Joseph Conrad Tifone - paolodigitale.files.wordpress.com · non un vuoto chiacchiericcio fuori...

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Joseph Conrad Tifone Joseph Conrad Tifone «Guardando il barometro che continuava a scendere, il capitano MacWhirr pensò “Sta arrivando del maltempo.” Questo è esattamente ciò che pensò.» Questo celebre racconto della letteratura inglese rievo- ca la vita marinaresca fra otto e novecento. Il capitano MacWhirr, che – come scrive lo stesso Conrad – « non ha mai respirato e camminato su questa terra», vive in totale estraneità rispetto alla famiglia e al suo equipaggio; pur rifiutandosi di prendere in considerazione una rotta alternativa che permetta di evitare il tifone, la sua indomita volontà nel fronteggiare la forza sovrastante della natura sucita una profonda ammirazione. Joseph Conrad (1857-1924), scrittore di origine polacca, è ritenuto uno dei massimi romanzieri di lingua inglese. Nel 1886 ottenne la cittadinanza britannica, ma si considerò sempre un polacco. Anche se fino all’eta di venti anni non parlò un buon inglese (e continuò sempre a parlarlo con un spiccato accento straniero), fu un maestro di scrittura che portò nella letteratura britannica una sensibilità spiccata- mente non-inglese. Scrisse racconti e romanzi, molti di ambientazione marinare- sca, che narrano le prove cui è sottoposto lo spirito umano in un imperscrutabile e imperturbabile universo. RRD Roberto Ricci Designs is a trademark licensed to: Montecristo SRL r o b e r t o r i c c i d e s i g n s . c o m

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Joseph Conrad Tifone

Joseph Conrad Tifone

«Guardando il barometro che continuava a scendere,il capitano MacWhirr pensò “Sta arrivando del maltempo.” Questo è esattamente ciò che pensò.»

Questo celebre racconto della letteratura inglese rievo-ca la vita marinaresca fra otto e novecento. Il capitano MacWhirr, che – come scrive lo stesso Conrad – « nonha mai respirato e camminato su questa terra», vive in totale estraneità rispetto alla famiglia e al suo equipaggio; pur rifiutandosi di prendere in considerazione una rottaalternativa che permetta di evitare il tifone, la sua indomita volontà nel fronteggiare la forza sovrastante della natura sucita una profonda ammirazione.

Joseph Conrad (1857-1924), scrittore di origine polacca, è ritenuto uno dei massimi romanzieri di lingua inglese. Nel 1886 ottenne la cittadinanza britannica, ma si considerò sempre un polacco. Anche se fino all’eta di venti anni non parlò un buon inglese (e continuò sempre a parlarlo con un spiccato accento straniero), fu un maestro di scrittura che portò nella letteratura britannica una sensibilità spiccata-mente non-inglese. Scrisse racconti e romanzi, molti di ambientazione marinare-sca, che narrano le prove cui è sottoposto lo spirito umano in un imperscrutabile e imperturbabile universo.

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Joseph Conrad

Tifone

M O N T E C R I S T O . S R LVIA TOPAZIO 7/C - ZONA IND.LE NORD58100GROSSETO,ITALY-P. iva01178780530PH+39.0564.462269-FAX+39.0564.457808MONTECRISTO@ROBERTORICCIDESIGNS.COMROBERTORICCIDESIGNS.COM

Traduzione dall’inglese:Daniele Casalino

Tutto quanto il marinaio può vedereDall’albero più alto tutt’intornoSulla calma distesa del mare,Tale era la vastità del regno di Nettuno...

John Keats, Endimione

Nota dell’autore

La caratteristica principale di questo volume1 sta nelfatto che le storie che lo compongono non solo appar-tengono allo stesso periodo, ma sono state scritte unadopo l’altra nell’ordine nel quale appaiono nel libro. Ilperiodo è quello che seguì il mio rapporto con la rivista«Blackwood Magazine». Avevo appena finito di scrivereAl limite estremo e stavo cercando qualche soggetto chepotesse essere sviluppato in una forma più breve diquella dei racconti del volume Giovinezza, quando mivenne in mente la storia di una nave a vapore piena dicoolies2 che tornava da Singapore verso qualche portonel nord della Cina. Anni prima in Oriente ne avevo sen-tito parlare come di una cosa accaduta di recente. Pernoi era semplicemente uno dei tanti argomenti di con-versazione. Uomini che si guadagnano il pane nei modipiù disparati parleranno di lavoro, non solo perché è lacosa che li interessa di più nella vita, ma anche perchénon conoscono altro argomento di cui parlare. Non

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1 Uscito una prima volta a puntate nel 1899 nella rivista «Pall Mall Ma-gazine», Typhoon fu poi pubblicato nel 1903 in un volume intitolatoThyphoon and other Stories, con altri tre racconti marinareschi, Falk,Amy Foster e Tomorrow, preceduti da una nota dell’autore da cui èestratto questo testo introduttivo.2 Così erano chiamati i lavoratori cinesi assoldati come manodopera abasso costo dalle compagnie occidentali.

hanno mai avuto il tempo per informarsi. Per la granparte di noi la vita è un’inflessibile e severa maestra.Non ho mai conosciuto nessuno che fosse direttamentecoinvolto in questa vicenda ed eravamo interessati nontanto al fenomeno atmosferico in sé quanto piuttostoallo sconvolgimento portato dal fattore umano all’in-terno della vita della nave in un momento di estremadifficoltà. E, per quanto ho sentito, il racconto della vi-cenda non era ingigantito. In quella compagnia ciascunodi noi poteva facilmente immaginare cosa fosse suc-cesso. L’aspetto finanziario, che costituiva anche un pro-blema umano, era spiegato con un criterio tropposemplice per confondersi con qualunque altra cosa senon un vuoto chiacchiericcio fuori luogo.Come prima cosa posso dire che il fatto che tutto questofosse avvenuto in alto mare mi sembrò un soggetto suf-ficientemente degno di attenzione. Si trattava in fondosolo di una piccola storia di mare. Ma sentivo che do-vevo trarne fuori il profondo significato, che mi era ab-bastanza chiaro; ci voleva qualcosa d’altro, qualcosa dipiù, un motivo guida che armonizzasse tutti quei vio-lenti rumori, e un punto di vista che mettesse tuttaquella furia degli elementi al posto giusto.Quello che ci voleva naturalmente era il capitano Mac-Whirr. Lo vidi e capii che era l’uomo giusto per quellasituazione. Con questo non voglio dire di aver mai vistoin carne e ossa il capitano MacWhirr, o di essere maistato in contatto diretto con la sua mente o col suo in-trepido temperamento. MacWhirr non è una cono-scenza di poche ore, o di poche settimane, o di pochimesi. È invece il prodotto di venti anni di vita. Della miavita. Ha poco a che fare con una cosciente invenzione.

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Se è vero che il capitano MacWhirr non ha mai respiratoe camminato in questa terra (cosa che io trovo moltodifficile da credere), posso assicurare i miei lettori cheegli è perfettamente autentico. Posso anche azzardarmiad affermare la stessa cosa per ogni aspetto della storia,anche se confesso che quel particolare tifone del rac-conto non è stato da me direttamente sperimentato.Appena pubblicato, Tifone fu classificato da alcuni cri-tici come appartenente al genere dei racconti di tempe-sta. Altri si soffermarono su MacWhirr, nel qualepercepivano un preciso intento simbolico. Il mio intentoinvece era un altro. Sia il tifone che il capitano Mac-Whirr mi si presentavano come le necessità della pro-fonda convinzione con la quale affrontavo il soggettodella storia. Era la loro opportunità. Era anche la miaopportunità; e sarebbe vano disquisire su ciò che ne hofatto in una manciata di pagine, dal momento che questestesse pagine sono qui, fra copertina e retrocopertina diquesto volume, a parlare per se stesse.

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I

Il capitano MacWhirr, del piroscafo Nan-Shan, avevauna fisionomia che, per come appariva, era lo specchioesatto della sua mente: i lineamenti e l’espressione nondenotavano fermezza o stupidità; anzi, quell’uomo nonaveva proprio caratteristiche pronunciate; era assoluta-mente normale, indifferente, impassibile.La sola cosa che forse il suo aspetto poteva suggerireera, a volte, la timidezza; perché lo si poteva vedere se-duto in qualche ufficio a terra, con un vago sorriso e losguardo rivolto in basso. Ma quando lo alzava i suoiocchi apparivano diretti e di un azzurro intenso. I ca-pelli biondi e molto sottili avvolgevano come morbidaseta la calva calotta del suo cranio, da una tempia all’al-tra. Il pelo sul volto invece, rossiccio e fiammeggiante,sembrava un viluppo di filo di rame cresciuto e scolpitolungo il profilo delle labbra; anche quando non era ra-sato di fresco e muoveva la testa, dei riflessi metallici in-fuocati passavano sulla superficie delle guance. Era distatura sotto la media, con le spalle un po incurvate egli arti così robusti che gli abiti sembravano sempretroppo stretti per le braccia e le gambe. Come incapacedi distinguere cosa indossare alle diverse latitudini, por-tava una specie di bombetta, un abito marrone scuro edelle goffe scarpe nere. Questa tenuta attribuiva alla suarobusta figura un tono di rigida e rozza eleganza. La sot-

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tile catena d’argento dell’orologio avvolgeva il panciottoe lui non scendeva mai a terra senza stringere nel fortepugno peloso un elegante ombrello della migliore qua-lità, generalmente aperto. Jukes, il giovane primo uffi-ciale di bordo, accompagnandolo fino alla passerella,diceva a volte col massimo rispetto «Permette, signore?»e impadronendosi dell’ombrello con deferenza ne alzavail bastone, ne scuoteva le pieghe e lo faceva roteare perpoi renderglielo; e faceva tutto questo con un’aria tal-mente seria che il signor Solomon Rout, il direttore dimacchina, che fumava il suo sigaro del mattino appog-giato al boccaporto, volgeva la testa per nascondere unsorriso. «Oh, sì! benedetto ombrello… Grazie, Jukes,grazie» borbottava il capitano MacWhirr, con cordialitàma senza alzare lo sguardoAvendo un’immaginazione sufficiente per arrivare algiorno successivo e non oltre, il comandante era unuomo tranquillamente sicuro di sé; e per lo stesso mo-tivo non era affatto presuntuoso. È infatti l’immagina-zione che rende permalosi, arroganti e difficili daaccontentare; così ogni nave comandata dal capitanoMacWhirr era un paradiso galleggiante di pace e armo-nia. In realtà per lui era impossibile fare un volo di fan-tasia come per un orologiaio assemblare un cronometrocon nient’altro che un martello di due libbre e una sega.Eppure anche le vite insignificanti di uomini dediti in-teramente alla pura sopravvivenza hanno il loro lato mi-sterioso. Nel caso del capitano MacWhirr, per esempio,era impossibile capire cosa diavolo potesse aver indottoquel tranquillo figlio di un piccolo droghiere di Belfasta fuggire in mare. Eppure proprio questo aveva fatto,all’età di quindici anni. A pensarci, basta a dare l’idea

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di un’immensa e potente mano invisibile che si affondanel formicaio della terra, afferrando la gente per lespalle, sbattendo le teste l’una contro l’altra e spingendole facce ignare della moltitudine verso obiettivi inimma-ginabili e direzioni impensabili.Il padre non gli aveva mai perdonato quella irrispettosastupidità.«Potevamo anche tirare avanti senza di lui», diceva, «mac’è il negozio avviato. E poi lui è il nostro unico figlio!»La madre pianse molto dopo la sua partenza. Nonavendo lasciato dietro di sé nessun messaggio, fu datoper morto finché, dopo otto mesi, arrivò la sua primalettera da Talcahuano. Era cortissima e diceva: «Ab-biamo avuto un tempo bellissimo nella traversata».Ma si capiva, dal tono con cui scriveva, che l’unica no-tizia importante per lui era che il suo comandante loaveva iscritto, proprio quel giorno, nel ruolino di bordocome marinaio semplice.«Perché ne sono capace» spiegava.La madre pianse di nuovo a dirotto, mentre il padre ma-nifestò la sua emozione esclamando:«Che idiota».Era un uomo corpulento, con una predisposizione al-l’ironia caustica, che verso la fine della vita esercitò colfiglio, un po’ impietosito, come di fronte a un incapace.Per MacWhirr le visite a casa erano di necessità rare e nelcorso degli anni spedì altre lettere ai genitori, informan-doli delle successive promozioni e dei viaggi in giro per ilmondo. In queste missive si potevano trovare frasi come:«Qui fa molto caldo». Oppure: «Il giorno di Natale allequattro del pomeriggio abbiamo incrociato alcuni ice-berg.»

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Alla fine i due vecchi presero familiarità coi molti nomidelle navi, coi nomi dei capitani che le comandavano,con quelli di armatori scozzesi e inglesi, coi nomi deimari, degli oceani, degli stretti, dei promontori, coinomi stravaganti dei porti di legname, di riso, di cotone,coi nomi delle isole e col nome della ragazza del loro fi-gliuolo. Si chiamava Lucy. E lui non si preoccupò nem-meno di fargli sapere se quel nome gli piaceva o meno.Poi i due vecchi morirono. E il gran giorno del matri-monio di MacWhirr non tardò ad arrivare, subito dopoaver ricevuto il suo primo comando.Tutte queste vicende risalivano però a molti anni primadi quella mattina quando, nella sala nautica del piro-scafo Nan-Shan, il capitano MacWhirr si trovò a osser-vare la caduta verticale di un barometro cui non c’eraalcuna ragione di non credere. Il crollo – tenuto contodell’eccellenza dello strumento, della stagione e dellaposizione della nave nel globo terrestre – era un presa-gio alquanto sinistro; ma il volto rossiccio dell’uomonon tradì alcuna particolare inquietudine. I presagi nonvalevano niente per lui e non era capace di cogliere ilmessaggio di una profezia finché l’evento non si fossematerializzato davanti alla sua porta.«Il barometro punta al peggio, non ci sono dubbi»,pensò. «Sta sicuramente arrivando una dannata pertur-bazione fuori dal comune.»La Nan-Shan stava navigando da sud verso il porto diFu-chau, con del carico nella stiva e duecento coolies chetornavano a casa nei loro villaggi della provincia di Fo-kien, dopo alcuni anni passati a lavorare in varie colonietropicali. Era una bella mattinata, il mare liscio comel’olio si muoveva senza increspature e schiuma, e nel

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cielo c’era una strana cortina di nebbia bianca a velare ilsole. Il ponte di prua, stipato di cinesi, era pieno di vestiscure, musi gialli, codini e molte spalle nude, perché nonc’era vento e il caldo era soffocante. Quella gente chiac-chierava per passare il tempo, fumava e guardava l’oriz-zonte; alcuni, dopo aver attinto dell’acqua fuori bordose la rovesciavano addosso per rinfrescarsi; altri dormi-vano e altri ancora, riuniti a gruppi di sei, sedevano suitalloni intorno a vassoi di metallo con piatti di riso e mi-nuscole tazze di tè; e ognuno di questi cinesi aveva consé tutto ciò che possedeva al mondo – un baule di legnocon una serratura e rinforzi di ottone agli angoli, checonteneva i risparmi del suo lavoro: alcuni vestiti tradi-zionali, bastoncini d’incenso, forse dell’oppio, chinca-glierie di poco conto e un piccolo gruzzolo di moneted’argento, guadagnate lavorando su chiatte di carbone,vinte al gioco d’azzardo o frutto di piccoli commerci, sca-vate sottoterra, sudate nelle miniere, nelle strade ferrate,nella giungla infernale, schiacciati sotto immani fardelli– e tutto questo era sistemato con cura, custodito con lamassima attenzione e difeso strenuamente.Verso le dieci il mare si era gonfiato verso il canale diFormosa, senza però turbare troppo i passeggeri, perchéla Nan-Shan, con la sua poppa piatta, gli stabilizzatoridi rollio e la grande lunghezza dei bagli da dritta a man-cina, aveva la reputazione di nave con una grande sta-bilità in mare. Il signor Jukes, durante le scorribande aterra, era solito proclamare ad alta voce che «la vecchiasignora era tanto affidabile quanto era bella». Il capi-tano MacWhirr invece non si sarebbe mai espresso inmodo così deciso e fantasioso nei confronti della suanave.

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Una buona nave lo era senza dubbio, e non era nem-meno vecchia. Era stata costruita a Dumbarton meno ditre anni prima per conto della società commerciale sia-mese Sigg & Son Co. Al momento del varo, finita in ognidettaglio e pronta per intraprendere il suo primo viaggio,i costruttori l’avevano contemplata con orgoglio.«Il signor Sigg ci ha chiesto di un bravo comandante percondurla in mare» disse uno dei soci.E l’altro, dopo averci pensato un po’: «Credo che Mac-Whirr sia a terra adesso».«Davvero? Allora telegrafiamogli subito. È propriol’uomo giusto» affermò il più vecchio, senza un attimodi esitazione.La mattina seguente MacWhirr era in piedi davanti aloro, imperturbabile, dopo aver viaggiato da Londra conl’espresso di mezzanotte e dopo un improvviso e nonmolto espansivo congedo dalla moglie. La donna venivada una famiglia altolocata, che aveva visto tempi migliori.«Sarà meglio andare insieme a bordo, capitano», disseil socio anziano; e i tre uomini cominciarono a passarein rassegna le meraviglie della Nan-Shan da poppa aprua, e dalla controchiglia ai formaggetti della robustaalberatura.Il capitano MacWhirr aveva iniziato togliendosi lagiacca e appendendola a un argano a vapore che rap-presentava tutte le più recenti innovazioni.«Mio zio ha parlato bene di voi in una lettera indirizzataai nostri buoni amici, i signori Sigg, e certamente loro leconfermeranno il comando della nave laggiù», disse ilsocio più giovane. E aggiunse: «Potrete vantarvi di essereal comando della più affidabile imbarcazione di grandi di-mensioni che incroci lungo le coste della Cina, capitano».

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«Davvero? Grazie», bofonchiò MacWhirr, cui quellalontana prospettiva non faceva più effetto di quanto nonfacesse un grandioso paesaggio su un turista miope; e ilsuo sguardo cadde per l’appunto sulla serratura dellaporta della cabina; avanzò deciso e prese a scuotere vi-gorosamente la maniglia, osservando con la sua vocebassa e seria:«Ormai non ci si può più fidare delle maestranze. Unamaniglia nuova di zecca, e non funziona. È bloccata. Ve-dete? Vedete?»Appena i due soci si trovarono soli nel loro ufficio nelcantiere, il nipote chiese con un certo disappunto:«Hai tessuto gli elogi di quest’uomo con Sigg. Ma cos’haivisto in lui?»«Ammetto che non è il tipo di comandante che ti eri im-maginato, se è questo che intendi», rispose il vecchioseccamente. «C’è là fuori il caposquadra dei carpentierisulla Nan-Shan?... Entri, Bates. Come ha potuto lasciareche quella gente di Tait ci facesse fare una brutta figuracon una serratura difettosa della porta della cabina? Ilcomandante se n’è accorto appena l’ha vista. Fatela su-bito sostituire. I dettagli, Bates... i dettagli...»La serratura fu sostituita come richiesto e pochi giornidopo la Nan-Shan salpò verso Est, senza che MacWhirrfacesse altri commenti sulla sistemazione o accennasseneanche lontanamente a un moto di orgoglio per lanuova nave, di gratitudine per la nomina e di soddisfa-zione per quanto lo aspettava.Con un temperamento né loquace né taciturno, non tro-vava molte occasioni per parlare. C’erano naturalmentecomunicazioni di servizio – la rotta da tenere, gli ordinida impartire, eccetera – ma, avendo fatto quel che do-

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veva fare e non conoscendo il futuro, non c’era nienteda commentare sul presente, perché i fatti parlano dasoli con disarmante precisione.Al vecchio Sigg piacevano gli uomini di poche parole,che «si poteva stare sicuri che avrebbero rispettato lesue istruzioni». Rispondendo a quei requisiti, MacWhirrfu confermato al comando della Nan-Shan e continuòa condurla coscienziosamente nei mari della Cina.La nave era stata registrata con bandiera britannica, madopo qualche tempo i signori Sigg avevano ritenuto op-portuno trasferirla al registro siamese. Ciò non piacque aJukes, che prese la cosa come un affronto personale. Andòavanti a lungo borbottando fra sé con sprezzanti risatine.«Divertente avere sulle insegne di una nave un ridicoloelefante dell’arca di Noè», disse una volta sulla portadella sala macchine. «Che mi possano fulminare se rie-sco a mandarla giù: darò le dimissioni. Non lo trova di-sgustoso, signor Rout?»Ma il direttore di macchina si limitò a schiarirsi la gola, conl’aria di uno che conosce il valore di un buon imbarco. Il primo giorno che la nuova bandiera sventolò a poppadella Nan-Shan, Jukes la guardò con disprezzo dalponte di comando. Lottò coi suoi sentimenti per un po’e poi osservò:«Strana bandiera sotto cui navigare, signore.»«Cos’ha quella bandiera?» chiese il capitano MacWhirr.«Non ci trovo niente di strano.» E si affacciò all’estre-mità del ponte per vedere meglio.«Mah, a me sembra assurda», esclamò Jukes esasperato,e lasciò il ponte di comando.Il capitano MacWhirr rimase sorpreso da quella rea-zione. Poco dopo entrò tranquillamente nella sala nau-

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tica e aprì il libro dei segnali internazionali alla paginadove le bandiere di tutte le nazioni erano allineate e det-tagliamente raffigurate a colori sgargianti. Le scorse coldito e quando arrivò a quella del Siam osservò con gran -de attenzione l’elefante bianco in campo rosso. Nientedi più semplice; ma per essere sicuro portò il libro fuorisul ponte, con l’intenzione di confrontare il disegno co-lorato con quello reale appeso all’asta della bandiera apoppa. Quando poi capitò sul ponte Jukes, che quelgiorno stava assolvendo i suoi compiti con una sorta dirabbia repressa, il comandante osservò:«Non c’è niente di strano in quella bandiera.»«No?» borbottò Jukes inginocchiandosi davanti a ungavone e tirandone fuori svogliatamente una sagola dirispetto.«No. Ho controllato nel libro. Lunga due volte la lar-ghezza e con l’elefante esattamente nel mezzo. Pensoche la gente a terra sappia com’è fatta la loro bandiera.Evidentemente, si è sbagliato, Jukes...»«D’accordo, signore», riprese Jukes, alzandosi tuttoconcitato, «volevo dire che...», e cercò nervosamente atastoni il capo della cima, con le mani che gli tremavano.«Basta così». Il capitano MacWhirr lo tranquillizzò, se-dendosi pesantemente su una piccola sedia pieghevoledi legno e tela cui era molto affezionato. «Ciò che do-vete fare è prestare attenzione che non issino l’elefanterovesciato prima di essercisi abituati.»Jukes lanciò la nuova sagola sul ponte superiore gridando«Eccola, nostromo; non dimentichi di bagnarla per bene»,e si voltò molto deciso verso il comandante; ma il capitanoMacWhirr si era girato, coi gomiti comodamente appog-giati alla battagliola del ponte di comando.

