James joyce gente di dublino

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1 James Joyce GENTE DI DUBLINO Traduzione di Marco Papi e Emilio Tadini > digitalizzazione a cura di Yorikarus @ http://forum.tntvillage.scambioetico.org <

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James Joyce

GENTE DI DUBLINO

Traduzione di Marco Papi e Emilio Tadini

> digitalizzazione a cura di Yorikarus @ http://forum.tntvillage.scambioetico.org <

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Sorelle

Non c’era speranza per lui questa volta: era il terzo attacco. Sera per sera passavo

dinanzi alla sua casa (si era in tempo di vacanze) e scrutavo il quadrato di luce

della finestra, e sera per sera lo trovavo illuminato allo stesso modo, debole e

eguale. Se fosse morto, pensavo, vedrei il riflesso delle candele sulle imposte

abbassate, poiché sapevo che si mettono due ceri accesi al capezzale di un

defunto. Spesso mi diceva: - Non ci resterò più per molto in questo mondo, - e io

credevo che parlasse a vuoto. Capivo adesso che diceva la verità. Ogni sera

alzando gli occhi alla finestra ripetevo piano fra me la parola «paralisi». M’era

sempre suonata strana, come «gnomone» in Euclide o «simonia» nel catechismo.

Ora però mi suonava come il nome di un essere malefico e peccaminoso; un

essere che mi riempiva di terrore e al quale al tempo stesso avrei voluto star

vicino per assistere alla sua opera mortale.

Quando scesi per cena trovai il vecchio Cotter che fumava, seduto accanto al

fuoco. E mentre la zia mi scodellava la minestra, disse, come tornando su una

precedente osservazione: - No, non che fosse proprio... ma c’era qualcosa di

strano, sì... qualcosa di misterioso in lui. Vi dirò la mia opinione...

Prese a tirar boccate dalla pipa e certo pensava fra sé al miglior modo di

formulare questa sua opinione. Vecchio imbecille! I primi tempi che lo

conoscevamo quasi m’interessava coi suoi discorsi su storte e alambicchi: ma poi

avevo fatto presto a stancarmi di lui e delle sue chiacchiere interminabili sulle

distillerie.

- Ho la mia teoria in proposito, - disse. - Secondo me è uno... uno di quei casi

particolari, insomma. Ma è difficile a spiegarsi...

E si rimise a tirare alla pipa senza spiegarcela, la sua teoria. Lo zio, visto che

stavo lì ad occhi spalancati, mi disse:

- Be’, ti dispiacerà saperlo, ma il tuo vecchio amico se n’è andato.

- Chi? - domandai.

- Padre Flynn.

- È morto?

- Ce lo diceva giusto ora il signor Cotter. È passato da casa sua.

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Sapevo di essere osservato, così continuai a mangiare come se non m’importasse

della notizia. Lo zio spiegò al vecchio Cotter:

- Erano grandi amici, lui e il ragazzo. Pover’uomo, gl’insegnava un sacco di cose.

Dicevano tutti che gli voleva un gran bene.

- Dio l’abbia in gloria, - commentò la zia in tono pio.

Il vecchio Cotter mi guardò. Sentivo quei suoi occhietti neri a capocchia di spillo

che mi scrutavano, ma non volli dargli la soddisfazione di alzare i miei dal piatto.

Tornò alla sua pipa e alla fine sputò con forza sulla grata.

- Non mi garberebbe che figli miei avessero a che fare con un uomo simile, -

dichiarò.

- Che volete dire signor Cotter? - chiese la zia.

- Voglio dire che non hanno nulla da guadagnarci, ecco. Per conto mio, i ragazzi

dovrebbero correre e divertirsi fra di loro e non essere... Ho ragione Jack?

- Sono del tuo parere anch’io, - disse lo zio. - Che impari a difendere il suo posto

nel mondo. È quel che dico sempre a questo Rosacroce qui. Fa’ della ginnastica.

Quando ero ragazzo, ogni mattina senza fallo, estate o inverno, mi facevo un bel

bagno freddo. Ecco perché sono ancora in gamba adesso. L’istruzione sarà una

bella cosa ma... Forse il signor Cotter l’assaggerebbe volentieri un po’ di quel

coscio di montone... - aggiunse rivolgendosi alla zia.

- No, no, prego, - si schermì quello.

La zia prese il piatto dalla credenza e lo posò sul tavolo.

- Ma perché secondo voi, signor Cotter, sarebbe un male per i ragazzi? - insisté.

- Perché sono di natura impressionabile. E il vedere certe cose, non so se mi

spiego, ha un effetto...

Mi riempii la bocca di minestra per timore di dare sfogo alla mia rabbia. Vecchio

peperone rammollito!

Era tardi quando m’addormentai. Sebbene ce l’avessi col vecchio Cotter per quel

suo trattarmi da marmocchio, mi torturavo il cervello per trarre un qualche

significato dalle sue frasi lasciate a mezzo. Nel buio della stanza mi immaginavo

di rivedere la faccia grigia e massiccia del paralitico. Mi tirai le coperte fin sulla

testa e cercai di pensare al Natale.

Ma la faccia grigia mi perseguitava. Bisbigliava piano e capivo che voleva

confessarmi qualcosa. Sentivo che il mio animo si ritraeva nei recessi di una

regione piacevole e viziosa e qui di nuovo ritrovavo quella faccia ad aspettarmi.

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Cominciava a confessarsi in un bisbiglio e mi chiedevo perché sorridesse di

continuo e perché le labbra fossero umide di saliva. Poi mi ricordavo che era

morto di paralisi e sentivo che sorridevo anch’io, debolmente, come per assolvere

il simoniaco dal suo peccato.

L’indomani mattina, dopo colazione, andai a dare un’occhiata alla casa, in Great

Britain Street. Era una bottega modesta, catalogata sotto la generica dicitura:

«Abbigliamento». Per la maggior parte poi questo abbigliamento consisteva in

ombrelli e scarponcini per ragazzi e di solito in vetrina pendeva un cartello con la

scritta «Si ricoprono ombrelli». Adesso però non si vedevano cartelli di sorta

perché i battenti erano chiusi e alla maniglia era legato con un nastro un fiocco di

crespo nero. Due donnette e un fattorino del telegrafo leggevano il biglietto

appuntato sul crespo. M’avvicinai anch’io e lessi:

11 Luglio 1895

Il Rev. James Flynn (già della Chiesa di Santa Caterina in Meath Street) di anni

65 – R. I. P.

La lettura del biglietto mi convinse che era morto e il trovarmi così di fronte

all’evidenza mi turbò. Se fosse stato ancora in vita sarei andato nella stanzetta

buia del retrobottega e lo avrei trovato là in poltrona, vicino al fuoco, mezzo

affogato nelle pieghe della sottana. Forse la zia mi avrebbe dato da portargli un

pacchetto di High Toast e il regalo sarebbe valso a destarlo dal suo torpore. Ero

sempre io a vuotargli il pacchetto nella vecchia tabacchiera nera: le mani gli

tremavano troppo perché potesse farlo da sé senza versarne metà sull’impiantito.

Perfino nel gesto di portarsi la grossa mano tremula al naso, nuvolette brune gli

sfuggivano di fra le dita cadendogli in rivoli sul davanti della veste. E forse era

proprio questo innaffiamento continuo a dare ai suoi vecchi abiti talari quel

colore verdastro; tanto più che il fazzoletto rosso, annerito, come sempre, dalle

macchie di tabacco di un’intera settimana, e col quale tentava di spolverarsi, si

rivelava del tutto insufficiente allo scopo.

Avrei voluto entrare a vederlo ma non ebbi il coraggio di bussare alla porta.

M’allontanai adagio lungo il lato assolato della strada e passando dinanzi ai

negozi mi leggevo via via tutti gli avvisi teatrali esposti in vetrina. Trovavo strano

che né io né la giornata fossimo disposti alla tristezza e mi dispiaceva scoprire

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anzi in me quasi un senso di sollievo perché, come aveva detto lo zio la sera

prima, egli m’era stato in molte cose maestro. Aveva studiato nei collegio dei Padri

irlandesi a Roma e così mi aveva appreso una corretta pronuncia latina. Soleva

raccontarmi aneddoti sulle catacombe o su Napoleone Bonaparte e m’aveva

spiegato il significato delle diverse cerimonie della Messa nonché dei diversi

paramenti indossati dal sacerdote. A volte si divertiva a sottopormi difficili quesiti,

chiedendomi come ci si dovesse comportare in date circostanze e se certi peccati

fossero da considerarsi mortali o veniali o, altrimenti, semplici imperfezioni. Tali

domande mi dimostravano quanto misteriose e complesse fossero certe istituzioni

della Chiesa che fino allora avevo riguardato come le cose più elementari. Le

responsabilità del sacerdote nei confronti dell’Eucarestia e del segreto della

Confessione mi apparivano addirittura di tal gravità che mi stupivo si potesse

trovare chi aveva il coraggio di portarne il peso; e non rimanevo affatto sorpreso

quando mi raccontava che i Padri della Chiesa avevano scritto volumi e volumi,

dello spessore dell’annuario delle poste e di stampa fitta come il notiziario legale

dei giornali, al fine di delucidare tutte quelle intricate questioni. Spesso,

pensandoci, non riuscivo a rispondergli oppure mi veniva alle labbra solo una

risposta molto sciocca o confusa, della quale egli era solito sorridere scuotendo il

capo, due o tre volte. Talora invece mi faceva ripassare le risposte della Messa,

che aveva voluto imparassi a memoria e quando incespicavo sorrideva pensoso e

scuoteva la testa, fiutando enormi prese di tabacco ora da una narice ora

dall’altra, alternativamente. Di solito, quando sorrideva, scopriva i grossi denti

giallastri e lasciava pendere la lingua sul labbro inferiore; abitudine che sul

principio della nostra amicizia, prima ancora di conoscerlo bene, mi dava un

certo disagio.

Mentre camminavo al sole mi tornarono in mente le parole del vecchio Cotter e

cercai di rammentarmi cosa fosse accaduto, dopo, nel sogno. Ricordavo di aver

visto lunghe tende di velluto e una lampada antica che dondolava... Sentivo che

dovevo essere stato via, lontano lontano, in un paese dalle usanze strane, in

Persia forse... Ma non riuscivo a rammentarmi come fosse finito il sogno.

Quella sera la zia mi portò con sé a far visita in casa del defunto. Era dopo il

tramonto ma i vetri delle finestre delle case che guardavano a occidente

riflettevano ancora l’oro cupo di una gran massa di nubi. Nannie ci ricevette

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nell’entrata e poiché sarebbe parso sconveniente rivolgerle la parola ad alta voce,

la zia si limitò a stringerle la mano.

Con fare interrogativo la vecchia alzò gli occhi verso il piano superiore e a un

cenno di consenso della zia ci fece strada arrancando su per le scale, con la testa

curva che sporgeva appena di sopra la ringhiera. Sul primo pianerottolo si fermò

e con gesto incoraggiante additò la porta aperta della stanza funebre. La zia entrò

per prima e la vecchia, vedendo che esitavo, rinnovò più volte con cenni della

mano l’invito.

Entrai in punta di piedi. Attraverso l’orlo di trina delle tende filtrava nella stanza

una cupa luce dorata in cui le candele apparivano come pallide fiamme lievi.

L’avevano già messo nella bara. Nannie diede l’esempio e tutti e tre

c’inginocchiammo ai piedi del letto. Feci finta di pregare ma non riuscivo a

raccogliere le idee perché il borbottio della vecchia mi distraeva. Le guardavo la

sottana goffamente agganciata sul dorso e i tacchi delle scarpe di panno tutti

storti da un lato. E mi venne in mente che il vecchio prete ne dovesse sorridere,

disteso là, nella bara.

Ma no. Quando ci alzammo e ci avvicinammo a capo del letto vidi che non

sorrideva. Giaceva massiccio e solenne, vestito come per andare all’altare, un

calice fra le grosse mani abbandonate. Aveva una faccia truce, grigia e pesante,

con le narici nere e fonde cerchiate di rada peluria bianca. E c’era un odor greve

nella stanza, i fiori.

Ci segnammo ed uscimmo. Nella stanzetta dabbasso trovammo Eliza seduta

solennemente nella poltrona del prete. Mi diressi incerto verso la mia solita sedia,

nell’angolo, mentre Nannie s’avvicinava alla credenza e ne toglieva una bottiglia di

sherry e dei bicchieri. Li posò sul tavolo e ci invitò a bere. Poi, ad un cenno della

sorella, versò lo sherry nei bicchieri e ce li porse. Si fece anche premura

d’insistere perché prendessi del croccante, ma rifiutai pensando al rumore che

avrei fatto mangiandolo. Ebbe quasi l’aria di restar male al mio rifiuto e in silenzio

s’accostò al divano dove sedette alle spalle della sorella. Nessuno parlava.

Guardavamo tutti il focolare vuoto.

La zia attese un sospiro da parte di Eliza, poi disse:

- Be’ se n’è andato in un mondo migliore.

Eliza sospirò di nuovo e chinò il capo in assenso. Ad ogni sorso la zia si gingillava

col piede del bicchiere.

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- E... è morto serenamente? - chiese.

- Oh, sì, serenamente, signora, - disse Eliza. - Non ci si è neanche accorti di

quando ha esalato l’ultimo respiro. Una bella morte, sì, ringraziando Iddio.

- E per i...

- È venuto Padre O’Rourke martedì a dargli l’Estrema Unzione e a prepararlo.

- Sapeva, allora?

- Era pienamente rassegnato.

- Si vede, infatti.

- È quel che ha detto la donna ch’è venuta a lavarlo. Pare che dorma, ha detto,

tanto ha l’aria serena e rassegnata. Chi avrebbe detto che avrebbe fatto una così

bella salma.

- Già, è vero, - disse la zia.

Bevve un altro sorso e aggiunse:

- Ad ogni modo, signorina Flynn, dev’esservi di gran consolazione il pensiero che

avete fatto tutto quel che potevate per lui. Bisogna riconoscere che siete state

buone assai, tutt’e due.

Eliza si lisciò il vestito sulle ginocchia.

- Eh, povero James! Dio sa se abbiamo fatto il possibile, povere come siamo... Ma

mai, fintanto che era in vita, gli avremmo fatto mancare qualcosa...

Nannie aveva appoggiato la testa sul cuscino del divano e pareva lì lì per

addormentarsi.

- Guardate un po’ la povera Nannie, - disse Eliza, - è sfinita. Tutto quel che

abbiamo avuto da fare lei ed io, e chiamare la donna per lavarlo, e preparare la

salma, e la bara, e prendere gli accordi per la messa nella cappella... Se non fosse

stato per Padre O’Rourke non so proprio come ce la saremmo cavata. È stato lui a

portarci tutti i fiori e perfino quei due candelabri dalla chiesa. Lui che ha scritto

l’annuncio per il «Freeman’s General» e s’è incaricato dei documenti per il cimitero

e per l’assicurazione del povero James.

- Ah, ma è stato buono davvero! - disse la zia.

Eliza chiuse gli occhi e scosse la testa, adagio.

- Solo dei vecchi amici ci si può fidare, - disse. - Alla resa dei conti se no, non

trovi un cane che t’aiuti.

- È vero, e come se è vero, - disse la zia. - E sono certa che ora ch’è andato a

ricevere il premio eterno non si dimenticherà di voi e della vostra bontà.

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- Eh, povero James... Non era davvero che ci desse fastidio. Non si sentiva

nemmeno in casa, non più di ora... Eppure so che se n’è andato e...

- Quando sarà finito tutto, allora sì che ne sentirete la mancanza, - disse la zia.

- Lo so. Non gli porterò più la sua tazza di brodo e voi signora non avrete più da

mandargli il tabacco... povero James!

Tacque, come in intima comunione col passato, poi riprese cauta:

- Vedete, m’ero accorta, in questi ultimi tempi, che doveva avere qualcosa. Ogni

volta che gli portavo la minestra lo trovavo qui sdraiato nella poltrona col

breviario che gli era caduto per terra e la bocca spalancata.

Si posò un dito sul naso corrugando la fronte. Poi seguitò:

- Eppure, continuava a dire che un giorno di bel tempo, prima che finisse l’estate,

avrebbe fatto una gita in carrozza, tanto per rivedere la casa dove siamo nati, giù

a Irishtown e ci avrebbe portate con sé, Nannie ed io. Se avessimo potuto trovare

qui di fronte, diceva, da John Rush, una di quelle carrozzelle moderne che non

fanno rumore, di cui gli aveva parlato Padre O’Rourke, di quelle insomma con le

ruote gommate, per intenderci, da prendere a nolo per tutta la giornata, allora ci

si sarebbe potuti andare tutti e tre insieme, una domenica sera... Ci s’era fissato,

povero James!

- Che Dio abbia misericordia dell’anima sua! - commentò la zia.

Eliza tirò fuori il fazzoletto e s’asciugò il naso. Poi se lo rimise in tasca e per un

po’ stette lì a fissare il caminetto vuoto in silenzio.

- Ha avuto sempre troppi scrupoli, - disse. - I doveri del sacerdozio erano troppo

per lui. E così ha avuto una vita, come dire... contrariata, ecco.

- Già. Un uomo deluso. Si vedeva.

Il silenzio s’impadronì della stanza e profittandone mi avvicinai al tavolo,

assaggiai il mio sherry e me ne tornai pian pianino nel mio angolo. Eliza pareva

immersa in profonda meditazione. Aspettammo reverenti che rompesse il silenzio.

Alla fine, dopo una lunga pausa, disse adagio:

- Fu quel calice che ruppe... Da lì cominciò ogni cosa. Naturalmente dicevano

tutti che non c’era da darvi peso... era un calice vuoto, voglio dire. Eppure... Pare

che fosse stata colpa del chierico. Ma il povero James era così nervoso, Dio gli

perdoni!

- Fu quello, allora? - fece la zia. - Ne avevo sentito parlare ma...

Eliza accennò di sì col capo.

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- Gli scombussolò la mente. Da allora cominciò a intristirsi, a non voler più

parlare con nessuno e ad andare in giro da solo. Così una sera che l’avevano

mandato a chiamare, non riuscirono a trovarlo da nessuna parte. Lo cercarono in

lungo e in largo, dappertutto... macché, non lo trovavano. Alla fine il sagrestano

suggerì che poteva essere in cappella e col Padre O’Rourke e un altro prete ch’era

lì entrarono con un lume a cercarlo. E lo credereste? Lo trovarono là, solo solo,

nel buio del confessionale, completamente sveglio e che se la rideva piano fra sé.

S’interruppe d’un tratto come per ascoltare. Stetti in ascolto anch’io ma non

s’udiva suono in tutta la casa e sapevo che il vecchio prete giaceva immobile nella

bara, come lo avevamo visto noi, solenne e truce nella morte, il calice

abbandonato sul petto. Eliza riprese:

- Completamente sveglio, sì e che se la rideva piano fra sé...

Naturalmente quando se ne accorsero pensarono subito che dovesse avergli dato

di volta il cervello...

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Un incontro

Fu Joe Dillon a farci conoscere il Far West. Aveva una piccola biblioteca fatta di

vecchi numeri dell’«Union Jack», del «Pluck» e dell’«Halfpenny Marvel». Ogni sera,

usciti di scuola, ci si riuniva nel giardino sul retro di casa sua e là organizzavamo

battaglie indiane. Lui e quel grassone del suo fratello minore, Leo, lo sfaticato,

tenevano il soppalco della stalla e noi, dal basso, si tentava di prenderlo d’assalto;

quando non ci disponevamo invece a combattere battaglie in piena regola

sull’erba. Ma per quanto ci si mettesse d’impegno mai riuscimmo a vincere né

assedio né battaglie e tutte le nostre imprese terminavano immancabilmente con

la vittoriosa danza di guerra di Joe Dillon. Tutte

le mattine i suoi genitori andavano alla messa delle otto in Gardiner Street, e nel

vestibolo indugiava sempre il soave profumo della signora Dillon. Per noi però,

più piccoli e più timidi com’eravamo, egli era troppo violento nei suoi giochi.

Pareva proprio un indiano quando con un vecchio copriteiera in testa scorrazzava

su e giù per il giardino battendo col pugno su una latta e urlando:

- Ya! Yaka, yaka, yaka, ya!

Stentammo a crederlo quando ci vennero a dire che aveva vocazione al

sacerdozio. Eppure era vero.

Ben presto uno spirito di rivolta si diffuse fra noi e sotto la sua influenza anche

diversità di cultura e di temperamento furon messe da parte. Ci si raccolse tutti

in una banda, chi per arditezza, chi per gioco, altri per paura, e nel numero di

questi ultimi indiani riluttanti che avevano timore di apparire deboli o sgobboni,

c’ero anch’io. Le avventure descritte dalla letteratura del Far West erano ben

lontane dalla mia natura, ma servivano almeno ad aprire le porte all’evasione. Si

confacevano di più al mio gusto certi racconti polizieschi, ravvivati da fugaci

apparizioni di belle ragazze, fiere e scapigliate. E sebbene non ci fosse nulla di

male in questo genere di racconti, non privi a volte di velleità letterarie, pure a

scuola li facevano circolare di nascosto.

Un giorno che Padre Butler stava interrogando sulle solite quattro pagine di storia

romana, quello sciocco di Leo Dillon si fece sorprendere con una copia

dell’«Halfpenny Marvel».

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- Che pagina allora? Questa o quella? Questa?... Su Dillon, alzati... «Appena il

giorno... » Avanti! Che giorno?... «Appena il giorno si fu levato...» Ma insomma hai

studiato sì o no? Che cos’hai lì in tasca?

Ci prese a tutti il batticuore quando Leo Dillon tirò fuori il giornale e tutti si fece il

viso innocente. Padre Butler sfogliò le pagine, accigliato.

- Ma che roba è? «Il capo degli Apaches!» E così è questo che leggete invece di

studiare la storia romana! Che non trovi più porcherie simili in iscuola! Chi le ha

scritte doveva essere proprio un disgraziato che adoperava la penna tanto per

guadagnarsi di che bere. E mi stupisce che ragazzi come voi, colti e educati,

leggano di queste sciocchezze. Lo capirei se foste... che so... allievi della Scuola

Nazionale. Siamo intesi allora, Dillon. T’avverto una volta per tutte: mettiti sul

serio al lavoro o...

Dinanzi alla gravità della ramanzina nel raccolto silenzio delle ore di scuola, la

gloria del Far West perse ai miei occhi molto del suo splendore e la grassa faccia

imbarazzata di Leo Dillon mi destò seri scrupoli di coscienza. Ma fuori di questa

influenza moderatrice mi riprendeva la sete di sensazioni violente e di un’evasione

che solo quelle cronache di disordine parevano offrirmi. Le finte battaglie della

sera mi divennero altrettanto noiose del giornaliero tran tran della scuola al

mattino, poiché il mio era adesso un desiderio di avventure vere. Ma, riflettevo,

non capitano mai le avventure a chi se ne sta a casa propria: bisogna andar fuori

a cercarsele.

S’avvicinavano le vacanze estive allorché mi risolsi a rompere per un giorno

almeno la monotonia della mia vita di scolaro. Con Leo Dillon e un certo Mahony

combinammo di marinare la scuola, una giornata intera. Avevamo in serbo sei

“pence” ciascuno. Ci saremmo dovuti trovare sul ponte, alle dieci del mattino. La

sorella maggiore di Mahony gli avrebbe scritto un biglietto di giustificazione e Leo

Dillon avrebbe incaricato il fratello di dire che era ammalato. Avevamo stabilito di

prendere giù per la Wharf Road fino alla darsena e là di fare la traversata in

“ferry-boat” per spingerci fino alla Pigeon House. Leo Dillon aveva paura che

incontrassimo Padre Butler o qualcun altro del Collegio, ma Mahony obbiettò con

molto buon senso che cosa avrebbe mai potuto andare a fare Padre Butler alla

Pigeon House. Rassicurati che si fu su questo punto, spettò a me di portare a

termine la prima parte del programma facendomi dare i sei “pence” dagli altri due

e mostrando allo stesso tempo i miei. Eravamo tutti un po’ eccitati la vigilia,

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quando prendemmo gli ultimi accordi. Ci stringemmo la mano ridendo e Mahony

disse:

- A domani, camerati!

Dormii male quella notte. Al mattino fui il primo ad arrivare al ponte, poiché ero

quello che abitava più vicino. Nascosi i libri nell’erba folta accanto

all’immondezzaio, in fondo al giardino, dove non andava mai nessuno, e

m’affrettai lungo il fiume. Era un mattino di primo giugno, dolce e soleggiato. Mi

sedetti sul parapetto del ponte e presi ad ammirarmi le leggere scarpe di tela che

avevo diligentemente pulito col bianchetto la sera prima; a osservare i docili

cavalli di un omnibus carico di gente indaffarata, che arrancavano adagio su per

la collina. I rami degli alti alberi sul viale si ergevano tutti in un’allegria di

foglioline verde chiaro e il sole le traversava cadendo di sbieco sull’acqua. La

pietra del parapetto cominciava a riscaldarsi e io presi a batterla con le mani sul

ritmo di un motivo che avevo in mente. Ero felice.

Saranno stati cinque o dieci minuti che stavo lì seduto quando vidi apparire di

lontano il vestito grigio di Mahony. Saliva sorridendo la collina e raggiunto che

m’ebbe mi s’arrampicò accanto sul parapetto.

Mentre aspettavamo tirò fuori la fionda che gli gonfiava la tasca e mi spiegò tutti i

miglioramenti che vi aveva fatti. Gli chiesi perché l’aveva portata e lui rispose che

voleva divertirsi a tirare agli uccelli. Mahony non si peritava di usare il dialetto e

parlava di Padre Butler come del «vecchio sgonfione». Aspettammo un altro quarto

d’ora ma Leo Dillon non si vedeva. Alla fine Mahony saltò giù dal parapetto.

- Andiamocene, va’! Lo sapevo che avrebbe avuto fifa, il grassone.

- Ma... e i suoi sei “pence”?

- Requisiti. Tanto meglio per noi. Avremo uno scellino e mezzo invece d’uno solo.

Prendemmo giù per la North Strand Road fino alla fabbrica del vetriolo e poi

voltammo a destra lungo la Wharf Road. Appena fummo fuori di vista Mahony si

mise a fare l’indiano. Impugnata la fionda scarica diede la caccia a un branco di

ragazzine cenciose e quando due straccioncelli per spirito di cavalleria

cominciarono a prenderci a sassate, mi propose di dar loro battaglia. Osservai che

erano troppo piccoli e così proseguimmo per la nostra strada mentre la

marmaglia prendendoci evidentemente per protestanti, perché Mahony, che era

assai scuro di pelle, portava sul berretto il distintivo d’argento di un’associazione

di cricket, ci gridava dietro: «“Swaddlers! Swaddlers!”» [Termine spregiativo con cui

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gli irlandesi sogliono chiamare i protestanti. – N.d.T.]. Arrivati a Smoothing Iron

stabilimmo di organizzare un assedio in grande stile, ma fu un fiasco perché

avremmo dovuto essere almeno in tre. Ci vendicammo allora di Leo Dillon dicendo

che era un fifone e domandandoci chissà quante gliene avrebbe dette il signor

Ryan alla lezione delle tre.

Arrivammo così al fiume. Per un bel pezzo seguitammo a vagabondare per le

strade rumorose fiancheggiate da alti muri di pietra. Ci fermavamo intenti dinanzi

a manovre di gru e locomotive e la nostra immobilità non mancava d’attirarci le

fiorite apostrofi dei carrettieri.

Fummo al molo a mezzogiorno passato e poiché pareva che tutti gli operai se ne

fossero andati a far colazione, ci comprammo anche noi due belle focacce all’uva e

ce le mangiammo seduti sulle tubature vicino al fiume. Ci godevamo lo spettacolo

del traffico dublinese: i vaporetti che si annunciavano da lontano con fiocchi di

fumo lanoso, le brune barche da pesca oltre il Ringsend e il gran veliero bianco

che scaricava dall’altra parte della banchina. Mahony disse che sarebbe stata una

gran bella cosa potersene andare via sul mare in uno di quei barconi e anch’io

guardando le alte alberature vedevo o immaginavo di vedere quella geografia che

a scuola mi veniva propinata in dosi così modeste, prendere a poco a poco

sostanza sotto i miei occhi. Ma già pareva che scuola e casa s’allontanassero

sempre più e ogni loro influenza scompariva.

Traversammo il Liffey in “ferry-boat”, pagando il nostro pedaggio per essere

traghettati in compagnia di due operai e di un piccolo ebreo con un sacco.

Avevamo un’aria seria, quasi solenne, ma l’unica volta che in quel breve tragitto i

nostri sguardi s’incontrarono, scoppiammo a ridere tutti e due. Approdati che

fummo ci fermammo a veder scaricare il bel tre alberi che avevamo già notato

dall’altra parte del porto. Un tale che stava lì ci disse che era un battello

norvegese. M’avvicinai a poppa per cercare di decifrarne il nome, ma non ci riuscii

e tornato indietro mi misi allora a osservare i marinai forestieri per vedere se per

caso ce n’era qualcuno con gli occhi verdi, poiché, ricordavo, m’avevano detto...

Ma li avevano tutti azzurri o grigi o anche neri e l’unico ad averli quasi verdi era

un uomo alto che dava spettacolo alla folla raggruppata sulla banchina gridando

allegramente ad ogni cadere di tavole:

- Bene! Bene!

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Quando fummo stanchi di stare a guardare, ci avviammo adagio verso il

Ringsend. La giornata s’era fatta afosa e nelle vetrine di droghiere stavano a

scolorire biscotti ammuffiti. Ci comprammo un po’ di biscotti e di cioccolata e ce li

mangiammo pian piano vagabondando per le squallide viuzze dove abitavano le

famiglie dei pescatori. Non ci riuscì di trovare una latteria e così dovemmo entrare

nella baracca di un venditore ambulante per comprarci una bottiglia di sciroppo

al lampone per ciascuno. Preso nuovo vigore dalla bevanda Mahony si mise a

inseguire un gatto lungo un viottolo, ma il gatto fuggì in un campo.

Eravamo piuttosto stanchi tutti e due e arrivati nel campo ci dirigemmo senz’altro

verso la scarpata dalla quale si poteva vedere il Dodder.

Era troppo tardi e ci sentivamo troppo stanchi per risolverci a realizzare il nostro

progetto di visitare la Pigeon House. Dovevamo essere di ritorno per prima delle

quattro se non volevamo che la nostra avventura venisse scoperta. Mahony

guardava con rimpianto la sua fionda e dovetti proporre di tornare a casa in treno

perché ritrovasse un po’ della sua allegria. Il sole scomparve dietro le nubi

lasciandoci soli coi nostri tristi pensieri e le briciole della merenda.

Tranne noi non c’era anima viva nel campo. Era già un po’ che stavamo là

sdraiati senza parlare quando vidi da lontano un uomo che si avvicinava. Lo

osservavo con aria indolente, masticando uno di quei fili d’erba coi quali le

ragazze leggono l’avvenire. Camminava adagio lungo la scarpata, una mano su un

fianco e nell’altra un bastone col quale andava battendo piano per terra. Era

vestito miseramente con un abito di un nero-verdastro e in capo portava uno di

quei cappelli a cupola alta, un po’ malandato. Pareva piuttosto vecchio perché

aveva i baffi grigio cenere. Nel passarci davanti alzò in fretta gli occhi a guardarci,

poi continuò la sua strada. Lo seguimmo con lo sguardo tutti e due e vedemmo

che, fatta una cinquantina di passi, si voltava e tornava indietro. Veniva verso di

noi molto adagio e sempre battendo per terra col bastone, così adagio che pensai

stesse cercando qualcosa fra l’erba.

Raggiunti che ci ebbe si fermò e ci dette il buongiorno. Ricambiammo il saluto e

lui, sempre adagio e con gran precauzione, si sedette accanto a noi sulla

scarpata. Si mise a parlare del tempo. Disse che sarebbe stata un’estate calda

assai e aggiunse che le stagioni erano mutate di molto da quando lui era ragazzo,

tanti anni fa. Disse anche che il più felice periodo della vita è senza dubbio quello

in cui si va ancora a scuola e che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di tornare a

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essere giovane. Mentre esprimeva questi suoi sentimenti che in realtà

c’interessavano poco, noi serbavamo il silenzio. Poi cominciò a parlare di scuola e

di libri. Ci chiese se avessimo mai letto le poesie di Thomas Moore o i romanzi di

Walter Scott e di Lord Lytton. Feci finta d’aver letto tutto, così che alla fine mi

disse:

- Be’, vedo che sei un topo di biblioteca anche tu, come me. Il tuo amico invece è

diverso, - aggiunse indicando Mahony che ci guardava a bocca aperta. - Gli piace

giocare a lui.

Aveva a casa tutti i libri di Walter Scott e di Lord Lytton, disse, e non si stancava

mai di leggerli.

- Certo che, specie fra quelli di Lord Lytton, ce ne sono di non adatti per i ragazzi,

- osservò. Mahony domandò perché non erano adatti, domanda che mi turbò e mi

mise in imbarazzo: temevo di far la figura dello stupido anch’io di fronte a

quell’uomo. Vidi invece che si limitava a sorridere e notai i vuoti fra i denti

giallastri. Ci chiese poi chi dei due aveva più innamorate. Mahony affermò

disinvolto di averne tre. Mi chiese allora quante ne avevo io e risposi che non ne

avevo nessuna.

Non mi credette: ne dovevo avere una anch’io, n’era certo. Rimasi in silenzio.

- E voi, - domandò Mahony con piglio arrogante, - quante ne avete, sentiamo?

L’uomo sorrise come prima e disse che alla nostra età ne aveva a non finire.

- Tutti i ragazzi hanno l’innamorata, - dichiarò.

Questo suo modo di considerare l’argomento mi colpì come stranamente libero

per un uomo della sua età. Pensavo entro di me che era giusto quanto diceva dei

ragazzi e delle innamorate, ma mi spiacevano quelle parole in bocca sua e mi

domandai anche perché fosse rabbrividito una volta o due come se avesse paura

di qualcosa o avesse sentito freddo, tutto a un tratto. Aveva buon accento, notai,

mentre riprendeva il discorso. Parlava delle ragazze e dei loro bei capelli morbidi e

delle belle mani bianche e diceva che si faceva presto ad accorgersi che non erano

poi tanto buone come parevano, non appena se ne aveva un po’ d’esperienza. -

Non c’è niente che mi piaccia, - diceva, - come guardare una bella fanciulla e le

sue belle mani bianche e i bei capelli morbidi -. E via via che parlava avevo

l’impressione che ripetesse qualcosa d’imparato a memoria e che quasi

magnetizzata dalle sue parole la mente gli girasse adagio torno torno, sempre

nella stessa orbita. Dalla voce pareva talvolta che alludesse semplicemente a un

Page 16: James joyce   gente di dublino

16

fatto risaputo da tutti, talaltra l’abbassava invece fino a un bisbiglio e assumeva

un tono di mistero quasi ci stesse confidando un segreto che non voleva fosse

udito da altri. E così continuava a ripetere e ripetere le sue frasi, variandole e

rigirandole con monotonia. L’ascoltavo, lo sguardo fisso in fondo alla scarpata.

