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JESUS INCHIESTA INCHIESTA JESUS Luglio 2019 · 31 30 · Luglio 2019 L’assistenza religiosa in prigione è garantita per legge solo dai cappellani cattolici. Ma oggi quasi metà dei detenuti professa altre fedi e i loro ministri di culto possono accedere solo su richiesta e dopo un iter complesso. Per gli imam, in mancanza di un’Intesa con lo Stato, è ancora più difficile. Non il massimo, per garantire la libera espressione di una dimensione chiave dell’umano, che è anche un antidoto contro la radicalizzazione testo di Federica Tourn foto di Isabella De Maddalena vite recluse Le immagini di questo servizio fanno parte di un progeo di Isabella De Maddalena, che ha indagato il tema delle donne in carcere alla Casa circondariale di San Viore e all’Icam di Milano e quello del dirio al pluralismo religioso alla Casa circondariale di Monza. In queste due foto: Morena, 43 anni, caolica, detenuta insieme al figlio di due anni all’Icam, l’Istituto a custodia aenuata per detenute madri, di Milano, che ospita mamme con bambini fino ai 6 anni; la sua Bibbia aperta sul Salmo 37, leura molto importante per Morena. Il pluralismo religioso che no n c’è nelle carceri italiane DIO DIETRO LE SBARRE

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JESUS ◊ INCHIESTA INCHIESTA ◊ JESUS

Luglio 2019 · 3130 · Luglio 2019

— L’assistenza religiosa in prigione è garantita per legge solo dai cappellani cattolici. Ma oggi quasi metà dei detenuti professa altre fedi e i loro ministri di culto possono accedere solo su richiesta e dopo un iter complesso. Per gli imam, in mancanza di un’Intesa con lo Stato, è ancora più difficile. Non il massimo, per garantire la libera espressione di una dimensione chiave dell’umano, che è anche un antidoto contro la radicalizzazione

testo di Federica Tourn

foto di Isabella De Maddalena

vite recluseLe immagini di questo servizio fanno parte di un progetto di Isabella De Maddalena, che ha indagato il tema delle donne in carcere alla Casa circondariale di San Vittore e all’Icam di Milano e quello del diritto al pluralismo religioso alla Casa circondariale di Monza. In queste due foto: Morena, 43 anni, cattolica, detenuta insieme al figlio di due anni all’Icam, l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri, di Milano, che ospita mamme con bambini fino ai 6 anni; la sua Bibbia aperta sul Salmo 37, lettura molto importante per Morena.

Il pluralismo religioso che no n c’è nelle carceri italianeDIO DIETRO LE SBARRE

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ëdor Dostoevskij, nella fortez-za di Omsk in Siberia, dove era recluso, non poteva né leggere né scrivere ma aveva soltanto la Bibbia come unico conforto.

Lo racconta nel libro Memorie da una casa di morti, accorato resoconto delle sofferenze che il carcere può infligge-re a un essere umano. Come lui sono tantissimi gli intellettuali, i teologi o le persone comuni che, costrette in una cella, hanno tratto sollievo dalla Parola di Dio. La religione, quando si è reclusi, è a volte l’unica fonte di spe-ranza. E se la Bibbia è un sostegno così importante, perché non il Corano o altri testi sacri?

Nelle carceri italiane però, se non si è cattolici, è ancora molto difficile avere un conforto religioso da un rap-presentante della propria comunità di fede. Infatti, nonostante la legge n. 354 sull’ordinamento penitenziario del 26 luglio 1975 riconosca la libertà di culto e la possibilità di esercitarla dietro le sbarre, resta una discrimi-nazione fra i cappellani cattolici, pre-senti in ogni struttura penitenziaria in forma stabile, e i ministri di altre con-fessioni religiose, che hanno accesso al carcere soltanto se iscritti in appo-siti registri e in seguito a un’espressa richiesta del detenuto. Possibilità pe-raltro riservata alle sole confessioni che abbiano già stipulato un’Intesa con lo Stato. Tutte le altre comunità religiose, che non hanno ancora otte-nuto un pieno riconoscimento giuri-dico, devono richiedere un nulla osta rilasciato ad personam dall’Ufficio cul-ti del Ministero dell’Interno.

