistica, è questa la strada che conduce al superamento della tonalità.

6. L’Espressionismo tedesco, il primitivismo, lo sperimentalismo americano

Schoenberg rifiutava termini come atonale o atonalità, che sono comunque entrati nell’uso corrente.

Preferiva parlare di emancipazione della dissonanza (perché non ha più alcun significato l’obbligo di

risolvere le dissonanze e si cancella la distinzione stessa tra consonanza e dissonanza), e di

«sospensione della tonalità». Vengono scardinate le gerarchie dell’organizzazione tonale e il

concatenarsi degli accordi non rimanda più a funzioni tonali; ma lo stravolgimento e il rinnovamento

del linguaggio riguarda molti aspetti del ‘gesto’ musicale, che rifiuta gli automatismi, le convenzioni

discorsive del linguaggio tradizionale, ne distrugge gli schemi, le simmetrie e le ripetizioni, crea nuovi

mezzi di costruzione coerenti con le necessità di trovare modi espressivi corrispondenti all’idea di

interiorizzazione, concentrazione, essenzialità. Frasi, temi, motivi, tendono a concentrarsi in

dimensioni ridotte o minime, l’armonia, il contrappunto, il timbro assolvono alla funzione di portare

in superficie una pura «necessità interiore». Questo modo di procedere obbediva alle ragioni della

poetica espressionista. Il movimento artistico dell’Espressionismo tedesco partiva dall’idea che il

linguaggio sintatticamente ordinato, riflesso di una coscienza che è ancora in grado di esercitare un

controllo sulle pulsioni emozionali, fosse continuamente scosso e disarticolato dalle scosse profonde

dell’inconscio.

Nel carteggio che Schoenberg avviò con Vassilij Kandinskij, a partire dal 1911, questo principio

di fondo viene continuamente affermato, e un riflesso di questa condivisione di idee si trova

nell’evoluzione dei rispettivi sviluppi artistici: l’ordine sconvolto dello spazio pittorico del primo

astrattismo di Kandinskij, privato di un centro di coordinamento della visione qual era la prospettiva

nella pittura classica, corrisponde al vertiginoso stravolgimento dello spazio sonoro che negli stessi

anni produce in Schoenberg l’abolizione di un centro tonale.

Una condizione emblematica dell’Espressionismo schoenberghiano è quella di angosciosa e

totale solitudine dell’unica protagonista di Erwartung (Attesa), dramma musicale scritto nel 1909, e

indicato in partitura come «monodramma» perché prevede un solo personaggio in scena, una donna:

il testo di Marie Pappenheim, un medico che aveva conosciuto Freud, presenta non a caso uno

spessore psicanalitico, ed è l’allucinato delirio di una donna che attende l’uomo amato e che poi lo

ritrova morto. La musica appare in effetti un sismogramma dell’inconscio, come un «flusso di

coscienza oggettivato» (Schnebel), perché il flusso della musica si frantuma in un incalzante

sovrapporsi di idee, di brevi illuminazioni, di svolte repentine. Il lavoro rappresenta (insieme ad un

Storia ed estetica della musica

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altro importante lavoro teatrale di questi anni, Die Glückliche Hand [La mano felice]), un modo di

ritornare, negli anni dell’Espressionismo, con segno radicalmente mutato, all’idea di

Gesamtkunstwerk (l’opera d’arte totale): per mezzo della tensione visionaria verso una

rappresentazione totale, l’ansioso anelito di ricondurre tutto all’immediatezza interiore approda ad

un esito frantumato, di intensità lacerante.

Dopo il 1909, un anno di vera esplosione creativa per Schoenberg, vi fu un rallentamento

dell’attività compositiva. Schoenberg si dedicò alla pubblicazione dell’Harmonielehre (Manuale di

armonia), un ponderoso trattato la cui prima uscita data 1911. È un segno di quando Schoenberg

conoscesse profondamente l’armonia tonale e la musica classico romantica, il che per contrasto

rafforza la convinzione di quanto fosse radicata in lui la necessità, l’urgenza espressiva di ciò che

andava scrivendo. La sua musica creava scandalo e irritazione nel pubblico dei concerti, ma

Schoenberg lo ripagava con gesti di aperta sfida. Era convinto di stare obbedendo a un imperativo

morale, che era il compimento della musica al suo ultimo stadio di sviluppo: la musica poteva essere

finalmente, grazie all’emancipazione della dissonanza, ciò che doveva essere. Questa era la sua verità,

in questo modo risultava autentica, in questo modo chi la scriveva non mentiva agli altri e a se stesso.

Schoenberg avrebbe potuto scrivere perfettamente in modo tradizionale se solo lo avesse voluto. Ma

una musica ben levigata, in cui ogni dissonanza, ogni disarmonia fosse accortamente integrata in un

tutto perfettamente conciliato, sarebbe stata una menzogna. La creazione musicale doveva imporsi

di scavare a fondo, di proseguire nel dissodamento delle sue relazioni più profonde, per ritrovare la

rappresentazione più autentica del modo in cui si pone il rapporto tra io e mondo. Non importa se

poi questo rapporto si riveli angosciante, o sgradevole; il compito dell’artista non è quello di

nascondere la verità, bensì di portarla in superficie, con un linguaggio appropriato. L’arte non è un

mezzo di distrazione di massa, ma una forma di conoscenza: «Se è arte non è per tutti, se è per tutti

non è arte», diceva Schoenberg. Ritornano insomma i temi dell’estetica wagneriana.

Vi era per Schoenberg una vita interna delle forme e dei linguaggi espressivi, che implicava

una continua evoluzione dei loro nessi strutturali e delle loro proprietà di relazione; e questa

evoluzione corrispondeva alla storia esterna del mondo: ogni epoca sviluppava le proprie specifiche

forme e i propri specifici linguaggi, per dar corpo e sostanza a ciò che il mondo effettivamente è o è

diventato. In questo modo si spiega anche l’enunciato «emancipazione della dissonanza».

Nell’Harmonielehre Schoenberg spiega che la dissonanza è già compresa nella natura stessa del

suono, poiché compare negli armonici superiori; per molto tempo il linguaggio musicale si è basato

solo sui primi 4 suoni della serie degli armonici, ottava, quinta, ottava, terza, su cui si è costruita

l’armonia classica; l’emancipazione della dissonanza consiste pertanto in una progressiva inclusione

degli altri armonici che sono già sempre compresi nella vita di un suono. La dissonanza è insomma

già presente nel suono in quanto realtà acustica; è necessario accogliere questa realtà acustica e

tradurla in linguaggio.

Connesso a questo ordine di questioni, nell’Harmonielehre schoenberghiana si trova anche

una riflessione sul timbro, e vi si ipotizza una Klangfarbenmelodie, una ‘melodia di timbri’, che di fatto

Schoenberg aveva già sperimentato nel terzo degli Orchesterstücke (Pezzi per orchestra) op. 16:

all’inizio, lo stesso accordo è intonato da strumenti diversi, sicché muta soltanto il colore sonoro. Nel

1911 Schoenberg scrisse i Sechs kleine Klavierstücke (Sei piccoli pezzi per pianoforte) op. 19, dove si

attua in modo più radicale un processo di ripiegamento interiore, attraverso veri e propri grumi di

timbro. Qualcosa di simile stava realizzando il suo allievo Anton Webern, particolarmente negli

straordinari Sechs Orchesterstücke op. 6. E anche per Webern, forse il più ermetico dei tre

Storia ed estetica della musica

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compositori della cosiddetta Seconda scuola di Vienna, vale il discorso, che se solo avesse voluto

avrebbe potuto scrivere in un modo che gli avrebbe garantito una carriera più tranquilla e

confortevole. Prova ne sono il giovanile movimento di quartetto, Langsamer Satz, e l’orchestrazione

realizzata per l’Offerta musicale di J. S. Bach.

Il culmine e anche l’assestamento delle esplorazioni musicali di Schoenberg è rappresentato

dal Pierrot lunaire del 1912. Il testo su cui è basato è una scelta di 21 poesie di un poeta simbolista

belga, Albert Guiraud, nella libera traduzione tedesca di Otto Erich Hartleben, e si pone sotto il segno

dell’ironia, del paradosso, dell’immagine grottesca e malata, del fantasticare sul vuoto, del narcisismo

e del sarcasmo: Il Pierrot, di cui si deve immaginare la voce che canta, è una sorta di clown

sonnambulo, emblema, nella mani di Schoenberg, di una regressione del soggetto, di una svagata

follia, della perdita dell’identità. La musica si presenta infatti come un variegato ed elaboratissimo

caleidoscopio di immagini, dove è decisivo anche il rapporto per lo più sghembo che si instaura tra il

discorso strumentale e la parte vocale. Quest’ultima presenta parti eseguite nella forma dello

Sprechgesang (cantato parlato), secondo la quale l’interprete deve rispettare rigorosamente il ritmo

e intonare le note scritte con emissione parlata. Al di là dei complessi problemi che pone la

realizzazione dello Sprechgesang va sottolineata la sua natura di canto ibrido, estraniato, di fantasma

di canto, di aggressione, quasi, ai canoni convenzionali della vocalità.