Dopo un bel po’ interruppe il monologo. S’alzò adagio dicendo che doveva

lasciarci per un minuto o due, poco tempo insomma, e senza mutare la direzione

del mio sguardo lo vidi allontanarsi lentamente verso il fondo del campo.

Rimanemmo in silenzio, quando se ne fu andato. Poco dopo però sentii Mahony

che esclamava:

- Ma di’... Guarda che sta facendo!

E poiché non rispondevo né alzavo lo sguardo proseguì:

- Bel tipo dev’essere!

- Caso mai ci domandasse i nomi, - dissi, - tu ti chiami Murphy e io Smith.

Non aggiungemmo altro. Stavo ancora considerando se dovevo andarmene o no

quando l’uomo tornò indietro e ci risedette accanto. Si era appena seduto che

Mahony, scorto il gatto che gli era sfuggito poco prima, saltò in piedi e si diede a

inseguirlo per il campo. L’uomo ed io osservavamo la caccia. Il gatto riuscì a

scamparla ancora una volta e Mahony cominciò a tirar sassi contro il muro su cui

si era arrampicato.

Alla fine smise e prese a vagare senza scopo in fondo al campo. Dopo una pausa

l’uomo attaccò a parlare. Disse che il mio amico doveva essere un ragazzaccio e

mi chiese se lo frustavano spesso a scuola. Fui lì lì per rispondere indignato che

non si era allievi della scuola nazionale, noi, per essere frustati come diceva lui;

ma tacqui.

Quello cominciò allora a parlare dei diversi modi di castigare i ragazzi. Pareva che

la sua mente, tornando a subire il magnetismo delle parole, girasse in lenta

cerchia attorno a quel nuovo polo. Ragazzi di tal sorta, disse, avrebbero dovuto

essere frustati ben bene. Non c’è nulla che valga come una buona frustata

quando si è violenti o indisciplinati.

Colpi sulle mani o scapaccioni non servono; quel che ci vuole è la frusta. Rimasi

stupito di queste sue affermazioni e involontariamente gli detti un’occhiata.

Incontrai così lo sguardo d’un paio d’occhi verde bottiglia che mi spiavano di sotto

alla fronte contratta e subito riabbassai i miei.

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L’uomo continuò nel suo monologo. Pareva si fosse dimenticato l’indulgenza di

poc’anzi. Se avesse sorpreso un ragazzo a parlare con una fanciulla o uno che

avesse l’innamorata, lo avrebbe frustato a sangue: gli avrebbe insegnato così a

fare il galletto. Se poi avesse fatto all’amore di nascosto gliene avrebbe date tante

come nessun altro al mondo. E mi descriveva come avrebbe fatto a frustarlo,

quasi stesse rivelando un qualche complicatissimo mistero. Gli sarebbe piaciuto,

disse, più di qualsiasi cosa; e la voce, via via che monotonamente mi guidava

attraverso quel mistero, gli s’inteneriva e pareva mi supplicasse di capirlo. Attesi

che il monologo giungesse a una nuova pausa. Allora m’alzai di scatto. Per non

tradire la mia agitazione indugiai ancora un poco, fingendo di allacciarmi una

scarpa; poi dissi che me ne dovevo andare e lo salutai. Risalii adagio la scarpata

ma il cuore mi batteva forte per timore ch’egli mi fermasse afferrandomi a una

caviglia.

Quando fui in cima mi voltai e chiamai forte in direzione del campo.

- Murphy!

La mia voce aveva un accento di forzata spavalderia e mi vergognavo di quel vile

strattagemma. Dovetti chiamare ancora prima che Mahony mi vedesse e gridasse

in risposta. Come mi batteva il cuore mentre egli mi correva incontro, attraverso il

campo! Correva come per portarmi aiuto ed ebbi rimorso perché entro di me lo

avevo sempre disprezzato un poco.

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Arabia

Era a fondo cieco la North Richmond Street e come tale poco frequentata, tranne

nell’ora in cui uscivano i ragazzi dalla scuola dei Fratelli Cristiani. Al termine

della strada s’ergeva una casa disabitata a due piani, separata dalle sue vicine da

un quadrato di terreno. Le altre case, consce dell’integerrima vita che si svolgeva

entro di esse, si guardavano l’un l’altra con brune facce imperturbabili.

Il precedente inquilino della nostra casa, un prete, era morto nel salotto sul retro.

In tutte le stanze, tenute chiuse per tanto tempo, aleggiava un odore di muffa e il

ripostiglio dietro la cucina era disseminato di cartacce. Era qui che avevo trovato

fra l’altro vecchi libri senza rilegatura, dalle pagine umide e gualcite: “L’abate” di

Walter Scott, “Il devoto comunicante” e “Le memorie di Vidocq”. Quest’ultimo mi

piaceva in modo particolare perché aveva i fogli ingialliti. Nel mezzo del giardino

incolto dietro la casa c’era un melo e cespugli qua e là, sotto uno dei quali m’era

capitato di trovare un giorno la pompa da bicicletta dell’ex locatario, tutta

arrugginita. Era stato un prete caritatevole e nel testamento aveva lasciato tutto il

suo denaro a istituzioni pie e i mobili alla sorella.

D’inverno, accorciandosi le giornate, calava la sera prima che avessimo finito di

cenare. Quando ci ritrovavamo nella strada la fila di case era già in ombra. Il

tratto di cielo sulle nostre teste si faceva d’un color viola cangiante e verso di esso

i lampioni alzavano le deboli fiamme delle lanterne. L’aria era fredda e pungente e

noi si giocava fino a sentirci avvampare in tutto il corpo. Le nostre grida

echeggiavano nella strada silenziosa e spesso il corso del gioco ci trascinava per

vicoli bui e fangosi dietro le case, ad affrontare la marmaglia del rione, fino alle

porte dei giardinetti sul retro cupi e stillanti da cui saliva il lezzo degli

immondezzai o alle scure stalle odorose dove un cocchiere strigliava il suo cavallo

facendo tintinnare musicalmente le fibbie dei finimenti.

Quando tornavamo nella strada, le luci delle cucine già inondavano i cortili. Ogni

volta che scorgevamo mio zio svoltare la cantonata ci nascondevamo nell’ombra e

vi si restava finché non eravamo sicuri che fosse entrato in casa. Quando poi la

sorella di Mangan si faceva sulla soglia a chiamare suo fratello per il tè, dal

nostro nascondiglio la guardavamo scrutare la strada a destra e a sinistra.

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Stavamo lì a guardare se se ne andava o se rimaneva, e se rimaneva eravamo

costretti a lasciare l’angolo buio e ad avviarci rassegnati verso la porta dei

Mangan. Lei ci aspettava, la figura inquadrata nell’alone di luce dell’uscio

semiaperto. La faceva sempre ammattire il fratello, prima di obbedirle, e io in

piedi presso il cancello la guardavo. Ad ogni movimento le ondeggiava la veste e la

treccia morbida dondolava in qua e in là.

Ogni mattina mi sdraiavo sul pavimento del salotto d’entrata per spiare la porta

di casa sua. Tenevo le persiane abbassate fino a pochi centimetri dal davanzale,

così che nessuno poteva vedermi, e quando appariva sulla soglia il cuore mi dava

un tuffo. Correvo in anticamera, afferravo i libri e la seguivo. Non perdevo mai

d’occhio la sua figurina bruna e arrivati al punto in cui le nostre strade

divergevano, affrettavo il passo e la sorpassavo. Ciò avveniva ogni mattina. Non le

avevo mai parlato, se non per rivolgerle poche parole casuali eppure il solo suo

nome era un richiamo per il mio sangue impetuoso.

L’immagine sua m’accompagnava anche nei luoghi meno propizi al romanticismo.

Il sabato sera quando la zia si recava al mercato ero costretto ad andare con lei

per aiutarla a portare i pacchi. Si camminava per le strade illuminate fra gli

spintoni degli ubriachi e delle donne che contrattavano, fra le bestemmie degli

operai, le stridule tiritere dei garzoni a guardia dei barili di carne salata e le nenie

nasali dei cantastorie che declamavano inni su O’Donovan Rossa o ballate sulle

agitazioni nel nostro paese. Tutti rumori che per me convergevano in un’unica

sensazione di vita: immaginavo di recare in salvo il mio calice frammezzo a una

folla di nemici. A volte il nome di lei mi saliva alle labbra in lodi e preghiere che io

stesso non capivo; senza che me ne rendessi conto gli occhi sovente mi si

riempivano di lacrime e a tratti la piena del mio cuore sembrava traboccarmi in

petto. Non pensavo all’avvenire. Non sapevo se le avrei mai parlato né in qual

modo, sempre che ne avessi avuto il coraggio, avrei potuto farla partecipe di

quella mia attonita adorazione. Sapevo solo che il mio corpo era come un’arpa e i

gesti, le parole di lei come dita che ne sfiorassero le corde.

Una sera me ne andai nel salotto sul retro, dov’era morto il prete. Era una buia

sera di pioggia e non s’udiva rumore in tutta la casa.

Attraverso i vetri rotti sentivo la pioggia battere sul terreno: sottili, incessanti aghi

di pioggia che giocavano sulle fradice aiuole. Giù, in basso, scorgevo il vago

baluginare di un lampione in distanza o di una finestra illuminata e m’era grato

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vedere così poco. Tutti i miei sensi pareva aspirassero a un velo d’oblio e

accorgendomi d’essere lì lì per venir meno premetti insieme le palme fino a farle

tremare, mormorando più volte: O amore... amore... amore!

Finalmente ella mi parlò. Alle prime parole che mi rivolse rimasi così confuso che

non seppi risponderle. Mi aveva chiesto se sarei andato all’«Arabia». Non ricordo

se risposi di sì o di no. Era un bellissimo bazar, disse e le sarebbe piaciuto

andarci.

- E chi te lo impedisce? - chiesi.

Parlando si rigirava un braccialetto d’argento intorno al polso. Non poteva, spiegò:

aveva il ritiro al convento quella settimana. Il fratello e altri due ragazzi si stavano

disputando i berretti nella strada e io ero solo presso il cancello. Con una mano

lei si teneva alla sbarra e piegava la testa verso di me. La luce del lampione di

fronte le coglieva la bianca curva del collo e illuminava i capelli raccolti sulla

nuca, la mano posata sulla sbarra. Cadendo di lato sul vestito, coglieva anche

l’orlo bianco della sottana, messo in evidenza dalla posa trascurata.

- Sei fortunato tu a poterci andare, - disse.

- Be’, se ci vado ti porterò qualcosa.

Quali innumerevoli follie non mi sconvolsero la mente, da quella sera, sia che

stessi sveglio, sia che dormissi. Avrei voluto annientare le monotone giornate che

seguirono. Lo studio m’era divenuto insopportabile: di notte in camera, di giorno

a scuola, l’immagine di lei s’interponeva fra me e la pagina che mi sforzavo di

leggere, e nel silenzio in cui s’esaltava l’anima mia le sillabe della parola “Arabia”

mi tornavano in mente per versarmi in cuore un incanto orientale.

Alla fine mi decisi a chiedere il permesso d’andare al bazar, il sabato sera. La zia

se ne stupì ed espresse la speranza che non si trattasse di qualche trappola da

frammassoni. In classe non seppi rispondere all’interrogazione. Vidi la faccia

dell’insegnante mutarsi man mano da benevola in severa: c’era da augurarsi che

non diventassi uno sfaticato, mi disse. Non riuscivo a raccogliere le idee e sentivo

tutto il peso dei seri impegni della vita ora che, ostacolandomi nei miei desideri,

m’apparivano uno sciocco e tedioso gioco da bambini.

Il sabato mattina ricordai allo zio che avrei voluto andare al bazar, quella sera.

Stava frugando nella cassapanca in cerca di una spazzola da cappelli e mi rispose

breve:

- Sì, sì, lo so, ragazzo mio.

Page 21: James joyce   gente di dublino

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Ora che c’era lui in anticamera non potevo andare nel salotto d’ingresso e

affacciarmi alla finestra. Sentivo che c’era un’aria di malumore in casa e così

m’avviai lentamente verso la scuola. Faceva freddo e in cuore già avevo un triste

presentimento.

Quando tornai a casa per il desinare lo zio non era rientrato. Era ancora presto.

Per un po’ rimasi lì seduto a guardare l’orologio e quando il suo tic-tac cominciò a

irritarmi, lasciai la stanza. Salii le scale fino al piano superiore. Le stanze alte,

fredde e vuote mi dettero un senso di sollievo: passavo dall’una all’altra cantando.

Dalla finestra sul davanti vedevo i miei compagni giocare giù nella strada. Le loro

grida mi giungevano opache e indistinte e con la fronte appoggiata al vetro freddo

guardavo la casa buia dove abitava lei. Sarò rimasto lì quasi un’ora, non vedendo

altro che la sua figura vestita di scuro evocata dalla mia fantasia, con la luce del

lampione che illuminava discretamente la bianca curva del collo, la mano posata

sulla sbarra e l’orlo della sottana.

Scendendo trovai la signora Mercer seduta presso il fuoco. Era la vedova d’uno

strozzino, una vecchia chiacchierona che faceva collezione di francobolli usati per

conto di un’istituzione pia. Mi dovetti sorbire le sue ciarle interminabili durante il

tè. Il pasto durò oltre un’ora e ancora mio zio non tornava. La signora Mercer

s’alzò per andarsene: le spiaceva non potersi trattenere più a lungo ma erano le

otto sonate e non voleva trovarsi fuori tanto tardi perché l’aria della notte le

faceva male. Quando se ne fu andata mi misi a passeggiare in su e in giù per la

stanza, coi pugni stretti. La zia disse:

- Ho paura che dovrai rinunciare al tuo bazar per stasera.

Alle nove sentii lo zio che girava la chiave nella serratura. Lo sentii anche parlare

fra sé e notai il dondolio dell’attaccapanni sotto il peso del cappotto: tutti indizi

chiari per me. Solo a metà cena mi decisi a chiedergli i soldi per il bazar. Se n’era

dimenticato.

- È a letto la gente a quest’ora e nel primo sonno, - disse.

Ma io non sorrisi e la zia intervenne energica.

- Potresti anche darglieli i soldi e lasciarlo andare... L’hai già fatto aspettare

abbastanza.

Lo zio si dichiarò allora spiacente della dimenticanza: era del parere che ogni

tanto un po’ di svago ci vuole. Mi chiese dove volevo andare e quando gliel’ebbi

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ripetuto una seconda volta domandò se non conoscevo «L’addio dell’arabo al suo

stallone». Quando uscii di cucina ne stava recitando i primi versi alla zia.

Col mio fiorino stretto in pugno m’avviai giù per Buckingham Street, verso la

stazione. La vista delle strade illuminate a gas e affollate di compratori mi

rammentò la meta del mio viaggio. Mi sedetti in un vagone di terza classe, in un

treno deserto. Dopo un’attesa interminabile il treno uscì adagio dalla stazione.

Arrancava lento fra file di case in rovina, lungo il fiume che luccicava. A Westland

Row una folla di gente s’accalcò agli sportelli ma i facchini la respinsero dicendo

che era un treno speciale per il bazar. Rimasi solo nello scompartimento vuoto.

Pochi minuti dopo il treno si fermava presso una piattaforma di legno

improvvisata.

Uscii nella strada e dal quadrante luminoso di un orologio vidi che mancavano

dieci minuti alle dieci. Un capannone mi stava di fronte, ostentando il magico

nome.

Non mi riuscì di trovare l’ingresso da sei “pence” e temendo che avessero a

chiudere passai in fretta da un’entrata girevole e tesi uno scellino a un uomo

dall’aria stanca. Mi trovai in una gran sala circondata a mezza altezza da una

galleria. Quasi tutti i padiglioni erano già chiusi e la sala per la maggior parte era

al buio. Vi ritrovavo il silenzio delle chiese dopo la funzione.

M’avviai timido verso il centro del bazar. Poca gente si raccoglieva intorno ai

padiglioni ancora aperti. Dinanzi a una tenda sopra la quale erano scritte a

lampadine luminose le parole «“Café Chantant”», due uomini contavano del

denaro su un vassoio. Sentivo il tintinnare delle monete contro il metallo.

Ricordandomi con sforzo il motivo per cui ero venuto, m’avvicinai a uno dei

banchi e mi misi a guardare i vasi di porcellana e i servizi da tè a fiorami.

Sull’ingresso del padiglione una signorina parlava e rideva con due giovanotti.

Notai che avevano l’accento inglese e prestai un orecchio disattento ai loro

discorsi.

- Ma io non ho mai detto una cosa simile.

- Vi dico di sì!

- Macché!

- Non è vero che l’ha detto?

- Sì, l’ho sentita anch’io.

- Per carità! È una bugia, ecco.

Page 23: James joyce   gente di dublino

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Scorgendomi, la signorina s’avvicinò e mi chiese se volevo comprare qualcosa.

Non aveva un tono troppo incoraggiante e pareva me lo domandasse solo per un

senso di dovere. Guardai umile gli alti vasi che come guardie orientali s’ergevano

da ambo i lati dell’ingresso buio e mormorai:

- No, grazie.

La signorina cambiò di posto a una brocca e tornò dai suoi giovanotti.

Ripresero a parlare sullo stesso argomento. Una volta o due la vidi darmi

un’occhiata da sopra la spalla.

Sebbene ne sapessi l’inutilità, indugiai ancora dinanzi al banco, tanto per rendere

più evidente il mio interesse alla merce. Poi mi voltai e adagio presi giù per il

corridoio centrale. Mi lasciai scivolare in tasca le due monete da un “penny”

accanto a quella da sei “pence” e dal fondo della galleria sentii una voce gridare

che si spengevano le luci. Adesso la parte superiore della sala era completamente

in ombra.

Alzando allora lo sguardo su nel buio mi vidi come una creatura trascinata e

derisa dalla vanità e gli occhi mi bruciarono d’ira e d’angoscia.

Page 24: James joyce   gente di dublino

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Eveline

Seduta alla finestra guardava la sera invadere il viale. Teneva la testa appoggiata

contro le tendine e sentiva nelle narici l’odore del “crétonne” polveroso. Era

stanca.

Poca gente per strada. Passò l’inquilino della casa di fondo che rientrava. Senti i

passi risuonare sul marciapiede di cemento, poi lo scricchiolio della ghiaia sul

sentiero dinanzi alla fila di costruzioni nuove, color mattone. Un tempo c’era un

campo laggiù e loro solevano giocarci ogni sera, insieme agli altri ragazzi del

quartiere. Poi l’aveva comprato un tale di Belfast e ci aveva costruito delle case;

non misere casupole nere come le loro, ma case chiare in mattoni, dal tetto

lucente.

Tutti i ragazzi del viale avevano giocato in quel campo: i Devine, i Water, i Dunn,

il piccolo Keogh lo zoppo e lei coi suoi fratelli e sorelle. Solo Ernest non ci giocava:

era troppo grande. Spesso veniva il padre a scacciarli di là col suo bastone di

pruno, ma di solito il piccolo Keogh stava di guardia e chiamava non appena lo

vedeva arrivare. Eppure parevan bei tempi quelli! Il padre non era ancora così

cattivo e la mamma era ancora viva. Molti anni erano passati da allora: adesso lei

e i suoi fratelli e sorelle s’erano fatti grandi e la mamma era morta. Anche Tizzie

Dunn era morto e i Water erano tornati in Inghilterra. Come tutto cambia!

Toccava a lei ora d’andarsene come gli altri, lasciare la casa.

La sua casa! Si guardò attorno nella stanza fissando ad uno ad uno gli oggetti

familiari che in tutti quegli anni aveva spolverato regolarmente una volta alla

settimana, domandandosi sempre da dove poteva venire tanta polvere. Forse non

li avrebbe più visti quegli oggetti, dai quali mai aveva immaginato di doversi

separare un giorno. Nonostante ne fosse passato del tempo, ancora non era

riuscita a sapere il nome del prete la cui fotografia ingiallita pendeva dalla parete

sopra l’harmonium scordato, accanto alla stampa a colori dei voti dedicati alla

Beata Margherita Maria Alacoque. Era stato un compagno di scuola del padre e

ogni volta che questi mostrava il ritratto a un visitatore non mancava

d’accompagnare il gesto con una parola casuale:

- È a Melbourne adesso.

Page 25: James joyce   gente di dublino

25

Sì, aveva acconsentito ad andarsene, a lasciare la casa. Ma era ragionevole da

parte sua? Si sforzava di prendere in considerazione ogni lato del problema. Lì

almeno non le sarebbero mai mancati cibo e alloggio; né, quel che più conta, le

persone che era avvezza a vedersi intorno sin dalla nascita. Certo doveva lavorare,

e lavorare sodo, sia in casa che fuori. Chissà cosa avrebbero detto ai Magazzini

quando si fosse risaputo che era scappata con un giovanotto? Le avrebbero dato

della scema, forse, e messo un annuncio sul giornale per sostituirla.

Sarebbe stata contenta la signorina Gavan. Non le aveva mai risparmiato le sue

stoccate, specie se c’era gente che sentiva.

- Non vedete che le signore aspettano, signorina Hill?

- Ma svegliatevi signorina Hill, fatemi il piacere...

Non c’era da piangerci davvero a lasciare i Magazzini.

Nella casa nuova però, in un paese lontano e sconosciuto, non sarebbe andata

così. Sarebbe stata una donna maritata lei, Eveline, e la gente le avrebbe usato

rispetto. Non si sarebbe lasciata trattare come sua madre, no. Ancora adesso, per

quanto avesse già diciannove anni compiuti, le avveniva a volte di temere la

violenza paterna. Era stata questa paura, lo sapeva, a farle venire le palpitazioni.

Prima, quando erano ancora piccoli, il padre non si sfogava mai su di lei come su

Harry e Ernest, perché era una ragazza; ma in seguito aveva cominciato a

minacciarla e a dirle che, se non fosse stato per la memoria di quella buon’anima

di sua madre, non avrebbe mancato di darle il fatto suo. E ora non c’era più

nessuno a proteggerla. Ernest era morto e Harry che faceva il decoratore di

chiese, era sempre via, lontano da casa. C’erano poi le eterne discussioni per i

soldi, il sabato sera; discussioni che la sfinivano. Dava lo stipendio intero in

famiglia - sette scellini alla settimana - e Harry mandava quanto poteva; ma il

guaio era cavarli al padre, i quattrini. Era una spendacciona, le diceva, una

scervellata e non se la sentiva lui di darle i soldi guadagnati con tanta fatica per

vederli buttare dalla finestra; questo e altro le diceva, perché era sempre di cattivo

umore il sabato sera. Alla fine però glieli dava e le chiedeva se non aveva per caso

l’intenzione di comperare qualcosa per il pranzo della domenica. Così le toccava

scappar via a fare la spesa, aprendosi la strada a gomitate fra la folla, il borsellino

di pelle nera stretto nel pugno, per rincasare poi, tardi, carica di provviste. C’era

da faticare, è vero, a tenere in ordine le stanze e a stare attenta che i due fratellini

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26

minori, affidati alle sue cure, andassero a scuola ogni mattina e avessero di che

mangiare. Un lavoro duro, sì, una vitaccia; eppure, ora che stava per lasciarla, già

non la trovava più così insopportabile.

Ne avrebbe cominciata un’altra, adesso, con Frank. Era buono e forte Frank, e di

cuore generoso. Sarebbe andata via con lui quella sera, col piroscafo della notte.

Sarebbe andata via per diventare sua moglie e vivere con lui a Buenos Aires nella

casa che l’aspettava. Come ricordava bene la prima volta che l’aveva visto! Aveva

preso alloggio in una casa sulla strada principale, dove lei aveva degli amici. Le

pareva fossero passate poche settimane da allora. Stava sul cancello, il berretto

tirato all’indietro sulla nuca e i capelli che gli ricadevano a ciocche sulla fronte

abbronzata. Poi si erano conosciuti. Ogni sera andava a prenderla all’uscita dei

Magazzini e l’accompagnava fino a casa. Una volta l’aveva anche portata a sentire

“La ragazza di Boemia” e a lei era parso un sogno potersene stare lì fianco a

fianco, a teatro, in posti che non le erano abituali. Gli piaceva la musica a Frank

e sapeva anche cantare.

Tutti erano al corrente del loro amore e così quand’egli cantava la canzone della

ragazza innamorata del marinaio, Eveline non poteva fare a meno di sentire un

certo dolce imbarazzo. La chiamava Poppy, tanto per ridere. In principio l’idea di

avere un corteggiatore le aveva dato alla testa, ma poi s’era messa a volergli bene

sul serio. Le parlava di paesi lontani, di come avesse cominciato da mozzo, a una

sterlina al mese, su una nave della linea Allan che andava al Canada. E le diceva

i nomi delle altre navi su cui era stato e dei diversi servizi, le raccontava di

quando aveva passato lo Stretto di Magellano e le sue mirabolanti avventure coi

selvaggi. Aveva avuto fortuna a Buenos Aires, diceva, e in patria c’era tornato solo

per godersi una vacanza. Naturalmente il padre era venuto a saperlo e le aveva

proibito d’avere a che fare con lui.

- Li conosco, va’ là, questi marinai! - aveva detto.

Un giorno avevano litigato, Frank e il padre, e da allora avevano dovuto vedersi di

nascosto.

La sera s’andava infittendo sul viale e il bianco delle due lettere che aveva in

grembo, si faceva indistinto. Una era per Harry, l’altra per il padre. Il suo

prediletto, veramente, era stato Ernest, ma anche a Harry voleva bene. Aveva

notato che in quegli ultimi tempi il padre era un po’ invecchiato; avrebbe sentito

la sua mancanza. Anche lui a volte sapeva essere gentile. Non molto tempo prima,

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un giorno che era stata a letto, malata, s’era messo a leggerle una storia di

fantasmi e le aveva abbrustolito il pane sul fuoco. Un’altra volta, quando ancora

era viva la madre, erano andati tutti insieme a far merenda sulla collina di Howth

e ricordava com’egli si fosse messo in testa il cappellino della moglie, per farli

divertire.

Il tempo passava ma lei rimaneva lì seduta presso la finestra, la testa appoggiata

contro le tendine e l’odore polveroso del “crétonne” nelle narici. Giù dal viale

saliva il suono di un organetto. Lo conosceva quel motivo. Strano che venisse

proprio quella sera a rammentarle la promessa fatta alla madre, la promessa di

tenere insieme la famiglia fintanto che avesse potuto. Le tornò a mente l’ultima

notte della sua malattia. Si rivide nella stanza buia, chiusa, in fondo al corridoio:

da fuori giungeva il melanconico suono dell’organetto. Avevano dato sei “pence” al

sonatore, perché se ne andasse. E ricordava il padre che tornava in punta di piedi

nella camera dell’ammalata dicendo:

- Dannati italiani! Proprio qui debbono venire!

E mentre stava lì a meditare, la penosa visione della vita della madre operava nel

più profondo del suo essere una specie di maleficio; una vita di sacrifici meschini

conclusasi nella pazzia finale. Tremò riudendo la voce materna ripetere con vuota

insistenza:

- Derevaun Seraun! Derevaun Seraun!

S’alzò di scatto, sotto l’impulso del terrore. Fuggire! Fuggire doveva!

Frank l’avrebbe salvata. Le avrebbe dato vita e forse anche amore. E voleva vivere

lei! Perché avrebbe dovuto essere infelice? Anche lei aveva diritto alla felicità. E

Frank l’avrebbe presa fra le braccia, l’avrebbe stretta fra le braccia, l’avrebbe

salvata.

Era alla stazione di North Wall, in mezzo alla folla ondeggiante. Egli la teneva per

mano ed essa sapeva che le stava parlando, che le ripeteva qualche cosa sulla

traversata. La stazione era piena di soldati coi loro bagagli scuri e attraverso le

ampie porte della tettoia si scorgeva a tratti, oltre la murata della banchina, la

massa immobile e nera della nave, con gli oblò illuminati. Taceva. Si sentiva le

guance pallide e fredde e in quel groviglio di disperazione pregava Iddio

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d’illuminarla, di mostrarle qual era il suo dovere. Il lungo, lamentoso fischio della

sirena tagliò la nebbia. Se partiva, domani si sarebbe trovata in alto mare, con

Frank, diretta a Buenos Aires. Avevano già fissato i posti. Come poteva tirarsi

indietro dopo tutto quel che aveva fatto per lei? Lo sgomento le dette quasi un

senso di nausea: continuava a muovere le labbra in tacita e fervida preghiera.

Una campana le rintoccò sul cuore. Senti ch’egli l’afferrava per mano.

- Vieni!

Tutti i mari del mondo le s’infrangevano sul cuore. E lui la trascinava dentro, la

voleva annegare. Con ambo le mani s’aggrappò alla cancellata.

- Vieni!

No! no! no! Era impossibile. Le mani strinsero frenetiche le sbarre. E dal fondo dei

mari ella alzò un grido d’angoscia.

- Eveline! Evy!

Lo vide correre di là dai cancelli, chiamandola perché lo seguisse. Gli gridarono di

andare avanti ma egli continuava a chiamarla. Volse allora verso di lui la faccia

pallida, passiva, come un povero animale impotente, e i suoi occhi non gli diedero

alcun segno d’amore o di addio o di riconoscimento.

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Dopo la corsa

Le macchine puntavano in corsa su Dublino filando come proiettili nel solco della

Naas Road. Lungo la cresta della collina di Inchicore si erano raccolti gruppi di

spettatori per assistere al ritorno e attraverso questo canale di povertà e d’inerzia

fluiva l’industria e la ricchezza del continente: di tanto in tanto dalla folla s’alzava

l’applauso di gratitudine dell’oppresso. Le simpatie, però, andavano tutte alle

macchine azzurre, le macchine dei loro amici, i francesi.

I francesi, del resto, virtualmente almeno, potevano considerarsi i vincitori. La

loro squadra aveva concluso in bellezza: si erano piazzati al secondo e terzo posto

e pareva inoltre che il guidatore della macchina tedesca vincente fosse un belga.

Ogni macchina azzurra, così, arrivando in cima alla collina, riceveva doppia dose

di evviva e da parte di quelli che erano dentro ogni evviva veniva accolto con

sorrisi e cenni del capo. In una di queste automobili di gran modello c’era una

combriccola di quattro giovanotti il cui buonumore in quell’occasione superava di

molto quello solito dei francesi quando vincono; i quattro giovanotti, di fatti,

esultavano addirittura. Si trattava di Charles Segouin, il proprietario della

macchina; André Rivière, un giovane elettrotecnico nato nel Canada; un

ungherese grande e grosso a nome Villona e un giovanottino ben vestito, certo

Doyle. Segouin era di buonumore perché aveva ricevuto ordinazioni del tutto

inattese (stava per fondare una fabbrica di automobili a Parigi) e Rivière lo era

perché di questa fabbrica sarebbe stato il direttore: entrambi inoltre (erano

cugini) si compiacevano del successo delle macchine francesi. Villona poi era

soddisfatto perché aveva pranzato bene, nonché per un innato ottimismo e in

quanto al quarto membro della compagnia si trovava in uno stato di troppa

eccitazione per potersi dire genuinamente felice.

Doveva essere sui ventisei anni circa e aveva morbidi baffi castano chiaro e occhi

grigi dall’espressione piuttosto ingenua. Suo padre pur iniziando la carriera da

acceso nazionalista, non aveva tardato a mutare opinione. I primi soldi se li era

guadagnati facendo il macellaio a Kingstown e a forza di aprir botteghe in Dublino

e dintorni aveva addirittura moltiplicato il patrimonio. Gli era anche capitata la

fortuna di metter le mani su certi appalti vantaggiosi e in conclusione era

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diventato così ricco che i giornali cittadini alludevano a lui come a un re del

commercio. Aveva mandato il figlio prima in Inghilterra a compiere la sua

educazione in un noto collegio cattolico, e poi all’Università di Dublino a studiarvi

legge. Ma Jimmy non prendeva lo studio sul serio e per un po’ di tempo s’era dato

ai bagordi. Lo conoscevano tutti laggiù e i quattrini non gli mancavano: strano a

dirsi, divideva il suo tempo fra i circoli automobilistici e quelli musicali. In seguito

l’avevano mandato a Cambridge per un trimestre, perché si godesse un po’ di vita

e il padre che pur fra le rimostranze si sentiva in fondo in fondo orgoglioso degli

eccessi del figlio, saldati tutti i conti, se l’era poi riportato a casa. Era stato a

Cambridge che aveva incontrato Segouin e per quanto non fossero ancora nulla

più di semplici conoscenze, Jimmy trovava gran piacere nella compagnia di un

giovane che aveva già visto tanto mondo e che per di più era ritenuto proprietario

di alcuni fra gli alberghi più lussuosi e rinomati di Francia.

Un tipo simile (anche suo padre era d’accordo), anche non fosse stato quel

simpaticone che era, poteva ben dirsi degno d’amicizia. Anche Villona dal canto

suo, non mancava d’interesse. Era un pianista di talento, ma, disgraziatamente

assai povero.

La macchina continuava a correre col suo carico di festosa gioventù. I due cugini

sedevano davanti e Jimmy con l’amico ungherese, dietro. Villona decisamente era

d’umore eccellente; per miglia e miglia seguitò a mugolare un motivo fra sé, con la

sua voce fonda di basso. I francesi invece gettavan frizzi e risate di sopra le spalle

e Jimmy doveva chinarsi in avanti se voleva afferrarne il senso; còmpito non

troppo piacevole perché quasi sempre gli toccava di buttarsi a indovinare,

sforzandosi a gridare controvento la risposta adatta. Il mugolio di Villona, poi,

avrebbe confuso chiunque; senza contare il rumore del motore.

La rapida corsa dà sempre un senso di ebbrezza, allo stesso modo che la fama e il

denaro: eccellenti motivi tutti e tre per spiegare l’eccitazione di Jimmy. Molti

amici lo avevano visto quel giorno in compagnia dei continentali. Al traguardo

Segouin lo aveva presentato a uno della squadra francese e in risposta al suo

imbarazzato mormorio di complimento la faccia sudata del corridore aveva

dischiuso una fila di denti abbaglianti. Era stato bello, dopo un simile onore,

tornarsene nella folla anonima degli spettatori fra colpi di gomito e occhiate

significative. Quanto poi al denaro ne aveva già a disposizione una bella somma.