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«Immagino che potrebbe essere preso per un segnale dipericolo», disse.«Cosa intende? Quell’elefante, per come la vedo io, èun po’ come lo Union Jack nella nostra bandiera...»«Certamente» gridò Jukes, così forte che tutti gli uominisul ponte della Nan-Shan si girarono verso la plancia. Poisospirò e con improvvisa rassegnazione: «È comunqueuna visione inquietante», disse calmandosi.Più tardi abbordò il direttore di macchina con tono con-fidenziale: «Senta, le dico l’ultima del vecchio.»Il signor Solomon Rout – chiamato spesso “papà Rout”,“vecchio Sol” e “grande Sol”, essendo invariabilmentel’uomo più alto a bordo di ogni nave su cui aveva prestatoservizio – aveva acquisito un portamento curvo e di tran-quilla condiscendenza. Aveva capelli radi e biondastri,guance pallide ed emaciate, e pallidi erano anche i polsiossuti e le lunghe mani, come se fosse vissuto sempre al-l’ombra. Guardò sorridendo Jukes dall’alto e continuò afumare e a lanciare tranquille occhiate d’intesa, come unvecchio zio che presta ascolto al racconto di un eccitatoscolaretto. Poi, molto divertito ma impassibile, domandò:«Avete poi dato le dimissioni?»«No», gridò Jukes, la cui voce scoraggiata e depressasuperava le stridule vibrazioni degli argani della Nan-Shan. Questi ultimi erano tutti in funzione e aggancia-vano i carichi imbragati, li sollevavano fino in cima allealte gru, per poi – così sembrava – lasciarli cadere dal-l’alto pericolosamente durante la corsa. Le catene cigo-lavano nei paranchi, tintinnavano e rimbombavano sullemurate; e tutta la nave fremeva, con le sue lunghe fian-cate grigie avvolte da una cortina di vapore.«No! – gridò Jukes – Non le ho date. A cosa servirebbe?

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Potrei anche rassegnarle a questa paratia. A un uomocome lui non c’è verso di fargli capire niente. Mi lasciasemplicemente sconcertato.»In quel momento il capitano MacWhirr, rientrato abordo da terra, passava sul ponte con in mano l’om-brello, scortato da un cinese triste e composto, che cam-minava dietro di lui calzando scarpe di seta con la suoladi cartapesta, anche lui con un ombrello.Il comandante della Nan-Shan, parlando sottovoce eguardandosi la punta delle scarpe, come suo solito, disseche in quel viaggio era necessario passare da Fu-chau evoleva che il signor Rout tenesse le macchine in pres-sione per l’una precisa dell’indomani pomeriggio. Spinseindietro il cappello per asciugarsi la fronte, mentre di-ceva che comunque non gli piaceva andare a terra; men-tre il signor Rout, guardandolo dall’alto in basso, senzadegnarlo di una parola, fumava beatamente, appog-giando il gomito destro nel palmo della mano sinistra.Poi, col solito tono serafico, il comandante ordinò aJukes di liberare dal carico il ponte sottocoperta a prua,perché là dovevano essere sistemati i duecento cooliesche la compagnia Bun Hin mandava a casa. Dovevanoanche arrivare con un sampan ed essere caricati in stivaventicinque sacchi di riso apposta per loro. MacWhirrdisse che tutti rientravano dopo un periodo di sette annie che ognuno aveva con sé il proprio baule di legno dicanfora. Il falegname doveva darsi da fare per inchiodaredelle assi di tre pollici nel ponte sottocoperta a prua e apoppa per impedire che quei bauli si spostassero durantela navigazione. E Jukes avrebbe fatto bene a occuparsenesubito.«Capito, Jukes?».

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Quel cinese sarebbe rimasto a bordo fino a Fu-chau eavrebbe fatto da interprete. Era un impiegato della BunHin e voleva vedere dove venivano sistemati i coolies.Jukes doveva portarlo a prua.«Capito, Jukes?».E Jukes non mancò d’intercalare quegli ordini col «Sì,signore» d’obbligo, biascicato senza entusiasmo.Con un brusco «Andiamo, John; io fare vedere» misein movimento il cinese alle sue calcagna.«Volere vedere? Io fare vedere tutto» disse Jukes, che,non avendo predisposizione per le lingue straniere, stor-piava orrendamente il pidgin-English3.Poi, indicando il portello aperto: «Guardare bel postoper dormire. Eh?»Era un po’ ruvido, come imponeva la sua superiorità dirazza, ma non scortese. Il cinese, guardando triste e insilenzio nel buio del boccaporto, sembrava sulla sogliadi una tomba spalancata.«Niente pioggia quaggiù, capito?» fece notare Jukes.«Se tempo sempre bello, coolie salire sopra» proseguìcon uno sforzo di fantasia.« Fare così, fiuuu!»; allargò il torace, gonfiò le guance esoffiò fuori l’aria.«Capito, John? Respirare aria fresca. Buono, no? Lavarepantaloni e mangiare, di sopra; capito, John?»Con la bocca e le mani faceva finta di mangiare riso e dilavare i vestiti; e il cinese, che celava la diffidenza perquella pantomima con un atteggiamento composto, ve-nato di una leggera e fine malinconia, volgeva gli occhia mandorla da Jukes al portello e di nuovo a Jukes.

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3 Il pidgin-English è l’inglese parlato nelle colonie.

«Molto bene» mormorò con tono dimesso e si affrettòrapido sul ponte, scansando gli ostacoli che si frappo-nevano dinnanzi. Scomparve scivolando sotto l’imbra-gatura di dieci sacchi di iuta con qualche costosamercanzia che emanava un odore disgustoso.Nel frattempo MacWhirr era salito sul ponte di co-mando, nella sala nautica, dove una lettera che aveva co-minciato a scrivere giorni prima aspettava di essereconclusa. Queste lunghe lettere iniziavano con le parole«Mia cara moglie» e il cameriere di bordo, mentre stro-finava i pavimenti e spolverava le scatole dei cronometri,non mancava mai di leggerle. Interessavano molto piùa lui che alla donna cui erano destinate; e questo perchéraccontavano nei minimi dettagli ogni viaggio dellaNan-Shan.Il comandante, fedele ai fatti, cui la sua coscienziositàimponeva di attenersi, li esponeva scrupolosamentetutti in un buon numero di fogli. La casa in un sob-borgo a nord di Londra cui erano indirizzate quelle pa-gine aveva un piccolo giardino di fronte alle finestre abovindo, un profondo e grazioso portico, la porta d’in-gresso con vetri colorati in una cornice a imitazione delpiombo. Pagava quarantacinque sterline all’anno perquella casa e non lo riteneva un prezzo troppo alto per-ché la moglie (persona un po’ pretenziosa, con il collosmagrito e il fare sprezzante) sembrava in effetti unavera signora e i vicini la tenevano in grande considera-zione. L’unico segreto della sua vita era il terrore delmomento in cui il marito sarebbe tornato a casa per ri-manerci per sempre.Sotto lo stesso tetto vivevano anche i due figli di nomeLydia e Tom, che a malapena conoscevano il padre. Per

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loro era soprattutto quell’uomo privilegiato che ognitanto veniva in visita, che fumava la pipa in sala da pranzoe rimaneva a dormire. La ragazza, alta e magra, in fondoin fondo si vergognava un po’ di lui; il ragazzo invece eraapertamente e totalmente indifferente, con quel modo di-retto e spontaneo che hanno i ragazzi abbastanza virili. Il capitano MacWhirr scriveva a casa dalle coste dellaCina dodici volte l’anno, chiedendo curiosamente di«essere ricordato dai ragazzi» e firmandosi «il tuo ma-rito affezionatissimo», con assoluta disinvoltura, comese le parole usate per tanto tempo e da tanti uomini, aldi là della loro forma, fossero vuote e prive di senso.I mari della Cina, quelli a nord come quelli a sud, sonomari stretti, pieni tutti i giorni di fatti e di cose concrete esignificative, come isole, banchi di sabbia, scogli, correntiveloci e mutevoli; tutte cose complicate, che al marinaioperò parlano in modo chiaro e diretto. Il loro linguaggiosi adattava perfettamente al senso di realtà del capitanoMacWhirr, tanto che questi aveva rinunciato alla sua ca-bina sottocoperta, passando tutto il giorno sul ponte dicomando della nave, dove spesso si faceva portare i pasti,e dormendo la notte nella sala nautica. E lì scriveva anchele lettere a casa. Ognuna di esse, senza eccezioni, conte-neva la frase: «Abbiamo avuto tempo molto buono in que-sto viaggio» o altre affermazioni simili. E anche questafrase, nel suo ripetersi, denotava la stessa ossessiva preci-sione delle altre frasi contenute nelle lettere.Anche il signor Rout scriveva lettere; solo che nessunoa bordo poteva dire quanto si dilungasse nello scrivere,perché il direttore di macchina era abbastanza avvedutoda chiudere a chiave il suo scrittoio. La moglie apprez-zava molto le sue lettere. Non avevano figli e la signora

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Rout, un’imponente quarantenne dal seno florido, divi-deva con l’anziana e sdentata madre del signor Rout unavilletta vicino a Teddington. Leggeva la corrispondenzaa colazione, con lo sguardo vivace e la voce allegra ri-volta alla vecchia suocera sorda, anteponendo a ognipassaggio la frase « Dice Solomon!». Aveva l’abitudinedi propinare degli estratti delle lettere del marito ancheagli estranei, che spesso restavano sorpresi dal tono in-solito e giocoso di quei racconti. Una volta che il nuovocurato aveva fatto visita per la prima volta alla villetta,lei trovò l’occasione per dire:«Come dice Solomon: “i macchinisti imbarcati sullenavi hanno la stessa natura meravigliosa dei marinai”».Ma, al repentino cambiamento d’espressione dell’ospite,si arrestò sorpresa.«Solomon… Oh!... Signora Rout…» balbettò il giovane,col viso rosso, « Devo dire che… Io non…»4.«È mio marito», esclamò ad alta voce, buttandosi all’in-dietro sulla sedia. Capendo l’equivoco, scoppiò in unairrefrenabile risata con il fazzoletto sugli occhi, mentreil curato se ne stava seduto con un sorriso di circostanza,assolutamente convinto, nella sua totale ignoranza del-l’allegria femminile, che si trattasse di una pazza. In se-guito i due erano diventati buoni amici e il giovaneprete, assolvendo la donna da ogni intenzione irrive-rente, giunse alla conclusione che si trattasse di una per-sona di valore e imparò col tempo ad accogliere senzasussulti quelle pillole di saggezza di Salomon.«Per come la vedo io – aveva detto una volta Solomon,secondo quanto riferito dalla moglie – preferisco come

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4 Il curato pensa si tratti di una citazione biblica del libro di Salomone.

comandante l’uomo più stupido del mondo piuttostoche un furfante; un idiota c’è modo di prenderlo, men-tre un furfante è furbo e sfuggente.» Era una conside-razione di carattere generale suggerita dall’onestà delcapitano McWhirr, che in se stessa aveva l’evidenza diun blocco di argilla. Per parte sua invece il signor Jukes, incapace di genera-lizzazioni, scapolo e senza legami, era solito confidarsiin tutt’altro modo con un vecchio amico, con cui untempo era stato imbarcato e che allora era secondo abordo di un piroscafo sull’Atlantico. Insisteva innanzi-tutto sui vantaggi delle rotte commerciali in Oriente, de-cisamente superiori a quelle occidentali. Celebrava ilsole, il mare, le navi e la bella vita che si faceva nel-l’estremo Oriente. Diceva inoltre che la Nan-Shan nonera seconda a nessun’altra imbarcazione.«Qui non abbiamo uniformi gallonate, ma siamo tutticome fratelli» scriveva. «Viviamo tutti insieme come galliin un pollaio… I macchinisti sono il meglio che si possatrovare e il vecchio Sol, il direttore di macchina, è unodi poche parole. Siamo buoni amici. Quanto al coman-dante, non esiste uomo più tranquillo. A volte ti sembrache non abbia abbastanza buonsenso per accorgersidelle cose sbagliate. Eppure non può essere, non è pos-sibile. Comanda le navi da diversi anni ormai. In realtànon fa niente di strano e tiene bene il comando dellanave senza creare problemi a nessuno. Credo che nonabbia abbastanza cervello per alzare la voce. E io non neapprofitto; mi sembrerebbe indegno. Al di fuori dellenormali comunicazioni di servizio, sembra capire la metàdi ciò che gli dici. Ogni tanto ci ridiamo sopra; ma allalunga, non è simpatico avere a che fare con un uomo

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così. Il vecchio Sol dice che non fa molta conversazione.Conversazione! Mio Dio! Non parla mai. L’altro giornostavo parlando del più e del meno sottocoperta con unodei macchinisti e lui deve averci sentiti. Quando sono sa-lito per il mio turno di guardia è uscito dalla sala nautica,si è guardato bene intorno, ha controllato le luci di via,la bussola, e dato un’occhiata alle stelle in alto. Tuttoquanto fa di solito. Dopo un po’ dice: “Era lei che chiac-chierava poco fa nel passaggio a babordo?” “Sì, si-gnore.” “Col terzo macchinista?” “Sì, signore.” Se ne vaa dritta, si siede sotto un guardacorpo su uno dei suoiseggiolini pieghevoli e rimane in silenzio una mezz’oraforse, a parte starnutire una volta. Dopo un po’ l’ho sen-tito alzarsi e venire a babordo, dov’ero io. “Non capiscocos’abbiate tanto da parlare” dice. “Due ore intere. Nonla sto rimproverando. A terra vedo gente che chiacchieratutto il giorno e poi, la sera, si mette a sedere e continuaa parlare mentre beve. Devono ripetere sempre le stessecose, all’infinito. Non capisco come facciano.” Hai maisentito niente di simile? E lo diceva con la massima tran-quillità. Quasi mi dispiaceva per lui. Ma, comunque, avolte è indisponente. Naturalmente nessuno farebbe maiqualcosa che potesse urtarlo, anche se ne valesse la pena.Ma non ne vale. È una persona di un tale candore che setu gli facessi marameo con le dita della mano si chiede-rebbe seriamente che cosa ti ha preso. Un giorno mi hadetto con la massima semplicità che non riusciva a capirecosa spingesse la gente a comportarsi in modo cosìstrano. È troppo stupido perché ci se ne debba preoc-cupare, questa è la verità.»Così scriveva Jukes al suo amico in navigazione nelle rotteoccidentali, con la massima franchezza e con vivace fanta-

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sia. Aveva espresso la sua onesta opinione. Non valeva lapena tentare di influenzare in qualche modo uno così. Seil mondo fosse stato pieno di simili persone, probabilmentela vita sarebbe sembrata a Jukes noiosa e inutile. E non era il solo a pensarla così. Quasi a condividere la bo-naria pazienza di Jukes, il mare stesso non si era mai pre-occupato di spaventare troppo quell’uomo silenzioso, cheraramente alzava lo sguardo e che vagava col massimo can-dore sulle acque, con l’unico scopo apparente di pagare ilcibo, i vestiti e la casa delle tre persone che aveva a terra.Naturalmente gli era capitato di imbattersi nel mal-tempo. Si era infradiciato, era stato male, aveva faticato;ma adesso non ricordava più nulla. Per cui, dopotutto,si può capire che scrivesse sempre alla moglie che avevaavuto bel tempo.Non gli era però mai capitato di vedere la smisurata po-tenza e la rabbia furiosa che può scatenare il mare intempesta, quella furia che passa, ma che non trova maipace. Ne sapeva l’esistenza, come si sa che esistono ilcrimine e l’infamia; ne aveva sentito parlare come untranquillo borghese di città sente parlare di battaglie, dicarestie, di alluvioni, ma non sa cosa siano in realtà,anche se una volta è rimasto coinvolto in una rissa perstrada, o è stato costretto a saltare la cena, o si è infra-diciato tutto sotto un improvviso scroscio di pioggia.Il capitano MacWhirr aveva navigato sugli oceani comequegli uomini che trascorrono con leggerezza gli anni dellaloro esistenza per poi calarsi dolcemente in un tranquillosepolcro, ignari della vita sino alla fine, senza aver maiavuto modo di vedere quanto esiste di malvagio, di violentoe di terribile. Ne esistono, in terra come in mare, di personecosì fortunate, o ignorate dal destino e dal mare.

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II

Guardando il barometro che continuava a scendere, il ca-pitano MacWhirr pensò «Sta arrivando del maltempo.»Questo è esattamente ciò che pensò. Aveva sperimentatoun maltempo moderato, nel senso che l’ag get tivo “mal”assegnato al tempo comporta solo un moderato disagioper l’uomo di mare. Se fosse stato informato da un’indi-scussa autorità che per un qualche catastrofico disordinenell’atmosfera stava per arrivare la fine del mondo,avrebbe classificato l’informazione sotto la semplice ideadi maltempo in arrivo, e nient’altro, perché non avevaesperienza di cataclismi, e perché credere a qualcosa nonsignifica necessariamento capirla. Una legge del parla-mento del suo paese aveva saggiamente disposto che,prima di essere ritenuto adatto ad assumere il comandodi una nave, doveva essere in grado di rispondere ad al-cune semplici domande sui grandi vortici atmosferici,come gli uragani, i cicloni o i tifoni; ed evidentementeaveva saputo rispondere, dal momento che era al co-mando della Nan-Shan nel Mar della Cina durante la sta-gione dei tifoni. Ma se pure aveva risposto, adesso nonricordava nulla.Sentiva comunque che quel caldo appiccicoso lo met-teva a disagio e uscì sul ponte, senza però trarne sollievo.L’aria sembrava pesante. Boccheggiava come un pescee pensò di essere seriamente ammalato.

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Sulla superficie del mare, con la consistenza e il riflesso diuna pezza di seta grigia ondulata, la Nan-Shan tracciavaun solco che subito si dissolveva. Il pallido sole senza raggirovesciava un calore plumbeo e una luce stranamente in-certa; i cinesi giacevano prostrati sul ponte. I volti esangui,emaciati e gialli sembravano quelli di un malato di bile.Il capitano MacWhirr notò in particolare due di loro, di-stesi sulla schiena sotto il ponte di comando; con gli occhichiusi, sembravano morti. Altri tre litigavano ferocementeverso prua, mentre uno grande e grosso, seminudo, conle spalle erculee, se ne stava stravaccato su un argano.Un altro ancora, seduto sul ponte, coi ginocchi sollevati ela testa inclinata di lato in una posa femminile, si faceva latreccia al codino con una flemma infinita che si riflettevain tutta la persona e nei movimenti delle dita. Il fumousciva a fatica dal fumaiolo e invece di svanire lontano sidiffondeva come una specie di nube infernale, spandendoodore di zolfo e fuliggine sul ponte.«Che diavolo sta facendo laggiù, signor Jukes?» chieseil capitano MacWhirr.Sentendosi apostrofare in quel modo insolito, più far-fugliando che parlando, Jukes fece un sobbalzo, comese fosse stato colpito alla bocca dello stomaco. Si erafatto portare una piccola panca sul ponte e, seduto sudi essa, con una corda arrotolata ai piedi e un pezzo ditela stesa sulle ginocchia, lavorava energicamente conun ago. Alzò la testa e la sorpresa conferì ai suoi occhiun’espressione innocente e candida.«Sto solo legando alcuni di quei nuovi sacchi che ab-biamo utilizzato nell’ultimo viaggio per caricare il car-bone» protestò rispettosamente «ci serviranno per ilprossimo carico, signore.»

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«E gli altri dove sono finiti?»«Perché? Si sono sciupati, signore.»Lanciando un’occhiata dubbiosa al suo secondo, il ca-pitano MacWhirr espresse la scettica convinzione chela maggior parte di quei sacchi fosse finita fuori bordo,«Va a sapere… che è successo», e scomparve dall’altrolato del ponte.Indispettito per quell’attacco gratuito, Jukes ruppe l’agoal secondo punto, lasciò perdere il lavoro e imprecò amezza voce contro il caldo.L’elica sbatteva pesantemente, i tre cinesi a prora ave-vano improvvisamente smesso di litigare e quello che sifaceva la treccia al codino aveva abbracciato le gambe,con lo sguardo fisso e abbattuto sopra le ginocchia. Laluce del sole proiettava ombre fioche e malaticce.L’onda lunga cresceva in altezza e frequenza e la navesbandava pesantemente, adagiandosi negli incavi lisci eprofondi che si aprivano nel mare.«Vorrei sapere da dove viene questa insopportabileonda lunga» disse Jukes ad alta voce, riprendendol’equilibrio dopo uno sbandamento.«Da nord-est» borbottò dall’altra parte del ponte Mac-Whirr, che prendeva tutto in senso letterale. «Sta arri-vando maltempo. Vada a controllare il barometro.»Quando Jukes uscì dalla sala nautica, la sua espressioneera cambiato, sembrava pensieroso e preoccupato. Siaggrappò saldamente alla battagliola del ponte di co-mando e guardò il mare a prua.La temperatura nella sala macchine era salita a quaran-tasette gradi. Voci irritate salivano dall’osteriggio e daltavolato sopra le caldaie in uno stridente e rimbombantebaccano, misto al rabbioso fragore e stridio del metallo,

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come se uomini con arti di ferro e gole di bronzo stes-sero litigando laggiù. Il secondo di macchina era arrab-biato con i fuochisti che avevano lasciato calare lapressione. Aveva braccia come quelle di un fabbro edera molto temuto; ma quel pomeriggio i fuochisti gli ri-spondevano senza paura e sbattevano i portelli delle cal-daie infuriati.Poi il rumore cessò improvvisamente e il secondo dimacchina emerse tutto sporco e fradicio come uno spaz-zacamino che esce da un pozzo. Appena affacciatosi incoperta prese a lamentarsi con Jukes perché gli areatoridella sala macchine non erano stati regolati; e in rispostaJukes fece dei segni con la mano come per dire: «Nonc’è vento, non ci posso fare niente, puoi vedere tustesso». Ma l’altro non sentiva ragioni, coi denti che luc-cicavano rabbiosi sul volto sporco. Diceva che potevaanche prendere a pugni quelle teste vuote giù sotto, mapensavano forse quei dannati marinai in coperta che ba-stasse prendere a cazzotti i fuochisti per far salire lapressione? No, per Dio! Ci voleva anche un po’ d’aria;potessero prenderlo in eterno per un fottuto marinaiodi coperta, se non era così. E il capo, anche lui, imbe-stialito davanti ai manometri della pressione, se ne an-dava tutto il tempo su e giù come un pazzo per la salamacchine. Che ci stava a fare Jukes lì, se non era nean-che capace di mandare qualcuno dei suoi buoni a nullaa girare al vento le prese d’aria?I rapporti fra il personale di macchina e quello del pontedella Nan-Shan erano, come si è visto, più che buoni;per cui Jukes si chinò e in tono pacato pregò il collegadi non esagerare, che il comandante era dall’altra partedel ponte. Ma il secondo disse provocatoriamente che

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non gli fregava niente chi ci fosse dall’altra parte delponte e Jukes, passando in un attimo da un’olimpica di-sapprovazione al tono rabbioso, lo invitò in modo espli-cito a salire lui stesso a girare quei maledetti aggeggicome meglio gli pareva, e prendere tutto il vento che unsomaro della sua specie poteva raccogliere. Il secondoaccettò la sfida e si lanciò sulla presa d’aria, come vo-lesse strapparla e gettarla fuori bordo. Riuscì però sol-tanto a ruotare il coperchio di pochi centimetri con ungrande dispendio di energie, e sembrò esaurirsi nellosforzo. Si appoggiò sul retro della timoniera e Jukesavanzo verso di lui. «Santo cielo» disse il macchinista con un filo di voce.Alzò gli occhi al cielo e poi abbassò lo sguardo vitreogiù fino all’orizzonte che, inclinato con un angolo diquaranta gradi, sembrò come restare sospeso per un po’,per poi riassestarsi pian piano.«Dio mio! Uff... Ma che cavolo succede?»Muovendo come un compasso le lunghe gambe, Jukesdisse con tono di superiorità:«Questa volta la prendiamo in pieno. Il barometro stascendendo in picchiata, Harry. E tu attacchi briga conqueste idiozie…»La parola barometro sembrò riaccendere l’aggressivitàdel secondo che, raccogliendo tutte le forze, invitò Jukesa cacciarsi quello strumento innominabile nella sua ma-ledetta gola. Chi diavolo se ne fregava del suo fottutobarometro? Era la pressione, quella delle caldaie, chescendeva; e tra i fuochisti che non ce la facevano più eil suo capo che dava di matto, lui se la passava propriomale; non gli fregava niente di quando dovesse scop-piare quel putiferio e sembrava sul punto di scoppiare

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a piangere; ma, ripreso fiato, borbottò: «Li sistemo ioquelli laggiù», e fece per andarsene. Rimase un attimosul boccaporto agitando il pugno verso quella luce in-naturale e poi si calò nell’oscurità con un grido.Quando Jukes si voltò, il suo sguardo cadde sullaschiena tonda e le orecchie rosse del capitano Mac-Whirr, che si era avvicinato e che, senza guardare il suoprimo ufficiale, disse all’improvviso:«È molto aggressivo quell’uomo.»«È comunque un bravo ufficiale di macchina» borbottòJukes. «Non riescono a tenere le caldaie in pressione»,aggiunse veloce e afferrò saldamente il corrimano perreggere un’onda in arrivo.MacWhirr, impreparato, fu spinto da una parte e si risol-levò, aggrappandosi a un sostegno della tenda parasole.«Un uomo volgare», insistette. «Se continua così, dovròliberarmene alla prima occasione.»«È il caldo», ribatté Jukes. «Questo tempo è insoppor-tabile. Farebbe bestemmiare un santo. Anche qua soprami sento esattamente come se avessi la testa avvolta inuna coperta di lana.»Il comandante alzò lo sguardo.«Intende dire, signor Jukes, che le è capitato di avere latesta avvolta in una coperta di lana? Per cosa?»«È un modo di dire, signore», ribatté Jukes impertur-babile.«Qualcuno di voi esagera, ragazzi! Cos’è questa storiadei santi che bestemmiano? Preferirei che non usastequeste espressioni. Che santo è uno che bestemmia.Non più santo di lei stesso, suppongo. E cosa c’entrauna coperta… o il tempo… Il caldo non autorizza a be-stemmiare, le pare? È un atteggiamento riprovevole.

