Jonestown. Terra Promessa

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Claudio Zubani, thriller. Tra realtà (tanta) e fantasia (il giusto) il libro racconta il più grande suicidio di massa che la storia umana abbia sin qui conosciuto. Il 18 novembre 1978, in Guyana, più di 900 persone appartenenti alla comunità religiosa di Jonestown abbracciano la morte spinte dalla volontà del loro reverendo, Jim Jones, fondatore della chiesa e del progetto agricolo denominato Tempio del Popolo. Il fanatismo religioso, la forza persuasiva di un leader carismatico e il sogno di un mondo migliore si intrecciano in una storia romanzata da scoprire pagina dopo pagina.

Transcript of Jonestown. Terra Promessa

In uscita il 22/7/2016 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine agosto e inizio settembre 2016

(3,99 euro)

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CLAUDIO ZUBANI

JONESTOWN TERRA PROMESSA

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JONESTOWN. TERRA PROMESSA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-9370-010-8 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Luglio 2016 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

“Raccogliete tutti i nastri, tutte le carte, tutta la storia. La storia di questo movimento, questa azione,

deve continuare a essere esaminata. Deve essere compresa in tutte le sue incredibili dimensioni.

Le parole vengono meno.” (Dick Tropp, membro del Tempio del Popolo)

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I Vi siete mai chiesti cosa sia realmente il potere? E soprattutto in quali modi, attraverso quali forme, lo si eserciti? Personalmente trovo che tutto risieda nella capacità di ottenere dalle persone ciò che vogliamo. Indurre comportamenti, azioni, pensieri, dai più semplici ai più estremi, con il solo carisma e utilizzo delle parole. Non serve a tutti i costi la forza per avere potere, quella va usata solamente quando è strettamente necessaria. Non sono mai riuscito a immaginare alcuna forma di potere più grande di questa. Mi chiamo Jim Jones, James Warren Jones per l'anagrafe, e sono nato a Lynn, un piccolo villaggio situato sul confine dell'Ohio, il 13 maggio 1931. Mio padre era un reduce della Prima guerra mondiale. Il lungo conflitto armato gli aveva lasciato in ricordo dei seri problemi di salute ai polmoni, inoltre non era più in grado di svolgere alcuna attività lavorativa e per questo gli fu riconosciuta l'invalidità. Non se la passava molto bene con l'esiguo sussidio che lo stato riservava a lui e tutti i suoi simili. Mia madre invece, di origini irlandesi e fervente cattolica, lavorava come operaia in una delle fabbriche della città. In pratica era il suo misero stipendio a permettere alla nostra famiglia di tirare avanti e avere tutti i giorni qualcosa da mangiare nel piatto. Ricordo che la maggior parte del suo tempo

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libero la dedicava al sindacato e alle lotte per rivendicare con forza la necessità di salari più alti e condizioni di lavoro più sicure per tutti i lavoratori. Era una gran donna mia madre, forse non particolarmente affettuosa, ma piena di ideali e decisa a tutto per portarli avanti. La mia infanzia non fu particolarmente gioiosa. Non ricordo feste di compleanno con regali lussuosi o cene di Natale con ricchi piatti e tavole imbandite. Giocavo per lo più da solo, usando quello che riuscivo a costruire con materiali trovati qua e là per casa. Non avevo neanche molti amici con i quali passare i pomeriggi mentre aspettavo la sera per correre incontro a mia madre che rientrava. Ero senza dubbio uno dei bambini più poveri della mia comunità. L'essere così povero ha fatto sì che io non venissi mai accettato dagli altri. Sentendomi un emarginato, sviluppai quasi subito una sensibilità per i problemi di tutte quelle persone che vedevo in qualche modo simili a me, e in particolar modo per i neri. Per comprendere meglio la situazione dovete immaginarvi gli Stati Uniti a metà degli anni '40. Era come se esistessero due diverse forme di umanità. La prima era ricca e spensierata, cresciuta nell'agiatezza e destinata a restarci sino alla morte. La seconda invece era povera, incapace di trovare un modo per elevarsi nella scala sociale, dove finiva inevitabilmente con l'occupare gli ultimi gradini. A questa seconda specie appartenevano soprattutto gli immigrati di colore, indipendentemente che fossero in America da generazioni e generazioni o che vi fossero appena arrivati per inseguire un improbabile sogno di ricchezza. A differenza di quelli che avevano la pelle bianca come la mia, le persone di colore mi somigliavano e con loro condividevo la mia sofferenza di giovanotto imprigionato in una vita di miseria dalla