In pratica, un musulmano che vo-glia parlare con un imam deve inoltra-re la “domandina” per l’ingresso tem-poraneo di un “operatore”, in virtù dell’articolo 17 sulla «partecipazione della comunità esterna all’azione ri-

UN MUSULMANO CHE VOGLIA PARLARE CON UN IMAM DEVE INOLTRARE LA “DOMANDINA” PER L’INGRESSO TEMPORANEO DI UN “OPERATORE”

Feducativa» prevista dalla legge del 1975, e sperare che la richiesta nel frattempo non si perda nei meandri della burocrazia, o del disinteresse. La recente riforma dell’ordinamento penitenziario, avvenuta con decreto legislativo n. 123 del 2 ottobre 2018, non ha purtroppo fatto grandi passi avanti nella direzione del pluralismo, limitandosi a prevedere che ai dete-nuti venga garantita un’alimentazio-ne rispettosa del loro credo religioso.

Una situazione legislativa sta-gnante, che sembra non tener conto del fatto che gli equilibri fra le diver-se religioni sono ormai cambiati pro-fondamente, dato che quasi la metà della popolazione penitenziaria è oggi composta da non cattolici.

La convinzione che il pluralismo re-ligioso sia una grande risorsa, non abba-stanza valorizzata all’interno del carce-re, ha stimolato la Curia arcivescovile di Milano a promuovere un intervento che promuovesse il dialogo all’inter-no degli istituti di pena. Così nel 2017 è nato “Simurgh: conoscere e gestire il pluralismo religioso negli istituti di pena lombardi”, un progetto trienna-le di formazione rivolto a operatori penitenziari e detenuti, promosso da cattolici, ebrei, buddisti e musulmani in collaborazione con le forze dell’ordi-ne, le università Statale e Cattolica e il Provveditorato per l’amministrazione penitenziaria della Lombardia.

L’obiettivo è quello di contrastare l’analfabetismo religioso e di preve-nire la radicalizzazione attraverso il confronto tra diritti, culture e reli-gioni diverse. Un’idea innovativa, che ha coinvolto 9 istituti di pena sui 19 presenti in Lombardia e che si strut-tura in quattro giornate di incontri e laboratori con il personale e con i car-cerati. Un’iniziativa che non ha

figli di dio checercano misericordia

Nelle immagini qui sotto: Younes, 29 anni, detenuto musulmano originario del Marocco, in un

momento di preghiera nella moschea del carcere di Monza; il testo

di una preghiera islamica. Nella pagina accanto: Shaima, egiziana,

36 anni, detenuta a San Vittore. In basso: la sua copia del Corano

e il tappeto per la preghiera.

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precedenti in Italia e che «va anche incontro alla grande fame spirituale che c’è dietro le sbarre», testimonia Hamid Distefano, della Commissione affari giuridici della Coreis, la Comu-nità religiosa islamica italiana.

La dimensione della detenzione, infatti, stimola molte domande esi-stenziali: «Spesso le persone condan-nate sentono che Dio li ha fermati e che è stata data loro una seconda pos-sibilità», spiega Distefano. «Essere confinati in una cella di sedici metri quadrati con altre tre persone, maga-ri di religione diversa dalla tua, ti co-stringe a chiederti chi sei veramente e a cercare modalità di convivenza ne-cessariamente dialoganti».

Non di rado le testimonianze dei detenuti parlano del desiderio di continuare a vivere da credenti e di mantenere l’abitudine alla preghiera e alla confessione. Evarist, 27 anni, originario dell’Albania e oggi ristret-to nella Casa circondariale di Monza, racconta di quanto sia importante il suo rapporto con la fede: «Sono catto-lico, per me la religione era importan-te fuori dal carcere e continua a esser-lo anche adesso. Prego tutti i giorni: quando vado a dormire e quando mi sveglio. La domenica vado a Messa e prego per la mia famiglia». C’è anche chi ha iniziato un percorso spirituale dietro le sbarre: Younes, 29 anni, vie-ne dal Marocco e non esita a dire che, da quando i cancelli si sono chiusi alle sue spalle, qualcosa è cambiato: «Pri-ma non ero un musulmano pratican-te ma da quando sono stato arrestato penso sempre all’islam», confessa. «Ho cominciato a pregare e credo di essere diventato un musulmano vero. Confido sempre in Dio e spero che mi perdoni per quello che ho fatto».

