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KRIYA YOGA: RIFLESSIONI LUNGO IL

CAMMINO

di Marshall Govindan e Jan Ahlund

Kriya Yoga di Babaji e Pubblicazioni, Inc. St. Etienne de Bolton, Quebec, Canada

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Kriya Yoga: Riflessioni lungo il cammino di Marshall Govindan e Jan Ahlund Traduzione di Danilo Jon Scotta Proprietà letteraria riservata © 2011 Babaji's Kriya Yoga and Publications Titolo originale: Kriya Yoga: Insights along the path Prima edizione: Aprile 2008. Proprietà letteraria riservata © 2008 Babaji's Kriya Yoga and Publications Kriya Yoga di Babaji e Pubblicazioni, Inc. 196 Mountain Road, P.O. Box 90 Eastman, Québec, Canada J0E 1P0 Telefono: 450-297-0258; 1-888-252-9642; fax: 450-297-3957 • www.babajiskriyayoga.net • email: [email protected] Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o utilizzata in qualsiasi forma o mezzo, elettronico o meccanico, incluse fotocopie, registrazioni o qualsiasi banca dati o sistema di reperimento, senza autorizzazione scritta dell'editore. Copertina e progetto grafico: David Lavoie Stampato e rilegato in Canada. Stampato su carta riciclata al 100% Si è prestata attenzione ad attribuire la paternità di tutto il materiale oggetto di diritto d'autore contenuto in questo testo ISBN 978 -1-895383-76-8

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INDICE

PREFAZIONE ..................................................................................................... 5 

CAPITOLO 1: Il Dilemma dell’esistenza umana: Trovare una felicità imperitura

in ciò che è destinato a non durare .................................................................... 6 

1. Perché Praticare lo Yoga? ........................................................................ 6 

2. Karma: Causa o Conseguenza? ............................................................. 16 

3. Mi Piace e Non Mi Piace: la Malattia della Mente................................ 30 

4. Dubbi .................................................................................................. 32 

5. Sincerità ............................................................................................... 34 

6. L’Eterno Sorriso ................................................................................... 35 

CAPITOLO 2: Trovare il Cammino Spirituale .................................................. 37 

1. Il Guru Purnima e il Guru ................................................................... 37 

2. Aspirazione .......................................................................................... 45 

3. Ricevere la Grazia del nostro Satguru Kriya Babaji Nagaraj .................. 48 

4. Essere Discepoli o Devoti? .................................................................... 57 

5. Il Significato dell’Iniziazione ................................................................ 58 

6. Cos’è il Kriya Yoga di Babaji? ............................................................... 60 

7. Immaginare .......................................................................................... 79 

8. Ottenerla e Conservarla ........................................................................ 80 

9. L’Arte della Meditazione, Tu e Ciò che Non Sei .................................. 82 

10. Attraverso la Contentezza Si Consegue la Felicità Suprema ................ 96 

11. La Casa di un Uomo è il Suo Ashram ................................................. 99 

12. Satsang ............................................................................................. 104 

13. Spazio Sacro ..................................................................................... 106 

CAPITOLO 3: Fare della nostra vita il nostro Yoga ......................................... 109 

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1. Muoversi verso l’Equilibrio: Attivi con Calma, Attivamente Calmi ..... 109 

2. Ciò di cui il Mondo ha Bisogno Adesso è Amore e Compassione ....... 111 

3. Il Giudizio, o Come Evitare di Ferire gli Altri e Noi Stessi ................. 114 

4. Lo Yoga come un Movimento Sociale ................................................ 123 

5. “Tutti i Paesi sono la mia patria e tutte le persone fanno parte della mia

famiglia” ................................................................................................ 128 

6. Sacra Follia, Kundalini, Shaktipat e Distruzione dell’Ego ................... 132 

7. Come sapere se stiamo progredendo a livello spirituale? ...................... 137 

8. Lo Yoga del Secolo XXI...................................................................... 147 

9. Tapas: Auto-Sfida Volontaria ............................................................. 149 

10. Samadhi ........................................................................................... 152 

11. Kaivalyam: Libertà Assoluta ............................................................. 158 

12. Il Sadhana della Vita ........................................................................ 161 

13. Domande e Risposte ........................................................................ 165 

- Come dovremmo concentrarci nel praticare i mantra? ...................... 165 

- Come equilibrare la concentrazione interiore e quella esterna, in modo

da ottimizzare entrambe?..................................................................... 166 

- Nell'Advaita Vedanta ci si concentra soltanto sul Sé. Perché abbiamo

altri punti di concentrazione nel Kriya Yoga di Babaji? ........................ 169 

- Come si pone il Kriya Yoga di Babaji nei confronti del Kriya Yoga

promosso da Yogananda e i suoi successori? ........................................ 171 

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PREFAZIONE Mia moglie Jan “Durga” Ahlund ed io ci siamo resi conto da molti anni della necessità di un libro che spieghi, sia a coloro che sono interessati ad apprendere il Kriya Yoga che a coloro che già si sono imbarcati sulla sua rotta, perché dovrebbero praticarlo, quali siano le difficoltà e come superarle. Crediamo che questo libro servirà a preparare chiunque ad affrontare le sfide e a cogliere le opportunità offerte dal Kriya Yoga. Ognuno di noi affronta le resistenze della nostra natura umana, cioè l’ignoranza della nostra reale identità, e il karma, ovvero le conseguenze di anni di condizionamento da parte dei nostri pensieri, parole e azioni. Coltivando l’aspirazione per il Divino, rifiutando l’egoismo e le sue manifestazioni, e abbandonandoci al nostro Sé superiore, pura coscienza del Testimone, possiamo vincere queste resistenze, il nostro karma e i numerosi ostacoli lungo il cammino. Ma, per farlo, lungo la strada abbiamo bisogno di molto aiuto e discernimento. Marshall Govindan e Jan Ahlund 12 Marzo 2008 St Etienne de Bolton, Quebec, Canada

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CAPITOLO 1

Il Dilemma dell’esistenza umana: Trovare una felicità imperitura in ciò che è destinato a non durare

1. Perché Praticare lo Yoga? Uno dei principali punti sui quali la mente di ogni studente di yoga si

trova a dibattere riguarda il seguente dubbio: “Perché pratico lo yoga?”. Fino a quando non sei convinto dell’importanza dello yoga in relazione a qualsiasi altro aspetto della vita, la tua pratica non assumerà quella dimensione prioritaria indispensabile per liberarsi della sofferenza. Fino a quando non avrai cominciato a porti in una prospettiva che la trascenda, la tua mente continuerà a creare dubbi e distrazioni. Leggi con attenzione e cerca di fare tue le conseguenze di quello che costituisce il più importante interrogativo della tua vita. Fai qualcosa per gli altri su base quotidiana come se si trattasse di un’attività di volontariato, senza aspettarti qualcosa in cambio. Questo può tradursi in qualsiasi tipo di attività, anche semplicemente nel tuo lavoro se svolto con uno spirito di consapevolezza distaccata che ti permetta di cogliere il Divino negli altri.

Un cambiamento di prospettiva:

Tutti soffriamo, in un modo o nell’altro. A livello individuale e collettivo. Possiamo cercare di negarlo o rifuggirlo, ma la nostra sofferenza è onnipresente e si manifesta nelle forme più diverse: dolore fisico; afflizione emozionale, paura, rabbia, invidia, aspettative nei confronti degli altri, ansia intellettuale; depressione. Cerchiamo di sottrarci alla

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sofferenza attraverso l’alcool, la droga, la televisione, il cibo, l’esercizio fisico, il lavoro, la psicoterapia, la religione e innumerevoli altre forme di distrazione. Raramente ci soffermiamo a cercare di comprendere le cause alla base della nostra sofferenza, o perché provochiamo sofferenza gli uni agli altri. Raramente ci ricordiamo del fatto che tutto nella vita è transitorio. Ogni cosa che sperimentiamo è in costante cambiamento: le nostre condizioni fisiche, il nostro stato emozionale e mentale, i nostri rapporti con gli altri e la nostra situazione finanziaria. Ciononostante spesso reagiamo con sorpresa, rabbia, delusione, o addirittura siamo sotto shock quando coloro che amiamo muoiono, o le cose si rompono, o perdiamo il lavoro, o facciamo l’esperienza di un incidente o di un tradimento. Come degli sciocchi ci ostiniamo a pensare di trovare una felicità imperitura in ciò che è destinato a non durare. Fai qualcosa per gli altri su base quotidiana come se si trattasse di un’attività di volontariato, senza aspettarti qualcosa in cambio. Questo può tradursi in qualsiasi tipo di attività, anche semplicemente nel tuo lavoro se svolto con uno spirito di consapevolezza distaccata che ti permetta di cogliere il Divino negli altri.

La saggezza consiste nel conoscere la fonte della sofferenza e della gioia, e nel distinguere ciò che è permanente da ciò che è transitorio. I saggi ci insegnano che all’origine della sofferenza sta la confusione del nostro vero Sé con l’ego di corpo-mente-personalità. Ci rivelano che nel momento in cui ci identifichiamo con la nostra anima, ponendoci con risolutezza nella prospettiva del Testimone interiore, la conoscenza di una gioia profonda si manifesta immediata e spontanea dentro di noi. Fai qualcosa per gli altri su base quotidiana come se si trattasse di un’attività di volontariato, senza aspettarti qualcosa in cambio. Questo può tradursi in qualsiasi tipo di attività, anche semplicemente nel tuo lavoro se svolto con uno spirito di consapevolezza distaccata che ti permetta di cogliere il Divino negli altri.

Ma chi è a soffrire? Possiamo vivere dolore fisico, emozioni che provocano agitazione, pensieri che ci tormentano. Ma che vanno e vengono. E quando se ne sono andati a rimanere è chi siamo realmente. Tu sei ciò che sempre è, durante tutto lo spettacolo transitorio di sensazioni fisiche, emozioni, pensieri. Non puoi essere qualcosa che va e viene. Puoi solamente essere ciò che è sempre e non cambia mai. Adesso fai qualche respiro profondo e chiediti: “Quale parte di me cambia?”. I

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IL DILEMMA DELL’ESISTENZA UMANA 8

pensieri, le emozioni, le sensazioni corporee cambiano. Cosa rimane? Non cercare nemmeno di darne una definizione. Limitati ad osservarlo: è privo di forma, eterno, immutabile. E’ ciò che rimane invariato durante tutte le esperienze della tua vita. Era presente quando avevi cinque, diciassette, trent’anni, e sarà presente negli ultimi anni e istanti della tua vita. E’ come il filo su cui sono disposte le perle di una collana. Raramente lo notiamo, eppure è proprio il nostro vero Sé, la tua anima. La saggezza consiste nel porsi 24 ore al giorno e 7 giorni su 7 nella prospettiva di questa parte che rimane invariata. Fai qualcosa per gli altri su base quotidiana come se si trattasse di un’attività di volontariato, senza aspettarti qualcosa in cambio. Questo può tradursi in qualsiasi tipo di attività, anche semplicemente nel tuo lavoro se svolto con uno spirito di consapevolezza distaccata che ti permetta di cogliere il Divino negli altri.

In ragione del fatto che la tua mente è impegnata a leggere questo articolo e sta cercando di comprendere la tesi che sto sostenendo, diversi pensieri si fanno strada. Ma riesci a fare un passo indietro e modificare il tuo punto di vista, diventando Testimone di qualsiasi pensiero, sentimento, sensazione emerga mentre avanzi nella lettura di questo articolo? Se ci riesci, potrai godere della prospettiva della tua anima, che è coscienza pura. Anche se, contrariamente a qualunque altra cosa, non se ne può fare esperienza in quanto non si tratta di un oggetto, ma del Soggetto. Tutto il resto è oggetto. Quindi rendersi conto di chi tu sia non significa fare una nuova esperienza. Non c’è nulla di “speciale” da sperimentare. Né tanto meno diventerai “speciale”. Essere “speciale” implica essere disgiunti da qualunque altra cosa. Chi sei tu è ciò che si trova al di là di ogni “cosa”, e pertanto non è separato. Fai qualcosa per gli altri su base quotidiana come se si trattasse di un’attività di volontariato, senza aspettarti qualcosa in cambio. Questo può tradursi in qualsiasi tipo di attività, anche semplicemente nel tuo lavoro se svolto con uno spirito di consapevolezza distaccata che ti permetta di cogliere il Divino negli altri.

L’immutabile non può nemmeno essere compreso. La comprensione implica pensieri relativi a un oggetto osservato o esaminato. Ma l’immutabile si situa oltre tutti i pensieri: è semplicemente amore. Fai qualcosa per gli altri su base quotidiana come se si trattasse di un’attività di volontariato, senza aspettarti qualcosa in cambio. Questo può tradursi in qualsiasi tipo di attività, anche semplicemente nel tuo lavoro se svolto

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con uno spirito di consapevolezza distaccata che ti permetta di cogliere il Divino negli altri.

Non sei i tuoi pensieri. Innanzi tutto, la maggior parte dei tuoi pensieri non sono nemmeno tuoi. Tu hai dei pensieri che vanno e vengono. Ma tu rimani. La maggior parte dei pensieri sono generati dagli altri, si diffondono nell’atmosfera mentale per poi entrare nel campo d’azione della tua coscienza mentale, dove tu aggiungi qualche sfumatura, qualche travisamento personale, e alla fine li esprimi come “Penso”, o “Sono scoraggiato”, “Devo fare questo”, o “Sono arrabbiato, ho paura” e così via. Fai qualcosa per gli altri su base quotidiana come se si trattasse di un’attività di volontariato, senza aspettarti qualcosa in cambio. Questo può tradursi in qualsiasi tipo di attività, anche semplicemente nel tuo lavoro se svolto con uno spirito di consapevolezza distaccata che ti permetta di cogliere il Divino negli altri.

Quindi i saggi sono coloro che riescono a modificare la propria prospettiva e a rimanere in uno stato di consapevolezza nel quale si identificano non con pensieri, emozioni e sensazioni di corpo-mente, ma con la prospettiva del Testimone dell’anima. La prospettiva del testimone è amore senza limiti.

Egoismo

Perché normalmente ci identifichiamo con le nostre sensazioni ed emozioni? Nella breve durata di un giorno siamo capaci di confondere “chi siamo” con numerose sensazioni ed emozioni spesso in conflitto tra loro. “Sono felice”, penso al momento del risveglio. Fa bel tempo e la strada per andare al lavoro è tranquilla, e “sono davvero imperturbabile”. Dopo un caffé e due conversazioni telefoniche difficoltose “Sono arrabbiato e stressato”. Più tardi “Sono invidioso o geloso” per via dei risultati e dei conseguenti elogi ricevuti da un collega. Alla fine della giornata, e dopo essermi stressato guidando a lungo per tornare a casa, “io” potrei essermi identificato con il fatto di essere felice, calmo, annoiato, geloso, invidioso, agitato, infuriato. “Io” potrei addirittura ritrovarmi a dire che “odio” una persona che all’inizio della giornata “adoravo” o viceversa. “Io” non posso essere tutte queste emozioni e sensazioni mutevoli.

Quindi quale di esse descrive “chi tu sei”? “Tu” non sei alcuna di queste cose.

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Se ti chiedo chi tu sia, potrai dirmi il tuo nome, la tua professione; forse il tuo stato civile e le tue relazioni più strette del tipo “madre/padre di tre bambini”. Può darsi che tu mi dica di dove sei, cosa ti piace e cosa non; dove lavori, il tuo orientamento politico, la tua religione. Se abbiamo più tempo a nostra disposizione comincerai a raccontarmi aneddoti relativi alla tua vita e ad esprimere le tue convinzioni. Ad ogni modo, se ti rincontro dopo un anno, molto di ciò che mi hai raccontato potrebbe essere cambiato: potresti aver perso il lavoro, aver divorziato, aver cambiato le tue opinioni politiche e religiose così come le tue preferenze in merito a ciò che ti piace o meno nel mondo. E adesso avrai nuove storie da raccontarmi. E dunque, chi sei realmente? Non puoi essere nulla di ciò che ho menzionato più sopra perché è tutto transitorio. Puoi essere solamente ciò che non cambia. Perché se cambia cessa di essere.

Siamo così confusi rispetto alla nostra identità. Diciamo o pensiamo “io” mille e più volte al giorno! Ma chi è questo “io”? Il termine greco per “io” è “ego”. L’ego può essere definito come l’abitudine di identificarsi con il corpo, la mente e le emozioni. E un’abitudine prende forma quando facciamo o pensiamo o sentiamo qualcosa in modo periodico, ripetuto. I lobi interni del cervello programmano le nostre abitudini al fine di facilitare le nostre reazioni agli stimoli esterni, reazioni che si manifestano attraverso i cinque sensi. Abbiamo migliaia di abitudini che sono peculiari per ciascun individuo. Il modo in cui camminiamo, parliamo, mangiamo, guidiamo l’auto, trattiamo gli altri, le cose che amiamo e quelle che non ci piacciono: tutto è fondato su abitudini. Considerate nell’insieme, il loro totale si aggiunge a ciò che viene chiamato karma: le conseguenze dei nostri pensieri, parole e azioni passati. L’abitudine più significativa che contraddistingue ognuno di noi è quella di identificarci con i nostri pensieri, emozioni e sensazioni. Diciamo o pensiamo: “penso” oppure “sento” o “sto soffrendo” o ancora “sono arrabbiato” etc. Tuttavia in realtà non siamo in alcun modo una di queste esperienze. E’ corretto dire: “ecco un pensiero in merito a ciò” oppure “il mio corpo è stanco” o ancora “sono sconvolto per questa o quest’altra ragione”. Come a dire che quello che sperimentiamo è un oggetto, non il soggetto. Colui che sono realmente, la pura coscienza del Testimone, questo è il soggetto. Di conseguenza l’egoismo è in realtà un caso di errore di persona: come fanno gli attori, fingiamo di essere qualcuno che non siamo, dimenticandoci della nostra vera identità.

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Le conseguenze dell’egoismo

La più importante conseguenza dell’egoismo è la sofferenza. E la sofferenza dipende dal modo in cui reagisci agli avvenimenti, perciò è ben diversa dal dolore. Ad esempio il dolore può insorgere quando inciampi e cadi procurandoti una contusione. La sofferenza invece implica emozioni quali la rabbia, l’imbarazzo e il dispiacere che ne consegue. A causa dell’egoismo ti identifichi con tali emozioni, imprechi e perdi la calma e il buonumore. La sofferenza distrugge il tuo equilibrio: non è il tuo essere reale, ma l’ego a poter perdere l’equilibrio. Il tuo essere reale mantiene la calma. Pertanto è importante essere vigili e fare attenzione alle manifestazioni dell’ego prima che ti faccia perdere l’equilibrio e ti trascini in sentimenti negativi. Questi includono:

1. Il desiderio: immaginare o fantasticare il piacere derivante da un qualche oggetto o circostanza, o provare avversione nei confronti di qualcosa che riteniamo possa provocarci dolore o disagio. E’ passeggero ma ci impedisce di godere del momento presente. Il desiderio è una trappola perché qualsiasi sua manifestazione ci convincerà del fatto che staremmo meglio se solo potessimo soddisfarlo. Arde fino a quando non è soddisfatto, poi interviene una sospensione temporanea nel desiderio fino all’insorgere del successivo; il che normalmente avviene subito dopo. I desideri sono senza fine. La prossima volta in cui provi il desiderio di qualcosa interrogati “Chi è a desiderare?”. Questo ti indirizzerà immediatamente al tuo vero sé, e vedrai le cose dalla sua prospettiva, quella reale del Testimone. In realtà nessuno desidera: i desideri vanno e vengono. Quando stai soddisfacendo un desiderio, ancora una volta osservati nell’atto di appagarlo. Coltiva la prospettiva di un osservatore distaccato e amorevole: chi ama non desidera alcunché.

2. La rabbia: comprende tutti i sentimenti intensi e collerici serbati nei confronti di qualcosa o qualcuno, perfino noi stessi, in ragione di desideri frustrati. La rabbia stessa dà assuefazione: deve essere rifiutata o re-indirizzata. La rabbia ha sempre ripercussioni negative su chi si lascia maggiormente dominare da essa. Il saggio non si affida alla rabbia. E la rabbia può essere riconvertita in azioni positive per rimediare a un errore. Chi ama non può affidarsi alla rabbia.

3. L’avidità: si manifesta nell’anteporre ciò che si desidera per se stessi alla ricerca del bene per gli altri. L’avidità è l’abitudine di essere centrati su se stessi rispetto a qualunque cosa, è volere la parte del leone di tutto, a

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prescindere dal fatto che si tratti di ricchezza finanziaria, cibo, appagamento sessuale, emozionale o spirituale. Chi ama veramente non è avido.

4. La superbia: consiste in un’opinione eccessivamente elevata di se stessi che spesso si traduce in disprezzo e maltrattamento degli altri. Qualcuno si sente superiore per qualche motivo: la cosa si può manifestare quando ci si identifica con i propri talenti personali o con le opere realizzate da una religione o con i risultati di una squadra sportiva, della propria etnia, nazione e in ogni situazione in cui sia presente l’idea di un “io” o di un “noi” contro un “loro”. La superbia occulta la realizzazione del nostro Sé reale e ci rende incapaci di cogliere il fatto che alla base siamo tutti una singola unità. La superbia imprigiona l’amore.

5. L’invidia, la malvagità e la gelosia: L’amarezza, sperimentata nel vedere altri essere felici o possedere qualcosa che noi non abbiamo, offusca la reale fonte interiore di gioia. L’amarezza limita l’amore al punto da non permettere di provarne nemmeno per se stessi.

Il saggio vede queste manifestazioni dell’ego come opportunità di

auto-purificazione: mollare la presa di ciò che non si è in modo da poter sperimentare la fonte interiore di benessere e amore.

Lavorare su se stessi

L’uomo comune oscilla come in un pendolo tra il ricercare la felicità e il rifuggire il dolore. In ogni caso, entrambe le cose comportano sofferenza. La sofferenza insorge anche dopo aver ottenuto ciò che si desidera, per via del timore di perderlo. Il saggio però trova una via intermedia e coltiva l’imperturbabilità mentale. Imperturbabilità significa appagamento ed equilibrio rispetto a ciò che si verifica o meno. E’ una sorta di prova del nove della vera spiritualità. Quando gli chiesero di descrivere il proprio stato di illuminazione, il grande saggio Ramana Maharshi rispose: “Adesso non c’è più nulla che possa darmi fastidio”. Nell’ottica della nostra anima, se il prezzo è la tranquillità della mente, allora costa troppo! In ogni caso, dal momento che la mente è assuefatta a ricercare la felicità e rifuggire il dolore, difficilmente raggiunge una tale condizione di equilibrio. Il saggio coltiva questo equilibrio con i pensieri, le parole e le azioni. Nella vita del saggio ogni cosa diventa un’occasione per coltivare equilibrio e amore. Questo non significa che il dolore o il

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disagio o le conseguenze karmiche sfavorevoli cessino di intromettersi nella vita di una persona; non significa non reagire, ma piuttosto reagire coscientemente, coltivando presenza [in ciò che si fa, N.d.T.], consapevolezza e amore. Questo costituisce la situazione ottimale in cui l’ispirazione può manifestarsi e risolvere le difficoltà, e al tempo stesso aiuta a prevenire inutili sprechi di energia che dissipiamo in preoccupazione, rabbia e angoscia quando le cose non vanno secondo i nostri piani!

Il nostro Sé reale è situato oltre i sensi che ci ingannano e reagiscono a ciò che succede attorno a noi; si trova al di là dei condizionamenti di mente e intelletto, che interpretano ciò che viene visto, udito, gustato, toccato e sentito. Il nostro essere reale si trova in una condizione segreta di beatitudine, amore e felicità senza limiti. Grazie a questa consapevolezza possiamo trascendere la normale prospettiva umana dell’ego ed accedere alla prospettiva di pace e amore incondizionato della nostra anima.

Coloro che hanno raggiunto l’apogeo della perfezione umana, i Siddha Yoga o esseri perfetti, lo hanno fatto grazie a un lungo processo di purificazione. Tutte le tradizioni spirituali autentiche sottolineano tale processo. Gesù disse: “Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo” (Marco 7, 14-15 con paralleli in Matteo 15, 10-11 e Tommaso 14, 5). Ciò che esce dalla persona è una manifestazione dell’ego, come descritto più sopra. Come purificarsi? La purificazione interiore che Gesù sottolinea qui inizia con un discernimento nei confronti di pensieri, parole e azioni che contaminano: i giudizi, l’avidità, la lussuria, la rabbia, l’odio e il desiderio. Tutti provocano sofferenza agli altri così come alla persona che li nutre all’interno di sé. Parole e azioni sono precedute da pensieri, quindi occorre acquisire consapevolezza delle tendenze negative della mente e distaccarsene non appena iniziano a manifestarsi all’interno di essa.

La pratica della meditazione aiuta a sviluppare la presenza in ciò che si fa e la consapevolezza necessarie per farlo. Ma non ci si può aspettare che il semplice fatto di entrare in uno stato di profonda meditazione trasformi come per miracolo il nostro comportamento quotidiano. Occorre imparare a introdurre la prospettiva distaccata dell’anima nei momenti più difficoltosi della vita quotidiana. Questo processo può essere

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sintetizzato in due atti di disciplina spirituale che definiscono lo Yoga classico: “Lo Yoga significa ricordarsi di Chi IO SONO e liberarsi di ciò che non sono”. Come le due ali di un uccello, queste azioni ci elevano alla prospettiva della realizzazione di un paradiso in terra. Infatti, dove non si trova Dio? Solamente dove non siamo realmente presenti a noi stessi. Occorre anche affrontare in modo diretto i pensieri e le inclinazioni negative. Patanjali in Yoga Sutra II, 33 ci dice: “Quando si è dominati da pensieri negativi, dovrebbe essere coltivato il loro contrario (pensieri positivi)”. Questo può tradursi, ad esempio, nel benedire gli altri invece di giudicarli, nell’amarli invece di odiarli, ripetendo affermazioni, auto-suggestione, esercizi di visualizzazione, e pregando.

Troppo spesso sprofondiamo nell’ansia e nella depressione quando ci facciamo prendere da pensieri negativi. Ansia e depressione significano meditare su ciò che non vogliamo! Il saggio, rendendosi conto del fatto che tutte le manifestazioni iniziano nella mente, coltiva nel miglior modo possibile pensieri e sentimenti attraverso la meditazione di ogni giorno. Il che implica coltivare un flusso costante di consapevolezza nel rapportarsi a tutti gli eventi. Si ha consapevolezza nel momento in cui una parte della propria coscienza osserva senza intervenire ciò a cui il resto della coscienza si sta dedicando. Non pensa: osserva i pensieri andare e venire. Non fa alcunché: osserva ciò che accade. Non prova alcuna emozione o sentimento. Il Testimone è compassione amorevole e imperturbabile che osserva il sorgere e il tramontare delle emozioni nella parte vitale del corpo. Con un po’ di pratica diventa la prospettiva fondamentale della nostra vita e permette di raggiungere una condizione che è il contrario di “egoismo e sofferenza”. Essendo presenti, si è automaticamente consapevoli, e in tale consapevolezza si manifesta la beatitudine. Quindi “presenza e amore” sostituiscono “egoismo e sofferenza”. Questa è la promessa di coloro che hanno scalato con successo il Monte Everest della natura umana comune e sono arrivati all’apice dell’Autorealizzazione.

L’egoismo è un principio della natura a causa del quale la coscienza si restringe attorno a ciò che è oggetto di esperienza. Ogni creatura vivente sperimenta tale contrazione primariamente nella sfera dei propri sensi. La coscienza della persona media, per esempio, è assorta nelle sensazioni fisiche durante l’infanzia. A mano a mano che si matura, si è piuttosto assorbiti dai meccanismi mentali ed emozionali: fantasie, paure e desideri. Più avanti si diventa prigionieri dei pensieri: ricordi, idee e problemi.

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Questa contrazione della coscienza attorno a ciò che è oggetto della nostra esperienza, che si tratti di qualcosa di fisico, emozionale, mentale o intellettuale, è dovuta all’egoismo. Non si tratta di un difetto personale. Fa parte del disegno della natura che è strettamente connesso all’interrogativo fondamentale dell’esistenza: perché l’Uno si è fatto in molti? E come è possibile ritornare alla condizione di unicità?

Secondo i saggi, al di là di questo mondo effimero di natura oggettiva, esiste un “piano causale” più elevato da cui ogni cosa è originata. La sofferenza sprona ognuno a superare la prospettiva limitata dell’ego, ma con maggior o minor saggezza. Colui che non è saggio lo fa attraverso le distrazioni. Il saggio, avendo percezione della Realtà oltre l’apparenza, espande la propria coscienza attraverso le discipline spirituali e perviene a fissare amore incondizionato e indiscusso nel proprio cuore al fine di purificare la coscienza basata sull’ego: come risultato, perviene a una gioia sempre rinnovata in una condizione di Autorealizzazione.

Metodi pratici per mettere a nudo l’egoismo:

1. Fai qualcosa per gli altri su base quotidiana come se si trattasse di un’attività di volontariato, senza aspettarti qualcosa in cambio. Questo può tradursi in qualsiasi tipo di attività, anche semplicemente nel tuo lavoro se svolto con uno spirito di consapevolezza distaccata che ti permetta di cogliere il Divino negli altri.

2. Medita sull’amore: quello che si trova al di là dei gesti superficiali di corpo, mente ed emozioni.

3. Coltiva il distacco. Questa sensazione di lasciar presa è il contrario dell’”attaccamento” che spesso noi confondiamo con l’amore. Visualizzati sulla riva del fiume mentre osservi lo scorrere di pensieri ed esperienze. Evita di scivolare nel fiume di pensieri ed esperienze e di farti trascinare via da essi.

4. Coltiva la calma. Sii quietamente attivo: quando reagisci agli stimoli del mondo, fallo con calma e attenzione. Impegnati attivamente per mantenere la calma a prescindere da ciò che succede attorno a te. La calma è la finestra della nostra anima: coltivandola, possiamo vedere la Presenza dell’Amore dovunque.

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5. “Auto-esaminati”: tieni un diario in cui annotare le tue esperienze- Osserva le abitudini della tua mente. Studia testi sacri e spirituali che ti possano aiutare a ricordarti del tuo vero Sé superiore.

6. Prima di parlare, rifletti, e parla solamente di ciò che è vero, necessario, utile e edificante.

7. Fai dello stretching e osserva il tuo respiro. Intraprendi una disciplina di esercizi fisici, mentali e spirituali, che permettono di controllare lo stress, rilassarsi profondamente e accrescere le energie. Attraverso il controllo dello stress e il rilassamento profondo possiamo impedire alle inclinazioni dell’ego di essere coinvolte nei drammi della nostra vita.

8. Il cibo che mangi può influire sui tuoi pensieri. Mangia in modo cosciente e impedisci a pensieri inconsci di sopraffare la tua mente. Cattive abitudini alimentari possono rendere permanenti nella tua vita paura, depressione, rabbia o infelicità. Mangiare troppo o troppo poco esaurisce progressivamente il tuo livello energetico, la cui diminuzione ti rende più incline a identificarti con il tuo corpo.

9. Coltiva il contrario di pensieri ed emozioni negativi attraverso l’affermazione e l’auto-suggestione.

10. Vivi appieno la vita di ogni giorno vivendola coscientemente. Rendi ogni giorno più bello che puoi. Le opportunità spuntano fuori in un attimo: sii conscio di ogni istante. Cammina in modo conscio osservando ciò che si trova davanti a te.

11. Il coltivare pratiche di questo tipo può servire a innalzare la tua coscienza al di sopra della prospettiva limitata del “me”, “me stesso” e “io”. Fai uno sforzo consapevole per spingerti oltre l’ego e diventare “una luce in se stessa”. Gli altri saranno felici quando sono in tua presenza.

2. Karma: Causa o Conseguenza? Il termine “karma” fa pensare all’idea di legge e giustizia, di

ricompensa e punizione, così come di giudizio e destino. Nei contesti cristiano e giudaico sembra anche comprendere il concetto di peccato e castigo. In quanto tale, non è qualcosa su cui ci piaccia soffermarci, anzi, ne abbiamo paura. In ragione del fatto che è collegato a concetti così difficoltosi, in generale preferiamo evitare di pensarci. Troppo spesso il

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nostro atteggiamento è del tipo “non lo capisco”, o “è difficile da capire”. Ma che lo comprendiamo o meno, siamo tutti soggetti a questa legge della Natura.

Se proprio pensiamo al “karma”, è un concetto che solleva così tante domande senza risposta, tra le quali:

Perché creiamo karma?

1. Quanti tipi di karma esistono?

2. Perché accadono cose negative a persone positive?

3. La mia vita è determinata dal fato o dal mio libero arbitrio?

4. Cosa posso fare per superare il karma negativo?

5. Che cos’è la grazia? Che cosa ha a che fare con il karma? Come ottenerla?

6. Come può il Kriya Yoga neutralizzare il karma?

Prima di cercare di rispondere a tali domande, cerchiamo però di definire il karma e di comprenderne le origini.

Una definizione semplice è che il karma è una legge o principio della natura secondo il quale ogni azione, parola o pensiero produce un effetto o una conseguenza; o più semplicemente, a ogni azione corrisponde una reazione. Quando ripetuti frequentemente, tali pensieri, parole e azioni sortiscono anche un effetto cumulativo che si manifesta come abitudini del subconscio, o inclinazioni. Quindi il karma è causa e conseguenza.

Qual è l’origine del concetto di karma?

Il karma non è un concetto peculiare di filosofie o religioni orientali. Vi si fa riferimento in molte parole della tradizione giudaico-cristiana rispetto a “peccato”, “giudizio” e “salvezza”. Per esempio, “Si raccoglie quello che si semina”. Vi si fa riferimento nella letteratura scientifica occidentale in termini di “causa ed effetto”. E’ il punto focale del senso di “giustizia” ed “equità” di ogni persona. Perfino la parola “legge” è basata sulla nozione di karma.

Riferimenti al concetto di karma si trovano nella religione più antica del pianeta, conosciuta come religione vedica, le cui origini risalgono all’incirca al 10.000 a.C. Si trattava essenzialmente di una religione monoteista che però riconosceva l’esistenza di diversi “dei” i quali

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rappresentavano i poteri dell’unico Signore, Brahman. Era, ed è ancora, una religione che utilizza offerte sacrificali, soprattutto in un fuoco sacro, come mezzo per compiacere gli dei e acquisire meriti. Le idee alla base del karma, cioè dare e ricevere, merito e demerito, condotta virtuosa contro comportamento iniquo, si svilupparono senza dubbio a partire da queste pratiche religiose. Si credeva che a volte gli dei vedici dovessero venir placati, specialmente a seguito di azioni ingiuste compiute da un popolo o dai suoi capi. Nel Vecchio Testamento si trovano espressioni come “Occhio per occhio, dente per dente”, che riflettono anche un riconoscimento della nozione di karma.

Domanda numero 1: Perché creiamo karma?

In Yoga Sutra II, 12 Patanjali fa riferimento ai tipi di karma: “Il serbatoio di karma fondato sulle afflizioni viene sperimentato nell’esistenza visibile (presente) e invisibile (futura)”.

Si riferisce a diversi importanti concetti e al loro rapporto con il karma. Prima di tutto, parla di un “serbatoio” o “utero” di karma o “deposito di azioni” che ogni anima trasporta con sé di esistenza in esistenza. Il ripetere frequentemente pensieri, parole, azioni costituisce abitudini che a loro volta formano inclinazioni che determinano il modo in cui reagiremo a situazioni simili in futuro. Come semi, queste inclinazioni, o samskara, non cercano che l’occasione per spuntare fuori, nelle giuste circostanze, durante l’esistenza attuale o in un’incarnazione futura. Anche senza credere nella reincarnazione è possibile comprendere l’influenza dei propri geni.

In secondo luogo, si riferisce alle afflizioni: cinque cause di sofferenza. In precedenza le aveva già identificate come (1) l’ignoranza della nostra reale identità in quanto anima, ovvero l’ignoranza di ciò che è durevole e di ciò che procura gioia contrapposto a ciò che procura sofferenza; (2) l’egoismo, ovvero l’abitudine di identificarsi con il binomio corpo-mente e i relativi pensieri ed emozioni; (3) l’attaccamento, cioè la dipendenza dal piacere; (4) l’avversione, ovvero la dipendenza dalla sofferenza; e (5) l’attaccamento alla vita. Queste cinque afflizioni costituiscono gli incentivi alla creazione del karma.

Per esempio, quando sentiamo o diciamo “voglio”, “ho bisogno”, o “ho paura”, stiamo manifestando una di tali afflizioni. La presa di coscienza di “chi sono?” ci permette di superare la prima afflizione e di

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conseguenza prepara la strada per il superamento delle altre. Il corpo può essere stanco, in noi possono insorgere pensieri legati al desiderio o sentimenti di rabbia, ma “io” non sono né la stanchezza, né il desiderio o la rabbia”. “Io sono” colui che svolge il ruolo del Testimone nei loro confronti, dice l’Autorealizzato. Il “Testimone” non fa nulla: osserva ciò che viene fatto. Il “Testimone” non pensa: osserva i pensieri andare e venire. Patanjali ci raccomanda di sviluppare tale prospettiva del Testimone, pura coscienza, praticando la meditazione focalizzandosi sul distacco. Come risultato possiamo iniziare a superare queste afflizioni. Ma solamente ritornando all’origine del nostro essere, in una condizione di Autorealizzazione, è possibile estirpare queste radici della sofferenza.

Domanda numero 2: Quanti tipi di karma esistono? Esiste un karma positivo? O uno negativo?

Nel verso citato più sopra Patanjali fa anche riferimento all esistenza attuale e a quelle future. Il karma è di tre tipi:

1. Il destino, ovvero quei karma che si manifestano subito e si esauriscono per mezzo di questa esistenza;

2. Nuovi karma creati durante la presente esistenza

3. I karma che dovranno compiersi in esistenze successive.

I karma non aspettano altro che l’occasione per affiorare e manifestarsi per mezzo delle cause di afflizione citate più sopra. Per esempio, un’anima con una grande necessità di esprimersi attraverso la musica potrebbe venire al mondo in una famiglia dove la musica è tenuta in alta considerazione e coltivata come arte. Un karma forte può richiedere una nascita e un corpo particolari per potersi manifestare, e altri karma strettamente correlati si esprimeranno o si esauriranno attraverso di esso.

E’ importante comprendere che molto, ma non tutto nella vita è il risultato di un destino karmico. Ognuno di noi ha una “mappa” e un “saldo” karmici con i quali è venuto al mondo, ma continuiamo ad aggiungerne, in termini positivi o negativi. E’ anche importante comprendere che ognuno ha il suo proprio karma e agisce in conformità con esso. Ci possiamo chiedere perché qualcuno agisca o viva in un certo modo. Ma quel qualcuno si pone gli stessi interrogativi in merito a noi. Ognuno di noi è programmato con determinate inclinazioni karmiche. Le nostre idee di ciò che è buono o importante derivano da ciò che ci è stato

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insegnato e da quanto diligentemente abbiamo imparato le nostre lezioni. Gli eventi della nostra vita accadono in ragione del nostro karma. Ma questo non significa che tutto sia predeterminato. Abbiamo libero arbitrio rispetto al modo in cui affrontiamo tali fatti e avvenimenti della vita, se positivamente o negativamente. Ma dobbiamo essere consapevoli sia delle nostre inclinazioni a reagire secondo le nostre abitudini, che della nostra libertà di agire con consapevolezza. Se scegliamo di reagire negativamente alle prove della vita, ad esempio procurando sofferenza agli altri, le reazioni [conseguenze dei nostri atti, N.d.T.] ci ritornano sotto modalità più intense o terribili. Affrontare gli avvenimenti pazientemente, procurando felicità agli altri, neutralizza gradualmente le conseguenza karmiche.

Per identificare i tratti principali del proprio karma si suggerisce questo esercizio. Rispondi alle seguenti domande: Quali sono stati i più grandi desideri della tua vita? Le paure più grandi? A cosa sei stato più attaccato? Cosa ti ha fatto soffrire maggiormente? Quali sono stati gli avvenimenti più importanti della tua vita? Le svolte decisive? Le lezioni?

Poi rifletti su questa affermazione: Per liberarsi dal karma dobbiamo comprendere qual è il nostro scopo in questa esistenza.

Karma positivo e negativo?

In Yoga Sutra II, 14 Patanjali ci dice: “In ragione di karma virtuoso e non virtuoso, si hanno conseguenze [correlate] piacevoli e dolorose”-

Se apportiamo felicità agli altri conseguiamo gioia, se procuriamo sofferenza agli altri i frutti non saranno che dolore per noi stessi. Se ci lasciamo pervadere dalla vera felicità, automaticamente rendiamo più felici coloro che sono vicini a noi, senza che essi ne siano necessariamente al corrente. Sono soprattutto le abitudini insite nel subconscio a determinare le nostre azioni. Pertanto, le caratteristiche della nostra nascita, della durata e delle esperienze della nostra vita sono determinate da ciò che seminiamo nel nostro subconscio. Per evitare di rafforzare le abitudini negative, quali il giudicare gli altri, l’arrabbiarsi o il ferire gli altri con le parole, dovremmo anzitutto ascoltare la nostra guida interiore, meditare su di essa ed evitare le reazioni egoistiche. Per rafforzare le abitudini positive dovremmo coltivare pensieri, parole e azioni che siano edificanti per noi stessi così come per gli altri. Riconosci e presta attenzione alle sollecitazioni della coscienza prima di reagire, così come ai

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sensi di colpa che mostrano in cosa hai sbagliato. Chiediti: “Come posso dire questo senza ferire questa persona?”, “La mia affermazione implica un giudizio nei loro confronti?”, “Cosa proverà questa persona se faccio o dico questo?”.

Per rafforzare la distinzione tra karma positivo e karma negativo si suggerisce il seguente esercizio:

Come ti senti dopo aver fatto uno sforzo cosciente per dire o fare qualcosa che sapevi avrebbe apportato felicità ad altri?

Come ti senti dopo aver evitato di dire o fare qualcosa che sapevi avrebbe fatto male ad altri? E quando invece non riesci a evitarlo? Come ti senti dopo? E dopo aver detto qualcosa che sapevi avrebbe arrecato danno?

Cerca di fare regolarmente questo esercizio, in merito ai riflessi e alle conseguenze degli eventi della giornata, prima di andare a dormire la sera.

Domanda numero 3: Perché succedono cose negative a persone positive?

Quando avvengono incidenti, atti di aggressione, disastri naturali o perdite improvvise, provocando sofferenza o la morte di persone che sembrano essere completamente innocenti, o che hanno vissuto esistenze virtuose, possiamo ben chiederci: “Perché succedono cose negative a persone positive?”. La causa potrebbe appartenere a una delle due categorie citate più sopra: (1) il destino: quei karma che, inseriti in questa vita, si manifestano subito e si esauriscono per mezzo di questa esistenza e (2) le conseguenze di atti compiuti in questa vita. In genere una persona buona in questa esistenza non commette atti tali da provocare conseguenze terribili. Quando le cose negative [che si manifestano, N.d.T.] sono davvero di una portata spaventosa, di solito si tratta del primo caso: un destino ineludibile, conseguenza delle azioni di esistenze precedenti. Piccoli errori, di giudizio così come nelle parole o nelle azioni, provocano conseguenze, spesso nell’immediato. Ma la domanda di partenza di solito insorge di fronte a eventi tragici a carico di un innocente. Il karma delle esistenze precedenti comporta conseguenze nella presente esistenza non solo per sé, ma anche per i propri cari. Per esempio, quando una giovane viene violentata, in che modo la cosa si ripercuote su suo padre? Esiste un collegamento tra la sua sofferenza e il

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suo destino? La risposta è sia personale che complessa. La massima “i figli vengono puniti per le colpe dei padri” può essere applicata anche a questo caso. Condividiamo del karma con i nostri cari, non solo dal punto di vista genetico, ma nelle lezioni che reciprocamente ci diamo, soprattutto in merito al significato dell’amore. Ad esempio, soffriamo quando confondiamo l’amore con l’attaccamento. Amare è donare. Attaccamento è dare con aspettative e provoca delusione e dolore quando le aspettative sono deluse. La nostra sofferenza diventa il nostro più grande maestro. Se esaminiamo a fondo la nostra sofferenza e la passiamo al setaccio, alla fine riusciamo a liberarcene.

Alcuni scelgono di credere nella predestinazione e sminuiscono l’importanza di agire coscientemente.

Una pratica per superare la paura del fatto che possano accadere cose negative consiste nel fare una lista delle cose di cui ti preoccupi. Quindi domandati “perché?” e prendi nota di ciò che viene a galla. Poi rifletti sulle due seguenti frasi: “Chi è a preoccuparsi?” e “La preoccupazione è una meditazione in merito a ciò che non desideri”.

Domanda numero 4: La mia vita è determinata dal destino, dal fato o dal mio libero arbitrio?

Se destino, fato e karma sono collegati, non sono però equivalenti. Il destino consiste in tutti quegli eventi che si manifestano nonostante tutti gli sforzi di ottenere un risultato alternativo. Si tratta di karma, ovvero delle conseguenze delle azioni di una precedente incarnazione che si manifestano nel corso dell’esistenza attuale. Il fato è la conseguenza di una mancanza di volontà di cambiare o superare le proprie abitudini: è il risultato del bilanciamento tra karma positivo e karma negativo, tra le abitudini positive e le abitudini negative che una persona ha assunto.

Come abbiamo visto in precedenza, il karma è di diversi tipi e comprende un’interazione tra karma positivo e karma negativo. Si può attenuare il karma negativo, che ha provocato sofferenza ad altri, attraverso il karma positivo – ad esempio atti caritatevoli – che procura gioia agli altri. Tale attenuazione può manifestarsi nell’esistenza attuale, ad esempio nel caso di chi sia stato un criminale in passato e successivamente abbia commosso e ottenuto l’affetto e il rispetto degli altri grazie alla bontà delle sue azioni. O ancora nel caso di qualcuno che, nonostante la mancanza di istruzione o altre condizioni di svantaggio,

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lavori così sodo da riuscire a fare carriera. Sapendo che ogni pensiero, parola e azione provoca conseguenze, il saggio evita il male e non ricerca che il bene. Il saggio è attento alle opportunità di “fare il bene”. In tal modo accumula una grande saldo positivo di merito in grado di controbilanciare o quantomeno attenuare gli effetti di azioni malvagie. Parla solamente quando è necessario e suscettibile di essere edificante per gli altri. Riconosce le grandi opportunità insite negli atti di carità e di solidarietà. Inoltre, agendo in modo disinteressato si purifica dall’egoismo. L’illuso invece agisce in base all’egoismo e ricerca la propria convenienza a scapito degli altri. Nel fare ciò arreca dolore agli altri e provoca inevitabili conseguenze karmiche a se stesso nella presente o nelle incarnazioni future. Inoltre rafforza il proprio egoismo e sprofonda sempre più nell’illusione.

Il destino è il karma al quale non si può sfuggire, a prescindere da quanto grande possa essere il saldo di karma positivo. Che apporti difficoltà o gioia, il modo [corretto, N.d.T.] in cui reagire ad esso è con calma, ricordando che “anche questo passerà”. Il saggio comprende che il destino gli fornisce un’altra opportunità di “abbandonare” l’attaccamento materiale, di restare calmo e di concentrarsi sulla consapevolezza dell’essere, della coscienza e della beatitudine soggiacenti.

Il libero arbitrio è un’illusione fino a quando si rimane schiavi delle paure e dei desideri dell’ego. Il libero arbitrio può essere esercitato solamente quando si è consapevoli e distaccati dai desideri e dai dualismi della vita. Coltivando il distacco si può vedere più in là di ciò che piace o meno, oltre il successo e il fallimento, la perdita e il guadagno, la gioia e il dolore, fino alla Verità delle cose. Dimorando nella consapevolezza del Vero, diventa possibile agire liberamente senza più essere asserviti a paure o desideri. In quanto strumenti devoti del Divino, si possono compiere azioni straordinarie. “Sia fatta non la mia, ma la tua volontà” diventa il mantra di chi si è liberato delle inclinazioni egoistiche, karmiche e illusorie. Diversamente, il “libero arbitrio” è un’illusione, nient’altro che un servo di desideri e preferenze egoistici. “Preferisco avere…” o “preferisco fare…”, dice l’ego. “Non ha importanza” e “sono amore”, dice l’anima. Patanjali parla del Kriya Yoga come di un rimedio all’ignoranza e all’egoismo: Kriya significa “azione consapevole” e la pratica sistematica rende capaci di usare consapevolezza in tutte le azioni in tutte le cinque

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dimensioni. Si tratta di un antidoto potente contro il karma, ovvero “azione con reazione”.

Un’eccessiva convinzione di essere predestinati rende schiavi del proprio karma attraverso le paure e una sorta di “Autorealizzazione delle profezie”: si tende ad attirare quello a cui si pensa. In genere un migliore utilizzo delle proprie energie e intelligenza consiste in un uso corretto della volontà, unitamente al discernimento che deriva dalle pratiche di meditazione e alla disciplina yoghica: si apprende a esercitare il controllo su ogni situazione che si manifesta. Uno yogi tenta di arrendersi a qualunque cosa accada e di purificarsi dai desideri, dalle preferenze e dalle paure, divenendo in tal modo uno strumento perfetto per il Signore. “Sia fatta non la mia, ma la tua volontà” diventa il suo motto, che in definitiva permette di superare la sensazione di separazione dal Divino.

Di seguito alcune pratiche indicate per sviluppare calma e “libero arbitrio”, e per attenuare gli effetti del fato:

1. Ripeti queste affermazioni: “Sia fatta non la mia, ma la tua volontà”, o ““Possa essere fatta la tua volontà e non la mia” e “Come tu desideri, come tu vuoi”.

2. Quando succede qualcosa di inaspettato, fai una pausa e rifletti prima di reagire. Liberati delle reazioni emotive.

3. Ricerca opportunità per apportare gioia agli altri. Accresci il tuo “merito” di karma positivo. Evita parole, pensieri ed azioni che possano provocare sofferenza agli altri.

Domanda numero 5: Cosa posso fare per superare il karma negativo?

I pensieri conducono a parole, che loro volta portano ad azioni che provocano reazioni karmiche. Ma il karma positivo può attenuare o perfino neutralizzare il karma negativo. Per esempio, potresti covare in te stesso molti pensieri di giudizio nei confronti di un amico, e un giorno il tuo giudizio scappa fuori sotto forma orale in sua presenza, e offendi il tuo amico. Rendendoti conto del tuo errore, più tardi ti scusi sinceramente e non perdi l’amicizia di quella persona. O ancora, prendi l’abitudine di arrabbiarti molto quando le cose non vanno come vorresti; fatto un esame di coscienza, incominci a reprimere la tua indole. Ma l’abitudine di esprimere la tua rabbia è radicata così nel profondo che ti è molto difficile evitarla. Potrai anche riconoscerlo e provare rimorso, ma

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continuerai a farti trascinare dalla forza del tuo temperamento, cioè la tendenza karmica che hai coltivato. Come la si può fermare?

Patanjali consiglia l’azione diretta: “Quando si è dominati da pensieri negativi, dovrebbe essere coltivato il loro contrario (pensieri positivi)”. Con “pensieri negativi” si riferisce a tutti quelli che portano a difficoltà nelle nostre relazioni umane così come a insoddisfazione personale, comportamento inconsapevole e confusione. Il che comprende i desideri, le paure, l’avidità, la lussuria, la disonestà, la menzogna, l’esagerazione e qualsiasi pensiero, parola o azione suscettibile di arrecare danno ad altri. Ad esempio, se nutri risentimento nei confronti di qualcuno, puoi sviluppare pensieri di perdono. Allo stesso modo, se hai delle paure, dovresti coltivare pensieri di coraggio e fiducia. Agire in contrasto ad attitudini o abitudini karmiche radicate nel profondo di noi richiede una pratica regolare e diligente di metodi quali l’affermazione e l’auto-suggestione. La mente del subconscio continua ad agire secondo suggestioni con cui è stata programmata fin dalla più tenera infanzia, anche nel caso in cui abbiano provocato dolore o sofferenza. Tali suggestioni ci arrivano dai nostri genitori, insegnanti, amici, dai mass-media e dai simboli e valori culturali di cui il nostro mondo è permeato. Invece di limitarsi a reprimere pensieri ed emozioni per così dire malsani, il che conduce a nevrosi, ognuno deve acquisire le competenze necessarie per neutralizzarli.

Attraverso l’identificazione e la categorizzazione di pensieri negativi ricorrenti è possibile respingere ciò che è malsano. Prendi un pensiero di “rabbia” ed elabora un’asserzione che lo neutralizzi. Un’asserzione è una dichiarazione al presente e in prima persona che esprime un cambiamento positivo nella propria vita. Per esempio, nel caso della rabbia potrebbe essere qualcosa come: “Quando succede qualcosa di inaspettato, mi piace rimanere nella posizione di calma del testimone, conscio del fatto che anche questa cosa è transitoria”. Quando ti trovi in una condizione di relax, ripeti lentamente la tua asserzione concentrandoti e attribuendole un’intenzione positiva; fallo dalle tre alle cinque volte, almeno tre volte al giorno per 21 giorni. Ad esempio, puoi fare la tua asserzione la sera prima di andare a dormire, alla fine di una meditazione o durante il periodo di rilassamento alla fine di una sessione di pratica yoghica.