Per Segouin forse non lo sarebbe stata ma, nonostante i passeggeri errori, Jimmy

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si serbava nel fondo erede di ben solidi istinti, e sapeva quanto era stato difficile

metterli insieme quei soldi: consapevolezza che già prima aveva trattenuto le sue

spese nei limiti di una ragionevole disinvoltura; e se della fatica inerente al

denaro già era consapevole prima, quando non si trattava che di capricci da

raffinato, tanto più se ne rendeva conto adesso che stava per mettere a rischio la

maggior parte della sua sostanza. Una cosa seria per lui!

Certo l’investimento era buono e Segouin si era condotto in modo di dar

l’impressione che solo grazie all’amicizia quell’esigua parte di denaro irlandese

sarebbe stata accolta nel capitale della società. Jimmy teneva assai conto

dell’abilità paterna in fatto d’affari e in questo caso era stato proprio il padre a

suggerire per primo l’investimento: c’era da far quattrini con l’industria

automobilistica, quattrini a palate. Segouin inoltre aveva indiscutibilmente l’aria

del riccone. Jimmy prese senz’altro a tradurre in termini di lavoro quotidiano la

macchina principesca in cui era seduto. Come filava liscia e spedita! E con che

stile si erano slanciati a corsa per le strade! Il viaggio posava un magico dito sul

genuino polso della vita e coraggiosamente il complicato meccanismo dei nervi

umani cercava d’adeguarsi ai balzi impetuosi del veloce animale azzurro.

Svoltarono in Dame Street. C’era un insolito traffico nella via, in cui risuonavano

lo strombettio degli autisti e lo scampanellare dei tranvieri impazienti. Vicino alla

Banca, Segouin fermò e Jimmy e l’amico scesero. Subito sul marciapiede si

radunò un gruppetto di gente per rendere omaggio al motore rombante.

Avrebbero cenato tutti Insieme all’albergo di Segouin quella sera e nel frattempo

Jimmy e Villona, che era suo ospite, sarebbero andati a casa a vestirsi. Mentre la

macchina virava adagio in direzione di Grafton Street i due giovani s’aprirono la

strada nel gruppo dei curiosi. Andavano verso nord provando uno strano senso

d’impaccio nel camminare e sopra di loro nella nebbia della sera estiva la città

appendeva pallidi globi di luce.

In casa di Jimmy questa cena veniva considerata un avvenimento. Nei suoi

genitori l’orgoglio si mischiava alla trepidazione nonché a un certo desiderio di

buttar polvere negli occhi: merito anche questo da ascriversi al nome delle grandi

città straniere. Lo stesso Jimmy del resto, vestito che fu, faceva la sua figura, e

mentre indugiava nell’atrio dandosi l’ultimo ritocco al nodo della cravatta, suo

padre anche dal lato commerciale non poteva che ritenersi soddisfatto di aver

assicurato al figliolo qualità sovente impossibili a comprarsi. Il pover’uomo d’altra

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parte si sfogava dimostrandosi nei riguardi di Villona insolitamente amichevole e

il suo contegno esprimeva un vero e proprio rispetto per la cultura straniera; tutte

finezze ch’era probabile andassero completamente perdute agli occhi

dell’ungherese il cui desiderio della cena si faceva man mano sempre più vivo.

Fu in realtà una cena eccellente, squisita. Segouin, decise Jimmy, doveva avere

un gusto fra i più raffinati. Alla combriccola s’era aggiunto adesso un giovane

inglese, certo Routh, che Jimmy aveva visto a Cambridge con Segouin. La stanza

in cui cenarono era comoda, illuminata a candele elettriche e i discorsi liberi e

variati. Jimmy, cui s’era accesa la fantasia, si spinse ad un’ardita immagine della

giovane vitalità francese elegantemente allacciata alla solida cornice

dell’educazione anglo-sassone: immagine a suo giudizio non priva di grazia e

appropriata. Ammirava l’abilità con cui l’ospite sapeva dirigere la conversazione. I

cinque giovanotti avevano gusti diversi e la parlantina si era sciolta a tutti.

Villona con immenso rispetto s’adoperava a svelare al semplice Routh che lo

ascoltava stupito, le bellezze del madrigale inglese, deplorando che gli antichi

strumenti fossero caduti in disuso: mentre Rivière dal canto suo e non del tutto

ingenuamente, iniziava a beneficio di Jimmy il panegirico delle industrie

meccaniche francesi. La sonora voce del musicista stava per prendere il

sopravvento nella mordace critica ai falsi liuti dei pittori romantici, allorché

Segouin intervenne avviando i commensali in una discussione politica. Qui si

trovarono tutti a proprio agio. Sotto quelle influenze generose, Jimmy si sentì

risvegliare dentro l’ormai sepolto entusiasmo paterno e alla fine riuscì a scuotere

dal suo torpore perfino Routh. Il calore della stanza raddoppiò e il còmpito di

Segouin si fece sempre più difficile: c’era rischio di passare addirittura alle offese

personali. Alla prima occasione però l’ospite accorto levò il calice all’Umanità e

finito il brindisi aprì con gesto significativo una finestra.

La città quella notte s’era mascherata da grande metropoli.

I cinque giovanotti procedevano lungo lo Stephen’s Green, avvolti in odorose

nuvole di fumo. Parlavano a voce alta e allegra, i mantelli penzolanti dalle spalle,

e la gente si scostava per lasciarli passare.

All’angolo di Grafton Street un ometto grasso aiutava due belle signore a salire in

vettura affidandole alle cure di un altro grassone. La macchina si avviò e l’ometto

scorse la gaia brigata.

- André!

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- È Farley!

Ne seguì un torrente di parole. Farley era americano. Nessuno si rendeva conto di

che cosa si stesse parlando. Villona e Rivière erano i più chiassoni, ma anche gli

altri parevano eccitatissimi. Salirono tutti insieme in una macchina, pigiandosi

fra le risate, e al suono di un’allegra musica di campane, tagliarono la folla fusa

adesso in scialbature di colore. Presero il treno a Westland Row e in pochi

secondi, così almeno parve a Jimmy, arrivavano alla stazione di Kingstown. Il

controllore, un vecchio, lo salutò:

- Felice notte, signore!

Era una quieta sera estiva. Come uno specchio abbrunato il porto giaceva ai loro

piedi. Vi si diressero tenendosi a braccetto: cantavano in coro “Cadet Roussel” e

ad ogni «“Ho! ho! hoé vraiment!”» battevano il piede.

Al molo salirono in una barca e puntarono verso lo “yacht” dell’americano. Là ci

sarebbe stata cena, musica e carte. Villona disse convinto:

- Sarà delizioso!

C’era un pianoforte nella cabina. Villona suonò un valzer per Farley e Rivière:

Farley faceva da cavaliere e Rivière da dama. Poi improvvisò una quadriglia e i

ballerini si diedero a inventare le più strane figure.

Che divertimento! Jimmy prendeva sul serio la sua parte: quella sì ch’era vita!

Alla fine Farley gridò senza fiato: - Alt! - Venne servito un leggero spuntino e pro

forma i giovani si sedettero a tavola. Bevvero però: era vino di Boemia. Brindarono

all’Irlanda, all’Inghilterra, alla Francia, all’Ungheria, agli Stati Uniti d’America.

Jimmy fece un discorso, un lunghissimo discorso e ad ogni pausa Villona

interveniva gridando: - Bravo! Bravo! - Lo applaudirono tutti quando si sedette.

Doveva essere stato un bel discorso. Farley gli dava gran manate sulle spalle e

rideva forte. Che mattacchioni! Che simpatica compagnia!

Carte! Carte! La tavola fu sparecchiata. Villona se ne tornò calmo calmo al

pianoforte e si mise a improvvisare. Gli altri intanto giocavano una partita dopo

l’altra buttandosi a capofitto nell’avventura. Brindarono alla regina di cuori e a

quella di quadri. Jimmy sentiva oscuramente la mancanza di un uditorio: la

tensione era al colmo. Si giocava forte ora e i conti s’allungavano. Jimmy non

riusciva nemmeno a capire con precisione chi fosse a vincere, ma sapeva che lui

perdeva. Tutta colpa sua del resto, perché spesso sbagliava le carte ed erano gli

altri a dovergli fare il conto di quanto doveva. Diavoli di ragazzi! Avrebbe voluto

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che smettessero, però: si faceva tardi. Uno brindò allo “yacht”, «La bella di

Newport» e un altro propose un gioco in grande, tanto per finire.

Il pianoforte taceva: Villona doveva essere andato sul ponte. Fu una partita

tremenda. S’interruppero un po’ prima della fine per brindare alla fortuna. Jimmy

sapeva che adesso la lotta era fra Segouin e Routh. Che emozione! Si sentiva

eccitatissimo e avrebbe perso, naturalmente.

Quanto aveva firmato? Gli uomini s’alzarono in piedi per giocare gli ultimi colpi,

gridando e gesticolando. Vinse Routh. La cabina rintronò sotto gli applausi e

vennero raccolte le carte. Poi si fecero i conti: quelli che avevano perso di più

erano Farley e Jimmy.

L’indomani gli sarebbe dispiaciuto, lo sapeva, ma adesso era contento

d’abbandonarsi, contento dell’oscuro stupore che avrebbe annegato la sua follia.

Appoggiò i gomiti sul tavolo tenendosi la testa fra le mani e s’ascoltò il battito

delle tempie. La porta della cabina si aprì e apparve l’ungherese in piedi, nel

grigio riquadro di luce:

- Signori, è l’alba!

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I due galanti

La calda, grigia sera d’agosto era scesa sulla città. Un’aria dolce e ferma, ricordo

dell’estate, circolava per le vie, e nelle vie con le serrande abbassate per il riposo

domenicale, sciamava un’allegra folla variopinta. Dal sommo degli alti pali le

lampade splendevano come perle luminose su quella trama viva che mutando

incessantemente di colore e di forma mandava su nell’aria calda e grigia della

sera un continuo, incessante mormorio.

Due giovani scendevano la collina di Rutland Square. Uno di essi stava

concludendo giusto allora un lungo monologo e l’altro che camminava sull’orlo

del marciapiede e a tratti per la malagrazia del compagno era costretto a

sconfinare nella strada, ascoltava intento e divertito. Era un individuo tarchiato e

acceso di colore. Portava all’indietro sulla nuca un berretto da marinaio e il

discorso cui prestava orecchio gli provocava in viso continui mutamenti

d’espressione che a ondate gli s’irradiavano dagli angoli della bocca, degli occhi e

del naso. Scoppi di riso convulso lo scuotevano senza posa e ad ogni istante gli

occhi, ammiccando compiaciuti, si volgevano alla faccia dell’amico. Una volta o

due si raggiustò con una scrollata l’impermeabile che gli pendeva da una spalla

alla maniera dei toreador; impermeabile buttato là alla brava e che assieme ai

pantaloni e alle scarpe bianche di gomma, esprimeva la gioventù, mentre la

persona, rotondeggiante alla vita, i capelli grigi e radi e il viso, ad ogni spegnersi

di quelle ondate d’espressione, gli davano un aspetto devastato.

Sicuro che fu della fine del racconto rise silenziosamente per mezzo minuto

buono, poi disse:

- Ah, questo é il colmo!

La voce gli suonava priva d’energia e quasi per dare maggior enfasi alle parole,

aggiunse con brio:

- Proprio il colmo dei colmi!

Detto questo ritornò subito serio e silenzioso.

Gli s’era seccata la lingua quel pomeriggio a furia di discorrere in una bottiglieria

della Dorset Street. Agli occhi della maggior parte della gente, Lenehan era uno

scroccone ma, nonostante tale nomea, il suo saper fare e la sua eloquenza

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avevano sempre impedito agli amici di boicottarlo. Aveva un suo modo spavaldo

d’aggregarsi ad un crocchio nel bar tenendosene abilmente ai margini finché non

veniva incluso nella partita. Un vero e proprio mendicante del divertimento,

Lenehan, armato di tutto un repertorio di aneddoti, barzellette e indovinelli e per

di più insensibile ad ogni sorta di sgarberie. A nessuno era noto in qual maniera

risolvesse il difficile problema dell’esistenza, ma il suo nome, sia pur vagamente,

veniva associato a trucchi e scommesse nel campo delle corse.

- E dove l’hai pescata, Corley? - domandò.

Corley si passò in fretta la lingua sul labbro superiore.

- Caro mio, - disse, - una sera me ne andavo giù per Dame Street quando proprio

sotto l’orologio della Waterhouse ti vedo un bel bocconcino. Naturalmente, sai

come succede, le do la buonasera e così ce ne andiamo a fare quattro passi lungo

il canale. Mi raccontò che faceva la serva in una casa di Baggot Street. Le misi un

braccio intorno alla vita e per quella sera mi limitai a palparla un po’. Ci demmo

appuntamento per la domenica dopo e questa volta ce ne andammo fuori a

Donnybrook. Laggiù la portai in un campo. Se la intendeva con un lattaio, m’ha

detto... Una bazza, te lo dico io. Sigarette ogni giorno mi porta e in più mi paga il

tram all’andata e al ritorno. Una volta m’ha portato anche due sigari di marca,

sigari coi fiocchi, sai, di quelli che fumava l’altro... Avevo paura mi restasse

incinta, ma conosce il trucco.

- Penserà tu la voglia sposare, - osservò Lenehan.

- Eh, no, le ho già detto che sono senza lavoro. Le avevo inventato che stavo da

Pim. Il mio nome non lo sa: troppo furbo per dirglielo. Ciò non toglie che mi creda

un signore...

Lenehan si rimise a ridere come prima, senza rumore.

- Fra tutte quelle che ho sentito questa le supera tutte, te l’assicuro io.

L’andatura di Corley confermò il complimento. Con un dondolìo del coppo

massiccio costrinse l’amico a due o tre saltelli, dal marciapiede alla strada e

viceversa. Corley era figlio di un ispettore di polizia e dal padre aveva ereditato la

sagoma e il modo di camminare. Procedeva eretto, le braccia ciondoloni,

oscillando col capo in qua e in là. Aveva un gran testone sferico e unto che gli

sudava in tutte le stagioni e il largo cappello rotondo inclinato da una parte dava

l’impressione di un bulbo cresciuto su un altro più grosso. Teneva sempre lo

sguardo fisso dinanzi a sé, come se stesse in parata, e quando voleva voltarsi a

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guardare qualcuno per strada, gli toccava girarsi con tutto il busto. Al momento

era a spasso. Ogni volta che si faceva un posto vuoto, diceva, c’era sempre un

amico pronto a metterci una cattiva parola. Spesso lo si vedeva in giro con agenti

in borghese, che discorreva fitto fitto. Sapeva il lato oscuro d’ogni questione e su

tutto amava dare un giudizio definitivo. Mai che ascoltasse gli altri quando

parlava e quasi sempre eran discorsi che vertevano sulla sua persona: quel che

aveva detto a un tale e quel che il tale gli aveva risposto e come egli aveva

sistemato l’intera faccenda. Riferendo questi dialoghi aspirava la prima lettera del

proprio nome all’uso toscano.

Lenehan offrì una sigaretta all’amico. Mentre camminavano fra la folla Corley non

tralasciava di lanciare sorrisi all’indirizzo delle ragazze che passavano; Lenehan

invece teneva fisso lo sguardo sulla gran luna pallida, cerchiata d’un duplice

alone e seguiva intento la grigia trama del crepuscolo che le passava lenta sul

volto. Alla fine disse:

- Dimmi un po’, Corley, sei proprio sicuro di cavartela?

Per tutta risposta Corley strizzò un occhio con aria significativa.

- Sì, ma credi che lei ci stia? - chiese Lenehan dubbioso. - Con le donne non si sa

mai.

- Ci starà, ci starà, non dubitare. So da che verso prenderla caro mio. Ha un po’

perso la testa, capisci?

- Ah, sei proprio quel che si dice un gaio Lotario, - esclamò Lenehan. -

Il vero tipo del Lotario, anzi. Una sfumatura d’ironia attenuava la servilità dei suoi

modi. Come via di scampo era uso lasciare la lusinga sempre aperta a

un’interpretazione mordace. Ma Corley non era di mente così sottile.

- Credi a me, ci vuol poco per fare colpo su una serva, - dichiarò.

- Per chi le ha già provate tutte, magari.

- Sai, prima anch’io andavo a spasso con le ragazze per bene, - disse

Corley con l’aria di confidarsi. - Ragazze del South Circular, non so se mi spiego.

Le portavo fuori in tram e pagavo io, oppure le conducevo a teatro o a sentire la

banda e compravo cioccolatini, dolci e così via. Insomma ci spendevo fior di

quattrini, - aggiunse in tono convincente, quasi fosse certo di non essere creduto.

Ma Lenehan poteva ben credergli; assentì grave.

- Conosco il gioco. Un gioco da cretini.

- Già. E sia dannato se ci ho mai ricavato nulla.

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- Idem per me.

- Una soltanto...

Corley s’inumidì il labbro con la lingua e gli occhi gli s’accesero al ricordo. Fissava

anche lui il pallido disco lunare ora già quasi interamente coperto, e pareva

immerso in profonde meditazioni.

- Peccato, era in gamba, - disse con rimpianto.

Tacque di nuovo, poi aggiunse:

- Fa il marciapiede adesso. L’ho vista una sera in automobile giù per Earl Street,

in compagnia di due giovanotti.

- Colpa tua, probabilmente, - disse Lenehan.

- Ce n’erano stati altri prima di me, - osservò Corley con filosofia.

Questa volta però Lenehan era propenso a non credergli. Scosse il capo e sorrise.

- A me non la dài a bere, Corley.

- Com’è vero Dio. Me lo disse lei stessa. Lenehan ebbe un gesto drammatico.

- Mascalzone! - esclamò.

Passarono lungo la cancellata del Trinity College e Lenehan saltellò fuori del

marciapiede nella strada, per dare un’occhiata all’orologio.

- Passati i venti, - disse.

- C’è tempo, - fece Corley. - Lei ci sarà già, ma io la faccio sempre aspettare.

Lenehan ridacchiò piano.

- Perdinci, Corley, sai come trattarle.

- Eh, li conosco i loro trucchi, - confessò l’altro.

- Ma dimmi, - riprese Lenehan ansioso, - sei sicuro di farcela? È una faccenda

delicata. In genere sono maledettamente tirate su quel punto. Eh... cosa?

Scrutava con gli occhietti lustri la faccia dell’amico quasi per esserne rassicurato.

Ma Corley scosse la testa e aggrottò la fronte, come per scacciare un insetto

molesto.

- Me la caverò, sta’ tranquillo. Lascia fare a me. Lenehan non replicò.

Non voleva s’irritasse e magari lo mandasse al diavolo dicendo che non aveva

bisogno dei consigli: tatto, ci voleva. La fronte di Corley però fece presto a

spianarsi. I suoi pensieri già seguivano un altro corso.

- Un bel bocconcino, - commentò in tono d’intenditore. - Te lo garantisco io.

Percorsa la Nassau Street svoltarono in Kildare Street. Non lontano dai portici del

club, proprio in mezzo alla via, un arpista suonava fra una cerchia di ascoltatori.

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Pizzicava le corde con aria distratta e di tanto in tanto levava rapido gli occhi in

faccia ai nuovi venuti per poi riportarli stancamente al cielo. Incurante che la

copertura le fosse scesa ai ginocchi, l’arpa pareva stanca anche lei, sia degli

sguardi di quegli estranei, sia delle mani del suo padrone. Una eseguiva nel basso

la melodia di “Silent, O Moyle” e ad ogni gruppo di note l’altra scorreva nelle

fioriture degli acuti. Il canto emergeva pieno e profondo.

I due giovanotti seguitarono per la loro strada senza parlare, inseguiti dalla

musica lamentosa. Raggiunto lo Stephen’s Green, attraversarono.

Qui il rumore dei tram, la folla e le luci vennero a liberarli dal silenzio.

- Eccola! - disse Corley.

C’era una ragazza infatti all’angolo della Hume Street. Portava un abito azzurro e

un berretto bianco alla marinara e mentre aspettava lì ferma sul marciapiede, con

una mano faceva dondolare l’ombrellino. Lenehan si animò.

- Lascia che le dia un’occhiata, Corley.

Corley lo guardò di sbieco e una smorfia sgradevole gli comparve sul viso.

- Di’, niente niente, me la vorresti soffiare?

- Per Dio, non pretendo mica che me la presenti! - protestò Lenehan con calore. -

Solo un’occhiata. Va’ là, che non te la mangio!

- Be’, se è solo per questo, - fece Corley in tono più amabile. - Aspetta che ti dico

come... Io m’avvicino e mentre le parlo tu ci passi accanto.

- Benissimo.

Corley aveva già scavalcato con una gamba le catene quando Lenehan gli gridò:

- E dopo? Dove ci troviamo?

- Alle dieci e mezzo, - rispose Corley scavalcando anche con l’altra.

- Ma dove?

- All’angolo di Merrion Street. Ci passeremo al ritorno.

- Mi raccomando fai le cose ammodo! - fece Lenehan a mo’ di saluto.

Corley non rispose. Traversò lemme lemme la strada dondolando la testa. Il torso

massiccio, l’andatura sicura, e il picchio risoluto degli stivali gli davano l’aria del

conquistatore. Abbordò la ragazza e senza nemmeno salutarla attaccò subito a

discorrere. Lei faceva oscillare più in fretta l’ombrellino e si rigirava a mezzo sui

tacchi. Una volta o due mentre egli le parlava sul viso, rise e chinò il capo.

Per qualche minuto Lenehan li stette a guardare, ma poi s’avviò rasente le catene

e traversò di sbieco la strada. Avvicinandosi all’angolo di Hume Street, sentì l’aria

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greve di profumo e i suoi occhi scrutarono ansiosi la ragazza. S’era messa il

vestito delle feste. La sottana di lanetta azzurra era tenuta in vita da una cinta di

pelle nera e la grossa fibbia d’argento le comprimeva il mezzo del corpo

stringendole come in una morsa il tessuto leggero della camicetta bianca. Sopra

indossava un corto giacchetto nero coi bottoni di madreperla e un boa

spelacchiato al collo. S’era spiegazzati ad arte gli orli della collaretta di tulle e in

petto aveva appuntato un grosso mazzo di fiori rossi coi gambi all’insù.

Lenehan ne notò subito con compiacenza il corpo tozzo e muscoloso. Una salute

franca e rigogliosa le accendeva il viso, le grasse guance rosse e gli occhi azzurri

sfrontati. Aveva fattezze grossolane: le narici larghe, la bocca tumida sempre

aperta in una smorfia impudente e i due denti davanti sporgenti. Passando,

Lenehan si tolse il berretto e dieci secondi dopo Corley ricambiava un saluto

distratto portandosi con gesto vago la mano al cappello e mutandogli di posizione

con aria meditabonda.

Lenehan proseguì fino allo Shelbourne Hotel e qui si fermò ad aspettare. Dopo un

po’ se li vide venire incontro e quando svoltarono a destra li seguì camminando

senza rumore con le sue scarpe di gomma lungo un lato della Merrion Square.

Mentre camminava così, adagio, regolando il suo passo sul loro, osservava la

testa di Corley voltarsi ad ogni istante verso la ragazza come una palla che

rotasse su un perno. Li tenne d’occhio finché non li vide salire sul tram di

Donnybrook. Allora si rivoltò e rifece la strada per cui era venuto.

Adesso che era solo la sua faccia appariva più vecchia. Pareva che ogni allegria lo

avesse disertato e costeggiando la cancellata del DukÈs Lawn s’abbandonò a far

scorrere la mano lungo le sbarre. Il motivo della canzone suonata dall’arpista

cominciava a regolare i suoi movimenti: i piedi calzati di gomma segnavano il

tempo e ad ogni gruppo di note le dita indolenti eseguivano variazioni sulla

ringhiera.

Vagabondò a caso attorno allo Stephen’s Green e poi giù per Grafton Street. Ma

per quanto i suoi occhi non tralasciassero di osservare anche nei minimi dettagli

la folla che lo circondava, ciò avveniva senza che vi prendesse interesse. Tutto

quel che avrebbe dovuto attrarlo gli appariva invece volgare e non riusciva a

rispondere agli sguardi che lo invitavano all’avventura. Sapeva che avrebbe

dovuto dire chissà quante cose, inventare e far dello spirito e si sentiva gola e

cervello troppo aridi per un compito simile. Lo tormentava il problema di come

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41

avrebbe passato il tempo finché non si fosse ritrovato con Corley. E alla mente

non gli venne altra idea che seguitare a camminare.

Arrivato all’angolo di Rutland Square svoltò a sinistra e si sentì più a suo agio

nella via buia e tranquilla il cui squallore meglio si addiceva al suo stato d’animo.

Alla fine si fermò dinanzi alla vetrina di una botteguccia modesta che portava

stampato in lettere bianche il nome: «Bibite e liquori». Sul vetro c’erano due

scritte svolazzanti: “Ginger beer” e “Ginger ale”, su un gran piatto azzurro era

esposto un prosciutto incominciato e accanto, su un altro piatto, un frammento

di torta di susine. Per un po’ i suoi sguardi si posarono avidi sul cibo e girato che

ebbe un’occhiata circospetta da un capo all’altro della strada, entrò in fretta.

Aveva fame perché dalla mattina a colazione, all’infuori ci pochi biscotti servitigli

a malincuore da due garzoni svogliati, non aveva mangiato altro. Sedette a un

tavolo di legno senza tovaglia di fronte a un meccanico e due operaie. Una ragazza

trasandata venne a chiedergli ordini.

- Quanto un piatto di piselli? - le domandò.

- Un “penny” e mezzo, signore.

- Bene, portatemene un piatto e una bottiglia di birra. Parlava grossolano in modo

da smentire la sua aria da signore poiché al suo ingresso era seguito un silenzio

nel locale. Si sentiva accaldato in viso e per parer naturale si spinse il berretto

sulla nuca e piantò i gomiti sul tavolo. Il meccanico e le due operaie lo

esaminarono punto per punto prima di riprendere in tono più sommesso il

discorso.

La serva portò un piatto di piselli caldi conditi con pepe e aceto, una forchetta e

una bottiglia di birra. Mangiò il cibo di gusto e lo trovò così saporito che

mentalmente prese nota della bottega. Spolverati che ebbe tutti i piselli, sorseggiò

pian piano la birra e per un po’ rimase lì seduto pensando all’avventura di Corley.

Nella fantasia vedeva la coppia d’amanti passeggiare lungo una strada buia,

udiva la voce di Corley profondersi in energiche galanterie e gli riappariva il

sorriso impudente della ragazza: visione che riacuiva in lui il senso della propria

povertà di spirito e di portafoglio. Era stanco di quel suo vagabondare continuo,

di quello stentare la vita a furia d’espedienti e d’intrighi. A novembre avrebbe

compiuto trentun anni. Non gli sarebbe mai riuscito dunque di trovare un

impiego decoroso? Non avrebbe mai avuto una casa sua?

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Pensò a come sarebbe stato bello avere un fuoco acceso e una buona cena

davanti. Da troppo tempo ormai correva le strade con ragazze e amici, e sapeva

quanto valessero e le une e gli altri. L’esperienza gli aveva inasprito il cuore

contro il mondo, ma ancora non aveva perduto del tutto la speranza. Si sentiva

meglio adesso che aveva mangiato, meno stanco della vita e meno abbattuto di

spirito. Sì, avrebbe potuto sistemarsi anche lui in qualche cantuccio e vivere in

pace, se tanto tanto gli fosse capitata la fortuna d’incontrare una brava figliola,

semplice di cuore e con un po’ di soldi da parte.

Pagò due “pence” e mezzo alla serva malvestita e uscì dalla bottega per riprendere

il suo vagabondaggio. Imboccò Capel Street e si diresse verso la City Hall; poi

svoltò in Dame Street. All’angolo di George Street incontrò due amici e si fermò a

chiacchierare: era contento di riposarsi della camminata. Gli amici gli chiesero se

aveva visto Corley e se c’erano novità. Parlavano poco: con occhio distratto

guardavano la gente che passava azzardando ogni poco un commento. Uno disse

che un’ora prima aveva visto Mac in Westmoreland Street e a questo Lenehan

osservò che era stato con Mac la sera prima, da Egan. Il giovanotto che aveva

visto Mac in Westmoreland Street domandò se era vero che avesse vinto dei soldi

al bigliardo. Lenehan non lo sapeva: disse che Holohan aveva pagato da bere a

tutti, da Egan.

A un quarto alle dieci li lasciò e prese su per George Street. Al City Market svoltò

a sinistra e imboccò Grafton Street. La folla di giovanotti e ragazze si era diradata

e risalendo la strada sentì diverse comitive e coppie che si salutavano dandosi la

buona notte. Si spinse fino all’orologio del Surgeons College: suonavano le dieci in

punto. Allora s’avviò lungo il lato nord del Green affrettandosi per timore che

Corley fosse di ritorno in anticipo. Raggiunto l’angolo di Merrion Street si appostò

nell’ombra di un lampione e tirata fuori una delle sigarette che aveva di riserva

l’accese. Appoggiato al lampione teneva gli occhi fissi dalla parte da cui si

aspettava di veder tornare Corley e la ragazza.

Riprese a lavorare di cervello. Si domandava se Corley se l’era cavata e se

gliel’aveva chiesto subito o aveva aspettato invece all’ultimo momento. Soffriva

insomma tutti i tremori e le ansie sia della situazione dell’amico che della propria.

Venne però a rassicurarlo il ricordo delle lente evoluzioni della testa di Corley: se

la sarebbe cavata certamente. Lo colpì allora il dubbio che potesse avere

accompagnato la ragazza per un’altra strada facendogliela in barba. Appuntò gli

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occhi verso il fondo della via: non si vedeva nessuno. Eppure doveva essere già

passata di certo una mezz’ora da quando aveva guardato l’orologio al Surgeons

College. Sarebbe stato capace Corley di un’azione simile?

Accese l’ultima sigaretta e cominciò a fumarla nervosamente. Aguzzava lo

sguardo ogni volta che i tram si fermavano all’angolo della piazza. Dovevano

proprio essere tornati a casa per un’altra strada. La carta della sigaretta gli si

ruppe e la buttò via con una bestemmia.

A un tratto li vide venire alla sua volta. Trasalì di piacere e tenendosi accosto al

lampione cercò d’indovinare dalla loro andatura il risultato dell’impresa.

Camminavano in fretta, a passettini brevi la ragazza, mentre Corley le teneva

dietro col suo passo lungo e deciso. Avevan l’aria di tacere, e un presentimento lo

punse. Corley aveva fatto fiasco, lo sapeva: tutto tempo sprecato.

Svoltarono per Baggot Street ed egli li seguì subito, prendendo l’altro marciapiede.

Quando si fermarono si fermò anche lui. Stettero un po’ lì a confabulare davanti a

una casa, poi la ragazza scese gli scalini che portavano in cortile. Corley rimase a

poca distanza, sul marciapiede.

Passò qualche minuto. La porta d’ingresso si aprì adagio, con cautela. Una donna

scese i gradini di corsa e tossì. Corley si voltò e le si accostò. Per pochi secondi la

sua figura massiccia la nascose alla vista poi essa riapparve mentre correva su

per la scala. La porta si richiuse alle sue spalle e Corley si avviò a passo svelto

verso lo Stephen’s Green.

Lenehan s’affrettò nella stessa direzione. Cadeva qualche goccia di pioggia. Egli la

prese come un avvertimento e data un’occhiata alla casa in cui era scomparsa la

ragazza per vedere se non c’era nessuno a osservarlo, traversò correndo la strada.

L’ansia e la velocità della corsa lo facevano ansimare. Gridò:

- Ehi, Corley!

Corley voltò la testa per vedere chi lo chiamava e continuò a camminare come

niente fosse. Lenehan gli corse dietro e con una mano si raggiustava

l’impermeabile sulle spalle.

- Corley! - ripeté.

Raggiunse l’amico e lo guardò bene in faccia. Non riuscì a leggervi nulla.

- Be’, - chiese. - Com’è andata?

Erano arrivati all’angolo di Ely Place. Sempre senza rispondere Corley svoltò a

sinistra e risalì la strada laterale. Una calma solenne gli componeva i lineamenti.

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Lenehan gli si teneva a passo, ansando a disagio. Si sentiva tradito e una nota di

minaccia gl’incrinò la voce.

- Non mi dici nulla? Hai provato?

Corley si fermò sotto il primo lampione e guardò fisso dinanzi a sé. Poi con gesto

grave tese una mano verso la luce e sorridendo l’aprì adagio allo sguardo del suo

discepolo. Una piccola moneta d’oro brillava nel palmo.

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Pensione di famiglia

La signora Mooney era figlia di un macellaio: una donna che sapeva il fatto suo,

una donna di carattere insomma. Aveva sposato un garzone del padre e aperto

una macelleria nei pressi degli Spring Gardens.

Appena morto il suocero, però, il signor Mooney cominciò ad andare in rovina.

Beveva, spendeva e spandeva, s’ingolfava nei debiti; ed era inutile che facesse

promesse: dopo pochi giorni si poteva star sicuri che tornava daccapo. A furia poi

di maltrattare la moglie in presenza degli avventori e di comprare carne di

pessima qualità finì per screditarsi. Una notte arrivò perfino a minacciare la

moglie con la scure e la poveretta dovette rifugiarsi a dormire in casa di un vicino.

Dopo di ciò vissero ognuno per conto suo. Lei andò dal prete e ottenne la

separazione dal marito e la tutela dei figli. Non volle passargli né soldi, né cibo, né

alloggio e per campare egli fu costretto ad arruolarsi nelle guardie municipali. Era

un povero ubriacone, curvo e striminzito, con faccia e capelli bianchi e un paio di

sopracciglia pure bianche, messe lì a virgola sugli occhietti smorti e venosi. Le

sue giornate le passava seduto nell’ufficio di polizia in attesa che gli dessero

qualcosa da fare.

La signora Mooney invece, la quale col denaro avanzatole liquidata la macelleria,

aveva messo su una pensione nella Hardwicke Street, non mancava di una certa

imponenza. La sua era una clientela composta da un lato di gente di passaggio -

turisti che venivano da Liverpool o dall’Isola di Man, e, occasionalmente, artisti e

artiste di caffè-concerto; dall’altro di pensionanti fissi, per la maggior parte

impiegati. Abile e ferma essa dirigeva la casa: sapeva quando far credito, quando

essere severa e quando chiudere un occhio e i suoi giovani ospiti la chiamavano

di comune accordo la «madama».