«Sicuramente chi è privato della

«IN CARCERE HO COMINCIATO A PREGARE E CREDO DI ESSERE DIVENTATO UN MUSULMANO VERO. SPERO CHE DIO MI PERDONI PER QUELLO CHE HO FATTO»

ero carceratoe mi avete visitato

A destra: Evarist, 27 anni, albanese e cattolico. Accanto a lui: la cappella

del carcere di Monza, dove Evarist è recluso. In basso: monsignor Pier Francesco Fumagalli, professore di

Lingua e cultura cinese all’Università Cattolica, è tra i docenti del progetto

“Simurgh” sul pluralismo religioso nelle carceri lombarde. Accanto a lui:

la loggia centrale del Duomo.

Negli istituti carcerari italiani si contano 57.737 detenuti, di cui 19.859 stranieri (il 34,4%). Il 55,75% è composto da cattolici (32.119), una maggioranza decisamente risicata rispetto a qualche decennio fa, quando in carcere c’erano pochi immigrati. Fra i detenuti stranieri il 36,1% è musulmano, anche se molti preferiscono non dichiarare la propria appartenenza religiosa, probabilmente per non essere discriminati. In terza posizione, dopo cattolici e musulmani, ci sono i cristiani ortodossi (4,3%); tutti gli altri si situano al di sotto dell’1%. L’ordinamento penitenziario prevede la presenza di almeno un cappellano per istituto, ma nella realtà si registrano 314 sacerdoti cattolici su 189 carceri, a fronte di 192 ministri di culto evangelici, 9 ebrei, 34 ortodossi, 42 buddisti. Una nota a parte meritano i testimoni di Geova, che hanno 310 ministri di culto registrati a fronte di soli 32 detenuti. Inoltre, secondo i dati 2017 del Dap, su circa 12.567 reclusi provenienti da Paesi di religione musulmana, 7.169 sarebbero praticanti, 97 gli imam e 44 sarebbero i convertiti all’islam durante la detenzione.

I NUMERI UN MONDOMULTIRELIGIOSOANCHEDIETRO LA SBARREdi Federica Tourn

libertà, come chi vive esperienze for-ti, estreme, sente il bisogno di avvi-cinarsi alla spiritualità, perché nella solitudine ci si confronta con i temi grandi della vita», afferma il monaco buddista Tenzin Khentse. «D’altro canto, parlare di religione all’interno delle carceri è anche un modo per av-vicinarci di più l’uno all’altro e scopri-re che siamo simili, al di là delle nostre apparenti differenze».

Imparare a confrontarsi con l’e-spressione della religiosità altrui è un ottimo antidoto contro pregiudizi e diffidenza e aiuta anche il personale di custodia a relazionarsi con i dete-nuti, in un ambiente dove certo non è facile trovare strumenti (e spazi) per vivere la fede. «Noi chiediamo uno sforzo per produrre un cambiamen-to», conferma Ileana Montagnini, che partecipa a Simurgh come Caritas, «e siamo ripagati dal vedere che, dopo un momento di resistenza iniziale, i detenuti rispondono bene alla pro-posta». Il fattore determinante è la compresenza dei rappresentanti delle diverse fedi: come sottolinea anche Distefano, «per loro è molto impor-tante vedere un imam e un rabbino che pregano insieme».

«La religione all’interno del car-cere ha un ruolo centrale, perché i ministri di culto e in generale gli ap-partenenti a una comunità religiosa che vengono a contatto con i detenuti svolgono una funzione di mediazione estremamente importante fra il corpo penitenziario e la società civile». Ser-gio Anastasia lavora come psicologo psicoterapeuta nei carceri di Monza e di Opera, quale esperto ex articolo 80 della legge del 1975, che prevede l’osservazione della personalità e il sostegno psicologico dei detenuti; du-rante il suo lavoro ha verificato

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quanto l’aspetto religioso possa con-correre alla revisione e alla modifica di una condotta delinquenziale. «La spiritualità», afferma, «è proprio uno degli elementi cardine attorno al qua-le può avvenire la riorganizzazione del soggetto».