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quale fuggire non appena possibile. Giocando per strada riuscii a fare amicizia con alcuni di loro. Quando portai a casa l'unico ragazzo nero della città mio padre mi disse che non lo voleva lì insieme a noi. Risposi che non sarei entrato nemmeno io e da quel momento non vidi più mio padre per molto tempo. Me ne andai di casa e iniziai a frequentare assiduamente la chiesa pentecostale, dove trovai una sorta di surrogato della casa e della famiglia. I predicatori erano come delle figure paterne per le loro congregazioni e compresi ben presto il potere che quel ruolo era in grado di esercitare sulla vita dei fedeli. Mi sarebbe piaciuto un giorno diventare uno di loro. Sentivo di averne le capacità e lentamente questa idea prese sempre più piede nella mia mente, fino a che arrivai a metterla in pratica. Mantenni sempre dei buoni rapporti con mia madre e di tanto in tanto ci incontravamo per chiacchierare e sapere come andavano le cose. Anche lei non riusciva più a essere serena vivendo insieme a mio padre e il confidarsi con me l'aiutava molto. Spesso la maltrattava e insultava, nascondendosi dietro i problemi fisici che lo avevano trasformato in un uomo frustrato senza alcuna speranza verso il futuro. Mia madre era molto forte e riusciva sempre a perdonarlo e andare avanti. Ogni volta che la incontravo, immaginavo che dovesse annunciarmi di aver lasciato mio padre e un giorno accadde davvero. Grazie ai suoi sforzi economici e a qualche lavoretto saltuario, ebbi poi la fortuna di studiare pedagogia all'Università dell'Indiana. Mi fu molto utile, affinò la mia arte oratoria e allargò la mia mente sui desideri umani più profondi, quelli in grado di attirare persone a me semplicemente promettendo il raggiungimento di una condizione di vita apparentemente impossibile.

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Una delle cose che adoravo di più era parlare alla gente. Avevo iniziato diversi anni prima dell'università, intorno ai sedici anni. Mi bastava una sedia sulla quale stare in piedi per inventarmi un palco in qualsiasi punto della città. Volevo spiegare a tutti la mia visione del mondo che ci circondava, per capire se le mie idee potessero venire condivise anche dagli altri oppure se alla fine non ero altro che un visionario sognatore con qualche rotella fuori posto. Parlavo ore e ore e la gente stava lì ad ascoltarmi, mentre raccontavo svariati aneddoti per spiegare una realtà a loro sconosciuta pur trovandovisi immersi quotidianamente. Dopo la separazione dei miei genitori, mi trasferii a Richmond, nell'Indiana, insieme a mia madre. Lì era pieno di persone da attrarre a me raccontando il vangelo di Dio e l'uguaglianza davanti ai suoi occhi di tutti gli esseri umani. A ventun anni iniziai a fare il pastore alla Somerser Methodist Church di Indianapolis, portando nelle case della mia gente l'idea che il vero cristiano doveva amare il suo prossimo in ogni caso, chiunque esso fosse e qualsiasi azione avesse commesso. Erano anni davvero strani quelli per l'America. Si parlava tanto di giustizia sociale, ma la segregazione razziale nei confronti delle persone di colore raggiungeva di giorno in giorno livelli per me sempre più insopportabili. Compresi ben presto che per aumentare il mio pubblico avrei dovuto puntare proprio su quello, visto che la popolazione di immigrati cresceva in modo costante e irrefrenabile. A stare male non erano solamente loro. Anche molti bianchi non riuscivano a conquistare una condizione sociale ed economica dignitosa, finendo piano piano con l'identificarsi nella miseria dei loro fratelli neri. Continuai a predicare il valore dell'uguaglianza con ancora maggior insistenza, perché agli occhi di Dio non conta che tu sia bianco, nero, giallo o di chissà quale altro colore. Ogni uomo ha

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la sua dignità in quanto tale ed era proprio questo che volevo fare entrare nella testa della gente che mi ascoltava. Solo con una visione del mondo come la mia si sarebbe potuta finalmente raggiungere la vera giustizia sociale ed evitare soprusi da parte dei più ricchi. Solo così ci sarebbe stata un'unità di intenti comune per far elevare il genere umano nella sua totalità e questo poteva avvenire solamente seguendo gli insegnamenti della Bibbia. Il passo successivo fu quello di fondare una mia chiesa, basata su quei principi che tutte le altre andavano professando senza trovare però il coraggio di attuarle nella pratica. Non fu una cosa semplice, ma mettendoci tutto il mio impegno riuscii a realizzare quello che pochi anni prima sembrava solamente un sogno irraggiungibile. Le idee non mi mancavano certo, ma un conto è pensare una cosa e un altro è trovare le risorse per poterla mettere in pratica. Fortunatamente ero riuscito a farmi numerosi amici tra le persone che contavano in città e furono proprio loro a darmi una grossa mano nella mia missione. «Io rappresento i divini principi del socialismo. La totale uguaglianza, una società dove tutti i beni sono in comune». Era questo uno dei ritornelli che più mi piaceva ripetere durante i miei sermoni. Da una parte professavo la giustizia divina e dall'altra mostravo nel socialismo la sua realizzazione terrena. Mi misi a bussare alla porta di tutte le case della città, soffermandomi soprattutto in quelle abitate da gente di colore, tossici e delinquenti, invitandoli a venire a seguire i miei discorsi nei quali avrebbero potuto trovare conforto e la forza per andare avanti inseguendo un mondo migliore. Ricordo che molte domeniche, al termine della mia funzione, prendevo sottobraccio due o tre donne nere e le portavo con me