Pagavano tutti per vitto e alloggio quindici scellini la settimana (birra o “stout”

durante il pasto, esclusi), e avendo gli stessi gusti e le stesse occupazioni, si

divertivano a discutere fra di loro le possibilità di questo o quel favorito, di questo

o quel fuoriclasse, e nel complesso erano piuttosto affiatati.

Jack Mooney, figlio di «madama» e impiegato in un’agenzia della Fleet Street,

aveva, da parte sua, fama d’essere un brutto tipo. Si compiaceva di usare il gergo

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osceno delle caserme e di solito rincasava alle ore piccole. Quando incontrava gli

amici ne aveva sempre una da raccontare e sempre si diceva sicuro di aver per le

mani qualcosa di buono, sia si trattasse di cavalli che di donne. Non gli

mancavano inoltre abilità di pugilatore e sapeva cantare le canzonette. Spesso la

domenica sera c’era trattenimento nel salotto della signora Mooney. Gli artisti da

caffè-concerto si prestavano gentilmente e Sheridan suonava polke e valzer al

pianoforte, improvvisando accompagnamenti. Polly, la figlia della padrona,

cantava anche lei. Cantava:

Son cat... tivella

D’ignorarlo non fingete

Che lo sono ben sapete.

Era una ragazzina esile sui diciannove anni, con bei capelli morbidi e fini, bocca

piccola e carnosa e occhi grigi dai riflessi verdastri, che aveva l’abitudine di levare

al cielo ogni qual volta parlava con qualcuno, il che le dava un’aria da madonnina

perversa.

In un primo tempo la signora Mooney l’aveva impiegata come dattilografa presso

una ditta di granaglie, ma da quando una delle guardie municipali, uomo di

pessima reputazione, aveva preso a venire ogni due giorni all’ufficio chiedendo di

poter scambiare una parola con la ragazza, se l’era ripresa a casa occupandola

nelle faccende domestiche.

Veramente, vista la sua vivacità, l’idea sarebbe stata che badasse a intrattenere i

giovanotti: ai giovani in genere non dispiace sentire in casa la presenza di una

fanciulla. Polly, come naturale, civettava un po’ con tutti, ma la signora Mooney

era buon giudice e sapeva che lo facevano tanto per passare il tempo: nessuno di

loro, in realtà, aveva intenzioni serie. Le cose andarono avanti così per un bel

pezzo e «madama» già stava pensando di rimandare la figliola a fare la

dattilografa, quando s’accorse che c’era qualcosa fra Polly e uno dei pensionanti.

Tenne d’occhio la coppia, poi prese la sua decisione.

Polly sapeva d’essere osservata, ma d’altra parte non c’era da sbagliarsi sul

persistente silenzio materno. Non che ci fosse stata fra madre e figlia un’aperta

complicità o una esplicita intesa, eppure per quanto in casa già si cominciasse a

mormorare sull’argomento, la signora Mooney taceva. Polly si fece allora piuttosto

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strana di modi e il giovanotto apparve chiaramente turbato. Alla fine, giudicando

fosse giunto il momento opportuno, la signora Mooney intervenne. Era usa

trattare i problemi morali allo stesso modo che il macellaio la carne e nel caso

presente aveva deciso.

Era una bella mattina di domenica sul principio dell’estate e benché promettesse

il caldo, soffiava ancora una bell’arietta fresca. Tutte le finestre della pensione

erano aperte e le tendine di merletto si gonfiavano lente verso la strada, di sotto

alle imposte alzate. Dal campanile della chiesa di Saint George partiva un

continuo scampanìo e i fedeli, soli o a gruppi, traversavano lo spiazzo dinanzi alla

chiesa rivelando sia dal contegno riservato e sia dai libriccini da messa che

stringevano nelle mani guantate, la serietà dei loro propositi.

La prima colazione era già stata servita da un pezzo e sulla lunga tavola in

camera da pranzo rimanevano i piatti con striature di rosso d’uovo e resti di

pancetta o di grasso di prosciutto. Seduta nella poltrona di vimini la signora

Mooney sorvegliava Mary, la serva, che sparecchiava.

Le fece raccogliere tutte le croste e i pezzetti di pane che avrebbero servito per il

budino del martedì e quando la tavola fu sparecchiata, i resti del pane raccolti e

lo zucchero e il burro chiusi a chiave nella credenza, prese a ricapitolare fra sé il

colloquio avuto con Polly la sera prima.

Le cose stavano proprio come aveva sospettato. Era stata franca nelle domande e

Polly altrettanto nelle risposte. Entrambe naturalmente si sentivano un po’

imbarazzate: la madre perché non voleva aver l’aria di ricevere la notizia con

troppa disinvoltura, dando l’impressione d’essere stata complice; e la figlia non

solo perché allusioni di tal genere la mettevano sempre a disagio, ma anche

perché non voleva far credere che nella sua oculata innocenza aveva indovinato

quali fossero, dietro tanta tolleranza, le intenzioni materne.

Non appena, pur nelle sue meditazioni, la signora Mooney si fu accorta che le

campane della chiesa di Saint George avevano smesso di suonare, d’istinto gettò

uno sguardo alla pendola dorata sul caminetto.

Le undici e diciassette. Aveva tutto il tempo di sistemare la faccenda col signor

Doran e arrivare a prendersi un po’ della messa di mezzogiorno in Malborough

Street. Era sicura di vincere. Prima di tutto aveva dalla sua il peso dell’opinione

pubblica: era pur sempre una madre oltraggiata. Gli aveva permesso di vivere

sotto il suo tetto presumendolo uomo d’onore ed egli aveva invece abusato della

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sua ospitalità. Il signor Doran avrà bene avuto i suoi trentaquattro o trentacinque

anni e ciò gl’impediva di portare a scusa la giovinezza e tanto meno l’inesperienza,

poiché non era persona da non conoscere il mondo. Era invece della gioventù e

dell’inesperienza di Polly che aveva profittato: era evidente. Di problemi quindi se

ne presentava uno solo: quale sarebbe stata la riparazione?

Perché una riparazione ci voleva. Per l’uomo tutto é facile: preso il suo piacere se

ne va per la sua strada come niente fosse e chi ci scapita è sempre la ragazza.

Altre madri, al posto suo, sarebbero state ben contente di sistemare la faccenda

con una bella sommetta: ne conosceva diverse. Ma lei no. Per lei c’era un unico

compenso alla perdita dell’onore della figliola: il matrimonio!

Radunò tutte le sue carte prima di mandare Mary su dal signor Doran ad

avvertirlo che desiderava parlargli. Avrebbe vinto di certo. Era un giovanotto serio

il signor Doran, non uno scapestrato o uno sfarfallone al pari degli altri. Si fosse

trattato di Sheridan o del signor Meade o di Bantam Lyons il compito sarebbe

stato ben più arduo. Ma non credeva che il signor Doran avesse voglia

d’affrontare uno scandalo. Tutti i pensionanti, più o meno, erano al corrente della

cosa e alcuni ne avevano inventato perfino i particolari. Inoltre da tredici anni

almeno lavorava presso la grossa ditta di un vinaio cattolico e un’eccessiva

pubblicità avrebbe potuto significare per lui la perdita del posto. Se invece

acconsentiva, tutto si sarebbe accomodato. Sapeva, tanto per cominciare, che

guadagnava benino e sospettava si fosse anche messo qualcosa da parte.

Già la mezza! S’alzò e si dette un’occhiata nello specchio del camino.

L’espressione decisa del suo faccione florido la soddisfece e pensò con

compatimento a certe madri di sua conoscenza che non sapevano come liberarsi

delle figliole.

Il signor Doran in realtà si trovava in uno stato di grande inquietudine quella

domenica mattina. Era già due volte che tentava di radersi ma gli tremava tanto

la mano che aveva dovuto rinunciarvi. Una barba di tre giorni, di un colore

rossiccio, gli orlava le guance e ad ogni momento gli s’appannavano gli occhiali,

così che doveva toglierseli e pulirli col fazzoletto del taschino. Il ricordo della

confessione della sera prima gli causava tuttora un’acuta sofferenza. Il prete era

riuscito a cavargli fino i dettagli più ridicoli della faccenda e alla fine aveva

talmente ingrandito ed esagerato la sua colpa ch’egli s’era quasi detto grato gli

venisse ancora offerta la possibilità di riparare. Il male era fatto. Che altro gli

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rimaneva ormai se non sposarla o tagliare la corda? Non avrebbe avuto la

sfrontatezza di sostenere quella parte fino alla fine. La cosa si sarebbe certamente

risaputa e anche il suo principale ne sarebbe venuto a conoscenza. Dublino è una

città così piccola e tutti sanno gli affari degli altri. Nella sua immaginazione

eccitata già gli pareva di sentire la voce rauca del vecchio Leonard che gridava: -

Chiamatemi il signor Doran per favore! - e al solo pensarvi il cuore gli saltava in

gola.

Tutti quegli anni di lavoro per nulla, tutta la sua assiduità e diligenza buttate al

vento! Da giovanotto aveva corso la cavallina anche lui. S’era vantato d’essere un

libero pensatore e aveva negato l’esistenza di Dio nelle osterie, in compagnia degli

amici. Ma era tutta acqua passata. È vero che ancora adesso si comprava ogni

settimana una copia del «Reynold’s», ma ciò non gl’impediva di assolvere

regolarmente ai suoi doveri religiosi e di condurre per nove decimi dell’anno

almeno una vita morigerata. Denaro per metter su casa non gli mancava: non

stava lì il problema. Certo i suoi avrebbero guardato dall’alto in basso la ragazza.

In primo luogo c’era quel padre assai poco stimabile, eppoi anche la pensione

della madre s’andava acquistando una certa fama... Aveva la vaga sensazione

d’essere stato giocato e già immaginava gli amici parlare della faccenda e riderne.

Lei poi era un po’ volgare. Sbagliava verbi e coniugazioni: «se farei», diceva. Ma in

fin dei conti che importava la grammatica se le voleva bene sul serio! Ancora non

sapeva se dovesse portarle amore o disprezzo per ciò che aveva fatto. La colpa del

resto era anche sua. L’istinto però gli suggeriva di restar libero, di non sposarsi.

Una volta sposato, si sa, si è un uomo finito.

Mentre se ne stava lì sgomento, seduto sull’orlo del letto in maniche di camicia,

Polly bussò piano alla porta ed entrò. Gli raccontò tutto: che si era confessata alla

mamma e che la mamma gli avrebbe parlato quella mattina. Piangeva e gli buttò

le braccia al collo dicendo:

- O Bob, Bob... cosa debbo fare, dimmelo tu...

Voleva uccidersi, diceva.

Egli la confortò debolmente, esortandola a non piangere, a non aver timore, che

tutto si sarebbe accomodato. Sentiva contro la camicia il palpitare del suo seno.

Non si poteva nemmeno dire che fosse tutta colpa sua quanto era accaduto. Ben

rammentava, con la paziente, curiosa memoria del celibe, le prime carezze casuali

della veste di lei, delle sue dita, del suo respiro. In seguito, poi, una sera che si

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stava svestendo per andare a letto, l’aveva sentita bussare alla porta,

timidamente. Voleva accendere la candela alla sua perché una ventata gliel’aveva

spenta. Era la sera che faceva il bagno. Portava una vestaglia aperta di flanella

stampata: il collo del piede splendeva bianco nell’apertura delle pantofole orlate di

pelo e il sangue le ardeva caldo sotto la pelle profumata. Anche dalle mani e dai

polsi, mentre accendeva e raddrizzava la candela, saliva un leggero profumo.

Le sere che rincasava tardi era sempre lei a riscaldargli la cena. Non sapeva

neanche cosa mangiava sentendosela lì accanto sola, nella casa addormentata. E

quante attenzioni! Se la nottata era umida o fredda o tirava un po’ di vento poteva

star sicuro di trovare un bel bicchiere di ponce ad aspettarlo. Forse sarebbero

stati felici insieme...

Salivano le scale fianco a fianco in punta di piedi ciascuno con la sua candela e

sul pianerottolo del terzo piano scambiavano con rincrescimento la buonanotte.

Si baciavano. Rammentava bene i suoi occhi e il contatto della sua mano e il

proprio turbamento...

Ma la passione passa. Ripeteva la sua domanda applicandola a se stesso: «Cosa

debbo fare?» L’istinto del celibe lo avvertiva di stare in guardia. Ma il peccato

restava e anche il suo senso d’onore non poteva non dirgli che era necessaria una

riparazione.

Stava lì seduto con lei sull’orlo del letto quando Mary bussò alla porta e gli disse

che la signora desiderava parlargli. S’alzò per infilarsi giacca e panciotto, più

sgomento che mai. Vestito che fu si chinò sulla ragazza a consolarla: sarebbe

andato tutto bene, non c’era da aver paura. La lasciò che piangeva sul letto e si

lamentava piano: - O mio Dio...

Nello scendere le scale gli occhiali tornarono ad appannarglisi tanto che dovette

levarseli e pulirli col fazzoletto del taschino. Avrebbe voluto poter passare

attraverso il tetto e volar via in un altro paese dove non ci fosse nessuno a

ricordargli quella maledetta storia. Invece una forza sconosciuta lo spingeva giù

gradino per gradino: le facce del principale e di «madama» osservavano implacabili

la sua sconfitta.

Nell’ultima rampa di scale incontrò Jack Mooney che usciva dalla dispensa

coccolandosi fra le braccia due bottiglie di Bass. Si salutarono con freddezza e per

un secondo o due gli occhi dell’amante si posarono sulla grossa faccia da bulldog

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e sulle braccia corte e tozze. Giunto in fondo alle scale si voltò in su e vide Jack

che lo fissava dalla porta del ripostiglio.

Gli ritornò d’un tratto alla mente la sera che uno degli artisti da caffè- concerto,

un londinesino biondo, aveva azzardato un’allusione un po’ ardita sul conto di

Polly. C’era mancato poco che la riunione andasse a monte a causa della violenza

di Jack. Tutti avevano cercato di calmarlo e il biondino, un po’ più pallido del

solito, continuava a sorridere e a dire che non aveva inteso nulla di male. Ma

Jack urlava imperterrito che se qualcuno si fosse azzardato a scherzi del genere

con la sorella gli avrebbe fatto ingoiare tutti i denti: ecco cosa gli avrebbe fatto.

Polly rimase ancora per un po’ seduta a piangere sull’orlo del letto. Poi s’asciugò

gli occhi, s’avvicinò allo specchio, e immerso un angolo dell’asciugamano nella

brocca, se li rinfrescò con l’acqua fredda. Ciò fatto si guardò di profilo e si rimise

a posto una forcina, sopra l’orecchio.

Ritornò allora a sedersi ai piedi del letto. Per lungo tempo guardò i guanciali e la

loro vista le risvegliò ricordi dolci e segreti. Appoggiata la nuca sul ferro freddo

della spalliera cadde in una profonda fantasticheria. Non c’era più turbamento

alcuno sul suo viso.

Continuò così ad aspettare, calma, quasi allegra, senza più nessun senso di

paura e a poco a poco i ricordi cedettero alle speranze e alle immagini del futuro.

Speranze ed immagini talmente complesse che già non vedeva più i bianchi

guanciali su cui posava lo sguardo né si ricordava cosa stesse aspettando.

Finalmente udì la voce della madre che la chiamava. Balzò in piedi e corse sul

pianerottolo.

- Polly! Polly!

- Sì, mamma.

- Vieni giù, cara. Il signor Doran vuole parlarti.

Allora si ricordò che cosa era stata ad aspettare.

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Una piccola nube

Otto anni prima aveva accompagnato l’amico alla North Wall e gli aveva augurato

buona fortuna.

Gallaher s’era fatto strada. Lo si capiva subito dalla sua aria d’uomo navigato, dal

taglio perfetto del vestito e dalla voce sicura. Se pochi avevano il suo talento,

ancor meno erano quelli che non si sarebbero lasciati guastare da un simile

successo. Aveva cuore Gallaher e s’era meritato di vincere. Era già qualcosa avere

un amico come lui.

Dall’ora di colazione il piccolo Chandler non aveva avuto altro pensiero che

l’incontro con Gallaher, l’invito di Gallaher, e Londra, la grande città dove viveva

Gallaher. Lo chiamavano il piccolo Chandler perché, nonostante fosse di statura

appena di sotto alla media, dava l’impressione d’essere piccolino. Aveva mani

piccole e bianche, ossatura fragile, voce quieta e modi gentili. Aveva gran cura dei

capelli, serici e biondi, e dei baffi e con discrezione si spruzzava di profumo il

fazzoletto. Le unghie le portava tagliate a mezzaluna perfetta e quando sorrideva

lasciava scorgere una fila di denti bianchi e infantili.

Seduto alla sua scrivania nella King’s Inn pensava a tutti i cambiamenti che

quegli otto anni avevano portato. L’amico da lui conosciuto nella più cruda

indigenza era diventato adesso una brillante personalità della London Press.

Spesso il piccolo Chandler distoglieva lo sguardo dal suo monotono scribacchiare

per posarlo fuori della finestra, La luce di un tardo pomeriggio d’autunno

avvolgeva i viali e le aiuole, gettava una dolce pioggia di pulviscolo d’oro sulle

bambinaie sciatte e sui vecchi decrepiti che sonnecchiavano sulle panchine,

tremava su ogni figura in movimento: fanciulli che correvano gridando sulla

ghiaia dei viali, passanti che traversavano in fretta il giardino. Guardò la scena e

pensò alla vita e come sempre gli avveniva allorché pensava alla vita,

s’immalinconì. Sì, lo prese una dolce malinconia. Sentiva quanto fosse inutile

lottare contro il destino, peso questo di una saggezza tramandatagli dai secoli.

Ricordava i volumi di poesie a casa, negli scaffali. Li aveva comprati quand’era

scapolo e spesso la sera, mentre sedeva nella stanzetta che dava sull’atrio, era

stato tentato di prenderne uno e leggerne qualche brano alla moglie. Ma la

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timidezza lo aveva sempre trattenuto e così i libri rimanevano al loro posto, negli

scaffali. A volte ne ripeteva i versi fra sé e ciò lo consolava.

Suonata che fu l’ora s’alzò e meticolosamente prese congedo sia dalla scrivania

che dai colleghi d’ufficio. Inappuntabile e modesto emerse di sotto l’arco feudale

della King’s Inn e s’avviò in fretta giù per la Henriette Street. L’oro del tramonto

già si stava smorzando e l’aria si faceva pungente. Un’orda di ragazzi sudici

popolava la strada. Ce n’erano di fermi a crocchi nel mezzo della via, altri che

correvano, altri che si strascicavano su per gli scalini dinanzi alle porte accostate

o altri ancora accoccolati come topi sulle soglie. Il piccolo Chandler non vi faceva

caso.

Seguitava dritto per la sua strada in mezzo al brulichìo, nell’ombra degli alti

palazzi spettrali, in cui un tempo aveva folleggiato l’antica nobiltà di Dublino.

Nessun ricordo del passato, però, lo sfiorava, poiché la gioia del momento gli

empiva la mente.

Non era mai stato da Corless ma lo conosceva di fama. Sapeva che ci s’andava

dopo teatro a mangiare le ostriche e a bere liquori e gli avevano anche detto che i

camerieri parlavano tedesco e francese. A volte passando di lì in fretta, la notte,

aveva visto le carrozze ferme davanti all’ingresso e le eleganti signore che ne

scendevano per entrare alla svelta scortate dai loro cavalieri. Avevano tutte abiti

fruscianti e mantelli e il viso incipriato, e toccando terra si rialzavano la gonna

come Atalante spaventate. Lui passava sempre senza voltare la testa.

Era una sua abitudine quella di camminare in fretta per le strade anche di giorno

e se gli avveniva poi di ritrovarsi a notte nel centro, accelerava ancora di più il

passo, eccitato e ansioso. Talvolta invece era lui stesso a sollecitare le cause del

suo timore. Sceglieva a bella posta le vie più strette e più buie e mentre

proseguiva audacemente nel suo cammino il silenzio che avvolgeva il rumore dei

suoi passi gli dava un senso di turbamento. Anche le quiete figure dei passanti lo

turbavano e a volte bastava il suono sommesso di una risata fuggitiva per farlo

tremare come una foglia.

Svoltò a destra in direzione della Capel Street. Ignatius Gallaher alla London

Press. Chi l’avrebbe mai detto otto anni fa? Eppure riandando con la mente al

passato il piccolo Chandler poteva ricordare nell’amico molti sintomi di grandezza

futura. Per la gente Ignatius Gallaher era uno scapestrato. Certo che usava allora

mischiarsi ad ogni sorta di dissoluti, che beveva a tutto spiano e prendeva denaro

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a prestito dappertutto. A lungo andare e sempre per questioni di denaro s’era

compromesso in una faccenda un po’ losca: questa almeno era stata una delle

tante versioni della sua fuga. Nessuno però gli disconosceva un certo talento.

C’era sempre un non so che in Ignatius Gallaher, qualcosa che s’imponeva,

nonostante tutto. Anche quando arrivava agli estremi e non sapeva più dove dare

la testa per tirare avanti, non perdeva baldanza. Il piccolo Chandler ricordava

ancora certi suoi modi di dire allorché si trovava alle strette, e il ricordo gli portò

alle guance una debole vampa d’orgoglio.

- Un momento, ragazzi, - soleva dire spensieratamente, - o la va o la spacca!

Ecco com’era Ignatius Gallaher e, perbacco, non si poteva fare a meno

d’ammirarlo.

Il piccolo Chandler affrettò il passo. Per la prima volta in vita sua si sentiva

superiore alla gente che incontrava lungo la strada. E per la prima volta si sentiva

rivoltare di fronte alla piatta ineleganza della Capel Street. Non c’era alcun

dubbio: se si voleva riuscire a qualcosa bisognava andarsene. Traversando il

Grattan Bridge abbassò gli occhi con compatimento sulla fila dei miseri aborti di

case lungo le rive del fiume. Gli apparivano come un branco di vagabondi

ammucchiati gli uni addosso agli altri sulla banchina, coi vecchi pastrani

fuligginosi e infangati; vagabondi stupefatti dal panorama del tramonto, che

attendessero il primo freddo notturno per alzarsi, riscuotersi e partire. Si

domandò se sarebbe stato capace di scriverci una poesia. Forse Gallaher

gliel’avrebbe potuta far pubblicare in un giornale di Londra. Non sarebbe stato

capace di scrivere qualcosa di originale? Sebbene ancora non fosse sicuro di quel

che voleva esprimere, il pensiero di essere stato sfiorato, sia pure per un istante,

da un’ispirazione poetica prese vita in lui, rinnovandolo alla speranza. Proseguì

baldanzoso.

Ogni passo lo avvicinava a Londra e al tempo stesso lo allontanava da quella sua

esistenza scialba e meschina. Una luce gli baluginò all’orizzonte della mente. Non

si è poi così vecchi a trentadue anni; il suo temperamento poteva considerarsi al

giusto punto di maturità.

C’erano tanti stati d’animo e tante impressioni diverse che avrebbe voluto

esprimere in poesia. Se li sentiva dentro e cercava di soppesare la sua anima per

sapere se era veramente anima di poeta. La melanconia ne costituiva la nota

dominante, pensò; una melanconia moderata però da ritorni di fede e di

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rassegnazione e di gioia semplice. Se avesse potuto darle espressione in un

volume di poesie forse gli uomini lo avrebbero notato. Non che avrebbe mai avuto

popolarità, questo lo sapeva; e nemmeno che sarebbe mai riuscito a trascinare le

folle, ma poteva pur sempre rivolgersi a una cerchia ristretta di spiriti affini.

Poteva anche darsi che i critici inglesi lo riconoscessero come un appartenente

alla scuola celtica, per via del tono melanconico delle sue poesie; ed egli dal canto

suo non avrebbe tralasciato d’introdurvi eleganti metafore. Già cominciava a

immaginarsi frasi di articoli e di recensioni al suo volume: «Il signor Chandler ha

il dono del verso facile e aggraziato... Una nostalgica melanconia pervade queste

poesie... La nota celtica... » Peccato non avere un nome di suono più irlandese.

Forse sarebbe stato bene aggiungere al proprio quello della madre: Thomas

Malone Chandler. O ancor meglio: T. Malone Chandler. Ne avrebbe parlato a

Gallaher.

Mise tanto fervore nell’inseguire il suo sogno che oltrepassò la strada e dovette

tornare indietro. Nell’avvicinarsi a Corless lo riprese l’orgasmo di prima e indeciso

si fermò davanti alla porta. Finalmente aprì ed entrò.

La luce e il frastuono del bar lo trattennero per qualche secondo sulla soglia. Si

guardò in giro ma lo scintillìo dei bicchieri verdi e rossi lo abbagliò. Il locale gli

parve pieno di gente ed ebbe l’impressione che tutti si voltassero a osservarlo

incuriositi. Corrugando appena le ciglia per darsi un contegno, dette un’occhiata

frettolosa a destra e a sinistra e quando la vista gli si fu un po’ schiarita s’accorse

che non s’era voltato nessuno e che là, com’è vero Iddio, c’era Ignatius Gallaher

appoggiato di spalle al banco, i piedi piantati larghi sul pavimento.

- Tommy, vecchio mio! ... Eccoti qua. Che si fa allora? Cosa prendi? Io whisky. È

migliore qui che dall’altra parte. Soda? Selz? Niente acqua minerale? Neanch’io,

sai? Guasta il sapore... Qua “garcon”, due mezzi, da bravo!... Be’, come te la sei

cavata, dall’ultima volta che ci vedemmo? S’invecchia purtroppo. Non ne vedi i

segni? Eh? Come?...

Un po’ di capelli grigi, un po’ di pelata... Cosa? Ignatius Gallaher si tolse il

cappello e mise in luce un gran testone coi capelli tagliati corti corti. Aveva una

faccia massiccia, pallida e rasata.

Gli occhi di un azzurro lavagna ne attenuavano il pallore malaticcio brillando

piatti sull’arancio vivo della cravatta, e fra questi due toni contrastanti le labbra

apparivano informi e incolori. Chinata la testa si tastò con due dita pietose i

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capelli radi sul sommo del cranio; il piccolo Chandler scosse il capo in atto di

diniego e Ignatius Gallaher si rimise il cappello.

- Butta giù, questa vita di giornale. Sempre di corsa qua e in là, sempre a caccia

d’argomenti e il più delle volte senza trovare un bel nulla, e sempre dover dire

qualcosa di nuovo. Al diavolo bozze e tipografi, ho detto, per qualche giorno

almeno. Sono contento, sai, maledettamente contento d’essere tornato in patria.

Che diamine, un po’ di vacanza ci vuole! Mi sento assai meglio da quando ho

ripreso terra nella mia vecchia, sporca Dublino. E così eccoci qua, Tommy.

Acqua? Di’ quanta.

Il piccolo Chandler si fece annacquare il whisky in abbondanza.

- Si vede proprio che non hai gusto, ragazzo mio, - protestò Ignatius Gallaher. - Il

mio lo bevo quasi schietto.

- Ma sai, non ci sono abituato, - si scusò il piccolo Chandler in tono modesto. -

Giusto un mezzo bicchierino una volta ogni tanto, quando capita d’incontrare un

vecchio amico...

- Oh, be’! - fece Gallaher gioviale. - Alla nostra salute allora... Ai vecchi tempi e

alle vecchie amicizie!

Toccarono i bicchieri e bevvero.

- A proposito, ho incontrato qualcuno della banda, oggi, - disse Ignatius Gallaher.

- Pare che O’Hara sia su una brutta strada... Che fa?

- Niente. Ormai è un uomo finito.

- Hogan invece ha un buon posto, vero?

- Sì, sta all’Agricoltura.

- L’ho incontrato una sera a Londra e pareva piuttosto in fondi... Povero O’Hara...

Sarà stato il bere, suppongo...

- Già, e il resto, - tagliò corto il piccolo Chandler brusco. Ignatius Gallaher si mise

a ridere.

- Tommy, non sei cambiato affatto a quanto vedo. Sempre la stessa personcina

dabbene che mi faceva i predicozzi la domenica mattina quando mi ritrovavo col

mal di testa e la bocca amara. Avresti bisogno di vedere un po’ di mondo tu. Non

sei mai stato fuori, nemmeno per un viaggetto?

- Sono stato all’isola di Man.

Ignatius Gallaher scoppiò in una risata.

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- All’isola di Man! Ma è a Parigi, a Londra che devi andare. Meglio Parigi, anzi. Ti

farebbe bene.

- Tu l’hai vista Parigi?

- Eccome. L’ho girata in lungo e in largo.

- Ed è proprio così bella come dicono?

Bevve un sorsetto dal bicchiere mentre Ignatius Gallaher vuotava il suo d’un

fiato.

- Bella? - fece poi indugiando e sulla parola e sul sapore della bevanda.

- No, sai, niente di speciale... Bella lo è, naturalmente... Ma è la vita a Parigi che

conta. Ah, non ce n’è altre di città per allegria, animazione, movimento...

Il piccolo Chandler finì il suo whisky e non senza fatica riuscì finalmente a

richiamare l’attenzione del barista. Ne ordinò altri due, dello stesso.

- Sono stato al “Moulin Rouge”, - continuò Ignatius Gallaher quando quello ebbe

tolto i bicchieri, - e nei caffè di Montmartre. Che roba! Non certo per gente

timorata come te, Tommy !

Il piccolo Chandler non disse nulla finché il barista non fu tornato coi due

bicchieri. Allora sfiorò appena quello dell’amico e ricambiò il brindisi. Cominciava

a sentirsi un po’ deluso. Il tono di Gallaher e il suo modo d’esprimersi non gli

piacevano. C’era in lui una volgarità che prima non aveva notato. Ma forse si

trattava solo dell’effetto che fa il vivere a Londra fra le beghe e il traffico dei

giornali. L’antico fascino personale sussisteva ancora, però, pur sotto questo

nuovo atteggiamento frivolo. Eppoi, in fin dei conti, Gallaher era un uomo

vissuto, un uomo che aveva visto il mondo. E il piccolo Chandler guardò con

invidia l’amico.

- C’è una tale allegria a Parigi, - diceva questi, - gente che se la vuole godere la

vita. E non han tutti i torti in fondo. Se ti vuoi divertire sul serio è a Parigi che

devi andare. E vanno matti per gli irlandesi, sai? Caro mio, quando seppero che

ero di queste parti poco mancò che mi ammazzassero tanto mi fecero festa.

Il piccolo Chandler bevve quattro o cinque sorsi dal bicchiere.

- E dimmi, - chiese, - è proprio immorale come dicono, Parigi? Ignatius Gallaher

fece con la destra un gesto compunto.

- D’immoralità, sai, ce n’è dappertutto. Certo che a Parigi ci mettono più sale,

magari. Dovresti andare a uno di quei balli di studenti, per esempio. Li sì che c’è

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da divertirsi, specie quando le “cocottes” cominciano a perdere le staffe. Sai chi

sono, no?

- Sì, ne ho sentito parlare.

Ignatius Gallaher scolò il suo whisky e scosse la testa.

- Eh, caro mio, di’ pure quel che vuoi ma non ce ne sono di donne come le

parigine, per spirito, eleganza...

- Dunque è una città immorale, - insistè timido il piccalo Chandler. - Sì, in

confronto a Londra o a Dublino, voglio dire...

- Londra? Ma mio caro, se non è zuppa è pan bagnato. Domandalo a Hogan. Ti

aprirà gli occhi. Gliene ho fatte vedere di belle quando è venuto laggiù... Eh,

Tommy, non vorrai mica farne un ponce di quel whisky, no? Bevi, su! - No, sul

serio...

- Eh, va’ là che un altro non ti può far male... Che prendi allora? Lo stesso?

- Be’, fa’ un po’ come vuoi.

- Francois, ancora uno!... Fumi, Tommy?

Ignatius Gallaher tirò fuori il portasigarette e acceso che ebbero, i due amici

presero a tirar boccate in silenzio finchè non fu portato da bere.

- Ti dirò la mia opinione, - fece Ignatius Gallaher emergendo dopo un po’ dalle

nuvole di fumo dietro le quali aveva trovato rifugio. - È uno strano mondo questo.

Tu mi parli d’immoralità... Ho sentito certe storie, io... ma che dico, ho conosciuto

direttamente, sì, certi casi d’immoralità...

Aspirò pensieroso una boccata e col tono pacato dello storico abbozzò a

beneficio dell’amico un quadro della corruzione che fioriva all’estero. Riassunse i

vizi di diverse capitali e parve propenso a dare la palma a Berlino. Su certe cose

non avrebbe potuto metter la mano (gliel’avevano raccontate gli amici), ma di altre

aveva un’esperienza personale. Non fece distinzione nè di classi nè di ambienti.

Rivelò parecchi segreti sulle comunità religiose del continente e descrisse alcune

pratiche di moda nell’alta società, terminando col raccontare la storia di una

certa duchessa inglese, storia che sapeva vera. Il piccolo Chandler era stupefatto.

- Eh, caro mio, qui siamo nella nostra vecchia Dublino, - disse Ignatius Gallaher,

- dove non s’immaginano nemmeno certe cose.

- Come devi trovarla noiosa tu, dopo tutti i posti che hai visto!

- Be’, sai, è sempre un riposo venir qui. Dopotutto è rimasto il mio paese, no, e

non si può fare a meno di sentirci un certo attaccamento... È nella natura

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umana... Ma raccontami qualcosa di te. Hogan m’ha detto che hai... sì, hai

gustato le gioie del sacro talamo insomma... Due anni fa, no?

Il piccolo Chandler arrossì e sorrise.

- Mi sono sposato, è vero. Ha fatto un anno a maggio.

- Spero che non sia troppo tardi per farti i miei migliori auguri. Non sapevo il tuo

indirizzo, altrimenti te l’avrei fatti a tempo.

Tese la mano e il piccolo Chandler la strinse.

- Tommy, vecchio mio, auguro a te e ai tuoi ogni felicità e quattrini a palate. Che

tu non possa morire finché non sono io a spararti. Ed è l’augurio di un vecchio

amico, questo, di un amico sincero. Lo sai, no?

- Lo so, - rispose il piccolo Chandler.

- E bambini, niente?

Il piccolo Chandler arrossì di nuovo.

- Sì, uno.

- Maschio o femmina?

- Un maschietto.

Ignatius Gallaher gli batté una manata sulla spalla.

- Bravo! - gridò. - Non c’era da dubitarne.

Il piccolo Chandler sorrise, guardò confuso il bicchiere e si morse il labbro di

sotto coi tre denti davanti, bianchi e infantili.

- Spero che passerai una serata da noi, prima d’andartene, - disse. - Mia moglie

sarà felice di conoscerti. Faremo un po’ di musica e...

