Katharsis by Marco Pierini

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Katharsis L’intima natura delle cose ama nascondersi Eraclito 1 DOXA, TIMH, AXIA, AGWN campeggiano ciascuna in una stanza diversa della Palazzina dei Giardini, accese dalla luce al neon che allo stesso tempo conferisce loro forma ed energia. I vetri che compongono DOXA e AGWN sono disposti entro una superficie bianca che riverbera il pulsare della luce, TIMH e AXIA si stagliano invece direttamente sul candore della parete, assumendo un perentorio carattere di monumentalità. Le quattro parole di luce, quasi intraducibili per la loro pregnanza e la loro potenza evocativa, costituiscono gli elementi di un breve ciclo chiamato Katharsis, realizzato appositamente per la mostra modenese. Proprio a partire da questa serie, approdo provvisorio di una ricerca artistica sviluppatasi con rigore e coerenza nel corso degli anni, sembra opportuno intraprendere i primi passi che conducano verso l’opera di Nakis Panayotidis. In primo luogo si dovrà notare come le quattro parole appaiano sottosopra, ribaltate, seppur perfettamente leggibili, e come tale disposizione non ne attenui la forza, né annulli la portata dei loro significati complessi e articolati. Offerte in tutta la loro icastica evidenza DOXA (opinione giudizio, ma anche fama, gloria), TIMH (onore, stima), AXIA (valore, merito e quindi dignità) e AGWN (assemblea, piazza ma anche lotta, gara e rappresentazione teatrale) assumono una valenza tutta contemporanea, d’impellente attualità, che proprio la derivazione e la forma classica impediscono di volgere in aderenza al dato spicciolo di cronaca, di ricondurre a una situazione specifica, particolare, contingente. Mantengono dunque la loro universalità sebbene si mostrino capovolte, enunciate ma non rispettate, contraddette nei fatti, poste a schermo dei loro contrari. Come tutte le scritte al neon di Panayotidis anche queste parole presentano la superficie vitrea brunita, dotata di una patina che mentre richiama l’opera del tempo, la consunzione, rende il corpo di ogni singola lettera scarsamente traslucido, costringendo quasi la luce a farsi bagliore, aureola che attornia la forma, dal momento che non può investirla né attraversarla liberamente. A rendere ancor più stringente la connessione delle quattro opere è la condivisione del titolo: Katharsis, che converrà qui intendere soprattutto nella sua accezione estetica, formulata – non senza un ampio margine di ambiguità – da Aristotele nella Poetica e alternativamente interpretata come processo di purificazione ‘dalle passioni’ o ‘delle passioni’ attraverso l’azione teatrale (l’ajgwvn, appunto). L’arte dunque, si potrebbe quasi dire, riveste per Panayotidis una funzione non troppo dissimile dalla tragedia, non perché ne condivida gli intenti educativi, ma proprio per la sua funzione catartica di purificazione ‘delle passioni’, di efficace strumento di conoscenza di sé e del mondo, di consapevolezza. “La motivazione più intrinseca dell’arte”, ci viene in soccorso Emilio Garroni, è infatti “l’esigenza di affrontare e in qualche modo di mimare, con inevitabile distacco, il funzionamento della percezione quale luogo originario della coscienza dell’essere al mondo e nel mondo, in tutte le sue direzioni, componenti, contenuti, emozioni, desideri, frustrazioni, felicità immotivate e sofferenze inguaribili” 2 . La vera sintonia dell’opera d’arte col proprio tempo, allora, non dovrà individuarsi tanto nell’espressione o nella trasmissione di tematiche e problemi di stringente attualità, quanto nella facoltà di procurare in chi guardi uno stato emotivo di esaltazione delle capacità percettive e della sensibilità, un’intensificazione della coscienza di sé. L’opera d’arte, in quanto dispositivo che entra in funzione per chi vi si ponga in contatto, è perciò sempre contemporanea perché agisce nel momento stesso della contemplazione, nell’attimo in cui avvia con lo spettatore un colloquio e instaura un rapporto fondato sull’intimità, sull’esclusività, sulla mutua corrispondenza, e la sua funzione catartica consegue naturalmente da questa relazione. Aver posto a suggello del percorso

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Estratto dal catalogo della mostra Nakis Panayotidis, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano) 2012. Testo di Marco Pierini