«Purtroppo, dato che il diritto costituzionale all’espressione religio-sa non è garantito nel nostro Paese», sottolinea Montagnini, «il bisogno di conforto spirituale viene svolto anco-ra principalmente dai cappellani, in-dipendentemente dalla religione del detenuto». La presenza dei sacerdoti fra i condannati risale all’Italia libera-le quando, nel 1891, venne pubblica-to il primo provvedimento completo in materia carceraria: il cappellano all’epoca era nominato dal Ministro di grazia e giustizia su delega del re ed era incaricato di celebrare Messa, confessare i fedeli e visitare i malati. La legge n. 68 del 1982 ha poi con-fermato la responsabilità della Chiesa cattolica nell’istruzione e nell’assi-stenza religiosa in carcere.

«Dal punto di vista pastorale, come cappellani siamo in una posi-zione favorevole perché non abbiamo una funzione di controllo e il detenu-to si sente libero di rivolgersi a noi per ogni genere di necessità, sia materia-le che spirituale», dice don Roberto Mozzi che, in qualità di cappellano nel carcere di San Vittore, ha portato tante copie del Corano in cella che, «per le tantissime richieste», sono andate presto esaurite. «In mancan-za di alternative», racconta, «anche cristiani di altre confessioni parteci-pano alla Messa e càpita che diversi musulmani si uniscano alle nostre preghiere. Noi cerchiamo di creare un ambiente il più aperto e accoglien-te possibile, anche se non è giusto che

il clima è cambiato da quando è iniziata questa collaborazione; speriamo che il ministero della Giustizia estenda que-sto progetto pilota anche ad altri isti-tuti. Anche perché, in mancanza di al-ternative serie, i detenuti sono spinti a cercare comunque figure di riferimen-to all’interno del carcere, con il rischio di affidarsi a “cattivi maestri”».

Secondo il Dap, nel 2017 erano 97 i detenuti-imam e 44 i neoconvertiti all’islam; anche se in Italia non emer-gono ancora numeri che indichino un’emergenza radicalizzazione, age-volare la pratica delle diversi fedi in carcere è un ottimo antidoto al fonda-mentalismo. Facile a dirsi, ma gli osta-coli sono ancora tanti.

Lo testimonia anche don Sandro Spriano, cappellano a Rebibbia: «La nostra pastorale è indirizzata a tut-ti, così come la Messa domenicale e ogni iniziativa di assistenza. La verità, però, è che è molto difficile ottenere la collaborazione degli altri ministri di culto perché o non sono disponibili, o se vengono non hanno interesse a fare un lavoro ecumenico. La priorità è co-munque accompagnare le persone, al di là della fede che professano, perché il carcere ti stacca da tutto e quello di cui hai più bisogno quando sei recluso è una relazione umana decente».

Se parliamo di proselitismo, poi, è giusto sottolineare che non è una prerogativa dei musulmani: secon-do l’Associazione Antigone, infatti, il numero dei ministri di culto dei Te-stimoni di Geova nel 2016 superava di gran lunga quello dei detenuti del-la medesima confessione (310 su 32), segno che il carcere, con le sue fragili-tà, può diventare un fertile bacino di raccolta di nuovi adepti.

In ogni caso è determinante do-tarsi di strumenti di compren-

le religioni, via per il cambiamento Nelle foto a sinistra: il monaco buddista Tenzin Khentse (Cesare Milani) nella biblioteca del carcere di Monza mostra il gesto dell’offerta del mandala. Nelle foto sotto: Jolit Shaker, egiziana, 42 anni, mediatrice culturale di lingua araba, e, accanto, il testo in arabo della preghiera Per la nostra terra di papa Francesco.

una religione si debba adeguare ai riti e ai linguaggi di un’altra».

Per quanto riguarda i luoghi dove praticare la fede, ogni struttura de-tentiva ha almeno una cappella dove si possono svolgere le funzioni men-tre, secondo i dati raccolti dall’As-sociazione Antigone nel suo ultimo Rapporto sulle condizioni di detenzio-ne, alla fine del 2017 su 86 istituti solo in 20 (23% del totale) erano presenti spazi per culti non cattolici, anche se previsti espressamente dalla legge del 1975. Questo significa che nel 77% degli istituti chi vuole pregare può farlo soltanto in cella e nel 13,3% del-le carceri non entra alcun ministro di culto diverso dal cappellano cattolico.