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nelle più rinomate chiese dei quartieri bianchi. Era incredibile osservare la reazione che ciò scatenava nei partecipanti a quelle messe. Politici, ricchi imprenditori e uomini d'affari tutti riuniti per celebrare dei principi che mai e poi mai avrebbero attuato nella loro vita di tutti i giorni. Dovevo smascherarli, mostrare al mondo il loro vero volto, affinché la gente imparasse finalmente a distinguere il bene e l'amore sincero dal male nascosto in tutti quei sorrisi vuoti riempiti solamente da avara ricchezza e pregiudizi. Quando io e le mie donne di colore entravamo nel bel mezzo delle loro celebrazioni, molti arrivavano persino ad alzarsi e a uscire dalla chiesa insultandomi e lanciandomi contro ogni sorta di maledizione per il grave affronto. Come è possibile predicare la fede cristiana e poi comportarsi così? Più iniziative di questo genere mettevo in atto e più la domenica successiva trovavo gente alla mia funzione. Insieme a mia moglie Marceline, conosciuta qualche anno prima quando lavoravo come inserviente nell'ospedale "Reid Memorial" a Richmond, adottai un ragazzo di colore, Jim Junior, e credo proprio che quella fu la prima volta che accadde una cosa simile in tutta l'America. Le mie battaglie iniziarono a portare i frutti sperati e il sindaco di Indianapolis mi nominò persino capo della commissione per i diritti umani della sua città. Ero orgoglioso di quello che stavo facendo, non avevo la minima intenzione di fermarmi, anzi, dovevo portare le mie idee in giro per tutto il mondo. Un giorno mi capitò tra le mani la rivista Esquire, una delle più vendute e apprezzate per la serietà scientifica con cui venivano trattati i diversi argomenti. Tra i tanti interessanti articoli ce n'era uno con la lista dei luoghi più sicuri dove nascondersi nel caso di una guerra nucleare. Le voci di un possibile attacco all'America da parte della Russia con nuovi armi atomiche si rincorrevano di

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giorno in giorno a quei tempi. Fu così che decisi di trasferirmi con la mia famiglia in Brasile, a Belo Horizonte, nella città che secondo gli scienziati meritava di stare in testa alla classifica dei posti meno a rischio al mondo. Lasciai la mia gente per andare a cercarne ancora di più in Sud America, ma le cose non andarono come avevo sperato e ben presto dovetti arrendermi e tornare negli Stati Uniti. Il Brasile era un posto fantastico dal punto di vista paesaggistico, ma pieno di contraddizioni sociali, proprio come gli Stati Uniti. Quartieri lussuosi e alti grattacieli facevano da indegna cornice a un substrato di povertà e gente costretta a vivere nella miseria più totale. Era insomma il posto ideale per poter coinvolgere nuovi fedeli nel mio progetto di giustizia terrena, ma senza un lavoro era impossibile mantenere la famiglia e portare avanti l'ambizioso progetto di crescita della mia chiesa. Purtroppo la mia assenza, seppur breve, aveva avuto effetti negativi anche sulla mia comunità americana. Molti fedeli avevano abbandonato il sogno di un mondo migliore, ma fortunatamente la maggior parte degli adepti era pronta a riaccogliermi a braccia aperte come agli inizi della mia missione. Erano anni in cui spuntavano di continuo nuovi movimenti religiosi, spesso messi in piedi con il solo scopo di lucrare sull'ingenuità di chi vi aderiva. Via via restavano però in vita e si consolidavano solamente i migliori, in una sorta di guerra per la sopravvivenza che quotidianamente vedeva venire alla luce un nuovo avversario pronto a tutto per eliminarti e prendersi i tuoi membri. Fortunatamente ero sempre tra i vincitori e, mentre molti altri predicatori erano costretti a scappare perché smascherati, io vedevo crescere il mio movimento sempre più. Decisi poi trasferirmi con la mia chiesa tra i vigneti della

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Redwood Valley, a pochi chilometri da Ukiah, un paese di meno di 10.000 abitanti capoluogo della contea rurale di Mendocino, nel nordovest della California. Una scelta casuale penserete voi, ma non fu affatto così. Anche quel luogo, infatti, era indicato tra i più sicuri nell'eventualità di una guerra nucleare, timore che ancora non mi aveva abbandonato. La cosa più assurda era che ogni persona con cui mi confrontavo sull'argomento sembrava del tutto sicura che una simile catastrofe non sarebbe mai potuta accadere, e più mi sentivo dire queste cose, più mi convincevo del contrario. Se ne parlavano anche gli scienziati qualcosa avrà pur dovuto esserci in fin dei conti. Forse, col senno di poi, ero un po' troppo fissato con questa storia degli attacchi nucleari, ma ai tempi non volevo correre nessun rischio di vedere andar in frantumi il mio sogno e chiudere anzitempo la mia avventura terrena. Nella nuova avventura nella Redwood Valley riuscii a coinvolgere circa 150 persone. Ricordo benissimo la fila di pullman pronta a partire non appena terminato l'ultimo giorno di scuola. Famiglie intere, giovani single, anziani rimasti vedovi, bianchi e neri, tutti insieme, decisi a costruire qualcosa di unico e fantastico. Fummo accolti dai nostri nuovi concittadini con molto entusiasmo, a dimostrazione di come la mia fama e le mie idee avessero nel tempo fatto presa anche dove non ero mai stato personalmente. Non avevamo una nostra chiesa a Ukiah, ma niente mi spaventava. Ero come un ariete pronto ad abbattere qualsiasi ostacolo che si parava sulla mia strada. Ben presto unendo le forze costruimmo il nostro tempio, tutto di legno verniciato di bianco con gli infissi e le rifiniture di colore blu. Era una meraviglia, chiunque sarebbe stato orgoglioso di aver edificato un'opera simile partendo dal nulla. Ho ancora davanti agli occhi