Domanda numero 6: Che cos’è la grazia? Che cosa ha a che fare con il karma?

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Il concetto di grazia si trova negli insegnamenti della maggior parte delle religioni del mondo. Riflette la consapevolezza diffusa del fatto che le nostre preghiere trovano risposta in una fonte di benevolenza, a prescindere dal fatto che lo meritiamo o meno. Per mezzo del karma otteniamo ciò che meritiamo. Attraverso la grazia riceviamo ciò che innalza ed è edificante per la nostra anima, in risposta alla sua invocazione. Così come ogni azione, parola o pensiero comporta necessariamente una conseguenza o una reazione in accordo alla legge del karma, esiste una legge superiore per mezzo della quale l’invocazione sincera della nostra anima determina una risposta del Signore sotto forma di grazia. E questa grazia può attenuare il nostro karma.

Se fornire le argomentazioni per l’esistenza di un Essere Supremo esubera dallo scopo di questo scritto, è però pertinente ricordare come, dal momento che stiamo parlando di “karma”, la legge di causa ed effetto, sia ben plausibile concludere che ci debba essere una causa ultima per ogni causa minore. Ovvero una fonte di tutte le cause così come della conoscenza, che si ritiene essere il Creatore. Sono molte le domande che sorgono quando si inizia a riflettere sulla relazione tra il Creatore o Signore e il karma. Ad esempio, fino a che punto il Creatore è coinvolto nel karma delle singole anime? Patanjali ci dice: “Il Signore è il Sé straordinario, immune a ogni dolore, azione, conseguenza di azione (ovvero il karma) e a qualsiasi altra impressione interiore dei desideri” (Yoga Sutra, I, 24). Gesù ripeté questo concetto quando disse: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!” (Luca 17, 21). Patanjali arriva a dire che “Immune dai condizionamenti del tempo, egli [il Signore, N.d.T.] è il maestro anche dei più antichi maestri” (Yoga Sutra I, 26). Questo rivela che se il Signore è immune al karma e ai desideri, peraltro non ignora la nostra condizione umana. È il nostro più grande maestro e ci insegna attraverso il karma. Per mezzo della legge del karma ha creato una sorta di scuola per l’educazione delle nostre anime. A che scopo? Se l’obiettivo della conoscenza è di alleviare la sofferenza umana, quella stessa conoscenza, che elimina completamente la sofferenza, deve essere la più grande di tutte le conoscenze.

Gli antichi testi spirituali indiani parlano dei cinque atti del Signore: Creazione, Conservazione, Distruzione, Oscuramento e Grazia. Lo scopo dei cinque atti del Signore appena citati è aiutare le anime a liberarsi delle

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proprie impurità che impediscono loro di vedere il Signore. Come disse Gesù: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Matteo 5, 8). I cinque atti non sono messi in essere a titolo di svago, ma in ragione dell’amore del Signore verso le anime. Quindi, il Signore fornisce alle anime un corpo per risolvere il loro karma; le sostiene e le preserva per un po’ in modo che possano sperimentare gli effetti delle proprie azioni e trarne saggezza; concede loro riposo attraverso la distruzione del corpo; ne offusca la visione al fine di celare la loro vera natura di pura coscienza e da ultimo di gioia, risultante dall’equilibrio rispetto al karma; alla fine le affranca dalla schiavitù dell’illusione della separazione dal Signore. Perciò la totalità dei Suoi atti sono espressione della Sua Grazia: per mezzo di essi alla fine ci conduce verso di Lui.

Quando si cerca la felicità duratura in cose che non durano, ci si vincola alla sofferenza. Tutto è transitorio: i possedimenti, le relazioni, le circostanze, la condizione sociale, le opinioni, le emozioni e i pensieri. Anche dopo aver soddisfatto i propri desideri, ne insorgeranno sempre di nuovi, così come il desiderio o perfino il timore di perdere ciò che abbiamo, e quindi ulteriore sofferenza. Quindi solamente ciò che è permanente e infinito può essere fonte di felicità duratura. La saggezza consiste nel conoscere la differenza fra il permanente e il transitorio e, di conseguenza, nel saper distinguere ciò che è fonte di felicità da ciò che procura sofferenza. La “scuola” creata per noi in questo mondo dal nostro karma ci insegna tale differenza. Ovvero, questa “scuola”, il mondo, che comprende tutto quello che possiamo vedere, udire, odorare, toccare o gustare, così come ciò a cui possiamo pensare, in realtà esiste per la purificazione della nostra anima.

“Ciò che deve essere eliminato è la sofferenza futura”, ci dice il grande Yogi Patanjali in Yoga Sutra II, 16. In altre parole, non dobbiamo soffrire per essere felici! Se da un lato è ovvio messo in questi termini, d’altro canto la presenza del nostro condizionamento karmico, in interazione con le cinque cause di sofferenza citate più sopra, ci mantiene in una condizione di amnesia in rispetto a tale verità evidente. Così la consapevolezza costituisce un promemoria fondamentale o una sorta di “antidoto” per la nostra dimenticanza umana. Solo quando ci ricordiamo in ogni momento di ergerci a Testimone di ogni nostra azione, parola e pensiero, solo allora siamo in grado di superare il “dolore che si deve ancora manifestare” effetto della nostra riserva karmica. Possiamo stare a

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guardare il carico di pomodori marci dalla porta di casa e dire “Wow, guarda un po’”, ed evitare di farci assorbire dai “nostri problemi” al punto di dimenticare che “io non sono il problema” e che “anche questo passerà”.

La Grazia Divina è accessibile a tutti? Sì, ma solamente coloro che si sono preparati ne conoscono l’esistenza e aspirano ad essa. “La Grazia esiste in misura uguale per tutti. Ma ognuno di noi la riceve in ragione della sua sincerità”, disse una grande santa del ventesimo secolo conosciuta semplicemente come “La Madre”. Questo richiede coltivare il non attaccamento e l’equilibrio rispetto alle dualità della vita: piacere e non piacere, avere e non avere, ottenere e perdere, gioia e dolore. Sapendo che tutto è transitorio, il saggio rimane sempre consapevole di ciò che è eterno e infinito in mezzo a tutti i cambiamenti. Che il karma gli procuri gioia o dolore, il saggio li considera nello stesso modo: non si lascia entusiasmare né rattristare da alcuno dei due. Come disse Gesù nel Discorso della Montagna, [il saggio] non ripone il proprio tesoro in luoghi accessibili ai topi, ma in cielo. “Perché il Regno dei Cieli è dentro di voi”.

Quindi la Grazia Divina discende su ogni anima secondo il suo grado di aspirazione e di avanzamento.

Domanda numero 7: La consapevolezza può neutralizzare il karma?

Si ha consapevolezza quando parte della nostra coscienza si separa dalla parte coinvolta nelle dinamiche dei cinque sensi, del pensiero e di altri meccanismi della mente, e si limita a osservare senza intervenire. Si ha consapevolezza ogni volta che siamo completamente presenti in ciò che sta succedendo, e quando scegliamo di essere il Profeta o Testimone dello spettacolo della nostra vita. Si praticano diverse tecniche o “kriya” al fine di coltivare tale consapevolezza in tutti i cinque piani di esistenza: a livello fisico attraverso le posture fisiche dello Yoga; sul piano vitale per mezzo di specifiche tecniche di respirazione; a livello mentale attraverso varie tecniche di meditazione; sul piano intellettivo grazie all’uso di mantra, che sono suoni sacri veicoli di coscienza; e a livello spirituale, attraverso attività che si prestano a coltivare amore e devozione. SI tratta dell’aspetto pratico di tutte le religioni. La religione di una persona è un sistema di credenze in merito al suo rapporto con un Essere Supremo. Lo Yoga è ciò che la persona sceglie di fare per realizzare gli obiettivi della propria

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religione. La maggior parte delle funzioni religiose, ad esempio, implicano la pratica di ciò che viene chiamato bhakti yoga, ovvero il coltivare amore e devozione per il Signore.

La consapevolezza può attenuare gli effetti del karma, perché [grazie ad essa, N.d.T.] si può agire alla luce della saggezza. Si può meditare preventivamente e concedersi di farsi guidare da un Sé superiore. Pienamente presenti, calmi e concentrati, non ci si lascia più trascinare da attaccamenti o avversioni. D’altro canto, a livello di coscienza fisica ordinaria si reagisce alle forze della natura, che si manifestano attraverso differenti forme di karma, sospinti da impulsi legati alle abitudini. Per effetto di attaccamento, desideri e avversioni si continua a creare nuovo karma. A prescindere dal karma, siamo sotto l’effetto di tre modalità universali di forza naturale conosciuti come gunas: azione, inerzia ed equilibrio. In ragione del nostro ego, abbiamo tutti la tendenza a personalizzarli quando, ad esempio, diciamo “Sono stanco” o quando sentiamo la necessità di alzarci e fare qualcosa. Ma siamo costantemente sollecitati e spinti da queste forze. Mantenendo la consapevolezza attraverso la pratica, è peraltro possibile coltivare una condizione in cui si è “attivamente calmi e calmamente attivi”; il che rafforza la presenza, nella vita di una persona, di equilibrio, serenità, consapevolezza, distacco, essere, accettazione e amore. Questo costituisce un antidoto al nostro karma, che agisce attraverso le due altre più importanti forze della Natura: attività, attraverso l’attaccamento, con la sensazione di “essere colui che fa”; inerzia, dubbio e paura con sensazioni del tipo “Non posso”, “È troppo dura”, “Ho paura”. Praticando i diversi “kriya” dello Yoga, è possibile sviluppare sempre più all’interno di se stessi la modalità equilibrata della Natura e diventare padroni della propria vita. Si smette di perpetuare il karma: si esauriscono le vecchie tendenze karmiche. Si comprende che lo strumento è uno, e che quell’uno è davvero l’Osservatore.

Quanto descritto più sopra richiede una purificazione sistematica delle tendenze egoiche, quindi la consapevolezza implica anche l’auto-purificazione dall’eccesso di identificazione con il corpo, la mente, la personalità, e un distacco dagli impulsi negativi fatti propri dall’ego. Come risultato, si comprende la gioia incondizionata, o beatitudine, che prescinde dal fatto che si ottenga o meno ciò che si desidera, a livello fisico o emozionale. Rilassandosi ed essendo presenti in ogni data

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circostanza si diventa consapevoli in automatico, e l’effetto è che la beatitudine si manifesta in modo altrettanto automatico. L’Essere-coscienza-beatitudine diventa sia il veicolo che la meta perché il Signore è connotato come Essere Assoluto, Coscienza Assoluta e Beatitudine Assoluta. In questo modo è possibile realizzare come il mondo sia la Sua [del Signore, N.d.T.] auto-manifestazione. Si comprende il Signore e si trascende la Legge del Karma.

Mantenere sistematicamente la consapevolezza attraverso la pratica diventa così il passe-partout per liberarsi dalla legge del karma e per realizzare gli obiettivi ultimi del Dharma o della condotta virtuosa: l’Autorealizzazione e la Realizzazione di Dio.

3. Mi Piace e Non Mi Piace: la Malattia della Mente A mano a mano che approfondiamo la pratica dello yoga,

incominciamo a comprendere fino a che punto la nostra mente sia sballottata da cose che ci piacciono e da cose che non ci piacciono. Ci entusiasmiamo, ridiamo o ci sentiamo molto “felici” quando otteniamo qualcosa che desideriamo o facciamo l’esperienza di qualcosa di piacevole. Ci deprimiamo, siamo frustrati o ansiosi quando ci è negato ciò che desideriamo. Ci confrontiamo con questo durante tutta la nostra giornata tipo: al lavoro, con le nostre famiglie, nei momenti pubblici così come in quelli privati. Se da un lato non vediamo l’ora di ritrovare la pace del nostro cuscino di meditazione o del materassino per le asana, possiamo però fare molto in altri luoghi per superare questa “malattia” della mente.

In Sutra II, 7 Patanjali ci dice che “L’attaccamento è la dipendenza dal piacere”.

A causa della personalizzazione della coscienza e della sua falsante identificazione con uno specifico corpo e un sistema di pensieri e ricordi, nel nostro habitat siamo attratti da differenti esperienze in grado di procurarci piacere. L’attaccamento (ragah), come la paura, si origina dall’immaginazione (vikalpa). Questo si verifica quando confondiamo l’esperienza interiore della beatitudine (ananda) con un insieme di circostanze o fattori esterni, e chiamiamo piacere (sukham) questa relazione. Noi immaginiamo che il piacere dipenda dalla presenza di tali circostanze o fattori esterni. Quando questi ultimi non sono più presenti, facciamo l’esperienza dell’attaccamento, ovvero l’illusione che la gioia interiore non possa essere ritrovata a meno che, per così dire, noi

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possediamo i fattori esterni. L’attaccamento comporta dipendenza (anusayã) e, naturalmente, sofferenza (dukha). Anche una volta in possesso dei fattori esterni possiamo sperimentare l’attaccamento a causa della paura (immaginazione) di perderla. Comunque in realtà la beatitudine esiste autonomamente, incondizionata e indipendente da circostanze o fattori esterni. È sufficiente essere consapevoli per farne l’esperienza.

Patanjali continua dicendoci al versetto II, 8 che “L’avversione (il non mi piace) è dipendenza dalla sofferenza”.

Allo stesso modo siamo disgustati da varie esperienze nel nostro habitat. Si tratta di concetti relativi, per cui ciò che è doloroso per qualcuno, può risultare piacevole per un’altra persona. Esiste però una terza possibile risposta: il distacco (vairagya), che Patanjali propone quale pratica chiave per superare il doloroso e il piacevole (ved. I, 12 e I, 15).

Quando analizziamo a fondo un’esperienza dolorosa ponendoci nella prospettiva del testimone, le sue cause diventano chiare. Coltivando questa prospettiva di discernimento, e nel contempo anche pazienza e tolleranza, le preoccupazioni svaniscono. “Se il prezzo è la pace della nostra mente, costa troppo”. Spesso è impossibile modificare una condizione esterna, senza prima modificare la nostra percezione di essa. Per prima cosa dovremmo focalizzare la nostra volontà sulla liberazione e sull’accrescimento della nostra coscienza, in modo da evitare di reagire con avversione. Aspira a un cambiamento esterno, a una situazione più armoniosa. Accetta ogni lavoro che ti è stato attribuito nello spirito del karma yoga (servizio disinteressato), come training spirituale, per purificarti dall’attaccamento (raga) e dall’avversione (dvesa).

Sia “attaccamento” che “avversione” fanno parte delle cinque afflizioni che Patanjali descrive in Sutra II, 3: “Ignoranza, egoismo, attaccamento, avversione e aggrapparsi alla vita sono le cinque afflizioni”. Che impediscono l’Autorealizzazione. Per via dell’ignoranza di chi siamo realmente, confondiamo il Sé con il non Sé, l’imperituro con il transitorio. L’egoismo si sviluppa a causa dell’ignoranza. In II, 6 Patanjali ci dice: “L’egoismo è l’identificazione dei poteri dell’Osservatore (purusha) con quelli dello strumento della vista (prakriti)”. In altre parole, l’egoismo è l’abitudine di identificarsi con ciò che non siamo: la personalità corpo-mente, gli strumenti di cognizione, così come pensieri, sensazioni ed emozioni. Non riusciamo a comprendere che essi sono oggetti, meri

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riflessi della nostra consapevolezza. Questo porta alla personalizzazione della coscienza, una sorta di compiutezza materiale dell’io sono, e alla confusione della coscienza stessa con “sono il mio corpo”, “sono questo sentimento” ecc.

È possibile eliminare questa confusione soggetto-oggetto attraverso la pratica del distacco e del discernimento: senti in te stesso che in realtà non sei “colui che fa”, ma solamente l’Osservatore. Sii testimone e strumento, e rileva come ogni cosa viene fatta.

Per superare i “mi piace” e l’attaccamento, coltiva la consapevolezza prima, durante e dopo attività o circostanze piacevoli. Osserva come la beatitudine sia permanente per tutto il tempo in cui sei consapevole. Pratica l’abbandono dei sentimenti di attaccamento. E quando le cose vanno bene, ringrazia il Signore.

Per superare l’avversione o i “non mi piace”, compi ogni azione in modo altruista, investiti a fondo in ciò che fai e sii paziente. Coltiva l’equilibrio mentre compi ogni azione così come in relazione al risultato di essa. Quando le cose vanno male, assumitene la responsabilità e impara a fare meglio.

4. Dubbi Una tendenza frequente della parte intellettuale del nostro essere

consiste nel farsi invadere ogni tanto da dubbi. Spesso insorgono all’inizio di un percorso di yoga, o in occasione di situazioni difficili o fallimenti nel proprio percorso. È importante chiarire il ruolo dei dubbi in modo da utilizzarli in modo costruttivo invece di diventare la loro pallina da ping-pong.

In Yoga-sutra I, 31 Patanjali ci dice che il “dubbio” è uno dei nove ostacoli alla consapevolezza interiore. Dice “Il dubbio o samsaya è la tendenza della mente a fare domande, e quando non si accompagna a una ricerca di risposte, può rendere cinici e privare degli strumenti per continuare a compiere sforzi”.

Quando i dubbi spingono una persona a formulare domande chiare, attraverso la meditazione o rivolgendosi a un’altra persona, in quel momento stanno svolgendo un ruolo positivo. All’inizio si ignorano molte cose, come ad esempio il modo in cui affrontare le diverse reazioni del corpo o della mente, o del corpo vitale o della propria sensibilità

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accresciuta. Condividere con gli altri aiuta a trovare risposte. È utile utilizzare la quarta o la settima tecnica di meditazione apprese durante la prima iniziazione al Kriya Yoga di Babaji, soprattutto quando si ha bisogno di superare le reazioni emozionali associate a un dubbio. Quindi i dubbi posso essere positivi, se si fa uno sforzo per cercare risposte. Questo [processo] comincia esprimendo il dubbio sotto forma di una domanda precisa, per poi ricercare risposte in modo concreto. Possono essere necessarie delle letture così come l’esercizio della pazienza, in attesa dell’occasione di parlare con qualcuno che possa avere la risposta.

Troppo spesso, gli studenti alle prime armi lasciano che i dubbi diventino “negativi” perché non li esplicitano concretamente. Si limitano a diventare critici rispetto a ciò che hanno imparato o a se stessi. Si lamentano o giudicano. Di conseguenza, i dubbi “negativi” fanno loro interrompere le pratiche per confusione o scoraggiamento. Anche nel caso di un piccolissimo dubbio relativo a come praticare una specifica tecnica, lo studente potrebbe non praticarla per via di paura e confusione.

Troppo spesso le persone diventano ciniche, di conseguenza dubitano soltanto per il gusto di farlo. Una parte della mente può perfino trovare un piacere perverso nel sentimenti emozionali associati al dubbio, quali paura, depressione, rabbia. La maggior parte dei media è cinica, ed è facile farsi infettare da tale cinismo.

Bisogna anche rendersi conto dei limiti della comprensione nel modo in cui la intendiamo d’abitudine. Ecco come Sri Aurobindo l’ha descritta: “Per quanto concerne la comprensione, è la vostra mente fisica (quella parte che lavora attraverso i cinque sensi e i loro corrispettivi nel sottile) a voler comprendere, ma la mente fisica non è capace di comprendere queste cose da sola – perché non ne ha né la conoscenza né i mezzi per ottenerla. Tutto quello che la mente fisica può fare è tacere e permettere alla luce di invaderla, accettandola e non interponendo le proprie idee – poi progressivamente otterrà conoscenza…deve abbandonarsi… Nella sua parte più elevata la mente è consapevole di essere tutt’uno con il Divino in ogni modo e in ogni cosa – detenendo la conoscenza suprema, non è infastidita dalla propria ignoranza e impotenza a livello delle sue parti strumentali inferiori: guarda tutto con un sorriso e permane felice e luminosa” (Lettere sullo Yoga, pagg 1263, 1267).

Quindi i dubbi si manifestano nella dimensione intellettuale del nostro essere, spesso sostenuti nel corpo vitale da sentimenti quali la rabbia o lo

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scoraggiamento. Ma rendendosi conto del gioco della natura inferiore, l’animo saggio non si lascia turbare da essi, e sa che la verità stessa non può essere espressa: la si può solamente essere.

5. Sincerità “Nel Kriya Yoga di Babaji l’unica moneta ad avere valore è la

sincerità”. Questa frase, spesso ripetuta dal mio maestro, lo Yogi S.A.A. Ramaiah, costituisce uno splendido orientamento per compiere scelte nella tua vita. Il cammino spirituale è spesso lastricato di buone intenzioni che sono state dimenticate nel corso della battaglia della vita. Essere sincero significa armonizzare azioni, parole e pensieri. Essere sincero è portare avanti i tuoi propositi e fare ciò che dici che hai intenzione di fare. Significa determinare quali siano le tue priorità , in base ai tuoi valori più importanti, e tenerle a mente quando le circostanze ti richiedono tempo ed energie.

La sincerità ha diverse componenti: ricerca della verità, formulazione di intenzioni, dedizione a tali intenzioni, e perseveranza.

1. La ricerca della verità induce a interrogarsi e a riflettere sul significato della vita: Chi sono? Perché sono nato? Da dove vengo? Cosa mi succede dopo la morte? Esiste un Dio o Essere Supremo? E se esiste, come posso averne conoscenza? Perché esiste la sofferenza nel mondo? Come posso superare la sofferenza?

La ricerca di risposte a tali domande ti porterà a leggere ed esaminare la letteratura relativa ai grandi saggi e i testi sacri religiosi. Ma leggere è solamente un inizio, e non modificherà le tue inclinazioni umane. Potrebbe però indirizzarti verso il passo successivo, ovvero le discipline spirituali.

2. La formulazione di intenzioni è espressione della tua volontà di trovare, di comprendere, di sapere. Nasce dalla presa di coscienza del fatto che non vuoi più andare avanti senza conoscere la verità delle cose, senza conoscere l’amore incondizionato. Potrebbe anche nascere dalla comprensione del fatto che, fino a quando non trascendi le identità dell’ego, ti trovi in una sorta di prigione. Nasce da un’aspirazione, una chiamata dell’anima a diventare tutt’uno con Quello! Di conseguenza assumi un impegno rispetto a un percorso, una religione, una disciplina spirituale, o a Dio Stesso. SI tratta di una promessa che deve sgorgare dal

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tuo cuore. Può essere espressa durante una cerimonia formale così come in momento intimo di riflessione e decisione.

3. La perseveranza, il terzo elemento necessario per la sincerità, consiste in un’applicazione intensa e prolungata della tua volontà, di fronte a difficoltà e sofferenze, per continuare a dirigerti verso la realizzazione delle tue intenzioni. Si tratta essenzialmente di sopportazione. Non puoi alzare le braccia. Devi adottare il punto di vista per cui tutto questo è per la vita, e che gli apparenti fallimenti e i passaggi difficili alla fine condurranno al successo. La natura umana opporrà resistenza in virtù delle sue abitudini e del suo programmare a livello subcosciente. La perseveranza continuerà ad apportare consapevolezza e volontà a sopportare, ad “aspirare, a rifiutare la resistenza e, alla fine, ad arrendersi al processo”.

La pratica della sincerità nel contesto del Kriya Yoga:

Chi pratica il kriya yoga in modo sincero si immergerà ogni giorno nelle profondità della propria anima e ne trarrà l’esperienza dei più profondi valori di Amore, Pace e Verità. La mente e l’intelletto tradurranno tali esperienze in pensieri chiari e in percezioni a mano a mano che si affrontano i propri compiti. Al fine di mettere in asse il corpo e le sue inclinazioni e necessità con l’anima, le asana devono essere praticate ogni giorno con profonda, calma consapevolezza.

Al fine di mettere le emozioni e il movimento delle differenti correnti energetiche del corpo al servizio dell’anima e della psiche, pratica il Kriya Kundalini Pranayama e le connesse tecniche di pranayama, rammentando la loro origine Divina.

Al fine di sgretolare i falsi attaccamenti e identificazioni dell’ego, le sue preferenze, pratica i mantra il più spesso possibile, nel bel mezzo delle sfide di ogni giorno.

A quel punto i pensieri, le parole e le azioni della tua vita cominceranno a fluire come una sorta di corrente dalla tua anima, connessa al Divino. Saranno espressione della tua sincerità e porteranno gioia a te come agli altri.

6. L’Eterno Sorriso

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Succede spesso che la vita ci travolga con le sue preoccupazioni e distrazioni. Non è semplice spingere lo sguardo oltre l’apparenza delle onde del cambiamento per vedere Quell’Uno Eterno. L’esempio di coloro che sono illuminati può chiarire il concetto.

Il mio insegnante, lo Yogi S.A.A. Ramaiah, amava raccontare la storia di “Chela Swami”, un’anima liberata che fu il guru di sua madre Thaivani Achi. Quando Ramaiah era ragazzo, questo santo sadhu [Chela Swami] si recava di frequente nella proprietà di famiglia e spesso si comportava come un pazzo e non indossava vestiti, ma era sempre sorridente. A volte sua madre diceva sospirando: “è così tanto che non vedo Chela Swami, mi chiedo quando tornerà”. Ed entro uno o due giorni lui riappariva all’improvviso. Ogni volta che veniva, i bambini del vicinato gli rivolgevano la propria attenzione e lo consideravano uno scervellato. Gli davano una banana, e lui sorrideva, poi qualcuno [tra loro] gliela strappava di mano, e lui sorrideva. Uno di loro gli massaggiava i piedi, e lui sorrideva. Poi un altro di quei discoli sollevava polvere e gliela gettava addosso, e lui sorrideva.

Il mio insegnante terminava questa storia chiedendo al suo uditorio: “Perché pensate che sorridesse sempre?”.

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CAPITOLO 2

Trovare il Cammino Spirituale

1. Il Guru Purnima e il Guru

Tamaso ma jyotir gamaya

Dall’irreale portaci al Reale

Dall’oscurità portaci alla Luce Dalla morte portaci all’Immortalità

Il Guru Purnima è la festa durante il quale i fedeli celebrano il Guru.

Lo abbiamo celebrato nel luglio 2004 all’Ashram del Quebec. È stata una notte magica, una notte mite e illuminata da una pallida luna piena. Più tardi quella stessa notte scoppiò un violento temporale che ci incusse soggezione.

Purnima significa “giorno di luna piena”. Il Guru Purnima è il giorno con la luna più piena di tutto l’anno. Normalmente cade in luglio, poco tempo dopo il solstizio d’estate.

“Gu” significa oscurità e “ru” significa luce. Quindi Guru significa “dissipatore dell’oscurità”. Il Guru Purnima è il giorno in cui si dice che i raggi del sole toccarono la Terra per la prima volta. È il giorno della saggezza, il giorno della luce.

Il Guru Purnima rappresenta l’inizio dell’anno spirituale. Segna l’inizio del chaturmas – un periodo sacro di quattro mesi di temperanza e attività spirituale. In questo giorno gli aspiranti offrono al maestro le

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propria devozione ed i frutti della loro pratica sotto forma di gratitudine e amore. Ogni discepolo effettua un nuovo sankalpa, un voto che esprime la sua intenzione di praticare di più, di comprendere più a fondo gli insegnamenti del Guru, di fare Guru Seva e di rendersi degno di ricevere la grazia del Guru stesso. Nel Guru Purnima si cerca la benedizione del proprio Guru. In questo giorno, concentrandosi sul Guru, attraverso la propria mente, il proprio prana, il proprio Sé, è possibile fare una profonda esperienza, o darshan, del Guru.

Chi è il Guru?

Il Guru è un precettore spirituale che inizia i suoi discepoli al cammino spirituale e li guida verso la liberazione. Il Guru è qualcuno che ha realizzato la sua identità con la fonte assoluta di ogni cosa e che si assume la responsabilità di guidare altri a tale presa di coscienza. In tale veste il Signore si è manifestato sotto le spoglie del Guru. Per coloro che non hanno un Guru corporeo, il Signore stesso è il Guru.

Un Guru corporeo può fondersi con la Coscienza e la Beatitudine dell’Essere Assoluto, lasciando il piano fisico, ma rimane sempre a disposizione e permane nella volontà di aiutare gli aspiranti sinceri. Il Guru in forma sottile costituisce una grazia concessa del potere di Dio. Guru, Dio, Sé, coscienza che pervade ogni cosa, Shakti, tutt’uno. Si dice che quando un discepolo canta il mantra del Guru e medita sul suo Guru, anche se questi non è presente in un corpo fisico, può comunque sentire la corrente di pensieri elevati che gli giungono dal discepolo. Nell’ampia distesa della supercoscienza, il Guru è sensibile alle vibrazioni dei pensieri elevati e in mezzo ad essi da forma a una sottile linea abbagliante di luce: questa è la luce del potere della grazia.

Il Guru tattva o principio Guru è il principio secondo il quale la Natura crea, sostenta e distrugge tutta la vita, sia nel nostro universo interiore che in quello esterno, in qualsiasi modo si renda necessario per farci passare dall’ignoranza alla saggezza, dall’egoismo all’Autorealizzazione. Poiché esiste da prima che l’universo venisse creato, trascende lo spazio e il tempo. Il principio Guru esiste all’interno di ognuno ed è il Sé interiore, perciò quando veneriamo il Guru esterno, veneriamo anche il nostro proprio Sé. Si tratta dell’impersonale Shakti, la forza spontanea che crea qualunque cosa sia necessaria all’espansione del sadhana. È più potente del guru esterno perché è sempre accessibile.

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Il Guru e i Gunas.

Il termine “guru” deriva dalla parola “gunas”- I gunas sono i modi secondo i quali la Natura si manifesta. Sono tre: rajas o attività; tamas o inerzia; sattva o equilibrio. Il Guru è qualcuno che mostra all’aspirante come superare l’influenza di rajas e tamas e consolidarsi nel sattva. Normalmente la nostra natura umana ci fa andare avanti e indietro tra attività e inerzia. Funziona secondo un ciclo quotidiano. Alcuni di noi si svegliano al mattino riempiti di così tanto tamas (inerzia) da avere difficoltà ad alzarsi dal letto. Ma dopo aver fatto una doccia o aver bevuto acqua, tè o caffè, o dopo aver fatto un po’ di ginnastica cominciamo a sentire la forza dell’attività. La Natura ci fa muovere secondo una forza universale. Quando la forza di rajas raggiunge il suo apice, può capitarci di provare una grande irrequietezza. In ogni caso, con il proseguire del giorno iniziamo a sentirci gradualmente stanchi. Alla fine della giornata, quando siamo pronti per tornare a casa, è tamas (inerzia) a predominare. In conclusione, a fine serata facciamo ritorno alla condizione di sonno in cui tamas predomina. Raramente ci troviamo nella condizione di sattva (equilibrio), che è caratterizzata da sensazioni di calma, soddisfazione, chiarezza mentale, gioia, amore e distacco. Il Guru ci insegna che lo Yoga ha come effetto di ridurre l’influenza di rajas e tamas e di incrementare l’influenza di sattva nelle nostre vite. Di primo mattino la pratica delle posture di yoga e del pranayama ci infonde energia e ci aiuta a scuoterci di dosso le emozioni legate all’inerzia. E poi la pratica nelle ore serali può aiutarci a controllare effetti dello stress quali agitazione e nervosismo, e ad avere un sonno tranquillo. Determinano un equilibrio liberando corpo e mente sia dall’inerzia che dall’agitazione in eccesso. La pratica di meditazione e mantra produce effetti simili sui corpi vitale e mentale. Tutte queste pratiche favoriscono omeostasi [stabilità, N.d.T.] e serenità, ovvero i prerequisiti per entrare e consolidarsi nella prospettiva del Sé, o anima, nella dimensione spirituale. Pertanto il Guru può essere semplicemente percepito come “gli insegnamenti e la saggezza” che ci derivano da un acharya (insegnante) di una tradizione di tecniche yoghiche che ci conducono all’ingresso dell’Autorealizzazione.

Abbiamo bisogno di un Guru?

Con poche eccezioni, tutte le anime che si incarnano in questo mondo lo fanno perché sono ancora legate alla dualità. Nozioni di “mi piace” e “non mi piace”, ottenere e perdere, alto e basso, buono e cattivo, ci

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agitano in permanenza. L’identificazione con il corpo-mente è talmente forte da far sì che esse vengano trascinate nella trappola di ignoranza dell’ego e lo riconoscano come la propria identità reale. Di conseguenza, ognuno ha effettivamente bisogno della grazia e della guida di un Guru, a livello esterno o sottile, fino a che non abbiano realizzato il Sé.

Il Guru e gli Insegnamenti del Guru sono tutt’uno. Si può progredire a livello spirituale soltanto applicando gli insegnamenti. Se leggere libri spirituali può indicare la direzione, non sono i libri a fornire l’esperienza essenziale o grazia divina, che si produce quando si abbandona la limitata prospettiva dell’ego. Che si tratti di Karma Yoga, il cammino di servizio disinteressato al Signore; o di Bhakti Yoga, il cammino di devozione al Signore; o ancora di Jnana Yoga o Raja Yoga, i cammini che conducono alla Conoscenza del Signore, attraverso la pratica del sadhana stabilita dal Guru è necessario avanzare nel processo di superamento dei samskara o inclinazioni abituali che ci legano al mondo della dualità.

Come sapere quando si è trovato il proprio Guru?

Dovresti rivolgerti al Guru con profonda umiltà, sincerità e rispetto. La tua attitudine dovrebbe essere animata da un grande interesse e una forte volontà di ricevere gli insegnamenti del Guru. Se in presenza del tuo Guru, che sia in forma fisica o sottile, sei in pace e senti i tuoi dubbi fugarsi, allora dovresti accettare Lui come Guru. Ma devi sapere che, se “accetti” qualcuno come tuo Guru, significa che Lui, molto tempo prima, ti ha accettato come discepolo. Non avresti mai potuto accettarlo senza che Lui prima avesse accettato te. E sappi che avrai trovato il tuo Guru se ricevi le risposte prima ancora di formulare le domande. Apprenderai esattamente ciò che hai bisogno di conoscere nel momento in cui hai bisogno di conoscerlo.

Fino a quel momento, il migliore, e forse l’unico modo per trovare il tuo Guru consiste nel prepararti diligentemente. Si dice che il Guru si manifesta quando il discepolo è pronto, cioè quando il chakra del tuo cuore si apre. Quindi, in veste di discepolo, dedicati con impegno alla disciplina yoghica e agli insegnamenti di un Guru. Verificane gli effetti su di te. Il Guru e gli Insegnamenti del Guru sono tutt’uno. Un vero Guru metterà in rilievo gli insegnamenti invece della propria persona.

La conoscenza spirituale viene tramandata dal Guru ai discepoli. Gli insegnamenti del Guru sono chiamati Upadesh, che significa “vicino al

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luogo”. L’obiettivo degli Upadesh è far apparire vicino un oggetto distante. Il Guru fa comprendere al discepolo che il Divino, l’Essere Assoluto, la Coscienza e la Beatitudine, che il discepolo crede essere distanti e diversi da se stesso, sono in realtà vicini e non differenti da lui. Un discepolo apprende lo Yoga per mezzo di una pratica coscienziosa degli insegnamenti stabiliti dal Guru, di un sincero auto-esame di sé e attraverso il servizio al Guru.

Il Guru Interiore

Se è vero che alla fine il discepolo dovrà un giorno trascendere il Guru esterno e scoprire il Guru come principio spirituale o tattva al proprio interno, nella propria precipitazione di ottenere l’illuminazione i discepoli occidentali abbandonano spesso il Guru esterno prematuramente. Il che fa loro correre il rischio di fare ulteriore confusione nella palude dell’egoismo.

L’unico Guru interiore accessibile all’individuo medio è l’ego-sé. L’ego-sé ci allontana dall’illuminazione e spinge il discepolo più a fondo nell’ignoranza, nella confusione, nell’auto-inganno, e alla fine nella disperazione.

Poteri del Guru: il Guru può essere compreso secondo i suoi poteri e funzioni:

1. Il Guru come Iniziatore: il Guru si assume la responsabilità di assistere la nascita del discepolo nella dimensione spirituale, e per farlo transmette conoscenze esoteriche che iniziano la liberazione e l’illuminazione del discepolo.

2. Il Guru come trasmettitore: un Guru è un docente che non si limita a insegnare o comunicare conoscenze come fa un acharya, ma trasmette saggezza, e in ragione della propria reale natura rivela la realtà spirituale. Inizia e corrobora il processo spirituale del discepolo. Quando il Guru non è ancora completamente liberato, la trasmissione è soprattutto basata sulla volontà e sugli sforzi dell’insegnante. È probabile che la grazie divina utilizzi come veicolo questo tipo di Guru.

3. Il Guru come guida: il Guru può svolgere il suo ruolo di guida attraverso l’insegnamento verbale; come esempio vivente; attraverso la spiegazione orale o il commentario di testi sacri, per trasmetterne il significato più profondo. Il guru, in virtù degli insegnamenti trasmessigli

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dal suo o dai suoi insegnanti, così come alla luce della propria esperienza e grado di realizzazione, è in grado di trasformare insegnamenti scritti in parola vivente.

4. Il Guru come illuminatore: il Guru è colui che rimuove le tenebre spirituali e restituisce la vista alle persone che non riescono a vedere il proprio Sé reale. Questo dipende dal grado di Autorealizzazione del Guru.

5. Il guru come disturbatore delle convenzioni: Il Guru nuota contro la corrente dei valori e degli obiettivi convenzionali. Il suo messaggio è chiaro, ci chiede di: vivere secondo la nostra coscienza, esaminare le nostre motivazioni, trascendere le passioni egoiche, superare la nostra cecità intellettuale, vivere in pace con gli altri, e realizzare il più importante nucleo della natura umana, lo Spirito. Questo infastidisce coloro che investono la totalità delle proprie energie nel perseguire valori convenzionali.

6. La condizione di discepolo e il Guru: Per beneficiare della trasmissione di saggezza liberatoria da parte del Guru, si deve instaurare con il Guru stesso un intenso rapporto volto alla trasformazione; questo viene detto condizione di discepolo ed implica: un profondo impegno all’auto-trasformazione; obbedienza a un percorso di disciplina attraverso il quale la mente viene liberata dal suo modo di pensare convenzionale; e uno sguardo amorevole da parte del Guru, che deve essere essenzialmente visto come una funzione cosmica e non come un individuo. Il Guru non è tanto interessato a una relazione interpersonale, quanto piuttosto ad eliminare l’illusione della condizione di discepolo e condurre il discepolo stesso alla realizzazione del Sé supremo.

7. L’autorità del Guru: questo compito del guru ha effetto quando in lui coesistono prajna (discernimento) e karuna (compassione)., che sono esse stesse capacità sovraindividuali rivolte verso il Sé invece che verso la limitata personalità umana. Se il Guru si limita a essere compassionevole, non potrà condurre il discepolo fuori dall’illusione, e il discepolo confonderà la compassione con amore per quello che il discepolo stesso è in quel momento. Il Guru ama il discepolo per la sua reale natura, il Sé supremo. Se il Guru fosse solamente saggio, ma mancasse di compassione, è molto probabile che il discepolo sarebbe schiacciato dal peso di ciò che è necessario per l’auto-trasformazione. I discepoli sono inclini a malintesi,

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proiezioni, illusioni e fissazioni che impediscono o ritardano lo stabilirsi di un rapporto costruttivo con il Guru.

Connettersi al Guru: abbandono e grazia

Le tradizioni yoghiche descrivono diversi luoghi che sono sedi di Guru nel sistema sottile; tra queste la più importante è il sahasrara. Inoltre il Guru viene anche percepito interiormente sotto forma di suoni sottili, Il Guru interiore può essere sperimentato senza forma, come Silenzio e Infinita Vastità del cuore esteso. Il nostro reale guru interiore vive nel sahasrara ed è accessibile e associato al nostro utilizzo dei mantra. Il tipo di iniziazione privilegiato dai Siddha consiste nell’avere i piedi del Guru sulla sommità della testa del discepolo. Il Guru trasmette la sua shakti per mezzo del Suo mantra. La shakti entra nel discepolo quando questi canta il mantra del proprio Guru: il mantra è una manifestazione del Guru stesso.

L’abbandono è di importanza critica. Abbandonarsi al Guru condurrà all’iniziazione, in un modo o nell’altro. Solo grazie all’abbandono è possibile unirsi all’Essere Cosmico e trarne la sua grazia immensa. La grazia rimuove tutti gli ostacoli che impediscono l’unione perfetta. Abbandono e grazia sono complementari l’uno per l’altra. Il Guru detiene una riserva infinita di energia spirituale, ricevuta dall’Essere Supremo, che può ritrasmettere ai propri discepoli. Solo il discepolo che si è abbandonato può assorbire le poderose correnti di energia spirituale che gli affluiscono dal Guru secondo il grado di fede e devozione al Guru stesso.

Porgere il saluto al Tuo Guru e ai Guru in tutte le manifestazioni

Guarda al Guru con profondo amore. È importante tenere il Guru nel proprio cuore, essere con Lui/Lei in linea di principio e rimanere in sintonia con Lui/Lei. [Seguono differenti saluti al Guru, N.d.T.]

• Saluto al Guru, che è il Pranava che tutto permea, il suono “Aum”.

• Saluto al Guru, che è indicato dal termine sat chit ananda, che significa essere assoluto, coscienza e beatitudine.

• Saluto al Guru, che è il distruttore dell’ignoranza.

• Saluto al Guru, che è consolidato nella suprema “Io-coscienza”.

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• Saluto al Guru, che è il potere di Dio di concedere Grazia.

• Saluto al Guru, che è conoscenza suprema, intelletto, memoria, illusione, causa ed effetto di ogni cosa.

• Saluto al Guru, che ha reso possibile realizzare Lei in quanto Sé Universale, presente in tutti gli esseri così come tutti gli essere esistono in Lei.

• Saluto al Guru, che ci parla per mezzo della piccola voce della nostra intuizione.

• Saluto al nostro Guru, Kriya Babaji Nagaraj, che è il Guru di tutti i Guru, e che ci rende possibile comprendere che la nostra anima è l’anima di tutti gli esseri.

• Saluti più e più volte a Kriya Babaji, che attraverso i Suoi infiniti grazia e potere benevolmente conduce i suoi devoti da una tappa all’altra e fa esprimere le loro energie fisiche e intellettuali latenti; che permette loro di realizzare l’estasi del trascendimento fisico e la suprema felicità mentale, e alla fine ci conduce alla Sua unione con l’Essere Supremo. Possa la Sua grazia riversarsi su tutti noi.

Meditazioni sul Guru

• Canta il tuo mantra e medita sulla manifestazione del Guru che hai scelto, e adora i sacri piedi del Guru. I piedi del Guru sono la manifestazione dell’energia del Guru nel corpo sottile. I piedi o i sandali contengono il potere liberatorio del mantra

• Tieni ben a mente l’aspetto e gli attributi del Guru, rifletti su di essi e segui con affezione i Suoi insegnamenti e istruzioni

• Medita sul Guru con la sua figura (saguna). Questa gurubhava (devozione) è un modo efficace per rafforzare la relazione guru-discepolo. Medita sul Guru, immaginando che Egli sia in ogni parte di Te. Lascia che il tuo corpo sia colmato da Lui. Ricorda che proprio come un tessuto è costituito di fili, con tessuto presente in ogni filo, allo stesso modo tu sei nel Guru, e Lui in te. Con questo tipo di visione, guarda al Guru e te stesso come a una cosa sola. Non lasciare che vi siano differenze tra Babaji e te, Continua a ripetere mentalmente “Guru Om”. Impianta il Guru in ogni parte

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del tuo corpo, con un “Guru Om”, in modo che Babaji sia dentro di te.

2. Aspirazione “Levati, prostrati, abbandonati, abbraccia, interrogati:

Rivolgi in ogni modo un appello ai Sacri piedi del Signore. Questo procura i frutti di questa esistenza;

Stringilo con reverenza; Egli lo farà a sua volta” Tirumandiram, versetto 1499

Siamo impegnati, a livello individuale e collettivo, in un processo di

trasformazione che richiede il rifiuto della nostra vecchia natura umana e l’abbandono interiore all’Energia-Conscia Divina. Nonostante sia la religione che lo Yoga parlino della necessità di austerità e di abbandono alla Grazia e alla Volontà di Dio, il cammino e la meta dello Yoga sono completamente diversi da quelli della religione. Diversamente dalla religione, lo Yogin non cerca di lasciare questo mondo e trovare un qualche paradiso, né ripone fede in scritture o istituzioni religiose al di sopra della propria esperienza. Diversamente dalle religioni, lo Yoga fornisce metodi per fare esperienza della verità e per dominare la propria natura. Lo Yoga non condanna la nostra natura umana tacciandola di essere peccaminosa, né incoraggia la rinuncia ad essa, fornendo piuttosto i mezzi per purificarsi dall’ignoranza, dall’egoismo, dall’attaccamento e da tutto ciò che oppone resistenza alla discesa [in noi, N.d.T.] della grazia Divina mentre siamo in vita in questo mondo. La trasformazione è possibile solamente quando si ha conoscenza di come operarla in questo mondo. Solamente se armati di tale conoscenza, l’aspirazione sincera, il rifiuto e l’abbandono permettono alla grazia del Signore di discendere e trasformare la coscienza.

Cos’è necessario per la discesa della grazia per l’uomo religioso e per lo yogi? In entrambi i casi sono necessari volontà individuale, motivazione e aspirazione a rifiutare ciò che deve essere rifiutato, e abbracciare e arrendersi al Divino. La religione fornisce all’uomo una mappa stradale da seguire, ma non la valigia degli attrezzi. Lo Yoga offre la mappa e insieme ad essa un arsenale di strumenti per facilitare il processo.

In cosa l’aspirazione si differenzia dal desiderio? L’aspirazione non deve essere confusa con il desiderio, perché i desideri sono sempre

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manifestazioni dell’ego. L’ego cerca di essere distinto, speciale, superiore, e manifesta desideri per rafforzare questo suo modo di essere speciale, I desideri sono la manifestazione della sete e della fame insaziabile dell’ego-coscienza separatista. Ma a causa della sua innata limitatezza in termini di poteri e capacità, l’ego non può soddisfare il suo impellente desiderio di possesso assoluto e infinito. Di conseguenza c’è un divario incolmabile tra le sue richieste insistenti e i risultati effettivamente raggiunti. Questo origina un costante scontento. L’ego dimentica che, senza abbandonare il sentimento di separazione, è impossibile sperimentare l’unità divina e l’universalità. Perché l’ego vuole possedere il mondo senza sapere che questo può avvenire solamente sul percorso spirituale. Quindi l’ego percorre erroneamente la sua strada impossibile, il che equivale ad ammassare dall’esterno, da ciò che si percepisce come “non-sé”, sempre più oggetti di piacere per soddisfare la sua fame senza limiti.

Un’aspirazione sincera è l’esatto opposto di questo. È profondamente consapevole delle insufficienze e delle imperfezioni dell’esistenza sotto il vincolo dell’ego; pertanto cerca di mollare la presa dei desideri dell’ego. Ogni movimento dettato dall’aspirazione si dirige non verso l’ego-centro, ma lontano da esso. E da questo unico segnale, un sadhak può comprendere se la natura del suo impulso dominante del momento è quella di un desiderio o di un’aspirazione. Quindi un’aspirazione deriva da un desiderio ardente per l’amore divino, la luce, il bello, il buono, il puro e il progresso. Si accompagna a sforzi, forse anche veemenza, ma non conosce impazienza e frustrazione.

Come inizio a sviluppare l’aspirazione? A tappe, e di solito incomincia con una profonda insoddisfazione per le normali abitudini della condizione umana. Ti svegli una mattina e all’improvviso ti rendi conto di non voler più continuare a vivere inconsciamente, da ignaro, in una condizione in cui fai cose senza sapere perché, senti cose senza sapere perché, vivi secondo desideri contraddittori, vivi secondo abitudini, routine, reazioni, senza comprendere nulla. E questo non ti soddisfa più. Però puoi reagire in diversi modi a questa insoddisfazione.

Per la maggior parte della gente, la prima reazione dell’anima è un bisogno di sapere; per altri è “cosa dovrei fare per trovare un significato nella mia vita?” Questo interrogarsi può condurre, in un secondo tempo, a cercare con tutte le proprie forze di sfuggire ai grovigli del mondo al fine di trovare Verità, Amore, Pace, Felicità, Essere. In ragione del fatto che

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questi rappresentano, al massimo, ideali assai indeterminati, quello che dobbiamo fare è provocare un cambiamento nella personalità umana afflitta da ignoranza e imperfezione. In una terza fase, se continuiamo a perseverare, dopo un po’ di tempo la Grazia Divina replica attraverso aprendo una breccia temporanea nel velo dell’ignoranza, e possiamo fare esperienza della dimensione spirituale della vita. Possiamo allora vedere la Luce, sentire l’Amore Divino, o sperimentare la Beatitudine Divina, la Presenza, o la Verità, a seconda delle nostre capacità e del nostro orientamento. Questa esperienza sarà diversa da persona a persona, ma, a prescindere da questo, qualsiasi altra precedente esperienza della vita “normale” apparirà insignificante in confronto. In quarto grado, questa nuova apertura potrebbe chiudersi, quindi dobbiamo fare attenzione a non dimenticare le esperienze o a metterle in dubbio, e piuttosto mantenerle vivide e utilizzare costantemente la nostra aspirazione per farle riemergere. In quinto luogo, il sadhak si renderà conto che la sua attrazione verso una vita più elevata cresce gradualmente e nel contempo l’attaccamento alla vecchia vita meschina si affievolisce. Questo può manifestarsi non solo a livello interiore sui piani mentale e vitale, ma anche esternamente rispetto ad amici, lavoro e divertimenti. Il nuovo tipo di struggimento e di determinazione che pervade il cuore e lo spirito potrebbe essere espresso nel modo seguente: “O Signore, voglio te e soltanto te”. In una sesta fase, l’aspirazione si fa così intensa da non necessitare più né di parole né di preghiere, a livello orale o mentale. La fiamma del fuoco spirituale brucia e si erge saldamente sullo sfondo di un profondo silenzio. Un’intensa ricerca di appartenenza al Divino diviene un desiderio di Verità, di trasformazione, di perfezione. Al crescere dell’aspirazione, la grazia Divina replica introducendo un determinismo superiore, un dinamismo che può trasformare ogni cosa della nostra natura umana. Ma perché questo accada bisogna tenere a mente quanto segue.

1. Sii perseverante e coerente. Nutrire l’aspirazione un’ora o due per poi “dimenticarsene” per il resto del giorno, non porta da nessuna parte. Mantieni l’oggetto dell’aspirazione saldo nella tua coscienza per tutto il giorno.

2. Evita l’impazienza: induce solamente dubbio, bassezza, ribellione.

3. Ogni giorno, poniti per un po’ di tempo nella prospettiva del Testimone. Cogli il Divino in ogni cosa.

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4. Sii coerente nel respingere qualsiasi cosa della tua natura che cerchi di distrarti e sostituire il desiderio all’aspirazione.

3. Ricevere la Grazia del nostro Satguru Kriya Babaji Nagaraj

Il mio insegnante, lo Yogi S.A.A. Ramajah, citava spesso tre requisiti necessari per ricevere la grazia di Babaji. “La quantità di grazia che ricevi dipende da quanto sadhana fai, da quanto karma yoga o servizio rendi e da quanto amore e devozione manifesti”, era solito dire. Non solo a parole, ma anche nelle condizioni che ci poneva per vivere come residenti nel suo ashram o nei suoli altri centri. Che cosa intendeva dire esattamente con i termini: “grazia”, “sadhana”, “karma yoga” e “amore e devozione”? Come venivano applicati tali insegnamenti nelle vite dei suoi devoti studenti? Per il momento, una breve descrizione può aiutare gli studenti di Babaji a riuscire in questo campo e in tutti i cinque piani di esistenza.

La grazia

“Grazia” è una parola che si ritrova in molte tradizioni spirituali, e si riferisce a tutto ciò che riceviamo e ci aiuta ad evolvere e ad avvicinarci al Divino, fino a sperimentare il nostro “Essere Uno”. Spesso si manifesta sotto forma di circostanze fortuite, che riconosciamo come benedizioni, ma può anche manifestarsi come benedizioni sotto mentite spoglie, nascoste nella sofferenza derivante da una qualche perdita. Può anche essere l’oggetto di esperienze spirituali come Luce Divina, visioni, estasi o la discesa di una grande pace. Dal momento che ci perviene in modo involontario, normalmente la attribuiamo a qualche forza o entità esterna a noi, di solito la manifestazione del Divino a cui siamo maggiormente devoti o affini. Poiché attraversiamo spesso lunghi periodi in cui, malgrado i nostri sforzi, ci sembra di compiere solo piccoli passi in direzione della nostra evoluzione spirituale, chiediamo alla grazia Divina di aiutarci a raggiungere nuovi livelli di consapevolezza o esperienza. Sia la grazia che l’impegno sono necessari per avanzare. Senza un nostro impegno a rinunciare all’ego, non c’è spazio per la grazia nelle nostre vite. Se ci fermiamo alla coscienza egoica, ci attribuiamo il merito di tutte le cose positive che ci succedono e diamo la colpa a Dio per tutte le cose

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negative. Ma quando ci risvegliamo dal sonno della coscienza egoica ci rendiamo conto del fatto che è vero il contrario.