- Ti ringrazio, ti ringrazio proprio, vecchio mio. Mi dispiace che non ci siamo

incontrati prima. Ma debbo partire domani sera.

- Vieni stasera allora.

- No, no, caro. Mi dispiace, sai. Ma, vedi, sono qui con un amico, ragazzo in

gamba anche lui, e abbiamo combinato una partitina... Solo per questo, se no...

- Oh be’, se é così...

- Ma chi lo sa, - disse Ignatius Gallaher con tatto. - Può anche darsi che un

altr’anno rifaccia una capatina da queste parti ora che ho rotto il ghiaccio. Il

piacere così è solo rimandato.

- Benissimo. Vuol dire che la prossima volta che verrai passeremo una serata

insieme. Restiamo d’accordo fin d’ora, va bene?

- Benissimo. Se un altr’anno vengo... “parole d’honneur!”

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- E per suggellare il patto beviamoci sopra.

Ignatius Gallaher tirò fuori un grosso orologio d’oro e lo guardò.

- L’ultimo, eh? Perchè, sai, ho un appuntamento...

- O certo, sta’ tranquillo.

- Benissimo, allora. Sarà il bicchiere della staffa, come si dice da noi.

Il piccolo Chandler ordinò. Il rossore che per pochi minuti gli era salito alle

guance ormai non lo abbandonava più. Bastava un nonnulla, in qualsiasi

momento, per farlo arrossire e adesso si sentiva tutto caldo e eccitato. Essendo

sobrio d’abitudini e piuttosto delicato di salute quei tre whisky erano bastati a

fargli girare la testa e il forte sigaro di Gallaher aveva finito d’annebbiargli le idee.

L’avventura di rincontrare Gallaher dopo otto anni, di ritrovarsi con lui da Corless

fra il chiasso e le luci, di prestare orecchio ai suoi discorsi e partecipare sia pure

per poco a una vita trionfale e errabonda, aveva turbato l’equilibrio della sua

natura sensibile. Sentiva fortemente il contrasto fra la propria esistenza e quella

dell’amico e ciò gli pareva ingiusto. Gallaher gli era inferiore sia per nascita che

per educazione. E inoltre aveva la sicurezza di poter fare assai meglio di lui:

d’essere soprattutto capace di qualcosa di più elevato che non buttar polvere negli

occhi col giornalismo.

Bastava gli se ne offrisse l’occasione. E cosa glielo impediva del resto se non la

sua dannata timidezza? Avrebbe voluto vendicarsi in un modo o nell’altro,

affermare insomma la propria virilità. Vedeva bene in fondo al rifiuto di Gallaher

al suo invito. Quella sera, con tutta la sua benevolenza, Gallaher non aveva fatto

altro che esercitare su di lui una specie di protezione, allo stesso modo che

pareva volerla esercitare con la sua visita, anche sull’Irlanda.

Il barista portò da bere. Il piccolo Chandler spinse uno dei bicchieri verso l’amico

e prese l’altro, arditamente.

- Chissà, - disse alzandolo, - può darsi che l’anno venturo abbia il piacere

d’augurare lunga vita e prosperità al signore e alla signora Gallaher!

Nell’atto di bere Ignatius Gallaher strizzò un occhio in modo significativo al di

sopra dell’orlo del bicchiere, e vuotato che l’ebbe schioccò le labbra con aria

decisa, lo posò e disse:

- In quanto a questo, non c’è pericolo, ragazzo mio. Voglio godermela io e vedere

un po’ di mondo prima di mettere la testa nel sacco, se pure lo farò mai.

- Eh, un giorno o l’altro ci cascherai anche tu, - disse calmo il piccolo Chandler.

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Ignatius Gallaher puntò sull’amico gli occhi azzurro lavagna e la cravatta

arancione.

- Credi?

- Ci cascherai come tutti, basta che trovi il tuo tipo, - ripeté il piccolo Chandler

con forza.

Aveva messo un po’ troppa enfasi nella voce e capì d’essersi tradito, ma per

quanto il rossore sulle guance gli si fosse accentuato, non distolse lo sguardo.

Ignatius Gallaher lo fissò per qualche secondo, poi disse:

- Se mai dovesse succedere, puoi scommettere la testa che non sarà per stupido

sentimentalismo. È il denaro che conta nel matrimonio. O un bel conto corrente

in banca o nulla!

Il piccolo Chandler scosse il capo.

- Diamine, - esplose Ignatius Gallaher con violenza. - Ma per chi mi pigli?

Basterebbe dicessi una parola e domani stesso potrei avere donna e quattrini.

Non mi credi? Be’, lo so io. Ce ne sono centinaia - che dico? - migliaia di tedesche,

di ebree, ricche sfondate, che sarebbero anche troppo felici di... Aspetta, aspetta,

ragazzo mio. Vedrai se non le so giocare bene le mie carte. Quando mi metto

dattorno a qualcosa tratto da uomo d’affari, te lo garantisco io. Vedrai...

Si portò il bicchiere alle labbra e finì di bere con una risata. Poi guardò

soprappensiero davanti a sé e aggiunse in tono più calmo:

- Non ho fretta però. Possono aspettare. Non ho voglia di legarmi con una

donna...

Fece con le labbra la mossa d’assaggiare qualcosa e storse il viso.

- Ho paura che a lungo andare finisca per sapere di rancido, - disse.

Il piccolo Chandler sedeva nella stanzetta che dava sull’atrio con un bambino fra

le braccia. Per risparmiare non tenevano donna di servizio e la sorella minore di

Annie, Monica, veniva a dare una mano, mattina e sera, per una oretta o due.

Adesso però Monica se n’era andata da un pezzo. Mancava un quarto alle nove. Il

piccolo Chandler era rincasato tardi per il tè e per di più aveva dimenticato di

passare da Bewley, il droghiere, per ritirare il pacco delle provviste. Naturalmente

Annie era di pessimo umore e gli aveva risposto male. Ne avrebbe fatto a meno del

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tè, aveva detto; ma poi quando era stata vicina l’ora che il negozio all’angolo

chiudeva, s’era decisa ad uscire per comprarsi un quarto di libbra di tè e due

libbre di zucchero. Gli aveva posato con cautela fra le braccia il bimbo

addormentato dicendogli:

- Attento a non svegliarlo.

Sul tavolo c’era una piccola lampada dal paralume di seta bianca e la luce cadeva

su un ritratto chiuso in una cornice di corno. Era la fotografia di Annie. Il piccolo

Chandler la guardò, indugiando con gli occhi sulle labbra strette e sottili.

Indossava una camicetta estiva azzurro pallido che egli le aveva portato in dono

un sabato sera. Gli era costata dieci scellini e undici “pence”, ma in aggiunta,

quale agonia di tremori e di ansie! Quanto aveva sofferto quel giorno ad aspettare

sulla soglia che il negozio si vuotasse e a starsene poi in piedi presso il banco,

sforzandosi d’apparire a proprio agio mentre la commessa gli ammucchiava

dinanzi camicette per signora. Dopo era andato a pagare alla cassa e siccome

aveva dimenticato di prendere quel “penny” di resto, si era sentito richiamare dal

cassiere e alla fine, andandosene, aveva finto di guardare se il pacco era legato

bene, per nascondere il proprio rossore. Quando aveva portato a casa la

camicetta, Annie lo aveva baciato e gli aveva detto che era molto carina. Ma,

sentito il prezzo, l’aveva buttata per terra protestando che era una truffa vera e

propria far pagare la roba così cara. Dapprima avrebbe voluto riportarla al

negozio senz’altro, ma provata che l’ebbe e trovatala di suo gusto specie nella

fattura delle maniche, lo aveva baciato un’altra volta ripetendo ch’era stato

proprio caro a pensare a lei. Hm! ...

Guardò con freddezza gli occhi del ritratto che gli risposero con eguale freddezza.

Erano begli occhi, certo, e anche il viso era grazioso. Ma vi trovava qualcosa di

meschino. Perchè quell’aria sostenuta da gran dama? La calma di quegli occhi lo

irritava. Lo respingevano e lo sfidavano al tempo stesso: non c’era nè estasi nè

passione in essi. Pensò a ciò che aveva detto Gallaher delle ricche ebree. Occhi

scuri da orientale, pieni di desiderio, di voluttà, di languore... Perché aveva

sposato gli occhi della fotografia?

Trasalì alla domanda e nervosamente si guardò attorno. Anche nella mobilia

comprata a rate c’era qualcosa di meschino. L’aveva voluta scegliere Annie e gli

ricordava appunto lei: graziosa e atteggiata. Un cupo risentimento contro la vita si

ridestò in lui. Non avrebbe mai potuto fuggire da quella casa? Era dunque troppo

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tardi per tentare l’avventura, come Gallaher? Non sarebbe andato a Londra? C’era

ancora la mobilia da pagare. Fosse almeno riuscito a scrivere un libro e a fare in

modo che lo pubblicassero; sarebbe stata sempre una strada aperta per lui.

Un volume di poesie di Byron gli stava dinanzi, sul tavolo. L’aprì cauto con la

sinistra per non svegliare il bambino e cominciò a leggere la prima.

Tacciono i venti, ferma è la luce della sera

Non uno Zefiro erra fra i cespugli

Mentr’io ritorno alla tomba della mia Margherita

A sparger fiori sulle ceneri amate.

Si fermò. Sentiva intorno, nella stanza, il ritmo del verso. Com’era malinconico!

Non sarebbe stato capace anche lui di scrivere così? di esprimere in versi la

malinconia dell’anima sua? Di tante cose avrebbe voluto parlare. Quella

sensazione poche ore prima sul ponte Grattan, per esempio. Se avesse potuto

riportarsi a quello stato d’animo...

Il bimbo si svegliò e cominciò a piangere. Distolse lo sguardo dalla pagina e cercò

di quietarlo: ma quello non ne voleva sapere. Allora prese a cullarlo fra le braccia.

Il pianto si fece più forte. Accelerò il dondolìo, mentre gli occhi cominciavano a

leggere la seconda strofa.

Entro la stretta cella posa il corpo suo

Quel corpo che già un tempo...

Inutile! Non poteva leggere. Non poteva far nulla. Le strilla del bambino gli

bucavano i timpani. Inutile, inutile! Era prigioniero per sempre. Le braccia gli

tremavano di rabbia e d’un tratto chinandosi sul bimbo gridò:

- Basta!

Il bimbo si fermò per un istante, ebbe uno spasimo di paura, poi riattaccò a

urlare. Alzatosi di scatto si mise allora a passeggiare in su e in giù per la stanza,

col bimbo fra le braccia. Singhiozzava da far pietà adesso, trattenendo il fiato per

quattro o cinque secondi per poi ricominciare. Le sottili pareti della stanza ne

rimbalzavano l’eco. Cercò ancora di calmarlo ma lui singhiozzava più forte. Gli

guardò la faccia contratta e tremante e cominciò ad allarmarsi. Contò fino a sette

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singhiozzi senza nemmeno un’interruzione e impaurito se lo strinse al petto. Se

gli moriva?...

La porta si spalancò e una giovane donna entrò di corsa ansando.

- Cos’è? Cos’è stato?

Udendo la voce materna il bimbo ruppe in un nuovo parossismo di singhiozzi.

- Niente, Annie... Niente... Ha cominciato a piangere...

Essa buttò i pacchetti per terra e glielo strappò dalle braccia.

- Che gli hai fatto? - gridò, fissandolo furibonda.

Per un po’ il piccolo Chandler sostenne il suo sguardo e scorgendovi odio, il cuore

gli si strinse. Cominciò a balbettare.

- Niente... S’è messo a piangere... Non gli ho fatto nulla, io... Come?

Senza badargli essa prese a passeggiare in su e in giù per la stanza stringendo il

bimbo fra le braccia e mormorando:

- Omettino mio... omettino mio... Cosa t’ha fatto paura, amore?...

Buono, buono, tesoro... Buono... Agnellino, agnellino della mamma... Buono, su,

buono...

Il piccolo Chandler si sentì avvampare le guance per la vergogna e si ritrasse dal

cerchio luminoso della lampada. Udì il parossismo di pianto quietarsi poco a poco

e lacrime di rimorso gli salirono agli occhi.

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Contropartita

Si udì lo squillo furibondo del campanello e quando la signorina Parker ebbe

staccato il ricevitore una voce altrettanto furibonda gridò con spiccato accento

settentrionale:

- Mandatemi Farrington!

La signorina Parker tornò alla sua macchina dicendo a un uomo seduto ad una

delle scrivanie:

- Il signor Alleyne vi vuole.

L’uomo brontolò un «accidenti a lui» e spostò la sedia per alzarsi. In piedi

appariva alto di statura e piuttosto massiccio. Aveva un viso floscio color vino

rosso, baffi e sopracciglia biondi e occhi un po’ sporgenti con la sclerotica d’un

bianco sporco. Rialzò lo sportello del banco e, scansando i clienti, uscì dall’ufficio

con passo pesante.

Con lo stesso passo pesante salì le scale fino al secondo piano dove un uscio

portava una targhetta d’ottone con scritto: «Signor Alleyne». Qui si fermò

sbuffando di fatica e di noia e bussò. Gli rispose da dentro una voce stridula:

- Avanti!

L’uomo entrò nella stanza del signor Alleyne e nello stesso istante la testa del

signor Alleyne, un ometto con occhiali d’oro su una faccia accuratamente rasata,

sbucò da dietro una pila di documenti; una testa così calva e rosea da parere un

uovo posato sulle carte. Il signor Alleyne non perse un minuto di tempo.

- Farrington, mi sapete dire a che gioco giochiamo? Possibile che debba sempre

lamentarmi di voi? Perchè non avete ancora finito la copia del contratto Bodley e

Kirwan? Vi avevo pure avvertito, no? che doveva essere pronta per le quattro...

- Ma il signor Shelley ha detto...

- Il signor Shelley ha detto... Dovete dar retta a quel che dico io, non a quel che

dice il signor Shelley! Avete sempre pronte delle scuse voi per esimervi dal lavoro.

E permettetemi di dirvi allora che se il contratto non sarà pronto entro stasera, ne

informerò il signor Crosbie. Avete capito adesso?

- Sissignore.

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- Avete proprio capito bene?... Ah, un’altra cosa! Evidentemente con voi è lo

stesso che parlare al muro. Tengo ad avvertirvi una volta per tutte che disponete

di mezz’ora soltanto per la colazione e non di un’ora e mezza. Vorrei sapere

quante pietanze vi occorrono... Siamo intesi?

- Sissignore.

Il signor Alleyne riabbassò il capo sulla pila di documenti e l’uomo rimase a

fissare il capo rilucente che dirigeva gli affari della «Crosbie & Alleyne»

misurandone la fragilità. Per un attimo uno spasimo di rabbia gli strinse la gola,

poi passò, lasciandogli un acuto senso di sete.

Lo riconobbe subito e capì che avrebbe avuto bisogno di una bella sbornia quella

sera. Si era già oltre la metà del mese e forse, se avesse finito la copia in tempo, il

signor Alleyne si sarebbe indotto a dargli un ordine d’anticipo per la cassa.

Immobile fissava la testa sopra la pila di carte e a un tratto il signor Alleyne prese

a frugare nel mucchio in cerca di qualcosa. Poi, come se fino a quel momento non

si fosse accorto della sua presenza, tornò a rialzare il capo dicendo:

- Be’?... Niente niente, avete intenzione di starvene lì tutto il giorno?

Parola mia, Farrington, ve la prendete comoda!

- Guardavo se...

- Non c’è nulla da guardare. Andate giù e mettetevi al lavoro.

Col suo passo pesante, l’uomo si diresse alla porta e mentre usciva risentì il

signor Alleyne gridargli dietro che se il contratto non era pronto per quella sera ne

avrebbe informato il signor Crosbie. Ritornò alla sua scrivania nell’ufficio a

pianterreno, e contò i fogli che ancora gli rimanevano da copiare. Prese la penna,

la intinse ma invece di andare avanti continuò a fissare stupidamente le ultime

parole che aveva scritto: «“In nessun caso il detto Bernard Bodley beneficerà...”»

Si stava facendo sera e fra poco avrebbero acceso il gas: allora si sarebbe messo

al lavoro. Sentiva il bisogno di calmare quella sete che gli bruciava la gola. S’alzò

da sedere e sollevando come prima lo sportello si diresse alla porta. Stava per

uscire quando il capufficio lo guardò interrogativamente.

- Nulla, nulla, signor Shelley, - disse l’uomo accennando col dito per indicare la

meta del suo viaggio.

Il capufficio diede un’occhiata all’attaccapanni e vista la fila al completo non fece

obbiezioni. Non appena sul pianerottolo l’uomo tirò fuori di tasca un berrettone di

lana alla pecorara e calcatoselo in testa scese di corsa le scale scalcinate. Uscito

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dalla porta di strada prese poi a camminare furtivo lungo il lato interno del

marciapiede verso la cantonata e tutto a un tratto scomparve in un androne. Qui

finalmente era al sicuro, nel buio retrobottega di O’Neil, e riempiendo il finestrino

che dava nel bar col suo faccione acceso, color vino e carne scura, gridò:

- Ehi Pat, un bicchierino di quel buono, presto!

Il garzone portò un bicchiere e l’uomo, vuotandolo d’un colpo, ne chiese un altro

di ponce al seme di garofano. Poi posò il denaro sul banco e sgattaiolò fuori allo

stesso modo furtivo con cui era entrato.

L’oscurità accompagnata da una fitta nebbia vinceva il crepuscolo invernale e in

Eustace Street i lampioni erano già stati accesi. L’uomo camminò rasente alle

case finché non ebbe raggiunta la porta dell’ufficio, continuando a domandarsi se

avrebbe finito in tempo la copiatura. Sulle scale lo accolse una fragranza umida e

pungente di profumi: evidentemente mentre stava da O’Neil, era venuta la

signorina Delacour. Si pigiò di nuovo il berretto in tasca, prese un’aria da

smemorato e rientrò nella stanza.

- Il signor Alleyne vi cercava, - disse il capufficio in tono severo. - Dov’eravate?

L’uomo accennò con gli occhi ai due clienti in piedi presso il banco come a far

capire che la loro presenza gl’impediva di rispondere. E poiché si trattava di due

uomini, il capufficio si permise una risata.

- Conosco il trucco, - disse. - Cinque volte al giorno però è un po’... Be’, sarà bene

che vi affrettiate a portare al signor Alleyne una copia della nostra corrispondenza

nel caso Delacour.

Quell’osservazione in presenza di estranei, la corsa su per le scale e il liquore

buttato giù in fretta e furia confusero Farrington. Mentre per eseguire l’ordine si

sedeva alla scrivania, capì che era inutile sperare di poter finire la copia entro le

cinque e mezzo. S’avvicinava la notte umida e buia ed egli avrebbe voluto passarla

nei bar, bevendo con gli amici, fra le luci abbaglianti del gas e il tintinnìo dei

bicchieri. Prese la corrispondenza Delacour e uscì. Sperava che il signor Alleyne

non si accorgesse che mancavano le due ultime lettere.

Il profumo umido e pungente si spandeva per tutte le scale fin nella stanza del

signor Alleyne. La signorina Delacour era una donna di mezza età, di tipo ebraico

e, a quanto si diceva, il signor Alleyne aveva un certo debole, non si sa se per lei o

per i suoi quattrini. Veniva spesso all’ufficio e ogni volta vi si tratteneva a lungo.

Ora, seduta accanto alla scrivania in una nuvola di profumo, scuoteva le gran

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piume nere del cappello e lisciava il manico dell’ombrellino: mentre, dal canto

suo, il signor Alleyne, giratosi di fianco sulla sedia per vederla meglio, aveva

incrociato agilmente il piede destro sul ginocchio sinistro.

Con un inchino rispettoso l’uomo posò la corrispondenza sul tavolo, ma nè il

signor Alleyne né la signorina Delacour presero nota di quella sua cortesia e anzi

il signor Alleyne, battuto un dito sulla cartella, glielo puntò poi contro

bruscamente come per dire: «Va bene. Potete andare».

L’uomo tornò a pianterreno e risedutosi alla scrivania fissò assorto la frase

incompleta: «“In nessun caso il detto Bernard Bodley beneficerà...”» Pensò quanto

fosse strano che le ultime tre parole cominciassero con la stessa lettera. Il

capufficio prese a far fretta alla signorina Parker dicendo che non avrebbe finito le

lettere in tempo per la posta. Per qualche minuto ancora l’uomo ascoltò il

ticchettìo della macchina, poi si mise al lavoro. Ma non aveva le idee chiare e la

mente gli riandava di continuo alle luci e al rumore delle osterie. Era proprio

notte da ponce caldi. Seguitò ad arrabattarsi con la sua copia ma quando

suonarono le cinque gliene restavano ancora quattordici pagine. Al diavolo! Non

avrebbe fatto in tempo. Aveva voglia di bestemmiare ad alta voce, di battere i

pugni sul tavolo. Era così furibondo che scrisse Bernard Bernard invece di

Bernard Bodley e dovette ricominciare il foglio daccapo.

Si sentiva abbastanza forte da spazzar via l’ufficio intero e con una mano sola. Il

corpo gli bruciava dalla voglia di fare qualcosa, di precipitarsi fuori, di darsi alla

pazza gioia. Il ricordo di tutte le offese ricevute in vita sua lo gonfiava di rabbia...

Non avrebbe potuto chiederlo in privato al cassiere, l’anticipo?... No, non

gliel’avrebbe dato... Sapeva già dove trovare gli amici: Leonard e O’Halloran e

Nosey Flynn. Il barometro della sua natura emotiva segnava baldoria.

Era talmente assorto nelle sue fantasie che si fece chiamare due volte prima di

rispondere... Il signor Alleyne e la signorina Delacour stavano in piedi davanti al

banco e tutti gl’impiegati s’erano voltati prevedendo una scenata. S’alzò da

sedere. Il signor Alleyne attaccò allora una filastrocca d’improperi a proposito

delle due lettere mancanti. Rispose che non ne sapeva nulla, che lui le aveva

copiate tutte. La filastrocca continuò e con tale violenza ch’egli si dovette

trattenere a stento dal far cadere il pugno sul cranio dell’omuncolo che gli era

dinanzi.

- Non ne so nulla di queste altre due lettere, - ripeté stupidamente.

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- Non ne sapete nulla eh? Naturale! - esclamò il signor Alleyne. - Ma ditemi un

po’, - aggiunse cercando prima con gli occhi l’approvazione della signorina che gli

stava a fianco. - Niente niente mi prendete per un imbecille? Ho la faccia

dell’imbecille, secondo voi?

L’uomo passò lo sguardo dal viso della donna alla testa a forma d’uovo e

viceversa, e prima ancora di rendersene conto gli spuntò sulla lingua una

risposta felice.

- Non credo sia una domanda da farsi, - disse.

Gl’impiegati trattennero il fiato. Erano tutti esterrefatti, l’autore di quel bel tratto

di spirito non meno degli altri, e la signorina Delacour che era donna grassa ed

amabile, non poté trattenere un sorriso. Il signor Alleyne invece si fece rosso come

una rosa selvatica e la bocca gli tremò di rabbia repressa. Gli agitò i pugni sul

viso sino a farli vibrare come poli elettrici.

- Ruffiano svergognato... Ruffiano svergognato... Ah, ma vi aggiusterò io.

Aspettate e vedrete. O mi farete le scuse per la vostra insolenza o lascerete

immediatamente l’ufficio... Proprio così. O le scuse o fuori!

Dal portone di una casa di fronte all’ufficio guardava se per caso il cassiere

uscisse solo. Uscirono tutti gli impiegati e alla fine anche il cassiere assieme al

capufficio. In quelle condizioni era inutile tentare di abbordarlo. Di guai ne aveva

abbastanza. S’era dovuto umiliare a far le

scuse al signor Alleyne, ma sapeva che d’ora in avanti l’ufficio sarebbe stato un

vespaio per lui. Si ricordava di come il signor Alleyne fosse riuscito a cacciar via il

piccolo Peak per dare il posto a un suo nipote; e dentro gli cresceva la rabbia e la

sete e il desiderio di vendicarsi e il disgusto di sè e degli altri. Non avrebbe più

avuto un’ora di pace e la sua vita sarebbe diventata un inferno. Perchè non aveva

tenuto la lingua a freno? Non erano mai andati d’accordo lui e il signor Alleyne,

fin dal principio, dal giorno cioè che si era fatto sorprendere a imitare il suo

spiccato accento nord irlandese, a beneficio di Higgins e della signorina Parker.

Sì, quello era stato il principio. Avrebbe potuto chiederli a Higgins i soldi, ma

Higgins non ne aveva mai neanche per sè. Che cosa ci si poteva aspettare da un

uomo con due famiglie a carico...

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Sentì di nuovo uno spasimo per tutto il corpo, tanto aveva bisogno del conforto

delle osterie. La nebbia cominciava a gelarlo. Si domandò se non era il caso di

tirare la stoccata a Pat, da O’Neil, ma non gli avrebbe cavato più di uno scellino e

per uno scellino non ne valeva la pena. Eppure i soldi doveva trovarli in un modo

o nell’altro. Aveva speso gli ultimi in quei due bicchierini, poco prima, e se

aspettava ancora sarebbe stato troppo tardi. D’un tratto mentre stava lì

giocherellando con la catena dell’orologio gli venne in mente l’ufficio pegni di

Terry Kelly nella Fleet Street. Quello era il posto. Come mai non ci aveva pensato

prima?

Traversò in fretta lo stretto passaggio del Temple Bar borbottando fra sè che

potevano anche andarsene tutti al diavolo, tanto lui se la sarebbe spassata lo

stesso, quella sera. Da Terry Kelly il commesso disse: - Una corona -; ma il

cassiere decise invece per sei scellini, somma che in realtà gli venne contata. Uscì

allegro dall’ufficio con la sua colonnina di monete fra l’indice e il pollice. Nella

Westmoreland Street i marciapiedi erano affollati di giovanotti e ragazze che

tornavano dal lavoro e monelli cenciosi correvano qua e là strillando i titoli dei

giornali della sera. Considerata con orgoglio la scena, l’uomo traversò la folla non

senza occhiate da dominatore all’indirizzo delle varie impiegate e dattilografe. Lo

scampanellìo dei tram e lo stridere delle ruote sulle rotaie gli rintronavano il

cervello e le sue nari già aspiravano le volute di fumo del ponce.

Camminando pensava in quali termini avrebbe narrato l’incidente agli amici.

- Prima t’ho guardato lui, ragazzi, poi lei... Freddo freddi, eh... Poi un’altra volta

lui... sempre in tutta calma. «Non credo sia una domanda da farsi», ho detto.

Nosey Flynn stava seduto nel suo solito angolo da Davy Byrne e udito che ebbe la

storia, gli pagò da bere un mezzo bicchierino dicendo che non ne aveva mai

sentita l’eguale. Fu la volta di Farrington allora a offrire da bere. Dopo un po’

entrarono O’Halloran e Paddy Leonard e la storia fu ripetuta. O’Halloran pagò a

tutti ponce caldi all’orzo e riferì la risposta da lui data al capo contabile al tempo

in cui stava da Callan, nella Fownes Street. Ma poiché si trattava di una risposta

un po’ sul tono delle egloghe dei pastori liberali, dovette convenire lui stesso che

non era all’altezza di quella di Farrington. A ciò Farrington invitò gli amici a

vuotare il bicchiere e a berne un altro.

Proprio mentre si stavano ordinando la zozza, guarda un po’ chi capita: Higgins!

Naturalmente dovette unirsi alla brigata. Gli chiesero la sua versione

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dell’accaduto ed egli la diede con gran vivacità, perché la vista dei cinque whisky

caldi lo aveva messo in allegria. Scoppiarono tutti dal ridere quando rifece il gesto

del signor Alleyne che scuoteva il pugno in faccia a Farrington. - E lui lì

tranquillo, come niente fosse, - disse accennando all’amico che li guardava

sorridendo coi suoi occhi grevi e sporchi, mentre col labbro di sotto si succhiava

le gocce di liquore rimaste nei baffi.

Finito il giro ci fu una pausa. Solo O’Halloran era in fondi, ma gli altri due no, e

così con un certo rimpianto la combriccola lasciò il locale. All’angolo di Duke

Street Higgins e Nosey Flynn svoltarono a sinistra, mentre gli altri tre ritornavano

sui loro passi dirigendosi verso il centro. Una pioggerella sottile cadeva sulle

strade fredde e raggiunto che ebbero il Ballast Office Farrington propose una

capatina alla Scotch House. Nel bar pieno di gente risuonava un rumore di voci e

di bicchieri. I tre uomini si fecero avanti urtando i venditori di fiammiferi che si

lamentavano sulla soglia, e fecero crocchio a un canto del banco.

Cominciarono a raccontar barzellette e Leonard li presentò a un giovanotto, certo

Weathers, che lavorava al Tivoli come acrobata e artista di varietà. Farrington

pagò da bere a tutti. Weathers disse che prendeva un whisky piccolo e un

apollinaris, e Farrington che aveva nozioni ben precise sul galateo, chiese agli

amici se volevano un apollinaris anche loro; ma quelli dissero a Tim di preparare i

soliti whisky caldi. Il discorso cadde sul teatro. O’Halloran pagò un giro e

Farrington un altro mentre Weathers protestava per questa ospitalità troppo

irlandese. Promise che li avrebbe portati una sera dietro le quinte per presentarli

a qualche bella ragazza. Lui e Leonard potevano anche accettare, - disse

O’Halloran, - ma Farrington no, perchè era sposato; e Farrington sbirciò con gli

occhi grevi e sporchi la brigata a prova che capiva lo scherzo. Poi Weathers offrì

una passata di liquore a proprie spese e s’impegnò a ritrovarli più tardi da

Mulligan nella Poolberg Street.

Così chiusa che fu la Scotch House, s’avviarono da Mulligan. Qui presero posto

nella saletta sul retro e O’Halloran ordinò dei ponce speciali per tutti.

Cominciavano a sentirsi un po’ brilli, e Farrington stava giusto offrendo un altro

giro quando entrò Weathers. Con suo gran sollievo però questa volta bevve solo

un amaro. I fondi andavano diminuendo, ma ce n’era ancora per tirare avanti.

Poco dopo entravano anche due giovani donne con gran cappelloni e un

giovanotto vestito a quadretti, i quali vennero a sedersi al tavolo accanto.

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Weathers li salutò e disse agli altri che lavoravano al Tivoli come lui. Ad ogni

istante lo sguardo di Farrington si spostava in direzione di una delle giovani

donne. C’era qualcosa che colpiva in lei. Un’immensa sciarpa di mussolina color

azzurro pavone le girava torno torno al cappello annodandolesi con un granfiocco

sotto il mento e i bei guanti giallo canarino le arrivavano sino al gomito.

Farrington guardava ammirato il braccio grassoccio ch’ella muoveva spesso e con

grazia e ancor più ammirò i grandi occhi scuri allorchè li vide poco dopo

ricambiare il suo sguardo. L’espressione di quegli occhi che lo fissavano di sbieco

lo affascinava. La donna gli lanciò ancora un’occhiata o due e quando il gruppetto

lasciò la sala, sfiorò la sua sedia col vestito e gli disse: - Oh, scusi! - con accento

londinese. La guardò uscire con la speranza che si voltasse di nuovo, ma rimase

deluso. Maledì allora la mancanza di soldi e tutte le bevute che aveva pagato e in

particolare i whisky e gli apollinaris offerti a Weathers. Non li poteva soffrire gli

scrocconi! Era così arrabbiato che perse il filo della conversazione.

Quando Paddy Leonard lo interpellò, s’accorse che stavano parlando di giochi di

forza. Weathers mostrava i bicipiti alla compagnia e si vantava tanto che gli altri

due si rivolsero a Farrington perché sostenesse l’onore nazionale. Anche

Farrington allora si rimboccò le maniche e mostrò i suoi. Le due braccia vennero

esaminate e confrontate punto per punto e alla fine fu deciso di metterle alla

prova.

La tavola fu sbarazzata e i due uomini vi posarono il gomito stringendosi la mano.

Quando Paddy Leonard avesse dato il via ciascuno doveva cercare d’abbattere il

braccio dell’altro sul tavolo. Farrington appariva serio e deciso.

Cominciò la gara e dopo trenta secondi circa Weathers abbassò adagio la mano

del rivale fin sul piano del tavolo. Per la rabbia e l’umiliazione d’esser stato

battuto da quel pivello, la faccia color vino di Farrington si fece ancora più scura.

- Non ci dovete mettere il peso del corpo, - disse. - Giocate pulito.

- E chi non gioca pulito? - ritorse l’altro.

- Rifacciamola allora. Due mani su tre.

Ripresero la gara. Le vene si gonfiavano sulla fronte di Farrington e l’abituale

pallore di Weathers si mutò in un bel rosa peonia. Braccia e mani tremavano

sotto lo sforzo. Dopo una lunga lotta Weathers tornò ad abbassare lentamente sul

tavolo la mano dell’avversario. Un mormorio di approvazione si levò dagli

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spettatori. Il garzone che stava in piedi lì accanto accennò con la testa rossa al

vincitore e disse con stupida familiarità:

- Questa sì ch’è bravura!

- Che ne sai tu? - scattò Farrington rivoltandoglisi furibondo. - Di che t’impicci?

- Ssst... Ssst... - fece O’Halloran notando l’espressione inferocita dell’amico. - È

l’ora di finirla, ragazzi. Un altro bicchierino e leviamo le tende.

Un uomo tetro in viso stava fermo all’angolo del ponte O’Connel aspettando il

tram di Sandymount che doveva riportarlo a casa. Un’ira sorda e un gran

desiderio di vendetta si erano impadroniti di lui. Si sentiva scontento e umiliato.

Non era nemmeno ubriaco e in tasc aveva solo due “pence”. Al diavolo tutto!

S’era rovinata la posizione all’ufficio, aveva impegnato l’orologio, speso i quattrini

e non era nemmeno riuscito a sborniarsi. Ricominciava a sentire sete e avrebbe

voluto tornarsene nell’osteria calda e fumosa. Col fatto poi d’essersi lasciato

battere ben due volte da un moccioso aveva perduto la sua reputazione d’uomo

forte. Il cuore gli si gonfiava di rabbia e quando pensò alla donna dal gran

cappello che lo aveva sfiorato col vestito e gli aveva detto «Scusi», si sentì quasi

soffocare.

Il tram lo scaricò alla fermata della Shelbourne Road ed egli pilotò il corpo

massiccio lungo l’ombra del muro delle caserme. L’idea di doversene tornare a

casa gli era insopportabile. Entrato dalla porticina laterale trovò la cucina e il

fuoco quasi spento. Urlò:

- Ada! Ada!