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Ecco cos’è. E a cosa serve parlare in quel modo?»Così MacWhirr rimproverava l’uso di metafore nel di-scorso e alla fine stupì Jukes con uno sprezzante gru-gnito, seguito da parole concitate e risentite:«Dannazione! Lo sbatterò fuori dalla nave, se non staattento.»E l’incorreggibile Jukes pensò: «Dio mio! Qualcosadeve aver cambiato il vecchio. È veramente arrabbiato.È certamente questo tempo; che altro può essere? Fa-rebbe uscire di senno un angelo, non un santo.»Frattanto i cinesi sul ponte sembravano esalare l’ultimorespiro. Il sole al tramonto era di un diametro ridotto edi un colore bruno e smorto, senza raggi, come se mi-lioni di secoli trascorsi dalla mattina lo avessero ridottoallo stremo. Un denso banco di nubi era comparso versonord; aveva una sinistra tinta olivastra e incombevabasso e immobile sul mare, come un massiccio ostacoloposto sulla rotta della nave. La Nan-Shan procedeva afatica in quella direzione come un essere sfinito con-dotto alla morte. La luce rossastra del crepuscolo calòrapidamente e le tenebre rivelarono in alto uno sciamedi stelle grandi e tremolanti, che, come se qualcuno cisoffiasse sopra, scintillavano e sembravano appese moltovicine a terra.Alle otto Jukes andò nella sala nautica per compilare ilgiornale di bordo. Copiò scrupolosamente da un tac-cuino le miglia percorse, la rotta e nella colonna delvento scarabocchiò la parola «calmo» da cima a fondodelle otto ore dopo mezzogiorno. Era esasperato dalcontinuo e monotono rollio della nave. Il pesante cala-maio scivolava in continuazione e sembrava animato dauna perversa volontà di scansare la penna. Dopo aver

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scritto «Caldo molto opprimente» sotto il titolo «Os-servazioni», prese la punta della penna fra i denti, comefosse una pipa, e si asciugò il viso con cura.«Forte rollio della nave e onda lunga al traverso» co-minciò a scrivere, commentando fra sé «Forte non è laparola giusta.» Poi scrisse: «Tramonto minaccioso, conuna basso banco di nubi a Nord e a Est. Sopra, il cieloè sgombro.»Allungato sul tavolo con la penna rivolta in alto, guardòfuori e, nella cornice della porta, fra gli stipiti di teak,vide le stelle volare su nel cielo nero e scomparire tutteinsieme, lasciando solo un buio chiazzato di riflessi bian-chi, perché il mare era nero come il cielo e punteggiatodi schiuma in lontananza. Poi le stelle, che erano volatevia col rollio, tornavano con l’oscillare della nave, pre-cipitandosi giù in luccicante moltitudine, non più pun-tini infuocati, ma piccoli dischi luccicanti di una lucechiara e umida.Jukes osservò un momento il volo delle grandi stelle epoi scrisse: «Otto di sera. Onda lunga in aumento. Lanave procede a fatica e imbarca acqua a poppa. Coolieschiusi sottocoperta per la notte. Barometro sempre indiscesa.» Fece una pausa e pensò «Forse non succederàniente». Poi terminò perentoriamente scrivendo «Tuttolascia pensare a un tifone in arrivo.»Uscendo dovette farsi da parte perché il capitano Mac-Whirr varcò la soglia senza dire una parole e senza fareun cenno.«Chiuda la porta, signor Jukes, se non le dispiace»,gridò dall’interno.Jukes tornò indietro per chiuderla, borbottando sarca-stico: «Paura di prender freddo, suppongo.»

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Era smontato di guardia, ma aveva un maledetto biso-gno di parlare con qualcuno; e si rivolse scherzosamenteal secondo ufficiale: «Dopotutto, non sembra poi cosìmale.» Il secondo ufficiale si muoveva in su e giù per il pontedi comando, ora andando in discesa a piccoli passi, orarisalendo con difficoltà sull’instabile piano inclinato.Sentendo la voce di Jukes si arrestò, guardando avanti,ma senza rispondere.«Accidenti! Questa è bella tosta» disse Jukes, oscillandoper assecondare il lungo rollio fino a toccare con lamano l’assito. Questa volta il secondo ufficiale fece conla gola un rumore tutt’altro che amichevole.Era un ometto di una certa età, un po’ trasandato, senzapeli sul volto e con una brutta dentatura. Era stato rac-cattato in fretta e furia nel porto di Shanghai quando ilsecondo ufficiale, imbarcato in Inghilterra, aveva fattoritardare la partenza di tre ore trovando il modo di ca-dere fuoribordo (MacWhirr non si capacitava di comeavesse fatto) su una chiatta da carbone vuota che era or-meggiata di fianco; lo avevano dovuto portare in ospe-dale a terra, con una commozione cerebrali e gli arti rotti.Jukes non si scoraggiò a quel suono antipatico. «I cinesi se la devono passare proprio bene laggiù»disse. «Sono fortunati che la vecchia signora abbia il rol-lio più dolce di tutte le navi su cui sono stato. Eccoci!Questa non era male.»«Aspetti a dirlo» ringhiò il secondo ufficiale.Col naso affilato e rosso in punta, le labbra sottili e strette,sembrava sempre arrabbiato; parlava meno possibile,tanto da sfiorare la maleducazione. Passava tutto il tempolibero chiuso in cabina, in assoluto silenzio, tanto da far

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credere che si fosse addormentato subito appena ritira-tosi; ma l’uomo che andava a chiamarlo per il suo turnodi guardia lo trovava immancabilmente con gli occhi spa-lancati, disteso supino sulla cuccetta, gettando occhia-tacce irritate da un cuscino sudicio. Non scriveva mailettere e non sembrava aspettarne da chicchessia; unavolta sola aveva menzionato West Hartlepool, ma conprofonda amarezza e solo in relazione ai prezzi esorbi-tanti di una pensione. Era uno di quegli uomini che siraccattano quando si ha necessità nei porti del mondo.Competenti quanto basta, sufficientemente disperati,senza vizi apparenti e marchiati dagli evidenti segni dellasconfitta. Salgono a bordo in situazioni d’emergenza,non si affezionano alle navi, vivono in un loro mondodi rapporti casuali con i compagni che non sanno nulladi loro e decidono di andarsene nei momenti meno op-portuni. Sbarcano senza una parola di saluto in qualcheporto sperduto, dove nessuno vorrebbe essere sbarcato,e se ne vanno a terra con un baule logoro, legato comeun forziere, e con l’aria di scuotere dalle scarpe la pol-vere della nave.«Aspetti a dirlo», ripeté, bilanciando le oscillazioni evolgendo la schiena a Jukes, assolutamente immobile eimplacabile.«Intende dire che lo prendiamo in pieno?» ribatté Jukescon l’interesse di un bambino.«Dire?... Io non dico niente. Non m’incastrate», scattò ilpiccolo ufficiale, con un misto di orgoglio, disprezzo e fur-bizia, come se la domanda di Jukes nascondesse un tra-nello che lui aveva intelligentemente scoperto. «Oh, no!Nessuno di voi mi farà passare per scemo» disse fra sé.Jukes pensava fra sé che quell’ufficiale era proprio in-

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sopportabile e avrebbe voluto che il povero Jack Allenno si fosse mai fracassato su quella chiatta.Il buio in lontananza a prua era come una seconda nottevista dalla notte stellata della terra, la notte senza stelledello spazio immenso che sta dietro l’universo creato,rivelata nella sua impressionante immobilità attraversouna piccola fessura nella sfera luccicante di cui la terrarappresenta il nocciolo.«Qualunque cosa succeda» disse Jukes «gli stiamo pro-prio andando incontro.»«L’ha detto lei» ribatté il secondo, sempre voltandoglile spalle. «L’ha detto lei, non io.»«Ma vada a quel paese!» sbottò apertamente Jukes,mentre l’altro sogghignava trionfante.« L’ha detto lei» ripeté.«E allora?»«Ho conosciuto uomini in gamba che sono finiti neiguai col comandante per aver detto molto meno» ri-spose il secondo ufficiale accalorato. «Oh, no! Nonm’incastrate.»«Sembra veramente preoccupato di non scoprirsi»,disse Jukes, disgustato da quelle assurdità. «Io non avreipaura di dire ciò che penso.»«Certo, a me! Non ci vuole molto. Io non sono nessuno,e lo sa bene.»La nave, dopo una fase di relativa stabilità, aveva ripresoil suo rollio, inclinandosi ogni volta di più, e Jukes que-sta volta si dovette concentrare per tenersi in equilibrioe non aprì la bocca. Ma non appena la violenta oscilla-zione si attenuò un po’, disse:«Questo è veramente troppo. Qualunque cosa deb -ba succedere, penso sia bene mettere la prua al mare.

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Il vecchio è appena andato a stendersi. Mi venga un ac-cidente se non vado a parlargli.»Ma quando aprì la porta della sala nautica vide il co-mandante che leggeva un libro. Il capitano MacWhirrnon stava dormendo: era in piedi con una mano strettasaldamente allo scaffale e l’altra che reggeva un pesantelibro aperto davanti al viso. La lampada si agitava sulsuo supporto cardanico, i libri si rovesciavano libera-mente da una parte all’altra dello scaffale, il lungo ba-rometro oscillava a singhiozzo descrivendo ampi cerchie il tavolo cambiava ogni momento l’inclinazione. Intutta quella confusione e quel movimento il capitanoMacWhirr rimaneva impassibile e, alzando lo sguardoal di sopra del libro, chiese:«Cosa c’è?»«Il mare sta montando. Signore.»«Me ne sono accorto anche da qui» mormorò il coman-dante. «Qualcosa non va?»Sconcertato da quegli occhi imperturbabili che l’osser-vavano da sopra il libro, Jukes accennò un sorriso im-barazzato.«Si balla come una vecchia scarpa» disse imbarazzato.«Sì! È brutta, molto brutta. Cosa vuole?»A quel punto Jukes perse la sua sicurezza e cominciò adannaspare.«Pensavo ai nostri passeggeri» disse, come uno che siaggrappa a un fuscello.«Passeggeri?» chiese il comandante con l’aria seria.«Quali passeggeri?»«Come? I cinesi, signore» si spiegò Jukes, già stufo diquella conversazione. «I cinesi! Perché non si spiega meglio? Non capivo a

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chi si riferiva. Mai sentito prima chiamare passeggeri unbranco di coolies. Passeggeri! Come le è venuto inmente?»Il comandante chiuse il libro, lasciando l’indice a se-gnare la pagina, abbassò il braccio, guardò perplesso ilsuo secondo e domandò: «Perché si preoccupa dei ci-nesi, signor Jukes?»Sentendosi messo alle strette, Jukes prese lo slancio:«Con questo rollio il ponte è allagato, signore. Pensavoche si potesse mettere la prua al mare, solo per un po’.Finché non si calma; fra poco, direi. Prua a est. Non homai visto una nave ballare così.»Si reggeva alla porta e MacWhirr, sentendo poco saldolo scaffale cui era aggrappato, pensò di abbandonarlodi botto e cadde pesantemente sul divano.«Prua a est?» disse, cercando di mettersi seduto. «È piùdi quattro quarte fuori rotta.»«Sì, signore. Cinquanta gradi… Basterebbe per portarela prua fuori da questa…»MacWhirr adesso era seduto. Aveva il libro ancora inmano, con l’indice sul segno. «A est?» ripeté con crescente stupore. «A est?... Dovepensa che dobbiamo andare? Vuole che trascini fuorirotta di quattro quarte un piroscafo a tutta forza per farstare più comodi i cinesi? Ne ho sentite di stupidagginia questo mondo, ma questa… Se non la conoscessi,Jukes, la crederei ubriaco. Una virata di quattro quartefuori rotta… E poi, cosa? Un’altra virata di quattroquarte in direzione opposta, suppongo, per riprenderela rotta. Ma come può pensare che io possa manovrareun piroscafo come fosse un veliero?»«Per fortuna che non è un veliero» esclamò Jukes con

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una punta di amarezza «con questo rollio avrebbe persotutti gli alberi fuori bordo questo pomeriggio.»«Sì! E lei non avrebbe potuto fare altro che stare a guar-dare» disse MacWhirr, mostrando una certa concita-zione. «È bonaccia, vero?»«Sì, signore. Ma c’è qualcosa di strano che sta arrivando,di sicuro.»«Può essere. Suppongo che pensi debba tenermi allalarga da questa porcheria.» disse il capitano MacWhirr,parlando con la massima semplicità nei modi e nel tono,e fissando con aria seria l’incerata del pavimento. Nonsi accorse così dell’imbarazzo di Jukes e di quel mistodi fastidio e di rispettoso stupore dipinto sul suo volto.«Ecco. Lo vede questo libro» proseguì lentamente, bat-tendosi il volume chiuso sulla coscia, «ho letto il capi-tolo sulle tempeste.»Era vero. Aveva appena letto il capitolo sulle tempeste.Quando era entrato nella sala nautica non aveva inten-zione di prendere quel libro. Qualcosa nell’aria avevacome guidato la sua mano sullo scaffale; probabilmentequella stessa cosa che aveva suggerito al cameriere diportare nella sala nautica, senza che gli fosse chiesto, glistivali e la cerata del comandante. Senza neanche se-dersi, si era immerso con la massima attenzione nellaterminologia relativa al tema. Si era perso in mezzo aifronti ellittici in avanzamento, ai quadranti sinistri e de-stri, alle curve del percorso, alla probabile posizione del-l’epicentro, ai cambiamenti del vento e alle letture delbarometro. Aveva cercato di riportare ordine in tuttociò che aveva letto e aveva finito per indignarsi con tuttiquei nomi, quegli avvertimenti, tutte quelle belle frasi eipotesi, senza un briciolo di certezze.

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«È la cosa più stupida che possa esistere», disse. «Seuno dovesse credere a quanto c’è scritto qui, andrebbetutto il tempo per mare cercando di evitare il mal-tempo.»Batté di nuovo il libro sulla coscia. Jukes aprì la boccacome per parlare, ma non disse niente.«Correre per evitare il maltempo! Si rende conto, signorJukes? È pazzesco!» esclamò il capitano MacWhirr, fa-cendo delle pause e guardando il pavimento. «Sembrascritto da una vecchietta. Non lo capisco. Se questolibro contiene cose sensate, significa che dovrei subitocambiare la rotta, andare in qualche accidente di postoe poi piombare giù a Fu-chau da nord in coda a questodannato maltempo che s’immagina stia per incrociarela nostra rotta. Da nord! Si rende conto, signor Jukes?Trecento miglia da fare in più, un bel conto di carboneda presentare all’arrivo. Non lo farei neanche se questolibro fosse la Bibbia, signor Jukes. Non si aspetti cheio…»E Jukes, in silenzio, si stupiva di quella concitazione edi quella loquacità.«Ma la verità è che non sappiamo se questo tizio ha ra-gione. Come fai a sapere di che tempesta si tratta finchénon ci sei dentro? È a bordo questo tizio? Bene. Quidice che l’epicentro sta a otto quarte rispetto alla dire-zione del vento; ma noi non abbiamo vento, anche se ilbarometro è in discesa. Dov’è l’epicentro adesso?»«Il vento l’avremo tra poco» borbottò Jukes.«Aspettiamo che arrivi» ribatté il capitano MacWhirr,con tono di solenne indignazione. «Questo solo perfarle capire, signor Jukes, che non si trova tutto nei libri.Tutte queste regole per eludere e scansare i venti, signor

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Jukes, mi sembrano una follia, a guardarle con un mi-nimo di cervello.»Alzò lo sguardo e, vedendo che Jukes lo fissava dub-bioso, provò a spiegarsi meglio.«Una follia come la sua curiosa idea di virare, portandola prua al mare non si sa per quanto tempo, solo perchéi cinesi stiano più tranquilli; mentre quello che dob-biamo fare è condurli a Fu-chau, facendo in modo diarrivare prima di mezzogiorno di venerdì. Se il mal-tempo mi fa ritardare, bene! C’è il suo giornale di bordoche dirà del tempo. Ma supponiamo che decida di cor-reggere la rotta, che arrivi due giorni dopo e che michiedano: “Dove è stato tutto questo tempo, coman-dante?” Cosa rispondo? “Ho allungato per evitare ilmaltempo», dovrei dire. “Doveva essere un tempo ma-ledettamente brutto», direbbero. “Non lo so», dovreirispondere “perché l’ho aggirato”. Capisce ora, Jukes?Ho passato tutto il pomeriggio a riflettere su questo.»Alzò di nuovo lo sguardo vuoto e inespressivo. Nessunol’aveva mai sentito parlare così a lungo tutto insieme.Con le braccia aperte nello specchio della porta, Jukessembrava contemplare un prodigio. Gli occhi esprime-vano un’infinita meraviglia, mentre l’espressione tradivaincredulità.«Una tempesta è una tempesta, signor Jukes», concluseil comandante, «e un piroscafo a tutta forza deve esserein grado di fronteggiarla. C’è abbastanza cattivo tempoin giro per il mondo e la cosa giusta è passarci attraversosenza quella che il capitano Wilson del Melita chiama“strategia per le tempeste”. L’altro giorno a terra l’hosentito discettare su questo argomento con altri coman-danti seduti a un tavolo accanto a me. Mi sembra una

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grande assurdità. Raccontava come avesse avuto la me-glio – mi pare abbia usato proprio questo verbo – su unaterribile tempesta, tenendola a distanza di non meno dicinquanta miglia. L’ha definito un vero colpo di genio.Come facesse a sapere che a cinquanta miglia c’era unaterribile tempesta rimane per me un mistero. Mi sem-brava di sentire un folle. Pensavo che il capitano Wilsonfosse abbastanza vecchio da dire cose più assennate.»Poi, dopo una breve pausa, MacWhirr chiese:«È il suo turno di guardia giù, signor Jukes?»Jukes tornò in sé con un sobbalzo: «Sì, signore.»«Dia ordine che mi chiamino al minimo cambiamento»disse il comandante. Allungò il braccio per mettere viail libro e sistemò le gambe sul divano. «Chiuda bene laporta in modo che non si apra, grazie. Non sopportoquando sbatte. Devo dire che su questa nave hannomontato delle pessime serrature.»Il capitano MacWhirr chiuse gli occhi.Aveva bisogno di riposarsi. Era stanco e provava quelsenso di vuoto in testa che capita dopo una sfibrante di-scussione che ha portato alla luce una convinzione ma-turata in anni di riflessioni. In fondo, senza renderseneconto, aveva fatto la sua professione di fede; e il risultatofu che Jukes rimase per un bel po’ in piedi, al di là dellaporta, a grattarsi la testa.Poi improvvisamente il capitano MacWhirr riaprì gliocchi.Pensò di essersi addormentato. Cos’era quel forte ru-more? Vento? Perché non l’avevano chiamato? La lam-pada si dimenava sul supporto cardanico, il barometrooscillava a grandi cerchi, il tavolo cambiava inclinazioneogni momento; un paio di stivali flosci da barca, col

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bordo superiore ripiegato, scivolarono oltre il divano.Allungò immediatamente una mano e ne afferrò uno.La faccia di Jukes apparve in uno spiraglio della porta;solo il viso, tutto rosso, con lo sguardo fisso. La fiammadella lampada sobbalzò, un foglio di carta volò via e uncolpo di vento investì il comandante. Mettendosi lo sti-vale lanciò un’occhiata interrogativa al volto sovrecci-tato di Jukes.«È arrivato così, di colpo» gridò Jukes «cinque minuti fa.»La testa scomparve con lo sbattere della porta; un pe-sante scroscio e poi un picchiettio di gocce si abbatte-rono sulla porta chiusa, come se fosse stata scagliatacontro una secchiata di piombo fuso. Si sentiva un fi-schio al di sopra del frastuono all’esterno. La sala nau-tica, prima soffocante, adesso sembrava piena di cor renticome una baracca. MacWhirr afferrò al volo l’altro sti-vale mentre correva sul pavimento. Non era particolar-mente agitato, ma non riuscì a trovare l’apertura perinfilare il piede. Le scarpe che si era levato rotolavanoda una parte all’altra della sala nautica, saltellando gio-cose come cuccioli l’una sull’altra. Quan do fu in pieditirò loro un violento calcio, senza alcun risultato.Si allungò come uno spadaccino per agguantare la ce-rata, dopodiché saltellò per tutta la cabina cercando diindossarla. Concentrato, allargando le gambe e sti-rando il collo, cominciò a legare i laccetti del cappellosud-ovest sotto il mento, con le dita tozze e legger-mente tremolanti. Fece tutti i movimenti che fa unadonna che indossa un cappellino di fronte allo spec-chio, con la massima attenzione e in ascolto, come siaspettasse da un momento all’altro di sentire gridare ilsuo nome nel confuso clamore che aveva improvvisa-

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mente assalito la nave. Il frastuono divenne assordantequando si apprestò a uscire per vedere cosa stava suc-cedendo. Era un rumore tumultuoso e fortissimo, colvento che soffiava, i marosi che si abbattevano sullanave e una prolungata e profonda vibrazione nell’aria,come il rullo di un enorme tamburo che scandisce lacarica della tempesta. Rimase un attimo sotto la luce della lampada, grosso,goffo e sgraziato nella sua tenuta da combattimento, vi-gile e col volto paonazzo.«È una cosa seria» mormorò.Appena cercò di aprire la porta il vento se ne impa-dronì. Aggrappato alla maniglia, fu trascinato fuori dallaporta e subito dovette ingaggiare una specie di bracciodi ferro col vento per riuscire a richiuderla. All’ultimomomento una corrente d’aria filtrò dentro e spense lafiamma della lampada.A prua vide una fitta oscurità squarciata da una moltitu-dine di lampi bianchi; a dritta si scorgevano delle stranestelle, fioche e intermittenti sull’immensa distesa di mareincrespata, che sembravano velate da una coltre di fumo.Sul ponte un pugno di uomini, confusi e agitati, si da-vano da fare alla luce appannata proveniente dai fine-strini della plancia che illuminava le loro teste e leschiene. Di colpo, uno dopo l’altro, i vetri si abbuiarono.Le voci del gruppo rimasto al buio gli giunsero all’orec-chio come le voci degli uomini nella tempesta, comeframmenti e mozziconi di frasi disperate colte al volo.Improvvisamente apparve Jukes al suo fianco, gridando,con la testa bassa.«Attenti… blocca… i portelli della timoniera… i vetri…temo che… sfondati.»