Il mio insegnante diceva spesso: “Tutto ciò che è bene lo si deve alla Grazia di Babaji, tutto ciò che è male è opera dell’ego”. Seguendo i propri egoistici impulsi dettati dal desiderio, così come dalla paura e dalla superbia, l’ego crea una catena di azioni e reazioni dolorose. Quando però purifichiamo il subconscio e risvegliamo la coscienza della Presenza del Divino, diveniamo allora testimoni e, guidati dalla coscienza, partecipi del dispiegarsi della Sua creazione: le piccole sollecitazioni della voce interiore nella calma della nostra anima vengono ascoltate e seguite; le trombe squillanti di ego, desiderio, paura e superbia vengono progressivamente ignorate.

Sadhana

“Sadhana” significa “disciplina” e si riferisce a tutti gli sforzi di ricordare coscientemente la presenza di Dio o di fare esperienza del Sé reale. Chi pratica lo yoga a tale scopo viene chiamato “sadhak”. Un “sadhak del Kriya Yoga” è qualcuno che segue il cammino del “Kriya Yoga di Babaji” praticandone le tecniche e seguendo gli insegnamenti di Babaji. Queste tecniche vengono insegnate nel corso di iniziazioni e ritiri, così come gli insegnamenti, che in larga misura possono anche essere trovati negli scritti pubblicati fino ad oggi. In sintesi sono conosciuti come “Tamil Kriya Yoga Siddhantam”. Dal momento che la maggior parte degli insegnamenti di Babaji sono stati trasmessi solamente per via orale, ci vorranno parecchi anni perché possano essere pubblicati sotto forma di libri e articoli di giornale. Gli insegnamenti di Babaji costituiscono davvero la parte più rilevante ovvero il compendio del “Tamil Yoga Siddhantam”, cioè gli insegnamenti dei 18 Yoga Siddha Tamil. I più importanti tra questi scritti includono “Thirumandiram”, (già pubblicato, una nuova edizione con commentario è in fase di ultimazione); l’opera completa di Boganathar (ora tradotta e pubblicata); e l’opera completa di Agastyar (che deve essere ancora catalogata nella sua interezza e venire tradotta). I due guru di Babaji furono Boganathar e Agastyar, ecco perché una pubblicazione dei loro insegnamenti si rende necessaria per una comprensione completa di quelli di Babaji stesso. Invece di scrivere anche lui, Babaji ha preferito cristallizzare gli insegnamenti ricevuti da questi due grandi Siddha, o esseri perfetti, in “kriya” o “tecniche yoghiche pratiche”, e promuoverne la divulgazione

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attraverso anime consacrate che ha potuto utilizzare come strumenti. Una di queste anime fu il mio insegnante, lo Yogi S.A.A. Ramaiah, le cui azioni furono tutte impregnate del nettare di devozione per Babaji. Era solito dire che, ad ogni modo, Babaji poteva innalzare un numero indeterminato di anime al livello di santi, saggi e Siddha, a condizione che esse si abbandonassero a Lui. Un’altra anima di questo tipo fu V.T. Neelakantan che, insieme allo Yogi Ramaiah, fondò nel 1938 il Kriya Babaji Sangah.

Un “sadhak” del Kriya Yoga è qualcuno che sta consciamente tentando di rinunciare alla coscienza dell’ego per [giungere a] una coscienza del Divino, attraverso la pratica sistematica delle tecniche e degli insegnamenti di Babaji e dei 18 Siddha. Il “Kriya Yoga sadhana” si riferisce alla pratiche di tutte le tecniche e attività prescritte nel quintuplice cammino integrato di Babaji: (1) il Kriya Hatha Yoga, che include asana, bandha e mudra per la purificazione del fisico; (2) il Kriya Kundalini Pranayama e le relative tecniche di respirazione per la circolazione dell’energia pranica nel corpo vitale al fine di operarne la trasformazione; (3) il Kriya Dhyana Yoga, ovvero l’arte scientifica di controllare la mente attraverso le sue tecniche di meditazione; (4) il Kriya Mantra Yoga, ovvero l’uso di sillabe aventi un suono potenziale al fine di invocare i diversi aspetti del Divino, risvegliare i chakra etc ; (5) il Kriya Bhakti Yoga, che consiste nel coltivare amore e devozione per Dio e la Sua creazione.

Grazie alla pratica sistematica di queste cinque fasi, la sofferenza provocata dalla coscienza egoica si dissolve gradualmente per essere sostituita dalla gioia nei cinque piani d’esistenza. Ad esempio, già con la sola pratica sistematica del Kriya Hatha Yoga sviluppiamo una migliore forma fisica, unitamente a una profonda distensione e tranquillità mentale. Questa nuova sensazione di forma fisica e pace ci libera dalle preoccupazioni relative al nostro corpo fisico e alla sua propensione verso malattia, inerzia e dolore. Siamo “resi disponibili” a sintonizzarci sulle parti più sottili del nostro essere e a liberare progressivamente il nostro Sé da preoccupazioni mentali ed emozionali che, come nodi, ci legano a dolorosi circuiti di azione-reazione.

Attraverso la pratica del Kriya Kundalini Pranayama e delle altre tecniche di respirazione prescritte, si fa esperienza di una grandissima quantità di energia che può servire da carburante per superare

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l’inclinazione a pigrizia, noncuranza e depressione, se indirizzata correttamente tramite le tecniche di meditazione del Kriya Dhyana. Combinando insieme pranayama e meditazione si diventa sempre più consapevoli della Presenza del Divino. Il Kriya Kundalini Pranayama conduce sempre più energia pratica verso i più elevati centri di consapevolezza nel corpo vitale: nel cuore, dove si manifesta sotto forma di un sempre maggior amore per Dio e per gli altri; nel centro della gola, attraverso più grandi facoltà di espressione a diversi livelli; nel centro della fronte, dove si traduce in intuizione, creatività, chiaroveggenza; e nel centro della corona, dove attua la coscienza cosmica permettendo quindi di sperimentare la Presenza del Divino in ogni luogo.

La pratica del Kriya Dhyana Yoga purifica il subconscio e aiuta a sostituire il modo abituale di pensare e di agire con la reale consapevolezza conscia di essere guidati in ogni attività. [Questo processo di purificazione] inizia durante brevi momenti nel corso delle sedute di meditazione quando si acquisisce consapevolezza di pensieri e sentimenti nella prospettiva del testimone, e progredisce fino a consentire di rimanere consapevoli durante le attività diurne, finanche durante il sonno. Si impara a prestare attenzione, e a discernere e respingere quei pensieri abitudinari che non aiutano a conservare la pace interiore. Alla fine porta a sperimentare il samadhi: in un primo tempo nello stato di comunione con Dio caratterizzato da assenza di respiro (“sarvikalpa” samadhi); poi, se sperimentato abbastanza spesso nella vita di ogni giorno, attraverso la continua esperienza di Dio in ogni cosa (“nirvikalpa” samadhi). In ogni caso l’ego, cioè l’abitudine di identificarsi con i propri pensieri – il che comprende il proprio nome, le relazioni, la storia personale e le ambizioni – permane fino a che non ci si abbandona completamente alla coscienza fino all’ultimo dei desideri o delle paure e fino al livello cellulare del proprio corpo fisico. Ciò richiede una grandissima quantità di sadhana e, fino a quando l’ego non sarà stato estirpato del tutto, continuerà a provocare danni in tutti i cinque corpi. Finché l’ego sarà presente a qualche livello del tuo essere non potrai raggiungere l’obiettivo del “Tamil Kriya Yoga Siddhantham”, che consiste nel “totale abbandono” al Divino. Ciò che denota questo totale abbandono è il “soruba Samadhi”, condizione nella quale le cellule del corpo fisico diventano per così dire “illuminate”, cioè guidate coscientemente dal Sé Supremo. La Grazia Divina discende in tutti i cinque livelli del tuo essere. Quando il corpo fisico si ammala o muore,

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anche nel caso dei più grandi santi è indice del fatto che quantomeno il loro veicolo fisico non è stato partecipe del loro abbandono e illuminazione.

L’immortalità fisica non c’entra. Una volta che tu ti sia completamente abbandonato seguirai le istruzioni del Divino. Ma la possibilità di un totale abbandono, ovvero l’obiettivo del Kriya Yoga, dipende da una realizzazione del Divino non soltanto a livello spirituale, come nel caso dei santi, e nemmeno solo a livello intellettuale, mentale e vitale, come nel caso rispettivamente dei saggi e dei Siddha. Si può ritenere che si siano completamente abbandonati al Divino solamente i più grandi fra i Siddha, i cosiddetti “Maha Siddha”, come testimoniato dai 18 Siddha, e quelli della “Teosofia”.

In quanto Sadak del Kriya Yoga devi aumentare gradualmente il tempo che dedichi a queste pratiche e imparare a integrare nelle attività quotidiane la consapevolezza coltivata nel corso di esse. La meditazione non è di per se stessa un obiettivo, ma un mezzo per giungere a uno scopo. Dovrebbe tradursi in una crescente consapevolezza in ogni singolo momento della vita. Tutte le tue esperienze divengono così un terreno di allenamento per la tua pratica di “sadhana” o ricordo della consapevolezza del Sé.

Karma Yoga

Il significato del termine “Kriya Yoga” potrebbe essere sintetizzato citando l’autorità massima, il Signore Krishna Stesso che ha detto “Fai il tuo dovere, ma lascia a me il frutto delle tue azioni”. Durante la cerimonia di iniziazione si offre della frutta per ricordare che queste parole si applicano anche alla nostra pratica dei Kriya.

Generalmente la gente è motivata a fare qualcosa in ragione delle aspettative o del desiderio di un qualche ritorno personale, che sia a livello finanziario, di notorietà o di divertimento. Ma come hanno scoperto i saggi, i desideri si auto-alimentano, creando sempre nuovi desideri e intrappolando le persone in un circolo vizioso in cui continuano a sorgerne di nuovi. Il risultato finale è sempre sofferenza, a prescindere dal fatto che si ottenga o meno ciò che si vuole. Se non lo si ottiene, nascono frustrazione e confusione; se invece lo si ottiene, insorge la paura di perderlo, oppure dopo un po’ l’oggetto del desiderio perde di attrattiva e diventa motivo di noia. La Legge del Karma dice “si raccoglie quello che

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si semina”, o per usare una parafrasi biblica “fai agli altri, ciò che vorresti venisse fatto a te”. O ancora “fai il bene, e alla fine riceverai del bene; fai il male, e a tempo debito sarai ripagato della stessa moneta”. Finché abbiamo fiato in corpo non possiamo fare a meno di compiere azioni, per cui Krishna consiglia di commettere azioni che rispondano al nostro dovere e non si basino su desideri personali.

Per rinunciare gradualmente al condizionamento dell’agire per un tornaconto personale, Babaji ha chiesto ai suoi discepoli di iniziare con il dedicare diverse ore alla settimana al “karma yoga” o servizio disinteressato. Che si traduce nel rendere un qualche servizio senza attendersi nulla in cambio. Questo permette di canalizzare le proprie energie verso una sfera più elevata, al di là dei limitati desideri dell’ego, e di divenire un tramite per le forze universali dell’amore che cercano di esprimersi attraverso di noi.

Il mio insegnante dava grande importanza a questo e faceva sì che i suoi studenti si incontrassero una volta alla settimana a questo specifico proposito. In quegli anni in cui avevamo molti centri in tutto il mondo, il karma yoga spesso concerneva il loro sviluppo e manutenzione. Comprendeva anche sforzi per promuovere le attività del Kriya Yoga, nutrimento modesto (particolarmente in India) e qualunque cosa potesse aiutare il diffondersi del Kriya Yoga. Gli effetti personali erono considerevoli: ci si dimenticava dei propri problemi immaginari per diventare ispirati e forti a livello di pensiero, parola, azione. Eravamo in grado di attingere a una riserva di energia apparentemente inesauribile per realizzare molti splendidi progetti. In seguito queste creazioni sono sparite, ma questa è un’altra storia. Ciò che contava non era tanto quello che succedeva all’organizzazione né il suo sviluppo, quanto piuttosto lo sviluppo dell’Autorealizzazione a mano a mano che l’ego veniva dissolto dal karma yoga, così come la capacità di farsi strumento nelle mani del Maestro.

Nel karma yoga si incomincia come qualcuno che stia cercando di dare una mano o di fare qualcosa in modo altruistico, senza aspettarsi un ritorno. Questo succede nella, per così dire, fase di warm-up. Esistono ancora due o più di noi: “me” e “loro”. Però quando si diventa un karma yogi, non c’è qualcuno che agisca. Le cose accadono al di fuori delle infinitamente complesse interazioni di forze ed eventi, e “tu” non sei la causa di alcuna di esse. Chi tu sia o chi tu pensavi di essere cade nel

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dimenticatoio, lasciando spazio al puro Essere. Il concetto secondo cui “tutto ciò che è bene è frutto del Divino, tutto ciò che è male è frutto dell’ego” diventa evidente da Sé. Naturalmente il piccoletto, l’ego, non se ne va facilmente. Continua a scalpitare e a strillare.

AL fine di dare un bel calcio all’ego, il mio professore di solito ci faceva stare alzati fino a tardi in una sorta di maratona di karma yoga. Tra le altre cose, ogni tanto ci veniva chiesto, ad esempio, di uscire alle 2 del mattino per estirpare le erbacce (decisamente appropriato, ora comprendo la metafora del lavoro interiore in corso) e questo era prima di poter finalmente condividere il pasto serale preparato ore prima. Perché? In questo modo la parte di noi che era stanca e opponeva resistenze sarebbe stata abbandonata. In molti non resistevano a lungo a stare con lui: erano pochi a poter reggere all’intensità di questa pratica. La prima tecnica di meditazione e i mantra si rivelavano essere molto utili durante i cali ipoglicemici quando l’ego iniziava a ribellarsi.

Il mio insegnante era solito riferirsi al karma yoga da espletare come al “lavoro del Maestro”. Questa era un’espressione familiare per ciò che la letteratura sacra di induismo e buddismo definisce “dharma”, ovvero il nostro dovere o missione nella vita. Il nostro dharma viene rivelato a mano a mano che avanziamo, e si fa evidente quando impariamo ad ascoltare la nostra guida interiore. Quindi va di pari passo con tutti i “kriya” e porta al “Kriya” o “azione con consapevolezza”.

Perché ricevere la grazia dipenderebbe da quanto karma yoga facciamo? Non è come se ci fosse qualcuno che tenga il conto dei debiti e dei crediti per vedere se guadagnamo abbastanza punti per poter passare attraverso le porte del Paradiso! Piuttosto, il karma yoga è l’applicazione pratica della coscienza superiore a circostanze ordinarie normalmente dominate dal condizionamento del subconscio. Si tratta di portare amore dal regno della meditazione o attività devozionali nel cuore delle necessità umane per trasformarle. Non è servizio fine a se stesso, visto che il servizio potrebbe anche essere fatto con un’attitudine del tipo “quanto sono grande e bravo a fare questo…”. In pratica, si tratta di cacciare i desideri personali dalla mente, o almeno toglierli di mezzo per un po’. Questo lascia spazio al Divino perché si manifesti e quindi tu conosca il tuo Sé infinito.

A volte lo yoga viene definito “skill in action” (abilità nell’agire), e questo è un altro elemento importante del karma yoga. Quando qualcosa

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viene fatto bene, in genere significa che è stato fatto da qualcuno pienamente cosciente di ciò che stava facendo. Non lasciandosi distrarre dai meschini desideri della mente, l’intelligenza è capace di incanalarsi intensamente nella persona con forza e ispirazione.

A livello metafisico, il karma yoga insegna anche come agire senza creare ulteriore karma. Non si può sfuggire alle conseguenze delle proprie azioni passate, ma si può agire consciamente in qualsiasi specifico insieme di circostanze senza desiderio di un tornaconto personale, che al contrario porrebbe le basi per ulteriori reazioni karmiche. Per esempio, se qualcuno ci insulta verbalmente, possiamo scegliere di reagire senza perdere il controllo lasciandoci prendere dalla rabbia o dal desiderio di infliggere dolore: in questo modo evitiamo di rafforzare l’abitudine di arrabbiarci o di fare del male agli altri.

Incomincia ad agire secondo lo spirito del karma yoga. Dedica le tue azioni al Signore. Di’ “Om Tat Sat”, che significa “Dedico a Te” ogniqualvolta “tu” porti a termine qualcosa, ricevi un pagamento, fai qualcosa di bello per gli altri. Espandi il campo d’azione delle tue azioni facendo volontariato per qualche ora alla settimana, lasciando che sia l’amore a prendere l’iniziativa in te e a utilizzare i tuoi doni per espandere sempre più la tua sfera d’intervento. Lavora in modo disinteressato al fine di far conoscere il Kriya Yoga agli altri e di aiutare noi tutti a liberarci dalle catene del karma costruito dall’ego. E ricorda, tu non sei “colui che agisce”.

Amore e devozione

Lo yoga dell’amore e della devozione è stato descritto in modo appropriato da Siddhar Thirumoolar nel suo “Thirumandiram” al verso 270:

“L’ignorante blatera dicendo che Amore e Siva sono due, Ma nessuno sa veramente che Amore da solo è Siva

Se solo gli uomini sapessero che Amore e Siva sono lo stesso, Amore in quanto Siva, rimarrebbero in eterno”

e al verso 274: Adora il Signore con cuore intenerito dall’amore;

Cerca il Signore, con amore

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Quando indirizziamo il nostro amore a Dio Anch’Egli si rivolge a noi con amore”

e al verso 280: “Ciò che abbiamo disprezzato e ciò che abbiamo conseguito, Egli lo

conosce; il Signore, giusto, ricompensa in amore secondo il merito;

Colui che mosso da fervente ardore cerca Lui con cuore di amore A questi Egli , colmo di letizia, indirizza la Sua Grazia”

e al verso 283: Come l’amore che dolce si prova nell’atto sessuale,

parimenti, nel Grande Amore, sii lieto di soccombere a Lui; sì sublimato nell’Amore, chetati i tuoi sensi,

Unito in Suprema Beatitudine, possa Questo compiersi” e al verso 288:

“Il Signore Dio conosce coloro che, giorno e notte, Serban per Lui un cranno nel profondo del cuore, e innalzati nell’amore

Lo adorano ; A loro, saggi di luce interiore, in estatica inazione,

Egli viene, vicino vicino, innanzi a loro”

Questo ci ricorda il fatto che i mistici delle tradizioni spirituali in tutto il modno concordano sul fatto che l’amore è sia il mezzo per giungere all’Autorealizzazione che il risultato finale.

Come coltivare tali amore e devozione per Dio?

Cercando modi per provare amore nei confronti degli altri, che si tratti di manifestazioni divine, esseri umani, animali o piante. Quando riuscirai a meditare sulla grandezza di Dio in quanto essere impersonale, ovvero come “sat chit ananda” – che significa “Essere Assoluto, Coscienza Assoluta e Beatitudine Assoluta” – ti sentirai beato e inizierai a identificarti con questo. Quando contempli forme personificate del Divino quali Gesù, Buddha, Babaji o i Suoi dei e dee, stai anche iniziando a identificarti, grazie all’amore, alle loro qualità divine e alla loro natura essenziale. Questo può manifestarsi, ad esempio, quando partecipi a

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cerimonie spirituali o religiose, canti o salmodie devozionali, o durante la visita di luoghi sacri, dove contempli le immagini di personificazioni divine. Diventerai come ciò su cui più spesso riposano il tuo pensiero o la tua meditazione. Trai ispirazione da essi durante le prove e le sofferenze della vita per trovare la forza per superare gli ostacoli e la gioia per mantenere il sorriso. Interagisci con consapevolezza e cortesia con chiunque tu entri in contatto, sapendo che puoi incontrare il Signore proprio sulla tua porta di casa.

4. Essere Discepoli o Devoti? Quando una persona si sente attratta verso uno specifico insegnante o

percorso e inizia ad assorbire gli insegnamenti, è il momento in cui si può dire che tale persona è diventata un “devoto”. Una persona di questo tipo frequenta altri che si sentono similmente attratti verso quel percorso, ne studia gli insegnamenti, partecipa a conferenze e ad attività organizzate per informare e stimolare i partecipanti. Possono insorgere dubbi e interrogativi, e il devoto cerca risposte. A volte si tratta di un periodo agitato in ragione del conflitto con il vecchio modo di relazionarsi o comprendere, o anche perché i suoi cari non si sentono attratti allo stesso modo verso il nuovo percorso. L’insegnante può anche testare la sincerità del devoto. Non appena si applicano gli insegnamenti alla propria vita e si cercano risposte ai dubbi, si acquista fiducia nel loro valore e nasce la decisione che il percorso sia quello “giusto”. Oppure si avverte ancora la mancanza di qualcosa e si continua la ricerca. Come un frutto in fase di maturazione, a mano a mano che fa esperienza sul cammino nel devoto si manifestano colore e dolcezza, e si sviluppano maturità e fiducia. Durante questo periodo ci si può avvicinare ad altri insegnanti e insegnamenti, per confrontarli e testarli.

In ogni caso, a un certo punto si è pronti per assumersi l’impegno di diventare discepoli di un insegnante o solamente dell’insegnamento. Un discepolo è qualcuno che si è impegnato ad abbandonarsi, con la totalità del proprio essere, cuore, mente, corpo e anima, al suo insegnante. Tale impegno è irremovibile e a vita. Nel contesto culturale nordamericano. In cui la gente è abituata ad ottenere ciò che cerca nel più breve tempo possibile – diciamo due settimane – a prescindere che si tratti di cibo di rapida cottura, vestiti, prenotazioni, relazioni, o illuminazione spirituale, pochi individui sono predisposti ad andare fino in fondo al processo

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richiesto per assumere un tale impegno. Eccezion fatta per un sedicente guru o “Maharaj” che proponga loro l’illuminazione entro pochi mesi a patto che essi diventino suoi discepoli. Ancora più efficace se tale sedicente guru ne lusinga l’ego attribuendo loro nomi di discepoli spirituali e li mette in risalto affinché tutti li ammirino. Chi potrebbe resistere? È davvero semplice lasciarsi incantare da una tale ostentazione. Tristemente, quando l’infatuazione svanisce, e fissazioni e vuote promesse di questi venditori di illuminazione vengono alla luce, per coloro che sono in ricerca subentra il disincanto. Spesso questi ex discepoli esprimono duramente la loro delusione e criticano i loro insegnanti, anche se erano falsi “discepoli”. Chi nella cultura occidentale si sposerebbe senza prima essere corteggiato? Chi diventerebbe un discepolo senza prima diventare un devoto? Succederebbe solo nel Nord America, dove l’impegno preso con un insegnante o un insegnamento generalmente non è che una vuota promessa.

Bisognerebbe testare un insegnante e i relativi insegnamenti, e lasciar passare molto tempo prima di diventare suoi discepoli. Il guru dovrebbe testare la sincerità dei suoi devoti dando loro la possibilità affrontare i propri dubbi e di applicare gli insegnamenti prima di accollarseli come discepoli. Sfortunatamente ci sono pochi veri guru e ancor meno veri discepoli.

Rilassati, sii paziente, abbandona anche il desiderio di illuminazione, altrimenti potresti essere preda di qualche venditore privo di scrupoli. Tu sei Quello: non buttarlo via.

5. Il Significato dell’Iniziazione Nel Kriya Yoga di Babaji il significato dell’iniziazione viene spesso

trascurato. L’iniziazione è un atto sacro attraverso il quale a un individuo viene fatta fare una prima esperienza di un mezzo per realizzare una qualche verità. Quel mezzo è un kriya o “tecnica yoghica pratica”, e la verità è un portale verso Colui che è eterno ed infinito. Poiché questa verità si situa oltre il nome e la forma, non può essere comunicata attraverso parole o simboli. Può però essere sperimentata, e per fare questo è necessario un insegnante che sappia condividere la propria esperienza in merito alla verità. La tecnica diventa un veicolo grazie al quale l’insegnante condivide con il praticante il mezzo per realizzare la verità in se stesso.

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Durante l’iniziazione si ha sempre una trasmissione di energia e di coscienza tra l’iniziatore e il ricevente, anche se quest’ultimo non ne è consapevole. La trasmissione può non funzionare se lo studente è pieno di domande, dubbi o distrazioni. Perciòi l’iniziatore cerca di preparare il ricevente in precedenza e di tenere sotto controllo l’ambiente circostante in modo che i potenziali elementi di disturbo siano ridotti al minimo. L’iniziatore porta effettivamente dentro di sé la coscienza del ricevente e comincia a espanderla oltre gli abituali limiti mentali e vitali. Si ha una sorta di fusione tra i limiti mentali e vitali di iniziatore e recipiente, il che facilita enormemente il movimento della coscienza verso un piano superiore. Agendo in questo modo, l’iniziatore fa sì che il ricevente si apra all’esistenza della propria anima, o Sé superiore, che nella maggioranza degli individui rimane nascosta fino a quel momento. Grazie a questo innalzamento della coscienza del recipiente, quest’ultimo ha finalmente i primi barlumi della sua coscienza e del suo potere potenziali. Questo è ciò che significa la risalita della kundalini del discepolo. Molto spesso l’iniziazione non viene effettuata in modo forte durante una seduta iniziale, ma piuttosto in modo graduale lungo un certo periodo, a seconda della diligenza dello studente nel mettere in pratica ciò che ha imparato.

Perché l’iniziazione sia efficace sono essenziali due cose: la preparazione dello studente o ricevente, e la presenza di un iniziatore che abbia realizzato il proprio Sé. Se molti ricercatori spirituali pongono l’accento su quest’ultimo e ricercano un guru perfetto, pochi si preoccupano della propria preparazione. Forse è un difetto proprio della natura umana, cercare qualcuno che “lo faccia per noi”. Ovvero darci Autorealizzazione o realizzazione di Dio. Visto che il guru o l’insegnante lo indirizza nella giusta direzione, il ricercatore deve impegnarsi a seguire tali indicazioni: ma anche se si impegna a livello intellettuale per seguirle, fin troppo spesso la sua natura umana lo fa esitare in distrazioni, dubbi o desideri. Quindi, anche se trova l’insegnante perfetto, se non ha coltivato qualità come fede, perseveranza, sincerità e pazienza, l’iniziazione può rivelarsi inutile come seminare in un marciapiede di cemento.

Per questa ragione, tradizionalmente l’iniziazione era limitata solamente a coloro che si erano preparati, a volte per anni. Se le prime iniziazioni potevano essere aperte a un discreto numero di aspiranti, le iniziazioni più elevate venivano concesse solamente a coloro che avevano coltivato le qualità di un discepolo. Come disse Gesù, “molti sono

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chiamati, ma pochi vengono scelti”, solo pochi corrispondono ai duri requisiti necessari per diventare discepoli.

Un devoto è qualcuno che sta ricercando un percorso o un insegnante, e questo può durare a lungo, finché non sia pronto ad assumersi un impegno verso un insegnante o una disciplina. Si può saltare da un insegnante all’altro, ascoltare, osservare e sperimentare un po’, come un acquirente che faccia comparazioni. Alla fine di tale fase, si diventa discepoli, il che implica impegnarsi nella pratica della disciplina spirituale prescritta dall’insegnante. Dal momento che la disciplina spirituale richiede uno sforzo permanente per un lungo periodo di tempo perché se ne possano verificare i risultati, è necessario avere fede nel valore della pratica, perseveranza, sostegno da parte di un insegnante, e grazia divina. Se l’insegnante è autentico, sarà sempre disponibile per rispondere alle richieste dello studente o per trovare qualcuno che possa farlo. La grazia divina è sempre disponibile, se si sa come aprirsi ad essa. Quindi a essere problematiche sono la fede e la perseveranza dello studente. L’insegnante o il guru possono stimolare il processo per mezzo dell’iniziazione e fornire ispirazione e incoraggiamento, ma è lo studente che deve fare lo sforzo, con fiducia e perseveranza.

Se tu stessi imparando i kriya o tecniche senza iniziazione, sarebbero efficaci? Interpretando quanto detto più sopra, la risposta è no. Ecco perché cercare di imparare tecniche da libri o da insegnanti che non abbiano essi stessi fatto esperienza della verità di cui parlano, lascia lo studente privo di ispirazione. A conferire il potere delle tecniche è la fondamentale sacra trasmissione di energia e coscienza che si ha tra l’iniziatore e il ricevente. Ecco perché le tradizioni iniziatiche sono riuscite a trasmettere in modo così efficace l’esperienza diretta della verità da una generazione all’altra. La loro forza risiede nel potere e nella coscienza di coloro che hanno effettuato le pratiche intensamente e realizzato in tal modo la propria verità. Rendiamo onore al nostro Sé superiore quando onoriamo la nostra iniziazione mettendo in pratica con diligenza e regolarità ciò che abbiamo appreso e ricevuto durante l’iniziazione stessa.

6. Cos’è il Kriya Yoga di Babaji?

Babaji e il suo mantra

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Om Kriya Babaji Nama Aum. Non si può iniziare a parlare del Kriya Yoga di Babaji senza citare Kriya Babaji e il suo mantra, che ha il potere di accordare il proprio polso con quello di Babaji. Questo mantra può connettere la pulsazione di una persona a quella dell’Universo. Può sintonizzarci con la grazia del leggendario Siddha dell’Himalaya, Kriya Babaji Nagaraj. Per mezzo di esso Egli rivela Se stesso ai Suoi Devoti. Attraverso le tecniche di Kriya Yoga guida lo studente nel sadhana e indirettamente nella vita. Si dice che il Guru interiore che dimora nel sahasrara sia accessibile ed associato all’utilizzo del mantra da parte del discepolo. Il mantra è shakti, una potente energia. Il Guru trasmette la propria shakti attraverso il mantra e la shakti entra nel discepolo per mezzo del mantra stesso. Il mantra è una forma del Guru., perché il Guru è un principio della natura, un tattva. In quanto tale, è una forza che crea e sostenta la vita e dirige la totalità degli universi interiori ed esteriori. Il Guru tattva trascende le limitazioni di spazio e tempo, in quanto spazio e tempo sono prodotti di questo potenza creativa e vitale.

Il Principio del Guru esisteva ancor prima che l’universo fosse creato e, proprio come gli elementi acqua, terra, aria, fuoco ed etere, esiste da sempre al di fuori della creazione. Il principio del Guru si trova all’nterno di ognuno ed è il Sé interiore. Quando salmodiamo il mantra stiamo rendendo omaggio a questo Guru interiore, al nostro proprio Sé assoluto. Il Guru è il Sé, che è suprema coscienza e suprema beatitudine.

Spiegazione del mantra OM KRIYA BABAJI NAMA AUM

Om è pranaya, il suono che pervade il prana.

Kriya è uno dei tre tipi di shakti o energia: quella dell’azione o kriya shakti; quella della volontà o iccha shakti; e quella della saggezza o jnana shakti.

Babaji è la sorgente vivente del Kriya Yoga, il suo Satguru, la manifestazione del Signore come Padre…lo stesso Babaji che fu descritto da Paramahamsa Yogananda nel suo “Autobiografia di uno Yogi”.

Nama è “saluto” o “mi chiamo”.

Aum è il suono dell’universo all’interno di noi stessi. Nama Aum è un’invocazione o una preghiera a Quel Sé supremo, il Satguru.

Con l’aumentare della consapevolezza del Sé e del Sé Supremo, si può percepire la mano, o quantomeno un dito del Signore, in ogni

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circostanza. Si incomincia a intravedere il Signore. Nel momento in cui si stabilisce una relazione permanente con il Guru, si viene guidati in qualsiasi opera da compiere il Satguru ci affidi. Questo è il “Kriya Yoga”.

L’origine di questa Tradizione di Kriya Yoga

Kriya Babaji è un grande maestro di yoga che ha vissuto per secoli in Tibet e nel versante indiano dell’Himalaya relativamente nascosto rispetto al mondo esterno. Con la pubblicazione di Autobiografia di uno Yogi nel 1946, Paramahansa Yogananda ha portato a conoscenza di un vasto pubblico l’esistenza di Babaji. Secondo Yogananda, Babaji ha esercitato, rimanendo perlopiù nell’anonimato, un’enorme influenza in termini di elevazione spirituale operando attraverso innumerevoli persone.

In fatti Yogananda indica in Babaji il maestro che nel 1861 ha iniziato Lahiri Mahasaya alle tecniche di Kriya Yoga che lo hanno poi condotto all’Autorealizzazione. Lahiri a sua volta ha iniziato Sri Yukteswar, il quale in seguito ha rivelato le tecniche a Paramahansa Yogananda. Quest’ultimo nel 1920 ha fondato la Confraternita dell’Autorealizzazione (Self-Realization Fellowship, SRF) e, a partire dal suo trapasso nel 1952, questa organizzazione ha continuato fedelmente a divulgare i suoi insegnamenti attraverso libri e corsi per corrispondenza.

Questa tradizione di Kriya Yoga di Babaji deriva direttamente dall’antica tradizione indiana del Kriya, dai meastri realizzati del Siva Yoga, noti come i Diciotto Siddha. Babaji stesso ha avuto due guru principali, Agastyar e Boganathar. Il libro Babaji e la Tradizione dei 18 Kriya Siddha riporta i particolari che Babaji ha scelto di rivelare in merito all’inizio della sua vita con questi grandi Siddha. Questo libro, insieme a un altro che fu dettato da Babaji tra il 1952 e il 1953 a un discepolo conosciuto come V.T.Neelakantan e attualmente pubblicato con il titolo La Voce di Babaji: Trilogia sul Kriya Yoga, rivela i primi anni di una nuova missione che Babaji ha iniziato attraverso i suoi strumenti: V.T. Neelakantan e S.A.A. Ramaiah.

Il Kriya yoga di Babaji comprende 144 Kriya o tecniche che costituiscono un sistema progressivo, tradizionalmente trasmesso attraverso una serie di iniziazioni su un periodo di diversi anni. Questo particolare sistema a cinque braccia di Yoga è stato specificatamente trasmesso a Yogi S.A.A. Ramaiah, direttamente da Babaji in persona, in diversi mesi nel 1955 vicino a Badrinath, nell’Himalaya. La prima

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iniziazione comprende la fondamentale tecnica del Kriya Kundalini Pranayama, molto simile a quella insegnata attualmente dalla SRF. Paramahnsa Yogananda parlò della pratica del Kriya Kundalini Pranayama come del mezzo per accelerare il naturale progredire della Coscienza Divina negli esseri umani.

Nel 1983 Yogi Ramaiah, detto Yogiar, iniziò a preparare uno dei suoi studenti, Marshall Govindan, a insegnare le 144 tecniche con un rigoroso sistema di condizioni da adempiere. Nel 1983 Govindan aveva già praticato il Kriya Yoga per almeno 56 ore a settimana senza interruzioni in un arco di oltre dodici anni, un periodo ideale di cui Yogi Ramaiah aveva parlato spesso. Oltre a questo, nel 1981 Govindan portò a termine un anno di silenzio in ritiro, da solo, in una capanna sulla riva del mare in Sri Lanka, impegnandosi in una pratica non-stop di Yoga. Furono necessari altri tre anni a Govindan per adempiere alle condizioni aggiuntive, dopo di che Yogiar gli disse: “Adesso, attendi”. Yogiar spesso diceva che, una volta che avesse portato i suoi studenti ai piedi del “Guru”, la sua opera con loro era da considerarsi terminata. La vigilia di Natale del 1988, durante una serie di profondi esercizi spirituali, Govindan ricevette da Babaji un sorprendente messaggio: doveva lasciare l’ashram e l’organizzazione del suo insegnante e iniziare altri al Kriya Yoga.

Da quel momento in poi, la vita di Govindan fu diretta dalla continua e ispirante Luce del Guru, e e si focalizzò sul mostrare il cammino agli altri. Nel 1989 iniziò la sua vita in questa nuova direzione; le porte si aprivano automaticamente e tutto facilitava una nuova missione. Nel 1992 Govindan fondò l’Ashram del Kriya Yoga di Babaji in Quebec. Nel 1997 fondò l’ordine laico di insegnanti o Acharya conosciuto come Ordine degli Acharya del Kriya Yoga di Babaji. Si tratta di un’organizzazione benefica educativa esentasse, attualmente registrata in Canada, Stati Uniti, India e Sri Lanka. A tutt’oggi ci sono più di quindici acharya che insegnano in una dozzina di stati. A partire dal 2000 l’Ordine ha inoltre sponsorizzato la ricerca, conservazione, trascrizione, traduzione e pubblicazione degli scritti di tutti i 18 Siddha all’origine del Kriya Yoga di Babaji, e del libro La Voce di Babaji: Trilogia sul Kriya Yoga. Il Kriya Yoga di Babaji è un veicolo che può arricchire l’esistenza e condurre chiunque verso le mete ultime dell’esistenza stessa, Autorealizzazione e

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realizzazione di Dio. Questi preziosi testi costituiscono la carta stradale necessaria per tale veicolo.

Qual è l’obiettivo del Kriya Yoga di Babaji?

Il Kriya Yoga arricchisce l’esistenza. Fortifica il corpo, la mente e l’anima. Le sue differenti pratiche operano perché chi le utilizza sia in buona salute e il suo sistema nervoso sia rafforzato. Tutte le percezioni sensoriali diventano profonde e ben distinte, la mente e l’intelletto vengono splendidamente affinati. Vengono sviluppate le facoltà latenti dell’uomo ed aumenta il potere personale. Il Kriya yogi però non sviluppa maggiori energia e potere personale per i propri interessi privati, ma per diventare un membro maggiormente utile alla propria comunità. Il Kriya Yoga non è per i rinuciatari ma per coloro che intendono servire ed aiutare l’umanità stessa.

Lo Yoga è una scienza pratica del vivere una vita spirituale. Il Kriya è “azione con consapevolezza”. Perciò il Kriya Yoga deve essere conseguito attraverso e nell’attività, non solamente nelle cosiddette pratiche yoghiche ma nella vita di tutti i giorni.

Babaji parla del suo Kriya Yoga in La Voce di Babaji:

“Il sadhana non dovrebbe comportare un divorzio e una separazione dalla vita normale. Quest’ultima diventerà essa stessa un sadhana dinamico attraverso un cambiamento dell’angolo di visione. La natura considerevomente pratica del Kriya Yoga ne fa un ponte razionale tra l’idealismo della pura filosofia e il forte realismo della vita terrena. La sua rivendicazione sull’uomo moderno è quella di fissare con fermezza un giusto mezzo tra le speculazioni completamente astratte dei meri teorici e l’attitudine eccessivamente concreta accompagnata a un prosaico pragmatismo del materialista grossolano. Riguarda la vita trascendentale, eppure ti richiede di non dare nulla per scontato. Devi seguire determinati metodi, pervenire a risultati tangibili e sperimentarli nella tua propria esistenza. Il suo scopo è vasto. Punta a uno sviluppo integrale di tutte le facoltà nell’uomo. Si tratta perciò del precursore e del diretto messaggero della razza di superuomini verso la quale l’uomo attuale deve evolvere. Ha come propri obiettivi la creazione di un nuovo uomo profondamente illuminato e di elevata visione e, come risultato di tale illuminazione, l’instaurazione di un nuovo ordine mondiale, un satya yuga, un mondo di verità.

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Il mondo moderno abbonda di concezioni dello Yoga a partire dal profondamente mistico e saggio fino all’assurdo e al risibile. Visioni contrastanti e nozioni avventatamente fantasiose si sono moltiplicate attorno alle concezioni di Yoga e di sadhana. È diventata una sorta di convenzione evocare l’immagine di una figura emaciata, seminuda, imbrattata di cenere, con capelli infeltriti in stile rasta, seduta a gambe incrociate sotto un albero a chioma larga. In ragione di associazioni mentali così come di dannosi travisamenti che si sono protratti nel tempo, tali idee si sono profondamente radicate. I fenomeni extra-corporei che si verificano nella pratica dello Yoga e le esperienze sui piani più sottili di coloro che lo praticano sono guardate con sospetto e viste quasi come magia. Ora, questo punto dev’essere ben afferrato: il Kriya Yoga non è né fantasioso né comprende qualcosa di innaturale. Non è per pochi eletti. Non è uno strano processo innaturale operato da una ridotta minoranza per conseguire qualche strano o straordinario risultato. Il Kriya Yoga è un percorso razionale e comprovato dal tempo verso un’esistenza più completa e ricca di benedizioni che, in accordo con la natura, sarà seguito da tutti quanti nel mondo di domani. Non dipende dal possedere o dall’esercitare una qualsivoglia facoltà innaturale. Richiede semplicemente che tu sviluppi facoltà che già possiedi ma che giacciono addormentate all’interno di te. Il principale strumento che utilizza è qualcosa di comune a tutta l’umanità, segnatamente la mente umana.

Il Kriya Yoga quindi non è uno studio o una pratica riservata solo a solitari che vivono nelle grotte dell’Himalaya. Non è destinato solamente a chi si veste di cenci, ha una pietra al posto del cuscino, mangia ciò che ottiene semplicemente allungando i palmi delle mani, resiste al freddo a al caldo, e ha per tetto la volta del cielo. Il Kriya Yoga si indirizza in modo uguale a coloro che vivono in diverse posizioni sociali, vivono nel mondo e al servizio del mondo. Non si tratta di una proprietà solamente del samnyasin o dello yogi, ma di una proprietà universale. Si tratta di una materia universale che necessita studio profondo e pratica sincera, alla portata di cittadini che vivono in piccoli o grandi o centri abitati, così come di coloro che vivono nei paesi o nelle foreste. Si tratta di una scienza meravigliosa il cui unico frutto non è quello della discordia, ma quello della vera pace, che nasce dall’anima, che nasce dalla Beatitudine Infinita”.

“Il Kriya Yoga presenta il vantaggio unico di innumerevoli trasmissioni, di era in era e di uomo in uomo, fin nei suoi più piccoli dettagli. L’identità parola per parola e lettera per lettera di questi metodi costituisce il punto essenziale del Kriya Yoga”.

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“Ci sono una certa sacralità, magnificenza e purezza in metodi che sono ‘non toccati da mano umana’, quando si tratta di milioni. Non resta spazio per discussioni o per il minimo dubbio in merito alla purezza dei metodi. La fondamentale importanza dei Veda e delle scritture deriva non solo dall’inestimabile verità e saggezza racchiusa in essi, ma anche dalla garanzia che sono latori di una purezza dovuta al fatto che sono ‘non toccati da mano umana’”.

Svadharma: la nostra ragione di vita

L’obiettivo ultimo di noi tutti è lo stesso. Ciò a cui aspirano maggiormente nella vita i “cercatori” è la felicità permanente. I non-cercatori la ricercano soddisfacendo desideri temporanei, i cercatori vedono oltre tale felicità temporanea e ricercano qualcos’altro, qualcosa di più. Sanno che la loro insoddisfazione per l’appagamento del desiderio nasce dal loro essere interiore, che quell’essere interiore esercita pressioni e li spinge verso il loro svadharma: il loro dovere, la loro responsabilità di “conoscere il tuo Sé”, di “essere sincero verso il Sé”, di “conoscere ciò che sono venuti a fare e ad imparare”.

Veniamo a questo mondo e la maggior di noi da per scontato di non essere qui per studiare a fondo il significato delle nostre esistenze. Lo Yoga dice che esiste una sola ragione per cui ci troviamo sulla terra, ovvero il nostro svadharma. E il nostro svadharma non è propriamente essere felici: la ragione per cui siamo qui è conoscere il nostro Sé ed essere sinceri vero il nostro Sé. Conoscere chi siamo realmente e lasciar perdere ciò che non siamo. Perciò qualunque cosa noi facciamo per acquisire conoscenza di chi siamo e lasciar perdere ciò che non siamo costituisce importante sadhana. Questo è ciò che il Kriya Yoga di Babaji ci aiuta a fare. SI dice che stiamo tutti avanzando in tale direzione, che ne siamo consci o meno. In ogni caso, progrediremo più rapidamente se pratichiamo costantemente su scala quotidiana sadhana, pranayama, meditazione, Hatha Yoga, investighiamo il Sé e siamo devoti al Signore.

Secondo l’induismo esistono quattro obiettivi tra i propositi umani: il primo è ottenere ricchezza; il secondo consiste nel trarre piacere dal comfort fisico, dal benessere emozionale e dagli stimoli intellettuali; il terzo è vivere una vita onesta; il quarto è l’Autorealizzazione o liberazione. Il Kriya Yoga di Babaji può coadiuvarci in tutti questi quattro obiettivi in quanto è una tradizione spirituale messa a punto per risvegliarci e guidarci

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lungo questo cammino di Autorealizzazione. Ma è anche una disciplina pratica completa e un modo sincero per affrontare la vita e viverla pienamente. Questa tradizione deriva direttamente dai Siddha, i maestri realizzati del Siva Yoga. Le tecniche sono state sviluppate dai Siddha, maestri realizzati che in molti casi erano capifamiglia e certo non dei rinunciatari. Avevano spose ed erano socialmente consapevoli di voler il bene dell’umanità e spesso hanno aiutato l’umanità grazie a scoperte mediche e scientifiche.

I SIddha che hanno svilluppato questìarte scientifica del Kriya Yoga hanno un detto famoso: “la quantità di felicità nella vita è proporzionale alla propria disciplina”. Disciplina nell’ambito del Kriya Yoga significa fare ciò che è necessario per ricordarci chi siamo e lasciar perdere ciò che non siamo. Si basa sulla diagnosi della nostra condizione umana operata dai siddha. Dicono che “sognamo ad occhi aperti”. Il mondo così come ci appare in realtà sembra solamente esistere. La vita è un sogno, è transitoria, e tutte le cose vanno e vengono come sogni. Qualunque cosa derivante da anni di esperienze acquisite, possedimenti, rispetto, umiliazioni, momenti difficili, periodi felici, relazioni…tutte le cose vanno e vengono come sogni.

Inoltre la disciplina del Kriya Yoga inizia con il coltivare la consapevolezza. Ma la maggior parte di ciò che facciamo normalmente viene fatta inconsciamente, per abitudine, senza consapevolezza. Quando siamo consapevoli del mondo non siamo consapevoli di chi siamo, che è la Consapevolezza di per se stessa. Quando siamo consapevoli del mondo non utilizziamo la coscienza per essere consapevoli del movimento dei nostri pensieri, ma accettiamo la gioia e il dolore che essi procurano.

Quando siamo consapevoli del mondo non lo siamo dei movimenti del prana (il bioplasma o energia essenziale alla vita presente nel corpo), ma la mente si agita e i sensi sono sovreccitati, e la mente si agita solo e se il prana viene bloccato o viene respinto dal corpo. L’agitazione e la resistenza alle forze vitali è dovuta a confusione mentale e tale confusione può provocare disturbi nel metabolismo del corpo. La confusione mentale può trasformare gli alimenti in veleno. Possono subentrare malattie.

La continua consapevolezza dell’attività e delle azioni di corpo, mente ed emozioni può curare disturbi mentali e fisici. Questa pratica della consapevolezza può calmare la mente e regolare il prana. “Azione con

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consapevolezza” è la definizione, il veicolo e la destinazione del Kriya Yoga di Babaji.

Okay, allora che cos’è la Consapevolezza e come la raggiungiamo? Si ha Consapevolezza quando parte della nostra coscienza rimane distaccata e si pone come testimone di ciò che il resto della nostra coscienza sta facendo, provando o pensando. Questo accade raramente nel corso normale della vita perché normalmente lasciamo che l’attenzione della nostra coscienza sia assorbita da differenti oggetti, come ciò che stiamo vedendo, udendo, pensando e facendo, o permettiamo alla nostra coscienza di disperdersi in molte direzioni differenti. Quand’è stata l’ultima volta che ti sei osservato mentre guardavi un’alba o leggevi un libro, ti arrabbiavi o facevi una postura di Hatha Yoga? In realtà raramente andiamo dentro a noi stessi per osservarci fare qualcosa.

E cosa fa per noi questo senso di consapevolezza? Se ci diamo sempre più modo di rimanere calmi interiormente, ci distacchiamo e quindi la mente rimane calma in ogni situazione, il prana rimane calmo e viene regolato in ogni situazione, la mente si purifica e nascono nel cuore felicità e contentezza. In poche parole, questo è l’obiettivo del Kriya Yoga.

Il Kriya Yoga è uno Yoga integrale: un percorso quintuplice per integrare i cinque corpi.

Il Kriya Yoga opererà su tutte le parti del tuo essere e può letteralmente cambiare la tua natura esteriore. Può modificare ciò che fai nella vita e perfino ciò che pensavi di saper fare. Sviluppa il tuo potenziale. È uno Yoga dinamico e trasformazionale.

Uno Yoga integrale include tutte le parti e tutte le attività dell’essere. Eppure scopriamo che le stesse pratiche non saranno altrettanto potenti e integrali da una persona all’altra. Questo succede perché non siamo tutti integrati nello stesso modo: per essere integrati dobbiamo preparare tutti i livelli del nostro essere.

Il corpo è il tempio della divinità. Esprime lo Spirito. Non è fatto soltanto per vivere una vita fisica e mentale. Ma la maggior parte di noi vive solamente una vita fisica e mentale, quindi dobbiamo affinare il nostro corpo a sviluppare le facoltà spirituali. Dobbiamo sviluppare sistematicamente il nostro essere spirituale mentre poniamo rimedio alle nostre imperfezioni e difetti fisici, vitali, mentali ed emozionali per

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acquisire capacità intellettuali e una natura emozionale maggiormente equilibrata. Questo è possibile solo quando tutti i livelli del nostro essere prendono parte a una regolare pratica quotidiana dello Yoga.

Il Kriya Yoga di Babaji è un sistema autentico per ottenere consapevolezza e Autorealizzazione. È basato su un insieme di 144 tecniche. È un percorso quintuplice consistente in: una speficifa serie di diciotto asana; specifiche tecniche di pranayama, cioè di respirazione, che dirigono prana e consapevolezza nel corpo; specifiche tecniche di dhyana o meditazione per sviluppare, rafforzandoli, la mente e i sensi interiori, così come forti capacità di visualizzazione e un metodo per realizzare tali visualizzazioni; specifici mantra per risvegliare l’intelletto alla sua energia potenziale e alla consapevolezza; e bhakti, amore e devozione per invocare la “grazia di Dio”. La bhakti serve a sviluppare la risolutezza e il terreno solido necessari a controllare i sensi in modo tale da controllare i desideri egoici e le avversioni che insorgono attraverso i sensi stessi.

Gli Obiettivi del percorso Quintuplice

Il Kriya Yoga è “Azione con Consapevolezza”. È un mezzo per conoscere il Sé, per conoscere la verità del nostro Essere. Il Kriya Yoga di Babaji include consapevolezza nella pratica di asana, pranayama, meditazione e mantra, ma insegna anche a incorporare consapevolezza in tutti i pensieri, parole, sogni e desideri, e in tutte le azioni. Questo sadhana racchiude l’enorme potenziale di renderci esserih umani maggiormente consapevoli. Richiede però una disponibilità da parte di corpo, mente, cuore e volontà ad allinearsi con l’anima nell’aspirazione a purificazione e perfezione. Il sadhana del Kriya Yoga di Babaji è un insieme di esercizi e di pratiche spirituali per lo sviluppo del Sé, ma anche uno stile di vita per il nostro intero essere.

Il primo obiettivo del Kriya Hatha Yoga è un profondo rilassamento fisico e mentale. Le asana hanno direttamente a che vedere con la parte materiale del fisico nella sua totalità. Attraverso le diciotto asana il corpo si purifica di molti disordini e sregolatezze. Il sistema nervoso fisico si rinforza e la mente si acquieta. La varietà di asana accorda al corpo flessibilità e un senso di luminosità e di galleggiabilità, cosi che la gravità esercita un minor effetto su di esso.

La pratica regolare di questa serie di posture ti aiuterà a domare le distrazioni del corpo e ad approfondire la meditazione. Praticare le

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diciotto posture ti libererà lentamente da indolenza, agitazione, dolore e malattia. Proverai meno fatica fisica e mentale e, quando sarai stanco, ti ricaricherai più facilmente. Incomincerai a sintonizzarti sulle parti più sottili del tuo essere e a sviluppare coscienza del movimento delle energie nel tuo corpo, e imparerai a dirigere tali energie. Asana, bhanda e mudra costruiscono solide fondamenta per le meditazione. Sarai più stabile e quando sei seduto in meditazione ti sentirai perfettamente a tuo agio. In definitiva la pratica del Kriya Hatha Yoga prepara corpo, mente e sistema nervoso, rinforzando il sistema nervoso sottile, stimolando i centri di energia sottile situati lungo la colonna, e spiegando e stimolando il movimento verso l’alto della kundalini, risvegliando così i poteri e la coscienza potenziali.