Sua moglie era una donnetta dal viso appuntito che lo bistrattava quando non

aveva bevuto e ne veniva a sua volta bistrattata quando invece s’era preso la

sbornia. Avevano cinque figli. Un ragazzetto scese correndo le scale.

- Chi sei? - chiese l’uomo aguzzando gli occhi nel buio.

- Io, pa’.

- Chi? Charlie?

- No, pa’, Tom.

- Dov’è la mamma?

- È andata in chiesa.

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- Ma brava... E non ha pensato a lasciarmi da cena?

- Sì, pa’... io...

- Accendi il lume. Che maniera è di lasciare tutto al buio? Sono a letto gli altri?

L’uomo si lasciò cadere su una sedia mentre il ragazzo accendeva la lampada. Si

mise a fare il verso al figliolo borbottando fra sè: «È andata in chiesa eh... In

chiesa!» Quando il lume fu acceso picchiò il pugno sul tavolo urlando:

- Che c’è da cena?

- Te... te la preparo subito, pa’.

L’uomo saltò su furibondo e additò il fuoco.

- Su quel fuoco lì? L’hai lasciato spengere... Perdio t’insegnerò io a rifarlo un’altra

volta!

Avanzò d’un passo verso la porta e agguantò la mazza da passeggio che vi stava

appoggiata.

- T’insegnerò io! - ripeté rimboccandosi la manica per aver libero il braccio.

Il ragazzo gridò: - Oh, pa’! - e corse piagnucolando intorno al tavolo ma l’uomo lo

rincorse e l’agguantò per la giacca. Il ragazzo si guardò allora in giro spaurito ma

non vedendo via di scampo si buttò a terra in ginocchio.

- Lo lascerai spengere un’altra volta? - diceva l’uomo menando colpi con forza. -

Prendi toh, animale!

Il ragazzo emise un urlo di dolore mentre la mazza gli sferzava le gambe. Alzò le

mani giunte e la voce gli tremò di paura.

- Oh pa’... non mi picchiare, pa’... dirò un’avemmaria per te... dirò un’avemmaria

se non mi picchi... dirò un’avemmaria per te...

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Cenere

La direttrice le aveva dato il permesso di andarsene appena le donne avessero

preso il tè e Maria guardava ansiosa a quella sua serata di vacanza. La cucina era

linda e pinta: a sentire la cuoca ci si sarebbe potuti specchiare nel rame delle

caldaie. Ardeva un bel fuoco e su una delle tavole laterali c’erano quattro enormi

focacce. A tutta prima pareva non fossero ancora tagliate ma da vicino ci

s’accorgeva subito invece che erano già tutte divise in tante fette lunghe, spesse

ed eguali, pronte per essere servite con il tè. Era stata Maria stessa a tagliarle.

Una donnina piccola piccola Maria con un naso lungo lungo, però, e un mento

che non gli era da meno. Parlava un po’ nasale e sempre in tono conciliante: - Sì,

mia cara, - e: - No, mia cara -. Non c’era caso che non ricorressero a lei quando

sorgevano questioni fra le donne a proposito dei mastelli e immancabilmente lei

riusciva a metter pace.

- Siete proprio una paciera nata, Maria, - le aveva detto un giorno la direttrice; e

la sorvegliante e due signore del Patronato avevano inteso il complimento. Ginger

Mooney poi ripeteva sempre chissà cosa non avrebbe fatto alla povera muta che

badava ai ferri se non fosse stato per Maria. Le volevano tutti bene.

Le donne avrebbero preso il tè alle sei, così prima delle sette sarebbe stata libera.

Da Ballsbridge alla Colonna venti minuti, altri venti dalla Colonna a Drumcondra

e altri venti ancora per fare le spese. Per prima delle otto avrebbe fatto in tempo.

Mise fuori la borsetta con la cerniera d’argento e rilesse le parole: «Ricordo di

Belfast». C’era affezionata a quella borsa perché gliel’aveva portata in dono Joe

cinque anni prima, quando era andato in gita a Belfast con Alphy, il lunedì di

Pentecoste.

Nel portamonete c’erano due mezze corone e pochi spiccioli. Pagato il tram le

sarebbero rimasti cinque scellini netti. E che bella serata li aspettava, coi bimbi

che avrebbero cantato in coro! Sperava solo che Joe non fosse ubriaco: non

pareva più lo stesso appena beveva un po’. Spesso le aveva detto di andare ad

abitare con loro ma lei pensava che avrebbe finito col sentirsi di peso (per quanto

la moglie di Joe si fosse sempre dimostrata gentile nei suoi riguardi). Eppoi ormai

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ci s’era abituata alla vita della lavanderia. Era buono Joe. Li aveva tirati su tutti e

due, Alphy e lui; e Joe soleva dire:

- La madre è la madre, si sa, ma, la mia mamma vera è Maria.

Dopo che la famiglia era caduta in rovina, i ragazzi le avevano procurato quel

posto alla lavanderia «Dublin by Lamplight» e lei ci s’era trovata bene. Un tempo

aveva una cattiva opinione dei protestanti; adesso invece si rendeva conto che

erano persone dabbene anche loro, un po’ troppo serie e pacate forse, ma brava

gente, comunque, per viverci assieme. Teneva anche piantine sue nella serra e le

piaceva starci dietro: belle felci e begonie e le volte che qualcuno andava a

trovarla non mancava mai di dargliene un germoglio o due da piantare.

L’unica cosa che non la soddisfaceva erano tutti quei cartelloni pubblicitari lungo

i viali. In compenso la direttrice era così alla mano, così gentile di modi!

Saputo dalla cuoca che tutto era pronto, andò nella stanza delle lavoranti e

cominciò a suonare la campana. Pochi minuti dopo le donne entravano a

gruppetti di due o tre alla volta, asciugandosi le mani fumanti sulle sottane e

riabbassandosi le maniche delle camicette sulle braccia rosse e bagnate.

S’accomodarono tutte al loro posto dinanzi alle ciotole che la cuoca e la muta

andavano riempiendo via via di tè caldo già mischiato con il latte e lo zucchero nei

capaci bricchi di stagno, e Maria sorvegliò la distribuzione delle focacce, attenta a

che ciascuna avesse le sue quattro fette. Ci fu un gran ridere e scherzare durante

il pasto. La Lizzie Fleming disse che sicuramente Maria avrebbe avuto l’anello

quella sera e benché lo scherzo si ripetesse ormai da parecchie vigilie

d’Ognissanti Maria ne dovette ridere, affermando che non voleva saperne lei né

d’uomini né d’anelli. E quando rideva, gli occhi grigioverdi le brillavano di

timidezza delusa e la punta del naso quasi le toccava quella del mento. Allora

Ginger Mooney alzò la ciotola e mentre le altre battevano le loro sul tavolo

propose un brindisi alla salute di Maria, dicendosi dolente di non poterlo

annaffiare con un goccio di quel buono. E Maria si rimise a ridere e a ridere fino a

spezzarsi in due dal convulso e a farsi toccare la punta del naso con quella del

mento. Era piena di buone intenzioni la Mooney, nonostante che, naturalmente,

ragionasse da povera donna.

Ma quale non fu la sua gioia allorché, finito il pasto, la cuoca e la muta si misero

a sparecchiare. Andò in camera sua e rammentandosi che l’indomani era giorno

di messa spostò la sveglia dalle sette alle sei. Si tolse poi le scarpe da casa e il

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grembiale e stese sul letto l’abito delle feste e in fondo mise le scarpette buone. Si

cambiò anche la camicetta e, dinanzi allo specchio, pensò a come soleva vestirsi

per la messa la domenica mattina quand’era ragazza e quasi con un senso

d’affetto si contemplò il corpicino minuto che aveva tante volte abbigliato.

Nonostante gli anni si manteneva ancora ai suoi occhi un bel corpicino di donna,

curato a dovere.

Fuori le strade brillavano di pioggia e si rallegrò d’essersi portata il vecchio

impermeabile marrone. Il tram era affollato e dovette sedersi sulla banchetta di

fondo in faccia a tutti, coi piedi che appena le toccavano terra. S’andava

preparando tra sé a quanto aveva da fare e si convinse che in fin dei conti valeva

la pena d’essere indipendente e poter disporre d’un po’ di quattrini. C’era

d’augurarsi che passassero una bella serata. Sarebbe stata bella di certo anzi, ma

in cuor suo non poté trattenersi dal rimpiangere che Joe e Alphy non si

parlassero più. Erano sempre in rotta adesso, ma da bambini si volevano un bene

dell’anima.

Così va la vita!

Scese dal tram alla Colonna e si aprì in fretta la strada fra la folla. Entrò da

Downes il pasticcere, ma c’era tanta di quella gente che dovette aspettare un bel

pezzo prima d’essere servita. Comprò una dozzina di paste assortite e finalmente

uscì dal negozio col suo bravo pacchetto in mano. Si chiese allora cos’altro poteva

comprare: qualcosa di veramente scelto, voleva. Di mele e noci ce ne sarebbero

state in abbondanza, ne era certa, e d’altra parte non sapeva proprio cosa

avrebbero potuto gradire: non le venne in mente che la solita torta. Si decise così

per il “plum-cake” e siccome quello di Downes non aveva abbastanza caramellato

di mandorle andò in un altro negozio nella Henry Street.

Qui impiegò un bel po’ di tempo nella scelta e la commessa elegante che serviva al

banco e dimostrava una certa impazienza, le chiese alla fine se per caso non le

occorreva una torta di nozze. Maria arrossì e sorrise, ma la signorina aveva tutta

l’aria di parlare sul serio e finalmente, tagliata una grossa fetta di “plum-cake”, la

incartò e disse:

- Due scellini e quattro “pence”, prego.

S’era già rassegnata a stare in piedi nel tram di Drumcondra, dato che nessuno

dei giovanotti presenti pareva accorgersi di lei, ma un signore anziano le cedette il

posto: un signore corpulento con tuba marrone, faccia rossa e quadrata e baffi

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grigiastri. Aveva l’aria d’un colonnello, pensò Maria, e rifletté in cuor suo quanto

si fosse dimostrato più cortese lui di tutti quei giovanotti che si erano invece

limitati a guardare fisso dinanzi a sé.

Questo signore attaccò senz’altro a discorrere della vigilia d’Ognissanti e del

tempo piovoso. Espresse anche la supposizione che il pacco contenesse dolciumi

per i bambini e affermò che era giusto fossero loro a godersela, fintanto almeno

che restavano di quell’età. Maria assentiva grave, gratificandolo di sobri cenni del

capo e mormorii d’approvazione.

Era proprio un signore dabbene e prima di scendere alla fermata del Canal Bridge

lo ringraziò con un inchino e lui la ricambiò togliendosi il cappello e sorridendo

amabile. Mentre s’avviava lungo lo sterrato, la testa china sotto la pioggia, le

venne fatto di pensare che il vero signore si riconosceva sempre, anche quando ne

ha bevuto un goccio di troppo.

In casa di Joe appena la videro entrare, gridarono tutti:

- Ecco Maria! - Joe era tornato allora dall’ufficio e i bambini avevano indosso

l’abito delle feste. C’erano anche due ragazze, figliole d’un vicino, e già si stavano

organizzando i giochi. Maria dette il pacco dei dolci ad Alphie, il maggiore, perché

facesse la distribuzione e la signora Donnelly protestò che non doveva scomodarsi

e fece dire ai figlioli:

- Grazie Maria!

Ma Maria disse che aveva portato qualcosa anche per papà e mammà, una

cosetta di loro gusto e si mise a cercare il suo “plum-cake”. Lo cercò nel pacco di

Downes, nelle tasche dell’impermeabile e perfino sull’attaccapanni in anticamera,

ma non riuscì a trovarlo da nessuna parte. Domandò allora ai ragazzi se nessuno

di loro, per sbaglio s’intende, l’avesse mangiato; ma quelli risposero di no e

l’implicita accusa li spinse anzi ad assumere una cert’aria di sdegno nei riguardi

di tutti i dolci in generale. Ciascuno suggerì una sua soluzione al mistero:

secondo la signora Donnelly evidentemente Maria doveva esserselo dimenticato in

tram. E Maria ricordandosi di come il signore coi baffi l’avesse distratta, arrossì di

vergogna e di dispetto e d’umiliazione; e al pensiero della sorpresa mancata e dei

due scellini e quattro “pence” buttati al vento le venne quasi da piangere.

Joe però disse che non importava e la fece sedere accanto al fuoco. Fu pieno di

attenzioni. Le raccontò tutto quel che avveniva in ufficio e le parlò del suo

principale, ripetendole una certa frase con cui l’aveva messo a posto una mattina.

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Maria veramente non capiva che ci fosse tanto da ridere in quella frase, ma fu

d’accordo nel riconoscere che non doveva essere facile a trattarsi, il principale.

Joe invece sosteneva che in fondo non era poi così cattivo, bastava saperlo

prendere, e finché non lo contrariavano era un uomo come tutti gli altri. La

signora Donnelly suonò il piano per i ragazzi ed essi ballarono e cantarono. Poi le

figliole del vicino fecero il giro col vassoio delle noci. Non si trovava lo

schiaccianoci, però, e Joe andò quasi in bestia gridando che Maria non poteva

certo farne senza. Ma Maria disse che non le piacevano le noci e non dovevano

scomodarsi per lei. Joe le propose allora di sturare una bottiglia di birra e la

signora Donnelly disse che c’era anche del porto in casa, se lo preferiva. Preferiva

non le dessero nulla, disse Maria. Ma Joe non volle sentir ragione.

Così lo lasciò fare e sedettero accanto al fuoco rammentando i tempi antichi e

Maria pensò se non era il caso di mettere una buona parola per Alphy. Ma Joe

urlò che Dio lo facesse cascare in terra morto se mai si fosse indotto a rivolgere la

parola al fratello e Maria dovette scusarsi d’aver toccato l’argomento. Intervenne

la signora Donnelly allora a dire ch’era una vergogna parlare a quel modo d’uno

della propria carne e del proprio sangue e Joe dal canto suo ribatté che Alphy non

era più niente per lui: stava insomma per nascerne una scenata. Finché Joe

dichiarò che non era davvero il caso d’arrabbiarsi proprio quella sera e chiese alla

moglie di sturarne un’altra.

Le figliole del vicino intanto avevano organizzato giochi di circostanza e presto

tornò l’allegria. Maria era felice di vedere tanta gioventù festosa e Joe e la moglie

così di buon umore. Avevano messo dei piattini sul tavolo e vi guidavano i

fanciulli bendati. Ad uno toccò il libro da messa, agli altri tre l’acqua, e quando

una delle ragazze ebbe l’anello, la signora Donnelly la minacciò col dito come a

dire: «Eh, lo sappiamo come stanno le cose!» e la poverina si fece di fuoco.

Insistettero allora per bendare Maria e condurre anche lei al tavolo per vedere

cosa avrebbe avuto in sorte. E mentre le mettevano la benda Maria rideva e rideva

e la punta del naso quasi le toccava quella del mento.

Fra scherzi e risate la guidarono al tavolo e lei tese la mano come le avevano

insegnato. La mosse in qua e là per aria, poi l’abbassò su un piattino. Sentì sotto

le dita un che d’umido e molliccio e si stupì che nessuno parlasse o le togliesse la

benda. Per qualche secondo ci fu silenzio, poi un gran trambusto e un mormorio.

Ci fu chi disse qualcosa del giardino e alla fine la signora Donnelly rimproverò

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con voce aspra una delle figliole del vicino ingiungendole di portar via subito

quella roba. Non era nel gioco, disse e Maria capì che quel giro non valeva e si

doveva ricominciare daccapo. Questa volta ebbe il libro da messa. Dopo la signora

Donnelly suonò per i ragazzi la mazurca di Miss Mac Cloud e Joe fece bere a

Maria un bicchiere di vino. Di lì a poco eran tornati allegri più di prima e la

signora Donnelly disse che Maria sarebbe entrata in un convento prima della fine

dell’anno, perché le era toccato il libro di preghiere. Non le era mai parso

premuroso come quella sera, Joe, così tenero e gentile e così memore del passato!

Erano proprio tutti buoni con lei, disse.

Ai ragazzi stava prendendo sonno e Joe chiese a Maria se non voleva cantare una

canzone prima d’andarsene, una di quelle antiche. La signora Donnelly insisté: -

Ti prego, Maria, - e così dovette alzarsi e mettersi in piedi presso il pianoforte. La

signora Donnelly invitò tutti ad ascoltare, poi suonò il preludio e disse: - Su,

Maria, - e Maria arrossendo cominciò a cantare con una vocina tremula tremula.

Cantò:

“Ho sognato di vivere in sale di marmo” e quando fu alla seconda strofa riprese

daccapo:

Ho sognato di vivere in sale di marmo

Con servi e vassalli al mio fianco

E di tutti coloro riuniti in quelle mura

Io ero la speranza e l’orgoglio.

Avevo ricchezze incalcolabili

Potevo vantar nome d’alta fama

Ma ho anche sognato e ciò mi fu più caro

Che tu m’amavi ancora come prima.

Ma nessuno dette a vedere d’essersi accorto dell’errore e finita che fu la canzone,

Joe era molto commosso. Disse che non c’erano tempi come quelli d’una volta e

musica come quella del povero vecchio Balfe, checché ne pensasse la gente. E gli

occhi gli s’empirono talmente di lacrime che non riusciva più a trovare ciò che

stava cercando e alla fine dovette farsi dire dalla moglie dov’era il cavatappi.

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Un increscioso incidente

Il signor James Duffy viveva a Chapelizod sia perché voleva tenersi lontano il più

possibile dalla sua città, sia perché gli altri sobborghi gli apparivano tutti

meschini, moderni e pretenziosi. Viveva in una vecchia casa tetra e dalle finestre

poteva posare lo sguardo nell’interno di una distilleria abbandonata o farlo

risalire le rive del magro fiume, sulle quali sorge Dublino.

Non c’erano quadri alle alte pareti della sua stanza, priva di tappeto. I mobili se li

era comprati tutti da sé: un letto di ferro nero, un lavabo egualmente di ferro,

quattro sedie impagliate, un secchio per il carbone, un parafuoco con relative

palette e attizzatoi e un tavolo quadro a doppio scrittoio. In una nicchia nel muro

era stata accomodata a mezzo di palchetti di legno bianco una specie di libreria; il

letto aveva coperte bianche e un tappetino rosso e nero ai piedi; uno specchietto a

mano pendeva da sopra il lavabo e durante il giorno unico ornamento del camino

restava una lampada dal paralume bianco. Negli scaffali i libri erano disposti

gradatamente dal basso verso l’alto, a seconda del formato: a un capo di quello

più basso s’allineava un Wordsworth completo e a un capo di quello più alto un

esemplare del “Maynooth Catechism”, ricucito entro la fodera di un vecchio

registro. Sul tavolo non mancava mai l’occorrente per scrivere e nel cassetto

interno si trovava una traduzione manoscritta del “Michael Kramer” di

Hauptmann con indicazioni per la scena in inchiostro violetto, nonché una risma

di fogli di carta tenuti insieme da un fermaglio d’ottone. Fogli sui quali veniva

scritta di tanto in tanto una frase, mentre in prima pagina era stata incollata,

evidentemente in un momento d’ironia, una réclame di pillole contro la bile.

Alzando il coperchio dello scrittoio ne usciva sempre una fragranza lieve:

fragranza di matite nuove in legno di cedro, di una bottiglietta di gomma o di una

mela matura, lì riposta e poi dimenticata.

Il signor Duffy rifuggiva da ogni indizio esteriore di disordine fisico o mentale. Per

temperamento un dottore del Medioevo lo avrebbe definito un saturnino. Il suo

viso, che portava impressa la storia degli anni trascorsi, aveva il color bruno delle

strade dublinesi, sulla testa lunga e piuttosto grossa spuntavano aridi capelli neri

e i baffi rossicci non bastavano a celare la piega sgradevole della bocca. Anche gli

Page 82: James joyce   gente di dublino

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zigomi ossuti gli aggiungevano una nota di durezza. Durezza che non appariva

però negli occhi, i quali, guardando il mondo da sotto le sopracciglia rossicce,

davano l’impressione di un uomo sempre pronto a scoprire negli altri impulsi di

redenzione e sempre deluso. Pareva vivesse a una certa distanza dal proprio

corpo riguardandone le azioni con dubbiose occhiate di sbieco. Aveva inoltre una

strana abitudine autobiografica che lo induceva a comporsi di quando in quando

nella mente brevi frasi su se stesso col soggetto in terza persona ed il verbo al

passato. Non faceva mai l’elemosina e camminava rapido e fermo, una robusta

mazza di nocciolo in mano.

Da molti anni era cassiere in una banca privata nella Baggot Street. Vi si recava

col tram ogni mattina da Chapelizod e a mezzogiorno andava a fare uno spuntino

da Dan Burke: una bottiglia di birra e un vassoietto di biscotti d’avena. Alle

quattro era libero. Pranzava allora in una trattoria della George Street, dove si

sentiva al sicuro dalla presenza della dorata gioventù dublinese e dove la lista

serbava una certa sobria modestia. Le serate le passava di solito davanti al

pianoforte della padrona di casa o vagabondando alla periferia della città. La sua

simpatia per la musica di Mozart lo portava talvolta all’Opera o al concerto e

questi erano gli unici sperperi della sua vita. Non aveva né compagni né amici, né

chiesa né credo. Consumava la sua esistenza spirituale senza comunione alcuna

col prossimo, visitando i parenti a Natale e accompagnandoli al cimitero quando

morivano. Doveri sociali da lui assolti solo per un tradizionale senso di dignità,

ma senza per questo concedere altro alle convenzioni che regolano il viver civile.

Si permetteva anzi di pensare che in date circostanze avrebbe anche potuto

sottrar soldi alla banca, ma poiché tali circostanze non si presentavano mai, la

sua vita scorreva uniforme ed eguale, storia senza avventure.

Una sera alla Rotunda si ritrovò seduto accanto a due signore. La sala semivuota

e silenziosa era già di per sé triste presagio di fallimento. Lanciata un’occhiata o

due a quel deserto la signora che gli stava vicino disse:

- Peccato che ci sia così poco pubblico stasera! È triste per gli artisti doversi

esibire davanti alle sedie vuote.

Egli accolse l’osservazione come un invito ad attaccar discorso e la poca timidezza

della donna lo stupì. Mentre parlavano, cercò di fissarsene in modo definitivo

l’immagine nella memoria. Saputo che la ragazza sedutale accanto era sua figlia,

la giudicò di un anno circa più giovane di lui. Il viso che un tempo doveva essere

Page 83: James joyce   gente di dublino

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stato bello, era rimasto intelligente: un viso ovale dai lineamenti marcati e dagli

occhi fermi di un azzurro cupo. Il suo sguardo s’iniziava dapprima su una nota di

sfida, ma turbato poi da un passeggero dilatarsi della pupilla nell’iride, rivelava

per un istante un temperamento di grande sensibilità.

Tosto però la pupilla riprendeva la forma primitiva, quella natura dischiusasi a

mezzo ricadeva sotto il freno della prudenza e la giacchetta d’astrakan,

modellando un seno di una certa pienezza, tornava a riaffermare in modo ancor

più netto la nota di sfida.

Poche settimane dopo la ritrovò ad un concerto alla Earlsfort Terrace e approfittò

dei momenti in cui l’attenzione della figlia era rivolta altrove, per addivenire a una

maggiore intimità. Una o due volte ella alluse al marito, ma il tono non fu mai tale

da fare dell’allusione un avvertimento. Si chiamava signora Sinico. Il bisavolo del

marito era oriundo di Livorno e il marito era capitano di una nave mercantile che

faceva la spola fra Dublino e l’Olanda. Avevano quella figlia sola. Incontratala una

terza volta per caso ebbe il coraggio di fissarle un appuntamento. Ella ci andò. Fu

questo il primo di una lunga serie. Si trovavano sempre la sera e sceglievano per

le loro passeggiate i quartieri più appartati. Al signor Duffy però non piacevano i

sotterfugi e dato che a quel modo avrebbero dovuto continuare a vedersi di

nascosto, la indusse a invitarlo a casa sua. Lo stesso capitano Sinico incoraggiò

le sue visite considerandolo un eventuale partito per la figliola: tanto

completamente aveva allontanato la moglie dal quadro dei suoi piaceri che non

riusciva a sospettare nemmeno negli altri un interesse per lei. E siccome era

quasi sempre assente e la figliola usciva spesso per le sue lezioni di musica, al

signor Duffy non mancava occasione di godersi la compagnia della signora.

Né a lui né a lei era mai capitata una simile avventura e nessuno dei due vi

vedeva nulla di sconveniente. A poco a poco egli allacciava ai propri i pensieri di

lei: le dava dei libri, le suggeriva delle idee, la faceva insomma partecipe della sua

vita intellettuale. Ed ella prestava orecchio a tutto. Con sollecitudine quasi

materna lo esortava ad aprirsi senza riserve: ne diventò il confessore. Egli giunse

perfino a confidarle di avere frequentato per diverso tempo le riunioni di un

partito socialista irlandese, riunioni dove il trovarsi solo in una soffitta alla scarsa

luce di una lampada ad olio fra una ventina di rudi operai, gli aveva dato uno

strano senso d’isolamento. In seguito, quando il partito si era diviso in tre sezioni,

ciascuna col proprio capo e relativa soffitta, aveva rallentato la sua assiduità. Le

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discussioni dei lavoratori, le diceva, erano troppo timorose e l’interesse ch’essi

ponevano alle questioni salariali, eccessivo. Li sentiva come realisti incalliti e

quelli d’altra parte mal sopportavano la sua esattezza di ragionamento, frutto di

un agio ch’era oltre la loro portata. Probabilmente, le diceva, nessuna rivoluzione

sociale sarebbe stata in grado di colpire Dublino, prima di qualche secolo almeno.

Ella gli chiedeva perché non scriveva queste sue teorie. E a quale scopo? le

rispondeva lui con disdegno studiato. Per mettersi in gara con mercanti di parole

incapaci di riflettere per sessanta secondi di seguito? O per sottoporsi alle critiche

di una borghesia ottusa, solita ad affidare la propria moralità ai poliziotti e la

propria arte agli impresari?

Numerose erano le visite ch’egli le faceva nella sua villetta fuori Dublino e

numerose le serate che trascorrevano in solitudine. Poco a poco nel lento

mischiarsi dei loro pensieri, vennero a parlare di argomenti meno remoti. Per lui

la compagnia della donna era come la terra calda per una pianta esotica. Talvolta,

astenendosi dall’accendere il lume, ella lasciava che l’oscurità li avvolgesse. La

stanza buia e raccolta, l’isolamento, la musica che ancora risuonava alle loro

orecchie, valevano ad unirli. E questa unione lo esaltava, smussava le angolosità

del suo carattere, comunicava insomma una certa emozione alla sua vita

interiore. Ogni tanto si sorprendeva ad ascoltare la propria voce. Pensava di

essere asceso ai suoi occhi ad un’angelica statura e mentre da un lato sempre più

s’adoperava a legare a sé la fervida natura della compagna, dall’altro continuava a

udire la strana voce impersonale che riconosceva per propria, insistere

sull’incurabile solitudine dell’anima. Non ci possiamo abbandonare, diceva la

voce: apparteniamo sempre a noi stessi. Il risultato di questi discorsi fu che una

sera nel corso della quale aveva dato segno di un insolito turbamento, la signora

Sinico gli prese con passione una mano e se la premette alla guancia.

Il signor Duffy rimase assai stupito. L’interpretazione ch’essa aveva dato alle sue

parole lo deluse. Per una settimana non andò a trovarla. Poi le scrisse

chiedendole un appuntamento e poiché non voleva che l’atmosfera del loro

confessionale distrutto turbasse quell’ultimo colloquio, decise che si sarebbero

trovati in una piccola pasticceria poco lontana dai cancelli del parco. Era una

rigida giornata d’autunno ma, nonostante il freddo, per quasi tre ore girarono in

su e in giù lungo i viali. Furono d’accordo sulla necessità di rompere la loro

relazione. Un legame, egli disse, è sempre un legame di dolore. Usciti dal parco

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s’avviarono alla fermata del tram, ma qui la donna prese a tremare con tanta

violenza che, temendo una nuova crisi da parte sua, egli la salutò in fretta e furia

e la lasciò. Pochi giorni dopo riceveva un pacco con i suoi libri e la sua musica.

Passarono quattro anni. Il signor Duffy tornò al solito tenore di vita. La sua

stanza continuava a testimoniare il suo temperamento ordinato: nuovi brani di

musica ingombravano il leggio e negli scaffali c’erano due libri di Nietzsche: “Così

parlò Zarathustra” e “La gaia scienza”.

Adesso scriveva di rado sui fogli di carta nello scrittoio. Una delle frasi, scritta

due mesi dopo l’ultimo colloquio con la signora Sinico, diceva:

«L’amore fra uomo e uomo é impossibile per il divieto di un rapporto sessuale e

l’amicizia fra uomo e donna è impossibile per la necessità di questo stesso

rapporto». Per timore d’incontrarla si teneva lontano dai concerti. Gli morì il padre

e il socio più giovane della banca si ritirò.

Eppure ogni mattina egli si recava col tram in città ed ogni sera ne tornava a

piedi dopo aver consumato il solito pasto frugale nella trattoria di George Street e

letto come fin di tavola il giornale.

Una sera mentre si portava alla bocca un buon boccone di manzo e cavoli si

fermò con la mano a mezz’aria, gli occhi fissi su un trafiletto del foglio che gli

stava davanti, appoggiato alla caraffa. Riposò il boccone sul piatto e lo lesse

attento. Poi bevve un bicchier d’acqua, spinse il piatto da parte e ripiegatosi il

giornale dinanzi, fra i gomiti, lo rilesse. Intanto nel piatto il cavolo trasudava lento

un grasso freddo e biancastro. La servente s’avvicinò e gli chiese se il pranzo non

era cucinato bene. Rispose di sì, che era buonissimo e ne tirò giù a stento

qualche boccone. Poi pagò il conto ed uscì.

Camminava in fretta nel crepuscolo novembrino. A intervalli regolari la robusta

mazza di nocciolo risuonava per terra e l’orlo del giornale ripiegato gli spuntava

dalla tasca laterale dello stretto soprabito a doppio petto. Sulla strada solitaria

che dai cancelli del parco porta a Chapelizod rallentò il passo. Ora la mazza

batteva con minor forza sul selciato e il fiato uscendogli irregolarmente di bocca

quasi a sospiri, si condensava nella fredda aria invernale. Arrivato a casa salì

subito in camera e tolto il giornale di tasca rilesse il trafiletto alla debole luce

della finestra. Lo lesse non ad alta voce ma muovendo piano le labbra come il

sacerdote quando recita il Confiteor. Eccone il testo:

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MORTE DI UNA SIGNORA A SIDNEY PARADE.

Un increscioso incidente.

«Oggi al Centro Ospedaliero di Dublino il “Coroner” aggiunto, in assenza del

signor Leverett, ha proceduto alla ricognizione del cadavere della signora Emily

Sinico di anni 43, rimasta uccisa ieri sera alla stazione di Sidney Parade.

Dall’inchiesta è risultato che la defunta, mentre stava attraversando i binari, era

stata investita dalla locomotiva dell’accelerato delle dieci proveniente da

Kingstown, riportando ferite alla testa e al fianco destro che ne avevano provocato

la morte.

«James Lennon, il macchinista, ha dichiarato di essere da quindici anni al

servizio della Compagnia. Udendo il fischio del guardialinee aveva messo in moto

la locomotiva e un secondo o due dopo, udendo alte grida, aveva frenato. Il treno

procedeva ad andatura moderata.

«Il facchino P. Dunne ha dichiarato di aver visto, proprio mentre il treno stava

avviandosi, una donna che cercava di traversare i binari. Era corso verso di lei

gridando, ma prima che avesse potuto raggiungerla i respingenti della locomotiva

l’avevano gettata a terra.

«Un giurato: - L’avete vista cadere voi?

«Teste: - Sì.

«Il brigadiere Croly ha deposto di aver trovato al suo arrivo la vittima stesa sulla

banchina, evidentemente già morta, e di averla fatta trasportare in sala d’aspetto

in attesa dell’ambulanza. La deposizione è stata confermata dall’agente 57.

«Il dottor Halpin, assistente chirurgo del Centro Ospedaliero, ha dichiarato che la

defunta aveva riportato la frattura di due costole nonché diverse contusioni alla

spalla destra e al parietale destro. Non si trattava però di lesioni tali da provocare

la morte in una persona normale, morte che a parer suo sarebbe stata invece

dovuta allo choc e ad un’improvvisa paralisi cardiaca.

«Il signor H. B. Patterson Finlay ha espresso a nome della Compagnia il suo

profondo rincrescimento per l’accaduto. La Compagnia, egli ha detto, ha sempre

preso ogni precauzione per impedire che i viaggiatori traversassero i binari se non

a mezzo degli appositi sottopassaggi, sia ponendo avvisi nelle stazioni, sia usando

speciali barriere automatiche brevettate ai passaggi a livello. Pare che la defunta

avesse l’abitudine di traversare i binari a tarda notte. Pertanto, in considerazione

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anche di altri particolari dell’incidente, non giudicava se ne potesse tener

responsabile nessuno dei funzionari o impiegati della ferrovia.

«Il capitano Sinico, abitante a Leonville, Sidney Parade, e marito della defunta, ha

reso egli pure la sua deposizione, confermando che la vittima era sua moglie, e

dichiarando ch’egli si trovava fuori Dublino il giorno della disgrazia, ed era

arrivato solo quella mattina da Rotterdam; che erano sposati da ventidue anni e

avevano vissuto felicemente fino a due anni prima, epoca in cui la moglie aveva

preso abitudini d’intemperanza.

«La signorina Mary Sinico ha confermato che ultimamente la madre si era data ad

uscire tardi la sera per andarsi a comprare bevande spiritose e che più volte essa

aveva cercato di ricondurla alla ragione consigliandola a farsi socia di una lega

antialcoolica. La signorina non era tornata a casa che un’ora dopo l’accaduto.

«In accordo al referto medico il giurì ha formulato un verdetto che esonera Lennon

da ogni responsabilità.

«Il “Coroner” aggiunto ha concluso trattarsi di un increscioso incidente e ha

espresso al Capitano Sinico e alla figlia tutta la sua simpatia. Ha fatto inoltre

pressioni alla Compagnia delle Strade Ferrate esortandola a prendere le più

rigorose misure per evitare in futuro il ripetersi di incidenti del genere. Nessuno è

responsabile».