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lo sguardo di mia moglie mentre tenendoci per mano varcammo insieme per la prima volta l'uscio della nostra chiesa. «Pensa che bello se ci fossimo sposati in una chiesa così» mi disse con le lacrime agli occhi per la commozione. «Sarebbe stato fantastico amore mio» risposi, «ma ciò che non abbiamo potuto fare noi due lo faranno altri giovani innamorati e ci ringrazieranno per quello che abbiamo costruito per loro. Già mi sembra di vederli. La loro gioia sarà la nostra, mia cara». Le cose andavano veramente bene, ma sentivo il bisogno di fare ancora qualcosa di più. Sono sempre stato molto ambizioso. Appena raggiungevo un obiettivo sentivo dentro di me la necessità di averne uno nuovo ancora più grande del precedente. Era la mia forza vitale. Dovevo inventarmi qualche stratagemma per rendere i miei adepti ancora più fedeli e convinti che per loro fossi l'unica via possibile in questa vita. Avevo iniziato predicando la fede in Dio, ma ora dovevo essere io il loro Dio. Parlai di tutte queste cose con Marceline e insieme trovammo un paio di idee per ottenere quanto prefissato. Era molto rischioso, ma valeva la pena provare. Un pomeriggio di caldo sole convocai nel mio ufficio Nicole, una delle mie segretarie, e le spiegai ciò che avevo in mente. Inizialmente scoppiò a ridere, ma poi acconsentì, non so se per puro spirito goliardico o per gratitudine nei miei confronti, in quanto ero stato io stesso a portarla con me dopo averla raccolta dalla strada poco prima di partire per la California. Nicole aveva ventidue anni, con l'aiuto di mia moglie la truccammo per fargliene dimostrare almeno cinquanta in più. Andai personalmente fuori città a comprare una sedia a rotelle e di nascosto la portai nel mio ufficio. Nicole si sedette sopra. Sembrava veramente un'anziana signora rimasta inferma da chissà quanti anni.

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Iniziò a seguire le mie funzioni così mascherata, fino a quando, una domenica, uscimmo allo scoperto con il nostro colpo di genio. Stavo predicando con parole altisonanti la potenza dell'amore, invitando i miei seguaci a non allontanarsi mai da me perché nessuno li avrebbe mai amati come li amavo io. L'amore era in grado di fare qualsiasi cosa, anche guarire dalle malattie. Invitai Nicole ad avvicinarsi con la sua sedia a rotelle. Imposi le mani su di lei e implorai Dio di aiutare quella povera donna inferma. «Alzati mia cara, fidati di me, oggi è il tuo giorno» urlai a un certo punto. La folla dei miei discepoli rimase ammutolita e Nicole non fece alcun movimento. «Alzati ho detto, non temere, io ti amo, potrei mai deluderti?». «Non posso, non sento le gambe, sono paralizzata» rispose Nicole con voce rauca come richiedeva il suo ruolo. «Io ti dico di farlo. Alzati!». Nicole si fece forza sulle braccia e si sollevò in piedi. Appoggiò il piede sinistro a terra e poi il destro, rimanendo immobile per qualche secondo, appoggiata alla carrozzina. Il tremolio studiato delle sue braccia rendeva la scena davvero veritiera. Il mio pubblico scoppiò in un fragoroso applauso e molte signore iniziarono a urlare «miracolo, miracolo». «Ora sposta in avanti la gamba destra» ripresi, e Nicole ubbidì. «Bravissima! Ora anche l'altra». L'anziana signora paralizzata iniziò a camminare e poco dopo persino a correre. Si formò una specie di trenino dietro di lei, con urla e pianti di gioia. Io l'avevo guarita, io avevo fatto un miracolo. Non mi sembrava possibile che i miei fedeli arrivassero a credere una cosa simile,

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invece era tutto vero. Le guarigioni miracolose proseguirono anche nelle domeniche successive e per la mia gente ero diventato un vero e proprio dio. Grazie a me, un cieco poteva riacquistare la vista, un muto la parola e un sordo l'udito. Malattie che neanche la moderna medicina era in grado di curare, vedevano i loro sintomi scomparire con l'imposizione delle mie mani. Ogni volta era una grande festa, con applausi e urla di felicità. Tutto finto, ma messo in scena con un tale realismo che avrebbe impressionato e lasciato nel dubbio anche il più critico degli scettici.