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E il comandante accennò un rimprovero:«Questo… arrivare… qualunque cosa… allarme… chia-matemi.»Jukes cercò di giustificarsi, col frastuono che copriva lasua voce.«Leggero vento… rimasto… plancia… di colpo… nord-est… potrebbe girare… pensavo… lei… di certo… sen-tire.»Si erano riparati sotto il tendalino e potevano comuni-care solo a volce molto alta, come due che litigano.«Ho chiamato gli uomini per coprire le prese d’aria. Perfortuna ero rimasto sul ponte. Non pensavo si fosse ad-dormentato, e così… Cosa dice, signore? Cosa?»«Niente», gridò il capitano MacWhirr. «Dicevo… vabene.»«Per la miseria! È arrivata questa volta!» esclamò gri-dando Jukes.«Non avrà mica modificato la rotta?» chiese il capitanoMacWhirr sforzando la voce.«No, signore. No, assolutamente. Il vento è arrivatodritto di prua. E adesso anche il mare.»Un tuffo della nave si concluse con un colpo secco,come fosse ricaduta su qualcosa di solido. Dopo un mo-mento di calma un colpo di vento e una forte spruzzatad’acqua di mare sferzò loro il viso.«Tenga la rotta finché è possibile» gridò il comandante.Prima che Jukes si fosse asciugato gli occhi dall’acquasalata tutte le stelle erano scomparse.

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III

Jukes non era da meno di qualsiasi altro ufficiale pescatoin mare gettando una rete; e per quanto preso allasprovvista dalla forza impressionante della prima rafficadi vento, si era ripreso subito, aveva radunato l’equipag-gio e aveva ordinato di chiudere subito tutte le aperturein coperta che non erano ancora sbarrate. Gridando convoce squillante e stentorea «Forza, ragazzi, datevi dafare!», comandava le operazioni, dicendo fra sé che «luise l’aspettava». Ma allo stesso tempo cominciava a pen-sare che in realtà fosse anche peggio di quanto si aspet-tasse. Da quando aveva sentito sul viso la prima ventata,la tempesta sembrava avere accumulato la forza di unavalanga. Enormi spruzzi avvolgevano la Nan-Shan daprua a poppa e improvvisamente la nave aveva abban-donato il rollio regolare e aveva cominciato a impennarsie ripiombare giù, come se fosse impazzita di paura.Jukes pensò «Non è uno scherzo.»Mentre scambiava grida di spiegazioni col comandante,le tenebre calarono improvvisamente nella notte comequalcosa di palpabile alla loro vista. Era come se le ve-late luci del mondo fossero state spente. Dentro di séJukes era contento di avere accanto il comandante. Neprovava sollievo come se quell’uomo, semplicemente ar-rivando sul ponte di comando, avesse preso la granparte del peso della tempesta sulle sue spalle. Questo è

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il prestigio, il privilegio e la responsabilità del comando.Il capitano MacWhirr invece non si poteva aspettarequel tipo di conforto da nessuno al mondo. E quella èla solitudine del comando. Con quel modo attento cheha l’uomo di mare di guardare diritto negli occhi ilvento come fosse un avversario, stava cercando di ca-pirne le intenzioni nascoste e di indovinarne la direzionee la forza. Il forte vento si sprigionava da un’immensaoscurità; sentiva sotto i piedi il malessere della sua navee non poteva neanche distinguerne l’ombra sull’acqua.Avrebbe voluto che non fosse così; e restò immobile,sentendosi come afflitto dal senso d’impotenza di uncieco.Stare in silenzio per lui era naturale, con la luce o colbuio. Accanto a lui, Jukes si fece sentire gridando alle-gramente nelle raffiche: «Mi sa che c’è toccato subito ilpeggio, signore.» La luce leggera di un fulmine si propagò d’intorno,come si fosse scaricato in una caverna, in un’oscura esegreta camera marina, col pavimento di schiuma spu-meggiante. Per un attimo sinistro e palpitante svelò unasfilacciata massa di nubi sospesa in basso, l’ondeggiaredel lungo profilo della nave, le figure scure degli uominibloccate sul ponte di comando, protesi in avanti, comepietrificati nell’atto di dare una testata. Le tenebre pal-pitavano tutt’intorno e alla fine il peggio arrivò.Fu qualcosa di tremendo e repentino, come la rotturaimprovvisa di una fiala di violenza. Sembrò esplodereintorno alla nave con un impeto e una massa d’acquaimpressionante, come se un’immensa diga fosse saltatasopravento. Immediatamente gli uomini si persero divista. Questo è il potere disintegrante di un forte vento:

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isola uno dall’altro. Il terremoto, una frana o una va-langa piombano addosso all’uomo incidentalmente,come dire, senza determinazione. Una furiosa tempestainvece lo aggredisce come fosse un nemico personale,cerca di afferrargli le membra, s’impossessa della suamente e cerca di strappargli l’anima.Jukes fu sospinto lontano dal comandante. Immaginòdi essere trascinato a grande distanza nell’aria. Tuttoscomparve, per un attimo anche la capacità di pensare;ma la sua mano aveva trovato uno dei candelieri dellabattagliola. La sua angoscia non trovò il minimo sollievodalla sua propensione a dubitare che quanto stava suc-cedendo fosse vero. Pur essendo giovane, gli era già ca-pitato di confrontarsi col maltempo e non aveva maidubitato che potesse esserci qualcosa di peggio; ma que-sto era talmente al di là della sua capacità d’immagina-zione che sembrava incompatibile con la resistenza diqualsiasi nave. E forse non avrebbe creduto neanche allapossibilità di sopravvivere lui stesso, se non fosse statocosì assillato dalla necessità di esercitare uno sforzo ti-tanico per contrastare una forza che cercava di strap-parlo alla sua presa. Inoltre, l’idea di non essere ancoramorto gli veniva dalla sensazione di essere semi affogato,brutalmente scosso e quasi soffocato.Gli sembrava di essere rimasto per molto, molto tempoaggrappato precariamente a quel candeliere. La pioggiacadeva, lo inondava, lo sommergeva a valanga. Respi-rava a fatica e l’acqua che inghiottiva a volte era dolce ea volte salata. La maggior parte del tempo restò con gliocchi chiusi, come se temesse che la forza degli elementipotesse accecarlo. Quando si azzardò ad aprirli per unattimo trasse conforto dalla luce verde del fanale di

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dritta che illuminava debolmente gli scrosci di pioggiae gli spruzzi. Lo stava per l’appunto guardando quandola sua luce illuminò un’ondata che lo spense. Vide la cre-sta dell’onda abbattersi, sommando il proprio rumoreal tremendo frastuono che si scatenava intorno, e quasinello stesso momento il candeliere fu strappato alla suapresa. Dopo un violento colpo alla schiena si sentì tra-scinato in alto da un’onda. Il primo irresistibile pensierofu che tutto il Mar della Cina si fosse rovesciata sulponte. Poi, più ragionevolmente, pensò di essere finitofuori bordo. Ogni volta che veniva sollevato, rovesciatoe scagliato in quella massa d’acqua continuava a ripeterefra sé, con la massima apprensione: « Dio mio; Dio mio;Dio mio!»A un certo punto, in un sussulto di angoscia e di dispe-razione, ebbe la folle idea di provare a uscirne. E co-minciò ad agitare le braccia e le gambe. Ma, appenacominciata quella lotta disperata, si accorse di essere inqualche modo entrato in contatto con un viso, una ce-rata e con gli stivali di qualcuno. Afferrò rabbiosamentetutte quelle cose a turno, le perse, le ritrovò, le perse dinuovo e alla fine fu lui a essere agganciata dalla presa didue forti braccia. Ricambiò l’abbraccio di quel corposolido e massiccio. Aveva trovato il suo comandante. Rotolarono più volte, abbracciandosi sempre più stretti.Alla fine l’acqua li scaraventò giù con uno schianto bru-tale e, atterrati contro il fianco della timoniera, senzafiato e tutti ammaccati, rimasero a barcollare in predaal vento, aggrappandosi dove potevano. Jukes ne uscì sconvolto, come fosse sfuggito a un’inau-dito oltraggio al suo orgoglio. Aveva perso la fiducia inse stesso. Cominciò a lanciare grida senza senso al-

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l’uomo che poteva sentire accanto in quelle tenebre de-moniache. «È lei, signore? È lei, signore?» fino a che letempie sembravano vicine a scoppiare. E sentì in rispo-sta una voce, come un pianto lontano, un grido irritatoda grande distanza, una sola parola: «Sì.» Altre ondateche si abbatterono sul ponte di comando lo colpironoin pieno proprio sulla testa scoperta, con le mani impe-gnate a reggersi.La nave si muoveva in modo strano. Sbandava comefosse in totale balìa delle acque: beccheggiava come sefacesse un salto nel vuoto e ogni volta sembrava cozzarecontro un muro. Quando rollava si coricava tutta su unlato e poi tornava indietro con un contraccolpo così vio-lento che a Jukes sembrava come il barcollare di unuomo colpito alla testa prima di stramazzare al suolo.La gigantesca tempesta ululava e cozzava tutt’intornonelle tenebre, come se tutto il mondo fosse un oscuroburrone. In certi momenti il vento colpiva la nave comese fosse risucchiato attraverso un tunnel che ne concen-trava e moltiplicava la violenza e l’impatto sembrava sol-levarla dall’acqua e tenerla sospesa per un attimo,percorsa da cima a fondo da un tremito. Poi la nave ri-prendeva di nuovo le sue giravolte come fosse caduta inun calderone bollente.Jukes cercò di riordinare le idee e valutare la situazionea mente fredda. Il mare, schiacciato sotto le raffiche di vento più forte,tornava a sollevarsi e a sommergere la prua e la poppadella Nan-Shan con ondate bianche di schiuma, che si al-largavano nella notte oltre le due fiancate. E in quell’ab-bagliante lenzuolo, steso sotto il nero delle nuvole edemanante un riflesso azzurrino, il capitano MacWhirr riu-

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scì a scorgere il desolante barlume di alcuni puntini nericome l’ebano, i portelli e le cappe sprangate dei bocca-porti, le teste dei verricelli o il piede di un albero. Questoè ciò che poteva vedere della sua nave. Il castello mediano– col ponte di comando, dove erano lui e il secondo, e lacabina della timoniera, dove un uomo teneva la barra conla paura di venire spazzato fuori bordo con tutto il restoin un unico schianto – quella struttura centrale della naveera come uno scoglio semisommerso dalla marea vicinoa una scogliera; come uno scoglio lontano, con l’acquache ribolle e scorre via vorticando – come uno scoglionella risacca, a cui si aggrappano i naufraghi prima di ce-dere – ma uno scoglio che affiorava, che s’immergeva eche oscillava in continuazione, senza pausa e senza riposo,come una roccia staccatasi miracolosamente dalla costache se ne andasse beatamente alla deriva.La Nan-Shan era saccheggiata dalla tempesta con unafuria insensata e devastante: le vele di cappa strappatevia dai gerli, le tende con doppi lacci volate via, il pontespazzato dai marosi, i tendalini ridotti a pezzi, le batta-gliole contorte e i vetri dei fanali in frantumi; due dellescialuppe erano sparite. Se n’erano andate senza essereviste o sentite, confuse nel fragore e nel polverone dellatempesta. Solo più tardi – quando su un bianco caval-lone che si scagliava contro la nave ebbe la visione delledue gru delle scialuppe che emergevano nere e vuotedalle tenebre, con un tirante libero e un bozzello cer-chiato di ferro che svolazzava per l’aria – solo alloraJukes si rese conto di cos’era successo solo tre metri die-tro di lui. Sporse la testa in avanti, cercando l’orecchiodel comandante. Le sue labbra lo toccarono, grande,carnoso e tutto bagnato. Gridò con tono agitato:

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«Le scialuppe se ne stanno andando, signore.»E di nuovo sentì quella voce, sforzata e debole, ma ca-pace di indurre tranquillità in quell’enormità di rumoridiscordanti, come se fosse uscita da qualche remoto an-golo di pace dietro le nere distese della tempesta. Dinuovo sentì una voce umana – il fragile e indomitosuono capace di portare un’infinità di pensieri, risolu-zioni e progetti, che sarà capace di pronunciare paroletranquillizzanti nell’ultimo giorno, quando crolla il cieloe si compie la giustizia – sentì di nuovo quella voce chegli gridava, come da molto lontano:«Va bene.»Pensava non avesse capito. «Le scialuppe… intendo dire le scialuppe… le scia-luppe, signore! Ne abbiamo perse due!»La stessa voce, ad appena un passo da lui, eppure cosìlontana, gridò saggiamente:«Non ci possiamo fare niente.»Il capitano MacWhirr non aveva mai girato la testa, maJukes riuscì a captare altre parole nel vento.«Cosa possiamo… aspettarci… con questo… ma-cello… Si deve per forza… lasciare indietro qualcosa…c’è poco da fare.»Jukes rimase attentamente in ascolto. Ma non giunsealtro. Questo era quanto MacWhirr aveva da dire; eJukes poteva immaginare più che vedere davanti a sé lalarga e corta schiena del comandante. Un’oscurità im-penetrabile incombeva sullo spettrale bagliore del mare.La cupa idea che non ci fosse niente da fare s’impos-sessò di Jukes. Se il timone non cedeva, se tutta quella massa d’acquanon distruggeva il ponte o i portelli, se i motori non mol-

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lavano, se si poteva mantenere la rotta con quel ventospaventoso e se la nave non s’inabissava sotto una diquelle terribili ondate di cui ogni tanto poteva vedere aprua solo le creste bianche, altissime… allora, forse,c’era una possibilità di venirne fuori. Qualcosa dentrodi lui sembrò rovesciarsi, accrescendo la sensazione chela Nan-Shan non ce l’avrebbe fatta. «È spacciata» disse fra sé, in preda a una grande agita-zione, come se avesse scoperto un significato reconditoin quel pensiero. Almeno una di quelle cose doveva suc-cedere. Non si poteva impedire niente, né porre rimedioa qualcosa. L’equipaggio non poteva fare nulla e la navenon avrebbe retto ancora per molto. Quel maltempo eraveramente insostenibile.Jukes sentì un braccio atterrare pesantemente sulla suaspalla e a quell’approccio rispose con grande intelligenzaafferrando alla vita il suo capitano. Rimasero stretti cosìnell’oscurità della notte, abbracciati per resistere alvento, guancia a guancia e labbra all’orecchio, come duepontoni ormeggiati insieme poppa contro prua. E Jukes udì la voce del comandante poco più forte diprima, ma vicina, come se, avanzando attraverso la tre-menda furia dell’uragano, gli si fosse accostata, creandoquello strano effetto di calma, simile a un alone lumi-noso di serenità.«Sa dove sono finiti gli uomini?» chiese la voce, vigorosaed evanescente al tempo stesso, superando la forza delvento e dissolvendosi all’istante.Jukes non lo sapeva. Erano tutti sul ponte di comandoquando l’uragano aveva colpito in pieno la nave. Nonaveva idea che fine avessero fatto. Date le circostanze,per l’aiuto che ci si poteva aspettare da loro, non aveva

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importanza dove fossero. Ma il fatto che il comandantevolesse saperlo gli dette un po’ di agitazione.«Vuole l’equipaggio. Signore?» gridò con apprensione.«Meglio sapere» disse il capitano MacWhirr. «Si reggaforte.»Si tennero forte. Una furiosa esplosione, una fortissimaraffica di vento colpì la nave, che s’immobilizzò sospesaper un attimo spaventoso, oscillando rapida e leggeracome la culla di un bambino, mentre intorno tutto sem-brò scorrere furiosamente oltre, ruggendo lontano dallaterra tenebrosa.Rimasero soffocati e, con gli occhi chiusi, si strinsero an-cora più forte nell’abbraccio. Ciò che per la forza del-l’urto poteva essere una tromba marina che procedevaeretta in verticale nel buio si schiantò contro la nave, sifrantumò e, cadendo dall’alto come un peso morto,sommerse il ponte.Un frammento di quello schianto, un semplice spruzzoin aria, li avvolse in un vortice da capo a piedi, riem-piendo loro le orecchie, la bocca e le narici di salsedine.Mise fuori uso le gambe, storse le braccia e scivolò viarapidamente; e riaprendo gli occhi, videro le colonne dischiuma correre avanti e indietro fra quelli che sembra-vano i frammenti di un relitto. Colpita in pieno, la navesembrava aver ceduto di schianto, come anche i cuoridei due uomini. Ma subito tornò a tuffarsi su e giù di-speratamente, come per sollevarsi dalle rovine.Nel buio le ondate sembravano arrivare da tutte le partiper aggredire la nave dove era più vulnerabile. C’era dellarabbia nel modo in cui la scuotevano e ferocia nei lorocolpi. La nave era come una creatura vivente data in pastoa un’orda inferocita: spintonata, sbattuta, trascinata, af-

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fossata in basso e di nuovo scagliata in alto. MacWhirr eJukes si tenevano sempre stretti, assordati dal rumore esoffocati dal vento; e il grande subbuglio fisico che scuo-teva il corpo provocò, come uno sfrenato dispiegarsi dipassione, un profondo disagio anche al loro spirito.Unadi quelle urla selvagge e terribili, che a volte si sentonomisteriosamente aleggiare sopra le teste nel muggito inin-terrotto di un uragano, piombò sulla nave, come fosse so-stenuta da ali, e Jukes cercò di sopraffarla gridando.«Ce la farà?»Il grido uscì distorto dal suo petto. Era involontariocome il nascere di un’idea nella testa, e Jukes stesso nonlo sentì. Tutto si dissolse in un attimo – pensiero, inten-zione e sforzo – e l’impercettibile vibrazione del suogrido si aggiunse alle onde di tempesta nell’aria.Non si aspettava una risposta. Assolutamente niente.Cosa si poteva rispondere infatti? Eppure, dopo un po’sentì la debole e ostinata voce all’orecchio, quel suonoinsignificante, ma indomito, nel gigantesco frastuono.«Ce la può fare.»Era un grido soffocato, più impercettibile di un sus-surro. E poi la voce tornò a farsi sentire, quasi sommersadal grande frastuono, come una nave in lotta con leonde dell’oceano.«Speriamo!» gridò… esile, isolata e quasi indifferente,restia a impulsi di speranza o di paura; e balbettò parolesconnesse: «La nave… Questo… Mai… in ogni caso…per il meglio.»Jukes rinunciò a capire.Poi, come se avesse improvvisamente scoperto l’unicomodo per fronteggiare una tempesta, la voce sembrò riac-quistare forza e sicurezza per le ultime grida spezzate:

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«Non mollare… i costruttori… brava gente… E pro-varci… le macchine. Rout… un uomo in gamba.»Il capitano MacWhirr tolse il braccio dalle spalle diJukes e subito cessò di esistere per il suo secondo, tantoera buio. Dopo essere stato a lungo con i muscoli irrigi-diti, Jukes si afflosciò completamente. Il rimuginare nelprofondo sconforto si affiancava in lui a un’incredibilesonnolenza, come se lo squasso e la preoccupazionel’avessero intorpidito. Il vento s’impadronì della sua testae sembrava che cercasse di staccargliela dalle spalle; i ve-stiti, completamente zuppi, erano pesanti come il piom -bo, freddi e gocciolanti come un’armatura di ghiaccioche si scioglie: tremava, perché tutto ciò durava da moltotempo; e con le mani strette al suo appiglio, si lasciavalentamente sprofondare negli abissi della prostrazionefisica. Aveva la mente inutilmente concentrata su sestesso, e quando qualcosa lo colpì leggermente dietro leginocchia scattò come una molla, come si usa dire.Balzando in avanti andò a sbattere contro la schiena delcapitano MacWhirr, che non si mosse; e poi una manoafferrò la sua coscia. Il vento si era calmato un attimo,uno di quelle pause minacciose come se la tempesta trat-tenesse il respiro… e si sentì palpare in tutto il corpo.Era il nostromo. Jukes riconobbe quelle mani, cosìenormi e forti che sembravano appartenere a una nuovaspecie di uomo.Il nostromo era arrivato sul ponte di comando arran-cando a quattro zampe contro il vento e si era imbattutocon la punta della testa nelle gambe del secondo. Si erasubito accovacciato e aveva iniziato a esplorare la figuradi Jukes verso l’alto con tocchi prudenti e discreti, comesi fa con un superiore.

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Era un piccolo, rude e sgraziato marinaio di cinquan-t’anni, molto peloso, con le gambe corte e le braccia lun-ghe, simile a un vecchio scimmione. Aveva una forzaincredibile e le sue mani rozze, piene come guantoni dapugile alle estremità degli avambracci pelosi, maneggia-vano gli oggetti più pesanti come fossero giocattoli. Aparte il pelo brizzolato sul petto, l’atteggiamento minac-ciosa e la voce roca, non aveva i classici attributi del suoruolo. Era così buono da passare per imbecille; comple-tamente alla mercè dell’equipaggio, era tranquillo e ciar-liero, ma senza un briciolo di iniziativa. Per questeragioni non piaceva tanto a Jukes; il capitano MacWhirrinvece, con profondo sdegno di Jukes, sembrava consi-derarlo come un sottufficiale di prim’ordine.Si tirò su aggrappato alla giacca di Jukes, prendendosila libertà col massimo rispetto e solo perché vi era co-stretto dall’uragano. «Cosa c’è, capo, cosa c’è?» gridò il secondo spazientito.Cosa poteva volere quella specie di sottufficiale sulponte di comando? Il tifone aveva innervosito Jukes.Il grido roco dell’altro, seppure incomprensibile, sem-brava suggerire uno stato di piena soddisfazione. Nonc’era dubbio, il vecchio pazzo era contento di qualcosa.Con l’altra mano il nostromo aveva trovato un altrocorpo e, cambiando tono, chiese:«È lei, signore? È lei, signore?»Il vento soffocò la sua voce.«Sì!» gridò il capitano MacWhirr.