Il signor Duffy alzò gli occhi dal foglio e attraverso la finestra gettò uno sguardo

sul triste paesaggio della sera. Il fiume scorreva quieto allato della distilleria

abbandonata e di tanto in tanto un lume appariva qua e là nelle case della Lucan

Road. Che fine! L’intero resoconto di quella morte lo rivoltava e ancor più lo

rivoltava il pensiero d’aver confidato proprio a una donna simile ciò che teneva

per sacro. Le frasi trite, le vuote espressioni di simpatia, le caute parole del

cronista pagato per tacere i particolari di una morte volgare e avvilente, gli

davano allo stomaco. Non solo se stessa aveva degradato, ma anche lui. Poteva

vedere tutto lo squallido cammino che l’aveva condotta a quel vizio abbietto e

maleodorante. La compagna dell’anima sua! E pensò alle disgraziate che aveva

visto girare barcollando per le osterie, a farsi riempire fiaschi e bottiglie. Santo

Dio, che fine! Evidentemente era un essere incapace di vivere, privo di volontà e

decisione, facile preda alle abitudini, uno dei tanti relitti insomma generati dalla

civiltà moderna.

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Ma cadere così in basso! Com’era possibile ch’egli si fosse illuso a tal punto?

Ricordò il suo impulso di quella sera e lo giudicò con assai più severità di quel

che non avesse mai fatto sinora. Non gli era difficile adesso approvare la decisione

presa.

E poiché la luce svaniva e la memoria principiava a smarrirglisi, immaginò che la

mano della morta sfiorasse la sua. L’impressione che prima gli aveva dato allo

stomaco ora influiva sui nervi. Si mise in fretta cappotto e cappello ed uscì. L’aria

fredda che l’accolse sulla soglia gli serpeggiò su per le maniche. Arrivato

all’osteria di Chapelizod Bridge entrò e ordinò un ponce caldo.

Il padrone lo servì con ossequio ma non s’azzardò ad attaccar discorso.

C’erano nel locale cinque o sei operai che discutevano del valore dei terreni di un

proprietario nella contea di Kildare. A intervalli bevevano dai boccali e fumavano

sputando spesso sul pavimento e riportando la segatura sugli sputi con gli

scarponi pesanti. Seduto sul suo sgabello il signor Duffy li guardava senza vederli

né udirli. Dopo un po’ se ne andarono e lui si ordinò un altro ponce. Ciò lo

trattenne ancora per molto. La sala era tranquilla. Il padrone, appoggiato sul

banco leggeva l’«Herald» e sbadigliava. Di tanto in tanto giungeva da fuori il

fischio di un tram sulla strada solitaria.

Mentre stava lì seduto rivivendo la sua vita con lei ed evocando alternativamente

le due immagini nelle quali adesso la concepiva, si rese conto d’un tratto che era

morta, che non esisteva più, che era diventata un ricordo. Cominciò a sentirsi a

disagio. Si domandò che altro avrebbe potuto fare. Non certo continuare a

sostenere con lei una commedia d’inganni, né vivere al suo fianco apertamente.

Aveva fatto ciò che riteneva più opportuno. Adesso che non c’era più, capiva

quanto dovesse essere stata vuota la sua vita, sera per sera, sola in quella stanza.

E anche la propria lo sarebbe stata, finché sarebbe morto anche lui, non sarebbe

esistito più, sarebbe diventato un ricordo, sempre che ci fosse qualcuno a

ricordarlo.

Erano le nove passate quando lasciò l’osteria. Era una notte fredda e buia. Entrò

nel parco dal primo cancello e camminò sotto gli alberi spogli. Percorreva gli

stessi viali vuoti che avevano percorso assieme quattro anni prima. La sentiva

vicina adesso, nel buio e gli pareva a tratti che la sua voce gli sfiorasse l’orecchio,

la sua mano toccasse la propria. Rimase fermo in ascolto. Perché le aveva

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rifiutato la vita? Perché l’aveva condannata a morire? Sentiva tutta la sua natura

morale cadere in frantumi.

Arrivato che fu in cima alla Magazine Hill si fermò a guardare lungo il fiume verso

Dublino, le cui luci rosse e accoglienti ardevano nella notte fredda. Abbassò poi

gli occhi ai piedi della discesa e là nell’ombra del muro del parco scorse delle

figure sdraiate. Quegli amori venali e furtivi lo riempirono di disperazione.

Imprecò alla rettitudine della propria esistenza: sentiva di essere stato escluso dal

banchetto della vita. Una sola creatura umana gli aveva dimostrato amore ed egli

le aveva negato e vita e felicità: l’aveva condannata all’ignominia, anzi, e ad una

morte vergognosa. Sapeva che quegli esseri sdraiati là presso il muro lo

osservavano, col desiderio che se ne andasse. Nessuno lo voleva: era escluso, lui.

Rivolse gli occhi al fiume grigio e brillante che s’allungava in distanza verso

Dublino e, oltre il fiume, vide un treno merci uscire dalla stazione di Kingstown:

un verme dalla testa di fuoco che bucava le tenebre, laborioso, ostinato. Adagio

scomparve ma gli sbuffi ansimanti della locomotiva seguitarono a rintronargli alle

orecchie.

Riprese la strada per cui era venuto, con quel ritmo a martellargli il cervello.

Cominciava a dubitare della realtà di quanto la memoria veniva evocandogli. Si

fermò sotto un albero e lasciò che il martellìo morisse poco a poco. Ora non la

sentiva più vicina nel buio e la sua voce non gli sfiorava l’orecchio. Stette qualche

minuto in ascolto: nulla.

La notte taceva. Ascoltò ancora: silenzio perfetto. Sentì che era solo.

Page 90: James joyce   gente di dublino

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Il Giorno dell’Edera

Il vecchio Jack raccolse le ceneri con un pezzo di cartone e giudiziosamente le

sparse sulla cupola di carbone che s’andava man mano sbiancando. Ricoperta

che l’ebbe di uno strato sottile, la faccia gli cadde nel buio, ma ponendosi egli di

nuovo a sventolare il fuoco, la sua ombra curva salì sul muro di fronte e adagio la

faccia ritornò in luce.

Era una faccia da vecchio, ossuta e pelosa. Gli occhi umidi e azzurri

ammiccavano alla fiamma e la bocca umida s’apriva di tanto in tanto e biascicava

macchinalmente una volta o due nel richiudersi. Quando le ceneri ebbero preso,

posò la ventola di cartone contro il muro, sospirò e disse:

- Ora va meglio, signor O’Connor.

Il signor O’Connor, un giovanotto grigio di capelli e col viso sfigurato da pustole e

foruncoli, aveva finito giusto allora d’arrotolarsi il tabacco per una sigaretta

nell’apposita cartina, ma a quelle parole disfece con aria meditabonda il suo

lavoro. Poi con la stessa aria meditabonda riarrotolò ancora una volta il tabacco e

dopo essere rimasto per un istante soprappensiero si decise a leccare la cartina.

- Non ha lasciato detto quando tornava il signor Tierney? - chiese con voce rauca

in falsetto.

- No, non ha lasciato detto nulla.

O’Connor mise in bocca la sigaretta e prese a frugarsi nelle tasche. Ne tirò fuori

un pacco di cartoncini.

- Vi vado a prendere un fiammifero, - s’offrì il vecchio.

- Non importa, faccio lo stesso.

Scelse uno dei cartoncini e lesse quanto vi era scritto.

ELEZIONI MUNICIPALI QUARTIERE DELLA BORSA

«In vista delle prossime elezioni il signor Richard Tierney, P. L. G. sollecita

rispettosamente il favore del vostro voto e del vostro appoggio».

O’Connor era stato assunto dall’agente di Tierney per svolgere opera di

propaganda in un settore del quartiere, ma dato il tempo inclemente e gli stivali

Page 91: James joyce   gente di dublino

91

che facevano acqua, gran parte della giornata la passava seduto presso il fuoco

nell’ufficio elettorale della Wicklow Street, in compagnia del vecchio Jack, il

custode. Stavano lì seduti da quando s’era fatta sera. Era il sei d’ottobre e fuori

era freddo e buio.

O’Connor strappò una striscia dal cartoncino e appiccatovi fuoco s’accese la

sigaretta. Nel gesto la fiamma gl’illuminò una foglia d’edera lucida e scura,

all’occhiello della giacca. Il vecchio l’osservava attento, poi riprendendo in mano il

pezzo di cartone si rimise a sventolare adagio mentre l’altro fumava.

- Eh, sì, - fece continuando, - è difficile saper educare i figlioli. Chi se lo sarebbe

immaginato che facesse questa riuscita... L’ho mandato a scuola dai Fratelli

Cristiani, ho fatto quanto ho potuto insomma e lui adesso se ne va in giro a

sborniarsi. Eppure mi sono adoperato a farne un uomo dabbene...

Riposò la ventola con stanchezza.

- Se non fossi un povero vecchio, gli farei mutar registro, non dubitate...

Prenderei un bastone e gliele suonerei finché mi reggesse il polso... L’ho già fatto

tante altre volte prima, ma la madre, sapete com’è, ha sempre cercato di

riparargliele...

- È così che si rovinano i figli.

- Sicuro. Eppoi che se ne ottiene? Ingratitudine e null’altro... Bisogna vedere

come mi prende la mano non appena s’accorge che ho bevuto un bicchiere di

troppo. Domando e dico dove s’andrà a finire se i figli trattano così i genitori...

- Che età ha?

- Diciannov’anni.

- Perché non lo mettete a un mestiere?

- E che altro ho fatto con quell’ubriacone, dacché ha lasciato la scuola? «Non ho

voglia di mantenerti», gli dico. «Te la devi campare da te la vita». Già, ma poi

quando ha soldi in tasca è peggio. Se li beve tutti.

O’Connor scosse il capo con simpatia e il vecchio tacque guardando il fuoco. Si

sentì aprire l’uscio della stanza e qualcuno gridò:

- Ehilà! È forse una riunione di frammassoni?

- Chi è? - fece il vecchio.

- Che fate lì al buio? - chiese una voce.

- Sei tu, Hynes? - domandò O’Connor.

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- Sì. Ma che state facendo lì al buio? - ripeté Hynes avanzando nella luce del

fuoco.

Era un giovane alto e sottile dai baffi castano chiari. Portava il bavero della giacca

rialzato e gocce di pioggia gli pendevano dalla tesa del cappello.

- Be’, Mat, come va la faccenda? - disse rivolto a O’Connor.

O’Connor scosse la testa. Il vecchio s’allontanò dal camino e dopo aver brancolato

per un po’ nella stanza tornò con due candelieri che accese uno dopo l’altro alla

fiamma e posò poi sul tavolo. Venne in luce una stanza spoglia e il fuoco perse

tutta la sua allegria. Le pareti erano nude ad eccezione della copia di un avviso

elettorale e nel mezzo del locale c’era un tavolino ingombro di carte. Hynes

s’appoggiò alla mensola del camino e chiese:

- Non vi ha ancora pagato?

- Macché! Speriamo che stasera non ci pianti in asso.

Hynes si mise a ridere.

- Per pagarvi vi pagherà, sta’ sicuro.

- Già, ma dovrebbe decidersi, se intende trattare da uomo d’affari, - ribatté

O’Connor.

- E voi che ne pensate, Jack? - fece Hynes rivolgendosi al vecchio con aria di

canzonatura.

Il vecchio tornò al suo posto presso il fuoco e disse:

- Soldi non gliene mancano a lui, non è mica come quell’altro pezzente...

- Chi, sentiamo? - s’informò Hynes.

- Colgan, - rispose il vecchio in tono di spregio.

- Parlate così solo perché è un operaio, vero? Che differenza c’è secondo voi fra un

bravo operaio e un mercante di vino? Forse che l’operaio non ha diritto come gli

altri di far parte della Corporazione? Certo, più di quei sudici scrocconi pronti a

leccare i piedi a chiunque abbia un titolo innanzi al nome. Dico giusto, Mat? -

disse Hynes rivolgendosi a O’Connor.

- Giustissimo.

- È un brav’uomo quello, senza raggiri, e intende puramente e semplicemente

rappresentare la classe operaia. Il vostro invece, per cui vi date tanta pena, cerca

soltanto di arraffare un posto qualsiasi.

- Certo che anche la classe lavoratrice ha da essere rappresentata, - convenne il

vecchio.

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- E invece no. Corna e busse all’operaio, - lo interruppe Hynes. - Eppure è dal

lavoro che nasce ogni cosa. E l’operaio non ti va a caccia di grasse prebende per i

figli e tutto il parentado; non è disposto a trascinare nel fango l’onore di Dublino

per ingraziarsi un qualunque monarca tedesco...

- Come, come? - fece il vecchio.

- Non sapete che vogliono presentare un messaggio di benvenuto a Re Edoardo

quando verrà qui l’anno prossimo? Che bisogno c’è, dico io, di far tanti

salamelecchi a un re straniero?

- Il nostro non voterà certo per questo messaggio, - intervenne O’Connor. - È

nazionalista, lui.

- Non voterà eh? Mettetelo alla prova e ve ne accorgerete. Lo conosco va’ là! Non lo

chiamano tutti Dick Tierney l’imbroglione?

- Per Dio, Joe, forse hai ragione tu. Ad ogni modo vorrei che ci portasse i

conquibus stasera.

I tre uomini tacquero. Il vecchio si rimise a raccogliere la cenere e Hynes si tolse il

cappello, lo scosse e si riabbassò poi il bavero mettendo anch’egli in mostra nel

gesto la foglia d’edera all’occhiello.

- Se fosse ancora in vita lui, - disse additandola, - non se ne parlerebbe neanche

di saluti e di discorsi.

- È vero, - convenne O’Connor.

- Benedetti quei tempi, - commentò il vecchio. - Allora sì che si viveva!

Il silenzio tornò a regnare nella stanza. Poi un ometto arzillo dalle orecchie

intirizzite e che tirava in su col naso spinse l’uscio e si diresse frettoloso verso il

fuoco stropicciandosi forte le mani come se volesse trarne scintille.

- Niente soldi, ragazzi, - annunciò.

- Accomodatevi pure qui, signor Henchy, - fece il vecchio offrendogli la sua sedia.

- Non vi muovete, Jack, non vi muovete, - protestò Henchy, e rivolto ad

Hynes un freddo cenno di saluto, si sedette sulla sedia che il custode aveva

lasciato libera.

- L’avete fatta la Augier Street? - chiese ad O’Connor.

- Sì, - rispose quello frugandosi in tasca in cerca del taccuino.

- E da Grimes ci siete passati?.

- Sì.

- Be’? Da che parte pende?

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- Non ha voluto prometter nulla. M’ha risposto: «Non lo saprà nessuno per chi

voto». Ma per conto mio è dalla nostra.

- E come lo sai?

- M’ha chiesto chi erano gli scrutatori e gliel’ho detto. Gli ho fatto anche il nonne

di Padre Burke. Voterà per noi, vedrete.

Henchy ricominciò a tirare in su col naso e a stropicciarsi le mani davanti al

fuoco a velocità vertiginosa. Poi disse:

- Per l’amor di Dio, Jack, metteteci un altro po’ di carbone. Ce ne dev’essere

ancora da parte.

Il vecchio uscì dalla stanza.

- Niente da fare, cari miei! - fece Henchy scuotendo il capo. - Gliel’ho chiesti a

quell’animale. E lui: «Be’ signor Henchy, appena vedrò che il lavoro procede, non

mi scorderò di voi, statene certo». Farabutto! E che altro ci si potrebbe aspettare

del resto!

- Che vi avevo detto, Mat? - interloquì Hynes. - Dick Tierney l’imbroglione!

- Imbroglione sicuro, e come ce n’è pochi! - riprese Henchy. - Non per nulla ha

quegli occhietti da porco. Dio lo sprofondi! Almeno pagasse da galantuomo invece

di venirmi a dire: «Oh, signor Henchy, bisognerà che ne parli al signor Fanning.

Ho già speso tanti di quei soldi». Moccioso maledetto! Se n’è scordato

evidentemente di quando suo padre teneva bottega da rigattiere in Mary Lane.

- È proprio vero dunque? - chiese O’Connor.

- Per Dio se è vero! Non lo avevate mai sentito dire? Ci andavano la domenica

mattina prima che aprissero le osterie, per comprarsi un panciotto o un paio di

calzoni. Sicuro! E pare che quel brav’uomo tenesse sempre una certa bottiglietta

nera in un canto... Così è, caro mio. Ed è proprio là che il nostro ha visto la luce.

Il vecchio tornò con pochi pezzi di carbone che dispose qua e là sulla fiamma.

- Bella storia, non c’è che dire, - osservò O’Connor. - Come vuole che

lavoriamo per lui se non cava fuori i quattrini?

- Che ci vuoi fare? - disse Henchy. - Per me mi aspetto di trovare gli uscieri in

anticamera quando torno a casa. Hynes si mise a ridere e staccandosi dal camino

con un colpo di spalla si dispose ad uscire.

- State buoni che verrà Re Eddie ad aggiustare le cose, - disse. - Be’ ragazzi io me

ne vado. Ci vediamo dopo. Addio!

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Uscì adagio dalla stanza. Né Henchy né il vecchio fecero parola ma proprio

mentre l’uscio si richiudeva O’Connor che fino allora era rimasto a guardare fisso

il fuoco, gridò d’un tratto:

- Addio Joe!

Henchy attese fosse passato del tempo, poi accennò col capo in direzione della

porta e attraverso il fuoco, buttò là la domanda:

- Me lo dite che ci viene a fare qui, il nostro amico? Che voleva?

- Povero Joe, - esclamò O’Connor gettando la cicca nel camino. - È in bolletta

anche lui, come tutti.

Henchy tirò in su forte col naso e sputò con tale abbondanza che corse il rischio

di spegnere il fuoco, da cui salì uno sfriggìo di protesta.

- Be’, volete che vi dica la mia opinione schietta e sincera? Per me quello è uno del

campo avverso. Una spia di Colgan insomma. Il suo lavoro è di girare e rendersi

conto di come vanno le cose. Nessuno lo sospetta. Non ci avevate pensato, eh?

- Macché, è un buon diavolo, Joe, e onesto per la pelle! - disse O’Connor.

- Il padre sì che lo era, - ammise Henchy. - Povero vecchio Larry! Ci sapeva fare ai

suoi tempi. Ma il nostro amico qui non m’ha l’aria d’essere a diciannove carati.

Per Dio, capisco trovarsi in bolletta, ma abbassarsi a fare lo scagnozzo... Un po’

più di dignità perbacco!

- State certo che da me buone accoglienze non ne ha le volte che viene,

- interloquì il vecchio. - Che lavori per il suo partito e non venga qui a ficcare il

naso...

- Non so, - osservò O’Connor in tono di dubbio tirando fuori tabacco e cartine. -

Per conto mio Joe Hynes è un brav’uomo e uno che all’occorrenza sa anche

maneggiare la penna... Ve la ricordate quella cosa che scrisse...

- Già, già, anche troppo intelligenti secondo me, questi feniani... La volete sapere

la mia opinione schietta e sincera a proposito di certi tipi? Sono convinto che una

buona metà almeno è sovvenzionata dal governo.

- Be’, questo non si sa. - obbiettò il vecchio.

- State tranquillo che so quel che mi dico, - insisté Henchy. - Tutti uomini di

paglia del governo... Non parlo di Hynes... Non credo si sia abbassato a tal

punto... Ma un certo nobilastro dall’occhio strabico, il patriota... sapete bene a

chi alludo...

O’Connor accennò di sì col capo.

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- Un discendente in linea diretta dal Maggiore Sirr, se lo volete sapere. E che

cuore di patriota, perdinci! Un tipo che ti venderebbe il paese per quattro

palanche e ringrazierebbe Dio in ginocchio di averne uno da vendere.

Bussarono alla porta.

- Avanti! - fece Henchy.

Un tale dall’aspetto di prete povero o di povero attore, comparve sulla soglia.

L’abito nero era abbottonato stretto stretto sul corpo basso e massiccio e non si

riusciva a capire se portasse colletto da sacerdote o da dottore poiché teneva

rialzato intorno al collo il bavero della finanziera sdrucita, coi bottoni nudi che

riflettevano la luce delle candele. In capo aveva un cappello rotondo di feltro nero

e il viso giallo e lucido di pioggia trasudava come formaggio fresco, tranne là dove

due macchie rosa indicavano gli zigomi. Subito aprì la bocca che aveva

larghissima ad esprimere delusione e nello stesso tempo spalancò gli occhi lustri

ed azzurri ad esprimere invece piacere e sorpresa.

- Siete voi Padre Keon? - esclamò Henchy alzandosi da sedere. - Avanti, avanti...

- No, no, no, - si schermì Padre Keon facendo boccuccia come se parlasse a un

bambino.

- Non volete accomodarvi un momento?

- No, no, no, - ripeté Padre Keon con voce modesta, indulgente e vellutata. - Non

voglio disturbare adesso... Cercavo il signor Fanning...

- È giù al Black Eagle, il signor Fanning, - rispose Henchy. - Ma perché non vi

fermate un minuto?

- No, grazie. Ero venuto per un affaruccio... Grazie, davvero.

Si ritirò dalla soglia e, preso un candeliere, Henchy uscì sul pianerottolo a fargli

lume giù per le scale.

- Vi prego, non state a scomodarvi...

- C’è così buio...

- Ma ci vedo lo stesso, grazie...

- Va bene adesso?

- Sì, sì... Grazie mille!

Henchy tornò col candeliere, lo rimise sul tavolo e si risedette presso il fuoco. Per

qualche minuto ci fu silenzio.

- Senti un po’, John, - fece O’Connor accendendosi una sigaretta con un’altra

striscia di cartone.

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- Hm?

- Me lo sai dire chi è quel tipo?

- Fammene una più facile, Mat.

- Fanning e lui vanno molto d’accordo a quanto pare. Spesso li vedono insieme da

Kavanagh. Ma è proprio un prete?

- Mah, credo di sì. Dev’essere quel che si dice una pecora nera. Non ce ne sono

molti grazie a Dio, ma quei pochi... Un povero disgraziato, insomma.

- Ma come vive?

- Un altro mistero.

- Fa parte di qualche chiesa o cappella o istituto?

- No, - rispose Henchy. - Credo che giri per conto suo... Dio mi perdoni, -

aggiunse, - ma credevo fosse quello della birra.

- Ah, c’è speranza di bere allora? - esclamò O’Connor.

- Ho la gola secca anch’io, - disse il vecchio.

- È tre volte che glielo dico a quel moccioso d’un leccapiedi di mandar su dodici

bottiglie di birra. Glielo volevo ripetere anche adesso, ma lui se ne stava

appoggiato al banco in maniche di camicia a discutere col giudice Cowley.

- E tu perché non gliel’hai ricordato? - chiese O’Connor.

- Mi seccava avvicinarmi proprio mentre stava parlando con Cowley.

Ho aspettato che mi posasse l’occhio addosso e ho detto: «Per quella cosa di cui ti

ho parlato... » E lui: «Bene, bene signor Henchy». Ma vedrete che quel soldo di

cacio se n’è già bell’e dimenticato.

- Devono star tramando qualcosa da quelle parti, - osservò O’Connor

soprappensiero. - Ieri ne ho visti tre in gran conciliabolo all’angolo di Suffolk

Street.

- Eh, lo conosco il loro gioco, - disse Henchy. - C’è da sborsare soldi ai preti oggi,

se si vuol diventare sindaco. Allora sì che vi ci fanno. Perdinci, sto quasi

pensando di mettermici anch’io. Che ne dite? Me la caverei? O’Connor si mise a

ridere.

- Fintanto che reggesse il credito...

- Pensate un po’! Uscirmene dalla Mansion House con tanto d’ermellino e Jack

dietro in parrucca bianca. Eh? - E io in qualità di segretario particolare, no,

John?

- Certo. E Padre Keon elemosiniere, naturalmente. Tutto in famiglia.

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- Parola mia, signor Henchy, - interloquì il vecchio, - che ci sapreste stare meglio

di molti altri. Un giorno ne stavo giusto parlando con Keegan il portiere. «Be’ Pat»,

gli ho detto. «Che ne dici del nuovo padrone? Di ricevimenti non se ne fanno

troppi a quanto vedo». «Ricevimenti?», mi fa lui. «Ma quello se potesse camperebbe

d’aria». E sapete cosa m’ha detto?... Parola mia che stentavo a crederci...

- Cosa? - domandarono Henchy e O’Connor.

- M’ha detto: «Che ne penseresti tu d’un sindaco di Dublino che ti manda a

comprare per cena una libbra di braciole? Che lusso eh?» «Diamine!», ho fatto io.

«Una libbra di braciole per la Mansion House!», dice lui. E io: «Ma che razza di

gente va su al giorno d’oggi!»

In quel punto si bussò all’uscio e un ragazzo fece capolino.

- Cos’è? - chiese il vecchio.

- Da parte della «Black Eagle», - rispose il ragazzo e camminando di traverso posò

un cesto per terra, con un gran sbatacchiare di bottiglie.

Il vecchio lo aiutò allora a trasferirle dal cesto alla tavola e contò che ci fossero

tutte. A posto che furono il ragazzo s’infilò il cesto nel braccio e disse:

- E i vuoti?

- Che vuoti? - fece il vecchio.

- Ci farai prima bere, no? - disse Henchy.

- M’hanno detto di riportare i vuoti.

- Torna domani, - disse il vecchio.

- Ehi ragazzo, - lo chiamò Henchy, - fammi il piacere, fa’ un salto giù da O’Farrel

e digli se ci presta il cavatappi... Da parte del signor Henchy digli, e che glielo

rimandiamo subito. Posa pure qui il cesto.

Il ragazzo se ne andò e Henchy prese a stropicciarsi le mani allegramente,

dicendo:

- Be’ in fin dei conti è stato meno canaglia di quanto m’aspettavo. Ha mantenuto

la parola, almeno.

- Bicchieri non ce ne sono però, - osservò il vecchio.

- Eh, non ve la prendete, Jack, - disse Henchy. - Altre persone dabbene prima di

noi, han bevuto alla bottiglia.

- Certo, meglio che niente, - ammise O’Connor.

- Sì, non sarebbe cattivo lui, - commentò Henchy, - se non fosse per quel Fanning

che lo tiene fra le grinfie... A modo suo non avrebbe cattive intenzioni...

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Il garzone tornò col cavatappi. Il vecchio aprì tre bottiglie e stava per ridarglielo

quando Henchy disse:

- E tu ragazzo, ne vuoi un sorso?

- Volentieri, signore.

A malincuore il vecchio aprì un’altra bottiglia e gliela porse.

- Quanti anni hai? - gli chiese.

- Diciassette, - rispose quello. E poiché il vecchio non aggiungeva altro, prese la

bottiglia, disse: - Coi miei rispetti, signor Henchy, - bevve, la rimise sul tavolo e

s’asciugò la bocca con la manica. Poi prese il cavatappi e uscì di sghembo dalla

porta borbottando un saluto.

- Ecco come si comincia, - commentò il vecchio.

- Già, tutto sta nel fare il primo passo, - disse Henchy. Il vecchio distribuì le tre

bottiglie aperte e tutti bevvero insieme. Dopo aver bevuto, ciascuno si mise la

propria a portata di mano sul camino e trasse un lungo sospiro di soddisfazione.

- Be’, mi son fatto una bella giornata di lavoro oggi, - disse Henchy dopo una

pausa.

- Davvero John?

- Sì. In Dawson Street gli abbiamo procurato uno o due voti certi, Crofton e io.

Detto fra noi però, Crofton è un buon ragazzo, questo sì, ma come propagandista

vale zero. Non ti sa mettere quattro parole in croce! Sta lì e guarda, mentre io mi

sbraccio.

In quella entrarono due uomini. Uno grasso grasso con vestito di lanetta blu che

non gli stava più addosso, un faccione largo dall’espressione bovina, grandi occhi

azzurri e baffi brizzolati. L’altro assai più magro e sottile, con un viso fine, rasato

di fresco, colletto altissimo e cappello floscio a larghe falde.

- Ehi Crofton! - disse Henchy al grassone. - È proprio vero che quando si parla del

diavolo...

- Da dove piove tutto quel ben di Dio? - chiese il più giovane. - La vacca ha

partorito?

- Lyons si sa, la prima cosa che vede è la bottiglia, - disse O’Connor ridendo.

- È così, eh, che fate la propaganda, voialtri, - esclamò Lyons. - E Crofton e io

fuori al freddo e alla pioggia a caccia di voti.

- Che Dio vi conservi, - intervenne Henchy, - ma se concludo più io in cinque

minuti che voi in una settimana...

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- Sturane altre due, Jack, - disse O’Connor.

- Già, ma come? - protestò il vecchio. - Non c’è più il cavatappi.

- Un momento, un momento, - lo interruppe Henchy alzandosi in fretta.

- Non lo conoscete il sistema?

Prese due bottiglie dal tavolo e le posò sulla pietra del camino. Poi tornò al suo

posto e bevve un altro sorso. Lyons seduto sul tavolo si spinse il cappello sulla

nuca dondolando le gambe.

- Qual è la mia? - chiese.

- Questa, ragazzo, - rispose Henchy.

Crofton si mise a sedere su una cassa, lo sguardo fisso sull’altra bottiglia. Taceva

per due ragioni. La prima, di per sé sufficiente, perché non aveva nulla da dire; la

seconda perché considerava i suoi compagni inferiori a lui. Aveva fatto da agente

a Wilkins, il conservatore, ma quando quelli del partito avevano ritirato il loro

candidato e scegliendo fra due mali il minore, avevano dato appoggio ai

nazionalisti, era stato messo a lavorare per Tierney.

Passati pochi minuti si senti un timido poc! e il tappo della bottiglia di Lyons saltò

via. Con un balzo Lyons fu al caminetto, agguantò la bottiglia e se la portò sul

tavolo.

- Stavo giusto parlando dei bei voti che ci siamo procurati oggi, Crofton, - disse

Henchy.

- Quali, sentiamo? - chiese Lyons.

- Be’, tanto per cominciare Parkes, e uno, Atkinson, e due... Non solo ma anche

Ward nella Dawson Street. Un bravo vecchio quello... un vecchio conservatore.

«Ma il vostro candidato non è un nazionalista?» m’ha chiesto. È un uomo

rispettabile, ecco cos’è - ho risposto io - e che pensa solo al bene del suo paese. È

un grosso contribuente che possiede immobili in città e ben tre aziende.

Figuratevi un po’ quindi se non è suo interesse tenere giù le tasse. Un cittadino in

vista poi, rispettato da tutti e che per di più non appartiene a nessun partito, né

di destra, né di sinistra, né di centro... Ecco come si parla a certa gente...

- E a proposito del messaggio al re com’è andata? - domandò Lyons dopo aver

bevuto e schioccato le labbra.

- State a sentire, - disse Henchy. - Quel che ci manca, come ho detto al vecchio

Ward, è il capitale e la venuta del re qui significa afflusso di denaro. I dublinesi ne

trarranno il loro vantaggio. Pensate un po’ a tutte quelle fabbriche ferme, là, allo

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scalo. E a tutti i soldi che si farebbero in paese se potessimo riattivare le vecchie

industrie, i mulini, i cantieri, le officine... Ve lo ripeto, è il capitale che ci manca.

- Va bene, John, - disse O’Connor. - Ma perché dovremmo mandare un messaggio

di benvenuto al re d’Inghilterra? Lo stesso Parnell non ha forse...

- Parnell è morto, - lo interruppe Henchy. - Quanto a me, ecco la mia opinione.

Questo tipo ti sale al trono dopo che quella buona donna di sua madre lo ha

tenuto lontano finché non ha avuto i capelli grigi. È uomo che conosce il mondo e

ben disposto verso di noi. Si è detto: «La vecchia non è mai andata a vedere questi

irlandesi. Be’ ci voglio andare io, allora, a rendermi conto di come son fatti». E

adesso che viene qui in visita amichevole noi dovremmo insultarlo? Eh? Che te ne

pare, Crofton? Non ho ragione?

Crofton assentì col capo.

- Dopo tutto però, - intervenne Lyons in tono polemico, - la vita di re Edoardo, lo

sapete anche voi, non è stata proprio quel che si dice...

- Il passato è passato, - lo interruppe Henchy. - Come uomo io lo ammiro. È un

buontempone anche lui, come me e te. Gli piace il suo bravo bicchiere di grog, si

dà da fare con le donne e di sport se ne intende. Perdinci, una volta tanto anche

noi irlandesi potremmo essere leali nel gioco, no?

- E va bene, - disse Lyons. - Ma intanto guardate il caso di Parnell...

- In nome di Dio, che razza di paragone mi tiri fuori?

- Voglio dire, insomma, - dichiarò Lyons, - che abbiamo i nostri ideali, noi... E

perché adesso dovremmo dare il benvenuto a un uomo simile? Dopo tutto quel

ch’è successo, continuate ancora a credere che Parnell fosse proprio il capo che ci

voleva per noi? E perché allora dovremmo riconoscere come tale Edoardo

Settimo?

- È l’anniversario di Parnell oggi, - disse O’Connor, - e non dobbiamo risvegliare

brutti ricordi. Lo rispettiamo tutti adesso ch’è morto, perfino i conservatori, -

aggiunse rivolgendosi a Crofton.

Poc! Anche il tappo riluttante della bottiglia di Crofton saltò in aria. Alzatosi dalla

cassa Crofton s’avvicinò al camino e tornando poi a sedere con la sua preda disse

a voce fonda:

- Il nostro partito lo rispetta perché era un galantuomo.

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102

- Hai ragione, Crofton! - disse Henchy con forza. - Era l’unico capace di tener

testa a quel branco di lupi. «Giù, cani! Alla cuccia, maledetti!» Ecco come li

trattava... Entra Joe, entra! - gridò scorgendo Hynes sulla soglia.

Hynes entrò adagio.

- Un’altra bottiglia, Jack, - disse Henchy. - Ah, dimenticavo... non c’è il cavatappi.

Ecco, datemene una che la metto qui sul fuoco...

Il vecchio gli tese una bottiglia ed egli la posò sulla pietra.

- Accomodati Joe, - disse O’Connor. - Si stava giusto parlando del Capo...

- Già, già, - fece Henchy.

Hynes si mise a sedere sull’orlo del tavolo accanto a Lyons, ma non disse nulla.

- Ad ogni modo eccone qua uno che non l’ha rinnegato, - disse Henchy.

- Per Dio, parlo proprio di te, Joe. Gli hai serbato fede tu, da uomo d’onore.

- O Joe, - disse O’Connor ad un tratto. - Facci un po’ sentire quella cosa che hai

scritto: ricordi? Ce l’hai con te?

- È vero. Leggila, - intervenne Henchy. - L’hai mai intesa, Crofton? State a sentire.

È splendida.

- Su, Joe. Dacci sotto, - insisté O’Connor.