Parallelamente a ciò che fanno Schoenberg e i suoi allievi (Seconda scuola di Vienna), vi sono altre

direttrici: la prima si realizza nell’altro polo europeo, Parigi, con Debussy e Stravinskij. Entrambi gli

autori si muovono lungo una traiettoria diversa: la scuola di Schoenberg si era concentrata sulla

componente diastematica e armonica, continuando il processo avviato con Wagner fino a dissolvere

la sintassi armonica. Debussy e Stravinskij partono da un principio ritmico-timbrico e in entrambi si è

innescata la scintilla di un processo di rinnovamento soprattutto tramite suggestioni di tipo esotistico,

ispirati dalla conoscenza di mondi sonori extra-europei.

Debussy incontra la musica giavanese all’esposizione universale di Parigi e apprende due

caratteristiche di questo mondo: la prima è il superamento dei dispositivi sintattici dell’armonia

funzionale non attraverso il cromatismo ma attraverso una scrittura di tipo modale o l’adozione di

altre tipologie scalari anemitoniche; la seconda, che è una conseguenza della prima è la staticità,

l’andamento fluttuante, la percezione di un flusso non direzionato verso una meta.

L’altra grande esperienza novecentesca è quella di Stravinskij. La cultura austro-tedesca aveva

egemonizzato l’Europa. Un certo processo di emancipazione della musica russa si era verificata con

la Scuola dei Cinque ed da lì era partita una ricerca che potesse dare identità alla musica russa

resistendo alla musica tedesca. Il Sacre du printemps segna l’integrazione di materiali folklorici quasi

grezzi nella costruzione della composizione (motivi ricavati dalle canzoni dei battellieri) e l’idea di

musica come coinvolgimento corporeo. È molto forte in Stravinskij la ricerca di una corporeità della

musica. Le prime composizioni sono infatti pensate come balletti. Stravinskij si concentra sul ritmo,

che diviene il motore stesso dello sviluppo compositivo. Gli elementi diastematici, il gioco delle

altezze, si riducono in modo considerevole. Il Sacre è fatta di elementi melodici semplicissimi e

primitivi, continuamente riarticolati attraverso la variazione ritmica.

Stravinskij e Debussy sono entrambi mossi dalla necessità di allontanarsi dalla tradizione

classico- romantica. L’uno lo fa adottando la linea di un primitivismo rigenerante (l’idea del rituale

arcaico e del sacrificio nel Sacre, ad esempio, oppure il matrimonio contadino nelle Noces per quattro

pianoforti e percussione), l’altro inseguendo il suono esotico e fluttuante delle percussioni giavanesi.

Storia ed estetica della musica

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In questi termini si muove anche l’esperienza di Bartók, che fa qualcosa di simile a Stravinskij.

Lavora su materiali di carattere etnico e folklorico e li usa per ricavare costrutti che poi riproduce

nella propria scrittura.

Ma tutti i compositori, in modo più o meno consapevole, avvertivano di non poter spingere

con la stessa intensità la propria rivoluzione linguistica su ogni dimensione della composizione.

Sentivano che se avessero spinto l’attività dissolutrice su tutte le dimensioni, la composizione sarebbe

esplosa.

In generale, la liberazione del timbro diventa il tratto comune più rilevato di tutte le

esperienze novecentesche. Se prima timbro e ritmo non facevano altro che rafforzare la struttura

delle altezze, ora è spesso il contrario.

L’emersione del timbro si manifesta anche nella scissione dei timbri puri, come nel Pierrot

Lunaire di Schoenberg o nell’Histoire du Soldat di Stravinskij, dove l’organico composto di più

strumenti a parti reali e l’uso di registri molto differenziati, favorisce una dissociazione dei timbri

piuttosto che una loro coagulazione in impasti sonori.

Uno dei punti più estremi del processo di concentrazione sul timbro è rappresentata nel primo

Novecento dalla musica di Edgar Varèse, compositore francese di nascita, ma americano d’adozione.

È il compositore che formula la definizione di musica come «suono organizzato»: non ha importanza

cosa costituisce la musica, cosa essa significhi, ma come si organizza il suono. È un autore che

incarnerà la vocazione autenticamente sperimentale della musica americana, più tardi prolungata e

sviluppata da John Cage. Vi era stato un precedente negli Stati Uniti, Charles Ives (1874-1954), che

prima di Varèse ha contribuito a consolidare l’idea di una musica votata alla sperimentazione

continua, anticipando – come del resto anche Varèse – tecniche e concezioni estetiche

dell’avanguardia musicale del secondo Novecento. Oltre a utilizzare la politonalità e l’atonalità vera

e propria, Ives sperimentò effetti di spazializzazione del suono e l’impiego di organici e strumenti

inusuali.

Le opere americane di Varèse procedono lungo la medesima traiettoria di Ives. Tra queste,

Ionisation ne è un significativo esempio. È del 1930-31, ma conclude un processo di individuazione

stilistica che ha inizio nei primissimi anni Venti, quando conclude Arcana. Ionisation risulta come un

tessuto sonoro compatto e chiuso in se stesso, in cui temi ritmici sono messi in evidenza dal timbro

dei 41 strumenti a percussione impiegati (assieme a 3 sirene).

7. Nuovo ordine: Neoclassicismo e principio dodecafonico

L’onda lunga di questa frenesia di sperimentalismo si propaga fino agli anni Quaranta del Novecento,

negli Stati Uniti e nelle zone periferiche del continente europeo. Nel cuore dell’Europa, nei grandi

centri propulsivi della produzione artistica moderna, a Parigi, a Berlino e a Vienna, la fine della Prima

guerra mondiale segnò una battuta di arresto. Si fece largo l’esigenza di tirare il fiato e di mettere un

po’ d’ordine.

Nella produzione di Stravinskij, l’opera spartiacque è un nuovo balletto, il Pulcinella (1919-1920). Gli

anni Venti furono caratterizzati da una sorta di ‘ritorno all’ordine’, che fu chiamato genericamente

‘Neoclassicismo’. Come suggerisce il nome stesso, il neoclassicismo consisteva nel reintrodurre

elementi stilistici della musica del passato, in realtà, soprattutto del passato pre-classico. Ma

nell’accezione del termine ‘neoclassico’ finiva per rientrare tutto ciò che non appariva ‘moderno’. Nel

caso particolare di Pulcinella esisteva una fonte ben definita: la musica di compositori napoletani del

primo Settecento, movimenti strumentali e arie che Stravinskij adattò e arrangiò. Già prima di lui altri

Storia ed estetica della musica

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compositori avevano fatto incursioni nel passato, Strauss ad esempio, con Ariadne auf Naxos e

Prokof’ev con la sua Sinfonia Classica, ma fu Stravinskij a dare al neoclassicismo una sua sistematicità,

contagiando numerosi altri compositori. Elementi del passato, da lungo tempo ormai accantonati,

vengono qui recuperati: modelli formali, tessiture, stilemi melodici e ritmici. Soprattutto si fece strada

l’esigenza di un recupero di assetti formali ben squadrati e riconoscibili.

La medesima necessità di ordine e chiarificazione si manifesterà in ambito austro-tedesco, perfino

all’interno della cosiddetta Seconda scuola di Vienna, ovvero nella cerchia di Schoenberg, Berg e

Webern. La composizione atonale ed espressionista era stata caratterizzata da un’invenzione

sostanzialmente rapsodica, un modo di scrivere molto intuitivo, che inseguiva immagini sonore e che

si esauriva nel momento stesso in cui questa immagine veniva definita. Questo processo così libero

e destrutturato dava la sensazione di non potersi sviluppare ulteriormente. Bisognava dare un po’ di

corpo e di struttura. Fu da questa esigenza che Schoenberg assunse come dato di fatto che la

composizione atonale si fondava sull’utilizzo dell’intera gamma dei dodici suoni della scala cromatica,

e trasformò questa liberazione del semitono in metodo. Nacque così il saggio Il metodo di

composizione con dodici note e l’adozione della serie dodecafonica come elemento basilare del

processo compositivo. Questo articolo ratificava la dissoluzione definitiva della tonalità, ma sostituiva

questa struttura archetipica con un’altra scala, quella cromatica. L’impianto di ogni composizione

doveva essere cromatico e tutti i suoni non dovevano essere ripetuti prima che tutto l’insieme dei 12

suoni non fosse esposto integralmente. La serie dodecafonica non è una scala vera e propria, non ha

mai uno stesso ordine. Non è nemmeno un tema. L’idea di Schoenberg è che nell’insieme dei dodici

suoni e nella configurazione della serie che di volta in volta viene adottata, vengono individuate le

caratteristiche strutturali che avrebbero contraddistinto la composizione. La serie poteva generare

un insieme di serie correlate, determinate dai processi derivati dalle forme di inversione e

retrogradazione dell’antico contrappunto. La struttura della serie garantiva una maggiore durata del

pezzo. Tutte le possibilità potenziali di configurazioni collegate alle caratteristiche della serie

fondamentale potevano costituire sviluppi possibili del processo compositivo.