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II Il passo successivo verso il mio definitivo trionfo fu quello di espandermi nel resto degli Stati Uniti. Le guarigioni miracolose furono accompagnate da previsioni di fatti apparentemente impensabili, ma resi reali grazie all'aiuto dei miei collaboratori più stretti. Una volta misi in guardia dal mio pulpito tutti i fedeli, dicendo che avevo sognato la nostra chiesa in pericolo e attaccata durante una delle funzioni. Puntuali come un orologio entrarono in azione i miei uomini che da fuori si misero a lanciare sassi contro le vetrate, rompendone anche un paio. «Ecco, avete visto?» esclamò uno dei membri all'interno della chiesa, «proprio come aveva detto lui poco fa!». «Dovete stare tranquilli, il nostro amore è più grande del loro odio e la nostra fede li sconfiggerà» dissi prontamente. Non appena cessata la finta sassaiola, ecco levarsi un applauso ancora più forte di quelli a me abitualmente riservati. Di tanto in tanto mi piaceva starmene seduto sulla poltrona del mio ufficio, appoggiare i piedi sulla scrivania e accendermi un bel sigaro. Era in quei momenti che diventavo più riflessivo del solito. Chiudevo gli occhi e provavo a estraniarmi dal mio corpo e a osservare la mia persona da fuori. Le mie azioni, le mie parole pronunciate dal pulpito della chiesa, tutto scorreva al rallentatore nella mia testa. Sembravo davvero un ciarlatano qualunque.

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Come diavolo facevano quelle persone a osannarmi e a riporre in me tutta quella stima e fiducia? La mente umana mi appariva contemporaneamente come la cosa più fragile e la più potente che esistesse in natura. Dipendeva solamente dal soggetto in questione. A volte mi sembrava tutto fin troppo facile, ma ero ben consapevole che qualcuno stava iniziando ad aprire gli occhi e a mettere in dubbio il mio ruolo di guida spirituale del movimento. Ci furono purtroppo alcuni abbandoni, ma per ognuno che se ne andava ce ne erano quattro pronti ad abbracciare il nostro stile di vita. Tuttavia, per cementare ulteriormente il gruppo intorno alla mia figura e aumentare il loro amore nei miei confronti, iniziai a raccontare di avere ricevuto minacce da parte di chi si opponeva al nostro movimento, compresi un paio di elementi che ci avevano tradito andandosene. Ripetevo in ogni occasione che avevamo un nemico da combattere e la cosa stimolò ancor di più la voglia di riconoscersi in me da parte di molte persone. Un pomeriggio finsi persino un'aggressione, organizzando con i miei seguaci una finta sparatoria nella quale persi anche diverso sangue, sostituito ovviamente con della vernice rossa. Nelle funzioni successive chiunque volesse entrare nella chiesa venne sottoposto ad accurate perquisizioni, questo per rendere ancora più reale il clima di intimidazione che volevo far loro percepire. In questo modo potevo anche verificare che effettivamente nessuno dei miei fedeli avesse strane idee e reprimere sul nascere qualsiasi forma di insurrezione. Tutto procedeva per il meglio e grazie ai numerosi soldi che i miei fedeli più danarosi devolvevano spontaneamente al Tempio del Popolo, così avevo battezzato la mia comunità, riuscii ad

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acquistare tredici pullman con i quali girare nelle diverse città per reclutare nuovi adepti. Ogni tappa era un successo, con decine di persone che senza pensarci un minuto di più erano pronti ad abbandonare famiglia e lavoro per unirsi a noi. La mia gente non doveva più credere in niente e nessuno se non in me. Tutto era iniziato magnificando l'amore di Dio, ora il loro dio dovevo diventare io. Un giorno, per concludere una delle mie prediche, presi in mano una Bibbia, la alzai verso il cielo e dissi: «questo libro nero ha sottomesso la gente di colore per centinaia di anni, adesso vi dimostro che questo libro non ha alcun potere». Scagliai il libro verso la mia platea. Tutti restarono nel più totale silenzio e pochi istanti prima che quell'insieme di fogli di carta toccasse terra riuscii a percepire il terrore negli occhi di molti dei presenti. Un tonfo accompagnò la caduta. Sorrisi con aria soddisfatta guardandomi intorno e dissi: «Allora? Avete forse visto calare dal cielo una saetta per fulminarmi? Sapete perché non è accaduto? Perché non c'è niente lassù. Non esiste alcun paradiso. Il paradiso dobbiamo crearcelo noi. Quaggiù». Un boato salutò le mie parole e tutti cominciarono ad applaudire. Nei loro occhi, ora, c'era posto solamente per la gioia e la speranza. Li interruppi nuovamente e prosegui nel mio show. «Sono qui per mostrarvi che l'unico Dio di cui avete bisogno è dentro di voi. È l'unico motivo per cui sono venuto. Quando finalmente il trapasso avverrà, non avremo più bisogno di alcun Dio, né di ideologie né di culti. La religione, l'oppio dei popoli, verrà rimossa dalle coscienze di tutta l'umanità. Non ci sarà più bisogno di religione quando saremo liberi. E non dovremo più preoccuparci del domani perché ogni giorno saremo felici. Avremo il paradiso che gli uomini hanno sempre