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IV

Tutto ciò che il nostromo, gridando a più non posso,riuscì a comunicare al capitano MacWhirr fu la curiosanotizia che «Tutti i cinesi nel ponte sottocoperta a pruasono stati travolti, signore.»Jukes, che era sottovento, poteva sentire quei due gri-dare a sei pollici dal suo viso, come si potrebbero sentirein una notte tranquilla a distanza di mezzo miglio dueuomini che chiacchierano in un campo. Sentì il capitanoMacWhirr esasperato «Cosa? Cosa?» e il tono stancodella voce roca dell’altro «Tutti ammucchiati… li hovisti io stesso… Brutta storia, signore… pensato… dir-glielo.»Jukes restò indifferente, come deresponsabilizzato dallaforza dell’uragano, che rendeva vano ogni tentativo diagire. Per di più, essendo molto giovane, era talmenteimpegnato a proteggersi mentalmente dal peggio cheera arrivato a provare disgusto per ogni altra occupa-zione. Non era spaventato; pur essendo convinto chenon avrebbe più rivisto sorgere il sole, restava calmo inquella convinzione.Sono quei momenti di inutile passività cui si arrendonoanche gli uomini migliori. Molti ufficiali si ricordanocertamente almeno un caso nella loro vita in cui all’im-provviso l’intero equipaggio sia piombato in questostato di trance, in una specie di inedia stoica. Ma Jukes

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non aveva grande esperienza di uomini e di tempeste.Si sentiva tranquillo… assolutamente tranquillo; ma inrealtà era scoraggiato; non in modo vile, ma solo quantopuò esserlo un uomo serio senza provarne vergogna.Si trattava piuttosto di un forzato obnubilamento dellospirito. Succede quando si è sottoposti a lungo allostress provocato da una tempesta; l’apprensione gene-rata da una catastrofe che incombe all’infinito; e ancheil semplice resistere a un eccessivo sconquasso comportauna vera fatica fisica; una penetrante e insidiosa stan-chezza che s’insinua profondamente nel petto e deprimee intristisce il cuore, che non cambia mai e che di tutti idoni della terra – anche della vita stessa – più di tuttoaspira alla pace.Jukes era molto più intorpidito di quanto non immagi-nasse. Stringeva i denti, tutto fradicio, infreddolito, congli arti intirizziti; e nella momentanee allucinazione dirapide visioni – si dice che un uomo che affoga passi inrassegna tutta la sua vita – riviveva tutti insieme ricordiche non avevano nulla a che fare con la sua presente si-tuazione. Gli venne in mente, per esempio, suo padre:un bravo uomo d’affari, che in un momento di difficoltàsi era messo silenziosamente a letto e poco dopo eramorto nel più profondo sconforto. Jukes naturalmentenon ricordava quella circostanza, ma gli sembrò di ve-dere distintamente il volto del padre, pur restando in-differente; e rivide una partita a carte giocata quandoera appena un ragazzo a Table Bay, a bordo di una naveche poi era naufragata con tutto l’equipaggio; e le foltesopracciglia del suo primo comandante; e infine, senzaalcuna emozione, rivedeva la madre seduta con un libroin mano, come la vedeva anni prima quando entrava di-

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strattamente nella sua camera; anche lei era morta pre-sto, quella donna solida e decisa, che lo aveva tirato sucon grande fermezza.Il tutto era durato appena un secondo, forse nemmeno.Un braccio pesante era di nuovo calato sulle sue spalle;la voce del capitano MacWhirr stava pronunciando ilsuo nome al suo orecchio.«Jukes! Jukes!»Notò il tono della voce profondamente preoccupato. Ilvento si era scagliato contro la nave, cercando di affon-darla tra le onde, che l’avevano completamente som-mersa come fosse un tronco alla deriva; pesanti schiantirisuonavano minacciosi in lontananza. I cavalloni irrom-pevano fuori dalle tenebre con una luce spettrale sullecreste, quel chiarore della schiuma che in un pallidolampo selvaggio rivelava sulla sagoma slanciata dellanave l’impeto, l’abbattersi e il feroce ribollire di ognionda. La Nan-Shan non riusciva a emergere fuori dal-l’acqua neanche per un attimo e Jukes, irrigidito, per-cepiva nel suo movimento il brutto presagio di unconfuso annaspare. Non lottava più con lucidità. Eral’inizio della fine; e il tono di seria preoccupazione nellavoce del capitano MacWhirr gli dava noia come un’esi-bizione di cieca e mortale follia.L’incantesimo della tempesta era piombato su Jukes. Neera penetrato, assorbito; vi si era radicato col rigore diuna ottusa attenzione. Il comandante continuava a gri-dare, ma il vento si frapponeva come un ostacolo solidofra loro. MacWhirr era appeso al collo di Jukes come lamacina di un mulino, e improvvisamente le loro teste siscontrarono.«Jukes! Signor Jukes, mi sente?»

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Doveva rispondere a quella voce che non voleva tacere.Rispose nel solito modo:«…Sì, signore.»E subito il suo spirito, logorato dalla tempesta che sti-mola il desiderio di pace, ebbe un senso di rifiuto neiconfronti della tirannia della disciplina e dell’autorità. Il braccio del capitano MacWhirr reggeva la testa delsecondo stretta sotto il braccio e inspiegabilmente pres-sata contro le sue labbra urlanti. Ogni tanto Jukes lan-ciava un grido allarmato «Attenzione, signore!» oppureera il comandante a gridare, esortandolo: «Si reggaforte, qui!» e l’intero universo scuro sembrava ballarecon la nave. Rimasero un attimo in silenzio. La nave erasempre a galla. E il capitano MacWhirr riprese a gri-dare: «…Dice… tutti quanti… trascinati via… Bisognavedere… cos’è successo.»Da quando la furia dell’uragano aveva colpito la nave,il ponte era del tutto inagibile e l’equipaggio, confuso esgomento, si era riparato nel corridoio a babordo sottoil ponte di comando. Aveva una porta a poppa, che gliuomini chiusero; era molto buio, tetro e freddo. Ognivolta che la nave sbandava si lamentavano tutti insiemenel buio, mentre si sentivano le tonnellate di acqua chesi rovesciavano dappertutto, pronte a piombare loro ad-dosso dall’alto. Il nostromo aveva continuato ad apo-strofarli bruscamente, ma, come ebbe poi modo di dire,si trattava dell’accozzaglia di gente peggiore che avessemai avuto. Stavano abbastanza comodi lì, erano al sicuroe non dovevano fare niente; eppure non facevano altroche mugugnare e lamentarsi stizziti come dei bambinimalati. Alla fine uno di loro aveva detto che, se almenoci fosse stata un po’ di luce per guardarsi negli occhi,

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sarebbe stato meglio. Diventava pazzo, diceva, a stare lìdisteso al buio ad aspettare che quella dannata nave co-lasse a picco. «Perché non te ne vai fuori e la fai finita subito?» l’apo-strofò il nostromo.Questo scatenò una dura reazione e il nostromo fu tra-volto da improperi di ogni genere. Sembravano offesiperché immediatamente non si era tirata fuori da chissàdove una lampada. Si lamentavano perché almeno vo-levano vederci mentre affogavano! E anche se l’assur-dità della loro pretese era evidente – visto che nessunopoteva sperare di raggiungere il locale a prua dove sta-vano le lampade – il nostromo si agitò molto. Pensavache non fosse giusto prendersela con lui in quel modo.Lo disse e fu coperto di insulti. Provò allora a rinchiu-dersi in un risentito silenzio, ma loro continuavano a la-mentarsi, piagnucolare e brontolare; così, poco dopo, siricordò che c’erano sei lampade a globo appese nelponte sottocoperta e pensò che non ci sarebbe statoniente di male a portarne via una a quei cinesi.La Nan-Shan aveva una carbonaia trasversale che a volteera utilizzata come vano di carico e che comunicava at-traverso una porta tagliafuoco col ponte sottocoperta aprua. In quel momento era vuota e il portello per acce-dervi era nella parte più avanzata del corridoio. Il no-stromo perciò poteva raggiungerlo senza dover uscirein coperta; ma, con sua grande sorpresa, non trovò nes-suno disposto ad aiutarlo ad aprire il portello del tom-bino. Si avviò comunque al buio, ma un marinaio stesolungo il percorso si rifiutò di spostarsi.«Perché? Voglio solo recuperare quella dannata luce percui vi lamentate tanto» protestò, con tono quasi patetico.

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Qualcuno gli disse di andare a farsi fottere. E lui si di-spiacque di non aver riconosciuto la voce e che fossetroppo buio per vederlo in volto, altrimenti – come ebbea dire – l’avrebbe sistemato lui quel figlio di un cane, inun modo o nell’altro. Aveva comunque deciso di far ve-dere a quella gente che era capace di trovare una luce,a costo di rimetterci la pelle.Il forte rollio rappresentava un costante pericolo. Anchestare fermi distesi comportava una certa fatica. E, calan-dosi nella carbonaia, per poco il nostromo non si ruppeil collo. Cadde sulla schiena e, senza poter far nulla, fusballottato da una parte all’altra in pericolosa compa-gnia di una sbarra di ferro – probabilmente usata perstivare il carbone – abbandonata lì da qualcuno. Quel-l’attrezzo lo innervosiva come fosse una bestia feroce.Non riusciva a vederlo perché la carbonaia, rivestita dipolvere di carbone, era di un nero impenetrabile; ma losentiva rotolare e sbattere con violenza qua e là, semprevicino alla sua testa. Faceva anche un gran rumore eproduceva un suono profondo come se fosse statogrosso come un baglio del ponte. Ebbe modo di render-sene conto mentre veniva sbalzato da babordo a tri-bordo e viceversa, cercando disperatamente un appiglioper fermarsi nelle pareti lisce della carbonaia. La portache dava nel ponte sottocoperta non chiudeva bene evide quindi un filo di luce fioca sul fondo.Essendo un uomo di mare e ancora in gamba, non gli civolle molto a rimettersi in piedi; per fortuna, mentre sirialzava, le sue mani incontrarono e poterono afferrarela sbarra di ferro. Diversamente avrebbe avuto paurache quella cosa potesse rompergli una gamba o, se nonaltro, sbatterlo di nuovo a terra. All’inizio stette fermo.

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Si sentiva insicuro in quel buio che rendeva i movimentidella nave strani, imprevedibili e difficili da controbi-lanciare. Era talmente scombussolato che per un attimonon ebbe il coraggio di muoversi e prendere qualsiasiiniziativa. Non aveva intenzione di farsi ridurre in pezziin quella carbonaia.Aveva battuto la testa due volte ed era un po’ confuso.Gli sembrava di sentire ancora chiaramente i colpi e ilrumore metallico della sbarra intorno alle sue orecchiee strinse più forte la presa per provare a se stesso chel’aveva ancora in mano. Era anche un po’ sorpreso disentire così forte laggiù in fondo l’infuriare della tem-pesta. Il suo ululato e il sibilo sembravano acquistarenella carbonaia vuota un qualcosa di umano, una furiae un tormento, non grande ma intenso. E si sentivano,a ogni rollio, dei colpi, molto profondi e pesanti, comese un oggetto ingombrante di cinque tonnellate si muo-vesse nella stiva. Ma non c’era niente di simile nellastiva. Forse qualcosa sul ponte? Impossibile. O sotto-bordo? No, assolutamente.Rifletté su tutto questo, velocemente, con lucidità ecompetenza, da uomo di mare, e alla fine rimase per-plesso. Quel rumore, comunque, veniva attutito dafuori, insieme a quello dell’acqua che si rovesciava escorreva in coperta sopra la sua testa. Che fosse il vento?Sì, doveva essere il vento, che laggiù sotto faceva un si-bilo come il grido di un’orda di uomini impazziti. E siaccorse di avere una gran voglia di luce – anche solo pervedere quando annegava – e un’ansia spasmodica diuscire prima possibile da quella carbonaia.Tirò il catenaccio e la pesante porta di ferro girò sui car-dini; fu come se avesse aperto la porta ai rumori della

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tempesta. Una raffica di grida roche lo travolse: l’ariaera immobile e lo scrosciare dell’acqua di sopra era co-perto dal tumulto di voci strozzate e gutturali che pro-ducevano l’effetto di una disperata confusione.Si piazzò con le gambe stese nello specchio della portae allungò il collo. In un primo momento vide solo ciòche era venuto a cercare: sei fiammelle gialle che oscil-lavano violentemente nell’oscurità del ponte sottoco-perta.Quello spazio era puntellato come la galleria di una mi-niera, con una fila di candelieri al centro e, al di sopra,delle travi incrociate che andavano avanti all’infinito sfu-mando nell’oscurità. E a babordo si scorgeva, come unacaverna in una delle fiancate, una grande massa indefi-nita con un profilo inclinato. Il tutto, ombre e forme, simuoveva in continuazione. Il nostromo aguzzò gli occhi:la nave sbandò a tribordo e delle grida si alzarono dallagrande massa che sembrava come terra franata.Pezzi di legno gli sibilarono accanto. Il nostromo, sor-preso, abbassò la testa, pensando fossero delle tavolette.Un umo scivolò ai suoi piedi, con gli occhi sbarrati,steso sulla schiena e agitando a vuoto le braccia; un altroarrivò a balzi come una pietra piovuta dall’alto, con latesta fra le gambe e i pugni stretti. Il suo codino frustaval’aria; afferrò la gamba del nostromo e dalla mano apertaun disco bianco e luminoso rotolò verso il suo piede. Ilnostromo riconobbe un dollaro d’argento e lanciò ungrido di sorpresa. Con grida gutturali e un precipitoso traspestio, trasci-nando i piedi nudi, la massa di corpi contorti e ammuc-chiati a babordo si staccò dal fianco della nave e,opponendo un’inerte resistenza, scivolò a tribordo, con

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un colpo sordo e brutale. Poi le grida cessarono e il no-stromo avvertì un lungo lamento misto al ruggito e al fi-schio del vento; vide un’inestricabile confusione di testee di spalle, piedi nudi che scalciavano in aria, pugni sol-levati, tutto un ruzzolare di schiene, gambe, codini efacce.«Mio Dio!» gridò inorridito e chiuse violentemente laporta di ferro su quella visione apocalittica.Questo era venuto a riferire sul ponte di comando. Nonpoteva tenerlo per sé; e sulla nave c’era una sola personacon cui valesse la pena confidarsi. Quando ripassò in-dietro nel corridoio l’equipaggio lo apostrofò come unidiota. Perché non aveva portato la lampada? Cosa dia-volo glie ne fregava di quei cinesi? E, quando uscì fuori,le condizioni in cui si trovava la nave fecero passare insecondo piano quanto stava avvenendo al suo interno.Sulle prime pensò di aver lasciato il corridoio proprionel momento in cui la nave stava per affondare. Le sca-lette del ponte di comando erano state spazzate viadall’acqua, ma un’enorme ondata che aveva allagato lacoperta di poppa lo sollevò. Dopodiché dovette staredisteso sulla pancia per un po’, aggrappato a un anello,prendendo respiro quando poteva e ingoiando acquasalata. Cercò faticosamente di avanzare facendo forzasulle braccia e i ginocchi, troppo spaventato e turbatoper tornare indietro. In quel modo raggiunse il retrodella timoniera e in quel punto relativamente riparatoincontrò il secondo ufficiale.Il nostromo era piacevolmente sorpreso, avendo pen-sato che tutti quelli che erano sul ponte fossero statispazzati via già da un pezzo, e gli chiese impaziente dovefosse il comandante.

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Il secondo ufficiale se ne stava accucciato, come un ani-maletto maligno sotto una siepe.«Il comandante? È volato fuori bordo, dopo avercimesso in questo casino.» Per quanto ne sapeva e perquanto gli importava, il primo ufficiale aveva fatto lastessa fine. Un altro idiota. Poco importava comuque,perché sarebbe finita per tutti.Il nostromo si trascinò di nuovo all’aperto in faccia alvento, non perché si aspettasse di trovare qualcuno –come disse poi – ma solo per allontanarsi da quel-l’uomo. Si trascinò fuori come un povero derelitto chesi affaccia su un mondo inclemente. Per cui gioì moltonel vedere Jukes e il comandante. Ma adesso ciò chesuccedeva nel ponte sottocoperta non aveva molta im-portanza per lui. Inoltre, era difficile farsi sentire. Cercòcomunque di dare la notizia che i cinesi coi loro baulierano tutti allo sbando e che lui era venuto apposta perriferirglielo. L’equipaggio invece stava bene. Poi, calma-tosi, si sedette sul ponte abbracciando con gambe ebraccia la base del telegrafo di macchina, un colonninodi ferro spesso come un pilastro. Perché pensava che sene sarebbe andato solo quando anche quello fosse statospazzato via. E non pensò più ai cinesi.Il capitano MacWhirr aveva fatto capire a Jukes che vo-leva che andasse giù a vedere.«E che devo fare, signore?» E il tremito di tutto il suocorpo fradicio trasformò la sua voce in una specie di be-lato.«Per prima cosa… guardi che succede… Il nostromo…dice… allo sbando.»«Il nostromo è un po’ rimbecillito» gridò agitato Jukes.L’assurdità di quell’ordine lo faceva imbestialire. Non

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ne voleva sapere di andare, come fosse sicuro che lanave sarebbe colata a picco nel momento in cui luiavesse abbandonato il ponte.«Devo sapere… non posso lasciare…»«Se la caveranno, signore.»«Una rissa… il nostromo dice che si stanno pic-chiando… Perché ? Non posso tollerare… una rissa…a bordo… Meglio sarebbe stesse qui… casomai… do-vessi… filare fuori bordo io stesso… La fermi… in qual-che modo. Vada a vedere e mi riferisca… attraverso ilportavoce della sala macchine. Non voglio che… vengasu… troppo spesso. È pericoloso… muoversi… in co-perta.»Tenuto per la testa, Jukes dovette ascoltare quello chegli sembrò un pessimo consiglio.«Non voglio… perderla… finché… la nave non… Rout…un tipo in gamba… La nave… ce la può… ancora fare…»Di colpo Jukes si rese conto che doveva andare.«Pensa davvero che ce la possa fare?» gridò.Ma il vento risucchiò la risposta, di cui Jukes colse solouna parola, pronunciata con grande enfasi «…Assolu-tamente…»Il capitano MacWhirr mollò la testa di Jukes e, chinan-dosi sul nostromo, gridò:«Torni laggiù col secondo.»Jukes capì solo che non aveva più il braccio del coman-dante sulla spalla. L’aveva congedato impartendogli gliordini, ma di fare cosa? L’esasperazione gli fece abban-donare distrattamente l’appiglio e fu trascinato via al-l’istante. Gli sembrava che niente potesse impedirgli divolare via oltre la poppa. Si buttò precipitosamente aterra e il nostromo, che lo seguiva, gli cadde addosso.

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«Non si alzi ancora, signore» gridò il nostromo«Aspetti!»Arrivò un’altra ondata e Jukes sentì il nostromo farfu-gliare che le scalette del ponte erano andate.«La calerò giù a mano, signore.» gridò.Urlò anche qualcosa a proposito del fumaiolo che sem-brava pronto a partire anche lui. Jukes pensò che eraprobabile e immaginò le caldaie spente e la nave alla de-riva… Il nostromo, al suo fianco, continuava a gridare.«Cosa? Cosa c’è?» urlò Jukes agitato.E l’altro rispose: «Che direbbe la mia vecchia moglie semi vedesse adesso?»Nel corridoio, che era invaso dall’acqua che schizzavaovunque nel buio, gli uomini erano immobili comemorti, finché Jukes non inciampò in uno di loro e lo ma-ledì selvaggiamente perché impediva il passaggio. Alloradue o tre voci si levarono per chiedere ansiose e timide:«Abbiamo qualche speranza, signore?»«Che c’è, siete impazziti?» disse brutalmente. Pensò che avrebbe potuto mescolarsi con loro e nonmuoversi più. Gli uomini però sembrarono rinfrancatie con ossequiose raccomandazioni «Attento! Faccia at-tenzione al portello, signore.» lo aiutarono a scenderenella carbonaia. Il nostromo ruzzolò dietro di lui e, ap-pena rialzatosi, esclamò «Mia moglie direbbe “Così im-pari, vecchio scemo, ad andare per mare”.»Il nostromo era benestante e non perdeva occasione perfarlo sapere. Sua moglie – una donna alquanto obesa –e due figlie già grandi gestivano un negozio di frutta everdura a Londra, nell’East End.Al buio e instabile sulle gambe, Jukes sentì un rumoreleggero e rimbombante. Delle deboli grida si percepi-

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vano a poca distanza, sovrastate dal frastuono della tem-pesta che proveniva dall’alto. La testa gli girava. Nelbuio della carbonaia il movimento della nave sembravaanche a lui strano e minaccioso e minava la sua sicu-rezza, come non fosse mai stato imbarcato prima.Aveva una mezza idea di tornare fuori, ma il ricordodella voce del capitano MacWhirr glie lo impedì. Il suoordine era di andare a vedere. Per che cosa, poi?Avrebbe voluto saperlo. Furioso, si disse che avrebbevisto, naturalmente. Ma il nostromo, barcollando im-pacciato, lo avvertì di fare attenzione nell’aprire quellaporta; c’era in corso una furiosa rissa. E Jukes, come inpreda a un malessere fisico, chiese stizzito perché dia-volo stessero lottando.«Dollari! Dollari, signore. Tutti i loro schifosi bauli sisono rovesciati. Quel maledetto denaro è schizzato dap-pertutto e loro lo rincorrono rotolandosi l’uno addossoall’altro, graffiandosi e mordendosi come matti. C’è ve-ramente una specie d’inferno laggiù.»Jukes aprì di colpo la porta. Il nostromo, che era basso,spiò da sotto il suo braccio. Una delle lampade eraspenta, forse rotta. Grida rancorose e stridule risuona-vano fortissime alle loro orecchie e si sentiva uno stranosuono affannato, l’ansimare di quei petti sotto sforzo.Un forte colpo scosse la fiancata della nave; l’acqua sirovesciò di sopra con incredibile violenza e nel prosce-nio di quell’oscuro teatro, dove l’aria era rossastra edensa, vide una testa sbattere violentemente sul ponte,due grossi polpacci che scalciavano in alto, delle bracciarobuste avvolte intorno a un corpo nudo, un musogiallo, con la bocca aperta e gli occhi selvaggiamentesbarrati, che lanciò un’occhiata e svanì. Un baule vuoto

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si rovesciò; un uomo cadde a testa in giù con un salto,come spinto giù da un calcio; più avanti, nella penom-bra, altri uomini rotolavano come massi che cadono daun pendio battendo i piedi sul ponte e agitando selvag-giamente le braccia. La scaletta del boccaporto era pienadi cinesi che sciamavano come api su un ramo. Appesiagli scalini in grappoli agitati e brulicanti, battevano for-sennatamente coi pugni la parte inferiore del bocca-porto, sbarrato con le assi, mentre negli intervalli fra leloro grida si sentiva l’acqua che si rovesciava di sopra.La nave sbandò di nuovo e i cinesi cominciarono a ca-dere giù, prima uno, poi due, poi tutti gli altri insieme,dritti a terra con alte grida.Jukes era rimasto perplesso e il nostromo, con la voceroca e agitata, l’implorò:«Non vada laggiù, signore.»Tutto il locale sembrava girare su se stesso, continuandoa sobbalzare; e quando la nave fu sollevata da un’on-data, Jukes immaginò che quegli uomini potesseropiombare su di lui tutti insieme, come un unico corpo.Tornò fuori, sbatté la porta e con la mano tremantespinse il catenaccio…Appena partito il suo secondo, il capitano MacWhirr,rimasto solo sul ponte di comando, si era avviato concautela e barcollando verso la timoniera. La porta eraincernierata verso l’esterno e dovette quindi lottare colvento per aprirla; quando alla fine fece per entrare, fucome un’esplosione istantanea, come fosse stato sparatoattraverso la porta. E si trovò sbattuto all’interno, inpiedi, con la maniglia in mano.Dal timone fuoriusciva del vapore e nel ristretto spazio ilvetro della chiesuola appariva come un ovale luminoso

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avvolto da una nebbiolina fine e bianca. Il vento ululava,ronzava e fischiava, con improvvise raffiche rimbombantiche facevano sbattere le porte e i portelli in un violentoesplodere di spruzzi. Due rotoli di sagola per scandaglioe un sacchetto di tela penzolavano avanti e indietro appesia una lunga cima, sbattendo contro la paratia. Le gratesotto i piedi erano pressoché sommerse; a ogni ondatal’acqua schizzava con violenza attraverso le fessure in-torno alla porta e l’uomo al timone si era tolto il berrettoe la giacchetta e stava in piedi appoggiato alla scatola dellatimoniera con la sola camicia a righe aperta sul petto. Lapiccola ruota di ottone che reggeva con le mani sembravauno splendente e fragile giocattolo. I tendini del colloerano duri e tesi, nel cavo della gola una macchia nera eil volto immobile e incavato come un morto.Il capitano MacWhirr si asciugò gli occhi. L’ondata, chel’aveva quasi trascinato fuori bordo, con suo grande di-spetto gli aveva portato via il cappello sud-ovest che ri-parava la testa quasi calva. La bionda e soffice peluria,fradicia e scurita, sembrava una squallida matassa di co-tone che incoronava il cranio nudo. Il volto, lucido perl’acqua, era arrossato dal vento e dagli spruzzi. Sembravache fosse appena uscito tutto sudato da una fornace. «È qui lei?» borbottò serio.Il secondo ufficiale era riuscito a raggiungere la timo-niera già da un po’ di tempo. Si era seduto in un angolocoi ginocchi sollevati e i pugni contro le tempie; quellaposizione suggeriva rabbia, tristezza, rassegnazione,resa, con anche una certa aria di rimprovero risentito.Disse con tono lugubre e sprezzante:«Allora? non è il mio turno di guardia, mi pare.»Gli ingranaggi a vapore sferragliarono, si arrestarono e