Il metodo dodecafonico prende forma contemporaneamente all’avvio della fase neoclassica di

Stravinskij. Ma inizialmente, negli anni Venti, fu il nuovo stile di Stravinskij a imporsi come linguaggio

diffuso. Quello del compositore russo era un falso neoclassicismo, era in realtà una modalità

compositiva molto ironica. Il Pulcinella montava pezzi di composizioni preesistenti di musicisti

napoletani dell’epoca di Giovan Battista Pergolesi. Il balletto di Stravinskij appare all’inizio come un

calco settecentesco, ma poi man mano che si procede nell’ascolto appaiono strumentazioni anomale,

elementi che si inceppano, armonie non conformi al modello. Si crea una sfasatura sempre più netta

tra la musica che ci aspetteremmo di ascoltare e quello che realmente accade. È un modo di

comporre tutto giocato sul montaggio e sul dislivello, sul progressivo straniamento che provoca il

gioco di attese e sorprese innescato dal compositore. Il principio estetico del Neoclassicismo, nello

stile assai personale che caratterizzò la musica di Stravinskij, occupò un intero trentennio, e

caratterizzò molte opere strumentali, come il concerto per orchestra Dumbarton Oaks, o veri e propri

capolavori, come Oedipus Rex e la Sinfonia di salmi, fino all’opera teatrale in tre atti The Rake’s

Progress (La carriera di un libertino).

Lo stesso Stravinskij si collocava in un solco che aveva altri rappresentanti, soprattutto il

Gruppo dei Sei, compositori francesi che auspicavano una sorta di ritorno al passato come risposta a

Storia ed estetica della musica

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un più genuino bisogno di ordine e chiarezza, ed erano tutti riconducibili a un’idea di modernità che

non fosse in conflitto con il passato e con il pubblico comune. Il neoclassicismo si diffuse anche in

altre nazioni: in Italia, in vario modo, Casella, Malipiero e Respighi furono attivi promotori di questa

tendenza musicale. Anche in ambito tedesco con Hindemith, che si inventò la Gebrauchmusik, una

musica d’uso, nella quale poteva ritrovare spazio una dimensione artigianale del fare musica. Si

sviluppò anche una corrente musicale di ispirazione socialista o comunista, che inseguiva

l’immediatezza nella semplicità quotidiana della canzone (si vedano ad esempio il teatro-canzone di

Kurt Weill, e le sue collaborazioni con Bertolt Brecht).

8. Estetica del secondo dopoguerra

Con l’avvento del nazismo e del fascismo la musica neoclassica divenne la musica di facciata dei

regimi, mentre la musica dodecafonica venne bollata come musica degenerata. Questo provocò

come contraccolpo una legittimazione della musica dodecafonica come musica della libertà e di

resistenza all’oppressione e al totalitarismo.

Dopo la seconda guerra mondiale, nell’Europa ridisegnata dall’intervento americano e dalla

Guerra fredda, attraversata dai fervori della ricostruzione e dalle inquietudini di una pace edificata

all’ombra del terrore atomico, l’avanguardia ovvero il ripudio delle forme convenzionali della

comunicazione linguistica parve come l’atteggiamento più congeniale alle nuove generazioni di

intellettuali e di artisti nel loro rapporto con la realtà contemporanea. Il riferimento ideale e

terminologico alla cultura radicale del primo Novecento, la continuità nei confronti di un immediato

passato dei movimenti che da questo momento in poi vengono chiamate ‘avanguardie storiche’

(Espressionismo, primitivismo ecc.) viene ritrovata appunto nella corrente che aveva subito gli effetti

di una repressione ideologica e materiale nei decenni precedenti, e cioè appunto, la corrente

dodecafonica. Sul tema dell’avanguardia, sulle sue ragioni e sui propositi, sul suo significato nella

società contemporanea si svolse un intenso dibattito teorico e filosofico, i cui principali riferimenti

furono György Lukács, Walter Benjamin, Theodor Adorno, Herbert Marcuse, Bertolt Brecht.

Adorno in particolare operò la sintesi più sviluppata. Adorno vide nell’avanguardia soprattutto

un tentativo estremo di fuga dalla mercificazione capitalistica del prodotto estetico in un’epoca in cui

questa veniva a costituirsi come la forma specifica di vita dell’arte. Fuga disperata e votata alla

sconfitta, in quanto l’avanguardia, sottratta al mercato, sarà destinata a un’esistenza protetta, a una

sorta di museo, che sempre più rapidamente finirà per neutralizzare il potere di contestazione insito

in essa. Se all’inizio del Novecento l’avanguardia aveva potuto apparire come un elemento di

eversione dell’ordine costituito (sia pure a livello delle forme artistiche), nel secondo dopoguerra essa

non fu più l’eccezione ma divenne la regola, condizione permanente di produzione di un nuovo che,

appena prodotto, già non è più d’avanguardia ma richiede un nuovo gesto d’avanguardia.

L’opera di Anton Webern e il principio della ‘costellazione’ che è in essa sviluppato (cioè la

frantumazione del tessuto musicale in un pulviscolo di nuclei sonori dissociati e privi di attrazione di

gravità) vennero a costituire un nuovo punto di partenza. In Webern si intravedeva la possibilità di

un ‘azzeramento’. La dodecafonia schoenberghiana, con i suoi equivoci patteggiamenti con moduli e

forme della tradizione appariva contraddittoria. Composizioni di Schoenberg come l’Ode a Napoléon

(1942) o A Survivor from Warsaw (1947), in cui il metodo dodecafonico tende a ricostituire un tessuto

discorsivo compiuto apparivano contraddittorie e irrisolte. Al contrario, la ferrea coerenza del

serialismo di Webern viene a incarnare, agli occhi della neoavanguardia, l’utopia del linguaggio

Storia ed estetica della musica

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incontaminato dalle prevaricazioni del soggetto. La focalizzazione sulla dodecafonia realizzata da

Webern, da parte dei compositori nati a metà degli anni Venti, comportò la demolizione del ‘padre

dell’avanguardia dodecafonica’. Il che avvenne con particolare virulenza polemica in un famoso testo

di Pierre Boulez. L’assunto di fondo teorico, identificato forzatamente in Webern, era che il principio

seriale, per svilupparsi coerentemente, doveva essere esteso a tutte le dimensioni della

composizione, dunque non soltanto alle altezze, ma al ritmo, al timbro, alle intensità. Con

l’estensione del principio dodecafonico dalla serie dei dodici suoni agli altri parametri, la dodecafonia

si trasformerà nella composizione ‘seriale pluridimensionale’, oppure, come pure si usava dire, nella

‘composizione totalmente determinata’ o ‘serialità integrale’.

PIERRE BOULEZ

Schoenberg è morto (1951)

Con Schoenberg assistiamo a uno dei più importanti sconvolgimenti mai subiti dal linguaggio musicale.

Il materiale propriamente detto, certo, cambia: i dodici semitoni; ma la struttura che organizza questo

materiale viene messa in causa: dall’organizzazione tonale, passiamo all’organizzazione seriale. Come è

venuta alla luce questa nozione di serie? In quale momento dell’opera di Schoenberg si colloca? Di quali

deduzioni è il risultato? […]

Diciamo prima di tutto che queste scoperte di Schoenberg sono essenzialmente morfologiche. Questa

progressione evolutiva parte dal vocabolario postwagneriano per arrivare a una ‘sospensione’ del

linguaggio tonale. Anche se in Verklärte Nacht, nel Primo Quartetto op. 7, nella Kammersymphonie, si

possono vedere delle tendenze nettissime […]

La sospensione del sistema tonale si traduce con efficacia nei tre pezzi per pianoforte che costituiscono

l’op. 11. Poi le ricerche assumono un’acutezza sempre più penetrante e giungono allo stepitoso Pierrot

lunaire. Osserviamo nella scrittura di queste tre partiture tre fenomeni sorprendenti: il principio della

ripetizione costantemente efficace, vale a dire la non ripetizione; la preponderanza degli intervalli

‘anarchici’ – che presentano relativamente al mondo tonale la tensione maggiore – e l’eliminazione

progressiva del mondo tonale per eccellenza: l’ottava; scrupolo manifesto di costruire

contrappuntisticamente.

[…] Schoenberg stesso si confidò a questo proposito in un modo che autorizza a parlare di

espressionismo: «Nelle mie prime opere del nuovo stile, sono state soprattutto delle fortissime licenze

espressive a guidarmi in particolare e in generale nell’elaborazione formale, ma anche e non in ultimo

luogo, un senso della forma e della logica ereditato dalla tradizione e bene educato dall’applicazione e

dalla coscienza». […]

Eccoci dunque in presenza di una nuova organizzazione del mondo sonoro [ovvero del metodo

dodecafonico, avviato per la prima volta nella Serenade op. 24]. Organizzazione ancora rudimentale che

si codificherà soprattutto a partire dalla Suite per pianoforte op. 25, e del Quintetto per fiati op. 26, per

arrivare a una schematizzazione cosciente nelle Variazioni per orchestra op. 31.

Possiamo amaramente rimproverare a Schoenberg questa esplorazione del campo dodecafonico,

poiché è stata condotta con tale persistenza nel senso contrario che difficilmente si incontra, nella storia

della musica, un’ottica altrettanto erronea.

Non affermiamo questo gratuitamente. Perché?