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sognato, e non sarà il paradiso che ci hanno insegnato i padroni bianchi, in cui forse potremmo solo lucidare le scarpe di qualcun altro nella sala del trono. No! Noi avremo la nostra libertà, qui e adesso!». Il potere delle mie parole e dei miei sermoni era qualcosa che nemmeno io avrei mai potuto immaginare. Tutte quelle persone emarginate dalla società per bene erano attratte dall'idea di entrare a far parte della mia grande famiglia, dove ognuno aveva gli stessi diritti degli altri. Una comunità basata sul lavoro agricolo, capace di autosostenersi con la fatica e il sudore quotidiano di tutti i suoi componenti. Gli spazi iniziavano a essere stretti e la gente che voleva entrare a far parte del nostro progetto cresceva di mese in mese. Inoltre iniziarono anche a uscire strane voci riguardo ciò che succedeva all'interno della mia chiesa, con accuse pubblicate persino sulle prime pagine dei giornali, sia locali sia nazionali. Fu così che mi ritrovai accusato delle peggiori nefandezze, da stupri di giovani ragazze a minacce verso chi voleva abbandonare il gruppo, irridendo persino le mie doti di guaritore. Compresi che era tempo di cambiare aria. Il governo americano non vedeva di buon occhio la crescita del Tempio del Popolo ed ero giunto alla convinzione che prima o poi avrebbe usato i suoi potenti mezzi per distruggere tutto quanto. Questi brutti pensieri mi portarono a uno stato di ansia crescente, fino a che iniziai a utilizzare dei tranquillanti, di cui purtroppo dal quel periodo in poi non riuscii più a fare a meno. Grazie alla mia attività politica e alla notorietà che avevo acquisito, impiegai il denaro della comunità per comprare diversi terreni in Guyana, nella parte nord-orientale del Sud America. Ottenere le concessioni edilizie dal governo locale fu un gioco da ragazzi e così inviai alcuni dei miei uomini laggiù per iniziare a

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costruire una nuova comunità agricola nella quale avrei trasferito tutti i miei fedeli, mettendoli al riparo dalle cattiverie che gli Stati Uniti ci stavano riservando con sempre maggior insistenza. Ricordo che andai di persona a scegliere le zone dove ci saremmo stabiliti. C'erano ettari ed ettari di giungla da abbattere per preparare i nuovi campi da lavorare. Una vera e propria impresa, alla quale pensai dovessero partecipare tutti i miei fedeli. Niente al confronto di quanto fatto fino a quel momento. Saremmo diventati il più grande movimento religioso che la storia avrebbe mai conosciuto. Fu dopo aver letto un nuovo articolo pieno di accuse nei miei confronti che decisi essere arrivato il momento di partire verso la Guyana. Un ex membro della nostra comunità aveva rilasciato un'intervista accusandomi di essere un tiranno senza scrupoli, dedito esclusivamente a derubare i fedeli più abbienti sfruttando l'azione dei più emarginati che mi spalleggiavano in queste mie disdicevoli azioni. Non potevo sopportare questo tipo di diffamazione. Non me lo meritavo per tutto il bene che facevo nei confronti di quelle persone indifese che senza di me sarebbero state distrutte dalla società contemporanea priva di pietà. Parlai con Marceline e insieme decidemmo di partire. Indissi una riunione chiamando a me tutti i partecipanti al Tempio del Popolo. Raccontai loro quanto stesse accadendo, spiegando la necessità di allontanarci dagli Stati Uniti per poter continuare a costruire il nostro mondo perfetto. Quando illustrai il mio nuovo progetto in Guyana non tutti furono entusiasti. Alcuni erano spaventati, altri non si sentivano pronti per un cambio di vita così radicale. Non potevo permettermi di perdere più nessuno dei miei adepti,

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che razza di Dio sarei stato se non erano pronti a seguirmi in questo passo per loro così estremo? Che figura avrei fatto agli occhi dei miei detrattori? Decisi insieme ai miei collaboratori più stretti di attuare una forte pressione psicologica su coloro che faticavano ad abbracciare il nuovo progetto, spiegando loro che non si trattava di una scelta definitiva, ma semplicemente di una visita per vedere dove si sarebbe stabilita la nuova comunità. In realtà non avevo alcuna intenzione di concedere il ritorno in patria a nessuno che avesse messo piede in Guyana. Iniziai anche a diffondere voci in merito a disgrazie accadute a chi ci aveva tradito, come strane e incurabili malattie o misteriosi furti e sparizioni di beni ai loro danni, così da scoraggiare ulteriormente chi non vedeva di buon occhio il trasferimento. Ci volle qualche giorno in più di quanto avevo preventivato, ma in questo modo riuscii a vincere anche le più forti resistenze.