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ripresero di nuovo a sferragliare; e i bulbi oculari del ti-moniere parevano proiettarsi fuori da quel volto alluci-nato che sembrava il quadrante della bussola fatto dicarne all’interno della chiesuola in vetro. Dio solo saquanto tempo era rimasto lì da solo al timone, dimenti-cato dal resto dell’equipaggio. La campana non aveva piùsuonato; non c’erano stati avvicendamenti; la tempestaaveva fatto saltare la ruotine di bordo; ma lui cercava ditenere la prua a nord-nord-est. Il timone poteva esserefuori uso, per quanto ne sapeva, così come le caldaie e imotori, e la nave pronta a capovolgersi come un cadavere.Si preoccupava di non sbagliare e di non perdere la rotta,perché il quadrante della bussola oscillava nei due sensi,si agitava sul suo perno e a volte sembrava fare un girocompleto. Era molto stressato e aveva anche una grandepaura che la cabina della timoniera si sfasciasse, perchéle enormi ondate continuavano a tempestarla. Ogni voltache la nave faceva uno dei suoi spaventosi tuffi in avantigli angoli delle sue labbra si contraevano.Il capitano Macwhirr guardò l’orologio della timoniera.Avvitato alla parete, aveva un fondo bianco sul quale lelancette nere sembravano immobili. Era l’una e mezzodel mattino.«Un altro giorno» borbottò fra sé.Il secondo ufficiale lo sentì e sollevando la testa comeun uomo che piange fra le rovine:«Non lo vedrà sorgere» esclamò con i polsi e le ginoc-chia che tremavano vistosamente «No, per Dio! Non lovedrà…» e incassò di nuovo la testa fra i pugni.Il timoniere aveva fatto un leggero movimento colcorpo, ma la testa era rimasta immobile sul collo, comequella di una statua che dall’alto di una colonna fissa in

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una direzione. A una sbandata della nave, che per poconon gli fece perdere l’equilibrio mandandolo a gambeall’aria nonostante gli stivali, il comandante disse severo:«Non faccia attenzione a quello che dice.» E poi, conun impercettibile cambio di espressione «Non è in ser-vizio.»Il marinaio non rispose.L’uragano imperversava scuotendo la cabina, che sem-brava chiusa ermeticamente; e la luce della chiesuolacon tinuava a tremolare.«Non le hanno dato il cambio» proseguì il capitanoMacWhirr, guardando in basso. «Voglio comunque chestia incollato al timone finché ce la fa. Ormai ci ha presola mano e adesso, al suo posto, un altro potrebbe com-binare qualche guaio. Non funzionerebbe. Non è ungioco da ragazzi. E gli uomini probabilmente hannoaltro da fare giù… Crede di potercela fare?»Il timone fece improvvisamente un rumore di ferragliae si arrestò emettendo vapore come un tizzone; l’uomo,immobile e con lo sguardo fisso, scoppiò come se la suatensione si concentrasse sulle labbra: «Santo cielo, si-gnore! Posso stare al timone in eterno, se nessuno miparla.»«Oh! Molto bene…» Il comandante guardò per laprima volta l’uomo «...Hackett.»E sembrò voler cambiare discorso. Si chinò sul porta-voce della sala macchine, soffiò e avvicinò la testa. Il si-gnor Rout rispose da sotto e subito il capitano MacWhirrappoggiò le labbra al tubo.Col frastuono della tempesta tutt’intorno, appoggiò al-ternativamente le labbra e l’orecchio e la voce del diret-tore di macchina gli arrivò, stridula come uscita da una

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frenetica lotta. Uno dei fuochisti era fuori gioco e glialtri non ce la facevano più; il secondo di macchina con-trollava la valvola del vapore. Si dovevano seguire ma-nualmente le macchine. E su, come andava?«Abbastanza male. Dipende tutto da voi», disse il capi-tano MacWhirr. Il secondo era già lì? No? Bene, sarebbearrivato subito. Il signor Rout doveva mandarglielo alportavoce, quello sul ponte, perché lui stava uscendofuori. C’erano problemi coi cinesi. Sembrava che si stes-sero azzuffando. Non poteva permettere in nessun modoche si scatenasse una rissa a bordo…Il signor Rout se n’era andato e il capitano MacWhirrsentiva all’orecchio il pulsare dei motori, come il battitodel cuore della nave. La voce di Rout gridò qualcosa dalbasso e distante. La nave s’inchinò in un profondo bec-cheggio, le pulsazioni delle macchine divennero uno stri-dio tumultuoso e si arrestarono. Il volto del comandanteera impassibile e gli occhi fissi inutilmente sulla sagomaaccovacciata del secondo ufficiale. La voce di Rout ri-suonò di nuovo dal basso e le macchine ripresero a pul-sare, con colpi prima lenti e poi sempre più frequenti.Il signor Rout era tornato al portavoce. « Cosa faccianoquelli ha poca importanza», disse frettolosamente, e poiirritato «Prende queste ondate come se non volesse piùriemergere.»«Terribile questo tempo» disse la voce del comandanteda sopra.«Non me la faccia colare a picco» abbaiò Solomon Routsul tubo portavoce. «È buio e piove. Non riesco a vedere cosa succede» esclamòla voce. «Deve… farla avanzare… quanto basta per potergovernare… e provare a farcela», proseguì sillabando.

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«Faccio quello che posso.»«Qui sopra… c’è un bel… macello» continuò la fievolevoce. «Comunque… ce la facciamo. Certo, purché il ti-mone non molli…» Con l’orecchio teso, Rout borbottò qualcosa, sospi-rando stizzito.Ma la tranquilla voce dall’alto si fece più agitata, chie-dendo: «Non si è ancora visto Jukes?»Poi, dopo una pausa «Vorrei che desse una mano. Vo-glio che si muova e che torni qui per ogni evenienza. Perbadare alla nave. Sono completamente solo. Non possocontare sul secondo ufficiale…»«Come?» gridò Rout dalla sala macchine, tenendo indie-tro la testa. Poi tornò a gridare nel tubo: «È volato fuoribordo?» e incollò l’orecchio per sentire la risposta.«Ha perso la testa» proseguì con freddezza la voce dasopra. «Una cosa molto spiacevole.»In ascolto col collo proteso, Rout sgranò gli occhi aquelle parole. Al suo orecchio giunse invece come ilsuono di una rissa e come delle grida spezzate. Tesel’orecchio: Beale, il terzo macchinista, con le braccia al-zate, teneva tra le mani le estremità di una rotella nerache sporgeva di lato a un grande tubo di rame. Sembravatenerla in equilibrio sopra la testa, come se quella fossela corretta posizione da assumere in una specie di gioco.Per stare fermo, appoggiava le spalle alla paratia bianca,con un ginocchio piegato e uno straccio per asciugarsirimboccato alla cintura intorno alla vita. Le guance lisceerano sporche e arrossate e la polvere di carbone sullepalpebre, come la matita nera del trucco, accentuava laliquida brillantezza del bianco degli occhi, attribuendoa quel volto giovanile un qualcosa di femminile, di eso-

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tico e di affascinante. Quando la nave beccheggiava, av-vitava con forza e movimenti rapidi la rotella.«È impazzito» riprese improvvisamente la voce del co-mandante al portavoce. «Mi si è scagliato contro… Pro-prio adesso. Ho dovuto sbatterlo a terra… Un minutofa. Mi sente, signor Rout?»«Diavolo!» mormorò Rout. «Attento, Beale!»Il suo grido d’allarme risuonò come lo squillo di unatromba fra le pareti metalliche della sala macchine. Di-pinte di bianco, queste s’innalzavano verso l’osteriggio,spioventi come un tetto; e tutto quello spazio sembraval’interno di un monumento, suddiviso in piani da gratedi ferro, con lampade che oscillavano a ogni livello e unamassa scura al centro, fra il movimento in su e giù degliingranaggi sospinti dal respiro immobile dei cilindri. Ungrande e selvaggio frastuono, costituito da tutti i rumoridell’uragano, riempiva l’aria calda e immobile. Si sentival’odore di metallo surriscaldato, di olio, e tutto era av-volto in una nebbiolina di vapore. E la furia del maresembrava attraversare da parte a parte la sala macchine,con colpi sordi e rimbombanti.Dal metallo lucido si sprigionavano tremolanti bagliori,come lunghe fiamme pallide; dal pavimento emergevanoa rotazione enormi manovelle con riflessi di ottone e ac-ciaio e poi sparivano; le bielle, come arti di uno scheletro,sembravano spingerle su e giù con un ritmo implacabile.E in basso, nella penombra, altre bielle scartavano avanti eindietro con uguale precisione, le spine dei pistoni occhieg-giavano, dischi metallici scivolano fluidi l’uno sopra l’altro,piano e leggermente, in un alternarsi di bagliori e ombre.Ogni tanto tutti quei potenti e sicuri movimenti rallen-tavano simultaneamente, come le funzioni vitali di un

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organismo vivente, colpite improvvisamente da una lan-guida inerzia; e gli occhi del signor Rout si accendevanopreoccupati nel volto giallognolo e allungato. Stavacombattendo quella battaglia con un paio di ciabatte dipanno. Una corta giacchetta lucida gli copriva a mala-pena la schiena e i polsi bianchi uscivano di molto dallemaniche striminzite, come se l’emergenza avesse accre-sciuto la sua statura, allungato i suoi arti, accentuato ilpallore e infossato gli occhi. Si muoveva in continuazione, salendo su e sparendo ingiù, con incessante e determinato attivismo e, quandostava fermo, reggendosi alla ringhiera davanti all’ingra-naggio di avvio, guardava fisso sulla destra ai manometridel vapore e dell’acqua fissati alla parete bianca e illu-minati da una lampada oscillante. Le bocche di due tubiportavoce sbadigliavano ottusamente all’altezza del suogomito e il quadro del telegrafo della sala macchinesembrava quello di un grande orologio con brevi paroleinvece di cifre. I gruppi di lettere, disposti intorno alperno della lancetta, risaltavano con grande evidenza innero, come simboli di enfatiche esclamazioni: AVANTI,INDIETRO, ADAGIO, MEZZA, ATTENZIONE; e la grossalancetta nera puntava in basso verso la parola TUTTA,che, così selezionata, attirava lo sguardo come un gridoacuto richiama l’attenzione.La massa del cilindro a bassa pressione, rivestita di legnoe incombente dall’alto, emetteva un debole rantolo aogni spinta ma, a parte quel sibilo profondo, i motorimuovevano le loro membra di acciaio, veloci o lente, masempre con una decisa e silenziosa regolarità. E tuttoquanto – le pareti bianche, l’acciaio in movimento, le la-stre del pavimento sotto i piedi di Solomon Rout, le grate

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di ferro sopra la sua testa, le ombre e i luccichii – tuttosaliva e scendeva continuamente, in accordo col violentocozzare delle onde contro il fianco della nave. Quel gran-dioso vano, dove rimbombava la forte eco del vento,oscillava in alto come un albero e si muoveva come fossestrattonato qua e là dalle enormi scosse.«Deve sbrigarsi» gridò il signor Rout quando vide com-parire Jukes sulla porta della sala macchina.Lo sguardo di Jukes vagava in giro confuso e il viso rossoera gonfio come si fosse appena alzato dopo una lungadormita. Aveva fatto un percorso molto difficile e l’avevacompiuto con grande destrezza, perché all’agitarsi delsuo animo rispondeva un fisico ben esercitato. Era uscitodi corsa dalla carbonaia, inciampando nel corridoio buiofra tutti quegli uomini sbigottiti che, mentre lui li calpe-stava, chiedevano: «Cosa c’è, signore?», mormorandogliintorno con deferenza; poi si era precipitato giù per lascaletta della sala macchine, saltando nella fretta moltiscalini di ferro, giù in quella specie di pozzo, nero comel’inferno, che si muoveva avanti e indietro come un’alta-lena. A ogni rollio le acque di sentina rombavano frago-rosamente e pezzi di carbone rotolavano avanti eindietro, da un fianco all’altro, producendo il rumore diuna valanga di sassolini su una lastra di ferro in discesa.Qualcuno laggiù si lamentava penosamente e qualcun altropareva accovacciato su ciò che sembrava un cadavere; unavoce imprecava energicamente; e il bagliore sotto ogni por-tello delle caldaie era come una pozza di sangue fiammeg-giante che irradiava quietamente il buio vellutato.Una raffica di vento colpì alla nuca Jukes, che subito lasentì scivolare fino alle caviglie bagnate. Gli areatoridella sala macchine ronzavano; di fronte ai sei portelli

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delle caldaie due figure selvagge, a torso nudo, si china-vano barcollanti, agitando due pale.«Salve! Un sacco d’aria adesso», gridò subito il secondodi macchina, come fosse stato tutto il tempo ad aspet-tare Jukes. L’addetto alle caldaie, un tipetto con la pelleliscia e luccicante e baffi sottili e rossicci, lavorava in unaspecie di trance. Stavano tenendo le caldaie alla massimapressione e un rombo profondo, come quello di un fur-gone vuoto che passa sopra un ponte, faceva da con-trappunto a tutti gli altri rumori del locale.«Qui si vola tutto il tempo» proseguì gridando il se-condo macchinista. Col rumore prodotto da cento pa-delle grattate, la manica di un areatore gli rovesciò sullespalle un improvviso getto di acqua salata e lui scaricòun fiume di maledizioni su tutto il mondo, inclusa la suaanima, imprecando, ma continuando a lavorare. Con unsecco colpo metallico il pallido bagliore ardente delfuoco si aprì sulla sua testa a palla, scoprendo le labbrafarfuglianti e il volto insolente, e con un nuovo colposecco si richiuse come la strizzatina d’occhio incande-scente di un occhio di ferro.«Si può sapere dov’è questa maledetta nave? Lo sa lei?Accidenti a me! Sott’acqua, o che cosa? Qui giù arrivanotonnellate d’acqua. Quei dannati coperchi sono andatial diavolo? Ehi? Sa dirmi qualcosa, bravo marinaio…?»Dopo un attimo di sorpresa, Jukes era stato spintoavanti da un rollio e fece appena in tempo ad abbrac-ciare con lo sguardo la vasta, tranquilla e luccicante salamacchina, che la nave, poggiandosi pesantemente aprua, lo proiettò a testa bassa addosso al signor Rout.Col braccio lungo come un tentacolo e scattante comeuna molla, il direttore di macchina gli andò incontro e

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deviò la sua corsa verso i portavoce. Al contempo an-dava ripetendo con solerzia:«Deve muoversi, in tutti i modi.»Jukes gridò «È lì, signore?» e rimase in ascolto. Niente.Il ruggito del vento piombò improvvisamente sulle sueorecchie, e poi una vocetta si insinuò pacata accanto allostrepito dell’uragano.«È lei, Jukes? Allora?»Jukes non aspettava altro che il momento buono per par-lare. Era abbastanza calmo per raccontare tutto. Potevabenissimo immaginare i cinesi rinchiusi in quel puzzo-lente ponte sottocoperta, terrorizzati e con la nausea inmezzo alle file dei loro bauli. Poi durante un rollio unadi quelle casse – o forse alcune tutte insieme – si eranoliberate dai fermi ed erano franate sulle altre, spaccan-dosi e scoperchiandosi, con tutti quei cinesi che balza-vano su tutti insieme per salvare i loro averi. E poi a ognimovimento della nave quella massa di gente vagante eurlante veniva sbattuta qua e là, da una fiancata all’altra,in un turbine di legno fracassato, vestiti strappati e mo-nete che rotolavano. Una volta iniziato lo scontro, nonerano più capaci di fermarsi. Niente poteva arrestarliadesso, solo un atto di forza. Era un disastro. Lui l’avevavisto e poteva riferire solo quello. Pensava che qualcunofosse rimasto ucciso. Gli altri continuavano a darsele…Spedì su le sue parole, che inciampavano una sull’altraintasando lo stretto tubo portavoce. E le parole salironocome in un mondo silenzioso, dove un’illuminata sag-gezza sembrava convivere con una tempesta. E Jukesvoleva essere esentato dal dover assistere a quello spia-cevole evento che si aggiungeva alle gravi difficoltà incui versava la nave.

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V

Aspettò. Davanti ai suoi occhi le macchine giravano conuna lena tranquilla, che improvvisamente sembrava tra-dursi in un folle corsa, per poi arrestarsi al grido di Rout«Attenzione, Beale!» Rimanevano ferme in una immo-bilità intelligente, congelate a mezza corsa, con una pe-sante manovella sospesa in obliquo, come fosseroconsapevoli del pericolo e del passare del tempo. Poi, aun «Via, adesso!» lanciato dal capo e al suono del fiatoespulso attraverso i denti stretti, completavano la rota-zione interrotta e ne iniziavano un’altra.Nei loro movimenti c’era la prudente sagacia della sag-gezza e la volontà di una forza enorme. Questo era illoro lavoro, spingere una nave riottosa nella furia delleonde e nell’occhio del ciclone. A volte il signor Routsprofondava il mento nel petto e guardava le macchinecon la fronte corrugata, come perso nei suoi pensieri.La voce che teneva l’uragano fuori dalle orecchie diJukes riprese a parlare: «Prenda con sé gli uomini…» epoi s’interruppe all’improvviso.«Che posso fare con loro, signore?»Un secco, repentino e imperioso fragore metallicoesplose inaspettato. Le tre paia di occhi corsero al qua-drante del telegrafo di macchina per vedere la lancettasaltare da TUTTA a STOP, come spinta da un demonio.E i tre uomini nella sala macchine ebbero la profonda

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percezione di un ostacolo che si opponeva alla nave, diuna strana contrazione, come se raccogliesse le forze perun ultimo balzo disperato. «Ferma!» grido il signor Rout.Nessuno – neanche il capitano MacWhirr, che da solosul ponte di comando si era accorto di un fronte biancodi schiuma che avanzava a una tale altezza da non cre-dere ai propri occhi – nessuno poteva immaginarequanto fosse alta e ripida quell’incredibile onda equanto fosse spaventosamente profondo l’abisso chel’uragano aveva scavato dietro quel muro d’acqua inmovimento.L’onda correva incontro alla Nan-Shan che, dopoun’esitazione, sollevò la prua e fece un balzo. Le fiammedi tutte le lampade divennero fioche, lasciando la salamacchine al buio. Una si spense completamente. Conun violento schianto e un tumulto turbinoso e folle,tonnellate di acqua si rovesciarono sul ponte, come sela nave fosse stata scagliata ai piedi di una cataratta.Laggiù tutti incrociarono gli sguardi, sbigottiti.«Inondata da cima a fondo, mio Dio!» gridò Jukes.La nave sprofondò giù nell’abisso, come per valicare iconfini del mondo. Con uno spaventoso frastuono dioggetti metallici, la sala macchine fu catapultata pauro-samente in avanti, come l’interno di una torre che oscilladurante un terremoto. La Nan-Shan rimase sospesa inquella china terribile abbastanza a lungo da permetterea Beale di crollare sulle ginocchia e le mani e cominciarea strisciare, come volesse scappare in quel modo dallasala macchine, e al signor Rout di girare lentamente latesta, rigida e incavata, con la mascella inferiore abbas-sata. Jukes aveva chiuso gli occhi e in un attimo il suo

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volto divenne spento e dolce, come quello di un cieco.Poi la nave risalì lentamente, barcollante, come dovessesollevare una montagna con la prua. E il signor Rout ri-chiuse la bocca, Jukes sbatté gli occhi e il giovane Bealesi alzò di corsa.«Un’altra come questa e sarà l’ultima per la nave», gridòil direttore di macchina. Scambiò un’occhiata con Jukese tutti e due ebbero lo stesso pensiero. Il comandante!Tutto doveva essere stato spazzato via. Il timone era cer-tamente andato, la nave ridotta a un tronco in balia delleonde. Era tutto finito.«Muoversi!» imprecò confusamente il signor Rout,guardando con gli occhi sgranati e dubbiosi Jukes, chegli rispose con un’occhiata incerta.Il rumore metallico del gong del telegrafo di macchinagiunse subito a confortarli. La lancetta nera passò in unattimo da STOP a TUTTA.«Via adesso, Beale!» gridò il signor Rout.Il vapore sibilava basso. Le aste dei pistoni scivolavanodentro e fuori. Jukes poggiò l’orecchio al tubo porta-voce. La voce era lì pronta per lui, e disse:«Raccolga tutti i soldi. Si muova, mi serve quassù.» E fututto.«Signore?» richiamò Jukes. Ma nessuno rispose.Si allontanò barcollante come un uomo sconfitto dalcampo di battaglia. Aveva rimediato, senza sapere come,un taglio profondo fino all’osso sopra il sopracciglio si-nistro. Non se n’era minimamente accorto; il Mar dellaCina gli aveva rovesciato sulla testa tanta acqua salatada staccargli il collo dal busto, lavando la ferita, che nonsanguinava più, ma rimaneva aperta e arrossata. E queltaglio sopra l’occhio, i capelli arruffati e gli abiti sgualciti

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gli conferivano l’aspetto di un uomo che aveva avuto lapeggio in una scazzottata.«Dobbiamo raccogliere i soldi.» si rivolse al signor Rout,con un sorriso patetico e distratto.«Come?» chiese brusco il signor Rout. «Raccogliere...?Non mi riguarda...» Poi, innervosito e con un tono esa-geratamente paterno «Andate adesso, per l’amor di Dio.Voi di sopra mi fate diventare pazzo. Il secondo ufficialeha aggredito il vecchio, non lo sapeva? Non avendoniente da fare voi in coperta date di matto...»Jukes sentì ribollire il sangue a quelle parole. Sì, proprioniente da fare... Furioso nei confronti del direttore dimacchina, si girò per andarsene da dove era venuto. Ilpaffuto fuochista si dava da fare con la pala alle caldaie,in silenzio, come gli avessero tagliato la lingua, mentreil secondo macchinista continuava imperterrito a lavo-rare rumorosamente, come un pazzo che fosse ancoracapace di alimentare la caldaia di una nave.«Salute, ufficiale vagabondo! Ehi! Perché non portaqualcuno dei suoi fannulloni a raccattare un po’ di que-sta cenere? Mi sta soffocando, per la miseria! Ehi! Ri-corda cosa dice il regolamento: marinai e fuochisti sidevono aiutare fra loro. Ehi! Mi ha sentito?»Jukes stava salendo la scala frenetico e l’altro, alzandola faccia verso di lui, gridò:«Non dice nulla? Cos’è venuto a fare quaggiù? Allora,a che gioco sta giocando?»Jukes era fuori si sé. Quando raggiunse di nuovo l’equi-paggio nel buio del corridoio era pronto a torcere ilcollo al primo che si fosse mostrato esitante. La cosa loesasperava. Lui doveva darsi da fare. E anche gli altridovevano.