Storia ed estetica della musica

16

Non dimentichiamo che l’instaurazione della serie proviene in Schoenberg, da una ultratematizzazione

dove, come abbiamo detto prima, gli intervalli del tema possono venir considerati come intervalli

assoluti, sciolti da qualsiasi obbligo ritmico o espressivo […]

Siamo obbligati a riconoscere che questa ultratematizzazione rimane soggiacente nell’idea di serie, ne

è soltanto il risultato depurato. Del resto, la confusione, nelle opere seriali di Schoenberg, fra il tema e

la serie, è prova sufficientemente esplicita della sua impotenza a intravedere l’universo sonoro implicato

dalla serie. La dodecafonia non consiste allora che in una legge rigorosa per controllare la scrittura

cromatica; ha soltanto il compito di uno strumento regolatore, il fenomeno seriale è, per così dire,

passato inosservato in Schoenberg […]

Poiché le forme preclassiche o classiche che reggono la maggior parte delle sue architetture non sono,

storicamente, per nulla legate alla scoperta dodecafonica, si produce uno iato inammissibile tra

infrastrutture legate al fenomeno tonale e un linguaggio di cui si sorgono ancora sommariamente le

leggi di organizzazione. Non soltanto il progetto che si proponeva fallisce: vale a dire che tale linguaggio

non viene consolidato da queste architetture; ma si osserva proprio il contrario: queste architetture

annullano le possibilità di organizzazione incluse in questo nuovo linguaggio. Due mondi sono

incompatibili: e si è tentato di giustificarli l’uno con l’altro. […]

La persistenza, per esempio, della melodia accompagnata; di un contrappunto basato su una parte

principale e delle parti secondarie (Hauptstimme e Nebenstimme). Eccoci in presenza di una delle

eredità meno felici dovuta alle sclerosi difficilmente sostenibili di un certo linguaggio bastardo adottato

dal romanticismo. Non soltanto in queste concezioni superate ma anche nella scrittura stessa,

percepiamo le reminiscenze di un mondo abolito. Dalla penna di Schoenberg abbondano, in effetti –

non senza provocare irritazione – i cliché di scrittura temibilmente stereotipi, rappresentativi, anche

qui, del romanticismo più ostentato e più desueto. Intendiamo parlare di quelle costanti anticipazioni

con appoggio espressivo sulla nota reale; vogliamo segnalare quelle false appoggiature; e ancora quelle

formule di arpeggi, di ripetizioni, che suonano del tutto vuote e sono del tutto degne della loro qualifica

di ‘parti secondarie’. Segnaliamo infine l’impiego lugubre e uggioso di una ritmica derisoriamente

povera, brutta, dove certe astuzie di variazione nei riguardi della ritmica classica sconcertano per la loro

bonomia e inefficacia. […]

[Nelle opere americane poi, vediamo risorgere] gli intervalli di ottava, le false cadenze, i canoni esatti

all’ottava. Un atteggiamento simile raggiunge una incoerenza massima che del resto è soltanto il

parossismo fino all’assurdo, delle incompatibilità di Schoenberg. Si sarebbe dunque arrivati a una nuova

metodologia del linguaggio musicale soltanto per cercare di ricomporre l’antica? […]

Nondimeno è possibile discernere perché la musica seriale di Schoenberg fosse votata al fallimento.

Prima di tutto l’esplorazione del campo seriale è stata condotta unilateralmente: manca il piano ritmico

e persino il piano sonoro propriamente detto: le intensità e gli attacchi. […] Rileviamo invece una

preoccupazione notevolissima nei timbri, con la Klangfarbenmelodie che per generalizzazione, può

condurre alla serie di timbri. Ma la causa essenziale del fallimento risiede nella disconoscenza profonda

delle FUNZIONI seriali propriamente dette, generate dal principio stesso della serie […] Vogliamo dire

che la serie interviene in Schoenberg come un comun denominatore per garantire l’unità semantica

Storia ed estetica della musica

17

dell’opera; mentre gli altri elementi del linguaggio così ottenuti vengono organizzati da una retorica

preesistente non seriale.

Pierre Boulez fu senza dubbio il più rigoroso nel perseguire l’utopia di un linguaggio oggettivo,

totalmente riducibile all’astrazione numerica e depurato di ogni riflesso emotivo. Il distacco del

serialismo di Webern dalle sue matrici espressioniste, la progressiva estensione del principio seriale

troveranno in lui un campione di coerenza. E tuttavia, al razionalismo tagliente, così tipicamente

francese si affiancano in Boulez componenti di segno opposto, come l’insofferenza per le tecniche

rigide, l’immaginazione preziosa, la curiosità intellettuale, il gusto sensuale per la delibazione

timbrica, come in Debussy. Sicché, dopo l’infatuazione seriale, la scrittura di questo compositore si

orienterà, come gran parte della musica francese, da Dutilleux a Grisey e gli altri compositori

‘spettralisti’, sull’organizzazione del suono in sé.

9. La storicità dell’esperienza musicale e l’estetica dell’‘oggetto sonoro’

L’idea di una storicità intrinseca al linguaggio musicale viene da un’assimilazione generalizzata del

concetto marxista di rispecchiamento. E cioè dall’idea che la musica, come ogni espressione

individuale o sociale e come ogni lucida espressione artistica, sia autentica e perciò stesso ‘adeguata’,

bella, quando rispecchia la realtà degli sviluppi storici e delle trasformazioni sociali. Queste

trasformazioni sono espresse già nella loro struttura più intima, ovvero nel ‘materiale’ di partenza

con cui è fatta un’opera d’arte: ad esempio, il colore e il tipo di colore in un dipinto, l’organizzazione

dello spazio in cui è generata l’immagine, la preminenza del disegno o della struttura geometrica, la

prospettiva o il fondo piatto; così in musica la scala diatonica o altri tipi di scale, ottatoniche, esatonali,

pentatoniche, cromatiche, gli strumenti utilizzati e il modo in cui li si utilizza, la regolarità o la

irregolarità delle sequenze ritmiche ecc. Dal materiale dipendono la sintassi, o la ‘tecnica

compositiva’, come si diceva, o le modalità di strutturazione, e dunque la forma complessiva, da cui

dipendono inevitabilmente le scelte poetiche dell’autore.

In questa prospettiva, un’opera musicale risulta tanto più efficace, riuscita, coinvolgente,

bella, quanto più corrisponde allo stadio di avanzamento storico che ce la fa percepire come

necessaria. Ed è necessaria perché riflette lo stadio più avanzato di un determinato sviluppo storico.

E in quanto storicamente necessaria, autentica, perché svela la realtà in cui siamo calati, senza

mascheramenti, senza confonderci con effetti facili e superficiali. Per la generazione di compositori,

di strumentisti, di artisti e di intellettuali operante nel secondo dopoguerra, la storia interna degli

sviluppi specifici di un linguaggio artistico e la storia generale dell’umanità erano strettamente

collegati, e un’opera d’arte, più che espressione di un’individualità soggettiva costituiva un

documento sullo ‘stato di avanzamento della tecnica’. Ogni opera d’arte e ogni composizione

musicale che non riflettesse quel collegamento appariva non degna di attenzione, poiché

ingannevole e regressiva; l’opera non al passo con gli sviluppi del materiale e della tecnica musicali

tradiva una complicità con la vocazione totalitaria del capitalismo monopolista, che tende a

trasformare ogni lavoro della coscienza in merce, e a trasformare ogni individuo in consumatore.

Fu Adorno a definire il campo teorico di questa estetica di resistenza. Adorno vedeva i fronti del

capitale industriale e della resistenza del soggetto (esposto proprio per questa resistenza alla

emarginazione e alla irrilevanza) come due soluzioni chiuse, monolitiche, due fronti compatti e

omogenei.

Storia ed estetica della musica

18

La storia recente era stata segnata da una tragedia senza precedenti, con l’instaurazione di regimi

totalitari, i milioni di morti, i campi di concentramento e la Shoah, le atomiche su Horoshima e

Nagasaki. Tutto ciò sembrava imporre una necessità storica assolutamente ineludibile: il rifiuto

radicale della tradizione occidentale, che si era per secoli fondata sulla centralità e

dell’emancipazione del soggetto, della sua hibris, la sua volontà di potenza e di affermazione, la

violenza esercitata sistematicamente sulla natura e sugli altri uomini o gruppi sociali.

Era dunque necessario un nuovo pensiero che inibisse l’idea stessa di arte come espressione

soggettiva e individuale, e che convogliasse le sue energie verso la costruzione di ‘oggetti’, oggetti

figurativi, oggetti sonori, non più visioni determinate da stati d’animo, proiezioni dell’inconscio e così

via, ma si dedicasse, più che a creare, a scoprire configurazioni degli elementi, stati della materia.

Il termine chiave, la parola d’ordine era appunto questa: non più creazione, che tradiva ancora

l’ambizione a plasmare il mondo, ma scoperta. Comporre musica voleva dire fare scoperte, non

inventare, ma quasi inciampare in oggetti che nella loro forma, nella loro coerenza interna, potessero

rivelare l’intima essenza del mondo e della sua storia. Non più creazioni, non più

Ciò che il compositore doveva limitarsi a fare era appunto predisporre le condizioni perché

una entità data si manifestasse e si rendesse conoscibile. Il modello di questa disposizione a far sì che

le cose si rivelassero in modo autonomo dai soggetti che si impegnavano a favorire il loro manifestarsi

era facilmente recuperato dal metodo scientifico, anzi proprio dalle scienze sperimentali. E infatti

molto spesso questi compositori assumevano anche il look degli scienziati: occhialoni spessi, camicia

bianca e cravatta, nei laboratori di musica elettronica, persino camici bianchi…

Le loro opere spesso assumevano dei titoli parascientifici: Poliphonie X, Matakstasis, Varianti ecc.

Tali opere, più che singole produzioni, sembrava dovessero sempre più apparire come documenti di

un più generale avanzamento della tecnica, e spesso e volentieri erano accompagnati da scritti che

ne spiegavano le procedure come se appunto fossero dei protocolli scientifici sperimentali.