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III Fummo inizialmente in trecento, uno più uno meno, a raggiungere la Guyana. I miei uomini avevano fatto davvero un gran bel lavoro che ora avremmo completato tutti insieme. All'ingresso del villaggio avevo fatto mettere un enorme cartello bianco con scritto in verde su due righe: Benvenuti a Jonestown, progetto agricolo il Tempio del Popolo. Jonestown sarebbe stato il nostro paradiso, quella terra promessa che avevo sognato fin dall’inizio del mio progetto e che tante persone aveva condotto tra le mie braccia. Si trattava di un vero e proprio angolo di pace nel cuore della foresta equatoriale. Una pace che andava mantenuta e protetta a ogni costo. Il primo giorno che arrivammo, mi feci consegnare da tutti gli adepti il proprio passaporto. Dissi che era per fare una specie di censimento e verificare quanti fossimo effettivamente, mentre in realtà mi servivano solamente per assicurarmi che nessuno tornasse indietro senza il mio consenso. Girai numerosi video in quei giorni. In ognuno registravo quanto la mia gente stesse bene e intervistavo i miei fedeli per far spiegare direttamente a loro la felicità che avevano incontrato trasferendosi lì. Ogni filmato veniva poi inviato a qualche emittente televisiva americana, così da mostrare come si stessero sbagliando nel

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giudicare negativamente il mio operato e quanto fosse inutile indagare sulla mia comunità alla ricerca di soprusi o cose simili. Nel breve tempo di due settimane portammo a termine la realizzazione della nostra nuova cittadina, costruendo anche numerose abitazioni in grado di ospitare tutti noi e altre centinaia di persone che ero sicuro ci avrebbero raggiunto di lì a poco. Nella parte più a sud si trovavano enormi distese di campi da coltivare. Avevamo in pratica tutto quello che ci serviva e in tal senso una grossa mano ci fu data anche dal governo locale della Guyana, desideroso di mostrare al mondo intero come quella terra abbandonata da tutti fosse in realtà fertile e produttiva. Una strada non asfaltata, nessuna lo era a dir la verità, portava poi dai campi verso il villaggio vero e proprio. In mezzo le stalle con gli animali, soprattutto maiali, e grosse piantagioni di banane. La costruzione più maestosa era chiaramente il tempio, che di lì a breve iniziò a essere chiamato da tutti “il padiglione”. Non era la classica chiesa a cui si è abituati, gli spazi erano aperti, con una grossa piazza davanti nella quale i miei discepoli avrebbero potuto ascoltare i miei sermoni e pregare con me. Le abitazioni erano tutte uguali. Non particolarmente grandi, bianche all’esterno e composte esclusivamente da una stanza da letto, con qualche mensola o armadio a seconda dei casi, e un piccolo bagno. La cucina non serviva. Per somministrare i pasti avevamo predisposto una gigantesca mensa comune con dei cuochi addetti a preparare i piatti che venivano poi serviti nell'apposita area, una grossa sala da pranzo all'aria aperta con panche e tavoli per accogliere tutti noi. In caso di pioggia il tetto di foglie e canne di bambù era sufficiente a proteggerci e non disturbare i nostri pasti. Non pioveva spesso a Jonestown, anche se devo ammettere che quando succedeva venivano giù dei e veri e propri nubifragi,

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capaci in alcuni casi di distruggere alcune delle nostre costruzioni più fragili. Il villaggio comprendeva anche l'area svago con un campo di basket e uno di pallavolo, oltre a un magnifico ospedale e la zona amministrativa dove io, Marceline e i miei più fidati collaboratori avremmo organizzato la vita di Jonestown. Dopo i primi giorni feci installare una fitta rete di altoparlanti, così che in ogni angolo del villaggio si potessero ascoltare i miei sermoni e i miei richiami alle riunioni straordinarie che avrei organizzato in caso di necessità. Grazie ai filmati che avevo inviato, molte altre persone negli Stati Uniti si resero conto di quello che eravamo stati capaci di costruire e si decisero a farne parte. Ero costantemente in contatto con Roger, un mio collaboratore rimasto in California, che monitorava giorno dopo giorno le richieste di trasferimento a Jonestown. Il nostro villaggio era grande ed essendo io certo che molti altri ci avrebbero raggiunto, avevo fatto costruire numerose palazzine in più rispetto a quelle che servivano per contenerci. Un pomeriggio Roger mi telefonò dicendomi che c'erano circa cento persone pronte a venire a vivere da noi. Mi brillarono gli occhi e senza nemmeno pensarci gli risposi che eravamo pronti ad accoglierli. Fu così che tre giorni più tardi la nostra comunità festeggiò il loro arrivo e tutti i nuovi adepti si meravigliarono non solo dello splendore di Jonestown, ma anche della perfetta organizzazione e di avere già un alloggio pronto per loro. La scena si ripeté due settimane dopo e altre volte ancora, fino a raggiungere quasi un migliaio di persone. A ognuna di loro avevo praticamente sequestrato il passaporto, ma nessuno si oppose o si fece problemi nel consegnarmelo, completamente abbagliati dallo splendore nel quale si trovavano immersi.