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La furia con cui piombò fra loro li trascinò. Si erano giàsmossi e allertati nel vederlo passare avanti e indietro,nel vedere i suoi movimenti rapidi e rabbiosi; in veritàl’avevano più sentito che visto, ma a loro sembrò irresi-stibile, alle prese con questioni di vita o di morte, chenon ammettevano ritardi.Non fece in tempo a parlare che tutti si calarono obbe-dienti nella carbonaia, uno dopo l’altro con un rumoresordo.Non sapevano esattamente cosa dovevano fare. «Cosac’è? Cosa c’è?» si chiedevano. Il nostromo cercò di spie-gare; restarono sorpresi nel sentire il rumore della rissa;i forti colpi che rimbombavano sinistri nella buia car-bonaia fecero loro capire il pericolo incombente.Quando il nostromo aprì la porta sembrò che la violenzadell’uragano, passato attraverso le fiancate della nave,stesse trascinando tutti quei corpi, come fossero pol-vere, in un vortice da cui arrivava un rumore confuso,un impetuoso tumulto, un feroce brontolio, esplosionidi grida che si spegnevano lontano e un pesante scalpic-cio mescolato ai colpi della tempesta.Per un attimo restarono a guardare sbigottiti, assiepatialla porta. Jukes li spinse con forza e, senza dire niente,si precipitò dentro. Un gruppo di cinesi arrampicatisulla scaletta, che lottavano disperatamente per usciresulla coperta inondata attraverso il boccaporto spran-gato, crollò giù e Jukes scomparve sotto di loro cometravolto da una frana.Il nostromo gridò concitato: «Andiamo. Tiriamolofuori. Finirà per soffocare. Forza.»E gli uomini si lanciarono, calpestando petti, dita, facce,prendendo a calci brandelli di stoffa e pezzi di legno;

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ma prima che lo raggiungessero Jukes emerse con la vitada una moltitudine di mani protese. In quell’attimo incui era scomparso alla vista tutti i bottoni della giaccaerano schizzati via, sulla schiena il tessuto si era squar-ciato fino al colletto e il panciotto si era strappato com-pletamente. La massa di cinesi al centro si mossenuovamente, scura, indistinta, in balia del rollio, col sel-vaggio scintillio di tutti quegli occhi alla debole lucedelle lampade.«Lasciatemi, maledizione. Sto bene.» gridò Jukes.«Spingeteli avanti. Approfittate quando la nave si ap-prua. Andate avanti con loro, spingeteli e schiacciatelicontro la paratia.»L’irruzione dei marinai nel ponte sottocoperta in ebol-lizione fu come un getto di acqua fredda in una caldaiasurriscaldata. L’agitazione si calmò per un momento.La massa di corpi era serrata in una mischia talmentecompatta che, facendo cordone con le braccia e aiutatida un forte beccheggio della nave, i marinai riuscironoa schiacciarla a prua come un blocco solido conun’unica spinta energica. Alle loro spalle piccoli grap-poli di cinesi e alcuni corpi isolati continuavano a roto-lare da una fiancata all’altra.Il nostromo mise in mostra la sua prodigiosa forza. Conle lunghe braccia aperte e con le enormi mani strette a unappiglio, arrestò la corsa di sette cinesi aggrovigliati cherotolavano come un masso. Le sue ossa scricchiolaronoe disse solo: «Ah!» e quelli si sciolsero. Il carpentiere in-vece dette prova di grande intelligenza. Senza dire unaparola tornò nel corridoio per prendere del materiale peril carico che aveva visto laggiù, matasse di funi e catene.Con queste furono creati dei cordoni di sicurezza.

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Ma in realtà non ci fu resistenza. Così com’era comin-ciata, la rissa si mutò presto in una mischia di panicocieco. Se prima i cinesi si erano lanciati a rincorrere iloro dollari sparpagliati, adesso lottavano solo per re-stare in piedi. Si prendeva per la gola solo per evitare diessere spinti via. Chi riusciva ad aggrapparsi a qualcosaprendeva a calci gli altri, che gli restavano attaccati allegambe finché un rollio li spediva a rotolare tutt’insiemeda un lato all’altro del ponte.L’arrivo degli uomini bianchi aveva portato il terrore.Erano forse venuti per ucciderli? I cinesi separati dalmucchio divennero come agnellini nelle mani dei mari-nai. Alcuni, trascinati via per i piedi, restavano passivicome morti, con gli sbarrati; altri cadevano in ginocchiocome implorando pietà; altri ancora, resi riottosi dal ter-rore, ricevevano dei gran pugni in faccia e stramazza-vano; mentre quelli che erano feriti si lasciavanomaltrattare, sbattendo solo le palpebre senza lamentarsi.I volti erano pieni di sangue; sulle teste rasate spicca-vano chiazze rosse, graffi, ammaccature, ferite e lacera-zioni. Queste ultime erano in gran parte provocate dalleporcellane rotte che erano uscite dai bauli. Qua e là uncinese, con gli occhi stralunati e il codino sciolto, si cu-rava il piede sanguinante.Erano stati ridotti alla ragione con qualche schiaffo percalmare l’eccitazione e parole d’incoraggiamento chesuonavano come minacce, e infine raccolti in un gruppocompatto. Si sedettero sfiniti sul tavolato allineati in filespettrali e il carpentiere, con altri due uomini, andò dauna parte all’altra tendendo e stringendo il cordone disicurezza. Il nostromo, abbarbicato con un braccio e unagamba a un candeliere, cercava disperatamente di far

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luce con una lampada stretta al petto, grugnendo tuttoil tempo come un gorilla indaffarato. Le figure dei mari-nai si chinavano in continuazione, con i movimenti diuna spigolatrice, gettando tutto ciò che trovavano nellacarbonaia: vestiti, pezzi di legno, porcellane rotte e anchemonete, raccolti dentro le camicie. Ogni tanto uno deimarinai andava barcollando verso l’uscita con le bracciapiene di rottami, seguito da sguardi obliqui e dolenti.A ogni rollio della nave le lunghe file di cinesi seduti sulpavimento oscillavano a scatti in avanti e a ogni pro-fondo beccheggio le teste rasate si urtavano fra loro daun capo all’altro della fila. Quando lo sciabordio del-l’acqua che scorreva sul ponte si arrestò per un attimo,a Jukes, ancora ansimante per la fatica, sembrò di averin qualche modo avuto la meglio anche sul vento conquella folle lotta sottocoperta; gli sembrò che sulla navefosse calato il silenzio, un silenzio in cui rimbombavanoancora i colpi del mare sulle fiancate. Tutto era stato portato via dal ponte sottocoperta; tuttii relitti, come dissero gli uomini dell’equipaggio. I ma-rinai stavano in piedi barcollando sopra le teste e lespalle chine dei cinesi. Qua e là si sentiva singhiozzaree ansimare qualcuno di loro. Dove cadeva la luce Jukespoteva vedere le costole sporgenti di uno, il volto gialloe pensoso di un altro, i colli piegati; oppure incrociavauno sguardo triste rivolto verso di lui. Era stupito chenon ci fossero stati dei morti; ma molti di loro sembra-vano sul punto di esalare l’ultimo respiro e gli facevanopiù pena che se fossero tutti morti.Improvvisamente uno dei cinesi parlò. La luce andava eveniva sul suo volto smunto e straziato; volse in alto latesta come un cane che abbaia. Dalla carbonaia giunse il

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rumore di oggetti che sbattevano e il tintinnare di moneteche rotolavano; sollevò un braccio, spalancò la bocca egli incomprensibili suoni gutturali, che non sembravanoprovenire da una specie umana, impressionarono Jukes,come se un selvaggio avesse cercato di farsi capire.Altri due cominciarono a balbettare cose che a Jukesparvero delle violente denunce; gli altri si agitavano congrugniti e brontolii. Jukes ordinò all’equipaggio di ab-bandonare di corsa il ponte sottocoperta. Lui rimase perultimo, arretrando verso l’uscita, mentre i grugniti simutarono in un alto mormorio e in mani tese contro dilui, come contro un malfattore. Il nostromo tirò il cate-naccio e disse un po’ agitato: «Sembra che il vento siacalato, signore.»I marinai erano ben contenti di tornare nel corridoio.Dentro di sé, ciascuno di loro pensava che, all’ultimominuto, da lì sarebbe potuto uscire direttamente in co-perta, e questo li tranquillizzava. L’idea di morire anne-gati sotto il ponte era per loro orribilmente ripugnante.Ora che avevano chiuso la questione dei cinesi, torna-vano a preoccuparsi della situazione della nave.Appena uscito dal corridoio, Jukes si trovò immerso finoal collo nell’acqua. Raggiunse il ponte di comando e si ac-corse che poteva individuare delle forme scure come se lasua vista fosse diventata improvvisamente acuta. Non ri-cordavano l’aspetto familiare della Nan-Shan, ma piutto-sto qualcosa di legato ai suoi ricordi, un vecchio piroscafoin disarmo che anni prima aveva visto in disfacimento suuna secca. La Nan-Shan ricordava quel relitto.Non c’era più un alito di vento, a parte le lievi correntid’aria provocate dalle oscillazioni della nave. Il fumoche fuoriusciva dal fumaiolo si depositava sul ponte e,

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avanzando verso prua, Jukes lo respirò. Percepiva di-stintamente il palpitare dei motori e deboli suoni chesembravano avere soppiantato il frastuono di prima: losbattere di alcune giunture rotte o alcuni rottami cherotolavano veloci sul ponte. Intravide la figura curva delcomandante che si reggeva a una battagliola tutta con-torta, immobile e oscillante come se avesse messo radicisul tavolato. Quella calma sorprendente lasciava inJukes un senso di inquietudine.«Ce l’abbiamo fatta, signore» disse ansimando.«Non avevo dubbi» rispose il capitano MacWhirr.«Davvero?» mormorò Jukes fra sé.«Il vento è calato improvvisamente» proseguì il coman-dante.E Jukes esplose: «Non penserà mica che sia stato unoscherzo?…».Ma il comandante, aggrappato alla battagliola, non gliprestò attenzione.«Secondo quello che dicono i libri non è ancora finita.»«Se la gran parte di loro non fosse stata mezzo mortaper il mal di mare e la paura, nessuno di noi sarebbeuscito vivo da quel ponte sottocoperta», disse Jukes.«Si doveva fare ciò che è giusto per loro», mormoròMacWhirr imperturbabile. «Non si trova mica tutto neilibri.»«Credo proprio che ci sarebbero saltati addosso se nonavessi ordinato agli uomini di uscire di corsa da laggiù»,proseguì Jukes accalorato.Adesso le parole pacate arrivavano forti e chiare alleloro orecchie in quel sorprendente silenzio, mentreprima le grida parevano sussurri. Sembrava stessero par-lando sotto una volta cupa che emetteva un’eco.

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Attraverso un’apertura irregolare nella cappa di nubi al-cune stelle riflettevano la loro debole luce sul nero delmare agitato, che continuava a gonfiare e sprofondarsi.A volte un mulinello d’acqua si rovesciava in copertaunendosi al turbine di schiuma che inondava il ponte; ela Nan-Shan continuava a rollare al fondo di una speciedi vasca circolare di nubi. Quell’anello di vapori densi,che vorticava violento intorno alla calma centrale, circon-dava la nave come un muro immobile e compatto di unaspetto incredibilmente sinistro. All’interno di questocerchio, come agitato da una profonda eccitazione, ilmare si sollevava in montagnole aguzze che si scontra-vano fra loro e andavano a infrangersi violentemente con-tro le fiancate della nave; e un debole rumore, l’infinitolamento della tempesta furiosa, giungeva da oltre i confinidi quella calma minacciosa. Il capitano MacWhirr restavain silenzio e l’orecchio attento di Jukes colse improvvisa-mente il lontano muggito di un’onda gigantesca che sistava precipitando da qualche parte, invisibile sottoquella densa oscurità, che limitava il suo campo visivo.«Naturalmente», riprese a dire risentito «pensavano cheavessimo approfittato dell’occasione per derubarli.Certo! Ci aveva detto di raccogliere il denaro. Più facilea dirsi che a farsi. Non potevano sapere quello che ave-vamo in testa. Siamo piombati come fulmini in mezzo aloro. Dovevamo coglierli di sorpresa.» «Quel che è fatto è fatto...» borbottò il comandante,senza volgere lo sguardo a Jukes. «Dovevamo fare ciòche era giusto.»«Dovremo fare i conti quando tutto questo sarà finito»,disse Jukes amareggiato. «Voglio vedere che succedequando si saranno ripresi. Ci salteranno alla gola. Non

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dimenticate, signore, che la nave non è più inglese. Eanche quelle bestie lo sanno bene. Accidenti a quellabandiera siamese.»«Comunque, ci siamo noi a bordo», osservò il capitanoMacWhirr.«I guai non sono ancora finiti», insistette Jukes profeti-camente, barcollando e afferrandosi a un sostegno«E la nave è ormai un relitto», aggiunse fra sé.«I guai non sono ancora finiti», annuì il capitano Mac-Whirr sottovoce... «Pensi lei alla nave per un minuto.»«Lascia la plancia, signore?» chiese Jukes, agitato, comese temesse che la tempesta si potesse avventare su di luinon appena fosse rimasto solo al comando. Guardò lanave, squassata e solitaria, che arrancava a fatica in quelloscenario di acque scure e agitate, illuminate dai baglioridi mondi lontani. Avanzava lentamente, scaricando nel-l’epicentro immobile dell’uragano ciò che restava della suaforza in una nuvola di vapore; e la vibrazione profondadello scarico era come il suono di sfida del corno di unacreatura marina impaziente di riprendere la lotta. Nell’ariaimmobile si percepiva come un lamento. In alto sulla testadi Jukes poche stelle gettavano la loro luce su un abissodi nebbia scura. La cortina di nubi nere incorniciava lanave sotto quel frammento di cielo scintillante. Anche lestelle sembravano guardare intensamente la nave, comefosse l’ultima volta, e quello sciame di luce si posava su dilei come un diadema su una fronte corrucciata.Il capitano MacWhirr era andato nella sala nautica. Lìnon c’era luce, ma poteva ugualmente percepire la con-fusione che regnava in quel posto dove usava soggior-nare nel massimo ordine. La sua poltrona era rovesciata.I libri erano caduti in terra e sentì scricchiolare un pezzo

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di vetro sotto lo stivale. Cercò a tastoni i fiammiferi etrovò una scatola su una mensole col bordo profondo.Ne strofinò uno e, strizzando gli occhi, indirizzò la fiam-mella verso il barometro che continuava ad ammiccarecol cappello di vetro e metallo. Puntava verso il basso, incredibilmente in basso, tantoche il capitano MacWhirr emise un grugnito. Il fiammi-fero si spense e lui subito ne estrasse un altro con le suedita grosse e irrigidite. Una nuova fiammella s’illuminòdi fronte al cappello ammiccante di vetro e metallo. Isuoi occhi lo guardarono intensamente, come si aspet-tasse un segno impercettibile. Con quell’espressioneseria sembrava un pagano deforme e con gli stivali, chebruciava incenso dinanzi all’oracolo di una divinitàorientale. Non c’era dubbio: era la pressione più bassache avesse mai letto in vita sua.Il capitano MacWhirr emise un fischio profondo e ri-mase a guardare finché la fiammella si ridusse a un bar-lume azzurro, gli bruciò le dita e si spense. Forsequalcosa si era guastato nel barometro!Appeso alla parete sopra il divano c’era anche un baro-metro aneroide. Si girò in quella direzione, accese unaltro fiammifero e individuò il quadrante bianco dellostrumento che sembrava guardarlo, eloquente, incon-trovertibile, come se la scienza degli uomini fosse resainfallibile dalla materia inanimata. Adesso non c’eranoproprio dubbi. Il capitano MacWhirr si spazientì e gettòvia il fiammifero.Il peggio doveva ancora venire quindi e, se i libri dice-vano il giusto, quel peggio doveva essere molto brutto.Le ultime sei ore avevano molto arricchito la sua no-zione di cattivo tempo.

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«Sarà una cosa spaventosa», disse fra sé.A parte il barometro, non aveva guardato nient’altro allaluce dei fiammiferi; e ora in qualche modo aveva vistoche la sua bottiglia dell’acqua e i due bicchieri eranostati sbalzati dal loro alloggiamento. Questo sembròdargli una più nitida percezione dello squasso che avevasubito la nave.«Non l’avrei mai creduto», pensò.Anche il suo tavolo era stato svuotato di tutto: le suerighe, le matite, il calamaio – tutte le cose che avevanoil loro posto, ben fisso e sicuro – erano stati spazzati via,come se una mano dispettosa li avesse strappati via unoa uno e gettati sul pavimento bagnato. L’uragano avevafatto irruzione nell’ordine della sua vita privata. Non eramai successo prima e il senso di sconforto fece vacillarela sua sicurezza. E il peggio doveva ancora venire! Menomale che la rissa sottocoperta era stata scoperta intempo. Se la nave doveva comunque andare persa, al-meno non sarebbe affondata con una torma di gente checombatteva con le unghie e con i denti. Sarebbe statoveramente spiacevole. E in quel modo di pensare c’eraun impulso di umanità e un vago senso dell’ordine dellecose.Quei pensieri estemporanei erano però profondamentemeditati, perché partecipi della natura di quell’uomo. Ilcomandante allungò la mano per rimettere a posto lascatola di fiammiferi al suo posto sullo scaffale. Per suoordine, lì dovevano sempre esserci dei fiammiferi e il ca-meriere conosceva da tempo quelle istruzioni.«Una scatola... proprio qui, vede? Non completamentepiena... che possa prendere facilmente. Potrei aver bi-sogno di una luce all’improvviso. Su una nave non si sa

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mai di cosa si può aver improvvisamente bisogno. Se loricordi.»E per parte sua, naturalmente, doveva rimettere scru-polosamente la scatola al suo posto. E così fece, maprima di ritrarre la mano gli venne in mente che forsenon avrebbe più avuto occasione di usare quella scatola.Quel pensiero così vivo lo bloccò e per una frazione disecondo le sue dita si richiusero di nuovo su quel pic-colo oggetto, che sembrava simboleggiare tutte le mi-nime abitudini che ci legano al faticoso scorrere dellavita. Alla fine lo lasciò e si abbandonò sul divano perascoltare il suono del vento che si stava alzando dinuovo.Ma non era ancora il momento. Sentì solo lo sciabordioe gli schizzi violenti, i colpi sordi delle ondate che col-pivano la sua nave da tutte le parti. Non si sarebbe maispazzata via tutta quell’acqua dal ponte.Nell’aria c’era una calma tesa e inquietante, come unaspada appesa a un sottile capello sopra la sua testa. Quellapreoccupante pausa nella tempesta aggirava le difese diquell’uomo e gli sciolse la lingua. Parlò da solo nella pro-fonda oscurità della cabina, come se si rivolgesse a un’al-tra persona svegliatasi nel suo petto.«Non vorrei perderla», disse sottovoce.Rimase seduto nascosto, lontano dal mare e dalla suanave, isolato, come sospeso dal corso della sua stessa esi-stenza, dove non c’era posto per stranezze come quelladi parlare fra sé. Con le mani poggiate sulle ginocchia,inarcò il collo corto e respirò profondamente, arrenden-dosi a una strana sensazione di stanchezza che non erain grado di riconoscere come affaticamento da stressnervoso.

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Dal punto in cui era seduto poteva raggiungere con lamano la porta di un armadietto che fungeva da lavabo.Ci doveva essere un asciugamano. E c’era infatti. Bene...Lo tirò fuori, si asciugò il viso e si strofinò la testa ba-gnata. Si asciugò tutto energicamente al buio e poi ri-mase per un momento immobile con l’asciugamanosulle ginocchia, in assoluto silenzio, tanto che nessunoavrebbe immaginato che ci fosse qualcuno in cabina.Poi mormorò:«Può ancora farcela.»Quando il capitano decise bruscamente di tornare sulponte, come se avesse capito all’improvviso di esserestato via troppo a lungo, il vento era calato da più di unquarto d’ora, abbastanza da rendere quell’inquietantecalma intollerabile anche per la sua immaginazione.Jukes, immobile sul davanti del ponte di comando, co-minciò subito a parlare. La sua voce, afona e sforzatacome se parlasse a denti stretti, sembrava involarsi intutte le direzioni nelle tenebre che incombevano dinuovo sul mare.«L’ho sostituito al timone. Hackett aveva cominciato adire ad alta voce che era cotto. Adesso è steso laggiù inplancia con una faccia che sembra quella di un morto.Non è stato facile trovare qualcuno che sostituisse quelpovero diavolo. Il nostromo è peggio che meglio, l’hosempre detto. Ho pensato che era meglio andassi iostesso a prendere uno degli uomini per il colletto.»«Bene», borbotto il comandante, piazzandosi di fiancoa Jukes, attento.«Anche il secondo ufficiale è lì dentro, che si regge latesta. Ma è ferito, signore?»«No, è pazzo», disse il capitano MacWhirr, secco.

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«Ha l’aria di uno che ha fatto un volo, però.»«Ho dovuto dargli una spinta», spiegò il comandante.Jukes fece un sospiro impaziente.«Arriverà all’improvviso», disse il capitano MacWhirr,«e da laggiù, immagino. Ma, solo Dio lo sa. Quei librisono buoni solo a confonderti la testa e a innervosirti.Sarà solo una cosa molto brutta. Se solo potessimo darforza in tempo per andargli incontro...»Passò un minuto. Alcune stelle scintillarono rapida-mente e scomparvero.«Li ha lasciati al sicuro?» riprese il comandante improv-visamente, come se non potesse sostenere quel silenzio.«Sta pensando ai coolies, signore? Ho teso dei cavi disicurezza sottocoperta.»«Davvero? Buona idea, signor Jukes.»«Non pensavo... che le interessasse...», disse Jukes – ilviolento rollio della nave frammentava le sue frasi comese qualcuno lo strattonasse mentre parlava – «…saperecome me la sono cavata... con quella dannata faccenda.Ce l’abbiamo fatta. E forse, alla fine, non ha molta im-portanza.»«Si doveva fare ciò che era giusto, per tutti; in fondosono solo cinesi. Dare anche a loro la possibilità di sal-varsi, come a noi, perdiana. La nave non è ancora per-duta. È già abbastanza brutta essere chiusi là sotto inuna tempesta.»«È quello che ho pensato quando mi avete dato quel-l’incarico, signore», ribatté Jukes secco.«...Senza essere fatti a pezzi» continuò il capitano Mac-Whirr con maggior veemenza. «Non potrei permetterlosulla mia nave, anche se sapessi che ha solo pochi minutidi vita. Non lo tollererei, signor Jukes.»

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Un rumore cupo, come un grido che rimbomba in unabisso roccioso, si avvicinò alla nave e poi si allontanò.L’ultima stella, indistinta, ingrandita, come tornasse allanebbia infuocata che l’aveva generata, lottò con la pro-fonda oscurità che incombeva sulla nave e sparì.«Ci siamo!» mormorò il capitano MacWhirr. «SignorJukes»«Sono qui, signore.»I due cominciavano a non vedersi più.«Dobbiamo sperare che la nave ce la faccia a uscirnefuori. Semplice e chiaro. Non servono le strategie delcapitano Wilson per fronteggiare le tempeste.»«No, signore.»«Sarà nuovamente schiacciata e sbattuta dalle ondateper ore», borbottò il comandante. «Del resto, non c’èrimasto molto sul ponte che possa essere spazzato via, aparte lei o me.»«O tutti e due», sussurrò Jukes, ansimante.«Lei vede sempre tutto nero, Jukes» protestò in modopittoresco il capitano MacWhirr. «Considerando che ilsecondo ufficiale è come se non esistesse… Mi sente, si-gnor Jukes? Resterebbe da solo, se…»Il capitano MacWhirr s’interruppe e Jukes rimase in si-lenzio, lanciando occhiate da tutte le parti. «Non si allontani dalla rotta per nessun motivo», ripreseil comandante, borbottando frettoloso. «Tenga la navecon la prua al vento. Possono dire ciò che vogliono, male onde più brutte arrivano da dove tira il vento. La pruaal vento, signor Jukes, sempre la prua al vento, è il solomodo per farcela. Lei è giovane. Prua al vento. Questobasta per ogni buon marinaio. E sangue freddo.»«Sì, signore», disse Jukes, col cuore che gli batteva forte.

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Nei pochi secondi che seguirono il comandante parlòcon la sala macchine e ne ricevette risposta. Per qualche ragione Jukes provò un eccesso di fiducia,una sensazione che veniva da fuori come un alito di ventotiepido e che lo fece sentire pronto a qualsiasi impresa. Illontano brontolio nell’oscurità gli s’insinuò nelle orec-chie. Sentendolo non batté ciglio, per quell’improvvisasicurezza di sé, come un uomo che di fronte a un’armaappuntita si sente sicuro nella sua cotta d’acciaio.La nave continuava ad arrancare in mezzo alle neremontagne d’acqua, pagando con difficili acrobazie ilprezzo per restare in vita. La sua pancia brontolava, dif-fondendo nella notte una bianca scia di vapore, e il pen-siero di Jukes volò come un uccello alla sala macchine,dove il signor Rout – quel brav’uomo – era pronto adagire. Quando il brontolio cessò, gli sembrò che tutti irumori si arrestassero, una pausa di morte in cui risuonòcome un allarme la voce del capitano MacWhirr.«Cos’è? Un colpo di vento?» – parlava molto più fortedi quanto Jukes avesse mai sentito – «Di prua. Va benecosì. Ce la può ancora fare.»Il brontolio del vento si avvicinava velocemente. Da-vanti si poteva sentire levarsi come un vago lamento;mentre in lontananza si percepivano rumori diversi checrescevano e si avvicinavano. Si sentiva come la vibra-zione di molti tamburi, con un timbro aggressivo, comela fanfara di un esercito in marcia.Jukes non poteva più vedere distintamente il suo co-mandante. Le tenebre avvolgevano completamente lanave. Al massimo distingueva dei movimenti, un ac-cenno di gomiti che si allargano, o una testa che si sol-leva.