Per la loro stessa natura, queste produzioni richiedevano un discorso che ne chiarisse gli

intenti e i risultati; i discorsi e le discussioni si moltiplicavano, e non avevano più a che fare con

l’evoluzione del gusto, ma piuttosto con l’idea di storicità, di libertà, di società, anche di misticismo,

che era una delle possibili conseguenze della perdita di centralità della soggettività, le rivendicazioni

della musica d’arte come forma di resistenza all’asservimento alle logiche puramente commerciali.

Spesso e volentieri questi filoni tematici si intrecciavano in una specie di esperanto filosofico e

letterario, fino a creare quasi un gergo, adottato anche dai compositori quando scrivevano sulla

musica propria e di altri.

Ora, non è che negli anni Cinquanta esistesse solo questa tendenza di musica sperimentale;

esistevano molte altre musiche. Erano ancora vivi molti dei protagonisti della prima metà del secolo:

Schoenberg morirà nel 1951, ma Stravinskij nel ’71; si diffondeva la musica leggera, la popular music,

il rock, il jazz; i Beatles, i Rolling Stones e via dicendo. Ma, soprattutto negli ambiti della creatività che

aspirava a porsi come musica d’arte, e in quanto tale esperienza di verità, quel modello di musica

d’avanguardia conservò a lungo un forte potere di suggestione, esercitò anzi una vera e propria

egemonia culturale. Tant’è vero che nacquero poi, anche in ambiti inizialmente generati da esigenze

diverse, delle correnti che si ispiravano a quella linea di ermeticità, di ricerca, di impegno, intellettuale

e sociale. Si pensi solo alle varie e sempre più diversificate espressioni del be bop, del free jazz, del

rock progressivo e psichedelico. Si pensi a personalità come John Coltrane, o ancora di più Ornette

Storia ed estetica della musica

19

Coleman e Cecil Taylor, che nell’ambito del jazz d’avanguardia, tendevano a riprodurre quel modello

di artista-ricercatore. Oppure, per restare in Italia, si pensi a esperienze come quella degli Area; si

pensi al ruolo che giocò ancora negli anni Settanta un’etichetta come la Cramps, che produceva dischi

degli Area, quelli sperimentalissimi del suo cantante, Demetrio Stratos, e i primi documenti

discografici italiani della musica di John Cage.

10. I Ferienkurse e la musica ‘post-weberniana’

Nata dunque nel segno di Webern, la nuova avanguardia musicale manifestò i suoi propositi radicali

assumendo l’appellativo adorniano di Neue Musik (Nuova musica) e stabilì il suo epicentro in una

cittadina della Germania occidentale vicino a Francoforte: Darmstadt. Fondato nel 1946 per iniziativa

di Wolfgang Steinecke, l’Istituto Kranischstein di Darmstadt divenne nel 1948 la roccaforte del nuovo

pensiero seriale. Accanto a Webern, i capi carismatici indiscussi di questa nuova fase, Boulez e

Stockhausen posero Olivier Messiaen, e soprattutto il Modes de valeurs et d’intensités (1948),

secondo dei Quatre études du rythme (1948-1950) per pianoforte, in cui viene applicato un

particolare sistema di ‘predeterminazione del materiale di partenza’, per molti aspetti paragonabile

ai procedimenti della serialità pluridimensionale. Ma l’importanza che la musica di Webern assunse

nel circolo dei compositori legati ai Ferienkurse di Darmstadt rimane l’aspetto più rilevante e duraturo

degli anni Cinquanta. Si iniziò a pensare che solo partendo dalla musica di Webern, da alcune opere

in particolare, come il Konzert op. 24 per 9 strumenti, o le Variationen op. 27, si poteva ricostituire,

partendo da zero, una nuova lingua musicale comune della modernità. Webern sembrò il punto

obbligato per ogni musica che intendesse affrontare il problema del rinnovamento del linguaggio

sonoro, e tutto ciò che non si inscrivesse nelle coordinate desumibili dalla sua musica, e dalla serialità

integrale che dal suo pensiero sembrava scaturire, doveva essere privo di reali possibilità di sviluppo,

e dunque privo di valore estetico.

Guardando quelle vicende oggi, quella centralità attribuita a Webern appare poco fondata,

nel senso che Webern era solo in parte ciò che questa nuova avanguardia pensava fosse. Più che un

modo per comprendere davvero la musica weberniana, si piegava la sua interpretazione alle esigenze

polemiche del momento, finalizzate a loro volta ad affermare la nuova estetica dell’oggetto sonoro.

D’altra parte, la storia della Nuova Musica è anche, in una certa misura, la storia delle ragioni

concettuali di volta in volta affiancate alla pratica musicale per giustificarla. I compositori avvertono

sempre più intensamente la necessità di affiancare alle opere una produzione teorica, nella quale

essi stessi ambiscono a definire le categorie di interpretazione, e a delineare la ‘necessità storica’

delle loro scelte.

Ormai lontani da quegli anni, possiamo oggi osservare che solo in parte le linee di tendenza

riscontrabili nella musica contemporanea si lasciano ricondurre in senso stretto a una paternità

weberniana. Fenomeni come quelli della musica elettronica e concreta trovano piuttosto le loro

ascendenze storiche, oltre che negli esperimenti elettroacustici e di suddivisione infinitesimale degli

intervalli dei primi decenni del secolo, nel ‘fauvismo’ e nel ‘primitivismo’ di Stravinskij, o nel rapporto

fra arte e scienza instaurato da Edgar Varèse. Inoltre, solo più tardi si cominciò a valutare in senso più

ampio (e non soltanto in rapporto alla linea Messiaen-Boulez e al puntillismo post-weberniano)

l’apporto di quell’emancipazione del timbro come autonoma materia costruttiva perseguita da

musicisti estranei all’espressionismo mitteleuropeo, fra cui Debussy e Bartók. È interessante però che

nella costruzione del proprio cammino, la neoavanguardia europea ha creduto di dover consumare

Storia ed estetica della musica

20

sino in fondo, con rigore quasi maniacale e come sospinta da un’autoimposta ‘necessità storica’, le

conseguenze dell’esperienza weberniana della disgregazione degli automatismi espressivi e della

atomizzazione del linguaggio, prima di poter recuperare altri filoni di ricerca e ritrovare le condizioni

per uscire dagli spazi angusti della serialità integrale.

11. Contraddizioni del pensiero seriale: Ligeti

Karlheinz Stockhausen fu l’altra grande personalità della musica d’avanguardia nata ai Ferienkurse di

Darmstadt. L’assunzione del serialismo weberniano a principio fondamentale di ogni composizione

musicale venne a costituire nel corso degli anni Cinquanta la discriminante essenziale tra vecchia e

nuova musica. A tale concezione estensiva del serialismo si giunse per gradi attraverso alcune

composizioni nate verso l’inizio d quel decennio, caratterizzate da una tessitura rarefatta, dispersa in

una miriade di frammenti, dai profili melodici secchi e nettamente sagomati. Quella tessitura formata

di singole note o cellule melodiche disseminate a grandi distanze tra loro, uniforme sul piano

espressivo, privo di organizzazione discorsiva percepibile se non sul piano timbrico, fu denominata

‘puntilistica’. Anche Stockhausen seguì questo percorso, che lo portò molto presto, dopo opere

chiaramente ispirate dalla tecnica di dissociazione ‘puntillistica’ – ad esempio in Kreuzespiel per oboe,

clarinetto basso, pianoforte e percussione (1951) o Kontra-Punkte per 10 strumenti (1952) ad

adottare processi di stratificazione multipla e dell’addensamento materico. Dalle trame rarefatte in

puto stile weberniano emergono, a tratti, densissimi grumi strumentali risultanti dalla stratificazione

di entità ritmiche e acustiche inestricabili, percepibili sono nell’insieme, come fasce di altezze, una

dimensione che sarà ulteriormente approfondita nella Gruppen-Technik.

Nel testo che segue, composto di brani estratti da una conferenza radiofonica del 1955,

Stockhausen illustra la sua Gruppen Technik (tecnica compositiva per gruppi) analizzando il primo dei

Klavierstücke (Pezzi per pianoforte) del 1952.

Per ‘gruppo’ si intende un numero determinato di suoni collegati secondo rapporti di affinità e su un piano

superiore di percezione, quello del gruppo appunto. I vari gruppi di una composizione si distinguono per diversi

tipi di proporzioni, per diversa struttura, ma sono correlati fra di loro nel senso che non è possibile

comprendere le proprietà di un gruppo se non in rapporto al grado di affinità che queste presentano con altri

gruppi.

Certe caratteristiche del brano sono del tutto tipiche del linguaggio musicale attuale: nessuna melodia con

accompagnamento, nessuna voce principale, né secondaria, nessun tema né transizione, e neppure relazioni

armoniche di tipo più semplice o più complesso, né tensione/risoluzione, né ritmi sincopati che diventano

regolari.