Il Kriya Kundalini Pranayama, l’arte scientifica di controllare il respiro e la mente, è la tecnica più ricca di potenzialità del Kriya Yoga di Babaji. Consiste in un complesso ma potente esercizio di respirazione per collegare prana e mente. Ha il potere di risvegliare dolcemente la kundalini (i nostri poteri potenziali e la consapevolezza) e di circolare, attraverso i sette chakra principali situati nel nostro corpo vitale, da sotto la punta della colonna vertebrale fino alla corona della testa. Risveglia i corrispondenti stati psicologici dei chakra e accresce il dinamismo su tutti i cinque piani di esistenza.

Il Pranayama riveste la più grande importanza nell’addestramento Yoghico dei Siddha. È un mezzo per ottenere longevità, ma anche per conseguire una visione interiore del Signore.

Una respirazione irregolare influisce negativamente sulla salute e conduce a un prematuro deterioramento degli elementi costitutivi del corpo. Una pratica regolare del pranayama è imperativa se si vuole superare il decadimento del corpo fisico.

Il primo obiettivo del pranayama consiste nel purificare il sistema nervoso ed equilibrare e far circolare senza ostacoli l’energia vitale (prana) attraverso tutti i nervi e i canali di energia (nadi). Alla fine i pranayama del Kriya Yoga equilibreranno il fluire del respiro attraverso entrambe le narici e i nadi sottili. Questo a sua volta conferirà equilibrio e stabilità ai prana sottili. Il Pranayama aiuta la mente a diventare più stabile e tranquilla, il che ci permette di arrivare al dharana (concentrazione su un punto) in modo che possa aver luogo la dhyana (meditazione). Il Kriya Kundalini Pranayama apre il canale energetico centrale (sushumna) e

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attira e raduna in esso maggior energia vitale pratica, dirigendola verso l’alto per stimolare i centri superiori di consapevolezza nel corpo vitale. Le tecniche del Kriya Yoga di Babaji ci portano ben oltre il nostro normale registro di coscienza.

Il Dhyana del Kriya Yoga di Babaji, l’arte scientifica di controllare la mente, richiede che la verità realizzata nella nostra coscienza interiore penetri nella nostra consapevolezza in fase di risveglio ed entri in azione in essa. La nostra coscienza determina la natura e la qualità dell’esistenza che viviamo. Quindi, invece di cercare di fermare i pensieri e cadere nel vuoto, le nostre meditazioni si concentrano su metodi dinamici per rafforzare il potere della mente e stimolare un rapido flusso di intuizioni e ispirazioni applicabile alle sfide a alla missione della nostra esistenza. Queste uniche dhyana o tecniche di meditazione ci aiutano a sviluppare i nostri poteri di concentrazione e visualizzazione al fine di orientare la totalità della nostra coscienza, in tutte le sue parti, verso l’aspirazione dell’anima. Alla fine queste meditazioni conducono alla consapevolezza del nostro Sé reale.

In una successione progressiva, ogni meditazione si sviluppa sull’altra ed aiuta a sviluppare un altro livello di coscienza. [Tali meditazioni, N.d.T.] hanno la capacità di raggiungere e incidere su tutti i cinque corpi e differenti livelli della nostra coscienza: il subconscio e l’inconscio, la mente, l’intelletto e perfino la sopracoscienza. Ci coinvolgono in un processo in cui siamo incoraggiati a diventare consciamente consapevoli del nostro condizionamento mentale, dei nostri desideri, avversioni e brame, per poi abbandonarli coscientemente. Operano per sviluppare i nostri sensi interiori e ci aprono al flusso dell’intuizione. La pratica del Kriya Dhyana Yoga purifica il subconscio e aiuta a sostituire il consueto modo di pensare e agire con la nostra reale consapevolezza conscia di essere guidati dal nostro Sé superiore in tutte le attività. (Questo all’inizio si manifesta per brevi momenti durante le sedute di meditazione quando diventiamo consapevoli dei nostri pensieri o emozioni; più tardi ci accompagna nella nostra routine quotidiana e sviluppiamo la consapevolezza di essere guidati nelle nostre azioni e reazioni nelle attività di ogni giorno; a volte giunge a interessare anche le fasi del sonno). Grazie a queste meditazioni impariamo a prestare attenzione, a discernere e a distaccarci dai pensieri, che spesso sono inutili o negativi e ci impediscono

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di essere calmi e sereni, e impariamo a sostituirli con movimenti e azioni costruttivi.

L’uomo è molto creativo. Quante volte ci dicono: “un uomo diventa ciò che pensa”. Possiamo creare dal nulla le cose che immaginiamo. Abbiamo una grande immaginazione e una potente capacità di proiezione. Queste dhyana sviluppano e utilizzano un grande potere di immaginazione. L’immaginazione può viaggiare in anticipo rispetto alla vita, in quanto l’immaginazione è la capacità di proiettarsi fuori dalle cose realizzate verso cose che sono realizzabili, per poi attirarle a noi attraverso una proiezione.

Normalmente utilizziamo male la nostra immaginazione, immaginando il peggio che possa accadere (paura) o il peggio in merito agli altri (giudizio) basandoci su informazioni limitate, o ancora immaginando quanto qualcosa sia per noi buono (desiderio) o cattivo (avversione). Prendiamo ad esempio la preoccupazione, tutti noi ci preoccupiamo. Preoccuparsi non è forse meditare su ciò che non vogliamo? Perché immaginare catastrofi quando potremmo semplicemente immaginare risultati positivi e soddisfacenti?

L’immaginazione è uno strumento che deve essere disciplinato. Le immaginazioni formulate in modo realistico e costante nutrendole di dettagli e di aspirazione o di desiderio hanno tendenza a concretizzarsi. Quando aggiungiamo energia vitale essenziale al processo, [l’immaginazione] diventa una forza vivente. La maggior parte delle nostre fantasie non sono molto stabili e non hanno energia vitale essenziale a supportarle, perché normalmente perdono d’interesse e passiamo a un’altra fantasia. Le fantasie ben costruite con aspirazione, fede e fiducia, dopo qualche tempo si realizzano. I Kriya Dhyana forniscono la disciplina necessaria a dirigere e reindirizzare le fantasie verso gli obiettivi della vita. Molte delle meditazioni sviluppano specificatamente la nostra immaginazione al fine di creare una nuova realtà.

Il Kriya Mantra Yoga mantiene calma la totalità del nostro essere e la coscienza sulla stessa lunghezza d’onda dell’anima. I bija o mantra semi insegnati nel Kriya Mantra Yoga di Babaji ci aprono alle forze divine di energia ascendente (kundalini shakti) attraverso i chakra, e alla grazia discendente. Esistono anche specifici mantra che coltivano lo sviluppo delle qualità divine: amore, compassione, benevolenza, discernimento,

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disciplina e pazienza. I mantra spostano la tua attenzione dal sentimento di “io” e “mio” sul Signore all’interno e all’esterno.

Il Kriya Bhakti Yoga consiste nel coltivare l’aspirazione per il Signore Stesso o Verità priva di forma; unione con l’assoluto e liberazione dalla prigione costituita dall’identificazione con l’ego, dai desideri e dall’attaccamento. In ultima analisi è l’”amore di Dio” a dover estirpare lussuria, collera, desideri, orgoglio, invidia, per conseguire la beatitudine divina e la felicità nella vita. È il binomio sensi-desideri, non il Signore, a condurci sul cammino del dolore e della sofferenza. La bhakti è un mezzo per comprendere che il nostro bisogno non consiste nel possedere qualcosa, ma piuttosto nell’essere testimoni di ogni cosa. La bhakti ci aiuta a capire che non siamo altro che perline infilate su un filo che è il Signore Stesso. Il filo non si rompe mai e non ci ritroviamo mai a essere sparpagliati. La bhakti è un mezzo sia per congiungerci al Signore che per servirlo all’interno e all’esterno.

Il Kriya Yoga richiede uno studio del Sé

Per praticare il Kriya Yoga di Babaji in modo sincero è necessaria la volontà di studiare il tuo Sé. Applicandosi ripetutamente, è possibile operare cambiamenti sia nella mente che nella personalità. Il Kriya Yoga di Babaji è una pratica quotidiana concentrata di purificazione che può essere intrapresa per liberarsi di debolezze e difetti, e può aiutare a raggiungere una condizione di pace e benessere interiori.

Una pratica quotidiana disciplinata del Kriya Yoga di Babaji crea un ardore interno che serve a bruciare e distruggere le distinzioni, stabilite da corpo e mente, in merito a ciò che piace e ciò che non piace, avversioni e desideri, disagio e piacere. Ripetendo le pratiche innumerevoli volte è possibile modificare qualsiasi abitudine a reagire in modo negativo, o creare un attributo positivo. Una volta che le pratiche del Kriya Yoga non costituiscano più un esercizio ma siano diventate uno stile di vita, allora una percezione e un’attitudine positive saranno diventate il nuovo modo di vivere.

Prana e Pranayama

Il pranayama non è una respirazione profonda. La normale respirazione attraverso le narici costituisce un fenomeno. Il movimento del prana attraverso il corpo sottile ne rappresenta un altro decisamente

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più importante. Il pranayama non riguarda il fatto di assorbire maggior ossigeno nel corpo, ma di collegare il prana con la mente: consiste nell’imparare a dominare e dirigere sia il prana che la coscienza nel corpo. Il prana è energia vitale essenziale, il bioplasma della vita, il corrispettivo dinamico della kundalini attorcigliata.

I Siddha hanno studiato il flusso d’aria che passa attraverso le narici e lo hanno messo in correlazione con il flusso di prana nei nadi ida, pingala e susumna. Hanno scoperto che il flusso di prana nel corpo è anche influenzato dai cicli della luna e del sole e che normalmente il prana affluisce attraverso i nadi in modo sincronizzato ai cicli solari o lunari, o a specifici ritmi circadiani del corpo. Quando la luna, due volte al mese, cambia passando da un ciclo ascendente a uno discendente e viceversa, anche i nadi cambiano la loro influenza. La narice sinistra predomina durante il ciclo lunare ascendente (parte luminosa del mese). La narice destra predomina durante il ciclo lunare discendente (parte oscura del mese). Cioè, durante la metà luminosa del mese la narice sinistra predomina all’alba nel primo, secondo, settimo, ottavo, nono e quattordicesimo giorno del mese, e nei giorni di luna piena, ma durante lo stesso ciclo la narice destra predomina all’alba negli altri giorni. Inoltre il flusso attraverso le narici si alterna da una narice all’altra ogni due ore circa.

Il termine pranayama deriva da due parole: “prana”, che significa energia, e “ayama”, che a sua volta è la forma composta di due altre parole che significano “tendere come un arco”. Significa sviluppo ed estensione. Il “pranayama” è quindi un processo consistente nel radunare energia e dirigerla per rimuovere blocchi nel corpo vitale, il pranayama kosha. Questo processo serve ad acquisire il controllo delle forze praniche interiori cha aiutano ad acquisire il controllo di corpo e mente.

I SIddha chiamano il pranayama “aghihotra interiore” (fuoco sacrificale) e ne incoraggiano la pratica come “sacrificio quotidiano nel respiro” a tale fuoco. Lo vedono come una fonte di purificazione della mente, del corpo e dei desideri. Il pranayama punta al controllo della mente; rilassa immediatamente sia il corpo che la mente in quanto accresce la quantità di energia che, se diretta in modo corretto, può fungere da carburante per vincere l’inclinazione alla pigrizia, alla smemoratezza e alla depressione. Una volta acquisito il pieno controllo del prana, anche la mente è completamente sotto controllo e quindi i

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processi del pensiero e le emozioni non sono più in grado di arrecarci disturbo perché riusciamo a controllare carattere, stati d’animo, desideri ed avversioni. Diventiamo sempre più consapevoli delle fluttuazioni naturali della mente.

Il pranayama sviluppa il Prana esterno grossolano e quello sottile interno. Quando i respiri in entrata e in uscita sono armonizzati, entriamo in contatto con il Prana interno e facciamo esperienza di un senso di luce, ascesa ed espansione. Il prana è ciò che guarisce il corpo e la mente. Il pranayama purifica e infonde energia nel corpo per la meditazione profonda che viene dopo. “Prana” è la forza vitale e “ayama” l’espansione, quindi il “pranayama” è l’espansione della forza vitale. Si rallenta e si allunga il respiro in modo che il Prana interno o forza vitale superiore possa manifestarsi. Questo aiuta a rallentare e acquietare la mente, facilitando la meditazione.

Ad ogni stato psicologico corrisponde un determinato ritmo respiratorio. Il tipo di onde cerebrali cambia al variare della respirazione nel corpo. Respiri poco profondi creano onde cerebrali beta mentre invece respiri addominali originano onde cerebrali alfa. La mente sposta [la sua attenzione] da un oggetto all’altro proprio a causa dell’irrequietezza del respiro. Le onde cerebrali alfa sono ritmiche e indicano che il cervello si trova in uno stato di vigilanza tranquilla e rilassata. Attivano le energie curative e la meditazione, e sono implicate negli stati euforici. Il corpo e la mente reagiscono in modo automatico quando la respirazione si fa più profonda. Controllare il nostro respiro attraverso il pranayama fa concentrare la mente. Concentrazione, lucidità, memoria e creatività vengono spesso accresciute da questi pranayama.

Le tecniche del Kriya Kundalini Pranayama sono un processo di “allenamento della consapevolezza”. Il pranayama comporta sempre consapevolezza, gli esercizi di respirazione no. Dobbiamo prestare grande attenzione a ciò che stiamo facendo all’interno di noi in modo da poter entrare in uno stato di consapevolezza. L’attenzione mette in azione il cervello conscio (neo-corteccia) e mantiene in uno stato di consapevolezza. La consapevolezza inizia con l’attenzione. Quando effettuato due volte al giorno, il Kriya Kundalini Pranayama pone delle splendide basi per una crescita continua nella consapevolezza yoghica. Associato alle meditazioni, può apportare alle nostre personalità lo sviluppo e l’equilibrio necessari; può tradursi nello sviluppo di un

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pensiero maggiormente critico, o di maggiori sentimenti nel cuore, o di intuizione. La chiave per il successo nel pranayama è essere completamente coinvolti nel farlo.

Il Corpo Sottile: nadi, chakra e kundalini

Non possiamo iniziare la pratica del Kriya Yoga di Babaji senza fare un’analisi del corpo sottile. Il nostro corpo fisico è costituito da nadi o canali energetici che mantengono il prana nel corpo. Esistono cinque tipologie principali di prana, che differiscono solamente in ragione della loro funzione…prana, apana, vyana, sapana, udana. CI sono all’incirca 72000 nadi a costituire il corpo ma solamente tre di essi ci interessano in questa sede, e soltanto uno ha una funzione puramente spirituale: ida, pingala, susumna. Ida e pingala sono attivi in ciascuno di noi.

Quando respiriamo attraverso le narici il prana entra ed esce attraverso questi nadi. Il susumna non è però attivo nella maggior parte delle persone, anche se diverse attività nella vita non sarebbero possibili senza di esso. Questi tre nadi si trovano dentro la colonna vertebrale su un piano sottile. Il susumna si trova all’interno del midollo spinale, l’ida a sinistra e il pingala a destra. Il susumna si estende da sotto la punta della colonna fino alla corona della testa. Il dispiegarsi del susumna costituisce il cammino della liberazione.

Alla base del susumna si trova la kundalini shakti, che può essere definita definita “i nostri poteri e coscienza potenziali”. Viene rappresentata metaforicamente come un serpente attorcigliato con la bocca all’ingresso del susumna. La kundalini ha due aspetti, uno esterno che si manifesta nell’esistenza materiale e che in una certa misura funziona sempre e sostenta la nostra esistenza. In quanto Madre Natura, Essa rappresenta il potere di tutti i nostri sensi ed azioni. Ma Essa presenta anche un aspetto interno che deve essere risvegliato e conduce a livelli superiori di coscienza, generalmente sopiti all’interno di noi. Una volta risvegliata Essa ci trasforma a tutti i livelli del nostro essere e si occupa anche della nostra vita terrena. Essa libera un grande potere di creazione.

Lungo la colonna esistono sette centri psico-energetici principali conosciuti come chakra, situati lungo l’asse del corpo – a partire dai testicoli nell’uomo, dalla vagina nella donna – fino alla corona della testa. Questi centri non possono essere visti a occhio nudo, però a volte possono essere percepiti e, una volta che siano stati perforati dalla kundalini

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risvegliata, sono collegati a specifici stati psicologici. Normalmente lavoriamo con i tre chakra inferiori – muladhara, svadhisthana e manipura – che sono centrati sull’ego e connessi a istinto di sopravvivenza, sessualità, volontà e sentimenti di orgoglio. Sono collegati alla mente e ai suoi metodi e preferenze. Idealmente l’energia che scorre attraverso questi chakra inferiori dovrebbe creare le basi per l’espressione delle energie superiori dello spirito e del nostro potenziale superiore. Quando il quarto chakra (anahata chakra), un grande centro spirituale situato in corrispondenza del cuore fisico, è aperto, incominciano ad aver luogo esperienze spirituali e anche purificazioni interiori. Incominciamo a fare esperienza del nostro essere interno e a provare la sensazione della nostra identità infinita. Sperimentiamo l’amore incondizionato e l’espansione dello spirito umano. Spesso l’esperienza si traduce in onde o fremiti di amore, che fluisce attraverso tutti i pori del corpo insieme all’amore per il Signore, e nel sentimento che le necessità degli altri sono tanto importanti quanto i nostri. A volte con l’apertura di questo chakra si manifesta una capacità di guarire. La gola, il cui chakra si chiama vishuddhi, è la sede della creatività e della verità: quando si apre apporta consistenza alle nostre idee e diveniamo capaci di esprimerci con maggior creatività, sincerità ed eloquenza. Con l’apertura del terzo occhio, l’ajna chakra, la mente diviene monorientata e i pensieri si acquietano durante la meditazione profonda. Possiamo sperimentare una sensazione di conoscenza Intuitiva sotto forma di chiaroveggenza o di chiarudenzia. A volte si viene sopraffatti da fragranze interiori o suoni celestiali, i nada divini. Una volta che il chakra della corona (sahasrara) è aperto, siamo completamenti aperti al flusso dell’Intuizione. Questa è la dimora della Realtà Assoluta nella quale si sperimenta la Presenza del Divino in ogni luogo.

Il potere purificante della kundalini

Nel suo percorso verso il sahasrara, la kundalini passa attraverso gli organi dei sensi purificandoli e apportando nuova forza. Fino a quando i chakra degli organi sensoriali non sono purificati, i sensi operano in modo normale, ma una volta che siano purificati, acquisiscono poteri divini e anche i sensi fisici si fanno più affinati. La kundalini è anche conosciuta come prana shakti.

L’Ayurveda ci dice che la prana shakti, l’energia dell’universo, viene utilizzata per il normale funzionamento del corpo sotto forma di

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un’enegia chiamata retas. Il retas o bindu è essenzialmente seme, ovvero fluido sessuale sia maschile (bianco) che femminile (rosso), che si sviluppa nel corpo in modo naturale e di cui la natura fa uso. Normalmente l’energia in eccesso viene dissipata o espulsa dal corpo, a meno che noi non pratichiamo una qualche disciplina di conservazione, o disciplina di purezza, al fine di continuare ad aumentare e raccogliere l’energia e trasformarla in ardore, tapas. Il movimento del bindu è strettamente connesso alla respirazione e alla circolazione dell’energia vitale collegata al pranayama. Il bindu o retas si converte in tapas, ardore creativo. Tutto quello che creiamo si origina dal tapas. Più tapas abbiamo, maggiore è l’energia creativa a nostra disposizione.

Quando il tapas è formato all’interno del corpo, si ha un considerevole aumento della forza vitale che si esprime sotto forma di dinamismo: diventiamo maggiormente dinamici. Attraverso il tapas si attiva il nostro potere-volontà. Se ne prendiamo cura, nutriamo, stimoliamo la crescita dell’ardore senza disperderlo, questo si trasformerà in tejas. Il tejas è luce, brillantezza: si riflette come luce sul volto, una luce nel corpo. Il tejas esercita un effetto diretto sul cervello, che viene reso attivo: il tejas aumenta i poteri cerebrali e mnemonici.

Una volta che sia tapas che tejas siano formati, essi si trasformano in elettricità: quando l’elettricità attraversa il corpo si manifestano sia maggior potere dinamico che brillantezza intellettuale. L’elettricità trasforma il tejas in ojas. L’ojas è l’energia creativa primaria dell’etere. È purissima: l’energia creativa dell’etere è la più pura energia creativa sul piano fisico. SI acquisisce il potere di creare le cose. Attraverso una continua purificazione l’ojas si trasforma in virya, che è potere spirituale e facilita l’estasi superconscia e la realizzazione del Sé. Questa forma di forza vitale costituisce lo splendore della Coscienza Suprema, il Sé.

La Pratica del Kriya Yoga Sadhana

In veste di sadhak del Kriya Yoga, accresci il tempo che consacri alle pratiche spirituali perché esse sono un metodo certo che integrerà la consapevolezza nella stessa matrice della tua vita di ogni giorno. Asana, pranayama, mantra e meditazione non sono obiettivi di per se stessi, ma un mezzo per ottenere un risultato. L’insieme delle pratiche Kriya conduce alla fine all’esperienza del samadhi, assorbimento cognitivo, uno stato di comunione con il Signore in assenza di respirazione. Ma anche

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prima di questo, le tecniche dovrebbero portarti ad essere sempre più consapevole nelle “piccole cose della vita”. Tutte le tue esperienze diventano così un terreno di allenamento per la tua pratica del “sadhana”. Incomincerai a vedere come, in ogni momento in cui siamo presenti a noi stessi, ci sia un’opportunità di fare progressi. E comincerai a vivere una vita che vuole crescere e perfezionarsi.

7. Immaginare Inizia un nuovo anno: cosa porterà? Ancora le stesse cose? Forse non

dovrà andare così. Prova ad immaginarti mentre crei la vita che sei nato per realizzare. E adesso, ti senti intrappolato in una relazione, un lavoro o luogo che non corrisponde alle tue esigenze? Ogni cosa è suscettibile di cambiamento, basta abbandonare i modi di pensare rigidi, le paure, i dubbi di sé e le attitudini negative.

“Ma cos’è che dovrei fare?” ti chiedi. Questa domanda solleva da vicino la ragione stessa della nostra esistenza, e fino a quando e a meno che non cerchiamo di trovare una risposta, saremo sempre come una foglia nel vento, trascinata dai desideri che ci pervadono costantemente per effetto di una cultura materialista. Ciò che ognuno di noi deve scoprire è il suo “dharma”, ovvero la sua missione e i suoi doveri nella vita. Il nostro dharma ultimo è realizzare Dio, la Verità, il Sé, il “Chi sono?”. Libri come la “Bhagavad Gita”, il “Thirumandiram”, le “Sutra di Patanjali”, le “Upanishad” possono aiutarci a determinare il percorso da intraprendere per tale realizzazione. Lungo il cammino verso questa Autorealizzazione, però, ci imbattiamo nei risultati delle nostre azioni passate, il nostro “karma” che, a seconda di quanto siamo consci, rafforza le reazioni abituali o le opportunità di risvegliarci e permettere al Divino di operare attraverso di noi. Ogni giorno ci sono parecchie dozzine di nuove situazioni ed eventi che ci pongono di fronte a una scelta. Possiamo reagire inconsciamente in accordo ai nostri vecchi modelli mentali ed emozionali, oppure centrarci con calma ed entrare in sintonia con quell’ispirazione a nostra disposizione a patto che ci poniamo in ascolto.

Ogni giorno abbiamo l’opportunità, durante la pratica del Kriya Yoga, di affrontare la vita su un nuovo piano di auto-consapevolezza, e di coltivare in tal modo una continua beatitudine. Ogni giorno abbiamo

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l’opportunità di penetrare nel profondo del cuore stesso di Dio-Sé-Essere Assoluto, Coscienza e Beatitudine.

Centrati nel nostro cuore, che cosa dobbiamo fare?

La risposta è ascoltare i “colpetti” di quel Divino “direttore di orchestra” che potresti immaginare nella splendide sembianze di Kriya Babaji Nagaraj. Permetti quotidianamente alla tua coscienza di librarsi, di espandersi, di abbracciare ogni cosa, e quando ritorni al cosiddetto mondo “mondano” fatto di lavoro, relazioni, economia domestica, shopping, tieniti stretto a quello spazio sacro che hai coltivato mentre eri in profonda meditazione. In questo spazio sacro, abbandona la sensazione di essere “colui che fa” e afferma: “sia fatta non la mia, ma la Tua volontà”. In questo spazio sacro permetti alle immagini e all’ispirazione che ti si manifestano di stabilire la tua agenda per i compiti e le sfide del giorno seguente. Volgiti al Maestro e chiedi di essere guidato, poi mettiti in ascolto. Se permetterai alla tua immaginazione di svilupparsi, essa svilupperà la tua ispirazione; e la guida e le risorse di cui hai bisogno per adempiere alla tua missione terrena arriveranno “proprio al momento giusto”. Fai la tua parte, sempre rimanendo in ascolto del ritmo stabilito dal tuo Satguru.

8. Ottenerla e Conservarla Siamo impegnati, come individui e come gruppo, a ottenere e a

conservare l’Autorealizzazione. Ci sono momenti, probabilmente mentre siamo immersi nella pratica, o anche in occasioni indipendenti dalla nostra volontà, in cui il Sé, verità evidente della Realtà Assoluta, “sat chit ananda”, Essere assoluto, Coscienza e Beatitudine si manifesta chiaramente in noi. In tali momenti, quando centriamo la nostra coscienza sul soggetto “IO SONO”, questo risplende, o viene in primo piano, e la nostra esperienza, a prescindere che sia sul piano fisico, emozionale, mentale o intellettuale, sfuma nello sfondo e diventa l’oggetto. Quando ci identifichiamo con chi siamo realmente, e non con la fantasmagoria delle nostre esperienze, siamo Uno. Non c’è alcun dubbio in merito. Esiste solo fulgida auto-consapevolezza che vede solamente il proprio Sé in ogni luogo. In tali momenti non c’è differenza tra dove siamo e dove vorremmo essere: i desideri si placano, la mente si acquieta. Non c’è più nulla da fare, da imparare, né si deve diventare qualcosa: è la Beatitudine.

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Però in altri momenti questa consapevolezza del Sé sfuma nello sfondo non appena lasciamo che la nostra mente subentri con i suoi schemi abituali che ci fanno identificare con ciò che non è: i suoi desideri, preoccupazioni, esperienze sensoriali, e diverse emozioni, e pensieri. Possiamo anche raccontarci che vogliamo l’Autorealizzazione, ma invece accettiamo di identificarci con l’oggetto dell’esperienza e non con la coscienza stessa. Così molte persone vengono iniziate a un sistema spirituale di pratiche e poi si chiedono perché non abbiano ancora realizzato Dio. Si aspettano di poter realizzare le loro aspirazioni semplicemente imparando a utilizzare gli strumenti offerti dallo Yoga.

Se gli strumenti e le aspirazioni possono rimanere, anche se affievoliti, ciò che viene a mancare è la volontà di applicarsi istante dopo istante. Non è ciò che hai fatto l’anno scorso o che intendi fare più avanti a contare nell’ambito dello Yoga e dell’Autorealizzazione, ma ciò che stai facendo in ogni istante. Puoi scegliere di far intervenire la consapevolezza in ogni tua azione, in ogni momento mondano della giornata, oppure di lasciare che a dominare la tua vita siano le tue vecchie abitudini di distrazione, passività e incoscienza.

Il sadhana yoghico ti ricorda di centrarti costantemente ed essere consapevole: identificarti con il ”IO SONO” e vedere la tua esperienza scorrere [davanti a te] come fosse uno spettacolo, senza identificarti con essa o fartene coinvolgere. Che si tratti di posture, pranayama, meditazione, mantra o bhakti yoga, o ancora jnana o karma yoga, lo scopo è lo stesso. Ricordare alla tua coscienza e allenarla a restare pura e libera, finché questo non diventi automatico e non richieda più alcuno sforzo. A causa delle abitudini della mente, ciò richiede sforzi per molto tempo. Bisogna essere pronti a vivere anche dei fallimenti, ma occorre considerarli come passi verso il successo. “Se non ti dai per vinto, sei destinato a raggiungere l’obiettivo prima o poi” ripeteva spesso il mio insegnante.

In definitiva, il sadhana yoghico ha lo scopo di conoscere senza dubbi la risposta alle domande seguenti: “Chi sono io?”, “Chi è a preoccuparsi?”, “Chi è a provare questa emozione?”, “Chi sta reagendo in questo modo?”. Conoscerai la risposta quando, grazie alla luce della coscienza, percepirai la pura essenza imperturbabile del nostro essere, il ”IO SONO”, come qualcosa di distinto dai pensieri, dalle emozioni e dalle esperienze che al momento stanno predominando. Ci si può imbattere facilmente in

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questo Sé puro ogni notte durante il sonno. Chi non vede l’ora di incontrare il suo Sé durante il sonno? È un momento di gioia per tutti. Un sonno profondo è davvero beato. Questa beatitudine viene sperimentata anche in profonda meditazione od ogni volta in cui si riesce a centrarsi nella consapevolezza del momento.

Ottenere e conservare l’Autorealizzazione dipende dal fatto di farne la nostra priorità istante dopo istante. Non c’è tempo per rimandare. Fai in modo che ogni istante della tua vita conti come se fosse l’ultimo. Fai di ogni evento, per quanto mondano o insignificante, un’occasione per concentrarti e praticare l’auto-consapevolezza. Osserva come le vecchie abitudini cerchino di distrarti o di sopraffare la tua auto-consapevolezza. Monitora il tuo respiro: ti dirà quando non sei più presente a te stesso. Dio non è lontano, sei tu che sei assente per la maggior parte del tempo, perso nei tuoi sogni. Celebra la Presenza rimanendo presente. Sappi che esiste solamente Un Essere Assoluto che compenetra la totalità del tuo universo. Sii consapevole e nella beatitudine.

9. L’Arte della Meditazione, Tu e Ciò che Non Sei La pratica della meditazione sta acquisendo sempre maggior

popolarità. Eppure rimane un soggetto largamente frainteso anche da coloro che affermano di praticarla. Se dici a qualcuno che “mediti”, è probabile che ti chiedano: “Oh, stai cercando di fare un vuoto mentale?”. Se la meditazione si riducesse a questo, si potrebbe arguire che si tratti semplicemente di uno stato di incoscienza. Altri addirittura temono la meditazione, perché ignorano cosa sia e cosa la meditazione stessa possa fare per loro. Abbiamo spesso paura di ciò che non comprendiamo. Nello stendere questo scritto, spero di fornire qualche elemento atto a fare comprendere il processo di meditazione, i suoi immensi benefici e il modo in cui iniziare a praticarla.

Perché la meditazione è diventata così popolare negli ultimi decenni?

La meditazione è diventata popolare negli ultimi decenni per diverse ragioni:

1. Molti studi scientifici hanno dimostrato la sua efficacia nell’arginare gli effetti dello stress, nel far regredire le cardiopatie, nel ridurre la pressione sanguigna e nel favorire il benessere emozionale. Di

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conseguenza, i medici la raccomandano ai pazienti affetti da questi disturbi.

2. Un crescente interesse per la spiritualità. Molte persone che vanno in chiesa, ad esempio, non sono più soddisfatte di una semplice esperienza intellettuale o emozionale. Desiderano anche un’esperienza spirituale. La spiritualità, in quanto distinta dalla religione, mette in rilievo ciò che è privo di forma; il che può essere sperimentato quando la mente si acquieta. E la meditazione è un mezzo per acquietare la mente.

3. Una crescente insoddisfazione rispetto al modo di affrontare, da parte delle religioni, le grandi domande della vita: perché accadono cose negative a brave persone? Perché sto soffrendo? Esiste un Dio? Nel momento in cui le persone acquisiscono maggior indipendenza di pensiero, esse aspirano a trovare la verità delle cose per conto proprio, senza essere limitate da dogmi o dai sistemi di credo delle istituzioni religiose.

4. Un grande numero di libri e l’arrivo di insegnanti di meditazione soprattutto dall’Asia, dove la meditazione ha avuto una lunga storia e un raffinato sviluppo, ha reso la meditazione molto più accessibile. Non occorre più entrare in monastero per apprenderla. L’esempio dei maestri spirituali ha ispirato molti a fare della ricerca dell’”Autorealizzazione” l’obiettivo della loro vita.

Che cos’è la meditazione?

Mi piace definire la meditazione come “essere continuamente consapevoli di un oggetto o di un soggetto prescelto”. Quindi la meditazione ti permette di essere chi sei realmente, in quanto la tua natura superiore, che è pura coscienza, è sempre in meditazione e sempre consapevole. La difficoltà nasce dal fatto che raramente adotti la prospettiva della tua natura superiore, quella della tua anima, se vuoi quella di una coscienza che faccia da testimone. Sei abituato a lasciare che la tua coscienza sia completamente assorbita dalle esperienze che si manifestano nella tua mente, stimolate da ciò che penetra attraverso i cinque sensi, i ricordi e le emozioni. Ossia, ti disperdi in molte direzioni. È la parte inferiore della tua natura umana a far sì che la tua mente sia assorbita da queste cose. Proprio come quando sei assorbito da un libro, un film o un programma televisivo. La meditazione è un processo per

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allenare la tua mente a “lasciar perdere” ciò con cui si identifica normalmente così che tu possa ricordarti di essere chi realmente sei. In altre parole, la meditazione ti permette di “entrare in contatto con il tuo Sé”.

Tutte le scuole di meditazione concordano in merito alla definizione di meditazione riportata più sopra: cercare di diventare “continuamente consapevoli” è l’obiettivo di tutte le scuole. Ciò che differenzia una scuola dall’altro è l’oggetto o soggetto scelto al fine di allenare la mente a “lasciar perdere” le sue preoccupazioni ordinarie. Molte scuole scelgono il respiro e si limitano a seguirlo senza cercare di controllarlo. Altre scuole raccomandano l’utilizzo di un mantra, una o più sillabe che, se ripetute, inducono uno stato superiore di consapevolezza. Altre scuole si concentrano sulla visualizzazione di una forma come il mandala (una forma geometrica rappresentante il microcosmo e il macrocosmo, oppure l’universo all’interno del corpo umano) per concentrare la mente e neutralizzare la sua tendenza a vagare. Altre ancora coltivano uno specifico filo di pensiero connesso a un soggetto astratto quale l’amore, la verità, la bellezza, la sofferenza, il destino…

La tecnica varia in ragione dell’obiettivo della pratica specifica. Molte scuole di meditazione cercano di acquietare la mente al fine di trascenderla, per ricercare la più profonda pace e la tranquillità interiori. Nella tradizione del Kriya Yoga di Babaji la meditazione viene definita come “l’arte scientifica di controllare la mente”. Questo implica un’ampia scaletta con molti più obiettivi in quanto la mente ha molti livelli e funzioni, nonché facoltà potenziali da sviluppare. Comprende tecniche di meditazione per purificare il subconscio dalle abituali inclinazioni all’origine di così tanta sofferenza. Altre tecniche vengono impiegate per sviluppare il potere di concentrazione, il che è necessario per riuscire in tutti gli ambiti della vita. Altre ancora sviluppano l’intelletto e il suo potere concettuale, e nel contempo schiudono in una persona grandi facoltà di discernimento e intuizione. Altre ancora incoraggiano a diventare co-creatori delle proprie esperienze di vita attraverso lo sviluppo dei livelli di coscienza intuitivo, psichico e superconscio. Per questo motivo sono numerose le tecniche di meditazione insegnate nel Kriya Yoga di Babaji. Ogni tecnica è come una sorta di attrezzo specializzato che può essere utilizzato per differenti propositi.

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Gli ostacoli alla meditazione

La meditazione è una scienza e un’arte. Se praticata in modo corretto, conduce chiunque la pratichi agli stessi risultati e benefici. Se però si limitasse ad essere una scienza, la meditazione darebbe i suoi frutti non appena si fosse compreso il metodo e lo si fosse sperimentato. Purtroppo le inclinazioni della natura inferiore – distrazione, pigrizia, irrequietezza, noia, sonno – oppongono resistenza alla meditazione. La meditazione richiede di modificare le proprie normali inclinazioni fisiche e mentali, quindi la meditazione è anche un’arte. Come in qualsiasi forma di arte, la meditazione necessita una pratica diligente per un lungo periodo di tempo, per sviluppare la capacità di sconfiggere le abitudini della natura umana che si oppongono al cambiamento. Le abitudini si instaurano per via di pensieri, parole e azioni ripetuti più volte nel tempo. Quando queste abitudini implicano desideri o paure, sono loro a guidarti, e tu perdi la consapevolezza del Sé superiore, quello della tua anima, la dimensione spirituale del tuo essere in cui risiede la pura coscienza o consapevolezza La meditazione ti consente di avere accesso ai tuoi pensieri, parole e azioni ancora prima che si manifestino.

I nove ostacoli a una costante consapevolezza interiore sono:

1. La malattia sia fisica che mentale. Deriva dal modo in cui reagiamo allo stress della vita. Cosa succede quando sei ammalato? La tua mente viene distratta dai sintomi della malattia: il disagio, il dolore, la stanchezza. Ne vieni assorbito. Se ti chiedo “sei ammalato?” la tua risposta sarà “sono ammalato”: non sei ammalato, lo è il tuo corpo! Quindi, per evitare di farti assorbire da essa, osservati. Sii testimone della malattia. Naturalmente un minimo di prevenzione è molto meglio che doversi poi sottoporre a una cura massiccia, quindi coltiva abitudini di vita sane in modo da non ammalarti. Trova un equilibrio nel tuo regime alimentare, nell’esercizio, nel rilassamento e nel riposo. Allo stesso modo, evita disturbi emozionali imparando a lasciar perdere le emozioni difficoltose nella vita di tutti i giorni. La malattia mentale comprende preoccupazione, paura e ossessione. Mentre quasi tutti sperimentano pensieri di questo tipo, una mente sana non li coltiva, ma impara a lasciarli perdere. Conserva la tua energia mentale per i problemi contingenti. Distaccati dai pensieri negativi: per sostituirli, coltiva pensieri positivi, auto-suggestione e accettazione. Evita attività negative e persone che potrebbero alimentare abitudini mentali negative. Rabbia,

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preoccupazioni, paure, lamentele sono esempi di cose da evitare. Se non si indulge in pensieri negativi, talli abitudini si indeboliranno progressivamente.

2. La noia. Si manifesta quando non c’è sufficiente energia per restare costantemente consapevoli. Finché l’Autorealizzazione non è instaurata in modo consolidato, mantenere una parte della nostra coscienza nella prospettiva distaccata del testimone richiede uno sforzo da parte nostra. Uno sforzo che necessita di una quantità minima di energia. Quindi dobbiamo evitare di stancarci, per il troppo lavoro o per la mancanza di sonno, al punto di perdere la prospettiva del testimone rispetto ai nostri pensieri, parole e azioni. Allo stesso modo che per superare la malattia, abbiamo bisogno di coltivare sane ed equilibrate abitudini di vita per mantenere la nostra energia elevata ed evitare attività che rubano energia quali [consumo di] bevande alcoliche, eccessiva indulgenza nel parlare, nel mangiare o nel guardare la televisione, e il troppo lavoro. Dobbiamo semplificare la nostra vita e abbandonare le attività e le responsabilità non necessarie.

3. Il dubbio. È la tendenza della mente a porre domande e, quando non si accompagna a una ricerca di risposte, può rendere cinici e non predisposti a fare sforzi continuati. Questo costituisce un problema soprattutto per le persone che sono eccessivamente intellettuali. Anche dopo aver ricevuto una risposta soddisfacente, il loro intelletto si diverte a dubitare per il piacere di farlo: trae una grande soddisfazione dal gioco del chiedere e trovare nuove fonti di stimolo. I dubbi possono aiutare a formulare domande corrette, ma spesso è necessario pazientare un po’ prima di trovare una risposta. Quindi, annota in un taccuino i tuoi dubbi sotto forma di domande chiare, e cerca l’occasione di trovare risposte dai tuoi insegnanti, dai testi sacri o in fase di meditazione.

Ci sono alcune domande che possono trovare risposta solamente dopo aver modificato la propria prospettiva. Per esempio, non si potrà mai “conoscere” Dio, e nemmeno sapere cosa sia la “coscienza”. Perché “conoscere” implica l’esistenza distinta di colui che conosce e dell’oggetto di conoscenza, e un rapporto di conoscenza. Dove non esistono Dio e la coscienza? Se realmente si trovano ovunque, non esiste alcuna possibilità di conoscerli come qualcosa di differente dall’unico Sé. In ogni caso, se si cambia di prospettiva e si è completamente presenti e ci si identifica con l’essenza dell’Uno Sé, è possibile diventare consci di Dio, e consci di ciò

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che è conscio. Si può comprendere che mentre il corpo e la mente possono soffrire, “io” non sono né il corpo né la mente, e che lo scopo della sofferenza è di farcelo comprendere.

4. La negligenza. Consiste in disattenzione, dispersività, una mancanza abituale di concentrazione. Per via del nostro moderno stile di vita dai ritmi accelerati, molte persone si sentono obbligate a cercare di fare più di una cosa alla volta, diventando così negligenti. La loro coscienza è assorbita da più compiti allo stesso tempo, e quando non è così, vanno alla ricerca di distrazioni multiple, ad esempio la radio o la televisione, anche quando stanno mangiando o guidando. Partono dall’assunto che, più cose possono fare o afferrare attraverso i cinque sensi, più saranno felici. La verità è il contrario. Se si è presenti in qualunque cosa si stia facendo, la gioia si manifesta in modo naturale. Quando non si è presenti, si confonde la felicità con la presenza o l’assenza di qualcosa all’esterno di se stessi. È possibile sconfiggere la propensione alla negligenza imparando a focalizzare l’attenzione su una cosa alla volta e mantenendo la prospettiva del testimone mentre lo si fa.

5. La pigrizia: è un’abitudine dovuta a scoraggiamento, mancanza di entusiasmo o di ispirazione. Si tratta essenzialmente di uno stato emozionale e, in quanto tale, è soggetta alla nostra volontà cosciente. Non è dovuta a stanchezza o a noia, che possono essere corrette attraverso riposo e sane abitudini di vita. Chiediti, quando ti senti pigro o scoraggiato, “potrei fare a meno di questo?”. Coltiva stati emozionali positivi attraverso attività di devozione come il canto; o utilizza l’auto-suggestione per contrastare le emozioni negative. Possiamo sconfiggere quest’abitudine anche sostituendola gradualmente con abitudini positive quali regolarità nella pratica, lettura di testi che infondano ispirazione, frequentazione di persone che ci trasmettano ispirazione e ci alimentino a livello emozionale e mentale. Prendi nota del modo in cui usi il tuo tempo ed elimina quelle attività che ti provocano scoraggiamento quali la troppa televisione, il troppo lavoro; aumenta attività quali le posture di yoga e l’esercizio fisico, che stimolano le endorfine e ti fanno provare entusiasmo.

6. La sensualità. Si manifesta quando i desideri, anziché essere distaccati, sono piuttosto incoraggiati. Consiste nel fantasticare in merito all’oggetto di desiderio piuttosto che sulla reale esperienza dell’oggetto. Incominci a sentire che “a meno di poter mangiare quello specifico cibo,

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o bere, o essere con quella persona, o essere assorbito da quel desiderio, non sarò felice”. È umano avere desideri, ma appena diventi più consapevole, puoi distaccarti da essi, puoi rifiutarti di continuare a nutrire pensieri di lussuria, avidità e desiderio. Dando libero corso a tali pensieri neghi la realtà della tua fonte reale di felicità: l’Essere-Coscienza-Beatitudine interiore. Oggigiorno, nella nostra moderna cultura materialista, siamo costantemente bombardati dal messaggio “abbandonati” a questa o a quell’altra fantasia. La pubblicità cerca di convincerci del fatto che saremo appagati solamente se consumiamo o possediamo un certo prodotto. La realtà è tristemente il contrario.

Questo non è per dire che dovresti evitare l’attività sensoriale. Di per sé non c’è nulla di sbagliato nel mangiare, bere, provare sensazioni con la pelle o consumare o possedere un qualsiasi oggetto materiale. La sensualità consiste nel fantasticare su quanto staresti bene o saresti felice se facessi quell’esperienza o possedessi quella cosa materiale. SI tratta di un equivoco della mente basato su un’ignoranza di base in ragione della quale confondiamo la fonte della nostra felicità con qualcosa all’esterno di noi stessi. Perciò, quando ti stai godendo qualcosa con i cinque sensi, fallo pienamente mantenendo la prospettiva del testimone. Quando le fantasie fanno capolino, distaccati da esse. Sii presente in qualunque cosa tu stia sperimentando in quel momento specifico.

7. La percezione errata: è il non vedere la realtà sottostante. È dovuta a un’ignoranza di base di chi noi siamo. Per colpa dell’egoismo, confondiamo il soggetto “io sono” con gli oggetti della nostra esperienza: confondiamo il durevole con il transitorio. Per cui la mente è costantemente distratta dagli oggetti dell’esperienza attraverso i cinque sensi, e la nostra coscienza viene completamente assorbita dallo spettacolo effimero. È come qualcuno che va al cinema e si fa completamente assorbire dal film fino alla fine, dimenticandosi di essere chi è. Quella persona ignora una costante durevole: la luce del proiettore e lo schermo su cui sono proiettate le immagini illuminate. Coltivando la presenza, prendendo in considerazione un momento alla volta, possiamo superare questa “percezione errata”. Possiamo facilmente percepire ciò che sempre è, all’interno e all’esterno. Quando ti senti invischiato nel dramma della vita, nel “film”, fai un profondo respiro, e sii testimone di ciò che è, in quel luogo e istante precisi. Per stroncare l’abitudine della percezione errata, riserva una parte della tua giornata per la meditazione, e una parte

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delle tue vacanze per i ritiri. Gradualmente il problema della percezione errata andrà diminuendo.

8. L’insuccesso nel raggiungere un punto stabile: si verifica quando mancano pazienza e perseveranza. Quindi spesso gli studenti di Yoga, soprattutto in Occidente, come si aspettano caffé e tè istantanei, allo stesso modo pretendono Autorealizzazione istantanea. Non sono preparati a lavorare intensamente e a lungo per determinarla. Hanno coltivato aspettative sul fatto che sarebbe stato facile e rapido, e si fanno spesso impazienti quando le forze che in loro si oppongono si manifestano. Normalmente svolazzano da un insegnante all’altro, sempre alla ricerca di qualcuno che lo faccia al posto loro. Non si assumono la responsabilità delle proprie cattive abitudini. La cosa che maggiormente distingue coloro che giungono all’illuminazione da coloro che falliscono è la “pazienza”. Quando crolli o non riesci ad agire come avresti voluto, invece di lasciarti andare a sentimenti di inadeguatezza, scoraggiamento o impazienza, considera i tuoi insuccessi come passi in avanti verso il successo. Coltiva l’abitudine di praticare e aumenta progressivamente il tempo che dedichi alla pratica stessa. Affronta per prime le cattive abitudini più piccole. Superale con auto-suggestione e distacco: questo ti darà la fiducia per vincere le abitudini radicate nel profondo.

9. L’instabilità: è lo stato mentale o emozionale che si manifesta quando non si riesce a mantenere la tranquillità, un equilibrio, durante gli alti e i bassi della vita. Si verifica quando manca coerenza nella pratica. E ci si perde nello spettacolo transitorio della vita. Questo si vede, ad esempio, quando una persona diventa euforica se le cose vanno bene, e delusa, arrabbiata o frustrata se le cose vanno male. La felicità deriva dal successo, non dal fallimento; dal guadagno, non dalla perdita; dalla lode, non dal rimprovero etc.I n ogni caso, tutte le dualità sono per loro natura instabili, e per tanto che possiamo tenerci strette le cose, esse sono molto fragili. Perché riporre la propria fiducia in qualcosa di transitorio? Per evitare l’”instabilità”, coltiva l’equilibrio nei confronti delle diverse dualità, come descritto più sopra. Osserva il senso di benessere che è possibile provare all’interno di se stessi, a prescindere da ciò che il tuo karma possa portare alla tua porta in quel giorno specifico. Prendi le cose più alla leggera. Non preoccuparti, ma sii presente e perciò felice. Quando si presentano delle difficoltà, fai un profondo respiro se ti accorgi che la tua mente o il tuo corpo iniziano a reagire nel loro solito modo con

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manifestazioni di rabbia o frustrazione. Ricorda, “anche questo passerà”. Ma ricordati di questo anche quando le cose vanno bene.

Questi nove ostacoli a una consapevolezza costante, cioè l’obiettivo della meditazione, sono citati nei Yoga Sutra di Patanjali, I, 30. Se lo studio di questi testi classici può essere un aiuto, non c’è nulla che posso sostituire una pratica diligente e regolare. Non esiste autorità superiore alla tua propria esperienza. E quindi, vai avanti e goditi la nuova coscienza superiore che si manifesta quando incominci a implementare le raccomandazioni per la meditazione citate più sopra. Inizia adesso e fai sì che ogni istante conti, vivendo pienamente nel presente.

Come iniziare?

“Sognamo ad occhi aperti” è una massima dei Siddha Yoga, i maestri supremi dello Yoga. Questa massima caratterizza il dilemma fondamentale dell’esistenza umana. “Sognamo” in qualunque momento in cui siamo assorbiti dai movimenti della mente: percezioni sensoriali, concettualizzazioni, fantasie, ricordi e sonno, secondo il Siddha Patanjali nei suoi Yoga Sutra. Questa diagnosi incisiva esigeva una prescrizione, e i SIddha risposero sviluppando molte tecniche per risvegliarci da questo nostro stato di sogno. Patanjali descrive dodici diversi metodi di meditazione per acquietare la mente. A seconda della specifica natura di ognuno, un metodo potrebbe essere più efficace di altri. Si raccomanda perciò la sperimentazione di tutti i diversi metodi per determinare quale funzioni meglio.

La meditazione in realtà non è qualcosa che tu fai: è ciò che realmente sei! Non può essere separata dal resto della tua vita. Quindi, imparare a meditare incomincia da una certa preparazione a non permettere che il modo in cui vivi la tua vita vanifichi i tuoi tentativi di meditare. La meditazione inizia con l’essere presenti, e questo richiede parecchie cose. Quando sei presente stai ponendo la totalità della tua attenzione su ciò che accade proprio in quel preciso istante. Dal momento che siamo condizionati dalle esperienze della vita a soffermarci sul passato o a preoccuparci del futuro, è necessaria una certa preparazione per decondizionare la mente ordinaria guidata dalle abitudini. L’allenamento formale alla meditazione in scuole orientali quali quella dello Yoga Classico include parecchie fasi. Una delle più conosciute è quella a otto braccia (ashtanga) o gradini:

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1. Yama, o cinque restrizioni, che ottimizza le relazioni sociali ed assicura che esse non diventino una fonte di confusione mentale. Sono: evitare ogni parola, azione o anche pensiero che possa arrecare danno ad altri; dire solamente il vero; vedere gli altri per prima cosa come esseri spirituali e non come oggetti sessuali; evitare di prendere ciò che non ci appartiene; evitare l’avidità.

2. Niyama, o cinque osservanze: coltivare pensieri, parole e azioni di puro amore; contentezza, essere riconoscenti di ciò che si ha; pratica costante del ricordo del Sé superiore e abbandono dell’errata identificazione con i movimenti della mente; studio di sé: attraverso lo studio dei testi sacri e per mezzo di cose tipo annotare in un diario le proprie meditazioni; volgersi costantemente verso il Divino con amore e venerazione per la totalità delle sue manifestazioni.

3. Asana, la pratica delle posture di yoga per conseguire stabilità e rilassamento.

4. Pranayama, la pratica di specifici esercizi di respirazione per calmare la mente e accedere ai propri poteri latenti e alla coscienza.

5. Pratyahara, il ritrarre la propria coscienza dai sensi, l’evitare la dispersione della mente in molte attività non necessarie.

6. Dharana, sviluppo del proprio potere di concentrazione su di un singolo oggetto.

7. Dhyana, o propriamente meditazione, come definita più sopra: sviluppo di consapevolezza costante rispetto a qualsiasi oggetto o esperienza.

8. I sette punti citati conducono all’obiettivo ultimo della meditazione, conosciuto come samadhi, o assorbimento cognitivo, nel quale si trascende la prospettiva ordinaria dell’ego in funzione della quale saremmo separati dagli oggetti dell’esperienza: si diventa Autorealizzati.

Riconoscendo che molte cose, tra cui il nostro corpo e il suo stato di salute, il nostro mentale e le abitudini emozionali, le nostre relazioni sociali, sortiscono un effetto sulla nostra capacità di meditare, possiamo trarre il massimo beneficio ed evitare i trabocchetti in cui possono cadere i principianti. È quindi consigliabile che, oltre ad imparare e sperimentare diverse meditazioni di base, si incominci ad osservare le prime cinque fasi dell’ashtanga yoga citate prima.