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Il capitano MacWhirr stava cercando di agganciare ilprimo bottone della sua cerata con un’insolita fretta.L’uragano, che ha il potere di scatenare gli oceani, di af-fondare le navi, di sradicare gli alberi, di abbatteregrandi muraglie e schiacciare a terra anche gli uccellidell’aria, si era imbattuto in quell’uomo taciturno e ilmeglio che era riuscito a fare era di tirargli fuori pocheparole. Prima che la furia dei venti piombasse di nuovosulla sua nave, il capitano MacWhirr si spinse a dichia-rare, con tono quasi infastidito: «Mi dispiacerebbe per-derla.»E quel fastidio gli fu risparmiato.

VI

In una bellissima giornata di sole, col vento che spingevail fumo di scarico oltre la prua, la Nan-Shan fece il suoingresso in porto a Fu-chau. Il suo arrivo fu subito no-tato a terra e i marinai in porto dissero: «Guarda!Guarda quel piroscafo. Cos’è? Batte bandiera siamese,no? Guarda che roba!»In effetti sembrava aver fatto da bersaglio alle batteriedi media gittata di un incrociatore. Una gragnuola dicolpi di piccolo calibro non avrebbe potuto dare al-l’opera morta un aspetto più guasto, devastato e di-strutto; aveva l’aria logora e sfinita delle navi chevengono dai lontani confini del mondo; e ne aveva in ef-fetti motivo, perché nel suo breve viaggio era statamolto, molto lontano: aveva invero avvistato le costedell’Aldilà, da dove nessuna nave torna mai per resti-tuire l’equipaggio alla polvere della terra. Era incrostatae grigia di sale fino alle formaggette degli alberi e allacima del fumaiolo; come se (come disse uno spiritosomarinaio) «l’equipaggio l’avesse tirata su da qualcheparte in fondo al mare e l’avesse portata lì per riscuoterei diritti di ricupero». E per di più, soddisfatto della suabattuta di spirito, offrì cinque sterline per la nave, «cosìcom’è».Non era neanche passata un’ora da che la nave era at-traccata che un uomo basso e magro, con la punta del

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naso rossa e sul viso un’espressione furiosa, sbarcò daun sampan sulla banchina della Concessione straniera,agitando il pugno esagitato verso il piroscafo.Un individuo alto, con le gambe troppo sottili per unapancia prominente, e uno sguardo anonimo, lo avvicinòe gli chiese: «Appena sbarcato, eh? Hai fatto allasvelta!»Aveva un abito di flanella blu alquanto sudicio e un paiodi scarpe da cricket, sporche anch’esse; un paio di squal-lidi baffi grigi gli penzolavano sotto il naso e il cappelloera bucato in due punti tra il bordo inferiore e la calotta.«Ciao! Che fai qui?» chiese l’ex secondo ufficiale dellaNan-Shan, stringendogli frettolosamente la mano.«Sto aspettando per un lavoro; una cosa seria, ho avutouna buona dritta», spiegò l’uomo col cappello bucato,ansimando e con indifferenza.Il secondo ufficiale agitò di nuovo il pugno in direzionedella nave.«Lì c’è un tizio che non è buono nemmeno a comandareuna chiatta», disse tremando per l’agitazione, mentrel’altro si guardava intorno distrattamente.«Davvero?»Ma poi scorse sulla banchina un pesante baule da mari-naio, di colore marrone, rivestito di tela da vele e legatocon una corda. L’osservò a fondo con interesse.«Potrei alzare la voce e fare un casino, se non fosse perquella dannata bandiera siamese. Non c’è nessuno a cuirivolgersi, altrimenti mi farei sentire. Che delinquente!Ha detto al suo direttore di macchina – altro bandito –che avevo perso la testa. La più grande compagnia dipazzi e ignoranti che abbia mai solcato i mari. No! Nonpuoi immaginare…»

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«Ma, ti hanno pagato?» chiese improvvisamente lo scia-gurato conoscente.«Sì. Mi hanno liquidato tutto a bordo», disse furiosol’ufficiale. «“Vada a fare colazione a terra”, mi hadetto.»« Bastardo schifoso!» commentò genericamente l’uomoe si passò la lingua sulle labbra. «Che ne dici di andarea bere qualcosa?»«Mi ha anche colpito», disse sottovoce l’ufficiale.«No! Ti ha dato un colpo? Dici sul serio?» Il tizio conl’abito blu prese ad agitarsi, mostrandosi solidale colcompagno. «Non si può parlare qui. Voglio che mi rac-conti tutto. Ti ha messo le mani addosso, davvero? Cer-chiamo qualcuno che ti porti il baule. Conosco unposticino dove hanno delle buone bottiglie di birra…»Il signor Jukes, era rimasto a scrutare la riva con un bi-nocolo, più tardi informò il direttore di macchina che«il nostro ex secondo ufficiale non ci ha messo molto atrovare un amico. Un tipo che sembra proprio un vaga-bondo scroccone. Li ho visti allontanarsi insieme dallabanchina.»Lo smartellare e il rumore delle necessarie riparazionialla nave non disturbarono più di tanto il capitano Mac-Whirr. Nelle lettere che scrisse in una sala nautica ri-messa a posto il cameriere dovette trovare passaggimolto interessanti, dal momento che per ben due volterischiò di essere sorpreso a leggerle. Ma la signora Mac-Whirr, nel soggiorno della sua casa da quaranta sterlinedi affitto, trattenne uno sbadiglio, forse per rispetto dise stessa, visto che era sola.Era distesa su una poltrona a sdraio lussuosamente im-bottita e dorata, vicino a un caminetto rivestito di mat-

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tonelle, con ventagli giapponesi sulla mensola e il ba-gliore del carbone acceso nella griglia. Sollevando lemani, guardò qua e là stancamente le molte pagine dellalettera. Non era colpa sua se erano così banali, del tuttoprive d’interesse, dal «Mia cara moglie» dell’inizio, a «Iltuo affezionatissimo marito» della fine. Non ci si potevaaspettare che capisse tutte quelle storie di mare. Natu-ralmente le faceva piacere avere sue notizie, ma non siera mai chiesta esattamente perché.«…Si chiamano tifoni… Sembra che al secondo non siamolto piaciuto… Nei libri non… Non potevo far fintadi nulla…»La carta fece un improvviso fruscio. «… Una calma chedurò più di venti minuti» lesse sommariamente; e le pa-role successive che i suoi occhi colsero all’inizio di un’al-tra pagina furono «rivedere te e i ragazzi…» Ebbe unmoto d’impazienza. Pensava sempre a tornare a casa.Non l’avevano mai pagato così bene. Cosa voleva adesso?Non pensò a tornare alla pagina precedente. Se lo avessefatto avrebbe trovato annotato che fra le quattro e le seidi mattina del 25 dicembre il capitano MacWhirr avevapensato veramente che la sua nave non avrebbe rettoun’altra ora in quel mare e che lui non avrebbe più rivi-sto la moglie e i figli. Nessuno sarebbe mai venuto a sa-perlo (le sue lettere venivano subito riposte), nessuno aparte il cameriere di bordo, che rimase molto impres-sionato da quella rivelazione. Tanto che cercò di dare alcuoco un’idea di «come ci fosse mancato veramentepoco», dicendo solennemente «Anche il vecchio pen-sava che non avessimo molte possibilità di cavarcela.»«Come lo sai?» chiese sprezzante il cuoco, un ex-mili-tare. «Non te l’ha mica detto lui?»

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«Insomma, me l’ha fatto capire», rispose sfacciatamenteil cameriere.«Sì, via! La prossima volta lo racconterà a me», ridac-chiò il vecchio cuoco scuotendo le spalle.La signora MacWhirr continuava a scorrere preoccu-pata la lettera. «…Fare ciò che è giusto… Degli oggettidi nessun valore… Solo tre, con una gamba rotta, euno… Ho pensato che fosse meglio passare tutto sottosilenzio… spero di aver fatto la cosa giusta…»Lasciò cadere le braccia. No, non si parlava più di tor-nare a casa. Doveva aver semplicemente espresso un piodesiderio. E la signora MacWhirr si tranquillizzò, men-tre un orologio di marmo bianco – con ancora il prezzodel gioielliere locale di 3 sterline, 18 scellini e 6 pence,fece un clock discreto e furtivo.La porta si aprì e una ragazza – di quell’età in cui legambe sono lunghe e gli abiti corti – entrò nella stanza.Una chioma di capelli lisci e scoloriti gli ricadeva sullespalle. Vedendo la madre, si fermò e lanciò un’occhiataincuriosita alla lettera.«È di papà», mormorò la signora MacWhirr. «Dov’è fi-nito il tuo fiocco?»La ragazza si mise le mani in testa e fece una smorfia.«Sta bene», proseguì la signora MacWhirr, distratta-mente. «Almeno così sembra. Non dice mai niente.» Efece una risatina. Il viso della ragazza esprimeva unavaga indifferenza e la signora MacWhirr la guardò conaffettuoso orgoglio.«Vai a prendere il cappello», disse dopo un po’. «Stouscendo a fare delle spese. C’è una svendita da Linom’s.»«Oh, che bello!» esclamò la ragazza, con una voce stra-namente bassa e vibrante, e uscì dalla stanza.

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Era un bel pomeriggio, con un cielo grigio e marciapiediasciutti. Fuori dal negozio di tessuti la signora Mac-Whirr sorrise a una gentildonna con una grande man-tella nera guarnita di giaietto e con un’acconciatura afiori che suonava falsa su un viso da matrona di indolebiliosa. Iniziarono un serrato chiacchiericcio fatto di sa-luti ed esclamazioni, tutte e due frettolose, come se lastrada stesse per spalancarsi e inghiottire tutto quel bendi Dio prima che loro potessero vederlo.Dietro di loro la grande porta a vetri si apriva e chiudevain continuazione. La gente non riusciva a passare, gliuomini stavano pazientemente in piedi di lato e Lydiaera impegnata a piantare la punta del suo ombrello frale pietre del marciapiede. La signora MacWhirr parlavatutta di corsa.«Molte grazie. No, non viene ancora. Certo, dispiaceche sia lontano, ma è un grande conforto sapere che stabene.» La signora MacWhirr riprese fiato. «Il clima dilaggiù è adatto a lui», aggiunse raggiante, come se il po-vero capitano MacWhirr fosse andato in Cina per mo-tivi di salute.Neanche il direttore di macchina tornava ancora a casa.Il signor Rout conosceva fin troppo bene il valore di unbuon ingaggio.«Solomon dice che i miracoli si ripetono sempre», gridòcon gioia la signora Rout all’anziana signora seduta nellapoltrona accanto al fuoco. La madre del signor Rout simosse appena, con le mani grinzose fasciate da mezziguanti neri e appoggiate sul grembo.Gli occhi della moglie del direttore di macchina danza-vano agilmente sui fogli. «Il comandante della nave sucui è imbarcato – un uomo abbastanza semplice, ri-

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corda, mamma? – ha fatto una cosa molto intelligente,dice Solomon.»«Sì, mia cara», rispose docilmente l’anziana signora, se-duta con la testa grigia china verso il basso e l’espres-sione immobile tipica delle persone molto vecchie, chesembrano perse nella contemplazione delle ultime scin-tille di vita. «Mi sembra di ricordare.»Solomon Rout – il “vecchio Sol”, “papà Sol”, il “Capo”,“Rout, il brav’uomo” – il signor Rout, condiscendentee paterno amico dei giovani, era il minore dei suoi moltifigli che a quel tempo erano tutti morti. E lei lo ricor-dava meglio quando aveva dieci anni, molto tempoprima che andasse via per fare apprendistato in ungrande cantiere del nord. L’aveva visto così raramente,erano passati così tanti anni che doveva andare moltoindietro nei ricordi per rintracciare la sua immaginenella nebbia del tempo. A volte le sembrava che la nuorale parlasse di uno sconosciuto.E la moglie di Rout era delusa. «Mah. Mah.» Girò la pa-gina. «Com’è irritante! Non dice di che si tratta. Diceche non capirei l’importanza della cosa. Assurdo! Cosasarà mai di così intelligente? Che disgraziato; perchénon ce lo dice?»Continuò a leggere solennemente senza fare commentie, alla fine, rimase a guardare la fiamma del camino. Ildirettore di macchina aveva scritto appena una o dueparole sul tifone; ma qualcosa l’aveva spinto a esprimereun crescente desiderio di avere accanto quella donna vi-vace. «Se non ci fosse da badare alla mamma, oggi stessoti avrei mandato i soldi per il viaggio. Potresti sistemartiin una casetta da queste parti e così potrei vederti ognitanto. Cominciamo ad avere una certa età…»

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«Sta bene, mamma», sospirò la signora Rout scuoten-dosi.«Ha sempre avuto una salute di ferro», disse placida-mente l’anziana donna.Il racconto del signor Jukes fu invece densissimo emolto animato. Il suo amico in servizio sulle linee com-merciali dell’Atlantico ne fece partecipi anche gli altriufficiali della sua nave.«Un amico mi scrive di una cosa incredibile successa abordo della sua nave durante quel tifone di cui abbiamoletto nei giornali due mesi fa. È una cosa pazzesca! Leg-gete voi stessi ciò che dice. Vi mostro la lettera.»C’erano frasi studiate apposta per dare l’impressione diun indomito e spensierato coraggio. Jukes le aveva scrit -te in buona fede, perché in quel momento si sentiva così.Descriveva in modo spaventoso le scene nel ponte sot-tocoperta. «…Improvvisamente mi resi conto che queidannati cinesi potevano anche pensare che fossimo unabanda di criminali. È pericoloso separare un cinese daisuoi soldi quando è il più forte. Avremmo dovuto essereproprio disperati per andare a rubare con quel tempo;ma cosa potevano sapere di noi quei poveracci? Così,senza pensarci due volte, ho portato in un attimo via imiei uomini. Il nostro lavoro l’avevamo fatto; almenoquello che si aspettava il comandante. Ce ne siamo an-dati senza stare a chiederci come si sentissero. Sono si-curo che se non fossero stati così scossi dalla tempesta e– dal primo all’ultimo – incapaci di reggersi in piedi, ciavrebbero fatto letteralmente a pezzi. Proprio una bruttastoria, te l’assicuro; e puoi anche andare avanti e indietroper tutto l’Atlantico fino alla fine del tempo prima cheti capiti uno scherzo del genere.»

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Dopodiché accennò professionalmente ai danni ripor-tati dalla nave e proseguì:«Fu proprio quando il tempo si calmò che la situazionesi fece maledettamente complicata. Non è stata per noiuna buona cosa passare all’ultimo momento sotto labandiera siamese; anche se il comandante non vede unagrande differenza – almeno così dice – “finché siamo abordo”. A certe cose lui non ci pensa nemmeno; tuttoqui. È come cercare di convincere un pezzo di legno.Ma, a parte questo, ci si sente maledettamente soli a na-vigare nel mar della Cina senza poter contare sull’ap-poggio di un consolato, di una cannoniera da qualcheparte, senza qualcuno cui rivolgersi quando si hannoproblemi.Io pensavo fosse meglio tenere quella gente sotto chiaveancora per quindici ore, tanto quanto ci voleva, all’in-circa, per arrivare a Fu-chau. Probabilmente lì avremmotrovato una qualche unità militare, e una volta sotto laprotezione dei suoi cannoni ci saremmo sentiti al sicuro;il comandante di una nave da guerra – che sia inglese,francese o olandese – avrebbe dato certamente assistenzaa dei bianchi alle prese con una rivolta a bordo. Poi cisaremmo liberati di loro e del loro denaro consegnan-dolo al loro Mandarino o Taotai, o come diavolo si chia-mano quegli uomini con gli occhialini che si muovonoin portantina nelle loro strade puzzolenti.Il vecchio non la vedeva così. Voleva tenere nascosta lacosa. Aveva quell’idea e niente poteva distoglierlo, nean-che un argano a vapore. Voleva che ci fosse meno chiassopossibile, per il bene della nave, per quello dell’arma-tore… “per il bene di tutti”, diceva guardandomi severo.Mi fece veramente arrabbiare. Una cosa del genere non

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si può tenere nascosta; i bauli erano stati assicurati al so-lito modo e potevano affrontare una tempesta comune;ma quella era stata una faccenda diabolica, fuori dal co-mune, di cui non posso nemmeno darti un’idea. Intanto, io mi reggevo a malapena in piedi. Nessuno dinoi aveva avuto il cambio per circa trenta ore e il vecchiose ne stava seduto lì, grattandosi il mento e la testa, cosìpreoccupato da dimenticare di togliersi gli stivali.“Spero, signore”, dissi a un certo punto, «che non li la-sceremo uscire sul ponte prima di essere pronti a rice-verli in un modo o nell’altro.” Non che mi sentissimolto ottimista – credimi – sulla possibilità di tenere abada quei miserabili se si fossero messi in testa di attac-carci. Una rivolta in un mercantile pieno di cinesi non èuno scherzo, e io sono terribilmente stanco. “Vorrei”,dissi, “che ci faceste gettare loro tutti quanti i dollari eche lasciassimo che si scannassero fra loro, mentre noiprendiamo un po’ di fiato”.“Sta dicendo una sciocchezza, Jukes”, disse il coman-dante, guardandomi con quel suo modo tranquillo chemi fa sentire male. “Dobbiamo pensare a qualcosa chesia giusto per tutti”.“Avevo ancora molto da fare – come puoi immaginarti –così mandai via gli uomini per riposarmi un attimo.Non erano neanche passati dieci minuti da che mi eroassopito in cuccetta che arrivò di corsa il cameriere a ti-rarmi i piedi. “Per l’amor di Dio, signor Jukes, venga fuori! Sul ponte,di corsa, signore. Venga fuori!”Quel ragazzo mi spaventò. No sapevo cosa fosse suc-cesso, se un altro uragano, o cos’altro. Non sentivo ilvento.

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“Il comandante li fa uscire. Li sta facendo uscire! Corrasul ponte, signore, e ci salvi. Il direttore di macchina ècorso giù a prendere la pistola.”Questo è quanto sentii dire da quel pazzo. Comunque,papà Rout giura di essere sceso solo per prendere unfazzoletto pulito. In ogni modo m’infilai di fretta e furiai pantaloni e corsi verso il ponte di poppa. Sicuramentea prua, di fronte al ponte di comando, stava succedendoqualcosa, a giudicare dal rumore. Quattro uomini del-l’equipaggio stavano lavorando col nostromo a poppa.Passai loro alcuni fucili, di quelli che ogni nave sullerotte cinesi tiene in cabina, e li condussi sul ponte di co-mando. Per strada incontrai il vecchio Sol, che parevasorpreso, con fra i denti un sigaro spento.“Venga”, gli gridai.Salimmo tutti e sette e facemmo irruzione nella sala nau-tica. Era già finito tutto. C’era il vecchio in piedi, con glistivali ancora indosso e in maniche di camicia; a furia discervellarsi doveva essergli venuto caldo, immagino. Alsuo fianco, l’impiegato della Bun Hin’s, sporco come unospazzacamino e ancora tutto verde in viso. Capii subitoche stava per succedere qualcosa di spiacevole.“Che diavolo sono questi stupidi scherzi, signorJukes?”, chiese il vecchio, arrabbiato come non l’avevomai visto. Ti dico sinceramente che ho perso la lingua.“Per l’amor di Dio, signor Jukes”, dice, “tolga quei fuciliagli uomini prima che qualcuno si faccia male. Maledi-zione, questa nave è peggio di un manicomio! Mi ascoltiattentamente adesso. Voglio che venga qui ad aiutareme e il signore cinese della Bun Hin’s a contare il de-naro. Già che è qui, non le dispiace darci una mano, si-gnor Rout, vero? Più siamo e meglio è.”

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Aveva organizzato tutto mentre facevo il sonnellino.Fossimo stati in una nave inglese, o anche solo fossimoapprodati in un porto inglese – come Hong Kong, peresempio – ci sarebbero state indagini e seccature a nonfinire, richieste di danni e altro. Ma questi cinesi cono-scono i loro funzionari meglio di noi.I portelli erano già stati aperti e i cinesi erano tutti sul pontedopo una notte e un giorno passati sottocoperta. Mettevaa disagio vedere tutte quelle facce disperate e arrabbiate. Imiserabili guardavano fissi il cielo, il mare e la nave, comese tutto il tempo della tempesta si fossero aspettati di esserefatti a pezzi. Ma nessuna sorpresa! Quello che avevano su-bìto avrebbe fatto uscire di senno un bianco. Ma quandosi dice che il cinese non ha un’anima. Ha comunque qual-cosa di incredibilmente resistente. Fra quelli feriti seria-mente c’era un uomo che aveva un occhio quasi fuori dellatesta. Sporgeva dall’orbita e aveva le dimensioni di un pic-colo uovo di gallina. Tutto questo avrebbe tenuto a lettoun bianco per almeno un mese; invece quello sgomitava adestra e manca nella ressa e parlava con gli altri come seniente fosse. Facevano un gran baccano e, ogni volta che ilvecchio si mostrava con la sua testa calva sul ponte di co-mando, smettevano tutti di chiacchierare e lo guardavanodal basso. Sembra che, dopo averci riflettuto, avesse mandato giùl’uomo della Bun Hin’s a dir loro qual’era l’unico modoper riavere indietro i soldi. Mi spiegò in seguito che, datoche i coolies avevano tutti lavorato nello stesso posto eper lo stesso lasso di tempo, aveva pensato che la cosagiusta da fare per loro era dividere tutto il denaro raccoltoin parti uguali. Non si potevano distinguere i dollari diuno da quelli di un altro – mi disse – e, se si chiedeva a

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ciascuno quanti soldi aveva quando era salito a bordo, te-meva che avrebbero mentito e alla fine i soldi gli sareb-bero venuti a mancare. Penso che avesse ragione. Quantoalla possibilità di affidare il denaro a un funzionario ci-nese a Fu-chau, disse che tanto valeva tenere per sé il de-naro, perché a quei poveracci non sarebbe arrivato nulla.Suppongo che anche loro pensassero la stessa cosa.Finimmo la distribuzione prima di buio. Era uno spet-tacolo: il mare agitato, la nave che sembrava un relitto,quei cinesi che salivano timorosi sul ponte di comandouno alla volta per prendere la loro parte, e il vecchio,sempre con gli stivali e in maniche di camicia, impegnatoa distribuire i soldi fuori dalla porta della sala nautica;sudava tantissimo e ogni tanto lanciava un’occhiatacciaa me o a papà Rout per qualcosa che non gli tornava.Portò lui stesso al portello n. 2 la quota spettante a quelliche non erano in grado di venirsela a prendere. Avan-zarono tre dollari e furono dati ai tre cinesi più mal-conci, un dollaro per ciascuno. Tornammo poi al lavoroe, aiutandoci con la pala, gettammo sul ponte i mucchidi stracci fradici e tutti quei frammenti informi e senzanome, lasciando che fossero loro a stabilire di chi erano.Fu certamente il meglio che si potesse fare per mante-nere la pace e per il bene di tutti. Che ti pare, signorinoviziato di nave postale? Il vecchio Sol dice che era l’unicacosa che si poteva fare. Il comandante mi ha detto qual-che giorno fa: “Sono cose che non si trovano nei libri.”Penso che, per essere così sciocco, se la sia cavata moltobene.»

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Stampato nel giugno 2016da Tipografia ABC - Sesto Fiorentino (Fi)