Se concentriamo il nostro ascolto sull’insieme, riceviamo un’impressione complessiva in cui le particolarità

sono sufficientemente distinte perché nessuna relazione assuma più importanza di un’altra (per esempi, i

grandi intervalli e il susseguirsi di elementi diversi in uno spazio-tempo minimo). Questo è appunto ciò che si

definisce ‘ascolto strutturale’; ciò che la memoria trattiene non è quanto appartiene alla sfera del particolare

(un intervallo isolato, una semplice proporzione di tempo), bensì il modo in cui i suoni sono connessi tra loro

e si dispongono all’interno del gruppo. [… un esempio chiarirà meglio:]

Se ci poniamo a esaminare da vicino una pietra vedremo una quantità di dettagli: linee, stratificazioni, venature

in una particolare disposizione (per evidenziarne meglio la struttura basterà applicare sulla pietra un foglio di

carta e annerirlo a matita sinché la struttura si palesa in tutta la densità della sua trama). Ma se torniamo a

guardare la pietra nel suo insieme, come avviene con un primo colpo d’occhio, non la descriveremo affatto

come la somma di quei dettagli puntuali, benché questi abbiano richiamato in noi l’idea di pietra e non, ad

Storia ed estetica della musica

21

esempio, quella di legno. Così pure non diremo che questa o quella proprietà di struttura ha un’importanza

particolare, né descriveremo le venature per definire la pietra in quanto tale. Non intendo certo affrontare il

problema generale del rapporto che intercorre tra struttura e forma; ciò che voglio dire è che siamo arrivati a

un atteggiamento del tutto nuovo nei confronti di questi fenomeni (ed è noto che fu proprio questo un punto

d’avvio per la musica elettronica). Per tornare alla struttura musicale propriamente detta, le connessioni più

elementari hanno un ruolo essenziale nel contesto d’insieme, ma noi tendiamo a coglierlein modo unitario in

quanto qualità. Sul piano della sensazione possiamo distinguere modificazioni della struttura nei più diversi

gruppi di elementi, senza poter dire tuttavia che cosa si è effettivamente modificato nel dettaglio. Ciò che

emerge con evidenza sono i contorni dei gruppi: essi hanno lunghezze differenti, differenti forme, diverse

densità e diversi gradi di velocità; cioè, diversa forma sonora. […]

Che cosa si intende quando si parla di ‘corrispondenze’ fra gruppi’? non la ripetizione diun gruppo già

incontrato, nel senso di una corrispondenza tematica, e neppure una variazione di forma o uno sviluppo, ma

piuttosto un collegamento strutturale fra gli elementi […]

In un primo momento si si riuscirà appena a riconoscere la forma del gruppo già noto, che potrà essere

ricordato solo prestando un’attenzione concentrata ai rapporti di intensità e di durata; si percepirà insomma

una forma nuova, benché i rapporti dei su elementi siano affini a una struttura anteriore. L’importante è

prendere coscienza dei diversi gradi di trasformazione strutturale (talvolta il grado di affinità è elevato, altre

volte meno; […])

Se il fatto di mettere in luce e di fare intendere in modo approfondito il dettaglio o l’insieme invece di appellarsi

all’atto mistico dell’ispirazione – incompatibile con tale chiarezza – dovesse arrecare pregiudizio all’opera e al

suo autore, allora sarebbe assai triste per lui e per il suo lavoro. Poiché si sa che queste cose sono inesauribili

e che l’autenticità è nascosta nei meandri della coscienza. Per un compositore il sorprendente non sta al di là

delle cose, nascosto da qualche partecome un’idea, impossibile d percepire, ma al contrario nelle cose stesse,

nel fatto che esse sono quelle che sono e si concretizzano nei momenti in cui sono vissute dall’ascoltatore, ne

prenda o no coscienza, le accetti o meno.

Un particolare esponente di questo fronte avanguardista Gyorgy Ligeti. Studiando il metodo seriale

pluridimensionale si rese conto della sua contraddizione essenziale: il massimo della determinazione

degli elementi della composizione produce la massima indeterminatezza (Cfr. Metamorfosi della

forma musicale, 1959; testo allegato).

Opere come Kreuzespiel e Gruppen di Stockhausen, Poliphonie X e Structures di Boulez, Varianti e Il

canto sospeso di Luigi Nono segnarono una presenza compatta e stabile della corrente

postweberniana. A partire dalla fine degli anni Cinquanta le avventure linguistiche postweberniane

cominciarono ad avere risonanza fuori dai ristretti cenacoli di Darmstadt e a esercitare un’influenza

più vasta in Europa. La generalizzazione dei principi seriali significò da un lato la cristallizzazione di un

manierismo d’avanguardia attorno a modelli e tecniche ormai stabilizzati – il puntillismo, lo

strutturalismo integrale, la musica aleatoria – dall’altro, una una diaspora di orientamenti personali

che in breve tempo pose fine al rigido unanimismo dei primi anni, nonché un’apertura a principi

linguistici concettuali estranei che cominciavano allora ad affluire dagli Stati Uniti e che dovevano in

pochi anni accelerare la crisi del modello postweberniano.

Storia ed estetica della musica

22

12. L’alea e l’esperienza cageana

La crisi del modello della composizione seriale pluridimensionale provocò due effetti: da una parte

l’ingresso dell’alea (ovvero del caso), dall’altra un indebolimento dell’idea di una lingua comune

dell’avanguardia e della modernità, con l’insorgenza di una moltitudine di poetiche individuali

concentrazione sempre più focalizzata sul suono in sé.

Fu proprio Boulez, proprio a Darmstadt a formulare il principio dell’‘alea controllata’: questa

concezione non si discostava dall’estetica dell’‘oggetto sonoro’, ma in un certo senso tematizzava la

questione aperta dalla musica seriale, e cioè la perdita del controllo della totalità della composizione

da parte del suo artefice. Il compositore predispone una serie di materiali precomposti, una serie di

figure non collegate, che devono essere ricomposte dall’esecutore in ogni esecuzione.

Il principio aleatorio non rappresentò che il riconoscimento formale dell’ambiguità e delle

indeterminatezze già insite in un materiale non più percepibile come trama articolata secondo la

dialettica di armonia-melodia. Con la sospensione di ogni principio formale preesistente all’opera, col

raggiungimento, cioè di un tipo di musica percepibile come trama articolata solo sul piano dei timbri,

la serialità postweberniana aveva esaurito la sua funzione e non può essere che abbandonata.

Insieme alla serie viene anche abbandonato quell’impegno esasperato nella scelta dei materiali, nella

reinvenzione continua del linguaggio, in cui risiedevano l’autenticità e il fine ultimo del comporre.

Boulez abbandonerà la composizione dopo il 1960, ritornando solo saltuariamente nel 1962 con una

seconda serie di Structures e nel 1965 con Éclats. Altri cercheranno nuove direzioni: Luigi Nono

approfondirà le possibilità della composizione musicale di assumere su di sé l’impegno politico-

sociale («la musica, la musica, il teatro, l’arte in generale non può organizzare l’azione politica, ma

può spingere all’azione»); Luciano Berio recupererà una dimensione di virtuosismo artigianale (cfr.

Folk-songs) ed esplorerà a fondo i rapporti tra suono e parola poetica (cfr. Laborintus II); Karlheinz

Stockhausen tornerà a sondare secondo una molteplicità di traiettorie (musica elettronica, musica

elettro-acustica, musica ripetitiva, misticimo orientale); altri, recupereranno in modo più o meno

intenzionale e programmatico, più o meno cosciente, le forme classiche, preclassiche, anche antiche

(come la salmodia gregoriana in Arvo Pärt).

E intanto si diffonde dagli Stati Uniti, sull’onda della moda zen e della ‘musica’ di John Cage,

quell’altra concezione dell’alea che considera l’indeterminatezza come un mezzo, non come un fine

della composizione. La musica vi viene degradata a puro accadimento sonoro, qualcosa che accade

in nostra presenza e alla quale decidiamo di prestare ascolto. L’intenzione poetica si trasferisce dal

compositore – che nemmeno più è chiamato a predisporre i materiali, ma soltanto a creare una

situazione in cui il materiale e suo ordine interno possano manifestarsi – all’ascoltatore, che coglierà

in termini musicali un accadimento acustico.

Vi è dunque una differenza sostanziale tra il concetto di alea dei compositori americani e quello

sviluppato in Europa dagli esponenti dei Ferienkurse di Darmstadt. Per Morton Feldman e per John

Cage, l’essenza della pratica aleatoria risiede nella sospensione, totale o parziale, dell’intenzionalità

pre-formante del’autore, per affidarsi alla logica misteriosa e incontrollata di attori accidentali gli esiti

combinatori della materia sonora: si tratta insomma dell’apertura della forma musicale all’universo

dell’imprevedibile esistenziale, nel segno di una concezione vitalistica della musica, sostanzialmente

estranea all’avanguardia europea. Esempi ne sono Projection 1 di Feldman e Music for Changes di

Cage, basato su un sistema di sorteggio tratto dal libro di divinazione cinese I Ching.

Storia ed estetica della musica

23

Per contro, l’assunzione dell’alea in Europa rappresenta una svolta implicita nello sviluppo stesso

dell’iperdeterminismo seriale, allorché la possibilità di discernere gli elementi strutturali della

composizione abbia superato le facoltà analitiche dell’orecchio umano, sottraendo di fatto al

controllo dell’autore gli esiti della composizione sul piano della sua percezione auditiva.

13. Superamento della musica come forma discorsiva:

il suono in sé, composizione per textures, la musica elettronica

Dalla musica seriale totalmente determinata, all’alea europea (‘controllata’) e americana, alla

diaspora delle poetiche individuali, l’unico tratto comune sarà il rovesciamento della gerarchia dei

parametri. Nella tradizione occidentale, il parametro decisivo era sempre stato l’altezza. La

diastemazia è il primo elemento che compare accanto alla voce che parla e che canta un testo fin dal

canto gregoriano; da quel testo derivano le intensificazioni, i cambi di timbro, l’accentazione

prosodica, dunque il ritmo; e con l’unione al testo cantato la musica tende ad assimilarsi al discorso.