Transcript of Katharsis by Marco Pierini

Katharsis

L’intima natura delle cose ama nascondersi Eraclito1

DOXA, TIMH, AXIA, AGWN campeggiano ciascuna in una stanza diversa della Palazzina dei Giardini, accese dalla luce al neon che allo stesso tempo conferisce loro forma ed energia. I vetri che compongono DOXA e AGWN sono disposti entro una superficie bianca che riverbera il pulsare della luce, TIMH e AXIA si stagliano invece direttamente sul candore della parete, assumendo un perentorio carattere di monumentalità. Le quattro parole di luce, quasi intraducibili per la loro pregnanza e la loro potenza evocativa, costituiscono gli elementi di un breve ciclo chiamato Katharsis, realizzato appositamente per la mostra modenese. Proprio a partire da questa serie, approdo provvisorio di una ricerca artistica sviluppatasi con rigore e coerenza nel corso degli anni, sembra opportuno intraprendere i primi passi che conducano verso l’opera di Nakis Panayotidis. In primo luogo si dovrà notare come le quattro parole appaiano sottosopra, ribaltate, seppur perfettamente leggibili, e come tale disposizione non ne attenui la forza, né annulli la portata dei loro significati complessi e articolati. Offerte in tutta la loro icastica evidenza DOXA (opinione giudizio, ma anche fama, gloria), TIMH (onore, stima), AXIA (valore, merito e quindi dignità) e AGWN (assemblea, piazza ma anche lotta, gara e rappresentazione teatrale) assumono una valenza tutta contemporanea, d’impellente attualità, che proprio la derivazione e la forma classica impediscono di volgere in aderenza al dato spicciolo di cronaca, di ricondurre a una situazione specifica, particolare, contingente. Mantengono dunque la loro universalità sebbene si mostrino capovolte, enunciate ma non rispettate, contraddette nei fatti, poste a schermo dei loro contrari. Come tutte le scritte al neon di Panayotidis anche queste parole presentano la superficie vitrea brunita, dotata di una patina che mentre richiama l’opera del tempo, la consunzione, rende il corpo di ogni singola lettera scarsamente traslucido, costringendo quasi la luce a farsi bagliore, aureola che attornia la forma, dal momento che non può investirla né attraversarla liberamente. A rendere ancor più stringente la connessione delle quattro opere è la condivisione del titolo: Katharsis, che converrà qui intendere soprattutto nella sua accezione estetica, formulata – non senza un ampio margine di ambiguità – da Aristotele nella Poetica e alternativamente interpretata come processo di purificazione ‘dalle passioni’ o ‘delle passioni’ attraverso l’azione teatrale (l’ajjgwvn, appunto). L’arte dunque, si potrebbe quasi dire, riveste per Panayotidis una funzione non troppo dissimile dalla tragedia, non perché ne condivida gli intenti educativi, ma proprio per la sua funzione catartica di purificazione ‘delle passioni’, di efficace strumento di conoscenza di sé e del mondo, di consapevolezza. “La motivazione più intrinseca dell’arte”, ci viene in soccorso Emilio Garroni, è infatti “l’esigenza di affrontare e in qualche modo di mimare, con inevitabile distacco, il funzionamento della percezione quale luogo originario della coscienza dell’essere al mondo e nel mondo, in tutte le sue direzioni, componenti, contenuti, emozioni, desideri, frustrazioni, felicità immotivate e sofferenze inguaribili”2. La vera sintonia dell’opera d’arte col proprio tempo, allora, non dovrà individuarsi tanto nell’espressione o nella trasmissione di tematiche e problemi di stringente attualità, quanto nella facoltà di procurare in chi guardi uno stato emotivo di esaltazione delle capacità percettive e della sensibilità, un’intensificazione della coscienza di sé. L’opera d’arte, in quanto dispositivo che entra in funzione per chi vi si ponga in contatto, è perciò sempre contemporanea perché agisce nel momento stesso della contemplazione, nell’attimo in cui avvia con lo spettatore un colloquio e instaura un rapporto fondato sull’intimità, sull’esclusività, sulla mutua corrispondenza, e la sua funzione catartica consegue naturalmente da questa relazione. Aver posto a suggello del percorso