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Jonestown non era però in grado di ospitare una simile moltitudine e si era reso necessario progettare nuove abitazioni. Tra i nuovi arrivati c'era anche una coppia di giovane sposi, Philip e Celine, con lei incinta di cinque mesi. Mi stupì molto la loro scelta di trasferirsi da noi in un simile stato, ma quando ebbi modo di scambiare quattro chiacchiere con loro riuscirono a riempire il mio cuore di una gioia infinita. «Abbiamo sentito tanto parlare di voi» mi spiegò Philip, «ma avevamo un po' paura di abbandonare amici e parenti per venire a vivere quaggiù lontani da tutto quello a cui siamo abituati». «Avete fatto la scelta giusta miei cari» risposi. «Ne siamo sicuri. Vogliamo che nostro figlio abbia il meglio dalla vita e dopo aver visto i filmati alla televisione di Jonestown ci siamo decisi a non aspettare oltre. Vogliamo farlo nascere qui, circondato dall'amore di tutti gli abitanti del villaggio». Realizzai solo sentendo quelle parole che il loro figliolo sarebbe stato il primo abitante della mia comunità venuto al mondo proprio nella nostra terra. Quei due avrebbero sempre avuto un posto speciale nel mio cuore, un simile attestato di stima e fiducia non poteva passare inosservato. Quando quattro mesi più tardi il piccolo Stan venne alla luce feci organizzare una grande festa per celebrare la prima nascita a Jonestown, sperando che l'esempio di Philip e Celine potesse essere seguito da numerose altre coppie della comunità. Tuttavia gestire quella moltitudine di fedeli non era facile come i primi giorni. Ogni alloggio, inizialmente studiato per ospitare gruppi di tre o quattro persone, si ritrovava ora con almeno sei abitanti, molti dei quali costretti a dormire su delle brandine portate in Guyana dagli stessi adepti. Qualcuno si lamentò e iniziarono a susseguirsi minacce di abbandonare il progetto per fare ritorno negli Stati Uniti.

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Io li scoraggiavo in tutti i modi possibili. Spesso bastavano le mie parole per farli tornare sui propri passi, ma non tutti mi davano l'impressione di aver realmente deposto i propositi di un ritorno in America. Un giorno durante il mio sermone pomeridiano spiegai ai miei fedeli perché non dovevano neanche pensare a lasciare la comunità. «Gli Stati Uniti chiedono l'allontanamento di tutti i neri e gli indiani» urlai al microfono. «Vogliono liberarsi della loro popolazione di migranti entro sei mesi. Le cose in America stanno peggiorando giorno dopo giorno. Non possiamo tornare indietro, sarebbe troppo pericoloso. Sta per scoppiare qualche lungo conflitto, non sono ancora riuscito a capire bene di cosi si tratti e come si svilupperà la cosa, ma la situazione non è bella, miei cari. Credetemi. Solamente qui siamo al riparo da tutto il male». Decisi comunque che era arrivato il momento di organizzare un sistema di controllo più efficiente, in grado di reprimere sul nascere ogni possibile forma di rivolta. Sfruttando le mie amicizie riuscii a far recapitare a Jonestown un discreto carico di armi di contrabbando e scelsi una trentina di ragazzi, tra i più prestanti fisicamente della comunità, che all'insaputa degli altri abitanti avrebbero costituito una sorta di esercito personale ai miei ordini. Pistole di vario calibro e fucili Remington rappresentavano la mia difesa nei confronti di possibili rivoltosi. In gran segreto organizzai un vero e proprio corso di addestramento accelerato. In fondo non dovevano fare altro che imparare a premere un grilletto. Per quattro giorni di fila, in piena notte, mi recai personalmente con i trenta prescelti nella parte più interna della foresta

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utilizzando tre grossi camion. Una volta giunti a destinazione, consegnavo a ognuno di loro un'arma e gli mostravo come funzionava. Alcuni sembravano già abbastanza pratici e dopo la prima notte ritenni che non era il caso di portarli nuovamente con me. Per altri ci fu bisogno di molta più fatica, ma alla fine tutti impararono a usare quelle armi. Per ogni lezione predisponevo dei bersagli di varie forme e nel cuore della notte il silenzio della foresta veniva interrotto solamente dagli spari dei miei uomini. Al villaggio nessuno poteva sentire nulla e feci giurare a tutti i miei nuovi soldati di non dire a nessuno quello che facevamo. «Voi siete il mio braccio, senza di voi Jonestown potrebbe crollare da un momento all'altro». Dovevo farli sentire importanti e responsabilizzati. «Nessuno deve sapere che ci sono armi a Jonestown, qualcuno dei vostri compagni si potrebbe spaventare. Sarò io a dirvi quando serviranno. Io mi fido di voi e so che non farete parola con nessun altro di questa cosa, né alle vostre madri, o mogli o fidanzate. Avete un compito di grande importanza. Dagli Stati Uniti stanno organizzando attacchi contro di noi e non possiamo farci trovare impreparati. Solo per questo motivo sono stato costretto a portare quaggiù pistole e fucili». A nessuno di loro venne in mente di chiedermi come potessero trenta soli uomini fronteggiare un attacco americano, ma la cosa non mi stupì. Per loro ero il punto di riferimento e se gli avessi detto che bastavano solo cinque di loro per sconfiggere un intero esercito, beh, vi assicuro che ci avrebbero creduto. C’era una parte del villaggio accessibile esclusivamente a me, Marceline e altri tre miei collaboratori. In questa zona scelsi una piccola costruzione che sarebbe stata utilizzata come deposito armi e solo noi cinque avevamo la chiave per accedervi. Fine anteprima.Continua...