Il modello della musica occidentale è sempre stato il discorso verbale. La musica del secondo

dopoguerra rompe radicalmente con quel modello e si concentra sul suono in sé: il timbro diviene il

parametro centrale. Questo accade e si radicalizza proprio a partire dalla serialità totalmente

determinata.

Dall’idea della centralità del suono in sé nasce anche la musica elettronica. In luogo dei dodici

suoni della scala cromatica temperata ai compositori si apre l’immensa disponibilità di frequenze,

microintervalli, combinazioni, timbri e impasti sonori nuovi producibili con la moderna tecnologia

elettroacustica. La scoperta del mondo elettroacustico come sorgente di sonorità inesplorate e di

possibilità inimmaginabili si sviluppò storicamente con un processo lento e graduale, che presuppose

da un lato l’esistenza di una tecnologia adeguata, dall’altro il recupero di un ruolo attivo e un

intervento ‘formante’ del compositore. In questo modo, l’intenzionalità soggettiva, uscita dalla porta,

rientra dalla finestra.

I principali centri di musica elettronica nacquero a partire dai primi anni Cinquanta. Il primo

nacque in Francia, ovviamente a Parigi: il Groupe de recherches de musique concrète, nel 1951.

Finanziato dalla Radio francese e dotato di apparecchiature per la registrazione magnetica su tre

piste, ebbe in Pierre Schaeffer il suo principale animatore. Città natale della poetica dada e dell’objet

trouvé, Parigi divenne nel dopoguerra il centro incontrastato della musica concreta, basata sul

riutilizzo di materiali fonici preesistenti. In questo modo la musique concrète si inscrive in quel

processo d rivalutazione della materia nella sua fisicità che costituisce una tendenza generale

dell’arte contemporanea, dalla pittura informale alla pop art, dal collage all’arte povera, dalla poesia

concreta alla junk art (junk: rifiuto, avanzo), dalla experimental music di Cage fino al materismo

informale postweberniano.

Gli sbuffi di caffettiera e gli sciacquî della musica concreta, gli oggetti ready-made di Marcel

Duschamp, come il celebre orinatoio del 1917, le lattine di minestra inscatolata di Andy Warhol o le

gigantografie a fumetti di Roy Lichtenstein, i selciati stradali delle tele di Dubuffet o le tele rappezzate

di Burri, l’enorme rossetto da labbra di Oldenburg o i manichini main-size di Kienholz sono tutte

manifestazioni di un’arte anti-idealistica che ha scoperto la materia come oggetto e fine dell’opera

stessa. Agli oggetti ‘costruiti’ dell’arte tradizionale di sostituiscono ora gli oggetti ‘trovati’,

l’assemblaggio di reperti d’uso. L’opera acquista carattere d’arte nel gesto dell’artista che coglie

l’oggetto nel fluire casuale della realtà e lo isola dal suo contesto.

Storia ed estetica della musica

24

Pierre Schaffer (1910-1995) punta a incamerare nell’indagine sonora oggetti sonori della vita

quotidiane («musique concréte» ha questo significato). Nel Centre parigino lavoreranno per brevi

periodi Boulez, Stockhausen, Messiaen, Xenakis. Ma sarà l’arrivo di Varèse, nel 1954, a dare alla

musica concreta il suo primo lavoro davvero convincente, Désert, per orchestra di fiati e percussione,

contenente tre inserti su nastro magnetico che interrompono la parte strumentale. Dopo Désert

l’interesse di Varèse per il suono organizzato tecnologicamente produrrà ancora il Poème

électronique (1958), la sua unica composizione interamente elettronica.

Se la ricerca dei parigini impiega le possibilità offerta dalla tecnologia elettroacustica nella

direzione di un allargamento del concetto di arte sino a includervi oggetti sonori allo stato

preculturale, colti nella loro fisica, primordiale concretezza, il ‘purismo’ dello Studio für elektronische

Musik di Colonia, fondato e diretto da Herbert Eimert muove nella direzione esattamente opposta,

di un restringimento dell’area musicale ai soli eventi fonici sui quali sia possibile esercitare un

controllo razionale totale, vale a dire suoni producibili per sintesi con le apparecchiature di

laboratorio (le quali sono essenzialmente di due specie: generatori di onde, da quelle più semplici o

‘sinusoidali’ alle più complesse ‘onde quadre’, ‘triangolari’, ‘a denti di sega’, ottenibili per addizioni

successive di serie di armonici; generator di ‘suono bianco’, cioè del suono risultante dalla

simultaneità di tutte le frequenze). Dinanzi allo sperimentalismo di Colonia si apre un campo di

possibilità astratto e totalmente asettico, depurato non soltanto di ogni residuo linguistico, ma anche

di tutti gli scarti di imprecisione, di fonicità incontrollata e di soggettività che sempre si producono

nell’esecuzione su strumenti originali; e più che alla scoperta di oggetti sonori nuovi, la ricerca è volta

a individuare un sistema di rapporti virtuali, da cui dedurre progetti di struttura sulla base di criteri

scientifici.

Data la comune impostazione strutturalistica, si viene immediatamente a istituire uno stretto

rapporto di cooperazione tra lo Studio di Colonia e la scuola di Darmstadt.

Paragonata a quella di Colonia, la ricerca elettronica dello Studio di Fonologia della RAI di Milano

(fondato nel 1955) appare improntato a uno schietto e disinvolto empirismo. Entrambi i suo

fondatori, Bruno Maderna (Venezia 1920-Darmstadt 1973) si accostano alle nuove risorse foniche

senza determinismi e senza idee preconcette circa la loro organizzazione, e tendono a lasciare

emergere liberamente dal materiale le sue virtualità: Maderna con un’accesa sensualità acustica e

una spiccata attitudine a far scaturire dal suono tensioni emotive e situazioni poetiche; Berio con

quella maggiore disponibilità ad accogliere stimoli e suggerimenti eterogeni, che dovrà fare d lui uno

dei compositori più versatili e aggiornati dell’avanguardia italiana. Per l’uno e l’altro la musica

elettronica viene a rappresentare, se non la prima esperienza musicale, certamente un importante

mezzo per liberarsi di quanto in loro è ancora legato a schemi superati (l’espressionismo e il modello

di Dallapiccola per Maderna, quello stravinskiano per Berio) e avviarsi verso soluzioni linguistiche più

radicali. Al Centro di Fonologia Berio realizza un primo capolavoro con Thema. Omaggio a Joyce

(1959) in cui utilizza come base di elaborazione un frammento dell’Ulisse di James Joyce registrato

da una voce femminile in inglese, francese e italiano. Diversamente da Stockhausen, il cui Gesang der

Jünglinge è peraltro un lontano modello di Omaggio a Joyce, Berio non è interessato alla

problematica spaziale, quanto piuttosto all’analisi delle peculiarità foniche del testo impiegato, e

giunge, attraverso una complessa manipolazione elettronica, a formulare un nuovo tipo di vocalità,

in cui la voce umana cessa di essere un semplice veicolo di trasmissione semantica e diviene un mezzo

per liberare le virtualità fonico-musicali insite in ciascuna sillaba del testo.

Storia ed estetica della musica

25

Maderna scrive nel 1957 Musica su due dimensioni per flauto e nastro magnetico, che

precede di circa un anno un’analoga soluzione ad opera di Stockhausen e di Mauricio Kagel destinata

poi ad avere ampio seguito. La composizione si articola in cinque episodi, in parte per flauto solo, in

parte per nastro magnetico, collegati da interludi pure elettronici e variamente trasponibili o

interpolabili secondo un principio aleatorio che dà largo campo all’iniziativa estemporanea del

flautista e del tecnico del suono. Il rapporto tra lo strumentista e la banda magnetica viene ad

assumere una valenza quasi scenico gestuale.

L’ipotesi di una fusione fra musica registrata ed esecuzione strumentale dal vivo, contenuta

in Musica su due dimensioni di Maderna, trova, come si diceva, più ampia applicazione in due lavori:

Transición di Kagel (1959) e Kontakte di Stockhausen (1958-1960), entrambi per piianoforte,

percussione e banda magnetica, che segnano una svolta nell’evoluzione della musica elettronica non

soltanto perché viene definitivamente relegata alle cose del passato l’utopia, sino a qualche tempo

prima condivisa da molti, secondo la quale la musica elettronica rappresentava la musica

dell’avvenire, destinata a soppiantare ogni alto mezzo di produzione sonora, ma soprattutto perché,

con l’immissione di eventi fonici precostituiti su nastro nella dimensione viva dell’esecuzione e con

l’attrito rovente che deriva dallo scontro tra due vicende sonore, la gestualità implicita nell’azione

esecutiva viene ad acquistare uno spessore fisico e un’evidenza scenica che si sovrappongono,

amplificano o addirittura deformano la trama musicale, ipotizzando soluzioni di teatro gestuale che

di lì a poco diventeranno un’altra componente importante della musica contemporanea prodotta

negli anni Sessanta.

La musica elettronica è già un elemento virtualmente integrabile nella nuova temperie vitalistica

dell’improvvisazione e del teatro gestuale apportata da John Cage. Materiali concreti vengono

immessi in misura crescente, come accade nella Fabbrica illuminata di Luigi Nono (1964). La

strumentazione elettronica viene arricchendosi di nuove apparecchiature per la manipolazione del

suono (filtri, modulatori ad anello, regolatori, anche portatili) che consentono la produzione di suoni

elettronici live.