espositivo il ciclo Katharsis induce dunque a credere che Nakis Panayotidis affidi proprio all’arte – e soltanto ad essa – il compito di riscattarci dall’ottundimento delle emozioni e dall’insensibilità. Nonostante la varietà delle tecniche impiegate, dal pastello all’installazione, dalla scultura al disegno, la poetica dell’artista emerge dalla sequenza delle opere in mostra con rigorosa coerenza, esaltando il dialogo costante, tanto formale quanto simbolico, tra oscurità e luce, visibile e invisibile, oblio e memoria. E se la memoria, per Panayotidis, è sempre il terreno sul quale l’artista costruisce le fondamenta della propria opera, la luce ne rappresenta l’aspirazione alla compiutezza (come prospettiva, però, mai come raggiungimento definitivo) e il segno vibrante del nostro stare al mondo qui e ora, del nostro essere, appunto, contemporanei. Due piccole carte, realizzate con piombo e catrame negli anni Ottanta, denunciano già nel titolo (Luce e Illuminare) quanta attenzione l’artista rivolga da sempre alla luce, elemento che più tardi ha fatto la propria comparsa nell’opera non più riprodotta ma addirittura prodotta, in una prima fase attraverso l’utilizzo di ordinarie lampadine a incandescenza, meno occasionalmente poi grazie a un sapiente uso del neon, talvolta celato sul retro della superficie o in vista sul fronte a marcare un accento sull’immagine, in altri casi, come Katharsis e Kabul, esso stesso costituitosi forma plastica, scultura. L’opera d’arte è dunque fragile equilibrio tra gli opposti e ciò che rivela non ha mai il carattere della determinatezza assoluta, della verità apodittica. Nei grandi carboncini e pastelli su tela retroilluminata lo sguardo non riesce a penetrare l’immagine per intero, ad addentrarsi negli anfratti del segno, a estrapolare le singole parti, qualcosa resta sempre in una zona d’oscurità inaccessibile (Il tempo e la sua ombra) oppure si confonde con l’ambiente e assume quasi una parvenza incorporea, immateriale (L’ombra fuggitiva della memoria, Il luogo, la memoria, la sua storia). Edifici abbandonati d’archeologia industriale si prestano mirabilmente allo scopo dell’artista, fungendo allo stesso tempo da scenografie e da protagonisti delle tele. Rovine del passato prossimo che non hanno mai conosciuto riscoperta e tutela, incamminate verso un destino di dissoluzione troppo precoce rispetto alla loro età, sembrano alterare la nostra percezione del tempo e consentire un’illusoria fuga dalla regolarità della sua scansione. “La prima impressione che si ricava, esplorando questi spazi, è che lì il tempo si sia improvvisamente fermato, ma naturalmente no, non è così, solo non scorre, non fluisce, soggiorna, abita il luogo, ne pervade l’atmosfera, si fa respirare, toccare, pensare, e nel mentre lavora, indifferente, con ostinata determinazione”3. Una serie non meno nutrita di opere eseguite con tecnica analoga ha per soggetto il mare o, per meglio dire, quell’astrazione spaziale indistinta dove lo sguardo, tra mare e cielo, si perde: l’orizzonte. In Pensando oltre III, Con lo sguardo del nomade e Lo sguardo fuggitivo del poeta II la linea luminosa dell’orizzonte attrae inesorabilmente l’occhio e pur nella sua indeterminatezza riesce a stabilire un limite (ché altro l’orizzonte non è) alla vastità delle acque. Queste ultime occupano una superficie costantemente maggiore di quella del cielo, si contraggono e si distendono senza divenire minacciose e sembrano muoversi col ritmo di un respiro; lo sguardo può permettersi di essere nomade e persino fuggitivo, perché l’infinito promesso dall’orizzonte è solo un’aspirazione, un’illusione che l’artista ama fingere reale, proiettata ai margini di un mare amico che non possiamo trattenerci dall’identificare con l’Egeo. Ammiro, nel movimento, le cose ferme come l’opera scrosciante del mare, onde e onde nello stesso punto, immobili4 L’ambiguità dell’immagine che in Katharsis si esprime col ribaltamento delle lettere e nelle tele con la fuga dell’orizzonte, le zone d’ombra, le forme quasi immateriali, assume una caratteristica ancora diversa in alcune installazioni dalla forte valenza scultorea, nelle quali a giocare un ruolo determinante è

il vapore che circonfonde gli oggetti, li vela, ne stempera la fisicità. Accade così per Kabul, il racconto di un sogno e per tre opere che significativamente annunciano già dal titolo l’attitudine a celare più che a manifestare, a proteggere piuttosto che a propagandare: Libertà nascosta, Nasconditi corpo, Nasconditi sapere. La prima è costituita da una teca contenente il calco in bronzo dei piedi dell’artista, eletti a umile simbolo di libertà, la seconda invece allude al corpo evocato nel titolo attraverso la camicia bianca, resa quasi spettrale dall’azione congiunta del neon e del vapore, mentre il sapere dell’ultima è riposto dentro il cassetto di un piccolo tavolino, lasciato aperto ma invaso dalle nuvolette di vapore. Secondo un ritmo regolare la nebbia artificiale si interrompe per qualche attimo, consentendo allo spettatore di leggere la scritta eponima sul fondo del cassetto: kruyou gnwsh. Apparizioni, epifanie, rivelazioni sempre enigmatiche, le opere di Panayotidis sembrano proprio ribadire l’assunto di Nicola Abbagnano che “l’arte è veramente sogno, ombra e finzione”. Ma non si creda che ciò ne attenui o limiti il valore, perché al contrario “il valore dell’arte non sta nella validità reale che le è negata, ma nel suo potere di esprimere mediatamente la vita”5. 1 I presocratici. Frammenti e testimonianze, introduzione, traduzione e note di Angelo Pasquinelli, Einaudi, Torino 19833, p. 188. 2 Emilio Garroni, Immagine Linguaggio Figura, Laterza, Bari-Roma 2005, p. 97. 3 Vitaliano Trevisan, Tristissimi giardini, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 22-23. Le parole di Trevisan si riferiscono alle vecchie fabbriche del vicentino. 4 Ermanno Krumm, Possa la voce della mente arrestarsi, vv 4-7, in E. Krumm, Respiro, Mondadori, Milano 2005, p. 67. 5 Nicola Abbagnano, Il problema dell’arte, Perrella, Genova-Napoli, Città di Castello 1926, cap. VI, § 5.