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In particolare, lo studente agli inizi scoprirà che, proprio prima di sedersi per meditare, la pratica di alcune posture di yoga ed esercizi di respirazione energizza e rilassa il sistema corpo-mente, e aiuta ad evitare il sonno, fonte frequente di difficoltà.

La postura per stare seduti

La migliore postura per stare seduto è quella in cui ti senti più a tuo agio. Perciò prova diverse posizioni. Se le tue ginocchia sono rigide e incontri difficoltà a sederti a terra a gambe incrociate, siediti sul bordo di una sedia con la schiena dritta nella sua curva naturale “a esse” e le mani appoggiate sulle ginocchia o unite con i palmi rivolti verso l’alto. Dopo aver fatto le posture di yoga, che aprono le anche, rafforzano le ginocchia e sviluppano una colonna forte e flessibile, potrai sederti o stare inginocchiato sul suolo con o senza il supporto di un cuscino o di una piccola panca. Ci sono molte tipi di posture, perciò sperimentale e trova quella che ti consente di sentirti maggiormente a tuo agio.

Respirazione

Si trae un grande beneficio dal fare alcuni respiri profondi prima di iniziare una meditazione. Può essere utile contare i tuoi respiri, calcolando quanto ci vuole a inspirare e ad espirare per poi tentare di allungare la tua espirazione fino a che sia il doppio dell’inspirazione. Per esempio, se inspiri per 6 secondi, espira per 12 secondi. L’inspirazione è collegata al sistema simpatico nervoso, che governa la risposta “combatto o volo” [reazione alle minacce come capacità di adattamento, N.d.T.]; l’espirazione è connessa al sistema nervoso parasimpatico, che governa la risposta di rilassamento. Dando rilievo all’espirazione inizi a rilassare il corpo e la mente, il che ti permette di entrare in una prospettiva di meditazione.

Iniziare le tecniche di meditazione

Come accennato più sopra, esistono molte tecniche differenti che cambiano a seconda dello scopo.

1. Hamsa

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Respira profondamente parecchie volte. Mentre inspiri, osserva come tu ti stia riempiendo di energia; mentre espiri, come tu stia abbandonando la tensione e la fatica.

Adesso rilassati e torna a respirare secondo i tuoi ritmi abituali, e inizia a ripetere la parola “io”, seguita da una pausa. Osserva di cosa diventi consapevole ogni volta che dici “io”. Forse all’inizio saranno sensazioni fisiche. Poi forse pensieri ed emozioni. Ogni volta che dici “io” immagina che sia come regolare la lente di un microscopio e che tu ti trovi sotto il microscopio stesso. Ad un certo punto ti accorgi che tutte queste sensazioni, pensieri ed emozioni stanno apparendo e scomparendo su una sorta di schermo, proprio come le immagini di uno schermo televisivo. Poi noti che lo schermo è fatto di particelle di luce. A mano a mano che ti spingi nel profondo della parola “io”, ti rendi conto che queste particelle si stanno muovendo. Particelle di luce dovunque, dentro di te, intorno a te, attraverso di te. A questo livello diventa difficile distinguere dove tu finisci e dove iniziano le altre cose. Lo spazio tra le particelle si sta ampliando.

Se adesso ti chiedessi chi tu sia, cosa diresti? Non sarebbe più sufficiente fare riferimento al tuo nome, a qualche ricordo o a qualche sensazione. Qui, come un mistico, puoi dire Io Sono Quello. Io Sono Quell’essere infinito da cui tutto proviene e verso cui tutto fa ritorno. Sono come un vasto oceano da cui sorgono moltissime onde sulla superficie. Fino ad ora avevi vissuto solamente sulla superficie del tuo essere. La tua coscienza si era concentrata sulle singole onde, sui singoli pensieri, sentimenti ed emozioni. Adesso la tua coscienza si è espansa e sei consapevole di quell’oceano dell’essere infinito ed eterno che ti trascende, ti supporta, ti contiene. “Io Sono Quello” dice il mistico. Non sono mai nato. Quello che io realmente sono è sempre esistito. Tutto è dentro di me. Io sono in ogni cosa. Tutto va e viene…pensieri, sensazioni, emozioni…ma io rimango, unico ad essere costante durante la totalità degli eventi e dei drammi della mia vita. Diventando consapevoli di quest’unica costante, la sua realtà è al di là di ogni dubbio. È chiaro di per sé.

Come mantenere questa prospettiva? Il tuo respiro ti ricorda sempre in modo naturale della verità di questa prospettiva. Il respiro ti offre un promemoria naturale. Ogni inspirazione sussurra un suono simile a “ham”, che in sanscrito significa “Io Sono”. Durante l’espirazione il

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respiro produce in suono simile a “sa”, che in sancito significa “Quello”. Ogni volta in cui osservi l’inspirazione pronuncia mentalmente “ham” e ricordati “Io Sono”. Ogni volta in cui osservi l’espirazione pronuncia mentalmente “sa” e ricordati “Quello”. Non fare sforzi per controllare il respiro, limitati a seguirlo. Se insorgono altri pensieri non cacciarli, limitati a ritornare a “ham-sa”. Gradualmente, con il rallentare del tuo respiro i pensieri si acquieteranno. Questo enfatizza in modo sottile il lato soggettivo della realtà assoluta. Io Sono. Se lo capovolgi, enfatizza il lato oggettivo della realtà: Quello, Io Sono. Due lati della stessa medaglia. Sono quello che sono. Quindi per almeno dieci minuti rimani molto tranquillo, concentrati sul tuo respiro e ripeti “ham” mentre inspiri e “sa” mentre espiri. E ricorda, Io Sono Quello…

2. Japa o ripetizione di un mantra

Ripeti continuamente, ad alta voce o mentalmente, un pensiero del tipo “IO SONO” o “Pace”, o “Tutto è la Natura Madre Divina”, o ancora “Om, Om, Om” (il suono dell’energia universale che esiste in ogni cosa sotto forma di vibrazione o di suono), “Amen”, o “Tat Twam Asi” (Quello Io Sono). Questa pratica è conosciuta come japa, la ripetizione continuata dei mantra. I mantra ti ricordano che tutto è Uno, e che ogni cosa è solamente apparenza. Questo ti permette di chiamare in causa la prospettiva di una terza persona in qualunque cosa tu stia facendo in un dato momento. Ci sei tu che scavi un fosso, e c’è il fosso che viene scavato, ma c’è anche un terzo individuo, uno che è disinteressata, ma che guarda a tutto ciò con amore assoluto e apprezzamento per come quel tutto è. Facendo così puoi trascendere l’ordinaria prospettiva egoistica del “io sto scavando” il fosso, e iniziare a coltivare la prospettiva di un testimone.

3. Tratak

Metti una candela a una distanza di circa mezzo metro dal tuo viso. L’altezza della fiamma dovrebbe essere allo stesso livello dei tuoi occhi. Siediti con la colonna ben dritta. Con gli occhi aperti, fissa la fiamma battendo le palpebre liberamente quando senti che gli occhi sono troppo asciutti. Inizia con cinque minuti e gradualmente aumenta il tempo. Permetti ai tuoi pensieri di andare e venire, ed evita di fare qualunque cosa. Limitati ad essere con la fiamma finché tu e la fiamma non diventate una cosa sola. Se credi nel mentre puoi ripetere un mantra.

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Gli esercizi più sopra sono meditazioni formali effettuate con gli occhi chiusi, ma questo, Tradak, si fa solamente ad occhi aperti. Tutti servono a prepararsi per la meditazione nella vita di tutti i giorni, che è descritta nel prossimo paragrafo.

4. Essere testimoni

Ci sono centinaia di “tu”, ognuno è una parte diversa della tua personalità. Ci sono il tu arrabbiato, il tu triste, il tu nervoso, il tu orgoglioso, il tu offeso, e il tu lussurioso, solo per citarne qualcuno. Ognuno di loro può commettere un errore per il quale potresti dover pagare un caro prezzo per molti anni. Ma essi vanno e vengono. In ogni caso esiste un Tu che è sempre lì dietro a tutti gli altri. Si chiama il Testimone. Non fa nulla. Osserva ciò che viene fatto. Non pensa. Osserva i pensieri andare e venire. Non prova alcuna emozione. Osserva le emozioni insorgere e scemare. Può essere fatto ad occhi chiusi in postura di meditazione formale, o durante le attività, inizialmente quelle di routine.

Inizialmente puoi adottare la prospettiva del testimone rilassandoti, forse facendo qualche respiro profondo, e osservandoti fare qualunque cosa tu stia facendo. All’inizio cercherai di sviluppare la calma. La calma non è assenza di pensieri, ma è essere presenti con i pensieri. La sostanza della coscienza resta tranquilla e pensieri, sensazioni ed emozioni le passano accanto, come uno stormo di uccelli nel cielo, lasciando il cielo tranquillo.

Ti osservi camminare, mangiare, raccogliere e sistemare cose. Poi suona il telefono, lo prendi e inizi a parlare. A quel punto dimentichi di essere il testimone perché un qualche altro “tu” irrompe in primo piano. Solamente molto tempo dopo ricordi che stavi cercando di essere il testimone. Ti riproponi di non dimenticarlo più e provi di nuovo. Ma molti sottili “tu” continuano a distrarti dal tuo proposito. Dopo un po’ cominci a renderti conto che se è vero che dimentichi spesso, è anche vero che ti ricordi dopo poco tempo. L’addormentarsi incomincia ad azionare un allarme che risveglia. Questa è una fase importante nello sviluppo del testimone, perché incomincia a diventare un automatismo.

Quando continui la pratica, incominci a notare l’insorgere di alcune emozioni difficoltose, ma prima che si manifestino, riesci a liberartene perché sei il testimone.

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Una volta che hai iniziato a vivere in modo più calmo e, in quanto testimone, smetti di identificarti con i molti “tu”, incominci a comprendere come operano le leggi dell’universo da una prospettiva profondamente intuitiva. Anche se la tua vita può presentare delle difficoltà, ogni volta che rimani nella prospettiva del Testimone ne consegue una condizione di beatitudine. La prospettiva di separazione, in quanto Testimone, a un certo punto svanisce. Sebbene tu abbia utilizzato questa prospettiva dualistica [e Ti sia stata d’aiuto, N.d.T.], essa viene trascesa da Tu l’Osservatore, e ogni altra cosa, Ciò che viene visto, è trasceso. Ciò che rimane è l’Uno. Ora è il silenzio a governare la mente, al cui interno può discendere un grande discernimento dall’intelligenza superiore.

Pazienza e perseveranza.

Chi inizia riuscirà a meditare realmente durante appena il dieci per cento di una seduta, in quanto per il novanta per cento restante la mente vaga o si addormenta o viene distratta dal corpo. Con la pratica però la meditazione si fa sempre meno discontinua. Come per qualsiasi forma d’arte, occorre perseverare ed essere pazienti con il proprio Sé: La pratica richiede attenzione e abilità, ed entrambe le cose si sviluppano lentamente. Si può accelerare lo sviluppo se si pratica ogni giorno alla stessa ora, di preferenza almeno due volte al giorno. Escogitando strategie per prevenire i nove ostacoli alla consapevolezza costante (ved. sopra) nella vita di ogni giorno, si faranno anche rapidi progressi nel “dominare la mente”.

10. Attraverso la Contentezza Si Consegue la Felicità Suprema

Che cos’ha a vedere la “contentezza” con la pratica dello Yoga? Patanjali, che ha compilato uno dei primi testi in merito allo Yoga, presenta alcune pratiche preliminari prima della pratica del suo “Kriya Yoga”. In Sutra II, 29 egli definisce queste pratiche preliminari “a otto braccia” o “ashtanga yoga”: “Gli otto rami dello Yoga” sono: 1. Yama (restrizione), 2. Niyama (osservanza), 3. Asana (postura), 4. Pranayama (controllo della respirazione), 5. Pratyahara (ritiro dei sensi), 6. Dharana (concentrazione), 7. Dhyana (meditazione), 8 Samadhi (assorbimento cognitivo).

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I yama o restrizioni sono non-violenza, sincerità, non-rubare, castità e non-avidità. I niyama od osservanze consistono in purezza, contentezza, accettazione senza provocare dolore, studio di sé e abbandono al Signore. Nelle scuole contemporanee di yoga, l’accento viene posto sulle posture e di solito yama e niyama sono ignorati. Forse deriva da una mancanza di volontà di seguire i principi morali che essi incarnano. O forse è dovuto al fatto che, nella nostra cultura materialista contemporanea, impressionano nel loro essere controcorrente. In ogni caso, senza comprendere chi ci acceca da un punto di vista culturale, è probabile che i nostri sforzi di praticare lo yoga vengano ripetutamente frustrati.

Definendo il niyama della “contentezza” in Sutra II, 42, Patanjali ci dice: “Attraverso la contentezza, si consegue la felicità suprema”. La contentezza (samtosha) non implica né il mi piace né il non mi piace: si manifesta semplicemente quando si è se stessi. La natura del nostro essere è felicità (ananda) assoluta. Non c’è altro da fare se non apprezzarla od osservarla.

La contentezza è un equilibrio interno, che implica armonia, gioia in se stessi e amore interiore, in cui non si viene turbati dalle difficoltà che intervengono. Che lo si percepisca o meno, è dovuta alla propria apertura alla contentezza stessa. Si manifesta spontaneamente quando pratichiamo il “nityananda kriya” che viene insegnato durante la seconda iniziazione del Kriya Yoga di Babaji.

Il problema è che, a causa del nostro condizionamento culturale, ci dimentichiamo di coltivare la contentezza! È come se fossimo programmati a credere che attraverso la sofferenza alla fine troveremo la felicità!

Una videocassetta intitolata “Affluenza”, che uno dei nostri studenti mi ha dato di recente, parla del vuoto spirituale, delle malattie fisiche e mentali e dei disastri ambientali provocati dalla nostra “società di consumo”. Parla anche con speranza del 20 per cento di nordamericani che oggigiorno fanno parte di un movimento verso la “semplicità volontaria”.

Nel suo libro “Creativi Culturali” Paul Ray documenta come quasi 50 milioni di nordamericani stiano diventando “creativi culturali”, ovvero persone a cui sta veramente a cuore salvare il pianeta, alimentare i rapporti, esprimere la pace, dare forma concreta alla giustizia sociale e

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coltivare l’autenticità, la realizzazione di sé, la spiritualità e l’espressione di sé.

Recentemente 320 leader buddisti americani si sono riuniti in California settentrionale per discutere tra l’altro della difficoltà di conciliare la cultura americana, che attribuisce grande importanza al capitalismo di libero mercato, all’avidità, alla competizione e all’invidia per le cose materiali, e il buddismo, che pone l’accento sulla trascendenza rispetto ad avidità, invidia e ricerca di beni materiali. Il Dalai Lama ha esortato a un ritorno ai principi: coltivare la compassione, e la libertà da rabbia e avidità. Il problema, come sottolineato da uno dei partecipanti, non è il denaro in se stesso, ma il ruolo da esso giocato nella psiche e nella vita delle persone.

Lo scontento è, naturalmente, l’opposto della contentezza. È anche ciò che guida la nostra cultura materialista moderna, come dimostra il nostro spirito competitivo, la nostra ricerca di status, il nostro bisogno di possedere di più, fare di più e sapere di più. Perfino i seminari contemporanei sulla “crescita personale” troppo spesso nutrono questo scontento promettendoci prosperità o esperienze straordinarie, a patto che noi vi assistiamo!

La non-avidità (aparigrahah) implica non fantasticare su possedimenti materiali e non bramare cose appartenenti ad altri. Spesso le persone fantasticano sul fatto che troverebbero la felicità duratura se solo diventassero ricchi all’improvviso, vincendo alla lotteria o sposando qualcuno di molto abbiente, o ancora facendo una grande vincita in borsa. Questa è pura follia. Indulgere in tali fantasie non fa che distrarre dalla sorgente interiore di felicità eterna.

Come possiamo superare queste inclinazioni così profondamente inculcate nelle nostre menti dalla cultura del consumo ed essere contenti? In Sutra II, 33 Patanjali ci offre una soluzione: “Quando si è dominati da pensieri negativi, dovrebbe essere coltivato il loro contrario (pensieri positivi). (Questo è) pratipaksa bhavanam”. Invece di soffermarsi o razionalizzare su di essi, Patanjali prescrive un’azione diretta: il coltivare pensieri opposti. Ad esempio, se proviamo invidia, possiamo evocare sentimenti di gratitudine e contentezza per ciò che già possediamo. Anche se Patanjali non ha approfondito questa pratica, sappiamo però che i siddha come lui erano psicologi di prim’ordine. Per neutralizzare inclinazioni ben radicate verso il pensiero negativo è necessaria una

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pratica regolare e diligente di cose come affermazioni, autosuggestione e auto-ipnosi. La mente subconscia, in modo non dissimile da un computer, continua ad agire secondo suggestioni, che sono state programmate in essa fin dalla tenera infanzia, anche se sono dannose o procurano sofferenza. Tali suggestioni vengono da genitori, insegnanti, amici, mass media, simboli e valori culturali. È sorprendente come i nostri insegnanti e le nostre autorità non siano in larga parte riusciti a mettere in rilievo o ad insegnare l’arte scientifica dell’autosuggestione e dell’affermazione suggerita da Patanjali in questo verso.

Troppo spesso coloro che assumono uno stile di vita spirituale danno per scontato che le loro pratiche spirituali guariranno automaticamente conflitti psicologici radicati nel profondo. Se all’inizio la psicoterapia può essere d’aiuto, spesso le manca una più ampia prospettiva spirituale. In definitiva il processo di guarigione richiede che ogni persona non si limiti a reprimere, ma che neutralizzi tutti i pensieri e le emozioni dannose. La pratica del distacco aiuterà tutti noi a coltivare la contentezza nella vita di ogni giorno per portarci, come Patanjali ci promette, alla “felicità suprema”.

11. La Casa di un Uomo è il Suo Ashram Quando ci risvegliamo alla dimensione spirituale della vita, ci

troviamo quasi sempre a dover affrontare una mente che ci provoca molta distrazione. Questo dilemma umano universale per cui la nostra coscienza è completamente assorbita dalla fluttuazioni della mente, i “vritti”, come ricordi, percezioni sensoriali, sonno, concettualizzazioni e giudizi erronei, è stato analizzato da Patanjali all’inizio dei suoi Yoga Sutra (versi I, 5-11 ). Ma Patanjali descrive anche gli obiettivi dello Yoga, cioè l’Autorealizzazione, in tutto il suo famoso libro distinguendo chiaramente queste fluttuazioni della mente (l’Osservato) dall’Osservatore, ovvero il Sé. Scrive: “Allora l’Osservatore dimora nella sua vera forma” (verso I, 3). Ma nel verso seguente segnala chiaramente quanto siamo inclini a perdere questa Autorealizzazione: “Altrimenti, si ha un’identificazione (del Sé individualizzato) con le fluttuazioni (della coscienza)”. Come possiamo superare questa ignoranza di base (avidya) in ragione della quale confondiamo il Sé con il non-Sé, l’Osservatore con l’Osservato, il permanente con il transitorio? Il nostro Yoga oggi ci aiuta a rimanere svegli o ci fa addormentare?

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Oggigiorno lo Yoga è diventato un grande business. Un articolo recente nello Yoga Journal stima che siano oltre 18 milioni gli americani che al momento praticano una qualche forma di Yoga, e che in media spendano 1.500 dollari all’anno. Questo fa un totale di 27 miliardi di dollari all’anno, poco meno del fatturato annuale di Microsoft! L’america del consumo e delle società, il yin e lo yang della nostra cultura materialista, ha dirottato lo Yoga.

Questo elemento consumistico dello Yoga americano sta originando una mania? Essendo consumatori guidati da una cultura e da un sistema economico che ci ripete costantemente che più consumiamo più saremo felici, ci ritroviamo a “consumare” nell’ambito del mercato spirituale: corsi in scuole di Yoga, seminari, cassette, abbigliamento, libri, insegnanti, insegnamenti. Questo sempre nell’ottica di cercare al di fuori di noi stessi qualcosa che possa darci ciò di cui avvertiamo la mancanza. Ad esempio, la maggior parte delle persone che vanno a scuole di Yoga nemmeno praticano lo Yoga a casa! Cercano di ottenere da qualcun altro qualcosa di cui sentono la mancanza. E decisamente troppe delle migliaia di scuole di Yoga spuntate fuori dal nulla nei centri commerciali americani stanno promuovendo questa mania! Stanne certo, qui c’è una grande battaglia culturale in corso. Se questo tipo di prodotti e servizi possono farci sentire o apparire migliori, o migliorare la nostra salute, e nel migliore dei casi perfino rammentarci il nostro cammino spirituale, in realtà possono accompagnarci solo per un breve tratto in direzione dell’obiettivo dello Yoga autentico: l’Autorealizzazione.

L’Autorealizzazione in cui ci si realizza nella veste dell’Osservatore, in quanto distinto dall’Osservato, ovvero le esperienze, può manifestarsi in un lampo di discernimento. Ma l’Autorealizzazione o Samadhi (assorbimento cognitivo), come descritto da Patanjali in Sutra I, 40-51, è difficile da acquisire finché continuiamo a identificarci con la nostra mente, ovvero con tutte le fluttuazioni, i vritti che si manifestano all’interno della coscienza: i pensieri, le esperienze sensoriali e i ricordi. Proprio all’inizio dei Yoga Sutra, al verso I, 2 Patanjali ci dice che “Lo Yoga è la cessazione (del processo di identificazione con) le fluttuazioni (che insorgono nella) coscienza”. Dopo aver analizzato queste fluttuazioni egli suggerisce come soluzione non un metodo specifico ma: “Attraverso la pratica costante e il distacco (si manifesta) la cessazione (dell’identificazione con le fluttuazioni della coscienza)” (verso I, 12).

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Ma quanto tempo ci vorrà? A causa del nostro condizionamento vogliamo tutti trovare il percorso più rapido e semplice. E siamo ben disposti a spendere per questo! Ma Patanjali ci dice che in effetti l’unica moneta di un qualche valore nell’ambito dello Yoga è la sincerità: “Così, la differenza caratteristica (riguardo al tempo necessario per raggiungere l’assorbimento cognitivo dipende dal fatto che la pratica dello yogi) sia debole, moderata o intensa” (verso I, 22).

Una pratica debole è discontinua, sporadica, riempita di dubbi, oscillazioni e di distrazioni che possono travolgere. Una pratica moderata alterna periodi di intensità e devozione a periodi di dimenticanza, distrazione e indulgenza in abitudini e pensieri negativi. Una pratica intensa è caratterizzata dalla costante determinazione a ricordarsi del Sé e a mantenere l’equilibrio nel successo e nel fallimento, nella gioia e nel dolore, insieme a una crescita di amore, fiducia, pazienza e comprensione per gli altri. A prescindere dall’intensità degli eventi e delle circostanze, a prescindere da quanto grandi siano le cose in scena nel dramma dell’illusione, continuiamo a vedere la Divinità per tutto il tempo.

CI può capitare spesso di sentire la nostra mente trovare scuse come “Non ho tempo per praticare lo Yoga, devo andare al lavoro” o “Vorrei avere più tempo per praticare”. Potremmo anche scoprire un desiderio mentale di un momento e di un luogo maggiormente congeniale: “Quando sarò in pensione, andrò in India a vivere in un ashram” o “L’anno prossimo farò un ritiro in quell’ashram in montagna”. Queste naturalmente non sono altro che ulteriori reazioni abituali della mente che cerca qualcosa all’esterno coinvolto nella dualità del momento come il mi piace o non mi piace, successo o fallimento, perdita o guadagno. E fintanto che consideriamo la nostra pratica della Yoga come qualcosa da consumare, o che consumiamo “là fuori”, non faremo altro che rafforzare il gioco della mente.

Tu non sei la mente. Hai una mente. Tu sei Essere-Coscienza-Beatitudine, Satchidananda. E per poter realizzare questo pienamente, in ogni momento, devi giocare al gioco della coscienza: costante Auto-consapevolezza. Nel Kriya Yoga di Babaji vengono insegnate molte tecniche per rendere capaci di coltivare la consapevolezza in ogni momento e in tutti i livelli di esistenza tra cui le asana per il fisico, la respirazione pranayama per il vitale, la meditazione dhyana per il mentale, i mantra per l’intellettuale e il devozionale bhakti Yoga per la dimensione

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spirituale del nostro essere. Questo determina uno sviluppo integrale e alla fine perfezione o siddhi a tutti i livelli, non solamente ascesa spirituale o verticale.

Quando e come fare questo? Quanto più spesso ti ricordi di farlo! Dipende da te! Tutte le sadhana Yoghiche o pratiche si possono riassumere in: “tutto ciò che fai per ricordarti chi sei, e tutto ciò che fai per abbandonare ciò che tu non sei”. Probabilmente in questo momento stai leggendo questo a casa. Mentre leggi queste righe, riesci a far sì che la tua coscienza si ponga da parte come testimone ad osservare la tua mente mentre legge queste parole? Riesci a continuare a permettere che la tua coscienza sia divisa in due parti, una assorbita dal vedere, ascoltare, fare, pensare, provare emozioni, e un’altra parte semplicemente consapevole di ciò che sta succedendo? Se ci riesci, troverai beatitudine in ogni istante. Vinci questa “beatitudine” ogniqualvolta sei consapevole. Questo “gioco della coscienza” è l’unico gioco che valga la pena di giocare. Ogni volta che ti ricordi di giocarlo vinci, ogni volta che dimentichi di essere il testimone soffri e perdi. Anche se il tuo karma recapita rose e non pomodori marci alla tua porta, se sei assorbito dal dramma la tua mente inizierà presto a preoccuparsi di quando questo bel momento finirà, e quindi a soffrire.

Quindi fai della tua casa un luogo in cui praticare questo sadhana Yoghico in ogni istante. Che cosa facciamo a casa? Mangiamo, dormiamo, laviamo i piatti, ci rilassiamo, giochiamo e ci occupiamo dei lavori domestici. Fai di tutte queste attività un ambito di coscienza, occasioni per praticare la consapevolezza come insegnato nel Kriya Yoga di Babaji. Ecco una serie di suggerimenti per ognuna di queste aree di attività:

1. Pasti: quando ti siedi per mangiare, fanne un’attivitò sacra, a partire dal momento in cui inizi a preparare il pasto. Intona canti devozionali o mantra, e coltiva il testimone mentre tagli, cucini, servi. Quando ti siedi, recita una preghiera o canta il mantra destinato al cibo: Ahm Hreem Kram Swahaa, Chitrya Chitra guptraya yamarupy dryah Om Tat Sat Om Kriya Babaji Nama Aum. Mastica ogni boccone, praticando il testimone in tutto ciò che sperimenti. Continua a coltivare questa Auto-consapevoleza anche quando stai lavando i piatti e portando fuori la spazzatura.

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2. Faccende domestiche e pagamento delle bollette. Il vecchio detto “la pulizia è prossima alla devozione” si applica anche qui. Mantieni la tua casa come se ti aspettassi che Dio venisse a farti visita in qualsiasi momento. Creando uno spazio di ordine, brillantezza e pulizia sperimenterai maggior equilibrio in te stesso, Coltiva il testimone mentre ti occupi di queste attività. Imparando a programmare le spese in base alle tue entrate e pagando per tempo le bollette ti eviterai molto stress liberando quindi la mente da reazioni di disturbo.

3. Momenti in cui fai esercizi, ti lavi e ti vesti. Allena la tua mente a concentrarsi interiormente mentre svolgi i rituali quotidiani delle posture di Yoga, del lavarti e del vestirti. Fai una cosa alla volta con una parte della tua coscienza distaccata dal coinvolgimento nel gioco dei sensi e della mente.

4. Giocare con i tuoi figli. I tuoi figli possono insegnarti a ritrovare la spontaneità, il ridere e l’essere presente. Trova ogni occasione possibile per condividere con loro ciò che ami della vita e incoraggiali ad esprimersi. Sappi ascoltare non solo loro, ma anche le reazioni della tua mente e il dialogo interiore. Sii un testimone, non solamente uno che agisce.

5. Condividere con gli amici: invita persone che hanno le tue stesse idee a unirsi a te in un satsang, o “condivisione della verità”, ricordando che lo spirito non ha forma e che ciò che è davvero importante è, sempre più, essere Chi realmente sei. Il satsang si manifestare sotto forma di una condivisione di ciò che di meglio si ha compreso o si è realizzato: canti, salmodie, amicizia, meditazione, una seduta di posture di Yoga, un pasto, qualsiasi espressione o gesto di amore e affetto.

6. Pratica lo yoga nidra per sostituire progressivamente il sonno con il riposo Yoghico. Inizia con la pratica del riposo conscio quando non sei stanco, riducendo in questo modo il rischio di addormentarti. Impara a concedere riposo al tuo corpo mentre mantieni la tua consapevolezza nello stato di Auto-consapevolezza, senza estraniarti dal piano fisico.

Coltivando l’Auto-consapevolezza nel mentre delle attività di cui sopra sperimenterai la gioia incondizionata o beatitudine. La beatitudine, o

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ananda, non dipende dal fatto che le circostanze esterne siano piacevoli o meno né dal fatto che tu ottenga ciò che vuoi o ciò che non vuoi. Dipende solamente dal tuo essere presente in uno stato di consapevolezza in merito al modo di essere di ogni cosa.

Se riesci a coltivare la consapevolezza a casa puoi iniziare a coltivarla dovunque. Praticando costantemente l’equilibrio durante gli alti e i bassi della vita, i momenti piacevoli e quelli dolorosi, i tempi felici e quelli infelici, diventerai gradualmente uno Yogi invece che un semplice consumatore di materialismo spirituale. Rimarrai in una condizione di Autorealizzazione. Se il mercato spirituale può ben permettersi di perderti, il mondo trarrà un giovamento incommensurabile dalla tua illuminazione. Abbiamo bisogno di più ashram! Un ashram è per definizione la residenza di uno Yogi. Perciò sii uno Yogi e automaticamente la tua casa sarà un ashram!

12. Satsang Dopo aver ricevuto l’iniziazione al Kriya Yoga di Babaji, molte persone

si chiedono cosa dovrebbero fare o apprendere. “Praticare” è la prima cosa da fare, e poi “praticare, praticare, praticare”. Visto che in ogni caso è necessario fare sforzi per andare contro abitudini ben radicate di inerzia e distrazione, ci si può sentire stanchi e l’interesse o l’entusiasmo per il cammino possono affievolirsi. La mente umana è generalmente molto instabile e necessita spesso di stimoli, di qualcosa di nuovo. Un rimedio possibile è il “satsang” o “condivisione della verità” con altri studenti di yoga. La mente può opporre resistenza attraverso dubbi del tipo “perché andare a un incontro con un gruppo di persone proprio simili a me?”. La risposta sta nella chimica unica che si attua quando ricercatori della verità si incontrano. Gesù il Cristo ne parlò quando disse: “ogni volta che due o tre sono riuniti nel mio nome, io sarò con loro”.

Coloro che sono di fede cristiana accettano quell’affermazione semplicemente basandosi sulla propria fede. Se l’analizziamo e la sperimentiamo, i risultati sono ripetibili come quelli di un esperimento scientifico. Prima di tutto, identifichiamo Gesù e il suo nome. Spesso confondiamo Gesù la persona, figlio di Giuseppe (Jeshua ben Joseph), con lo stato di realizzazione che egli ha raggiunto, la “coscienza Cristica”, il “figlio di Dio”. Non si tratta di uno stato esclusivo. Gesù ha detto: “Siate figli di Dio” e “Siate perfetti, così come vostro Padre nei Cieli è

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perfetto”. Ancora: “Ho operato tutti questi miracoli, voi ne opererete di ancora più grandi”. Quindi, quando incoraggiava gli altri a riunirsi nel suo nome si riferiva alla coscienza Cristica, la consapevolezza di essere già illuminati, ma di aver solamente bisogno di ricordarcene. Questo è il reale scopo del “satsang” così come è concepito in India.

Si ha un satsang ogni volta che ci sediamo al cospetto di un santo, ma può anche manifestarsi quando parecchi di noi si concentrano sulla verità superiore. Il modo in cui ci concentriamo su questa verità, che va al di là delle definizioni e delle parole, può variare: può comprendere meditazione, canti, letture ispiratrici, domande e risposte, pratiche devozionali. Abbandonare per un momento le nostre distrazioni mondane permette al nostro Sé reale di splendere luminoso come il sole (“il figlio”). Ispirazione, gioia e pace fluiscono. Riconosciamo la Divinità in noi stesi e negli altri. Non è un’esperienza intellettuale, ma ciò cui anelano i nostri cuori, il momento eterno, la presenza infinita.

Quando per esempio ci abbandoniamo realmente mentre stiamo cantando il nome di Dio, cosa accade? Il nostro banale circolo di preoccupazioni-ego-centriche si dissolve nell’immutabile Ora. Quando, durante la fase di domanda e risposta nel corso di un incontro satsang, ci concentriamo, senza essere preparati, e ci apriamo all’ispirazione superiore, l’ego si toglie di mezzo e inizia a fluire l’ispirazione. Ci viene conferita autorità e la Verità parla attraverso ciò che Aurobindo chiama lo “psichico”, la coscienza, che forma un ponte tra le nostre menti e Dio.

Quando ci concentriamo su parole di verità come quelle espresse nelle scritture, in libri sacri o letteratura ispiratrice, trascendiamolo anche la prospettiva abituale di una mente inferiore orientata ai sensi e al desiderio. Entriamo in sintonia con quella Coscienza superiore che ha parlato per mezzo degli autori di tali testi.

Ecco i punti principali per articolare un raduno satsang:

1. Preghiera di apertura: invocazione “Om Kriya Babaji Nama Aum”

2. Breve presentazione di tutti i presenti

3. Lettura di letteratura ispiratrice o di un qualche testo sacro

4. Intonazione di salmodie devozionali alternate a canti devozionali cantati individualmente

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5. Salmodia di “Om Kriya Babaji Nama Aum” almeno 16 volte per leader: la direzione della salmodia passa nel circolo da una persona all’altra

6. Pratica di gruppo del Kriya Kundalini Pranayama e della meditazione

7. Fase di domanda e risposta

8. Canto di gruppo del mantra Shanti

9. Condivisione informale di un pasto

Sentiti libero di aggiungere o rimuovere questi elementi a seconda del tempo disponibile e delle tue necessità o interessi. Per esempio, includi la pratica di alcune o di tutte le 18 posture. Organizza i satsang durante uscite nei weekend o gite nella natura. Organizza satsang speciali durante i periodi di vacanza.

Possa ogni lettore prendere il telefono e chiamare qualche compagno di viaggio lungo questo grande cammino del Kriya Yoga di Babaji per invitarlo a casa sua a fare un “satsang”. Se hai la fortuna di vivere in un’area in cui questo tipo di incontri si tengono regolarmente, contattane l’organizzatore; se non sai chi sia consulta sul nostro sito internet (www.babajiskriyayoga.net)’elenco delle persone di riferimento oppure chiama o scrivi all’ashram. Se vuoi partecipare a un satsang internazionale, partecipa a quelli che si svolgono su base annuale in Quebec, Germania, Francia, Brasile.

Anche se non senti la necessità di fare amicizia con altri studenti, ti raccomando di partecipare ai satsang…e in modo regolare. Il cammino ha i suoi alti e bassi. A volte non ci rendiamo nemmeno conto di quanto possiamo esserci lasciati trasportare dagli eventi finché non prendiamo parte a un satsang. Ci saranno occasioni in cui la tua presenza ispirerà altri che si stanno battendo. La vera spiritualità è di natura espansiva, e attraverso il potere dell’amore comprende gli altri. Lascia che il tuo amore e la tua luce risplendano durante i satsang.

13. Spazio Sacro Qualcuno di recente mi ha chiesto di descrivere la mia visione

dell’ashram (qui in Quebec). La risposta a questa domanda analizza il concetto a fondo. Che cos’è un ashram? È una residenza di yogi. Non è

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una scuola né un istituto, né tanto meno un tempio, perché uno yogi trova Dio in ogni luogo e non ha bisogno di edifici specifici per adorarlo.

Per molti anni ho pensato di creare una comunità di persone che condividessero le stesse idee. Pensavo che questo alla fine dovesse assumere la forma di una comunità residenziale in cui gli studenti del Kriya Yoga vivessero insieme. Potrebbe ancora accadere in futuro. Ma il Maestro sembra invece aver disposto che la nostra comunità del Kriya Yoga si manifesti in molte nazioni nel mondo, collegate a livello spirituale, intellettuale, mentale ed emozionale, e anche attraverso “internet” visto che non è sempre possibile essere collegati dal punto di visto fisico.

L’ashram del Quebec funge fin dal 1992 da centro di ritiro in cui migliaia di persone hanno soggiornato per iniziazioni e per l’appunto ritiri. Ha anche assolto alla funzione di ashram in cui molti residenti hanno trascorso lunghi periodi a praticare il Kriya Yoga e ad espletare karma yoga. E continuerà à farlo. Salvaguardarlo come luogo sacro in cui ognuno possa entrare in sintonia con il proprio Sé superiore ha costituito per me una priorità. Al momento è informato delle vibrazioni spirituali di numerosissime pratiche ed esperienze yoghiche. In uno spazio così sacro, per chiunque diventa relativamente semplice sentirsi in pace, avvertire un senso di beatitudine e perfino la presenza di Dio.

Essendo stato coinvolto nella fondazione e nella conservazione di 23 ashram e centri di yoga con Yogi Ranaiah prima del 1989, so quanto sia difficile salvaguardare questo tipo di luoghi. Dopotutto, viviamo in un mondo fisico in cui la maggior parte della gente ignora la Presenza Divina. Le persone vanno e vengono. Se ne vanno quando le loro aspettative vengono disattese, quando i loro ego si sentono minacciati, quando comprendono la quantità di lavoro che viene loro richiesta, o ancora, quando le loro priorità cambiano.

Credo che investire in satsang sia più importante che investire in mattoni e malta per costruire degli ashram. La mia visione dell’ashram e della nostra comunità di studenti di Kriya Yoga è che gradualmente si crei, tra voi, un network di yogi realizzati in Dio e che quindi le vostre dimore diventino, per definizione, degli ashram.

Un ashram inizia a partire da uno spazio sacro, perciò consacra almeno una stanza se non la tua intera dimora e dedicala alla pratica del Kriya

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Yoga. Evita di compiervi attività che siano fatte senza la devota consapevolezza della Presenza. Affiggi immagini e rivestimenti murali che possano essere fonte di ispirazione per te e per gli altri. Rimuovi qualunque cosa che possa creare inutile disordine, Mantieni lo spazio in condizioni di purezza e pulizia, pronto a ricevere la visita di Babaji. Brucia incenso, e accendi lampade ad olio e candele. Canta quanto più possibile il nome di Dio. Riserva il primo mattino e la sera per il sadhana, da solo o con altri. Con una certa regolarità, consacra 24 ore a silenzio, digiuno e sadhana. Invita periodicamente altre persone a praticare il Kriya Yoga nel tuo luogo sacro. Leggi libri suscettibili di innalzarti, evita quelli che possono solamente fungere da distrazione.

Cari Lettori, possiate voi tutti diventare degli yogi! Possa il luogo sacro sommergere il mondo intero nel nuovo Millennio! Avete tra le mani tutto ciò che serve per portare questo a compimento. Vi occorre solamente investirvi nel sadhana, e la vostra dimora diverrò un luogo sacro riempito di vibrazioni magnetiche, salutari, spirituali. Perciò tutto ciò che vi serve per trovare un luogo sacro è tornare nella vostra casa.

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CAPITOLO 3

Fare della nostra vita il nostro Yoga

1. Muoversi verso l’Equilibrio: Attivi con Calma, Attivamente Calmi

Le nostre vite vengono spesso turbate da eventi imprevedibili. Le nostre menti sono spesso pervase da pensieri, desideri e paure che possono turbarci ulteriormente. Questi innescano una reazione a catena che implica emozioni, linguaggio, reazioni fisiologiche e pensieri ancora più preoccupanti. Ci si sente facilmente inermi di fronte a questa agitazione e più tardi, quando la tempesta di emozioni e pensieri si è placata, si prova rimorso o ci si sente colpevoli della nostra debolezza.

Cosa succede? Come può lo Yoga aiutarci a dominare la nostra natura umana in modo da non lasciarci trascinare da reazioni sconvolgenti?

Patanjali tratta questo problema nei suoi Yoga-Sutra al verso I, 16 “Quella libertà dalle forze costituenti (della natura) (che sopraggiunge) grazie all’(Auto)realizzazione individuale è suprema”. Le forze costitutive della natura, o gunas, così come sono chiamate nella filosofia Samkhya alla base dello Yoga, sono rajas (la tendenza verso l’attività), tamas (la tendenza verso l’inerzia) e sativa (la tendenza verso l’equilibrio). Per la maggior parte del tempo siamo sospinti da rajas o da tamas. Per esempio, quando siamo irrequieti o sentiamo il bisogno di andare a fare qualcosa, è la forza universale di rajas ad agire su di noi. Quando invece ci sentiamo stanchi o la nostra mente è confusa o si perde in sogni ad occhi aperti, siamo soggetti alla forza universale di tamas. In ogni caso, dal momento che siamo ego-centrici, consideriamo la nostra irrequietezza o stanchezza

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come una semplice condizione personale e cerchiamo di neutralizzarne l’influenza attraverso il fumo, il parlare, l’attività sportiva, il mangiare o il bere. Se queste azioni possono produrre un qualche effetto compensativo di breve durata, in realtà non fanno nulla per liberarci dalle forze universali.

I saggi come Patanjali si sono resi conto di questo universale dilemma umano e hanno sviluppato le tecniche dello Yoga come mezzo per rafforzare la terza forza universale: sattva. È possibile percepire questa forza ogni volta in cui si è calmi, in pace, soddisfatti, ispirati. Ad essa si accompagna una sensazione di luminosità. Si sperimenta l’essere “attivi con calma e attivamente calmi”. La pratica di asana, pranayama, dhyana, mantra e bhakti accresce il sattva e riduce l’influenza di tamas e rajas. Di conseguenza, le fluttuazioni mentali – o vrittis – incominciano ad acquietarsi e inizia il distacco dagli oggetti di desiderio che in precedenza erano fonte di piacere e di dolore. Finché si è ancora sottoposti al loro ricordo, le fantasie continueranno a manifestarsi. I samskaras o inclinazioni abituali faranno in modo che si reagisca come nel passato alle forze di tamas e rajas. Perciò il distacco richiederà molti sforzi.

È in corso un dibattito tra i fautori dello Yoga classico, che come Patanjali hanno riconosciuto la necessità di sforzi per superare l’influenza dei gunas e dei propri samskaras, e gli Advaita vedantisti, che affermano che, dal momento che solamente il Sé è reale, non c’è alcun bisogno di realizzarlo, limitandosi ad “essere”. L’Advaita Vedanta, ovvero la filosofia del “non-dualismo”, sostiene che “tat tvam asi” (io sono Ciò) e che il mondo sia illusorio; perciò la pratica della Yoga non è solamente superflua, ma costituisce addirittura una distrazione. Un vedantista direbbe: dal momento che i gunas sono solamente apparenza, non c’è alcun bisogno di opporsi alla loro influenza, è sufficiente essere il proprio Sé. Lo Yoga classico è nato dalle filosofie del Vedanta e del Samkhya come approccio pratico all’Auto-realizzazione e trasformazione.

Quale filosofia è nel giusto? Credo che sia una questione di prospettiva. Se si è calmi, concentrati, fortemente presenti e consapevoli, non c’è bisogno di fare alcuna cosa né di sforzarsi al fine di realizzare il Sé: predomina sattva. L’unica necessità è di essere. Ma di solito non è questa la nostra condizione. Quando siamo stressati, agitati, inquieti, pieni di dubbi, ansiosi o stanchi, necessitiamo compiere degli sforzi per opporci agli effetti di tamas e rajas fino a quando non siamo giunti a una

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condizione permanente di Auto-realizzazione. A quel punto, come dice Patanjali nel verso I, 16, la libertà dai gunas è suprema. Una volta realizzato il Sé in modo permanente, la felicità e la pace sono così appaganti da permettere un discernimento automatico tra il Sé e il non-Sé, e si perdono perfino i desideri legati alle fantasie del subconscio. I desideri non possono più esercitare un effetto. Per l’anima realizzata, distacco e mancanza di desiderio non sono basati sul controllo ma sono dovuti alla spontanea e costante consapevolezza del Sé superiore, che pervade tutto ed è sempre felice, in ogni circostanza. Per l’anima realizzata, il distacco supremo non richiede alcuno sforzo.

In questo stato di serenità non ci si identifica più con i vari desideri. Come mantenerlo? Coltivando distacco, contentezza, sopportazione, impavidità, allegria e adattabilità in ogni situazione. Se non riesci a provare questo in ogni singola situazione, chieditene il perché. Solamente rispondendo con sincerità a questa domanda otterrai una liberazione permanente e senza sforzi da ciò che ti impedisce l’Auto-realizzazione.

2. Ciò di cui il Mondo ha Bisogno Adesso è Amore e Compassione

Un Mondo che Soffre

Gli eventi di questi ultimi anni, la guerra in Iraq, il genocidio in Sudan, l’assassinio di innocenti perpetrato da terroristi in tutto il mondo, gli episodi di maltrattamento da parte degli americani nei confronti dei prigionieri in Iraq e a Guantanamo Bay, uragani, terremoti, gli ultimi tsunami, non hanno solamente provocato enormi sofferenze ad altri, ma hanno avuto ripercussioni su ognuno di noi a un livello molto profondo. Il siddha Swami Ramalinga ci avverte di una grande verità che dobbiamo comprendere: tutte le anime si assomigliano, sono tutte uguali e collegate le une alle altre. Quando vediamo, sentiamo, sappiamo che uno dei nostri fratelli sta soffrendo, anche noi soffriamo perché esiste una relazione corporea tra noi due. Tutti abbiamo già sperimentato la Verità di questa cosa.

Il problema dei problemi nel mondo è: come poter vivere tutti una vita tranquilla e felice? La domanda che sorge ogni giorno è: come possiamo, in quanto persone appartenenti a molte diverse nazioni, religioni, lingue e culture, vivere insieme in pace e armonia? Gli statisti di

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oggi discutono se lo “scontro di civiltà” piuttosto che lo “scontro di culture” portino inevitabilmente alla guerra. . Esiste una risposta per ogni singolo individuo e per ogni nazione che affronta il problema? Forse, solamente Dio lo sa.

I Siddha direbbero che è fondamentale che noi, come individui, sviluppiamo le nostre virtù, il nostro carattere e le altre facoltà umane al fine di vivere senza violenze e in armonia con tutti nel mondo. Babaji ci dice che possiamo iniziare con lo sviluppare il nostro carattere fissandolo nell’amore universale e nella compassione. Egli ci trasmette una struttura: “per prima cosa focalizzarsi sul formare il carattere, quindi sullo sviluppare la devozione e sull’ottenere la Divina conoscenza, quindi alternare il sadhana tra servizio, bhakti, jñana e studio di se stessi finché non si compenetrano. Perché esiste uno stadio che tutti noi siamo capaci di raggiungere in cui si sperimenta il Supremo Amore Divino e carattere, devozione e azione sono perfettamente allineati con il Volere Divino, e ciò che viene espresso è sempre un riflesso di Amore e Compassione”.

Il Potere Purificante dell’Amore

Che cos’è questo amore e come possiamo divenirne strumento? Babaji ci dice che l’Amore consiste in qualcosa di più che nell’essere attratti o nell’aver piacere di stare con, o nel desiderare, o perfino nell’essere pronti a sacrificarsi per qualcuno o qualcosa. L’Amore è l’origine di tutte le virtù e dell’aspirazione all’unione. È senza limiti, misterioso e miracoloso. È forza, coraggio, un elisir di rinnovamento e rigenerazione. È umiltà, pazienza, accettazione e sopportazione. Porta con sé il potere dell’espansione e della trasformazione. Tutti noi conosciamo l’Amore sotto qualche aspetto, così ciò che dobbiamo fare è purificare l’espressione esterna di quell’amore per eliminarne l’attaccamento e le emozioni, in modo da realizzare un amore vero che pervada ogni cosa e ogni momento della vita. C’è un potere nelle virtù dell’Amore…un potere che può innalzare la nostra prospettiva e metterci in grado di vedere la Presenza spirituale in ciò che è terreno.

Sri Aurobindo dice che un raggio di amore divino può modificare il carattere della vita di qualcuno. Questo amore si manifesta solo dopo che abbiamo compreso la relazione spirituale esistente tra le anime, e risveglia un’energia divina, o shakti, che intride le nostre azioni di saggezza. L’amore è insito nella Coscienza e si manifesta durante il processo di

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purificazione spirituale, cioè quando abbandoniamo l’ignoranza, l’egoismo, gli attaccamenti e le avversioni. L’amore aumenta quando abbracciamo verità e saggezza nel compiere attività terrene. Non è così difficile amare Dio come Colui che regge le sorti ed è al di sopra di tutto ciò che è terreno. Difficile e necessario è amare il Signore che si manifesta in tutte le forme, in ogni uomo.

Babaji ci dice che la compassione è un’espressione naturale della condizione interiore dell’anima quando questa è in pace. La nostra condizione interiore pura è una forza dinamica la cui vibrazione di pace può arrecare beneficio al mondo nel suo insieme. La compassione, come l’amore, è una qualità del cuore e una virtù dell’anima. Si sviluppa quando il nostro cuore si apre alla relazione con il Signore e con gli altri. Perciò, com’è possibile che qualcuno profondamente religioso possa odiare? I SIddha ci dicono che, per liberarsi progressivamente di tutto l’odio, occorre una costante consapevolezza di se stessi, un costante sadhana di auto-meditazione e distacco insieme allo sviluppo delle virtù di amore e compassione. Quindi, com’è possibile che qualcuno profondamente religioso non sia sempre compassionevole? Normalmente l’uomo è così coinvolto dal proprio senso di mancanza di qualcosa da non potersi permettere di essere compassionevole con gli altri. Solamente una forte disciplina spirituale può creare l’ordine mentale necessario per sviluppare serenità e compassione, che espandono l’amore per includere gli altri, invece di escluderli. La Madre dell’Ashram di Sri Aurobindo diceva: “la compassione cerca di alleviare la sofferenza di tutti, che lo meritino o meno”.

La vera compassione si coltiva identificandosi con gli altri e allargando il proprio orizzonte per abbracciare tutti gli altri. Solo coltivando l’imparzialità possiamo realmente comprendere chiunque. Perché solo una mente realmente imparziale può essere tranquilla e libera da quei dolori, paura, preoccupazioni, odio e senso di colpa a cui l’umanità è assoggettata. Con una mente imparziale si può essere abbastanza coraggiosi da vivere con tutti gli altri secondo amore e compassione. Libertà, amore e compassione si espandono e si inizia a comprendere ciò che conta per gli altri: si inizia a capire il loro punto di vista e alla fine ci si identifica con loro come fratelli e sorelle e ci si mette al loro servizio secondo le proprie possibilità.

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Come può purificare l’imparzialità?

Praticando l’imparzialità, la compassione si manifesterà per fasi. Inizialmente nei tuoi pensieri, poi rispetto a tutti coloro con cui entri in contatto nella vita di ogni giorno, quindi verso tutti coloro che appartengono alla società di cui fai parte e in finis nei confronti di chiunque nel mondo. Un fiume di amore sgorgherà sempre più grande dal tuo cuore e ti aprirai all’immenso potere che costituisce la base della Compassione e può trasformare ogni cosa. Perché la compassione è una forza di Dio, una virtù di Dio e non di una religione.

Come sviluppare l’imparzialità?

Rifiuta anche la più piccola ansietà, tristezza, rabbia, gelosia, qualsiasi agitazione della mente. Non ammettere scuse o giustificazioni per un pensiero che ti infonda agitazione, poco importa quanto accettabile o giustificabile esso possa apparire. Ricorda che in qualsiasi agitazione della mente è sempre il prana a essere turbato. Cerca di staccarti dal prana turbato e mantieniti centrato sulla tua natura superiore. Rifiuta la presa che paure, desideri, avversione o attaccamento possono avere su di te. Rifiuta perfino un’emozione che arrivi dal tuo “cuore” se è suscettibile di provocare agitazione.

Sri Aurobindo dice: “Se l’origine dell’agitazione mentale è la tua volontà o la tua intelligenza, allora sarà più difficile dominare l’agitazione”. Allinea consapevolmente la tua volontà e la tua intelligenza verso l’obiettivo dell’imparzialità.

Se tutto il sadhana yoghico – che include asana, bhandas, pranayama, mantra e meditazione – implica purificazione e in una certa misura sviluppa imparzialità, la vera imparzialità richiede di oltrepassare il senso egoistico di “Io e mio”. L’imparzialità ci chiede davvero di andare oltre il sentimento di essere colui che agisce. Solo in questo modo possiamo restare centrati nella calma consapevolezza di un cuore appagato, a prescindere dalle circostanze che attraversiamo.