Ma soprattutto per Luigi Nono la scoperta nel 1960 delle risorse elettroniche dovrà acquistare

una importanza fondamentale. Il compositore veneziano vi approda dopo l’importante esperienza

vocale del Canto sospeso (1956) e quella teatrale di Intolleranza 1960, sicché la ricerca elettronica

viene a innestarsi su una problematica tecnico-espressiva avviata da queste composizioni riguardo

all’uso della voce umana, al suo potenziamento semantico e al suo impiego come mezzo di

amplificazione delle potenzialità foniche della parola. Nella Fabbrica illuminata la viva voce del

soprano su testi di Giuliano Scabia e Cesare Pavese) si erge contro la parete sonora del nastro

magnetico come un polo di irriducibile contrapposizione, testimonianza e denuncia delle condizioni

disumane del lavoro di fabbrica, evocate dalle sonorità sinistre dei materiali acustici rilevati dal vivo

in alcuni stabilimenti industriali. In A floresta è jovem e cheia de vida (1967) l’interazione dialettica

fra la banda magnetica e l’esecuzione dal vivo giunge a configurare situazioni scenico gestuali. Invece,

prive dell’apporto della voce umana (peraltro ampiamente presente alla base della elaborazione

elettronica) sono le composizioni Ricorda cosa ti hanno fatto ad Auschwitz, che rielabora con esiti di

allucinante, lacerata espressività, materiali strumentali, voci di bambini, frammenti parlati e cantati

tratti dalle musiche di scena per L’istruttoria di Peter Weiss (1966) e Non consumiamo Marx,

realizzato nel 1969 sull’onda della contestazione studentesca e del Maggio francese. A una prima

parte («Un volto, del mare») basata su una poesia di Pavese manipolata elettronicamente in un clima

Storia ed estetica della musica

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di attonita fissità, segue una seconda (che dà il titolo alla composizione) costituita da materiali

registrati dal vivo durante manifestazioni studentesche e rielaborati insieme con frammenti di scritte

murali della contestazione parigina.

14. Invito al molteplice:

Luciano Berio, Stefano Gervasoni, Carlo Boccadoro

A partire dagli anni Ottanta, si chiude la fase dell’avanguardia radicale. La severa disciplina della

sperimentazione che per i musicisti della generazione colpita dalla guerra era stata un’esperienza di

libertà, una faticosa conquista intellettuale, per i compositori più giovani non sono che un prontuario

di tecniche e di stili da prendere o lasciare secondo criteri di utilità o di gusto. Essi se ne assumono

l’eredità, ma liberandola dalle originarie motivazioni storiche e ideologiche, poiché profondamente

mutato è il loro rapporto con la tradizione, così com’è mutato il loro atteggiamento verso il presente.

All’idea della storicità degli sviluppi tecnico-compositivi, che spingeva i compositori che si ritenevano

d’avanguardia a inseguire continuamente l’inaudito – nel senso di ciò che non è stato ancora mai

ascoltato – all’interno di un opprimente reticolo di interdizioni e divieti, i compositori più giovani

contrappongono una volontaria equidistanza da ogni modello culturale, e rivendicano il diritto di

scegliersi liberamente i propri mezzi di espressione al di là di ogni determinismo storico.

Naturalmente questo mutamento di prospettiva investe anche i compositori della

generazione precedente, e tra questi uno dei più sensibili a questa trasformazione epocale, e tra i più

predisposti a muoversi in un orizzonte plurale e molteplice, dove passato e presente si intrecciano in

ordini formali assai diversificati è Luciano Berio (1925-2003), che anzi percepì assai precocemente il

cambiamento, fin dalla metà degli anni Sessanta.

Le brevi schede che seguono qui di seguito sono propedeutiche alla lettura dei testi proposti

in bibliografia, ovvero Invito di Luciano Berio, Opera prima di Stefano Gervasoni e una conversazione

di Carlo Boccadoro.

Luciano Berio ha studiato con Federico Ghedini e con Luigi Dallapiccola (per un periodo a

Tanglewood). È uno dei compositori che più di tutti hanno incarnato, dopo le esperienze seriali, la

propensione alla pluralità e alla mescolanza dei linguaggi.

Si riportano qui, a titolo di esempio, due brevi scritti su due suoi lavori molto noti: Folk songs per

mezzosoprano e sette strumenti, e Laborintus II per voci, strumenti e nastro magnetico (1965, testi

di Edoardo Sanguineti):

Folk songs Ho sempre provato un senso di profondo disagio ascoltando canzoni popolari (cioè espressioni popolari spontanee)

accompagnate dal pianoforte. È per questo e, soprattutto, per rendere omaggio all’intelligenza vocale di Cathy Berberian

che nel 1964 ho scritto Folk Songs per voce e sette esecutori (flauto/ottavino, clarinetto, due percussioni, arpa, viola,

violoncello) e, successivamente, per voce e orchestra da camera (1973). Si tratta, in sostanza, di un’antologia di undici

canti popolari (o assunti come tali) di varia origine (Stati Uniti, Armenia, Provenza, Sicilia, Sardegna, ecc.), trovati su vecchi

dischi, su antologie stampate o raccolti dalla viva voce di amici. Li ho naturalmente interpretati ritmicamente e

armonicamente: in un certo senso, quindi, li ho ricomposti. Il discorso strumentale ha una funzione precisa: suggerire e

commentare quelle che mi sono parse le radici espressive, cioè culturali, di ogni canzone. Queste radici non hanno a che

fare solo con le origini delle canzoni, ma anche con la storia degli usi che ne sono stati fatti, quando non si è voluto

distruggerne o manipolarne il senso. Due di queste canzoni («La donna ideale» e «Ballo») non sono popolari nella

Storia ed estetica della musica

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sostanza, ma solo nelle intenzioni: le ho composte io stesso nel 1947. La prima sulle parole scherzose di un anonimo

genovese, la seconda sul testo di un anonimo siciliano.

Laborintus II Composto nel 1965 su commissione dell’O.R.T.F. per celebrare il 700° anniversario della nascita di Dante, Laborintus

II prende il titolo dalla raccolta poetica Laborintus di Edoardo Sanguineti. Il testo di Laborintus II sviluppa alcuni temi

della Vita nuova, del Convivio e della Divina Commedia di Dante e li combina - soprattutto attraverso analogie formali e

semantiche - con testi biblici e con scritti di T. S. Eliot, Ezra Pound e Sanguineti stesso. Il principale riferimento formale

di Laborintus II è il catalogo, inteso nella sua accezione medievale (come per esempio le Etimologie di Isidoro di Siviglia,

anch’esse presenti in quest’opera), che mette in relazione i temi danteschi della memoria, della morte e dell’usura - cioè

la riduzione di tutte le cose a un solo metro di valore. A volte le parole isolate e le frasi devono essere considerate come

entità autonome, altre volte invece vanno ascoltate come parte della struttura sonora concepita come un tutto.

Il principio del catalogo non si limita solo al testo, ma serve anche da base alla struttura musicale stessa. Visto sotto un

certo aspetto, Laborintus II è un catalogo di riferimenti, di atteggiamenti e di semplici tecniche strumentali; un catalogo

dal carattere un po’ didattico, come le immagini di un libro scolastico che tratti delle visioni dantesche e del gesto

musicale. Le parti strumentali sono sviluppate soprattutto come estensione dell’azione vocale dei cantanti e la breve

sequenza di musica elettronica è concepita come prolungamento dell’azione strumentale. Laborintus II è un’opera

scenica; può essere trattata come una rappresentazione, come una storia, un’allegoria, un documentario, una danza. Può

essere rappresentata a scuola, a teatro, in televisione, all’aria aperta e in qualsiasi altro luogo che permetta di riunire un

uditorio.

Stefano Gervasoni (1962), ha deciso di dedicarsi alla composizione dopo aver conosciuto Luigi Nono

a Venezia. Ha studiato poi al Conservatorio di Milano, con Niccolò Castiglioni e Azio Corghi, e

successivamente con György Ligeti e Helmuth Lachenmann.

È tra i compositori contemporanei, uno dei più inclini all’espressione lirica, come lo sono stati Toru

Takemitsu, o lo è György Kurtág. Lirico in quanto la sua musica tende alla discrezione, possiede un

tono meditativo, un’inclinazione alla riflessione in solitudine, che si coglie soprattutto nel modo in cui

molto spesso privilegia piani dinamici molto prossimi al silenzio. Il tono lirico rifugge i contrasti, che

appartengono di più a una disposizione di tipo drammatico. Il tono lirico presume che un soggetto

che esprime un propria visione lo faccia tra sé e sé; non si rivolge ostentatamente a un pubblico. Il

pubblico in un certo senso capta ciò che il soggetto sta dicendo.

Carlo Boccadoro è nato nel 1963 a Macerata. Come molti musicisti della sua generazione è cresciuto

musicalmente non solo con la musica colta classica e contemporanea, ma anche con la popular music

e con il jazz. È espressione di quella ricerca continua che come dice Alex Ross è continuamente alla

ricerca di un equilibrio «la vita della mente e il rumore della strada». Ha fondato un gruppo musicale

specializzato in esecuzione di musica contemporanea che ha sede a Milano e si chiama Sentieri

selvaggi.