«Inutile dire che tutto è lasciato alla sensibilità del direttore del singo-lo istituto e che i tempi possono essere anche molto lunghi», conclude Diste-fano. Ci sono esperienze virtuose, che dovrebbero fare scuola: per esempio a San Vittore si organizza un corso di lettura parallela di Bibbia e Corano e si sta cercando di allestire una “Scuola delle religioni” permanente, che coin-volga le diverse realtà sul territorio. Il Consiglio delle Chiese cristiane di Milano, poi, propone nella sezione femminile un incontro ecumenico di preghiera due volte all’anno.

Per cercare di agevolare il dialogo con i musulmani, nel 2015 il Diparti-mento dell’amministrazione peniten-ziaria (Dap) ha firmato un protocollo d’intesa con l’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche italiane, che pre-vedeva l’ingresso di guide spirituali islamiche in otto istituti di pena: «Ci sono voluti anni per mettere in pratica questo progetto ma alla fine i risultati sono molto incoraggianti», conferma l’ex presidente dell’Ucoii, Izzedin El-zir. «Sia l’amministrazione peniten-ziaria che i carcerati testimoniano che

«SE SI RIESCE A VIVERE BENE QUA IN CARCERE, SI VIVRÀ BENE ANCHE FUORI. ALTRIMENTI CI SI RITROVERÀ SEMPRE IN UNA PRIGIONE SENZA SBARRE»

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reclusione e sofferenzadella psicheQui sopra, a sinistra: Sergio Anastasia, psicoterapeuta che lavora nelle carceri di Monza e Opera. Nell’immagine accanto: il suo ufficio nella casa circondariale di Monza.

sione, soprattutto in un mondo che cambia così in fretta. «Negli anni Novanta la popolazione straniera non arrivava al 10%, mentre oggi a San Vittore abbiamo il 75% di dete-nuti non italiani, in maggioranza mu-sulmani»: l’ammonimento a calarsi nella realtà è di Luigi Pagano, prov-veditore regionale per la Lombardia dell’Amministrazione penitenziaria. «Varare leggi non basta», avverte, «bisogna prima affrontare i problemi quotidiani, la difficoltà di comunica-zione fra detenuti e operatori, e su-perare gli ostacoli di un sistema che ha puntato troppo sulla reclusione e poco sulle pene alternative».

Pagano, che si definisce un «carce-riere che ama poco il carcere», mette il dito nella piaga, osservando come molte iniziative falliscano proprio perché si parla di situazioni ideali,

senza voler aprire gli occhi su istituti inadeguati, sovraffollati, deresponsa-bilizzanti, dove «il detenuto si sente osservato continuamente dall’autori-tà come fosse sotto l’occhio di Dio». Non è un caso, insomma, se con la sentenza Torreggiani dell’8 genna-io 2013, la Corte europea dei diritti dell’uomo giudicò la condizione dei reclusi italiani «degradante».

Intervenuto lo scorso 23 gennaio a Milano al dibattito su “Carcere e fedi” organizzato dalla rivista Con-fronti – che al tema del dialogo inter-religioso dietro le sbarre ha dedicato un tavolo permanente di dibattito e un numero monografico – il provve-ditore Pagano ha sottolineato che gli stessi Stati generali sull’esecuzione penale convocati dal ministero della Giustizia nel 2015 – primo tentativo dal 1975 di riordinamento generale del sistema carcerario – si sono limi-tati a «prefigurare il carcere dei sogni, dimenticando di occuparsi di quello che c’era e che andava cambiato».

E tra le cose che vanno cambiate con urgenza, come suggerisce sag-giamente don Mozzi, c’è proprio la questione del (mancato) pluralismo: «Questa disparità di trattamento fra cattolici e credenti di altre fedi si pote-va forse ancora accettare nel 1975, ma oggi è diventata del tutto anacronisti-ca e poco lungimirante». D’altronde, come suggerisce il monaco Tenzin Khentse, utilizzare bene il tempo della reclusione può essere un’opportunità di confronto con i valori importanti della vita, con ciò che conta davvero: «Se si riesce a vivere bene qua in carce-re, si vivrà bene anche fuori. Altrimen-ti ci si ritroverà sempre in una prigione senza sbarre».

(Ha collaboratoIsabella De Maddalena)

«LA DISPARITÀ DI TRATTAMENTO FRA CATTOLICI E CREDENTI DI ALTRE FEDI OGGI È DIVENTATA DEL TUTTO ANACRONISTICA E POCO LUNGIMIRANTE»