3. Il Giudizio, o Come Evitare di Ferire gli Altri e Noi Stessi

Negli anni ’70 era diffuso un best seller intitolato “Io sono O.K., tu sei O.K.” che, come molti altri libri da allora, trattava dei rapporti umani e

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di come trarne il massimo vantaggio. Il titolo è espressione di ciò che inconsapevolmente la maggior parte di noi fa tutto il tempo: giudicare gli altri. Purtroppo la maggior parte dei nostri giudizi non sono “O.K.” ma al contrario si fanno espressione di opinioni che feriscono gli altri e noi stessi. Di conseguenza le nostre relazioni umane diventano una fonte di grande divisione e conflitto. Negli ultimi decenni la maggior parte della psicologia si è focalizzata sul miglioramento dei rapporti umani, sulla gestione dei conflitti e sul rendere le nostre psicologie maggiormente accettabili a livello sociale. Tuttavia il ruolo dei giudizi nelle nostre relazioni sociali non è molto conosciuto.

Empatia e antipatia

Gli studi di psicologia hanno rivelato che la maggior parte delle persone formula impressioni abbastanza accurate degli altri in pochi istanti. È come se gli esseri umani fossero capaci di analizzare gli altri e assimilare, anche in modo intuitivo, molti elementi fondati. Tuttavia queste impressioni provocano reazioni che di solito sono influenzate da inclinazioni e sentimenti, che a loro volta creano giudizi. Per esempio, uno studio effettuato di recente sui colloqui di lavoro rivela che gli intervistati che provano empatia per i loro intervistatori sono favoriti a essere selezionati per il posto di lavoro anche se le loro risposte e la loro qualifica sono spesso inadeguate; invece gli intervistati che provano una qualche avversione o antipatia per l’intervistatore vengono scartati anche se le loro risposte e la loro qualifica sono eccezionali. Questo indica che gli intervistatori formulano giudizi in merito agli intervistati basandosi su fattori soggettivi che includono le emozioni, così come anche l’intuizione, piuttosto che su fatti oggettivi. In altre parole, abbiamo la capacità di percepire i giudizi che gli altri nutrono nei nostri confronti.

Definizione di giudizio

I giudizi sono opinioni che si sviluppano sulla base di esperienze limitate, o addirittura di pettegolezzi. Qualcuno ci fa parte di una diceria su qualcun altro e saltiamo a una conclusione: giudichiamo. Il problema dei giudizi è che non sono basati su fatti e che tendono a consolidarsi prima che siano appurati dei fatti oggettivi. Peggio ancora, troppo spesso sono basati su pregiudizi, paure e fantasie. Ad esempio, hai una reazione immediata quando vedi giovani musulmani in un aeroporto o una metropolitana affollata? O hai una reazione di fastidio quando vedi due

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uomini o un uomo e una donna di razze differenti dimostrare una certa intimità?

In breve, i giudizi sono opinioni incomplete basate su informazioni troppo ridotte, generalmente impressioni di primo acchito, fantasie e associazioni con il passato. Riflettono i nostri pregiudizi e le nostre preferenze. Abbiamo tendenza a vedere ciò che vogliamo vedere o ciò di cui abbiamo timore. In quanto tali, i giudizi sono causati da fattori del subconscio che ci guidano in modo inconscio.

Il giudizio positivo

La nostra sfida non consiste tanto nell’evitare di formulare giudizi, quanto piuttosto nell’apprendere a sviluppare un “giudizio positivo”. Il giudizio positivo è una qualità molto ammirata la cui origine è di difficile comprensione per i più. È il prodotto della riflessione ed è permeato di buonsenso se non addirittura di saggezza. È decisamente avulso da emozioni e pregiudizi ed è acuto nel suo tentativo di soppesare tutti i fattori rilevanti. È “positivo” in quanto edificante per tutti coloro che ne sono interessati. Eleva e apporta gioia. Non ferisce mai. Un amico può dire una cosa veritiera a un altro amico che non è disposto ad ascoltare. Allora questa cosa è rifiutata, nasce un conflitto o si arriva addirittura alla fine dell’amicizia. Quindi, se anche non apporta gioia, il “giudizio positivo” è espresso in modo tale da evitare sofferenza a coloro che ne sono interessati. È il prodotto di una mente che ha accesso alla verità di una situazione attraverso intuizione, esperienza o solide capacità analitiche. Il giudizio positivo è molto spesso frutto dell’esperienza, ecco perché di solito si pensa che siano gli anziani a farsene vettori molto più che i giovani, i cui giudizi sono troppo spesso permeati di eccitazione o ribellione emozionale. In più il “giudizio positivo” viene attribuito al saggio, che sembra avere un collegamento speciale alla verità delle cose, una capacità intuitiva di venire al sodo dell’essere, che sopravvive a ogni altra cosa.

Perché i giudizi sono dannosi?

I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Per prima cosa, riflettono lo stato mentale della persona che li formula. Studi psicologici hanno rivelato che per oltre due terzi del tempo, la persona media si trova in uno stato mentale o emozionale negativo.

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Sentimenti di depressione, afflizione, rabbia, paura, impazienza e orgoglio dominano la persona media. Fino a quando non si apprende a dominare tali stati, il giudizio di solito è un’espressione del proprio stato. Proiettiamo cioè sugli altri ciò che stiamo sperimentando. Presupponiamo che essi vivano ciò che noi stiamo vivendo perché le nostre percezioni sono influenzate dal nostro proprio stato mentale interiore. Danneggiamo gli altri proiettando su di loro una reazione negativa, quando non è sbagliata. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

In secondo luogo, i giudizi sono dannosi perché presuppongono una condizione statica. Quando esprimiamo un giudizio nei confronti di un’altra persona, la presunzione implicita è che la persona giudicata possa difficilmente cambiare. Se la natura umana è abitudinaria, è anche spesso discontinua. Le persone vivono giornate negative, tragedie, e forti reazioni emozionali; queste costituiscono un comportamento atipico e non riflettono il carattere di base della persona. Perciò è sbagliato formulare un giudizio in merito a una persona che ha una brutta giornata o agisce in modo difforme dalla sua natura ordinaria. In più i giovani crescono proprio superando l’immaturità comportamentale. Coloro che sono dotati di una forte volontà superano l’attitudine verso comportamenti negativi e si correggono. Per cui i giudizi, che non tengono conto della crescita né di un cambiamento in senso positivo, sono dannosi. Il giudizio tipicamente confonde la persona con il suo comportamento. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

È necessaria saggezza per percepire la differenza tra la persona e il suo comportamento. Alla saggezza si accompagna la consapevolezza del fatto che non siamo i nostri corpo, mente e personalità, ma che al contrario, questi nostri aspetti sono come vestiti che possono essere cambiati, o mantenuti per abitudine. Grazia alla saggezza comprendiamo che la reale identità di una persona è pura coscienza, l’anima, l’Osservatore o Testimone, che ha il potere di modificare il comportamento abitudinario esercitando la propria volontà. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Terzo e più importante punto, i giudizi sono dannosi perché rafforzano la caratteristica oggetto di condanna non solo nella persona giudicata, ma anche e soprattutto in chi giudica. Quando formuliamo un giudizio nei confronti di un altro, pensando ad esempio “quella persona è così avara”, in realtà stiamo indugiando sull’attributo dell’avarizia e perciò

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la rafforziamo all’interno di noi stessi. Come la preoccupazione, che può essere definita come il “meditare in merito a ciò che non si vuole”, giudicare gli altri è spesso come meditare su ciò che non ci piace di noi stessi. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Patanjali, contemporaneo di Gesù e uno dei padri dello Yoga Classico, disse: “Coltivando un atteggiamento di amicizia verso chi è felice, di compassione per chi è infelice, di gioia per i virtuosi, di serenità per i non virtuosi, la coscienza ritrova la sua calma impassibile” (Yoga Sutra I, 33). Quando non facciamo questo, che cosa succede? Le nostre menti vengono disturbate da giudizi, sentimenti infelici, rancore, rabbia e disgusto. DI conseguenza, perdiamo i requisiti fondamentali necessari per la realizzazione di Dio: calma, pace, purezza interiore e innocenza. Il mondo si trova all’interno di noi. Per trasformare il mondo da un luogo di malvagità a un “regno dei cieli” possiamo e dobbiamo modificare i nostri pensieri. Dobbiamo imparare a perdonare gli errori degli altri e non soffermarci sulla loro debolezza. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Ahimsa, non-ferire, l’antidoto contro il giudizio

Come evitare di formulare giudizi che feriscano gli altri? Il saggio ci dice che abbiamo bisogno di sviluppare l’attitudine del non-ferire, che in India è chiamata “ahimsa”. Riguarda pensieri, parole e azioni. È basata sull’accettazione del fatto che esistono conseguenze, o karma, risultanti perfino dai pensieri. I pensieri ripetuti spesso formano abitudini, e le abitudini finiscono per dirigere la vita di una persona. Se l’abitudine implica desiderio, e se il desiderio non è soddisfatto, insorge confusione in merito all’origine della felicità nella vita, ovvero l’eterna gioia interiore dell’anima. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Quando fu crocifisso Gesù disse: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”, parlando di coloro che lo avevano condannato a un’ordalia così terribile. Invece di soffermarsi sul proprio dolore o chiedere a Dio di condannare coloro che lo avevano condannato, Gesù era maggiormente turbato per le conseguenze karmiche delle azioni dei suoi persecutori. Evidentemente sapeva che, in accordo alla legge del karma, le conseguenze sarebbero state difficili, e non voleva che essi soffrissero per colpa sua. Così chiese a Suo Padre di perdonarli. Il perdono sgorga dal cuore, non dal giudizio. Fu un esempio supremo di ciò che

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Patanjali raccomandò nei Yoga Sutra: “Quando siete invasi da pensieri o sentimenti negativi, coltivate il loro contrario”. Permise inoltre a Gesù di trovare pace e di liberarsi dagli effetti corrosivi della rabbia. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Benedire e amare gli altri costituiscono sempre alternative migliori del giudizio. I nostri pensieri e le nostre preghiere producono effetti significativi sugli altri, e possiamo realmente fare la differenza nelle vite degli altri attraverso i nostri pensieri positivi e le nostre benedizioni. A livello occulto, le forme-pensiero hanno vita propria. Quando pensiamo agli altri, in bene o in male, produciamo forme-pensiero che si attaccano a tali persone e ne influenzano comportamento ed esperienze. Dopo aver scoperto che suo marito le era stato infedele dopo solamente qualche settimana di matrimonio, una giovane donna pregò perché egli morisse. Pochi giorni dopo egli morì in un violento incidente stradale e la sua testa fu decapitata. La giovane sposa fu così sconvolta da sensi di colpa che, per oltre un anno da allora, fece finta di continuare a vivere con lui e gli preparò i pasti e lo servì come se fosse vivo, finché la sua famiglia non la convinse a cercare assistenza psicologica. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

I ricercatori della Duke University, negli Stati Uniti, sono riusciti a verificare che la preghiera è efficace nell’aiutare gli ammalati a guarire, spesso in modo miracoloso. Nella maggior parte dei casi, il tempo necessario per la convalescenza diminuisce sensibilmente se altri pregano per la nostra guarigione. A livello occulto, la preghiera genera potenti forme-pensiero che possono aiutare direttamente gli altri. Una donna seriamente ferita in un incidente stradale riconobbe un totale sconosciuto, che aveva pregato per lei sulla scena dell’incidente, quando questi venne all’ospedale per vedere come stava. La donna sostenne che erano state le preghiere dello sconosciuto a riportarla in vita. Quindi dovremmo, come se fosse un affare di ordinaria amministrazione, benedire gli altri, pregare per gli altri, in silenzio e in forma anonima, ogni volta che vediamo qualcuno soffrire. Tutti noi abbiamo occasione di farlo. Anche nel traffico, quando qualcuno ci taglia la strada o ha un guasto meccanico, o quando un passante sembra triste o inquieto, possiamo dire: “Che Dio benedica questa persona”. Oppure: “Che Dio aiuti questa persona a trovare pace“ o “a rallentare” o “a trovare la felicità”. Possiamo rallegrarci con gli altri della loro buona sorte, invece di essere gelosi: “Dio ha

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benedetto queste persone. Che essi possano continuare a ricevere benedizioni e le condividano con altri”. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Giudizio Finale o Perdono? Parole e parabole di Gesù

Gesù disse: “Con la misura con la quale giudicate gli altri sarete giudicati” (Matteo 7, 1-2). Gesù stava sfidando le norme religiose di quei tempi. Il giudaismo era una religione legalistica. Dio era il Legislatore e diede i Dieci Comandamenti a Mosé sul Monte Sinai. Dio era il giudice ultimo e si credeva che condannasse coloro che trasgredivano le sue leggi e ricompensasse coloro che le rispettavano. Questo costituiva un progresso rispetto ad altre religioni come quella dei Canaaniti, che adoravano un idolo nella veste di un vitello d’oro. Le religioni primitive sono spronate dalla paura, soprattutto della morte o del dolore. Così l’uomo primitivo cerca di placare con sacrifici ciò che considera essere la fonte soprannaturale di eventi e fenomeni naturali che minacciano la sua vita. Più tardi, quando la gente si struttura in comunità, per evitare che ci si arrechi danno gli uni agli altri, vengono sviluppati sistemi di leggi al fine di controllare il comportamento umano con norme sociali. Dal momento che tali leggi necessitano di un’autorità suprema, i governanti, solitamente re o capi, attribuiscono la propria autorità a Dio. Inoltre, per preservare un senso di giustizia, l’uomo crea un’immagine di Dio che è giusto ed è il giudice ultimo che punisce il malvagio e ricompensa il giusto. Troviamo ad esempio nel Vecchio Testamento molti profeti che parlano di “Giudizio Finale”, e in India troviamo il concetto di ”prarabha karma”, secondo il quale le azioni di una vita comportano conseguenze in quella successiva. Così, chi si trova in questo stadio della religione cerca di controbilanciare i propri peccati, o karma negativo, con cose che permettano di espiare le trasgressioni. I modi di attuazione vanno dalla semplice penitenza, abnegazione volontaria, fino alle indulgenze della cristianità medievale, ovvero contributi alla Chiesa che avrebbero permesso la remissione dei peccati. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Gesù disse: “Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? Come potrai dire al tuo fratello: ‘permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio’ se nel tuo occhio c’è una trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello” (Matteo

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7, 3-5). In altre parole, le critiche dovrebbero concentrarsi sul correggere se stessi. Inoltre disse: “Non pensate che io sia venuto per abolire la Legge o i Profeti […] ma per dare compimento” (Matteo 5, 17). Che cosa significa? Gesù non stava dicendo di ignorare la legge, ma di comprendere che Dio ti ama. A più riprese Gesù ci racconta parabole – come quella del figliol prodigo (Luca 15, 11-32) – per spiegare questo “vangelo” o “buona novella”. Grazie al fatto che Dio ti ama, tu puoi amare gli altri. E un Dio che ti ama non può condannarti alla dannazione eterna! Questo fu il suo insegnamento più importante. Esortò ripetutamente i suoi discepoli e il suo uditorio ad amarsi gli uni gli altri e a purificarsi dagli attaccamenti materiali al fine di entrare nel regno dei cieli, che egli disse trovarsi tutto intorno a noi, a patto che sviluppiamo una purezza di visione che ci permetta di vederlo (Luca 17, 20-21; Matteo 18, 2). Dobbiamo diventare innocenti come bambini, disse Gesù, se vogliamo entrare in questo onnipresente regno dei cieli. Egli disse: “Amate i vostri nemici, e pregate per coloro che vi perseguitano” (Luca 6, 27-28). E ancora: “A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra” (Luca 6, 29). Quindi l’amore prende il posto della legge e del giudizio. Puoi avere il diritto di rivendicare “occhio per occhio” come facevano i profeti dell’Antico Testamento, ma come diceva il Mahatma Gandhi: “Occhio per occhio alla fine lascia un mondo cieco”. Ovvero, se siamo accecati dal giudizio e dall’ottica del castigo, non riusciamo a vedere che in fondo siamo tutti membri della stessa famiglia umana, e che attraverso l’amore tutte le differenze possono essere superate. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Il Mahatma Gandhi: moderno apostolo della non-violenza

Il Mahatma Gandhi disse: “Tutti i peccati vengono commessi in segreto. Saremo liberi nel momento in cui avremo compreso che Dio vede perfino i nostri pensieri”. Ovvero, il peccato è l’assenza di consapevolezza della presenza di Dio. Perciò giudicare gli altri per i loro peccati ci rende ciechi nei confronti dei nostri! Gandhi fu un dichiarato studente della verità che, dopo oltre quarant’anni di lotta, nel 1947 costrinse l’Impero Britannico a lasciare l’India senza violenza, utilizzando l’antico principio di “ahimsa” o “non-ferire”. Sviluppò i suoi metodi studiando il Giainismo e le parabole di Gesù, che enfatizzano la non-violenza. I monaci giainisti indossano una maschera sulla bocca e spazzano il terreno davanti a loro per evitare di uccidere inavvertitamente degli insetti. I suoi metodi di

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non-violenza o ahimsa furono la base per il movimento dei diritti civili di Martin Luther King negli States nel 1960 e per altri movimenti lavorativi e sociali che fecero uso di resistenza passiva e proteste e dimostrazioni non-violente per sensibilizzare il pubblico alle proprie cause. In India migliaia di uomini e donne si impegnarono nel movimento satyagraha di Gandhi nel cui ambito si consacrarono a vivere secondo i principi della verità (satya) senza nuocere ad altri. Nel corso di grandi manifestazioni contro l’esercito coloniale britannico, migliaia di loro furono bastonati a morte o mutilati senza opporre la minima resistenza. Furono così resistenti nel “porgere l’altra guancia” che alla fine gli inglesi furono costretti a rinunciare a oltre 300 anni di dominio coloniale in India. Gandhi trascorse decenni nelle prigioni britanniche, digiunando per lunghi periodi al fine di dimostrare la propria resistenza agli inglesi e alle loro politiche. Quando condusse una campagna contro l’importazione di tessuti britannici in India, si conquistò le simpatie perfino degli operai britannici, che avevano perso il proprio lavoro a causa del boicottaggio dell’India. La sua vita e i suoi metodi dimostrarono che non dobbiamo giudicare gli altri per batterli! Ci basta solamente prendere una posizione ferma rispetto alle nostre convinzioni e cercare un accomodamento reciproco senza nuocere agli altri, per ottenerne l’approvazione e la comprensione. Disse: “Il cuore più duro e l’ignoranza più macroscopica devono scomparire di fronte al sole nascente di una sofferenza senza rabbia e senza malizia”. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Gandhi disse: ”La non-violenza è la legge della nostra specie così come la violenza è la legge dei bruti. Lo spirito dorme nel bruto che non conosce altra legge se non quella della forza fisica. La dignità dell'uomo esige l'obbedienza ad una legge superiore – alla forza dello spirito”. E: “È una forza che può essere utilizzata sia da individui che da comunità. Può essere utilizzata anche negli affari politici che in quelli domestici. La sua applicabilità universale ne dimostra la sua stabilità e invincibilità. Può essere utilizzata indifferentemente da uomini, donne e bambini. È completamente falso affermare che è una forza che possono usare solamente i deboli in quanto non sarebbero capaci di rispondere alla violenza con la violenza”. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

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Parlando del movimento politico che fondò per liberare l’India disse: ”Il satyagraha è mite, non ferisce mai. Non deve essere il prodotto di rabbia o malizia. Non è mai nervoso, impaziente o rumoroso. È l’esatto contrario della coercizione. È stato concepito come un perfetto sostituto della violenza”. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Vedere unità nella diversità

Quindi il giudizio, che riguardi i nostri sentimenti personali in merito agli altri o il modo in cui vediamo Dio e la traiettoria ultima della nostra anima, non ha l’ultima parola. I saggi, compassionevoli eroi spirituali della nostra civiltà, da Budda fino a Gesù e al Mahatma Gandhi, hanno scoperto che amore, perdono, compassione e non-violenza lo soppiantano. Quindi se il giudizio ti costa la tua pace mentale, costa troppo. Quando danneggia gli altri, si riflette anche all’interno di te. I maestri dello Yoga, ovvero i saggi Siddha, chiamarono Dio “bontà” e affermarono che facciamo tutti parte di una stessa famiglia, di una stessa terra. I saggi vedono ciò che vi è di buono negli altri e si allontanano dal resto. Il giudizio divide, l’amore unisce. Amore e perdono oltrepassano la legge e determinano una nuova prospettiva nella quale vediamo l’unità essenziale del tutto. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

4. Lo Yoga come un Movimento Sociale Per oltre 100 anni gli Yogi indiani hanno insegnato in Occidente. La

loro influenza è stata profonda nonostante la cosa sia stata riconosciuta solo in minima parte da storici, sociologi, politici e media. Quando tale influenza è stata rilevata, ad esempio da parte dei leader delle istituzioni religiose occidentali, di solito ha assunto la connotazione di un segnale d’allarme. Le religioni religiose occidentali si sono sentite minacciate dagli insegnamenti dello yoga perché temono di perdere la propria influenza, o per semplice ignoranza che istilla la paura di un che di dannoso o non cristiano nelle pratiche spirituali orientali. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Davvero non è una novità. Le religioni strutturate in organizzazioni hanno sempre cercato di mantenere la propria base di potere e di accrescere la loro influenza a spese dei propri membri. È connaturato a qualsiasi istituzione privilegiare i propri bisogni e status rispetto ai bisogni dei suoi membri, anche se è stata creata proprio per questi ultimi. Le

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istituzioni religiose organizzate sono generalmente imprese fondate su paura e sensi di colpa che conservano il proprio potere prima mettendo in guardia contro i pericoli dell’inferno, del demonio, della dannazione, poi offrendo una sorta di polizza d’assicurazione contro tali minacce immaginarie, normalmente un sistema di credenze o rituali che si ritiene possano annullare gli effetti del cattivo comportamento, chiamato “peccato” negli ambienti occidentali e “karma” in quelli orientali. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Coloro che percorrono seriamente un cammino spirituale si ritrovano però su un percorso perlopiù solitario. Se anche i mistici possono incontrare compagni di viaggio o guide lungo il cammino, di solito non è che per periodi relativamente brevi. Storicamente, quando si sono riuniti per costruire monasteri o comunità, possono essere stati tollerati per un po’ dalle istituzioni religiose predominanti nella zona, che non hanno però mai fatto completo assegnamento su di essi. Questo si può ad esempio constatare nei monasteri ormai vuoti nell’Italia di oggi. Quattro secoli fa erano vivificati da numerosissimi mistici. Ma un mistico non ha bisogno di un sacerdote, ancor meno di un papa, perché è in grado di comunicare direttamente con Dio grazie a metodi contemplativi del suo ordine. Così, anche se tollerate per un certo periodo, tali comunità non sono state incoraggiate dalla Chiesa. I monasteri si sono gradualmente svuotati quanto più la gente ha prestato fede a scienza e tecnologia a scapito della religione. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Un mistico, che è il termine cristiano per yogi, non è all’oscuro dei mali della società né potrebbe ignorare la società stessa. In ragione del dilatarsi della sua coscienza e della grande apertura del chakra del cuore, un mistico è più sensibile della maggioranza. Ma come può esprimersi in seno alla società contemporanea? I mistici sono spesso guardati con grande sospetto e, a causa delle loro pratiche ed esperienze, persino con paura generata dall’ignoranza. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Come può il mistico moderno, nella sue veste di solitario, aspettarsi di esercitare una qualche influenza sulla società? Deve costituirsi in organizzazioni con altri? Lo Yoga è davvero un movimento sociale o solo a livello potenziale? I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

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“Nessun uomo è un’isola” diceva John Donne, il poeta inglese, e questo si applica al mistico o Yogi. Nello Yoga Classico, il primo braccio, gli “yama” o restrizioni, dirige il comportamento sociale dello Yogi: non-ferire, non-rubare, non-mentire, non-avidità e castità. Tali restrizioni sono rispettate non per conformarsi a qualche principio morale, ma perché la loro osservanza è allo stesso tempo un pre-requisito e un’espressione dello stato di illuminazione. Attraverso la loro osservanza si giunge a sperimentare che non esiste “altro”, ma solamente Uno. Lo stato sociale supremo. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

L’osservanza risoluta di queste restrizioni, da parte di un certo numero di Yogi che vi si consacrano, può e potrà avere un profondo impatto sulla società. E questo non implica che si diventi leader politici come il Mahatma Gandhi, che era un Kriya Yogi e fu il padre del movimento della non-violenza, che originò l’indipendenza dell’India, il movimento dei Diritti Civili Americani, e la fine dell’apartheid in Sudafrica. In qualunque scambio sociale, che sia con membri della famiglia, colleghi di lavoro, clienti, superiori o estranei, si ha uno scambio di energia. Quest’energia può essere infusa di amore e compassione, il che è profondamente yoghico per definizione, o di rabbia, avidità, impazienza, competizione e antipatia. Possiamo alimentarci gli uni gli altri di amore e compassione, aiutandoci mutuamente ad essere chi realmente siamo, esseri universali consci, o avvelenarci reciprocamente con le nostre inclinazioni egoistiche. Anzi, l’osservanza risoluta del contrario di amore e compassione, come ad esempio da parte degli estremisti nel conflitto israelo-palestinese o in Irlanda del Nord nel conflitto tra cattolici e protestanti, produce solamente dolore senza fine. Si può anche supporre che se i palestinesi avessero adottato un approccio non-violento alla liberazione nazionale, avrebbero ottenuto la loro nazione trent’anni fa. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Lo Yoga è un movimento sociale in q uanto cerca di risvegliare dal normale stato egoistico e trasformare un essere umano alla volta. La nostra cultura pluralistica moderna è ampiamente ispirata a principi di individualismo, materialismo e consumismo; il che equivale a una ricetta per l’egoismo. Nella misura in cui si pratica lo Yoga, partendo delle restrizioni o yama (citate più sopra) e dalle osservanze, i niyama (purezza, contentezza, studio di sé, pratica intensa, devozione al Signore), ci si ingaggia in una sorta di guerriglia contro la cultura dominante. La parola

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“cultura” deriva dal termine latino “culte” che significa “adorazione”. Così, nella nostra cultura moderna materialistica, consumistica e individualista, la maggior parte dei membri della società adora o apprezza, al di sopra di tutto, cose che sono materiali, che possono essere consumate e che accrescono in loro la sensazione di essere speciali. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Uno Yogi invece apprezza o adora il Signore, La Realtà Assoluta, e questo inizialmente lo prova all’interno, sul piano spirituale dell’esistenza, fino a che, una volta raggiunto lo stato di illuminazione, incomincia a percepirlo in ogni cosa a livello trascendente. Non si sente niente di speciale e nemmeno si vede come “colui che fa”. Lo Yogi riconosce la mano di Dio che lo guida e gli conferisce potere ad ogni fase. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Come modificare questa prospettiva è lo scopo dello Yoga; e se elevarsi (attraverso i propri sforzi) è responsabilità di ciascun praticante, esiste un incontestabile aiuto fornito tra membri della comunità dello Yoga o sangha. La parola sangha, o in Tamil sangam, letteralmente significa “il posto in cui si incontrano i fiumi”. Quindi ognuno di noi è un fiume, da questo punto di vista, e quando ci incontriamo si ha uno scambio. Quando una persona è scoraggiata o confusa – e questo può verificarsi anche nel caso di adepti dello Yoga molto sperimentati – di solito la presenza di altri compagni Yogi è sufficiente a guarire o ispirare. Se è vero che questo scambio si vede più chiaramente quando si ha uno scambio di energia vitale tra due persone, è altrettanto vero che una parola o un pensiero gentile sul piano mentale, un consiglio sul piano intellettuale, o un sorriso e una manifestazione di gioia sul piano spirituale possono essere sufficienti a eliminare lo scoraggiamento o la confusione. È perciò essenziale che tutti coloro che praticano lo Yoga di norma non si isolino: condividendo il loro amore e la loro compassione imparano a integrare le loro prese di coscienza spirituali a tutti i livelli di esistenza, a superare l’egoismo e a fungere da puro strumento per il Divino nel determinare una società maggiormente compassionevole, conscia e ispirata da Dio. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Se, stando alle statistiche, al momento 20 milioni di persone praticano lo Yoga in Nordamerica, e il novanta per cento di esse lo praticano solamente come esercizio fisico, questo non significa che l’influenza dello Yoga sia limitata solamente ai campi della salute o del benessere fisico. Se

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si pratica lo Yoga in modo continuativo, si hanno effetti anche a livello del sistema nervoso e della mente, e di conseguenza si ha un’espansione della coscienza nella dimensione spirituale. Questo avviene anche senza sforzi in tal senso, si produce come effetto naturale e spontaneo. Quello che inizia come un bisogno fisico o un mezzo per controllare gli effetti dello stress, alla fine diventa un personalissimo percorso spirituale. E un percorso spirituale porta a livelli crescenti di libertà personale dalla serie di inclinazioni abituali incoraggiate dal condizionamento sociale. Non appena iniziamo la pratica del distacco (vairagya) cominciamo ad abbandonare ciò che non siamo, compreso il condizionamento sociale, e a fare esperienza di chi siamo realmente. L’esperienza dell’Auto-realizzazione prende il posto della confusione generata dall’egoismo, ovvero l’abitudine di identificarci con ciò che non siamo: pensieri, emozioni, ricordi, abitudini e sensazioni. Con l’espandersi della nostra coscienza diventiamo un testimone, e forse il Testimone. “Sono un uomo, un professionista, nero, bianco o asiatico” dice l’ego. “Io sono Colui che sono” dice lo Yogi risvegliato. Le implicazioni sociali di un tale cambiamento di coscienza sono profonde e di ampio spettro. Lo Yogi diventa davvero non solo una fonte di pace e benessere per coloro che sono in sua compagnia, ma una dinamo di energia guidata da straordinari lucidità e discernimento. Una persona di questo tipo può e vuole agire come potente agente del Bene, risolvendo i problemi di questo mondo secondo uno spirito di compassione e saggezza. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

L’interdipendenza di ogni persona sul pianeta non è mai stata così grande come nel periodo storico in cui stiamo vivendo. Questa crisi sociale, nella quale un’epidemia di influenza o un suicidio in una parte del mondo può ripercuotersi istantaneamente sull’economia e sulla stabilità politica della società dall’altra parte del pianeta, richiede la disciplina dello Yoga di niente di meno che milioni di praticanti ispirati. Lo Yoga è una grande difesa contro il terrorismo perché ne colpisce l’origine, la paura, che permette al terrorismo di essere efficace. La paura è semplice immaginazione della possibilità di soffrire senza valutazione della probabilità che questo si verifichi. Questo richiede disciplina mentale, pratica del distacco e tranquillità e lucidità di pensiero, tutte cose ispirate dallo Yoga. Inoltre, l’effetto sulla società del pensiero positivo o della benedizione di uno yogi potente, è più forte del pensiero negativo

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sparpagliato di un migliaio di persone comuni. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Possano tutti coloro che praticano lo Yoga prendere coscienza del potere che hanno per portare pace e soluzioni illuminate ai diversi problemi del mondo. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

5. “Tutti i Paesi sono la mia patria e tutte le persone fanno parte della mia famiglia”

Nel 1997, al ritorno da un viaggio all’estero attraverso sei Paesi, durante il quale avevo tenuto14 seminari di iniziazione, potevo davvero provare nel cuore ciò che è espresso dalla famosa massima dei diciotto Yoga Siddha Tamil. In ogni caso, non è necessario viaggiare tanto quanto me per acquisire consapevolezza di quanto oggi siamo tutti strettamente collegati sul pianeta. Basta navigare nel ciberspazio per entrare in contatto con milioni di persone in tutto il mondo. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Il grande filosofo francese André Malraux affermò durante la Guerra Fredda che “il prossimo secolo sarà spirituale o non sarà affatto”. Non c’è bisogno di cercare lontano la prova di ciò che i catastrofisti preannunciano prima dell’inizio del prossimo millennio [N.d.T. Il presente volume riporta una serie di articoli e conferenze tenute a cavallo tra i due ultimi secoli]. E veggenti come Nostradamus, Edgar Cayce e anche Yogananda hanno predetto terribili catastrofi per gli anni a venire. Esiste un numero crescente di segnali che tali predizioni si avverino: effetti del riscaldamento globale, terremoti, enormi incendi nelle foreste, guerre genocide, epidemie di influenza aviaria, AIDS e altre nuove malattie, terroristi internazionali e fanatici religiosi in possesso di armi di distruzione di massa pronti ad annientare milioni di persone. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Mi chiedono spesso cosa io pensi di tali profezie e cosa bisognerebbe fare. Alla vigilia del nuovo millennio, che molti preannunciano come un periodo di grande distruzione, ci tengo a rassicurarvi: sono fermamente convinto che se tutti noi continuiamo a praticare il Kriya Yoga di Babaji per il bene di tutti su questo pianeta, così come hanno fatto i Tamil, qualunque catastrofe o distruzione destinata a verificarsi nei prossimi anni sarà fortemente attenuata. Renderemo servizio come parte della soluzione

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per determinare una nuova era di pace e armonia. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Questo non è per dire che possiamo continuare a condurre le nostre vite come in passato. Si tratta piuttosto di un richiamo a svegliarci per consacrarci di nuovo alle pratiche yoghiche e volgerci verso coloro che ci circondano. Questo deve includere anche il ricordo del Divino in tutte le nostre relazioni, e il restare appartati più a lungo per spingerci nel profondo verso la nostra fonte silenziosa in cui possiamo trovare la nostra forza e la nostra ispirazione. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

In quest’ottica, alla fine del 1994 ho abbandonato una carriera di 25 anni per dedicarmi a tempo pieno a rendere accessibile il Kriya Yoga di Babaji alla gente di tutto il mondo. Per mezzo della grazia di Babaji ho formato insegnanti di Kriya Yoga in quasi dieci Paesi e ho posto le basi in una dozzina di altre nazioni, per un totale di circa 15000 studenti iniziati al momento. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Vorrei condividere con chi legge il mio primo “pellegrinaggio in Russia”, tra il 20 e il 24 ottobre del 1997. È stato molto commovente per me, quasi quanto il mio primo viaggio in India nel 1972. Anche se mi sono interessato tutta la vita agli affari esteri, nulla di ciò che avevo letto sulla Russia mi aveva preparato a ciò che ho sperimentato nell’ottobre del 1997. Ci sono andato con molta inquietudine in merito alle condizioni fisiche del posto, alla voglia di imparare degli studenti potenziali e al modo in cui sarei riuscito a comunicare la meraviglia del Kriya Yoga di Babaji. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

All’arrivo, non ho potuto fare a meno di pensare al mio ultimo viaggio in Europa dell’est nel 1968, durante il quale sono stato arrestato a Berlino Est, imprigionato e interrogato per diverse ore in quello che era il quartier generale della Gestapo per essermi inavvertitamente avvicinato al “Muro” che divideva la parte orientale da quella occidentale della città. E nonostante il fatto che l’organizzazione della visita fosse stata facilmente messa a punto via internet con Sergei, il viaggio era quasi stato cancellato a causa di ritardi burocratici per l’ottenimento di un visto. Quasi 30 anni dopo [il viaggio a Berlino, N.d.T.], arrivato nel tetro e sgradevole aeroporto di Mosca e dopo aver camminato tra la folla fino all’uscita, le mie inquietudini hanno incominciato a dissolversi quando sono stato

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salutato da tre volti sorridenti che si sono presentati come Sergei, Ira e Galya. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Più tardi, quando abbaiamo lasciato l’aeroporto nella vecchia Lada [un’auto, N.d.T.], ho avuto il primo assaggio di humour russo: “Ci aspettavamo che tu fossi vestito di bianco. Abbiamo seguito un altro passeggero che lo era finché non ci siamo resi conto che era la persona sbagliata”. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Passando per strade in cui le macchine erano sorprendentemente poche, siamo andati direttamente in una scuola elementare dove era stabilito che tenessi una conferenza introduttiva. Dentro a una classe c’erano 28 russi che aspettavano con ansia, seduti in circolo. Alcuni di loro avevano preparato un piccolo altare e acceso delle candele. Ho messo una foto di Babaji sull’altare e abbiamo iniziato a cantare “Om Kriya Bababji Nama Aum”. È stato entusiasmante per me sentire la Sua presenza in quel luogo. Poi ho tenuto una conferenza su Babaji e il Suo Kriya Yoga, parlando lentamente affinché il traduttore Sergei Gavrilov potesse seguire il ritmo. Più tardi ho saputo che erano venuti da tutta quella che era stata l’Unione Sovietica [sciolta alla fine del 1991, N.d.T.]: dal Kazakstan, dagli Urali, dalla Bielorussia, perfino dalla costa del Pacifico in Siberia. La maggior parte di loro aveva già letto la traduzione russa di “Babaji e la tradizione dei 18 Siddha Kriya Yoga”, pubblicata a Mosca un anno prima. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

La conferenza ha toccato una corda sensibile nei loro cuori e il gruppo ha incominciato a irradiare un ardore fatto di amore e apprezzamento per il messaggio che ho trasmesso loro. La maggior parte di loro aveva una quarantina d’anni e ho percepito che tutti loro hanno attraversato molte privazioni, specialmente a partire dal crollo dell’Unione Sovietica e della sua economia durante gli ultimi anni. Dopo la conferenza, sempre in macchina siamo andati alla Piazza Rossa e al Cremlino, e abbiamo camminato sotto una pioggia leggera allo scoccare della mezzanotte. Mi sono stupito di trovarmi tra le mura immense e la Cattedrale di San Basilio, simboli dell’impero degli Zar. Siamo andati in una piccola cappella sull’altro lato della piazza e lì abbiamo visto antiche icone della Madonna col bambino, tutte in cornici d’oro, illuminate a giorno e pulsanti di vibrazioni spirituali che mi hanno ricordato alcuni templi dell’India. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

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Durante i tre giorni seguenti ho visitato diversi chiese e monasteri e esplorato Mosca in lungo e in largo. Nonostante 70 anni di regime comunista, il patrimonio spirituale della Chiesa Russa Ortodossa è ancora palpabile nella vita di molti russi. Ho scoperto che molti russi sono profondamente spirituali, colmi di amore e di saggezza. Ciò che sta succedendo lì sembra essere una sorta di “primavera” fatta di molte cose che giacciono prive di vita un po’ ovunque, come foglie sul terreno dopo lo scioglimento della neve, e qua e là nuove aziende, nuovi negozi, restauri, movimenti spirituali, simili a splendidi fiori che iniziano a germogliare. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Ogni sera dopo il seminario, sulla strada del ritorno all’appartamento di Ira, la mia ospite, sono stato colpito dal vedere, nelle stazioni della metropolitana, un tale numero di anziani lottare per vivere vendendo pacchetti di sigarette americane, carta igienica e altri articoli per la casa, con la faccia rossa e gonfia per gli effetti di alcool e freddo. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

D’altra parte, sono stato impressionato dalla visione e dalla determinazione dei giovani nel voler creare una nuova società fondata su cooperazione, tecnologia e scienze spirituali. Ho potuto comprendere il loro punto di vista: fortemente preparati nelle scienze e nell’ingegneria, e profondamente spirituali, malgrado prospettive scoraggianti i miei nuovi amici russi sono determinati ad apportare un contributo durevole al mondo. Sono certo che, con simili persone, ci si possa aspettare grandi cose dalla Russia del ventunesimo secolo. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Il seminario di iniziazione si è tenuto dalle 7 alle 11 di sera in una classe di una scuola pubblica. Ventisei persone hanno ricevuto l’iniziazione. Gli studenti erano sinceri e molti di loro hanno fatto ottima prova nelle pratiche di respirazione, meditazione e posture. È stato costituito un gruppo a Mosca che si riunisce a cadenza mensile. Sono anche stati fatti programmi di massima per un’iniziazione di secondo livello dopo un anno. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Jai Babaji! Jai Kriya Yoga! Possa la fragranza del Kriya Yoga Tamil Siddhantham diffondersi in tutto il mondo. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

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6. Sacra Follia, Kundalini, Shaktipat e Distruzione dell’Ego

Di recente ho letto il libro di Georg Feurestein “Sacra follia – Le tattiche shock e gli insegnamenti radicali degli adepti della saggezza folle, i sacri pazzi e i guru bricconi”, che mi è stato regalato dall’autore. È un’opera preziosa per il moderno studente di Yoga a cui può succedere di incontrare, a un dato momento, il tipo di insegnante enigmatico descritto in questo libro. Dopo aver raccontato la storia e il ruolo di tali straordinarie personalità attraverso i secoli in differenti tradizioni spirituali, l’autore descrive le storie di parecchi esempi dei tempi moderni come Gurdjeff, Rajneesh, Chogyam Trungpa Rimpoche, Swami Nityananda e il suo guru folle e saggio, Adi Da (Bubba Free John). È un’analisi considerevolmente equilibrata e acuta del valore e delle trappole insite nel seguire un tale tipo di insegnante. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

È stato significativo per me soprattutto perché il mio insegnante, Yogi Ramaiah, era uno di questi esperti della “saggezza folle.” Si riferiva di frequente a se stesso come a uno “yogi testa matta”, e se generalmente seguiva una disciplina severa, era maestro nel creare situazioni difficili per i suoi studenti; situazioni nelle quali essi si sarebbero dovuti confrontare con le loro reazioni più basse: paura, risentimento, orgoglio, imbarazzo, insicurezza, frustrazione, confusione. Ridere sembrava essere il rimedio migliore, e ci dicevamo spesso che sarebbe stato impossibile spiegare a qualcuno ciò che avevamo vissuto. Di solito il suo comportamento era enigmatico. Congratulazioni a Georg per aver espresso così tanto discernimento tra due copertine. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Alcune citazioni di rilievo: “Riconosciuto il fatto che la nostra valutazione di un insegnante è sempre soggettiva fino a quando non abbiamo raggiunto il suo livello di realizzazione spirituale, esiste però almeno un criterio che dobbiamo applicare a un guru: incoraggia sinceramente la crescita personale e spirituale dei suoi discepoli o sottilmente ne mina, in modo certo e costante, la maturazione? Gli aspiranti discepoli dovrebbero osservare, in modo attento ed equilibrato, la comunità di studenti del guru potenziale. In particolare dovrebbero esaminare attentamente coloro che tra tutti sono più prossimi al guru”: I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

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“Che gli insegnamenti sperimentati lungo il percorso siano belli e piacevoli, o sgradevoli e duri, o perfino privi di attrattiva, tutto fa brodo per il risveglio. La più sottile reazione riflette il più sottile attaccamento. È un indizio importante di ciò a cui sei ancora attaccato. La semplice osservazione delle tue reazioni fa di tutto un insegnamento”. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

“Affidabilità e responsabilità sono importanti strumenti equilibratori nel processo spirituale che intercorre tra insegnante e discepolo. Quando disattesi si hanno giochi di potere e abusi, come è stato ampiamente dimostrato negli ultimi anni dagli angeli caduti della vita spirituale in America e altrove”. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

“La mia convinzione personale è che, a tempo debito, la nostra epoca svilupperà una sua propria spiritualità caratteristica e che questo farà nascere una nuova classe di guide spirituali. Il tipo del guru tradizionale, faccio presente, è generalmente troppo dispotico e paternalistico per le nostre sensibilità moderne. Perciò l’approccio guru-centrico di stile orientale è destinato a fallire in Occidente, obbligandoci a cercare delle alternative. Coloro che sono spiritualmente “musicali” cercheranno e chiameranno nuovi maestri – insegnanti che sono anche apprendisti, che non mostrano affatto la loro aureola e che non sono infastiditi dall’infilare i piedi nell’humus della vita al fine di camminare con i loro amici, compresi coloro che non appartengono alla classe media bianca privilegiata”. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

“Quindi nonostante i dubbi espressi in questo libro a proposito degli adepti della saggezza folle e dei maestri eccentrici, essi possono probabilmente assolvere a un’utile funzione nella società: fungere da specchi dell’”alienazione” della realtà del consenso e da segnale di richiamo per quella più ampia Realtà che di solito tendiamo a escludere dalla nostra vita. Nella misura in cui essi possono aiutarci a liberarci dagli “accecatori” con i quali nascondiamo la Realtà alla nostra vista e nascondiamo noi stessi (o il nostro Sé) a noi stessi, faremmo bene a tenere conto del loro messaggio. Allo stesso tempo, sento che essi sono reliquie di una spiritualità arcaica che, prima o poi, sarà sostituita da un approccio maggiormente integrato all’auto-trascendenza. Questo nuovo approccio sarà corroborato da insegnanti, e tra questi i sacri folli, che mettono la crescita personale e l’integrità al di sopra del bisogno di insegnare, la Realtà al di sopra della fedeltà tradizionale, e la compassione e lo humour

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al di sopra di qualsiasi gioco di ruolo”. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Quanto sopra riflette l’approccio che ho cercato di mettere in atto da quando ho lasciato un insegnante della “saggezza folle”. Credo che i nostri studenti siano stati i grandi vincitori nella misura in cui si sono investiti nella pratica. So che se molti non hanno riconosciuto il valore di ciò che hanno ricevuto, è perché solo una parte di loro è pronta a investire il tempo e lo sforzo necessari per addentrarsi in questo campo. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Shaktipat o trasmissione da parte dei guru

Numerosi “maestri” indiani passati e presenti sono riusciti ad attirarsi molta attenzione e seguaci attraverso la promessa di concedere ciò che è a volte chiamato “shaktipat”, ovvero trasmissione di energia che provoca stati alterati di coscienza. Swami Muktananda e Yogi Amrit Desai sono due esempi tra coloro che lo hanno fatto per molti anni. Spesso i destinatari sperimentavano stati alterati di coscienza, o movimenti incontrollati del corpo, giungendo perfino a dimenarsi come cani. Ancora peggio, alcuni hanno sofferto di stati psicotici di lunga durata o di stati di squilibrio permanente della coscienza. L’operato non è stato positivo e la reputazione di entrambi gli insegnanti è stata seriamente danneggiata. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Il mio insegnante a proposito delle promesse di esperienze spirituali o “shaktipat” era solito consigliare di “prestare maggior fede al proprio sadhana che a promesse di tale tipo”. Ci sono molte ragioni per questo. Per prima cosa, la nostra natura umana, con tutti i suoi samskara o abitudini, oppone resistenza al cambiamento. Perciò, anche dopo aver fatto una cosiddetta esperienza di energia o altro, si ritorna allo stato abituale di coscienza e nevrosi. In secondo luogo, in nessun libro della letteratura yoghica lo “shaktipat” viene raccomandato come mezzo per acquisire un cambio durevole di coscienza. Patanjali ci dice questo in merito ai nostri più radicati desideri e inclinazioni del subconscio, i samskara: solamente tornando ripetutamente alla fonte, ovvero allo stato di samadhi, possiamo estirparli. Terzo, una tale promessa crea una dipendenza dal “maestro”, laddove l’obiettivo è diventare noi stessi maestri dei nostri corpo, vita e mente. Quarto, da l’impressione che l’ ”illuminazione” possa essere acquistata al prezzo di un seminario o come

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risultato di un’esperienza. Mentre invece l’illuminazione, ovvero il situare la propria coscienza nello stato di Auto-realizzazione conosciuto come samadhi, viene raggiunta raramente, e soltanto come risultato di un lungo processo di rigoroso sadhana, ovvero la pratica di discipline spirituali o yoghiche. Questo praticamente senza eccezioni. Quinto, qualsiasi esperienza avviene sui piani fisico, vitale e mentale e, in ragione di ciò, è limitata nel tempo e negli effetti. Sul piano spirituale, si va oltre le esperienze, lo spazio e il tempo, per realizzare la coscienza pura. Solo questo è l’obiettivo dello Yoga e di tutte le tradizioni spirituali autentiche. Sesto, è falso sostenere di poter trasmettere l’illuminazione a qualcun altro per effetto dello shaktipat. Non esistono scorciatoie per l’ ”illuminazione”. Infine, nessun insegnante realmente “illuminato” potrebbe mai rivendicare di essere speciale o superiore rispetto agli altri. Quando si raggiunge lo stato di illuminazione, non esiste più “altro”; si è al di là del bisogno di fare o trasmettere una qualsivoglia esperienza perché non si è più nella condizione di sperimentare: ci si trova a essere uno con la verità Suprema, che trascende tutte le esperienze e le forme. Un insegnante illuminato, come ad esempio Ramana Maharshi, non attesterebbe nemmeno una relazione guru-discepolo tra se stesso e altri. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Ciò che è importante ricordare è che il nostro sadhana comprende non solo una trascendenza o ascesa verticale verso lo spirituale, ma anche un’integrazione orizzontale in tutti i settori della vita. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Distruzione dell’ego da parte dei guru

Durante gli ultimi sette anni di ricerche, traduzioni e studio della letteratura dei Diciotto Yoga Siddha, non ho mai trovato alcun incoraggiamento da parte dei guru a utilizzare un metodo di trasformazione dei propri studenti che normalmente viene chiamato “distruzione dell’ego”. Si potrebbe definire “distruzione dell’ego” qualsiasi azione o parola di un guru espressa con l’intenzione di provocare in un discepolo una reazione che egli avrà difficoltà a gestire. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Per esempio, il guru potrebbe criticare pubblicamente il discepolo per un qualche insuccesso anche se non ce ne fosse bisogno. Il discepolo deve dominare il desiderio di porsi sulla difensiva, che è una delle maschere

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della paura. Non solo la “distruzione dell’ego” non è menzionata nelle opere di Patanjali, Boganathar, Ramalinga e Tirumular, ma non se ne trova traccia nemmeno negli scritti dei Diciotto Yoga Siddha meno conosciuti. Osservandone gli effetti su me stesso e sui miei fratelli e sorelle discepoli, ho constatato che questo metodo nella maggior parte dei casi allontana i discepoli, in altri lascia ferite così profonde che non si sono ancora rimarginate. Anche per coloro che sono rimasti con il mio insegnante fino alla fine della sua vita, è evidente che, come metodo per sradicare, o anche solo indebolire l’ego, la sua efficacia sia discutibile. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Sono arrivato a credere che sia troppo grande il rischio che la “distruzione dell’ego” diventi più qualcosa di violento che un sostegno alla crescita di uno studente. Può esserci un confine sottile tra violenza e sostegno, il che dipende non solo dalla capacità e volontà dello studente di diventare un discepolo e, in tale veste, di crescere in ogni istante, ma anche dallo stato mentale del guru. Se il guru nutre anche una minima preferenza, questa deriva dal suo ego. Sono arrivato a credere che il sostegno ideale di un insegnante consista nella sua presenza e nella sua coscienza rispetto all’addestramento dello studente. Così facendo, l’insegnante crea le condizioni ideali perché lo studente possa diventare a sua volta più presente e cosciente di ciò che necessita di cambiare dentro di sé. Patanjali chiama questo sostegno svadhyaya o “studio di sé”. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Sono arrivato a credere che la vita stessa fornisca qualsiasi tipo di esperienza di cui ogni anima abbia bisogno per riconoscere gli angoli appuntiti dei propri ego, e che pertanto il metodo più efficace consista nel focalizzarsi sullo svadhyaya o “studio di sé”. Questo comprende l’auto-osservazione, da effettuarsi attraverso l’utilizzo di un diario in cui annotare le proprie reazioni abituali e ripetitive che denotano i samskara o schemi di abitudini; e l’indebolire sistematicamente tali abitudini attraverso quello che Patanjali chiama il “fare il contrario”. Lo svadhyaya include anche uno studio regolare del Sé attraverso profonde meditazioni, il divenire consapevoli di ciò che è consapevole, e lo studio di testi sacri. Questo ci rammenta la realtà soggiacente ai drammi apparenti delle nostre vite. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Sono anche arrivato a credere che, a prescindere dal livello a cui ci troviamo sul percorso spirituale, i nostri compagni di viaggio, che si tratti

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di insegnanti, altri studenti, amici o membri della famiglia, sono i migliori specchi in cui rifletterci per vedere i nostri ego e le loro manifestazioni. In questo modo possiamo prendere le distanze da attaccamenti e avversioni messe in luce dalle nostre relazioni. Tali relazioni sono ancora più rivelatrici quando siamo in compagnia di persone che si stanno concentrando sull’essere consapevoli e lavorando sulle proprie manifestazioni eroiche. Questa è la più grande assicurazione contro ciò che accade spesso a persone “spirituali” che vivono da sole e finiscono per credere di essere quasi perfette. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Quindi la “follia sacra” non è inevitabile. Se la sanità mentale è definita come l’abilità di adattarsi ai cambiamenti, allora i più sani di mente sono coloro che sanno stare al mondo senza che esso possa disturbarli. Esattamente come disse Ramana Maharshi rispondendo a qualcuno che gli chiedeva di descrivere il suo stato di illuminazione: “Ora, nulla è più in grado di disturbarmi”. Oggi il nostro mondo moderno è in continuo cambiamento e le sfide che esso ci presenta ci forniscono tutto ciò che necessitiamo per affrontare e trascendere gli attaccamenti e le avversioni dell’ego. Possiamo noi tutti vedere la realtà immutabile, la verità suprema in mezzo al cambiamento, installati nella prospettiva dell’anima. Possiamo noi tutti trovare il sacro in mezzo alla follia del mondo moderno. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

7. Come sapere se stiamo progredendo a livello spirituale?

Come sapere se stiamo progredendo a livello spirituale? Si tratta di una domanda importante che prima o poi ogni aspirante alla spiritualità si pone. Non esiste una risposta semplice. È difficile da valutare in quanto il percorso spirituale è progressivo e lo spirito non ha forma. Quindi, prima di definire ciò che è progresso, cerchiamo di definire quello che intendiamo come “spirituale”. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Nello Yoga si affronta ill dilemma umano dell’egoismo, dell’identificazione con il corpo e con la mente. Si parla di cinque corpi: il corpo fisico (anna maya kosha, letteralmente il corpo del cibo), il corpo vitale (prana maya kosha, che anima il fisico ed è la sede delle emozioni), il corpo mentale (mano maya kosha, che comprende il subconscio, la

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memoria, i cinque sensi, le facoltà di riconoscimento), il corpo intellettuale (vinjnana maya kosha, che comprende le facoltà di ragionamento) e il corpo spirituale (ananda maya kosha, letteralmente il corpo della beatitudine, o anima, che è pura coscienza, il Testimone). Normalmente, a causa dell’egoismo pensiamo e agiamo con la convinzione che “io” sono il corpo, o “io” sono le mie emozioni, o ancora “io” sono i miei ricordi e le mie idee. Ad esempio diciamo: “io” ho freddo; o “io” sono arrabbiato; o “io” sono sposato a Tal dei Tali; “io” sono “Anna Rossi”, o “io” sono conservatore. Eppure, dopo un mese potremmo identificarci con l’esatto contrario: “io” ho caldo; “io” sono contento; “io” sono divorziato; “io” ho un nuovo cognome: “Anna Verdi”; e ancora, ho cambiato orientamento politico e adesso “io” sono un laburista. Ovviamente, non possiamo essere entrambi gli opposti: possiamo essere solamente ciò che è…sempre. Ma il potere dell’egoismo è così forte che dimentichiamo costantemente chi siamo realmente: puro essere e coscienza. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Perciò il “progresso spirituale” deve implicare una progressiva identificazione con i’ananda maya kosha o corpo spirituale, così come un progressivo abbandono dell’erronea identificazione con i corpi fisico, emozionale [vitale], mentale e intellettuale o dimensioni dell’esistenza. Si tratta di una progressiva purificazione dall’ego le cui manifestazioni comprendono: desiderio, ira, avidità, orgoglio, infatuazione e rancore. All’inizio, e durante un lungo periodo, questa purificazione implica il compiere sforzi per rispettare intimazioni di natura etica, morale e religiosa come ad esempio il non ferire, il non rubare, il non bramare. Questi sforzi permettono di trovare gradualmente un equilibrio interiore basato su amore, contentezza e accettazione. Per utilizzare un’analogia moderna, l’ego ci fa sedere troppo vicino al programma televisivo della nostra vita. Di conseguenza, siamo così assorbiti dalla fiction da dimenticare chi realmente siamo. Purificarci da cupidigia, avidità e ira ci rende capaci di indietreggiare e allontanarci dallo schermo televisivo quanto basta perché possiamo realizzare che non siamo il programma televisivo con tutti i drammi della nostra vita: ne siamo l’osservatore o Testimone. Quello che resta da fare, attraverso pratiche spirituali quali la meditazione, è fare un ulteriore passo indietro e sviluppare progressivamente una prospettiva superiore in noi stessi. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

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Alla fine, come vedremo alla fine di questo articolo, una volta acquisito lo stato di Auto-realizzazione, questo inizia a discendere nei corpi mentale, vitale e fisico, trasformandoli. Il nostro sviluppo spirituale non ha bisogno di essere “al di sopra e fuori” da questo mondo. Come vedremo, può implicare uno sviluppo integrato di tutti i cinque piani di esistenza. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

All’inizio, però, progrediamo spiritualmente nella misura in cui ci identifichiamo sempre più con quella parte di noi che è coscienza pura, cioè il Testimone. Questo è conosciuto come Auto-realizzazione. Si attua secondo le seguenti fasi: I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

1. Lo sviluppo della calma. Calma non significa assenza di pensieri, ma essere presenti ad essi. Quindi, a mano a mano che progrediamo in questa fase iniziale, sostituiamo gradualmente l’abitudine di reagire secondo modi di fare abituali – ad esempio con ira o ansia – con una calma presenza. Coltivando la calma si diluisce gradualmente la macchia dell’illusione conosciuta come maya. Tutte le pratiche dello Yoga, che comprendono posture, respirazione sistematica, mantra, meditazione e attività di devozione, ci aiutano in questa fase a diminuire l’agitazione e le attività inutili (rajas) e ad attenuare l’inerzia, i dubbi e la pigrizia (tamas) con tranquillo, placido equilibrio (sattva). Questo apporta presenza, o esistenza (sat). Praticando il distacco incominciamo a perdere il bisogno di essere assorbiti nelle esperienze. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

2. Lo sviluppo del Testimone, o Chit, pura coscienza. Adottiamo una nuova prospettiva trattenendo una parte della nostra consapevolezza in disparte a osservare. Il Testimone non fa né pensa alcunché. Si limita a osservare il divenire delle azioni e l’andare e venire di pensieri, emozioni e sensazioni. Parte della nostra coscienza viene coinvolta nelle attività, parte se ne sta a guardare passivamente. Iniziamo questa fase facendo lo sforzo di esercitare costantemente il Testimone per periodi relativamente brevi o dall’inizio alla fine di un’attività. Questo è fattibile soprattutto nel corso di attività di routine che non richiedano molta concentrazione o per fare le quali seguiamo una sorta di riflesso condizionato. In seguito entra a far parte anche di attività impegnative o effettuate per la prima volta, ad esempio quando abbiamo un incidente e cadiamo. Questa prospettiva

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diventa sempre più spontanea e si integra con le attività della vita di ogni giorno. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

3. “Io non sono Colui che fa”. Con lo svilupparsi della coscienza del testimone, non sentiamo più di stare facendo qualcosa perché non ci identifichiamo più con il corpo e con i meccanismi mentali. Percepiamo piuttosto di essere solamente degli osservatori per i quali corpo e mente sono solamente uno strumento. Parte della nostra coscienza è coinvolta nel fare cose, che si tratti di camminare, parlare, lavorare, mangiare etc ma ormai parte della nostra coscienza rimane a guardare. Non fa nulla. Rimane in uno stato passivo di attenzione scevra da giudizio. Sentiamo di essere uno strumento mentre è il Divino a fare ogni cosa. Sentiamo che non esiste un “artefice” nel nostro profondo. Eppure ogni cosa trova compimento. E ci godiamo, come in uno spettacolo, il susseguirsi degli eventi, la loro sincronia e le loro conseguenze. Ci rendiamo sempre più conto del modo in cui azioni, parole e pensieri determinano conseguenze, o karma, e di come questa legge possa essere applicata per apportare agli altri gioia invece che sofferenza. Con questa nuova consapevolezza allargata del Sé, percepiamo che le necessità degli altri sono le nostre. Esprimiamo il nostro amore per gli altri e li aiutiamo a trovare la felicità. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

4. “Io sono Ciò che sono”. Grazie alla meditazione profonda diventiamo consapevoli di ciò che è consapevole. È la coscienza stessa a diventare l’oggetto. Sentiamo che “Io sono in tutto” e che “Tutto è in me”. In seguito, questa realizzazione del Sé inizia gradualmente a pervadere le nostre attività diurne. Con il progredire di questa fase si fa strada in noi la realizzazione di Dio. Santi e mistici di ogni tradizione spirituale hanno tentato di descrivere questo, ma in generale non hanno trovato le parole per farlo. In effetti, più si cerca di descriverlo, più ce ne si allontana perché descriverlo, a anche solo pensare a ciò, lo riduce a un mero sistema di idee. Dal momento che “ESSO” trascende qualsiasi nome o forma, pervade ogni cosa ed è infinito ed eterno, tutto il resto perde di significato. Il silenzio è perciò il veicolo di insegnamento preferito da coloro che realmente conoscono “ESSO”. Ecco come Swami Rama Tirtha, il primo Yogi a portare lo Yoga in America alla fine del secolo XIX, lo espresse in modo convincente: “Un Dio definito è un Dio limitato. Non è possibile descrivere di ciò che si tratta a parole, nemmeno fischiettando”. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

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Le fasi appena descritte non si svolgono in linea retta. Zigzaghiamo spesso tra una e l’altra a causa della natura instabile della mente, delle nostre abitudini consolidate (samskara), del karma, di maya, e dell’azione dei gunas. Ma in generale, è questa la direzione del nostro percorso se stiamo progredendo a livello spirituale. La nostra identificazione con corpo, emozioni e movimenti mentali si indebolisce e viene sostituita dall’identificazione con Ciò che è al di là di nomi e forme, che è il Sé, Pura coscienza, e che in definitva è il Divino. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Concezioni progressive e punti di vista di Dio

Anche la nostra concezione di Dio, o di un Essere Supremo, si svilupperà progressivamente, per fasi parallele alle fasi di sviluppo spirituale citate più sopra: da qualcosa che si trova “là fuori” a ciò che è “dentro di me”. È istruttivo analizzare come sia il nostro modo di pensare Dio che ciò con cui ci identifichiamo evolvano a mano a mano che avanziamo sul percorso spirituale. In questo modo è possibile evitare di restare bloccati in una fase più bassa. I teologi hanno classificato diverse concezioni religiose progressive di Dio. Ogni religione o gruppo culturale da per scontato che la sua concezione di Dio sia l’unica corretta. È evidente che la concezione di Dio è condizionata da grado di istruzione, conoscenza della natura, esperienze personali, immaginazione, desideri e paure. La situazione umana viene proiettata sulla concezione di Dio. Ciò che segue lo chiarisce. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Livello uno: Dio è il mio alleato. Io sono il corpo fisico.

Il credo in un essere supremo insorge quando di diventa consapevoli della paura, e la più grande delle paure è quella della morte. L’uomo primitivo cercava di superare le paure attribuendo poteri sovrannaturali a eventi naturali. Per sedare questi timori, l’uomo primitivo offriva sacrifici nella speranza di placare gli spiriti adirati responsabili di tuoni, inondazioni, siccità, guerre, malattie e morte. Nelle prime religioni politeistiche, gli esseri soprannaturali, che fossero maligni o benigni, potevano essere avversari o alleati. I credenti ricercavano protezione da parte di numi e dee per respingere il male, le forze maligne, e la sofferenza che ne deriva. Le forze sovrannaturali potevano essere capricciose o perfino vendicative. La vita era breve, crudele, e sopravvivere era la cosa

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più difficile, così la protezione costituiva il principale bisogno. In questa fase ci si identifica con il proprio corpo fisico e la questione fondamentale è la sopravvivenza. Se io sono solamente il corpo, allora il male è ciò che minaccia la mia sopravvivenza. Il bene è ciò che procura sicurezza, cibo e difesa. Quindi prego un dio che, in quanto alleato, mi procura quello di cui ho bisogno per sopravvivere. La traccia di ignoranza in merito alla propria reale identità, e di conseguenza l’egoismo, sono profondamente radicati nel corpo. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Livello due: Dio è onnipotente. Io sono la mente e la personalità.

Una volta consolidata la società, la sopravvivenza non ha più costituito una questione primaria, e gli uomini hanno cercato di formulare leggi per controllare il loro comportamento sociale. Hanno attribuito l’autorità delle loro leggi a un dio “onnipotente”. In questo caso Dio è la fonte di tutti i poteri e dell’autorità. In più, coloro che acquisiscono potere lo fanno perché Dio lo ha conferito loro. I capotribù diventano re, i giudici diventano sacerdoti. Ma il potere si fa inebriante, perché più se ne acquisisce più ne cresce il desiderio. L’individuo, finalmente libero da problemi di sopravvivenza, si identifica con la mente e con i desideri del corpo vitale. L’ego, l’abitudine di identificarsi con il corpo e la mente, con l’ampliarsi dei desideri comprende ormai una gamma quasi illimitata di possibilità. Si è in competizione con gli altri. Si è egoisti. Con il potere si cerca di dominare gli altri, di realizzare e appagare le proprie ambizioni. Si agisce in questo modo cercando però di rispettare le leggi dettate da Dio, nel timore di essere puniti se le si trasgredisce. I dogma e le istituzioni religiose vengono sviluppati in risposta a una crescente curiosità intellettuale e nel contempo cercano di tenere a freno la natura umana assoggettandola a coloro che governano. Poi si sviluppa la scienza, che si pone in antagonismo con la religione. Le religioni si scontrano, così come le culture. Le istituzioni politiche e religiose si alleano. Si arriva al punto di pregare Dio per sconfiggere i propri nemici o per convertire coloro le cui credenze sono diverse dalle proprie. È il “noi” contro “loro”. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni. Livello 3: Dio è Calma. “Sii calmo e sappi: io sono Dio”. Io testimonio.

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Molti individui raggiungono questa fase quando, per una ragione o per l’altra, scoprono un essere interiore che si trova oltre i movimenti di corpo, sensi e mente. Può trattarsi di un’esperienza spirituale spontanea in cui si trascende; può essere il risultato della pratica di un regolare esercizio di meditazione; può verificarsi come prodotto di un’intensa esperienza fisica che implichi dolore o di una grande concentrazione in cui ci si distacca dal consueto stato mentale. Di conseguenza, si incomincia a comprendere che le proprie precedenti concezioni di Dio erano solamente concezioni, si incomincia cioè a comprendere che fino a quel momento non si è fatto altro che creare un Dio che servisse ai propri bisogni egoistici e ai relativi paure e desideri. Si comprende che la propria visione del mondo “là fuori” è distorta dai propri gusti in merito a ciò che piace e ciò che non. Ma al livello 3 si trova la pace, e quindi Dio è pace. SI comprende la verità dei Salmi: “Sii calmo e sappi: io sono Dio”. Si comprende che solamente sviluppando la prospettiva interiore del Sé reale, una coscienza del Testimone, è possibile superare l’agitazione del mondo esterno. Nella Calma della mente si scopre la coscienza pura. È come la luce in una stanza, ignorata fino a questo momento perché l’interesse era focalizzato su ciò che era riflesso dalla luce stessa, il contenuto della stanza. All’inizio si crea una tensione tra la vita interiore e quella esterna, il che può indurre a rifiutare quest’ultima. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Con il progredire di questa fase, si cerca di coltivare una calma consapevolezza meditativa durante ogni momento della vita. Non si ha un rifiuto del mondo. Stando alle parole di Gesù, si è nel mondo, ma non gli si appartiene. Si sostituisce il pensare a Dio, ovvero i concetti, con una nuova prospettiva – quella del Testimone – nella quale non si è più assorbiti dai pensieri, ma si è in pace con una mente calma. In pratica, ci si eleva al di sopra dei movimenti della mente nella “luce della coscienza”. Le parole non riescono a esprimerlo. La poesia può additarlo. “È una pace che va oltre ogni comprensione”, come è stato detto da mistici e profeti di tutte la tradizioni spirituali. A questo livello, la religione e ogni altro sistema intellettuale vengono sommersi dalla spiritualità. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Livello 4: Dio è Saggio. Io ascolto, io so.

Avendo superato le questioni primarie di paura e desiderio, e avendo trovato la pace interiore, comprendo che Dio mi ama, che mi perdona,

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che mi capisce. Perciò Egli è saggio. Dio è onnisciente e quindi ascoltando Dio anch’io so. Lo ascolto restando calmo e ricettivo, e lasciando parlare la mia intuizione. Incomincio a identificarmi con Colui che sa non perché l’ho imparato a scuola, ma semplicemente perché so. Comprendo sempre più, in modo naturale, ogni volta che mi focalizzo su ciò che necessito sapere. Le cose si fanno chiare. Vedo la realtà sottostante ogni cosa e in me cresce la saggezza. Posso distinguere ciò che è durevole da ciò che è transitorio, ciò che apporta gioia da ciò che arreca dolore. E posso distinguere Chi Io realmente Sono, l’anima eterna, pura coscienza. La preoccupazione non è più di attenersi alle regole ed evitare ciò che è doloroso, soprattutto nel mondo “esterno” dell’agitazione, come nei livelli precedenti. Ci si volge al trascendente Dio di amore con piena fiducia, e nel serbare Ciò nel proprio cuore in modo costante, ci si sente amati, purificati e guidati intuitivamente dal Signore. Avendo abbandonato ogni idea di giusto e sbagliato, di colpa e di superbia, alla fine di questa fase ci si sente completamente innocenti. Ci si identifica con gli altri, li si ama e li si aiuta a trovare la felicità. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Livello 5: Dio è il mio co-creatore. Io creo.

A questo livello di evoluzione spirituale ci si rende conto di avere il potere e la responsabilità di creare la propria vita. Si supera la condizione consueta del “sognare a occhi aperti” per diventare qualcuno che ha visioni mistiche. Si rimane fedeli a quei sogni che si sa essere in linea con il proprio percorso di saggezza e Auto-realizzazione. Il Signore non appare più distante e si percepisce di essere “co-creatori” con il Signore. Il Signore concede con misericordia. Il Signore ispira. Di conseguenza, quando si prende la decisione di fare accadere qualcosa, l’universo contribuisce con il proprio supporto a determinarne la riuscita. È possibile che si debba lavorare sodo per tale riuscita, ma ci si sente solo come uno strumento, non come un artefice. Si è pazienti rispetto al risultato, certi che l’universo se ne occuperà. Si vive nel momento presente e le cose si realizzano semplicemente facendo ciò che è necessario. In ogni caso, purificando bisogni e preferenze dell’ego ci si allinea sempre più alla volontà del Signore. Qualunque sia il risultato, ci si sente benedetti. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Livello 6: Dio è una meraviglia. Io sono fulgida auto-consapevolezza.

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Con Dio come proprio co-creatore, si inizia a vedere il mondo come un miracolo di creazione, e le nostre vite sono un campo di gioco. I miracoli abbondano. Per dirla con Yogananda, Dio è una “gioia sempre-nuova”, talmente ogni istante, ogni evento è meraviglioso. Si vede il Signore come ciò che è oltre ogni causalità, non soggetto a creazione, la luce della coscienza. Si comprende che nel più profondo di noi stessi il Sé è la stessa cosa: fulgida auto-consapevolezza. La luce è una metafora per la coscienza, ma è anche ciò di cui i mistici fanno esperienza nel profondo della loro anima. Il Signore è al di là del tempo e dello spazio e non conosce limiti. A questo livello la grazia del Signore determina molti avvenimenti mirabili. Si trova la sacralità in ciò che è terreno. Si vede con gli occhi del mistico la Presenza del Signore in ogni luogo. La grazia, diversamente dal karma, non è qualcosa che si meriti e non dipende dal fatto che le nostre azioni siano buone o cattive: è la risposta del Signore all’invocazione di potersi congiungere a Ciò che è al di là dei nomi e delle forme, per rinunciare alla dualità di ciò che piace e ciò che non piace, del possedere e del perdere, del successo e del fallimento, della gloria e dell’onta. Ci si accorge di come il gioco dell’ego con tutti i suoi desideri, sia un’enorme trappola, e ci si abbandona al Signore, non solo a livello mentale, ma con la coscienza. Si cerca la liberazione dai giochetti dell’ego. Ci si lascia assorbire da ciò che si trova oltre il movimento mentale, ovvero la fonte prima, la luce della coscienza. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Livello 7: Dio è Essere Assoluto Coscienza e Beatitudine. “Io sono”.

Essendosi sottratti alla dualità della mente, si perviene allo stato non-duale di sat chit ananda, o essere assoluto, coscienza e beatitudine. Questo stato è incondizionato poiché non dipende da nulla. Semplicemente è, e ci si rende conto che “Quello io sono”. Non si diventa né si sperimenta niente di speciale. Perché essere speciale implica essere separato, e a questo livello si sono trascesi i poli opposti e si è realizzata la propria unità con il tutto. A questo livello, che i teologi chiamerebbero monismo, esiste solamente Uno. Nel teismo ci sono l’anima e il Signore, e sono separati. Dal punto di vista del monismo esiste solamente Uno. Quell’Uno è infinito, immutabile, eterno, oltre ogni possibile descrizione, l’origine di ogni cosa. Si accede a Quello quando, nei più profondi stati meditativi, la mente tace, e la coscienza si espande. Quando Mosé chiese a Dio “Chi sei?” nel momento in cui Dio gli parlò attraverso il cespuglio ardente, il

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Signore rispose “io sono Quello che sono”. Questo esprime sia l’obiettivo ultimo che gli stati soggettivi di esistenza, “Io” il soggetto e “Quello che” l’oggetto. Non è un vuoto. È l’origine di ogni cosa, è l’intelligenza suprema stessa. Essere qui e ora diventa quindi l’unica strada da seguire! Essere, non fare, diventa il veicolo e la destinazione. Essere presenti, a prescindere dal tipo di evento, apporta consapevolezza, e la consapevolezza apporta gioia: “sat chit ananda”. E non si può più rispondere alla domanda “Chi sei?” se non dicendo “io sono”. Ogni altra risposta viene percepita come un caso di falsa identità, il gioco dell’ego. Le proprie inclinazioni, preferenze e avversioni abituali passano in secondo piano e domina il sentimento dell’ “io sono”. Non esiste più l’ “altro”. Non esiste più uno status speciale, né “maestro” né “Guru” né “fedele” o “discepolo”. Esiste solamente l’Uno. Questa presa di coscienza, conosciuta nello Yoga come samadhi, giunge durante profonde esperienze di meditazione e, per molti anni, può essere difficile da cogliere perché normalmente si è condizionati a identificarsi con i ricordi, il corpo e la mente. Ma ritornando ripetutamente a questo stato, le macchie di ignoranza, egoismo, illusione e karma svaniscono gradualmente nel fulgido candeggio dell’Auto-realizzazione. Non si cerca più di vivere esperienze speciali né di essere speciali. Perché l’essere speciali crea separazione, ma quando si diventa uno con il tutto, non esiste più l’altro. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Trasformazione

I santi di tutte le tradizioni spirituali che raggiungono questo stato lo trovano così appagante che il desiderio di rimanere in questo mondo si affievolisce gradualmente, così come ogni altro desiderio. Il corpo, con tutti i suoi bisogni, continua a essere una distrazione; così, anche i santi avanzati che hanno raggiunto questo settimo livello, lasciano questo mondo senza lamentarsi, diretti in paradiso o alla ricerca della liberazione dal ciclo di nascita e rinascita. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

In Cina, Tibet e India, esiste però un’antica tradizione di adepti spirituali che, con l’occhio della mente, hanno visto che l’evoluzione spirituale non si conclude nel piano spirituale dell’esistenza come descritto più sopra nella settima fase. Comprendendo che il Signore è Qui, il loro abbandonarsi al Signore si è spinto oltre, attraverso l’abbandono della loro anima al Signore nella dimensione spirituale.

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Abbandonando il loro intelletto, ovvero il desiderio di sapere, sono diventati saggi, capaci di una profonda conoscenza in merito a qualsiasi argomento a cui hanno rivolto la loro attenzione. Tale conoscenza non si origina nel modo classico, ovvero per mezzo di studi o ricerca empirica, ma dal diventare intuitivamente una cosa sola con l’oggetto d’interesse. Questa conoscenza per così dire perspicace esprime le verità più profonde, spesso in modo tale da non poter essere espressa, ed è un prodotto della suprema intelligenza in stati profondi di concentrazione e assorbimento cognitivo conosciuti sotto il nome di samadhi. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Abbandonandosi ulteriormente, cioè al livello della mente, questi adepti sono diventati “siddha” o coloro che possono manifestare facoltà latenti quali chiaroveggenza, profezia e chiaroudienza. Abbandonandosi al livello del corpo vitale, i maha siddha, o grandi e perfetti adepti, hanno manifestato poteri ancora più grandi quali levitazione, materializzazione di oggetti, materializzazione di se stessi, controllo della natura o degli eventi. Abbandonandosi a livello del corpo fisico, anche le cellule hanno rinunciato alla loro ristretta programmazione per divenire intimamente connesse a volontà e coscienza dell’adepto. Il corpo è diventato invulnerabile, immortale, non più soggetto alle leggi della natura. Un tale progressivo abbandonarsi al Signore esprime non un’aspirazione a liberarsi di questo mondo di sofferenza, ma a permettere al Signore di manifestarsi, attraverso se stessi, in tutti i livelli di esistenza, in tutti i cinque corpi spirituale, intellettuale, mentale, vitale e fisico. Vedendo solamente lo spirito e non più una divisione tra materia e spirito, comprendendo che ogni cosa è Divina, tali Siddha rappresentano l’avanguardia dell’evoluzione dell’umanità. Per essi, realizzare Dio in un corpo malato non è perfezione. Hanno adempiuto al comando di Gesù ai suoi discepoli: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

8. Lo Yoga del Secolo XXI Il filosofo francese André Malraux ha predetto che “il prossimo secolo

sarà spirituale o non sarà affatto”. Se la minaccia immediata dell'auto-distruzione si è allontanata con la fine della Guerra Fredda, la battaglia reale continua a essere condotta ancora oggi nelle menti e nei cuori di miliardi di persone in tutto il mondo. Ciò che alcuni pensatori moderni

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hanno definito “ecologia profonda” si riferisce all'antica identificazione yoghica dell'interdipendenza tra spirito, mente, corpo e ambiente. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

In passato, molti guardavano allo yoga con sospetto, forse perché proviene da una cultura esotica straniera. Oggi però sta diventando una parola d'uso comune in tutto il mondo. Soltanto negli States, un'indagine della Roper Associates ha di recente evidenziato che oltre 6 milioni di persone lo praticano. Questo rappresenta circa il 5% della popolazione adulta! Se il 95% non lo pratica, ciò che importa è l'effetto che il 5% può esercitare sui propri vicini. Anche se la maggior parte di coloro che praticano lo yoga fanno solamente Hatha Yoga, ma non meditazione, sta aumentando la consapevolezza del fatto che lo yoga non significa solamente reggersi sulla testa o fare stretching. I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

Che fare sapendo questo? I partecipanti al nostro recente raduno internazionale hanno convenuto su tre punti: I giudizi sono generalmente dannosi per tre ragioni.

1. Praticare il sadhana yoghico

2. Integrare lo yoga con il lavoro e la vita familiare

3. Informare gli altri

La pratica del sadhana yoghico è importante non solo per il nostro benessere e la nostra salute, ma per tutti coloro che ci circondano. Quando pratichiamo lo yoga si crea un effetto energetico immediato sul nostro ambiente e su coloro con cui entriamo in contatto. Pace, gioia, consapevolezza sono contagiose!

Portare lo yoga nella vita professionale e familiare significa apportare serenità durante i periodi stressanti, acquisire consapevolezza delle tensioni, utilizzare il respiro come supervisore, e fare il nostro lavoro come karma yoga, abilmente, ma senza attaccamento ai risultati. Significa “essere presenti” con gli altri, soprattutto con le persone con cui viviamo e lavoriamo, lasciando irradiare verso di loro il nostro amore e la nostra cordialità. Lo yoga sviluppa l'arte di essere un buon ascoltatore.

Informare gli altri significa educarli a ciò che è lo yoga e i suoi benefici, e chiarire i malintesi di cui è spesso oggetto. Questo richiede di studiare sia le fonti antiche che quelle moderne, di affinare le conoscenze e le

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capacità di comunicare le verità dello yoga. Implica essere sensibili alle differenze culturali e, se possibile, far vedere a culture diverse come funziona lo yoga nel concreto, per allentare le tensioni, farsi una bella dormita di notte, trovare una nuove, vibrante fonte di energia, salute e calma interiore. Potrebbe anche includere il condividere i propri libri di yoga preferiti con amici e conoscenti, scrivere articoli per riviste o internet, tenere conferenze o corsi sulle posture, sull'approccio della meditazione o sul percorso dello yoga. È ora che lo yoga si accetti come movimento sociale nel quale coloro che lo praticano si mettano in contatto con altri e condividano il meglio di se stessi.

Stiamo entrando in una nuova era in cui yoga sarà non solo una parola d'uso comune, ma una potente corrente che porterà la nostra civiltà a livelli superiori.

9. Tapas: Auto-Sfida Volontaria Quando all'inizio degli anni '70 ero un giovane brahmacharya, il mio

insegnante mi metteva spesso alla prova chiedendomi di fare dei voti specifici come: un giorno di silenzio alla settimana, un giorno di digiuno alla settimana, la pratica di una tecnica specifica su base quotidiana per 48 giorni, il recitare ogni settimana il voto solenne del Kriya Yoga prima di iniziare il silenzio, il voto di castità e di essere vegetariano, la ripetizione di mantra per un certo numero di volte ogni giorno, la pratica del sadhana yoghico otto ore al giorno. A questi si aggiungevano voti più generali di dedizione alla pratica globale del Kriya Yoga di Babaji. Mi ha anche sottoposto alla prova di praticare il Kriya Yoga per 24 ore di seguito, definendo ciò un “tapas”. Ho fatto regolarmente queste cose durante i 18 anni che ho trascorso sotto la sua tutela. Ho scritto in merito a tali privazioni ed esperienze in “Come divenni un discepolo di Babaji”. Potreste chiedervi perché io abbia fatto cose simili.

Tapas e auto-purificazione

Le grandi domande della vita – “Chi sono?”, “Come posso conoscere Dio?”, “Come posso trovare una felicità duratura in un mondo di sofferenza?” – possono trovare risposta, secondo le grandi tradizioni spirituali, soltanto attraverso un processo di purificazione. In quanto esseri umani, siamo profondamente imperfetti a causa della nostra ignoranza del Sé e dell'egoismo, che ci porta a identificarci con il corpo e

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la mente. I nostri attaccamenti e avversioni ci provocano ulteriore sofferenza. Lo yoga offre un modo pratico per superare tali imperfezioni umane. Se è vero che si può considerare lo yoga da molti diversi punti di vista, uno dei modi più utili per comprenderlo è vederlo come un sistema completo di auto-purificazione. Tapas o privazione significa utilizzo di voti, forza di volontà e sopportazione per purificarsi superando i limiti dei nostri schemi di abitudini. Secondo Patanjali “Attraverso il tapas (austerità) le impurità del corpo e dei sensi vengono distrutte e si ottiene la perfezione” (Yoga Sutra II, 43).

La parola “tapas” letteralmente significa “calore” o “incandescenza”. Il primo nome per definire uno yogin usato nei Veda, i più antichi testi spirituali indiani, è tapasvin o praticante di tapas, auto-sfida volontaria. Surya, il nome del Signore nei veda, si riferisce alla Divinità Solare. Secondo i Veda, Surya è il primo praticante di tapas, e quindi è l'ideatore dello Yoga, conosciuto come Hiranyagarbha (Utero o Sole Aureo). Nella Bhagavad Gita (4, 1) il Sole, Vivasvat, è considerato l'insegnante primordiale dello Yoga. Gli antichi yogin o tapasvin erano adoratori del sole e residui di questo Yoga arcaico sono tuttora presenti nelle serie di Saluti al Sole comuni a tutte le tradizioni di Hatha Yoga.

In Yoga Sutra III, 55 Patanjali ci dice che l'illuminazione si manifesta quando la mente diventa pura come uno specchio ed è in grado di riflettere la naturale luminosità del Sé, pura coscienza: “Nell'identità della purezza tra il fatto di essere e il Sé, si trova la libertà assoluta”.

Tapas significa “pratica intensa” o “austerità”. Denota qualsiasi pratica intensa o prolungata per l'Auto-realizzazione, che comporta il superamento delle inclinazioni naturali di corpo, emozioni e mente. A causa della resistenza di corpo, emozioni e mente, calore o dolore possono insorgere come sottoprodotto, ma non costituiscono mai l'obiettivo, che consiste nel superare il modo in cui dominano e assorbono la nostra coscienza.

In Yoga Sutra II, 1 Patanjali definisce il Kriya Yoga come “tapas (pratica intensa), svadhyaya (studio di sé) e isvara-pranidhana (devozione al Signore)”.In Yoga Sutra I, 13 spiega chiaramente ciò che dobbiamo praticare: “In questo contesto, lo sforzo di persistere (nella cessazione dell'identificazione con le fluttuazioni della coscienza) è una pratica costante”.

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Le tre componenti del tapas: intenzione, forza di volontà e sopportazione

Il tapas inizia con un'intenzione o un voto di negarsi un qualche appagamento dei propri desideri. Potrebbe riguardare qualsiasi cosa: un piacere fisico, un certo alimento, sesso fatto alla leggera, la televisione o, mentre si è seduti per meditare, il fare un movimento non necessario. Quando si stabilisce la propria intenzione, si fissa anche il proprio obiettivo. Lo facciamo con fermezza, non con un'espressione di speranza o del tipo “forse in futuro farò...”, ma con un messaggio chiaro diretto al proprio subconscio che dice “Io sono” sta facendo questo adesso. Per quanto tempo? Questo sarà determinato dal tipo di voto o intenzione. Per esempio: meditazione per 30 o 60 minuti, silenzio o digiuno per un giorno, astensione da uno specifico alimento, bevanda o attività piacevole per un mese.

La seconda e la terza componente del tapas sono forza di volontà e sopportazione. Così come un atleta sviluppa la propria forza fisica, il tapasvin sviluppa la propria forza di volontà gradualmente attraverso l'esercizio ripetuto e regolare di essa. Si inizia con periodi relativamente brevi in cui si posticipa la soddisfazione di un desiderio o di un'avversione. Spesso questo implica il fare marcia indietro rispetto a un particolare attaccamento o una specifica avversione, o a un qualunque pensiero o sentimento del tipo “Io sono questo sentimento, sensazione o emozione”, e abbandonarlo. Questo è chiamato “vairagya” o “distacco”: richiede sforzi e forza di volontà, e una regolare ripetizione per un periodo prolungato. La posticipazione si fa gradualmente più lunga e alla fine si è in grado di abbandonarlo completamente. Comunque, il tapasvin esperto alla fine raggiunge uno stato di serenità in cui può limitarsi a provare gioia a prescindere dal fatto che il suo oggetto di desiderio o di avversione sia presente o meno. Quindi intenzione, impegno e sopportazione sono gli elementi chiave del tapas.

Nel nostro stile di vita consumistico e volto alla ricerca del piacere, una tale astensione e negazione suonerà per la maggior parte della gente come irrazionale e incoerente con quella che oggi viene definita “la buona vita”. Tali persone non riescono ad accorgersi della gioia che si trova all'interno di noi in attesa di essere portata alla luce una volta che sia esercitato un controllo sugli impulsi nevrotici di attaccamento e avversione. La mente si

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sofferma costantemente su desideri e paure, ma se si esercita un minimo di calma su di essi, allora svaniscono come nuvole nel cielo.

La Bhagavad Gita (17, 14-16) parla di tre tipologie di tapas: privazioni del corpo, della parola e della mente. La privazione del corpo comprende pulizia, castità, non-violenza, comportamento educato, azioni compassionevoli e attività devozionali. La privazione della parola include parlare solo quando sia veritiero, utile e necessario, previa riflessione e senza arrecare offesa. Può anche comprendere il cantare il nome del Signore nel corso delle attività devozionali. La privazione della mente implica silenzio, serenità, concentrazione, discernimento, e l'evitare pensieri cattivi.

Il tapas dovrebbe essere fatto senza aspettarsi una ricompensa e con fiducia nel metodo dello Yoga. In questo modo si sviluppa la calma, che costituisce il prerequisito per l'illuminazione. A prescindere da successo o fallimento, perdita o guadagno, o che ci si senta a proprio agio o a disagio, stanchi o riposati, che si abbia caldo o freddo, si conserva una calma accettazione di ciò che è, nel momento presente. Si va oltre la dualità verso l'unità.

Coltivando il tapas si sviluppano grandi energia e forza di volontà che rendono capaci di controllare la propria vita e superare gli ostacoli. Si sviluppa la luce della coscienza sopramentale. Si diventa raggianti come il sole, non soltanto nei corpi sottili, ma da ultimo anche nel corpo fisico. Si diventa una fonte di luce, cordialità e amore per tutti.

10. Samadhi Quando una persona incomincia a studiare lo Yoga, di solito non ha

quasi nessuna idea di quali siano gli obiettivi finali di esso. Nel mondo contemporaneo lo Yoga è diventato come un supermercato: vi si può trovare qualunque cosa si stia cercando. I bisogni del momento, che siano fisici, emotivi, mentali, intellettuali o spirituali, favoriscono la motivazione dello studente. Oggi, molto spesso gli studenti cercano un modo per controllare gli effetti dello stress o per trovare una sorta di pace mentale. Si tratta normalmente di un approccio del “riparare velocemente” in cui si ha un sollievo temporaneo dai sintomi sgradevoli dello stress e del logorio della vita.

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Di tanto in tanto si sente qualcuno parlare di obiettivi “spirituali” superiori quali il “Samadhi” o “Auto-realizzazione” o “illuminazione”. Ma vengono di solito descritti in modo tale da indurre lo studente medio a credere che sia praticamente impossibile “raggiungere” stati così elevati, quindi perché provarci? Le descrizioni del Samadhi sono confuse nel migliore dei casi, inesistenti nel peggiore. Ma senza un'idea chiara di quali siano gli obiettivi ultimi dello Yoga, lo studente finirà per far fiasco. Anche se ne avesse una vaga idea, lo studente potrebbe non rendersi conto del loro valore. Ancora peggio, lo studente potrebbe confondere una qualche esperienza spirituale passeggera come qualcosa a cui attaccarsi o che valga la pena di ripetere-

“Il Samadhi non è ciò che tu pensi”

Quest'affermazione è letteralmente verissima, perché il “samadhi” è ciò che tu non pensi; implica il silenzio della mente. Ecco perché è anche vero che più parli del samadhi più te ne allontani. Esiste un detto: “Coloro che parlano del samadhi non lo conoscono, e coloro che lo conoscono non ne parlano”. Si tratta dello spazio tra i pensieri. Non è un oggetto e non può essere compreso. Trascende ogni forma e idea. Non si tratta perciò di un'esperienza, ed è solamente quando si è preparati a non sperimentare e a non essere niente di speciale che è possibile realizzare il samadhi. È il soggetto, non un oggetto. Se non si può conoscere il samadhi, è però possibile essere nel samadhi, quando la coscienza diventa consapevole di ciò che è consapevole: questo è ciò che significa la definizione “assorbimento cognitivo”. La propria coscienza viene assorbita in se stessa. Nel samadhi si smette di identificarsi con il corpo, le emozioni e i pensieri. L'egoismo viene temporaneamente interrotto.

Generalmente il samadhi va e viene a seconda di quanto la resistenza della propria natura umana riporti ripetutamente alla coscienza ordinaria. Questo si verifica fino a quando non si hanno sufficientemente purificato i samskara, o abitudini del subconscio, e coltivato un alto livello di equilibrio a livello fisico, emozionale e quindi mentale. È solamente dopo essere entrati per molti anni nei livelli più bassi di samadhi, o samprajnata samadhi, che il livello superiore, asamprajnata o nirvikalpa samadhi permette di conseguire l'illuminazione. L'illuminazione può essere definita come uno stato permanente di samadhi o Auto-realizzazione. Anche se comunque questo non è il risultato finale. Spesso l'illuminazione è circoscritta al piano spirituale, e la persona illuminata o santo potrebbe

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ancora avere un corpo malato o una mente nevrotica. È solo quando e se si consegna completamente anche tali piani al Divino che si diventa progressivamente un saggio, un siddha e un maha-siddha.

Trovare una guida al samadhi che sia attendibile

Un altro problema è che nel mondo contemporaneo lo Yoga e la “crescita personale” sono diventati un grande business, sia in termini di libri che di seminari, ed esistono molti approcci concorrenti, la maggior parte dei quali non collaudati e di recente creazione. Come può lo studente di Yoga stabilire cosa sia autentico? Quale percorso lo condurrà agli obiettivi ultimi dello Yoga? Quali sono gli obiettivi ultimi?

Per rispondere a queste domande, è utile rifarsi alle più antiche fonti autorevoli quali gli Yoga Sutra di Patanjali e il Thirumandiram di Thirumoolar. Patanjali definisce l'obiettivo ultimo dello Yoga come “samadhi”, “assorbimento cognitivo”. Nell'aforisma I, 17 egli descrive il primo livello di samadhi, “samprajnata”: “L'assorbimento cognitivo orientato all'oggetto si accompagna a osservazione, riflessione, gioia e pura presa di coscienza dell’Io sono”. Nella coscienza fisica normale la nostra consapevolezza è assorbita da oggetti di attenzione attraverso i cinque sensi. Nel sognare a occhi aperti o nel pensare la nostra coscienza viene assorbita da pensieri, ricordi ed emozioni. In entrambi i casi siamo inconsapevoli di “ciò che è consapevole”. Nell' “assorbimento cognitivo” diventiamo “consci di ciò che è conscio”, il Testimone, il soggetto puro. Gli oggetti di attenzione rimangono sullo sfondo. Il Sé o Testimone viene in primo piano nella nostra consapevolezza. Ci identifichiamo con il Testimone invece che con pensieri, sensazioni o emozioni.

In Yoga Sutra I, 6 Patanjali ci dice che nella coscienza ordinaria ci identifichiamo con i cinque tipi di “vritti” o modificazioni che si manifestano nella coscienza: “conoscenza corretta, falsa opinione, illusione verbale, sonno e memoria”.

“Samprajnata Samadhi”

Nella “samprajnata” o assorbimento cognitivo distinto, esistono quattro accompagnamenti. Non si tratta di modificazioni mentali o “vritti”, ma di risultati ispirati dalla fusione tra soggetto e oggetto. Diversamente dal samadhi superiore asamprajnata, qui esistono oggetti materiali o sottili che costituiscono dei sostegni o punti di partenza.

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Questi sostegni possono consistere in qualunque forma della Natura, compresi i più sublimi livelli di esistenza trascendentale.

A questo proposito è appropriato illustrare per prima cosa alcuni dei più antichi concetti del pensiero metafisico indiano: i termini “prakriti” (Natura) e “purusha” (Sé) citati nei versi I, 16 e I, 24. La prakriti è tutto ciò che esiste al di là del Sé e comprende il cosmo intero dal livello materiale fino a quello psichico. Diversamente dal Sé (io sono...), che è puramente soggettivo, la prakriti è realtà oggettiva, ciò che viene osservato dal Sé. È Reale, per quanto transitoria possa essere. Purusha, il Sé, è puro soggetto nel centro della coscienza. Illumina la coscienza. Senza di esso la mente e la psiche non avrebbero attività conscia, proprio come una lampadina senza elettricità invisibile non potrebbe irradiare luce. La prakriti esiste in quanto Natura nel suo stato trascendentale indeterminato e nelle sue manifestazioni multiformi differenziate.

Per conoscere il purusha occorre prima comprendere la prakriti. Il primo passo consiste nel contemplare la Natura nelle sue diverse manifestazioni:

1. Vitarka = Osservazione e analisi della Natura fino alle sue caratteristiche più primordiali.

Si ha “Savitarka” samadhi quando la mente è focalizzata su di un oggetto nella Natura.

Possiamo realizzare questo mediante i “Tradak Kriya”, ovvero concentrazione e assorbimento in oggetti materiali, o i Dhyana Kriya che comprendono i cinque elementi, i “jnana indriya”.

2. Vicara = Riflessione sulla natura sottile facendo esperienza della verità delle astrazioni senza riferimento all'osservazione materiale.

Si ha “Savicara” samadhi quando la mente è focalizzata su di un'astrazione.

Possiamo realizzare questo mediante i Dhyana Kriya che comprendono concetti astratti quali “Verità”, “Amore”, “Saggezza”.

3. Ananda = Pura felicità. La gioia, che è indipendente dalle circostanze esterne, si accompagna all'assorbimento cognitivo.

Si ha “Sananda” Samadhi quando la gioia stessa è l'unico oggetto senza alcuna forma di astrazione.

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La pratica del “Nityananda Kriya” insegnato durante le iniziazioni al secondo e terzo livello del Kriya Yoga di Babaji, è di aiuto per acquisirne consapevolezza.

4. Asmita = Presa di coscienza dello io sono. Questa è pura soggettività. Si ha “Sa-asmita” samadhi quando si è consapevoli solamente dello “io sono”; i samskara, o inclinazioni del subconscio, sono però ancora insiti come un seme nella mente e possono manifestarsi a seguito di un certo stimolo.

Praticando i diversi “Samadhi Kriya” insegnati durante l'iniziazione al terzo livello del Kriya Yoga di Babaji, addentrandosi nell'intimo dal livello più grossolano fino a quelli più sottili, è possibile separare il purusha dalla prakriti e realizzare questi quattro accompagnamenti del primo livello di samadhi.

“Asamprajnata Samadhi”

Nel verso I, 18 Patanjali ci dice. “Attraverso la pratica costante del pensiero di distacco (rispetto alle modificazioni mentali) rimane solamente il pensiero del distacco stesso come impressione residua del subconscio”. Questa è l'altro samadhi “asamprajnata Samadhi” (non-distinto) (che subentra) al precedente (“samprajnata”). Qui non esistono più sostegni obiettivi. Dopo aver compreso “prakrit”, la natura, nelle sue quattro manifestazioni (materiale, sottile, gloria pura e puro “io sono”), noi possiamo distaccarcene e risiedere nel puro Sé. La loro cessazione si verifica solo dopo una pratica costante e prolungata del distacco mediante diversi metodi. L' “asamprajnata (non-distinto) samadhi” subentra al samprajnata samadhi e diventa possibile solamente attraverso una pratica istante per istante di distacco e Auto-consapevolezza per molti anni. Il distacco supremo è perciò il mezzo per conseguirlo, visto che non può essere conseguito se la base della concentrazione è un oggetto. Rimane soltanto l'impressione latente del distacco.

Nel verso I, 20 Patanjali ci dice: “Per gli altri, questo asamprajnata samadhi è preceduto da fede, memoria, assorbimento cognitivo e discernimento”. In contrasto con gli yogi a cui si fa riferimento nel verso precedente e che lasciano il corpo fisico prima di aver raggiunto l'asamprajnata samadhi, quelli che la raggiungono lo fanno sviluppando quanto segue:

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sraddha = Fede implicita nello Yoga, con fiducia nelle proprie capacità, nei propri metodi o sadhana, e nel proprio insegnante; virya = Da tale fede nascono energia o entusiasmo che alimentano un'intensa devozione in cui le emozioni sostengono la pratica; smriti = Memoria: se si ricorda costantemente il cammino e le lezioni apprese in modo da non ricadere in una prospettiva materiale, si conserva l'attenzione; samadhi = Si coltiva regolarmente l'esperienza dell'assorbimento cognitivo. Anche se non si è costanti in ragione delle fluttuazioni e distrazioni della mente, si sviluppa attraverso il sadhana yoghico; prajna = Discernimento; perspicacia. Grazie a una vigile Auto-consapevolezza, di istante in istante, si ricevono discernimento e si è guidati nel corso degli eventi della vita.

L'energia e la forza spirituale apportano attenzione e vigilanza. Ci si ricorda costantemente del cammino e delle lezioni apprese in modo da non ricadere nelle prospettive materiali. Questo ricordare conduce a una contemplazione ininterrotta.

Tale contemplazione continua o samadhi determina discernimento tra il Sé Reale e il non-reale.

L' “asamprajnata Samadhi” può sopravvenire come risultato finale di esperienze ripetute di “samprajnata Samadhi” al dissolversi graduale delle attitudini del subconscio. Potrebbe però manifestarsi anche come risultato del fatto che lo studente coltivi determinate attitudini positive – elencate nel verso – quali fede, entusiasmo, vigilanza, discernimento e contemplazione. Questi creano le condizioni ideali perché le vecchie attitudini possano essere dissolte.

“Per il praticante volenteroso e fervente questo (il samadhi) è vicino” (Yoga Sutra I, 21).

Si possono avere barlumi di samadhi, l'esperienza del Sé, in cui la propria mente si concentra interiormente e si viene pervasi da una beatitudine assoluta, ma ciò che è realmente difficile è fare questa esperienza in modo stabile e prolungato. Per farlo, occorre praticare con fervente, entusiastica devozione, coltivare la coscienza del testimone e volgere costantemente la mente e i sensi dentro di sé, lontano dall'attitudine alla dispersione. Quando concentrazione e consapevolezza

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del testimone si fanno continue e per così dire automatiche, si parla di pratica intensa (tivrasamavega).

Ogni volta che otteniamo un barlume di samadhi nel nostro essere interiore, sarebbe cosa saggia tradurlo nella nostra vita esteriore. Nei Shiva Sutra si dice. “La beatitudine del mondo è la beatitudine del samadhi”.

“La differenza di tempo necessario (per il samadhi) dipende inoltre dal fatto che la pratica sia lieve, moderata o intensa” (Yoga Sutra I, 22).

Una pratica lieve è discontinua, sporadica, piena di dubbi, di alti e bassi, di distrazioni, che distolgono. Una pratica moderata conosce periodi di intensità e devozione alternati a periodi di noncuranza, distrazione, nei quali si indulge in pensieri e abitudini negativi. Una pratica intensa è caratterizzata da una costante determinazione a ricordare il Sé e a mantenere la calma nel successo e nel fallimento, nella gioia e nel dolore, accrescendo l'amore, la fiducia, la pazienza e la comprensione per gli altri. La pratica si fa intensa quando veneriamo la manifestazione di Dio che abbiamo scelto e cerchiamo di vedere come la Divinità pervada ogni cosa, per andare oltre i desideri insorgenti. A prescindere dall'intensità degli eventi o delle circostanze, a prescindere da quanto grande sia maya, ovvero la commedia dei drammi intrisi di illusioni, continuiamo a vedere la Divinità in ogni cosa.

Per acquisire una pratica intensa, immergiti nello Yoga. Fai un passo in avanti, ogni giorno. Guarda a ogni cosa come a una parte del Piano Divino, che si dispiega perfettamente per la tua evoluzione. Non vedere nulla al di fuori o in contrasto con tale Piano Divino. Tenendo presente ciò, sii perseverante e costante.

11. Kaivalyam: Libertà Assoluta Qual è l'obiettivo ultimo dello Yoga? Nel quarto e ultimo pada

(capitolo) degli Yoga Sutra, Patanjali approfondisce questa domanda e la definisce come kaivalyam. La maggior parte dei traduttori e commentatori hanno tradotto questa parola come lo “Stare da soli”, soprattutto coloro che hanno sottolineato il dualismo filosofico di Patanjali. Sono arrivati alla conclusione che l'obiettivo ultimo dell'anima realizzata sia lasciare il piano fisico. Ancora una volta la separazione tra spirito e carne, concetto che si ritrova così spesso nella letteratura spirituale. Se il Kriya Yoga di Patanjali è basato sulla filosofia Samkhya,

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come illustrato dall'antagonismo tra purusha (la coscienza, il Sé, il Testimone, il soggetto) e prakriti (La Natura, Ciò che viene visto, l'oggetto), nel mio libro I Sutra del Kriya Yoga di Patanjali e dei Siddha ho dimostrato l'influenza del Tantra in genere, e del Siddhantha in particolare, sulla filosofia e teologia di Patanjali. Basandosi su questo nuovo punto di vista, è più preciso tradurre “kaivalyam” come “Libertà Assoluta”.

Dal momento che il kaivalyam è l'obiettivo dello Yoga Classico, è importante avere una chiara comprensione del significato di questo termine. La maggior parte dei commentatori, come il Dottor Georg Feuerstein, celebre studioso, hanno concluso alquanto freddamente che l'obiettivo dello “Stare da soli”, così come descritto da Patanjali richieda di lasciarsi il mondo alle spalle una volta raggiunto lo stato superiore di “assorbimento cognitivo non-distinto” (Yoga Sutra I, 18) conosciuto come asamprajnata samadhi.

Questa conclusione è probabilmente originata dal pregiudizio nei confronti della natura, in particolare la “natura umana”, che sembra informare le tradizioni spirituali in genere, e nello specifico le tradizioni qui esposte. In tale pregiudizio, il presupposto è che le leggi della Natura siano immutabili e che pertanto l'unico modo per aggirarle sia, per così dire, lasciarsi il mondo alle spalle. Ciò non tiene conto del grande potenziale dell'anima Auto-realizzata di trasformare il suo veicolo umano, il che comprende i corpi intellettuale, mentale, vitale e perfino quello fisico. Gli Yoga Siddha, e più recentemente Sri Aurobindo e scrittori contemporanei come Ken Wilbur, hanno però affermato il potenziale per una tale trasformazione della nostra natura umana a livello collettivo. Ma esistono molte altre fonti nella letteratura degli Yoga Siddha. Purtroppo, fino a poco tempo fa tali fonti sono state ignorate al di fuori di ristrettissimi circoli di iniziati.

All'inizio degli Yoga Sutra (I, 3), Patanjali ci mette al corrente di ciò quando dice: “Il Testimone dimora nella sua vera forma (svarupa)”. L'anima individuale o jiva, assume cioè per espansione la sua vera natura o forma, Siva, la Coscienza Suprema. La perfezione dell'assorbimento cognitivo, nelle sue fasi progressive, come descritto da Patanjali e dai Siddha determina una trasformazione radicale a molti livelli. Secondo quanto scrive Patanjali nel quarto pada (IV, 34), la natura umana ordinaria, in precedenza motivata solamente dalle forze costitutive della

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natura (i gunas), viene sostituita da una natura superiore (svarupa). Il termine svarupa letteralmente significa “la propria vera forma o natura”. Tirimular e altri siddha hanno spesso definito la svarupa come “manifestazione auto-illuminante”.

Nel verso II, 25 Patanjali definisce il kaivalyam come segue: ”Senza questa ignoranza (avidya) tale unione (samyoga)non si produrrebbe. Questa è la libertà assoluta (kaivalyam) da Ciò che è visto”. Nel verso II, 5 Patanjali definisce l' “avidya” come “ignoranza”. Lì afferma: “L'ignoranza è vedere il transitorio come durevole, l'impuro come puro, il doloroso come piacevole e il non-Sé come il Sé”. Nel verso II, 17 Patanjali ci mette al corrente dello samyoga dicendo: “La causa (di sofferenza) che dev'essere eliminata è (samyoga) l'unione dell'Osservatore [Testimone] e di Ciò che viene osservato”. Il samyoga può essere inteso come quello stato ordinario della coscienza umana in cui il Sé viene identificato con gli oggetti di cui fa esperienza: è questo il significato de “l'unione dell'Osservatore con Ciò che viene osservato”. Per esempio, quando diciamo “sono stanco” o “sono preoccupato” o ancora “voglio questo”, stiamo manifestando lo stato di samyoga, l'unione dell'Osservatore con Ciò che viene visto.

Nel quarto pada, al verso 27 Patanjali ci spiega che il metodo per liberarci da questo stato di samyoga consiste nel continuare a distaccarci dalla falsa identificazione con i vritti o fluttuazioni che si manifestano all'interno nella coscienza e con i connessi klesa o afflizioni. Questo metodo viene spiegato in Yoga Sutra I, 12: “Attraverso la pratica costante e il distacco (si ha) la cessazione (dell'identificazione con le fluttuazioni della coscienza)”. E al verso II, 26 dice: “Il discernimento cosciente ininterrotto è il metodo per la sua rimozione”.

Il termine Siddhantha denota l'obiettivo finale di perfezione o realizzazione per il Saivita. Un siddha è qualcuno che manifesta siddhi o perfezione o poteri speciali. “Io sono il Supremo” dice il Vedantin. “Io diventerò il Supremo” dice il Siddhantin. Se il kaivalya si riferisce al risultato finale, segna anche l'inizio di possibilità illimitate. Ma kaivalyam inteso come inizio della “libertà assoluta” è sinonimo della condizione di Siddha, cioè colui che ha fatto discendere l'Essere Supremo all'interno di se stesso a tutti i livelli, in totale abbandono. Questo determina uno sviluppo integrato a tutti i livelli e non una semplice ascesa verticale al di fuori del mondo come nella maggior parte delle tradizioni spirituali. Soltanto una tale trasformazione onnicomprensiva merita l'identificazione

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con il termine “perfezione”. Essere risvegliati spiritualmente in un corpo ammalato o con una mente disturbata, non è perfezione. Che un Siddha continui a rimanere sul piano fisico è irrilevante. Se lo fa, è solo per farsi strumenti del risveglio e della trasformazione della razza umana. Se disincarna, non è perché sia obbligato a farlo a causa di una degenerazione del corpo fisico. E diversamente dal voto del bodhisattva nel buddismo, nel quale si promette di ritornare fino a quando tutti gli essere senzienti non abbiano raggiunto la liberazione finale, il Siddhantin si dedica alla trasformazione di questo mondo che non è illusorio o privo di valore. Questo mondo è intrinsecamente divino. È il nostro “bordo” divino collettivo in cui il Signore, attraverso di noi, realizza il suo più grande potenziale.

Così, il quarto pada non è l'ultimo capitolo. L'ultimo deve ancora essere scritto da noi tutti nel realizzare il nostro potenziale evolutivo.

In Yoga Sutra IV, 2 Patanjali ci informa non solo della possibilità, ma anche della probabilità che la specie umana evolva verso qualcosa di nuovo con ancora un'insperata gamma di possibilità:

“La trasformazione in un'altra specie (è dovuta alle) grandi possibilità inerenti alla Natura”.

Ciò che i Siddhas hanno conseguito può essere un obiettivo, o risultato finale, per tutti noi, anche a livello collettivo. Nella letteratura relativa alla liberazione spirituale si parla raramente della trasformazione collettiva della specie umana. Siddha moderni quali Sri Aurobindo e Ramalinga Swamigal hanno anche apportato molte regole di condotta. Seguendo il loro esempio e i loro insegnamenti, gli studenti sinceri dello Yoga possono lavorare in direzione di un tale completo abbandono e trasformazione. Solo allora verrà realizzato il nostro più elevato potenziale di esseri umani. Solo allora verrà realizzato il kaivalyam, la libertà assoluta.

12. Il Sadhana della Vita Che cos'è il sadhana? La parola sadhana proviene dalla radice sanscrita

saad, che significa “andare dritto allo scopo od obiettivo; realizzare; dominare”. Il sadhana è una pratica di ricordo di Sé. Può essere definito come un modo di essere, pensare e vivere che sostiene nell'allontanare il proprio senso di sé dall'identificazione con corpo, pensieri, emozioni e

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storia personale. Essendo il Sé superiore, il sadhana procura l'esperienza della consapevolezza.

Il Kriya Yoga di Babaji è “Azione con Consapevolezza” ed è un modo per conoscere la verità del nostro essere. Il sadhana del Kriya Yoga consiste nella pratica quotidiana dell' “Azione con Consapevolezza”, che ha un potenziale smisurato. Tutto ciò che dobbiamo fare è partecipare con volontà tenace. Dobbiamo voler allineare corpo, mente, cuore e volontà con la nostra anima. Il Kriya Yoga non è un passatempo: è un impegno con il Sé Divino. Il sadhana non è solamente una raccolta di 144 esercizi fisici e mentali o pratiche spirituali. È uno stile di vita per il nostro intero essere. Mente, cuore, anima e volontà si allineano nell'aspirare a purificazione e perfezione, e nel rinunciare ai desideri dell'ego, al fine di vivere per servire la Verità. Vivendo per servire la Verità, il nostro Yoga può offrirci una vita più pienamente vissuta che è in gran parte insensibile agli alti e bassi delle circostanze esterne. Il Kriya Yoga non esclude la vita ma ci chiede di accogliere, o quantomeno accettare la vita in tutte le sue manifestazioni esterne, piacevoli come dolorose.

Il Kriya Yoga vede il mondo esterno come la manifestazione esterna del Divino e lo utilizza come proprio campo personale di sadhana.

È attraverso la vita che si giunge a conoscere la Verità in merito a se stessi. Il sadhana è racchiuso all'interno delle esperienze della vita. È in questo campo di esperienze di vita che si può compiere il lavoro yoghico più facilmente. È grazie alle esperienze della vita che si può conseguire la maggior crescita. L'anima trae la propria “linfa” dalle esperienze della vita. Ed è da questa linfa, essenza delle intense esperienze dell'essere esteriore, che si costruisce una personalità che viene diretta verso la Coscienza Divina.

Il sistema del Kriya Yoga suggerisce che noi stiamo al mondo al fine di conseguire auto-osservazione, auto-purificazione e realizzazione del Divino all'interno di noi. Non si tratta di liberazione dal mondo, ma di liberazione all'interno di esso. Non abbiamo bisogno di una rinuncia esterna per dirigerci verso l'obiettivo, perché è nel mondo che viviamo la sfida dei nostri attaccamenti, avversioni e brame. La vera rinuncia è purezza; è una rinuncia cosciente e una rinuncia all'ego, un lasciar cadere dal cuore il senso dell' “io” e del “mio”. La vera rinuncia è uno stato

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interiore in cui si sgominano pensieri egoistici, desideri e perfino preferenze, mentre si è al mondo.

Senza affrontare la propria limitata personalità, come sarebbe possibile accedere alla verità? Stando al mondo si sviluppano attaccamenti, avversioni e brame. Il mondo ci espone a diverse tentazioni, sofferenze, lezioni e guide di condotta, a prescindere che ci proclamiamo yogi o che rivendichiamo un'identità spirituale. Il sadhana serve a svelare la verità in merito a ciò. Il mondo ci offre anche molto amore che ci aiuta a comprendere la gioia. Ci offre così tanta bellezza e meraviglia. Il sadhana del Kriya Yoga può aiutarci a vedere l'amore, la meraviglia e la bellezza che sottostanno a ogni istante di vita, anche nella sofferenza più dura.

Fondamentalmente non dovrebbe esserci differenza tra ciò che identifichiamo essere il nostro sadhana e ciò che definiamo come la nostra vita. Tutte le nostre azioni possono essere offerte per essere trasformate nel Fuoco Divino dello Yoga. Tutta la nostra coscienza può essere offerta per essere trasformata in quello stesso Fuoco Divino. In qualità di Kriya Yogi assumiamo il più sincero e arrendevole dei ruoli, di modo che ogni nostra azione affluisca dal Divino. Per vivere nel mondo come un bambino del Divino è necessario acquisire questa Consapevolezza.

Vorrei condividere con voi una mia esperienza particolare che mi ha chiarito tutto quello di cui ho parlato in questa occasione. Mi è successo durante un incontro con un Bambino Divino che irradiava bellezza spirituale e meraviglia. Spesso la bellezza esteriore è un miscuglio di potere vitale e magnetismo che non contiene alcun potere spirituale. La luce di una natura vitale è brillante, bianca e fredda. La avevo già vista in precedenza. Ma la bellezza spirituale è incantevole e dolce e ha più potere di trasformazione che qualsiasi bellezza fisica. Una persona spiritualmente bella, anche se fisicamente deforme, eserciterà una forte attrazione su di noi...

Immaginate un giovane di circa 20 anni, handicappato, paraplegico, estremamente magro, il cui corpo necessiti di aiuto nella sua interezza. Visualizzate questo giovane, incapace anche di nutrirsi, mentre viene sollevato dalla sua sedia a rotelle dalla madre, che lo tiene in grembo dandogli da mangiare dallo stesso piatto da cui mangia lei.

Ogni mattina, per 10 giorni, mentre mi trovavo in un ashram in India, ho visto queste due persone a colazione; la madre, che aveva grossomodo

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la mia età, reggeva e nutriva il figlio, che aveva gli stessi anni del mio, come se fosse un bebè. E ho sempre visto il più dolce dei sorrisi su entrambi i loro volti, come se condividessero il più meraviglioso dei segreti. Ero così attirato da questi due da recarmi particolarmente presto alla mensa occidentale per fare colazione vicino a loro. Mi sedevo al loro tavolo ma a qualche sedia di distanza per non disturbarli.

L'amore e la devozione che queste due persone avevano l'una per l'altro si riversava nello spazio attorno a loro e ne ero per così dire imbevuto. Era un'esperienza spirituale per me. Era come se stessi facendo il bagno nel bagliore del sole o di un lago assolutamente cristallino. Questo giovane era terribilmente deforme a livello fisico, le sue braccia e gambe erano avvizzite e parlava con un farfugliamento per me impossibile da comprendere da dove ero seduto; eppure, c'era qualcosa di così bello in lui, che mi attirava e mi dava gioia. Ogni mattina mi sedevo al loro tavolo quanto più vicino possibile a loro, per guardare di sfuggita, con la coda dell'occhio, questo rituale tra madre e figlio. Non abbiamo mai parlato né ci siamo mai salutati. Né il ragazzo né la madre hanno mai guardato nella mia direzione.

L'ultimo mattino in cui mi trovavo all'ashram, di ritorno dal mandir [tempio indiano, N.d.T.] della meditazione, ho sentito qualcuno strattonarmi sulla spalla destra, come se qualcuno richiamasse la mia attenzione perché mi voltassi. Proprio al di sopra del mandir si era inarcato un bellissimo doppio arcobaleno. Sembrava iniziare su un lato del tempio e finire sull'altro. In effetti c'erano due arcobaleni, uno sull'altro, e ognuno dei due arcobaleni era completo e separato: in realtà non si trattava di un doppio arcobaleno, che nel caso si sarebbe avvitato attorno a un centro comune arancione. Questi erano separati e distinti. Non avevo mai visto uno spettacolo simile. Circa 50 iarde dietro di me c'erano il giovane in carrozzella e sua madre. Si sono accorti che stavo guardando qualcosa dietro di loro e si sono voltati per guardare. Dobbiamo essere rimasti immersi nell'arcobaleno per parecchio tempo perché, quando ho guardato di nuovo, c'erano cento o più persone che mi davano le spalle completamente assorbite dalla meraviglia nel cielo. Stavo per girarmi e rimettermi in marcia per andare nella mia stanza a fare i bagagli quando il giovane ha voltato la testa verso di me. Poi sua madre ha girato completamente la sedia a rotelle verso di me e sono stato assorbito dal sorriso più bello che io abbia mai visto. Ancora oggi posso

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richiamare alla mente la bellezza di quel giovane. Da lui scaturiva una radiosità puramente cristallina di “bellezza spirituale”. Si fece chiaro in me come la vera “bellezza” sia un risultato di ananda, beatitudine e gioia; e tale ananda era nell'essenza stessa di quel giovane. Si tratta della luce di Dio-splendente, calda e confortante: una vera, gioiosa espressione dell'Anima.

13. Domande e Risposte

Domanda: Come dovremmo concentrarci nel praticare i mantra?

Risposta: I mantra sono un linguaggio tra livelli di coscienza, quindi è importante ripeterli in modo che la coscienza si faccia più profonda e si ampli, come un seme che crescendo diventa un albero. Nella coscienza fisica ordinaria, ovvero la nostra coscienza, perfino la nostra identità è assorbita dai fenomeni di cui si fa esperienza attraverso i cinque sensi. Ci preoccupiamo di ciò che vediamo, leggiamo, udiamo, sentiamo sulla pelle etc. Nella coscienza del sogno ordinario, che comprende il sognare a occhi aperti, la nostra coscienza è anche contratta e assorbita da ricordi, fantasie come ansietà, desideri, giudizi. Per ottenere i benefici del sadhana mantra è perciò necessario concentrarsi non solo sul suono o sulla pronuncia del mantra, ma anche sul suo significato e su a cosa sia rivolto. Il significato può essere compreso meglio come bhava o sentimento, in associazione con idee quali amore, abbandono, forza, saggezza, abbondanza, radiosità, pace.

Il beneficio sarà ancora più grande se si riesce a ricordare lo stato di coscienza che si è provato quando si è stati iniziati al mantra. Il mantra è essenzialmente un veicolo di coscienza, e ci ricorda lo stato in cui ci trovavamo durante l'iniziazione. L'iniziazione al mantra è un evento molto sacro e richiede molta preparazione da parte sia di colui che inizia che di colui che riceve l'iniziazione. Non è frequente, ad esempio, osservare un giorno di silenzio e di pratica intensa dello Yoga, e cantare attorno a un fuoco di mantra yagna, come si fa prima dell'iniziazione a un mantra. Ricordate quindi quello stato di coscienza e i relativi amore, purezza, calma, serenità, e la grande calma ed energia che avete coltivato prima e durante l'iniziazione.

Le sillabe-semi germinano durante l'iniziazione al mantra. Più tardi, quando le si pratica per proprio conto, crescono espandendosi come una

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pianta, se le si pratica lasciando perdere le altre preoccupazioni. Si può fare questo nel corso delle attività di routine che non richiedono molta attenzione come camminare, andare in macchina (senza guidare) e perfino guidare se ci si trova su una strada familiare e non c'è molto traffico. Tale pratica serve anche ad eliminare l'ansietà mentale e il pensare banale che di solito prosciuga la nostra energia mentale.

Se praticato con un'aspirazione a ciò cui il mantra corrisponde – ad esempio amore, saggezza, forza, abbondanza, illuminazione – si creano le condizioni ideali in cui tali stati discendano dal piano mentale e si manifestino, come per incanto, sul piano materiale. Dal momento che la nostra vita è in larga parte conseguenza dei nostri pensieri, parole e azioni passati, che costituiscono il nostro karma, quando sostituiamo i vecchi pensieri abituali con il mantra, le vecchie inclinazioni karmiche perdono la loro forza e si inaridiscono. Tale aspirazione non deve però contenere alcuna forma di impazienza, speranza o dubbio. Dev'essere nutrita di sentimenti di fiducia nell'efficacia del potere del mantra e di abbandono alla Volontà del Divino. L'aspirazione più elevata è semplicemente: “Sia fatta non la mia volontà, ma la Tua”. Quindi qualunque cosa si riceva sarà in linea con la Volontà del Divino e si supererà l'illusione fondata sull'ego di essere “l'artefice”.

Quando le nostre menti sono turbate dalle prove della vita, la pratica dei mantra può essere effettuata come una sorta di balsamo per attenuare l'ansia, la tristezza o l'agitazione mentale. Anche se la mente è in concorrenza con la recitazione del mantra, quest'ultima ridurrà gradualmente il chiacchierio mentale portando a una condizione di calma.

I mantra possono essere recitati prima della pratica di meditazione come aiuto per calmare e concentrare la mente, preparandola alla meditazione.

È meglio praticare il mantra in modo continuativo durante un certo periodo, o per un numero predeterminato di volte, al fine di sviluppare la propria forza di volontà; se però le circostanze richiedono che la nostra attenzione sia rivolta altrove, il mantra sadhana dovrebbe essere temporaneamente accantonato finché non siamo in grado di rivolgere di nuovo ad esso tutta o quasi la nostra attenzione.

Domanda: Come equilibrare la concentrazione interiore e quella esterna, in modo da ottimizzare entrambe?

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Risposta: Per “concentrazione interiore” intendi probabilmente lo stato di coscienza del Testimone e per “concentrazione esterna” intendi probabilmente la concentrazione sulle attività immediate, ovvero il fatto di essere attento in ciò che fai. Entrambi gli stati necessitano di una valutazione e hanno un proprio tempo e un proprio spazio. Ciò che ricerchiamo attraverso lo Yoga non è nessuno dei due, ma piuttosto una purificazione della mente dal senso dell'ego che ci fa sentire che “io sono colui che fa” o “io sono il corpo-mente-personalità”.

La “concentrazione interiore” è ciò che viene incoraggiato dalla maggior parte delle tradizioni meditative o spirituali ed apporta un equilibrio decisamente necessario alla comune mentalità materialista e sensuale incoraggiata dalla cultura moderna. Soprattutto oggi la nostra cultura ci incoraggia a credere che più cose riusciamo a sperimentare, più saremo felici. Questo però incoraggia a confondere la felicità, che è sempre un'esperienza interiore, con cose, persone o fenomeni esterni. Le tradizioni meditative e spirituali per prima cosa aiutano il principiante a rilassarsi, semplificare e a volgersi all'interiorità in modo da trovare il proprio calmo essere interiore, il proprio centro, il proprio spirito o anima che possiede le qualità di consapevolezza, luce, serenità, trascendenza, gioia e pace.

Esiste però il rischio che la scoperta della propria dimensione spirituale possa condurre a un rifiuto delle altre dimensioni della propria vita – fisica, emozionale, mentale e intellettuale – soprattutto in quelle culture o tradizioni che sono mayavadin, che vedono cioè il mondo come un illusione oggettiva. Spesso incoraggiano la rinuncia al mondo. Ancora oggi, questa è la tradizione predominante in Asia, così come lo era in Occidente fino all'epoca del Rinascimento. Nella nostra cultura materialistica moderna, però, sono pochi ad essere tentati da una tale posizione estrema. La maggior parte di coloro che meditano in Occidente utilizzano la loro pratica come un mezzo per alleviare lo stress della vita di ogni giorno e, nel migliore dei casi, come uno strumento per coltivare la dimensione spirituale che normalmente è stata trascurata.

A un certo punto però la gioia e il benessere insiti nella dimensione spirituale iniziano a dilagare nella vita di ogni giorno. Si incomincia a provare una profonda calma, perfino pace e accettazione di come vanno le cose, anche se ci si occupa delle attività di routine e delle difficili esperienze della vita ordinaria. Ognuno continua però secondo i suoi

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vecchi programmi, o samskara, e fino a quando questi non sono sufficientemente indeboliti e non vengono sostituiti da inclinazioni maggiormente sattviche, o fondate sulla saggezza, tali stati di calma e pace possono ancora sopraffatti dagli eventi della vita quotidiana.

Perciò, la domanda su come equilibrare la “concentrazione interiore” con la “concentrazione esterna” trova essenzialmente risposta nella prescrizione “essere attivi con calma e attivamente calmi”. La maggior parte delle tecniche di Yoga si propongono di coltivare questo percorso di mezzo, noto come sattva, che è caratterizzato dalle qualità di equilibrio, luminosità, consapevolezza, pace, calma e intelligenza. Mentre la pratica della Yoga si fa più ampia e profonda, anche il sattva cresce nella vita di ogni giorno. Però, dal momento che la natura umana è abitudinaria, bisogna impegnarsi nel sadhana Yoghico con regolarità, pazienza e perseveranza. Bisogna anche essere ben informati tramite una “mappa stradale” o un testo classico di Yoga, in modo da poter riconoscere le trappole e gli ostacoli, e riuscire a superarli: “Malattia, apatia, dubbio, negligenza, pigrizia, compiacenza nei sensi, falsa percezione, incapacità di trovare la propria strada, e instabilità” (Yoga Sutra I, 30). Il sadhana indebolisce i samskara e rende capaci di agire coscientemente invece di reagire secondo le abitudini.

Coltivando la presenza (in ciò che si fa) insorge consapevolezza, e con il suo insorgere arriva anche la beatitudine. In una tale condizione di essere, coscienza e beatitudine, ogni azione può essere effettuata senza l'alterazione dell'ego. Si agisce come uno strumento, con destrezza, senza attaccamento per i risultati; la propria gioia è Auto-manifesta e indipendente dal fatto che l'azione produca o meno i risultati desiderati o attesi.

In termini di pratica, coltivate la condizione del Testimone dall'inizio alla fine di attività di routine quali lavare i piatti, fare le pulizie di casa, camminare, mangiare, fare il bagno, senza interruzioni. Al farsi più stabile della condizione del Testimone, ricordatevi di coltivarla durante attività che richiedono maggiore concentrazione o attenzione: riparare qualcosa, fare spesa, ascoltare qualcuno parlare al telefono; in seguito, quando è saldamente consolidata, coltivatela quando la mente è impegnata a leggere o in altre attività che richiedono molta concentrazione. Anche allora, parte della coscienza può rimanere nella condizione di Testimone, in uno stato di “concentrazione interiore”, mentre il resto della coscienza si

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concentra sui compiti o sulle prove immediate, ovvero la “concentrazione esterna”. Se per la maggior parte del tempo rimanete assorti in attività difficili che richiedono più “concentrazione esterna”, allora trovate modi per semplificarle così da poter dedicare più tempo per i passatempi, che vi renderanno capaci di coltivare la “concentrazione interiore”.

Perché questo è importante? Si tratta di ciò che mi piace chiamare “il gioco della coscienza”. Ogni volta che ci giocate, cioè quando praticate l'essere presenti e consapevoli, si ha la condizione del Testimone e insorge la beatitudine. Garantito! E ogni volta che dimenticate di essere il Testimone, è la sofferenza a fare la sua comparsa. Automaticamente. Potete verificarlo facilmente. Quello della consapevolezza è l'unico gioco della vita in cui vincete sempre. In tutti gli altri giochi finite sempre per perdere, perché solamente Presenza, Coscienza e Beatitudine sono eterne e infinite. Qualunque altra cosa è limitata da spazio e tempo, ed è perciò transitoria.

Domanda: Nell'Advaita Vedanta ci si concentra soltanto sul Sé. Perché abbiamo altri punti di concentrazione nel Kriya Yoga di Babaji?

Risposta: Esistono sei principali sistemi filosofici in India, tra i quali la filosofia del non-dualismo, “Advaita Vedanta”, e Samkhya, su cui è basato lo Yoga. L'obiettivo dell'Advaita Vedanta è realizzare il Sé, Quello che eternamente è, nel piano spirituale. Tutto il resto è considerato essere un'illusione oggettiva, se non una semplice distrazione. Il sistema filosofico conosciuto come Saiva Siddhantha, o “Verità finale perfetta dei conoscitori di Shiva”, esprime ciò che gli Yoga Siddha Tamil, gli ideatori del Kriya Yoga di Babaji, hanno cristallizzato sotto forma di tecniche yoghiche pratiche. Nel Siddhantha il mondo non è considerato essere un'illusione o maya. Invece la mente può essere esposta all'illusione, in ragione della sua fondamentale ignoranza, ma questo non cambia la realtà oggettiva del mondo. Grazie alla comprensione del mondo, il che include la nostra Natura, i Siddha sono riusciti a realizzare pienamente il loro potenziale in tutte le cinque dimensioni di esistenza: fisica, vitale, mentale, intellettuale e spirituale.

“Il Saiva Siddhantha inizia dove il Vedanta finisce”: così ha parlato, ispirato da Satguru Babaji Nagaraj, Yogi Ramaiah, uno dei più grandi esponenti moderni dell'ordine dei Siddha. I loro insegnamenti sono

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conosciuti come “Tamil Kriya Yoga Siddhantham” e noi apparteniamo alla loro tradizione. Dopo aver realizzato l'Unità del piano spirituale di esistenza, gli Yoga Siddha Tamil hanno compreso che la Verità ultima consiste nell'abbandono su tutti i piani: spirituale, intellettuale, mentale, vitale e fisico. Hanno elaborato i Kriya al fine di consentire il controllo della natura umana in tutti i cinque corpi. Chi abbia realizzato Dio sul piano spirituale può essere definito un “santo” o conoscitore di Dio; chi lo abbia realizzato sul piano intellettuale può essere definito un “saggio”, ovvero colui che può manifestare la verità in modo estemporaneo in qualsiasi ambito di conoscenza con grande discernimento intuitivo; chi realizzi Dio sul piano mentale diventa un Siddha, colui che possiede i “siddhi”, ovvero i poteri yoghici miracolosi che comprendono i sensi sottili della vista (chiaroveggenza), dell'udito (clarudienza) etc. Quando si abbandona l'ego alla coscienza divina anche sul piano spirituale, si manifestano perfino i più grandi siddhi, che comprendono materializzazione e smaterializzazione, spirito al di sopra della materia, realizzazione delle richieste, consapevolezza della realtà a livello atomico e cosmico. Nel caso di pochissimi “Maha Siddha” come Babaji e i suoi guru Agastyar e Bogar, anche la coscienza delle cellule fisiche si è abbandonata alla coscienza Divina, e sono quindi diventati eterni come il Divino. A prescindere da quanto sia grande la realizzazione spirituale, l'illuminazione in un corpo ammalato non può essere considerata come perfezione o siddhi.

In termini pratici, cercare di concentrarsi unicamente sulla parte più sublime del nostro essere, il Sé, a livello spirituale, è sicuramente il modo più diretto, ma pochissime persone hanno la fermezza o la forza di volontà per farlo. Il problema è che la loro natura inferiore è troppo potente. Così i Siddha hanno elaborato tecniche pratiche o “kriya” per aiutare a sottomettere la natura inferiore. Patanjali per esempio ha elaborato un metodo per gradi in cui si sviluppano gradualmente la purezza, la calma fisica e mentale, la concentrazione, la rinuncia ai sensi necessari per il raggiungimento del samadhi. Coloro che tentano di giungere al samadhi direttamente sul piano spirituale senza l'aiuto di tali metodi, vengono di solito sopraffatti da reazioni ostili delle nature fisica, vitale, mentale e intellettuale.

Sviluppando le capacità di controllare mentale, vitale e fisico, possiamo inoltre diventare un più completo strumento del Divino in questo

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mondo. Invece di cercare il paradiso o la liberazione da questo mondo, i Siddha come Babaji si sono dedicati a servire l'evoluzione di tutti i suoi abitanti viventi.

Domanda: Come si pone il Kriya Yoga di Babaji nei confronti del Kriya Yoga promosso da Yogananda e i suoi successori?

Risposta: Yogananda ha affrontato l'arduo compito del pioniere che cerca di far conoscere lo yoga in un ambiente in larga misura ostile in cui una cultura cristiana fondamentalista ha generato moltissima ignoranza, scetticismo e perfino paura nei confronti dello yoga. Durante i primi cinque anni del suo soggiorno in America, tra il 1920 e il 1925, egli visse in Massachusetts ad Arlington, a nord di Cambridge, uno dei luoghi più liberali del Paese. Qui cercò di insegnare lo yoga e la spiritualità indiana così come li aveva appresi. Furono poche le persone a mostrarsi sensibili a ciò. Sapendo che la sua missione gli richiedeva di raggiungere un grande numero di persone in Occidente, si tagliò i capelli, con l'eccezione di qualche occasione speciale smise di indossare vestiti di color ocra in pubblico, e trasformò il suo vocabolario e la sua teologia da quelli dell'induismo a quelli del cristianesimo. Chiese diecimila dollari al Dottor Lewis, il suo principale benefattore, per tenere un ciclo di conferenze viaggiando in tutto il Paese. Nel corso dei cambiamenti nella sua vita, Yogananda iniziò a semplificare l'insegnamento del Kriya Yoga eliminando le posture e concentrandosi solo su due semplici meditazioni, i suoni “Om” e “Hong-Sau”. Semplificò considerevolmente la pratica del Kriya Kundalini pranayama: “Va-shee” divenne “Ah-eee” per evitare di offendere i cristiani fondamentalisti che potevano ritenere blasfemo il fatto di ripetere il nome “Shiva”. In questo modo fu in grado di iniziare, in meno di un'ora, mille persone alla volta durante le sue conferenze. Durante la seconda iniziazione, che fu data a un numero relativamente ristretto di persone, veniva insegnata una meditazione con i mantra sui chakra. Yogananda promosse anche esercizi “auto-energizzanti” che consistevano soprattutto in una contrazione statica di alcuni gruppi di muscoli. Si trattava di una notevole modifica delle tecniche antiche, ma permise a molti occidentali di tenersi in forma senza fare Hatha Yoga. Durante gli anni '20 e '30 si svilupparono molte teorie sulle differenze tra le razze, e fino agli anni '60 fu credenza diffusa che gli occidentali non potessero praticare le asana (posture) dello yoga in quanto i loro corpi sarebbero stati inadatti per farle.

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Il grande contributo di Yogananda, però, a parte iniziare molte persone al percorso dello yoga, furono i suoi scritti metafisici. La maggior parte di essi sono stati pubblicati in libri. Le lezioni dei corsi per corrispondenza, la cui lettura è necessaria prima dell'iniziazione da parte della SRF, sono estratti da tali pubblicazioni. Sono una fonte straordinaria di orientamento a come vivere la propria vita. Egli diede grande importanza all'utilizzo di “affermazioni” che, come le loro forme di “auto-ipnosi” e “programmazione neurolinguistica”, cercano di modificare attitudini fortemente radicate nel subconscio.

L'orientamento spirituale personale di Yogananda era in direzione della “Madre Divina”, ma fu sufficientemente saggio da non metterlo in rilievo nella nostra cultura [occidentale, N.d.T.] in cui Dio è solamente un “Lui”; così, mise al centro della sua opera una teologia cristiana e una pratica devozionale. Le funzioni che organizzava erano in linea con un servizio religioso di una chiesa protestante, con inni, preghiere, canzoni incentrate soprattutto sulla persona di Gesù. Invitava a conseguire la “Coscienza Cristica” attraverso interpretazioni appropriate di citazioni tratte dal Nuovo Testamento per sostenere il connubio della Cristianità occidentale e dello Yoga orientale. Addirittura non parlò della persona di Babaji, delle origini del Kriya Yoga e della sua missione fino al 1946, anno in cui fu pubblicata la prima edizione del suo libro “Autobiografia di uno Yogi”.

Alla fine Yogananda continuò ad attenersi al modello religioso occidentale passando le consegne della sua missione a un'organizzazione, la Compagnia dell'Auto Realizzazione [Self Realization Fellowship, in sigla SRF, N.d.T.], dichiarando che non ci sarebbero stati altri “guru” nell'ambito della SRF, ma che le sue lezioni dei corsi per corrispondenza avrebbero adempiuto a tale ruolo.

La SRF è diventata uno zelante guardiano degli insegnamenti di Yogananda. Li ha promossi soprattutto mediante le pubblicazioni, un corso di corrispondenza settimanale articolato su tre anni, e viaggi sporadici in città lontane per tenere conferenze e cerimonie di iniziazione della durata di circa un'ora. La SRF si è anche rivelata essere un custode geloso, avendo speso oltre 10 milioni di dollari in spese legali negli ultimi anni, nel tentativo di rovinare il suo rivale, la Chiesa Ananda di Auto-Realizzazione, quando quest'ultima ha iniziato a pubblicare scritti e immagini di Yogananda. Oggi la SRF proclama di essere una religione ed

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esorta i propri membri a evitare di leggere libri di altre tradizioni spirituali e di seguire altri insegnanti o insegnamenti spirituali. Si attiene strettamente agli insegnamenti di Yogananda al punto che, se uno studente solleva una questione non affrontata nelle lezioni della SRF, gli viene risposto che “non riveste importanza”.

Tutti i nostri lettori possano fare il confronto tra quanto appena riportato e il quintuplice cammino del “Kriya Yoga di Babaji”, con la sua enfasi su asana, Kriya Kundalini pranayama, numerosi kriya dhyana, mantra e bhakti yoga. Il Kriya Yoga di Babaji è un completo ed elaborato sistema di 144 kriya o tecniche che comprendono tutte le cinque dimensioni dell'esistenza umana: fisica, vitale, mentale, intellettuale e spirituale. Queste richiedono anni di addestramento in livelli progressivi.

Invece di scegliere per coloro che lo praticano una forma Divina da venerare, li incoraggiamo a seguire il proprio cuore. Il Kriya Yoga di Babaji è il lato pratico di tutte le religioni del mondo. Non è una religione che implichi uno specifico sistema di credenze. È un'arte scientifica che richiede pratica e destrezza, e i cui risultati possono essere replicati in modo scientifico. Non è un sistema di credenze che richieda ai propri membri di evitare gli altri sistemi religiosi. Coloro che lo praticano sono esortati a ricercare Dio e l'Auto-realizzazione in tutte le fonti. Lo stesso Yogananda ha appreso il Kriya Yoga da diversi guru ed è stato ispirato da molti altri, come riferito nella sua “Autobiografia”.

In accordo a tutte le tradizioni spirituali indiane, la fiamma viene trasmessa da un'anima all'altra, non da un'organizzazione. In India sono i testi sacri e i guru ad assicurare la trasmissione delle verità spirituali da una generazione all'altra, e storicamente ciò è stato fatto in larga parte senza organizzazioni formali. In Occidente la religione è controllata da istituzioni, che sono organizzazioni che di solito hanno anteposto la propria espansione e sopravvivenza all'interesse dei propri membri. Le religioni abramitiche sono basate sulla paura e spesso i loro seguaci si sentono maggiormente a proprio agio nel far parte di un'organizzazione o religione che li preserverà dall'inferno. Negli ultimi anni però, sotto l'influenza della spiritualità orientale, l'adesione alle “religioni organizzate” è sensibilmente diminuita in Occidente. Sempre più persone dichiarano di essere “spirituali” piuttosto che religiose, e cercano ispirazione in molte fonti senza far parte di alcuna specifica organizzazione.

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In India i sistemi di credenze sono considerati costruzioni mentali che costituiscono solamente un punto di partenza per la propria ricerca spirituale. Il karma o l'impegno personale determinano il proprio destino, sebbene occorra ricercare la grazia e i suoi effetti. È probabilmente corretto affermare che nessuno ha mai conseguito l'Auto-realizzazione per il solo fatto di aver aderito a un'organizzazione o di aver creduto in qualche sistema religioso o filosofico di credenze. Sarebbe tirato per i capelli rivendicare, come fa un certo guru indiano contemporaneo, di essere “dinasticamente” Auto-relizzato per il semplice fatto della realizzazione spirituale di suo padre e di suo nonno!

Libri e scritti possono condurci solamente fino ai limiti del nostro intelletto. Parole e libri tendono a dividerci. Ecco perché il Kriya Yoga di Babaji mette l'accento su un cammino quintuplice di pratica di “sadhana yoghico”, ovvero tutte quelle pratiche che ci ricordano la Presenza, l'Auto-realizzazione. È un percorso equilibrato che persegue la trasformazione dell'individuo non solo a livello spirituale, ma anche fisico, vitale, mentale e intellettuale.

Babaji è al centro della nostra tradizione. Il Guru tattva, o principio tramite il quale sono rivelati verità, amore incondizionato e saggezza, si manifesta attraverso di lui e del Kriya Yoga da lui elaborato come sintesi di antichi insegnamenti esoterici. Egli ne è la fonte viva e la sorgente che, attraverso il suo esempio e la sua ispirazione, ci guida. Egli è l'unico guru della nostra tradizione. Se è vero che la SRF considera Babaji come uno dei propri guru, non c'è che qualche accenno a lui nella letteratura della SRF stessa; è considerato un personaggio storico che non si trova più sul piano fisico, lontano, inaccessibile, che non ha nulla a che vedere con le direttive della SRF.

La SRF è una chiesa cristiana che pone condizioni per l'ammissione. Ha inoltre dichiarato di essere una religione. Interpreta “Cristo” come uno stato di coscienza da raggiungere attraverso la pratica del Kriya Yoga. È in questo modo che si viene “salvati” secondo la teologia della SRF. Celebra funzioni religiose come qualsiasi chiesa cristiana, e i suoi insegnamenti vengono divulgati dai suoi pastori. Proibisce ai propri membri di cercare una guida in qualsiasi altro insegnante od organizzazione spirituale.

Gli iniziati del Kriya Yoga di Babaji sono liberi di cercare ispirazione in tutte le fonti. Non esiste un'organizzazione di cui diventare membri. Il

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rapporto tra l'iniziato e Babaji è completamente personale. Il Kriya Yoga di Babaji viene divulgato mediante una rete di iniziati che offrono spontaneamente i propri servizi. Alcuni vengono preparati come istruttori del Kriya Hatha Yoga di Babaji e delle tecniche di base di respirazione, meditazione e filosofia yoghica. Gli studenti di livello avanzato che rispondono ai requisiti necessari possono essere invitati a diventare membri di un piccolo ordine laico di insegnanti, l'Ordine di Acharya del Kriya Yoga di Babaji. Dopo aver rispettato alcune precise condizioni, sono autorizzati a iniziare altri al Kriya Kundalini Pranayam e alle tecniche di meditazione del Kriya Yoga di Babaji, e in seguito alcuni iniziano altri anche ai mantra e a tutti i 144 kriya dell'ordine.

Nel Kriya Yoga di Babaji sono incoraggiate le domande, non come un mezzo per coltivare dubbi, ma come un modo costruttivo per trasformare i dubbi in passi verso l'Auto-realizzazione. Il Kriya Yoga di Babaji è una tradizione orale viva che cresce nei cuori e nell'esperienza di chi lo pratica. Non è limitato a ciò che è scritto nei libri, o alle storie dei suoi capi, a ai muri di un'istituzione.

Il Kriya Yoga di Babaji è ispirato dagli insegnamenti dei 18 Tamil Yoga Siddha che si trovano nel “Thirumandiram” così come nel “Sanatana Dharma”, “la religione eterna” dell'India. I Siddha hanno però messo in rilievo come Dio non sia da ricercare solamente in templi o cerimonie elaborate, ma con i nostri cuori, rimuovendo i veli di ignoranza, desiderio ed egoismo. Possano tutti apprendere il Kriya Yoga di Babaji e conseguire la realizzazione di Dio, provando gioia e pace eterna in tutti i cinque piani di esistenza.

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Per avere informazioni sul Kriya Yoga di Babaji, contattare:

Le Kriya Yoga et les Editions de Babaji, Inc.

196 rang de la Montagne · C.P. 90

Eastman, Quebec · Canada J0E 1P0

Tel: +1(888) 252-9642 · +1(450) 297-0258 · Telec: +1(450) 297-3957

www.babajiskriyayoga.net · [email protected]

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KRIYA YOGA SUTRAS DI

PATANJALI E I SIDDHAS

(disponibile in Italiano

in libro o e-book!)

di M. Govindan, 2000. Libro: 320 pagine. Prezzo: €21, costo dell'invio €5. ISBN 1-895383-12-9. Copertina morbida. 6 X 9

pollici. e-Book: 276 pagine. Prezzo: €9, costo dell'invio €5.

Patanjali dice del suo yoga che è un Kriya Yoga, cioè lo "yoga dell'azione consapevole". Il suo Yoga-Sutra è mondialmente riconosciuto come uno dei due o tre testi piu' importanti tra quelli che trattano dell'argomento. Fino ad oggi i commentatori si erano sempre concentrati sulle implicazioni filosofiche, tralasciando quelle propriamente yogiche. Avevano anche tralasciato l'aspetto esoterico del testo, solo chi ha fatto l'esperienza di quell'aspetto, può afferrarne il significato profondo.

Questa nuova traduzione ed il commentario forniscono una guida alla realizzazione del Sé e all'illuminazione. Evidenzia con chiarezza in che modo le profonde concezioni filosofiche di Patanjali possano essere applicate nella vita quotidiana, in qualsiasi circostanza. Chi pratica le tecniche del Kriya Yoga ha tra le mani una automobile potente, però senza cartina molti studenti finiscono in strade senza via di uscita. Ora per la prima volta esiste una chiara cartina grazie alla quale raggiungere stupende destinazioni.

Nel Tamil Nadu come in altri stati del sud dell'India vi è una tradizione di asceti yogi, i Siddha. Sono noti per la loro longevità, i loro strabiglianti poteri e il loro notevole contributo culturale. Hanno lasciato una ricca letteratura, tra cui il Thirumandiram di Siddha Thirumoolar il quale secondo molte fonti era un fratello discepolo di Patanjali.

"Lo studio (svadhyaya) è sempre stato un aspetto integrale dello yoga. Gli studenti occidentali devono considerare questa pratica con molta serietà. Focalizzandosi sempre sull'essenziale il Yoga-Sutra è ideale per una ricerca approffondita. Il suo approccio è razionale, sistematico e filosofico. E' ben diverso dal Thirumandiram, estatico, poetico, pieno di esperienze yogiche e di perle di sagezza. Questi due testi si completano a vicenda in tal modo che il loro studio si rivelera' illuminante.

Il testo di Govindan è un'ottima base per chi si vuole lanciare in una ricerca simile. Ha una lunga esperienza del Kriya Yoga, un amore ed un rispetto profondi per l'eredita' del Kriya Yoga. Il Kriya Yoga Sutra di Patanjali e dei Siddhar di Marshall Govindan è uno strumento notevole per lo studio dello Yoga in generale e per lo studio dei Yoga-Sutra in particolare. Lo raccomando sinceramente. Diverrà indispensabile per il crescente numero dei studenti del Kriya Yoga, e molto utile per gli altri." - Dalla prefazione del Dr. Georg Feuerstein, Ph D., autore dell'articolo "The Sutra of Patanjali", in "Encyclopedia of Yoga".

"Un contributo notevole alla sadhana di chiunque studi seriamente lo yoga. Risultato di dieci anni di lavoro quest'opera completamente nuova di quasi 300 pagine grazie alla quale si possono integrare gli insegnamenti nella pratica, vi sono riferimenti ad altri commenti ed un indice dei termini tecnici sia in Sanscrito che in Italiano"

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- Yoga Journal - Novembre 2001

"Marshall Govindan ha scritto un'ottimo e semplice commentario ai Yoga-Sutra, testo centrale dello Yoga classico composto da Patanjali a partire dagli antichi insegnamenti yogici dell'India. Notevolo, Govindan ha prodotto una prospettiva unica su questa profonda opera delle tradizioni del Kriya Yoga e dello South Indian Shaivite, che è di grande valore per i discepoli di questi percorsi. Porta gli Yoga Sutras fuori dalla confusione accademica e nel reame di una più profonda pratica yoga. Egli rivela i molti lati della vera scienza yogica della consapevolezza, che va ben oltre le asana o lo Yoga popolare di oggi." - David Frawley (Vamadeva Shastri), autore di "Yoga e Ayurveda", Direttore dell'American Institute of Vedic Studies.

"Marshall, il vostro libro sui Sutra è stupendo. Qualche mese fa chiesi a Swami Nityananda cosa potessi fare per aiutare le 200 persone che vedo ogni settimana, rispose: "Insegnagli i Sutra di Patanjali". Il modo in cui avete organizzato e presentato la traduzione è notevole. Inoltre il suo commento è cosi' accessibile per un occidentale che ho preso l'abitudine di leggerne dei passi all'inizio delle mie classi. E` un libro straordinario per i praticanti occidentali dello Yoga, a qualsiasi livello." -Martin Berson, Istruttore Yoga, Hartford, Connecticut, USA

BABAJI E LA TRADIZIONE DEI 18 SIDDHA KRIYA YOGA,

6A EDIZIONE

(disponibile in Italiano - e-book solo 9€,

di M.Govindan, 2001. 216 pagine con 33 fotografie a colori, 4 cartine, un indice bibliografico e un indice della terminologia tecnica.

E' la prima biografia di Babaji, il maestro immortale reso noto dal best seller: "Autobiografia di uno Yogi" di Yogananda. Babaji risiede ora nei pressi di Badrinath nelle montagne dell' Himalaya. Il suo corpo ha mantenuto l'aspetto di un sedicenne da quando raggiunse lo stato supremo dell'illuminazione, secoli orsono. Tale evento fu la conseguenza del suo percorso iniziatico nell'arte

scientifica del Kriya Yoga sotto la guida di due maestri immortali, i Siddha Agastyar e Boganathar. Questi facevano parte della Tradizione dei Siddha, molto conosciuta dai Tamil del sud dell'India. Questo racconto fatto da un discepolo di lunga data, ci rivela quanto si sa delle loro vite, della loro antica cultura e della loro missione. Ci indica inoltre come il Kriya Yoga possa essere utilizzato per integrare le dimensioni materiali e spirituali della vita. Vi sono anche precise spiegazioni degli effetti psicofisici del Kriya Yoga ed alcune indicazioni per la pratica. Nel volume troverete dei versi commentati dei Siddha. Questo e-book sarà per voi una fonte di ispirazione.

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"E' un eccellente contributo alla così poco nota scienza dell'immortalità." - C. Srinivasan, Ph.D., Professore Emerito di Botanica, Annamalai University, India.

"L'opera più curata e intelligibile sull'antico Kriya Yoga fin'ora pubblicata." - E. Ayyappan, discepolo di Babaji.

KRIYA HATHA YOGA DI BABAJI: 18 POSTURE DI

RILASSAMENTO, 6A EDIZIONE

(disponibile in Italiano - e-book solo 3€!!)

di M. Govindan, 2002. 30 pagine. Queste 18 posture furono selezionate da Babaji tra un

corpus di miliaia posture un sistema efficace attraverso il quale il corpo fisico ringiovanisce e viene preparato per le successive fasi dello Kriya Yoga. L'immortale maestro himalayano è la prova vivente di tale efficacia. Ogni postura è composta di diverse fasi il che le rende adatte ai studenti piu' esperti. Le posture sono inoltre presentate

due a due, postura e contro postura il che facilita la fase di rilassamento che segue ogni postura. Questa guida è disegnata come un manuale nel quale ogni fase di ogni postura è illustrata separatamente e commentata in modo chiaro e semplice. Sono inoltre segnalati gli effetti che ogni postura ha sulla salute e la prevenzione di vari disordini funzionali. Un capitolo introduttivo chiarisce i principi da seguire per una corretta pratica.

(NOVITÀ!) LA SAGGEZZA DI GESÙ E GLI YOGA SIDDHAS

(disponibile in Italiano - e-book solo 7€!!)

Per ulteriori dettagli in merito alla "tavola dei contenuti", commenta, una sintesi dei capitoli e ulteriori informazioni, visitare la La Saggezza di Gesù blog e il sito nuovo www.jesusandyoga.net

di M. Govindan. Ebook Pagine 196

Chi era Gesù? Uno degli esseri umani più influenti di tutti i tempi? Il fondatore del Cristianesimo? Un messia o salvatore inviato da Dio per redimere l'umanità dai propri peccati? Quali furono i Suoi insegnamenti? La nostra conoscenza di Gesù è limitata a ciò che è scritto nella Bibbia? Cosa ci può dire la moderna ricerca storica su ciò che Gesù fece ed insegnò? "Quali erano gli originali

insegnamenti di Gesù prima che la religione Cristiana divenisse organizzata?"

Con la scoperta di molti nuovi documenti originali nel deserto del Sinai e vicino al Mar Morto, e con l'avvento dei moderni metodi di analisi testuale da parte di studenti

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indipendenti dalle influenze istituzionali, oggi la maggior parte degli studiosi della Bibbia è d'accordo sul fatto che i libri del Nuovo Testamento sono scritti a diversi livelli di autenticità:

- Quelle che verosimilmente furono le parole di Gesù, riportate nei vangeli di Matteo, Marco, e Luca ma scritte diverse decadi più tardi.

- Quelle che verosimilmente furono interpolazioni o parole attribuite a Gesù da fonti sconosciute. - Quello che fu detto su Gesù o sui Suoi insegnamenti da altri, per esempio, Paolo nelle sue "lettere", che compongono la maggior parte del rimanente Nuovo Testamento, e che servirono come basi per il dogma iniziale della Chiesa.

All'interno della Cristianità e nella comprensione popolare di Gesù e dei Suoi insegnamenti, quanto queste interpolazioni e dogmi iniziali della Chiesa hanno distorto od oscurato le reali parole ed insegnamenti di Gesù? Quanto le attuali parole di Gesù dicono su chi era Gesù e quali erano i Suoi insegnamenti? Cosa le reali parole di Gesù non dicono? Le risposte a queste domande sono un prerequisito per fare un confronto fra gli insegnamenti di Gesù e gli quelli degli Gnostici e di altri mistici, come gli Yoga Siddhas. Precedenti tentativi, inclusi il "Il Sermone sulla Montagna secondo il Vedanta" di Swami Prabhavananda, e "La seconda venuta di Cristo" di Paramahansa Yogananda, possono essere imperfetti perchè hanno cercato di fare confronti con i dogmi della Cristianità riflessi nella versione di Re Giacomo della Bibbia. Non hanno considerato il lavoro degli storici biblici che hanno suggerito numerose inesattezze in questa versione inglese della Bibbia, in confronto all'originale greco. Non hanno preso in considerazione le molte scoperte che le moderne ricerche di critica storica hanno portato alla luce. Yogananda ha interpretato chi fù Gesù, distinguendo "Gesù" la persona da "Cristo" lo stato di "coscienza", che Egli ha ottenuto. La maggior parte della sua interpretazione era basata su presunte affermazioni fatte da Gesù, ad esempio l'affermazione "Io sono" nel Vangelo di Giovanni, che ora si sospetta siano interpolazioni e parole non dette da Gesù. La presente opera invece presenta un confronto fra gli insegnamenti degli Yoga Siddhas, con quegli insegnamenti che ora sono considerati i più autentici insegnamenti di Gesù, sulla base dei risultati della ricerca moderna, storica, critica.

Come vedremo, gli storici moderni sono stati capaci di formare un ampio consenso a proposito di quello che Gesù insegnò, ma la storia non fornisce molti dati su quello Gesù realmente fece. Nulla è registrato sui cosiddetti "anni mancanti" di Gesù, fra l'episodio del tempio di Gerusalemme, quando, all'età di dodici anni, parlò autoritativamente agli scribi e ai Farisei, e la Sua apparizione all'età di 30, quando iniziò la sua missione nel Mar di Galilea. Perciò dobbiamo cercare altrove per capire le influenze che trasformarono Gesù, il figlio di un carpentiere di Nazareth, nel Messia, o salvatore degli Ebrei, e il Cristo, venerato da milioni di persone da allora.

Ma ci sono altre fonti, che confrontando quello che Gesù disse e insegnò e come Egli visse, chiaramente indicano da dove provenivano queste influenze. Esempi includono gli scritti degli Gnostici, scoperti a Nag Hammadi, Sinai, nel 1945, gli Esseni Ebrei, scoperti a Qumram nel 1948 e migliaia di antichi documenti che tracciano lo sviluppo del Cristianesimo iniziale, e che documentano le sue divisioni a causa della competizione.

Più recentemente, la ricerca dello Yoga Siddha Research Centre a Chennai, India, ha portato ad una serie di libri che forniscono, per la prima volta, una traduzione e commentario degli Yoga Siddhas, o Yogi "perfezionati" dell'India, che furono contemporanei di Gesù. I loro insegnamenti e poteri miracolosi sono rimarcabilmente simili a quelli di Gesù.

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In quest'opera esploreremo e confronteremo queste ed altre aree, che getteranno una grande luce sulle domande "Chi fu Gesù"? e "Come posso capire al meglio i Suoi insegnamenti?"

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