Parve che lì per lì Hynes nemmeno si ricordasse la poesia cui alludevano, ma

riflettuto che ebbe, disse:

- Ah, quella... Ma è roba vecchia ormai...

- Non importa... Fuori lo stesso! - disse O’Connor.

- Ssst... Ssst, - fece Henchy. - Forza, Joe.

Hynes esitò ancora. Poi in mezzo al silenzio generale si tolse il cappello, lo posò

sul tavolo e s’alzò in piedi. Pareva si richiamasse i versi alla mente e dopo una

pausa piuttosto lunga annunciò:

IN MORTE DI PARNELL.

6 ottobre 1891.

Si raschiò in gola una volta o due, poi cominciò:

È morto. Il nostro re senza corona è morto.

O Irlanda piangi in lutto e in dolore

Poiché freddo giace colui che il branco

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Dei moderni ipocriti abbatté!

Ucciso giace dalla canea codarda

Ch’egli dal fango avea levata a gloria

E d’Irlanda le spemi, d’Irlanda i sogni

Periscono sul rogo del suo sovrano.

In palazzo, in tana od in tugurio,

Ovunque batta, il cuore irlandese

Infranto è dal dolore, poi ch’è scomparso

Colui che il suo destino forgiato avrebbe

Colui che la sua Irlanda famosa avrebbe reso

Spiegando a gloria la bandiera verde

E capi, bardi, guerrieri innalzati

Al rispetto del mondo.

Sognava (non fu che un sogno ahimè)

Sognava di libertà: ma mentre l’idol suo

D’afferrar tentava,

Il tradimento glielo strappò.

Infamia ai codardi, alle ignobili mani

Che il lor Signore colpirono, o con un bacio

Lo consegnarono alla turba ostile

Dei preti adulatori, suoi nemici.

Che un’eterna infamia consumi

Chi d’insozzar tentò la sua memoria

E d’avvilire il nobil nome di colui

Che tutti nel suo orgoglio disprezzò.

Cadde come cadono i potenti

Nobilmente indomato sino alla fine

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E congiunto adesso lo ha la morte

D’Irlanda ai morti eroi.

Che il sonno non gli turbi clamor di lotta,

Riposi in pace: non umano dolore

Né ambizione lo spinga ora

Verso le cime della gloria.

Vi son riusciti. L’hanno abbattuto.

Ma tu Irlanda ascolta:

Potrà ancora il suo spirto risorger dalle fiamme

Come fenice allo spuntar del giorno

Del giorno che porterà la Libertà

E possa ben l’Irlanda allora

Nella coppa alla gioia alzata mischiare

Un sol dolore: il rimpianto di Parnell.

Hynes tornò a sedersi sul tavolo. Seguì un silenzio, poi uno scoppio d’applausi.

Applaudì anche Lyons. Gli applausi durarono un bel po’. Cessati che furono, tutti

gli ascoltatori bevvero alla bottiglia in silenzio. Poc! Il tappo della bottiglia di

Hynes saltò in aria ma Hynes, rosso in viso e a capo scoperto, rimase fermo al

tavolo. Pareva non avesse udito l’invito.

- Bravo il nostro Joe, - disse O’Connor tirando fuori tabacco e cartine per meglio

nascondere la sua emozione. - Che te ne pare, Crofton? - gridò Henchy. - Bello,

eh?

Crofton disse che era proprio scritto bene.

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Una madre

Era già quasi un mese che il signor Holohan, segretario aggiunto dell’Associazione

«Eire Abu», girava in lungo e in largo tutta Dublino con le mani e le tasche piene

di cartacce sporche, allo scopo di organizzare un ciclo di concerti. Era zoppo da

una gamba e perciò gli amici lo chiamavano Hoppy Holohan. Girava con costanza

in su e in giù e per ore e ore se ne stava a discutere la faccenda sulle cantonate,

prendendo appunti su appunti. Ma in definitiva fu la signora Kearney a

combinare tutto.

La signorina Devlin era diventata signora Kearney suo malgrado. L’avevano

educata in un convento di classe dove aveva appreso musica e francese, ma

poiché era piuttosto scialba per natura e rigida di modi, a scuola si era fatta

poche amiche. Giunta che fu in età da marito venne mandata in qua e in là ospite

presso diverse famiglie, dove le sue abilità di pianista e gli atteggiamenti eburnei

riscossero la dovuta ammirazione. Sedeva immobile nella gelida cerchia delle sue

virtù e attitudini, in attesa che un qualche pretendente animoso la varcasse, per

offrirle una vita brillante. Ma i giovanotti che ebbe occasione d’incontrare eran

persone comuni, ed ella non si degnò di dar loro incoraggiamento ma preferì

cercare consolazione alle proprie aspirazioni romantiche in un consumo

abbondante quanto segreto di dolciumi turchi. Arrivata però a un certo limite

d’età e poiché le amiche già cominciavano a mormorare sul conto suo, le mise a

tacere sposandosi il signor Kearney, che teneva negozio di calzature sull’Ormond

Quay.

Era assai più anziano di lei, con un gran barbone bruno da cui escivano ad

intervalli discorsi in genere molto sensati. Dopo il primo anno di vita coniugale la

signora Kearney si rese conto che un marito simile faceva più al caso di qualsiasi

poeta, e ciò senza d’altra parte rinnegare i propri romanticismi. Era uomo sobrio,

meticoloso e pio. Ogni primo venerdì del mese accostava il sacramento della

Comunione, a volte in compagnia della moglie, più sovente solo. Ma non per

questo i sentimenti religiosi della donna ne resultarono affievoliti e in complesso

ella gli fu compagna fedele. Ai ricevimenti in casa d’estranei le bastava sollevare

appena il sopracciglio perché il marito s’alzasse subito a prender congedo; e

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quando la tosse lo tormentava, non mancava mai di preparargli un bel ponce

bollente e di mettergli il piumino ai piedi. Dal canto suo egli era un padre

modello. Mediante un piccolo versamento settimanale aveva accantonato per

entrambe le figlie una dote di cento sterline per quando avessero raggiunto i

ventiquattr’anni d’età. La maggiore, Kathleen, l’aveva mandata in un buon

convento a imparare a sua volta musica e francese e in seguito le aveva anche

pagato le tasse al Conservatorio. Ogni anno poi, a luglio, la signora Kearney

trovava sempre il modo di annunciare alle amiche:

- Il mio caro marito ci manda a Skerries per qualche settimana.

E se non era Skerries, era Howth o Greystone.

Allorché si cominciò a parlare del movimento di rinascita nazionale, la signora

Kearney decise di trar profitto del nome della figliola e si prese in casa

un’istitutrice irlandese. Kathleen e la sorella inviavano regolarmente alle amiche

cartoline illustrate a soggetto irlandese e quelle rispondevano con altre non meno

irlandesi. Certe domeniche, quando il signor Kearney si recava con la famiglia alla

messa della parrocchia, finita la funzione, un crocchio di gente si riuniva

all’angolo di Cathedral Street. Erano tutti amici dei Kearney - musicisti e

nazionalisti - e dopo aver scambiato le solite quattro chiacchiere si stringevano

l’un l’altro la mano ridendo di quell’incrociarsi complicato, e si salutavano in

irlandese. In breve il nome della signorina Kathleen Kearney cominciò a circolare

di bocca in bocca. Dicevano ch’era ragazza assai graziosa nonché eccellente

musicista e per di più fautrice del movimento di rinascita linguistica. La signora

Kearney era soddisfatta. E non rimase così minimamente sorpresa il giorno che il

signor Holohan venne da lei a proporle che la figliola accompagnasse una serie di

quattro concerti che l’Associazione aveva intenzione di dare nei locali dell’«Antient

Concert». Lo portò in salotto, lo fece accomodare e tirò fuori la caraffa e la scatola

d’argento dei biscotti.

Entrò insomma anima e corpo nel vivo dell’impresa, consigliò e dissuase e

finalmente venne steso regolare contratto secondo il quale Kathleen, nella sua

qualità di accompagnatrice dei quattro concerti, avrebbe ricevuto la somma di

otto ghinee. Poiché il signor Holohan non era che un novizio nell’arte delicata di

redigere avvisi e circolari e disporre i numeri di un programma, la signora

Kearney lo aiutò. Aveva tatto, lei. Sapeva quali nomi d’artisti andavano stampati

in grassetta e quali no. Sapeva che al tenore non riuscirebbe gradito esser messo

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dopo il comico signor Meade. E per tenere sempre desta l’attenzione del pubblico,

s’adoperò ad inserire pezzi di esito dubbio fra quelli a successo garantito. Il signor

Holohan passava da casa sua ogni giorno per consultarla su qualche punto e

invariabilmente lei si mostrava amichevole e di buon consiglio, quanto mai

ospitale, insomma. Gli metteva dinanzi la caraffa dicendo:

- Ma servitevi, servitevi, signor Holohan.

E mentre lui si serviva, diceva:

- Non fate complimenti, prego.

Tutto andava liscio come l’olio. La signora Kearney comprò da Brown Thomas del

bel raso rosa per guernire il davanti del vestito di Kathleen. Le costò un occhio,

ma in certi casi anche le spese sono giustificate. Pensò perfino ad acquistare una

dozzina di biglietti da due scellini per il concerto finale e li mandò a quegli amici

che altrimenti non sarebbero venuti di certo. Non dimenticò nulla insomma e

grazie a lei fu fatto quanto si doveva. I concerti avrebbero dovuto aver luogo il

mercoledì, il giovedì, il venerdì e il sabato.

La sera del mercoledì però, allorché la signora Kearney arrivò con la figlia

all’«Antient Concert», l’aspetto della cosa non la persuase. Qualche giovanotto con

distintivo azzurro chiaro all’occhiello, oziava nel vestibolo: non c’era nessuno in

abito da sera. Passò oltre con la figliola e una rapida occhiata nella sala

attraverso la porta aperta, le rivelò il motivo di quell’aspetto sfaccendato degli

inservienti. Dapprima si chiese se non avesse sbagliato ora. Ma no, mancavano

venti alle otto.

Nello spogliatoio dietro le quinte venne presentata al signor Fitzpatrick, segretario

dell’Associazione. Sorrise e gli strinse la mano. Era un ometto dalla faccia pallida

e inespressiva ed ella ne notò subito l’accento volgare e la noncuranza con cui

portava il cappello nero, floscio, inclinato da un lato. Teneva in mano un

programma e parlando ne masticava una punta riducendola in poltiglia. Pareva

all’aspetto, uomo da sopportare le contrarietà a cuor leggero.

Ad ogni istante, invece, il signor Holohan si precipitava a portare notizie dal

botteghino e gli artisti discorrevano nervosi fra loro guardandosi di tanto in tanto

allo specchio e arrotolando e srotolando i fogli di musica. Quando fu vicina la

mezza, il poco pubblico in sala cominciò ad esprimere il desiderio che si desse

inizio allo spettacolo. Il signor Fitzpatrick entrò col suo sciocco sorriso e disse:

- Ebbene signore e signori sarà meglio aprire il... ballo.

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Accolta quest’ultima sciocca parola con una rapida occhiata di sdegno, la signora

Kearney si rivolse alla figlia in tono d’incoraggiamento.

- Sei pronta, cara?

Ma appena ne ebbe l’occasione, chiamò il signor Holohan da parte e gli chiese

cosa significasse quella storia. Il signor Holohan rispose che non lo sapeva. Disse

che il comitato aveva sbagliato a organizzare quattro concerti: erano troppi,

quattro.

- E gli artisti, poi, - osservò la signora Kearney, - faranno del loro meglio magari,

ma non si può certo dire che valgano molto.

Il signor Holohan ammise che sì, gli artisti non erano un gran che ma il comitato,

disse, aveva deciso di lasciar correre per i primi tre concerti e riservare tutte le

risorse per quello del sabato sera.

La signora Kearney tacque, ma via via che i numeri mediocri si susseguivano

sulla pedana, e lo scarso pubblico in sala si faceva sempre più rado, cominciò a

rimpiangere in cuor suo d’essersi messa nelle spese per una simile impresa. C’era

in tutto l’insieme qualcosa che non le andava e il sorriso ebete del signor

Fitzpatrick la irritava moltissimo. Non disse nulla però e aspettò di vedere come

sarebbe finita. Il concerto terminò in tronco prima delle dieci e ognuno s’affrettò a

tornare a casa propria.

Il concerto del giovedì richiamò più gente ma la signora Kearney s’accorse subito

che per la maggior parte erano biglietti di favore. Il pubblico infatti si comportava

in modo indecoroso, come se invece di un concerto si fosse trattato di una sfilata

di modelli senza pretese. Il signor Fitzpatrick aveva l’aria di godersela un mondo.

Stava in piedi ad un estremo del sipario e, completamente ignaro delle occhiate

velenose di cui lo saettava la signora Kearney, a ogni momento cacciava fuori la

testa e scambiava una risata con due amici che si trovavano in un angolo della

galleria. Nel corso della serata la signora Kearney apprese che il concerto del

venerdì sarebbe stato sospeso e che il comitato avrebbe messo in moto cielo e

terra per assicurarsi un pienone il sabato sera. Udito ciò, andò senz’altro in cerca

del signor Holohan. Gli attaccò un bottone proprio mentre quello, zoppicando,

s’industriava a portare un bicchiere di limonata a una damigella e gli domandò se

era vero. Sì, era vero.

- Questo naturalmente non altera il contratto, - essa disse. - Il contratto parla di

quattro concerti.

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Parve che il signor Holohan avesse molta fretta. La consigliò di parlarne col signor

Fitzpatrick. Ora la signora Kearney cominciava a sentirsi un po’ allarmata. Andò

a scovare il signor Fitzpatrick nel suo posto d’osservazione e gli disse che la

figliola si era impegnata per quattro concerti e che a termine del contratto

avrebbe dovuto ricevere la somma pattuita, sia che l’Associazione desse i concerti

o no. Il signor Fitzpatrick, il quale non pareva aver afferrato il punto in questione,

si dichiarò incapace di risolvere il problema e disse che lo avrebbe sottoposto al

parere del comitato. Per la rabbia alla signora Kearney cominciarono a tremare le

guance e si trattenne a stento dal chiedergli:

- Ma scusate, chi è questo Comitato?

Capì però che non sarebbe stato distinto e tacque.

Il venerdì mattina, schiere di ragazzi vennero sguinzagliate per le vie di Dublino

con pacchi di manifestini e nei giornali della sera apparvero annunci speciali che

ricordavano agli appassionati di musica il trattenimento loro riservato per la sera

del giorno seguente. La signora Kearney si sentì in certo qual modo rassicurata

ma credette bene far parte al marito dei suoi timori. Egli ascoltò attento e decise

che sarebbe stato opportuno venisse anche lui la sera di sabato. Ella acconsentì.

Rispettava il marito alla stessa maniera che rispettava l’Ufficio Centrale delle

Poste, come qualcosa cioè d’imponente, di stabile e di sicuro, e pur essendo

convinta delle scarse risorse della sua intelligenza, non poteva non apprezzarne il

valore astratto in quanto maschio. Fu contenta che avesse suggerito di

accompagnarle e ricapitolò i suoi piani di combattimento.

Si arrivò così alla sera del gran concerto.

La signora Kearney con la figlia e il marito arrivarono all’«Antient Concert» tre

quarti d’ora prima dell’inizio. Per disgrazia pioveva. Affidati al marito il mantello e

la musica della figliola, la signora andò in giro per tutto l’edificio in cerca del

signor Holohan o del signor Fitzpatrick. Ma non le riuscì di trovare né l’uno né

l’altro. Chiese allora agli inservienti se ci fosse in sala qualcuno del comitato e,

dopo essersi dato un gran daffare, uno di essi tornò alla fine con una donnetta,

certa signorina Beirne, alla quale la signora Kearney spiegò che aveva bisogno di

vedere uno dei segretari. La signorina Beirne li aspettava da un momento all’altro,

e chiese se poteva essere utile. Ma la signora Kearney, dopo averne scrutato la

vecchia faccia avvizzita, tesa in un’espressione fiduciosa e entusiasta, disse:

- No, grazie.

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La donnetta sperava che venisse gente quella sera. Guardava fuori della porta la

pioggia, finché la melanconia della strada bagnata non le ebbe cancellato dal viso

grinzoso ogni traccia di fiducia e di entusiasmo.

Dette allora in un sospiro e disse:

- Be’, Dio solo lo sa se abbiamo fatto del nostro meglio.

La signora Kearney se ne dovette tornare nello spogliatoio.

Cominciavano ad arrivare gli artisti. Il basso e il secondo tenore erano già venuti.

Il basso, signor Duggan, un giovanotto snello con radi baffi neri, era figlio del

portinaio di un ufficio cittadino e da ragazzo aveva fatto risuonare di lunghe note

basse tutto l’androne. Da quell’umile condizione si era elevato al prestigio di un

artista di cartello. Aveva cantato anche all’Opera. Una sera che uno degli artisti

era indisposto, aveva sostenuto la parte del Re nell’opera “Maritana” al Queen’s

Theatre. Aveva cantato con gran sentimento e volume di voce, riscuotendo i

calorosi applausi del loggione, ma disgraziatamente aveva sciupato l’ottima

impressione fatta, pulendosi il naso una volta o due con la mano guantata, per

distrazione. Era uomo di poche pretese e parlava poco. I suoi «voi» li mormorava

con tanta dolcezza da farli passare addirittura inosservati e per riguardo alla voce

non beveva che latte. Il secondo tenore, invece, signor Bell, era un omettino

biondo che ogni anno regolarmente concorreva ai premi della Feis Cecil. Al quarto

tentativo gli era stata concessa una medaglia di bronzo. Nervoso e geloso

all’estremo degli altri tenori, nascondeva questa sua gelosia e nervosismo sotto un

eccesso di cordialità. Aveva il vezzo di far sapere a tutti quale cimento era un

concerto per lui e così appena vide il signor Duggan, gli s’avvicinò chiedendogli:

- Ci siete dentro anche voi, eh?

- Già, - rispose quello.

Il signor Bell sorrise al suo compagno di sventura e con gesto energico gli disse:

- Qua la mano!

Passando dinanzi a questi due giovanotti la signora Kearney s’accostò a un lembo

del sipario per dare un’occhiata in sala. I posti s’andavano riempiendo

rapidamente e un piacevole brusìo circolava nel pubblico. Tornò indietro e si

confidò col marito. Soggetto del loro colloquio doveva essere Kathleen poiché tutti

e due si voltavano sovente a guardarla mentre quella chiacchierava con una delle

sue amiche nazionaliste, la signorina Healy, il contralto.

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Una sconosciuta sola e pallida in viso traversò la stanza. Le donne seguirono con

occhio attento l’abito d’un azzurro sbiadito appeso ad un corpo magrissimo.

Qualcuno disse che era la signora Glynn, il soprano.

- Mi domando dove l’abbiano pescata, - disse Kathleen alla signorina Healy, - io

non ne ho mai sentito parlare.

La signorina Healy non poté trattenere un sorriso. In quel momento entrò

zoppicando il signor Holohan e le due fanciulle gli chiesero chi era la sconosciuta.

Era la signora Glynn di Londra, rispose il signor Holohan. La signora Glynn si

ritirò in un angolo della stanza tenendosi il rotolo di musica dritto dinanzi e

mutando ad ogni istante di direzione allo sguardo spaurito: l’ombra accolse

benigna l’abito stinto ma in compenso cadde vendicativa sull’incavo della

clavicola.

Il brusìo della sala si faceva sempre più distinto. Il primo tenore e il baritono

arrivarono insieme. Erano ben vestiti tutti e due, grassi e cordiali, e portarono nel

gruppo quasi un soffio di opulenza. La signora Kearney li avvicinò con la figlia e

attaccò discorso in tono amabile. Voleva trovarsi in buoni termini con loro, ma

pur sforzandosi di mostrarsi gentile, il suo sguardo non poteva trattenersi dal

seguire le zoppicanti e complicate evoluzioni del signor Holohan. Appena le fu

possibile, si scusò e lo raggiunse.

- Signor Holohan, avrei bisogno di parlarle un momento.

Si ritirarono in un angolo appartato del corridoio e la signora Kearney chiese

quando avrebbe pagato la figliola. Il signor Holohan rispose che la cosa era di

spettanza del signor Fitzpatrick. Ma la signora Kearney ribatté che lei non

conosceva nessun signor Fitzpatrick e che la figlia aveva firmato un contratto per

otto ghinee e intendeva di essere pagata.

Il signor Holohan disse che non era affar suo.

- Come non è affar vostro? - lo interruppe la signora Kearney. - Non siete stato

proprio voi a portarle il contratto? In ogni modo se non è affar vostro è affar mio e

terrò gli occhi bene aperti.

- Sarà meglio che ne parliate al signor Fitzpatrick, - tornò a riaffermare con forza

il signor Holohan.

- Non conosco nessun Fitzpatrick, io, - ripeté la signora Kearney. - Ho un

contratto e intendo venga osservato.

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Quando rientrò nel ridotto aveva le guance un po’ arrossate. C’era animazione

adesso nella sala. Due uomini in soprabito si erano impadroniti del caminetto e

chiacchieravano familiarmente con la signorina Healy e il baritono. Erano il

cronista del «Freeman» e il signor O’Madden Burke. Il cronista era venuto per

avvertire che non gli era possibile aspettare il concerto perché doveva assistere

alla conferenza di un prete americano alla Mansion House: potevano lasciare il

resoconto a suo nome al giornale e avrebbe poi provveduto lui a farlo passare. Era

un uomo cauto di modi, coi capelli grigi e la voce suadente. Teneva fra le dita un

sigaro spento e un aroma di tabacco gli fluttuava intorno. Veramente non aveva

nessuna intenzione di trattenersi perché concerti e artisti lo seccavano, invece

rimaneva lì, appoggiato al camino. La signorina Healy gli stava di fronte e parlava

e rideva. Era già vecchio abbastanza per intuire il motivo di tante attenzioni, ma

anche abbastanza giovane di spirito per trarne profitto. Il calore, il profumo e i

colori stessi del corpo della fanciulla gli eccitavano i sensi. Notava con piacere il

seno che s’alzava e s’abbassava lento sotto i suoi occhi e capiva che in quel

momento s’alzava e s’abbassava per lui e che le risa, il profumo, gli sguardi

attenti ed ansiosi erano in suo omaggio. Quando sentì di non potersi proprio

trattenere oltre, si accomiatò con rimpianto.

- L’articolo lo scriverà O’Madden Burke e io vedrò di farlo passare, - spiegò al

signor Holohan.

- Grazie infinite, signor Hendrick. Sono certo che non ve ne dimenticherete. Non

gradireste qualcosa prima di andarvene?

- Volentieri.

Traversati corridoi tortuosi e salita una scaletta buia i due uomini arrivarono

finalmente a una stanza appartata dove un inserviente stava sturando bottiglie a

beneficio di una ristretta cerchia di signori. Fra questi c’era O’Madden Burke che

aveva trovato la stanza d’istinto. Era un uomo affabile, di mezza età, il quale, da

fermo, soleva bilanciare l’imponenza della persona su un voluminoso ombrello di

seta, allo stesso modo che usava, a mo’ d’ombrello morale, la magniloquenza del

proprio nome irlandese per bilanciarvi il delicato problema delle sue finanze. Lo

stimavano tutti.

Mentre Holohan intratteneva il cronista del «Freeman», la signora Kearney stava

parlando al marito in tono talmente animato ch’egli dovette pregarla d’abbassare

la voce. Nel ridotto la conversazione generale cominciava a farsi difficile. Il primo

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numero, signor Bell, era già pronto con la musica in mano ma l’accompagnatrice

non si muoveva. Evidentemente c’era qualcosa che non andava. Il signor Kearney

guardava dritto di fronte a sé e si lisciava la barba, e la signora Kearney parlava

con enfasi trattenuta all’orecchio di Kathleen. Dalla sala veniva un rumoreggiare

impaziente, applausi, pestar di piedi. Il primo tenore, il baritono e la signorina

Healy, raccolti in gruppo, aspettavano tranquilli ma il signor Bell era agitatissimo

perché temeva che il pubblico credesse ch’era lui in ritardo.

Finalmente entrarono Holohan e il signor O’Madden Burke. A Holohan bastò

un’occhiata per rendersi conto della situazione. Abbordò la signora Kearney e

prese a parlarle animatamente. Intanto in sala i rumori aumentavano. Holohan

era tutto rosso in viso e eccitato. Un profluvio di parole gli usciva di bocca, ma la

signora Kearney si limitava a ribattere a intervalli in tono reciso:

- No, no. Non si muoverà se non avrà prima le otto ghinee.

Disperato il signor Holohan accennò alla sala dove il pubblico applaudiva e

pestava i piedi, fece appello al signor Kearney e a Kathleen. Ma il primo continuò

a lisciarsi la barba e la seconda a tenere lo sguardo fisso a terra dimenando la

punta delle scarpette nuove: non era colpa sua. La signora Kearney ripeteva:

- Non si muoverà senza le sue otto ghinee.

Dopo un ultimo battibecco Holohan arrancò fuori dell’uscio. Cadde un silenzio. E

quando la tensione di questo silenzio diventò in certo qual modo penosa, la

signorina Healy chiese al baritono:

- Non avete inteso la Campbell questa settimana?

No, il baritono non l’aveva intesa, ma gli avevano detto che era bravissima. La

conversazione non andò oltre. Il primo tenore abbassò il capo e prese a contarsi le

maglie della catena d’oro che aveva al panciotto, sorridendo e emettendo note a

caso per studiarne l’effetto sul “sinus” frontale. Di tanto in tanto ognuno lanciava

un’occhiata alla signora Kearney.

I rumori in sala si erano trasformati in clamore vero e proprio quando il signor

Fitzpatrick, seguito dall’ansante signor Holohan, si precipitò nella stanza. Adesso

gli applausi e il pestare di piedi erano sottolineati da fischi. Il signor Fitzpatrick

teneva in mano delle banconote. Ne contò quattro alla signora Kearney e disse

che il resto lo avrebbe avuto nell’intervallo. La signora Kearney osservò:

- Mancano quattro scellini.

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Kathleen allora si raccolse la gonna e disse al secondo tenore che tremava come

una foglia: - Andiamo, signor Bell. - Cantante e accompagnatrice uscirono

insieme. Il brusìo della sala si smorzò poco a poco. Una pausa di pochi secondi,

poi si udì il suono del pianoforte.

La prima parte del concerto ebbe un certo successo, eccetto il numero della

signora Glynn. La poveretta cantò “Killarney” con voce flebile e strozzata e in più,

tutti i manierismi antiquati d’intonazione e pronuncia che, secondo lei, avrebbero

dovuto aggiungere eleganza al suo canto.

Aveva l’aria d’esser stata tirata fuori da qualche vecchio guardaroba teatrale e su

in loggione si prendevano in ridere le sue note acute e lamentose. Il primo tenore

e il contralto, invece, fecero addirittura crollare il soffitto. Kathleen eseguì poi al

pianoforte una serie scelta di arie irlandesi che vennero generosamente

applaudite, e la prima parte si concluse con la recita di un brano altamente

patriottico, fatta da una signorina che era solita organizzare recite di

filodrammatici. Anch’essa ricevette la sua brava dose d’applausi e calato che fu il

sipario, gli uomini uscirono per l’intervallo pienamente soddisfatti.

Lo spogliatoio intanto pareva un alveare in subbuglio. In un angolo si erano

riuniti il signor Holohan, il signor Fitzpatrick, la signorina Beirne, due inservienti,

il basso, il baritono e O’Madden Burke.

O’Madden Burke diceva di non aver mai visto uno scandalo simile, e che, dopo

quel fatto, certo la carriera musicale di Kathleen Kearney si poteva dire finita a

Dublino. Venne chiesto al baritono cosa pensava della condotta della signora

Kearney. Ma quello rifiutò di pronunciarsi: era stato pagato, lui, e voleva rimanere

in pace con tutti. Disse però che la signora avrebbe dovuto avere un po’ più di

riguardo per gli artisti. Inservienti e segretari, dal canto loro, discutevano

animatamente su quanto si sarebbe dovuto fare venuto l’intervallo.

- Per me sono d’accordo con la signorina Beirne, - dichiarò O’Madden Burke. -

Niente soldi.

In un altro angolo della stanza c’erano la signora Kearney, il marito, il signor Bell,

la signorina Healy e la signorina che doveva recitare il brano patriottico. La

signora Kearney sosteneva che il comitato l’aveva trattata in un modo

abbominevole. Non s’era risparmiata né fatiche né spese ed ecco la ricompensa.

Credevano di avere a che fare con una ragazza e di poterla aggiustare a comodo

loro, ma gli avrebbe fatto vedere lei che si sbagliavano. Se fosse stata un uomo

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non si sarebbero azzardati a trattarla a quel modo. I diritti della figliola però li

avrebbero rispettati ad ogni costo: non aveva nessuna intenzione di farsi prendere

in giro. Se non pagavano fino all’ultimo centesimo avrebbe messo sossopra tutta

Dublino. Certo le dispiaceva per gli artisti. Ma che altro poteva fare? Si rivolse al

secondo tenore il quale ammise che in verità non era quello il modo di

comportarsi. Domandò poi il parere della signorina Healy. Questa veramente si

sarebbe aggregata volentieri al gruppo avversario, ma era grande amica di

Kathleen e i Kearney l’avevano invitata spesso a casa loro, così non ne ebbe il

coraggio.

Non appena finì la prima parte, il signor Fitzpatrick e il signor Holohan

abbordarono la signora Kearney e le dissero che le altre quattro ghinee le

sarebbero state pagate dopo la riunione del comitato, il martedì seguente e nel

caso che la figlia si fosse rifiutata di suonare nella seconda parte, il comitato

avrebbe ritenuto sciolto il contratto e non avrebbe pagato più un soldo.

- Non conosco comitati, - ribatté la signora Kearney rabbiosamente. - Mia figlia ha

il suo contratto. O le sborsate le quattro ghinee sonanti o non metterà piede sul

palcoscenico.

- Mi meraviglio di voi, signora Kearney, - esclamò Holohan. - Non mi sarei mai

immaginato che ci trattaste così!

- E voi allora, come mi avete trattato, - lo rimbeccò la signora Kearney.

Si era fatta rossa in viso per la collera e pareva fosse lì lì per saltargli agli occhi. -

Sono nel mio pieno diritto, io!

- Potreste avere un po’ più di creanza però, - disse Holohan.

- Davvero, eh?... Ma quando vi chiedo se mia figlia verrà pagata o no, non riesco a

cavarvi una risposta civile -. Scosse la testa e prese un tono altezzoso. - Parlatene

al segretario. Non é affar mio. Io qui, io là...

- Ah, e io che vi credevo una signora! - la interruppe Holohan allontanandosi

brusco.

Dopo di ciò la condotta della signora Kearney venne condannata all’unanimità e

tutti approvarono le decisioni del comitato. Cieca di rabbia se ne stava sull’uscio

a discutere con la figlia e il marito, gesticolando. Aspettò fino all’inizio della

seconda parte nella speranza che qualcuno dei segretari venisse a patti. Ma la

signorina Healy aveva gentilmente consentito ad accompagnare un pezzo o due e

la signora Kearney dovette tirarsi da parte per dare il passo al baritono e

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all’accompagnatrice. Per un attimo rimase ancora lì immobile come statua

iraconda e quando le giunsero le prime note del canto, agguantò il mantello della

figliola e disse al marito:

- Fai venire una carrozza.

Egli obbedì all’istante. La signora Kearney avvolse la figlia nel mantello e gli tenne

dietro. Ma sulla soglia si fermò e fissando bene in faccia il signor Holohan gli

disse:

- Non vi ho ancora detto la mia ultima parola!

- Ma io vi ho detto la mia! - ribatté Holohan.

Avvilita Kathleen seguì la madre. E il signor Holohan prese a passeggiare in su e

in giù per la stanza per calmarsi, perché si sentiva avvampare.

- E questa sarebbe una signora! Accidenti, che signora!

- Le avete dato il fatto suo, Holohan, - disse O’Madden Burke appoggiandosi

all’ombrello, in tono di approvazione.

Page 117: James joyce   gente di dublino

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La grazia

Due signori che in quel momento si trovavano al lavabo cercarono di rialzarlo: ma

era come peso morto. Giaceva piegato in due ai piedi delle scale dalle quali era

caduto e a stento riuscirono a rivoltarlo supino. Il cappello gli era rotolato pochi

metri più in là e la fanghiglia del pavimento su cui era rimasto a faccia all’ingiù,

gli aveva imbrattato i vestiti. Teneva gli occhi chiusi e respirava a fatica con una

specie di grugnito: un filo di sangue gli colava dall’angolo della bocca.

I due signori assieme a uno degli inservienti lo portarono su per le scale e lo

ridistesero a terra nel bar. Due minuti dopo c’era intorno una cerchia di gente. Il

direttore del locale chiese a tutti chi era e con chi stava. Non lo sapeva nessuno,

ma un cameriere disse di avergli servito un bicchierino di rum.

- Era solo? - chiese il direttore.

- Nossignore. Stava assieme a altri due.

- E dove sono?

Nessuno lo sapeva. Una voce disse:

- Dategli aria. È svenuto.

La cerchia degli spettatori si distese e poi restrinse di nuovo, come un elastico.

Sul pavimento a mosaico, intorno alla testa, gli s’era formata una scura medaglia

di sangue. Allarmato dal pallore terreo del viso, il direttore mandò a chiamare un

agente.

Gli slacciarono cravatta e colletto. Per un istante aprì gli occhi, sospirò e li

richiuse. Uno dei signori che avevano aiutato a portarlo di sopra, reggeva in mano

una tuba ammaccata. Il direttore tornò a chiedere ripetutamente se nessuno

sapeva chi fosse il ferito e dove erano andati a finire i suoi amici. In quella, la

porta del bar si aprì ed entrò un poliziotto enorme. La folla che lo aveva seguito

lungo la strada si raccolse fuori dell’uscio spingendosi per vedere da dietro i vetri.

Il direttore prese subito a riferire quanto sapeva. L’agente, un giovanotto dalle

fattezze ottuse e grossolane, ascoltava muovendo adagio il capo da sinistra a

destra, dal direttore all’uomo disteso sul pavimento, quasi temesse di essere

vittima di qualche imbroglio. Poi si tolse un guanto, sfilò dal panciotto un

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taccuino, leccò la punta della matita e si accinse a redigere il rapporto. Chiese

con sospettoso accento provinciale:

- Chi è? Il nome? L’indirizzo?

Un giovane vestito da ciclista si fece strada attraverso la cerchia dei presenti,

s’inginocchiò pronto accanto al ferito e chiese dell’acqua. Anche l’agente si chinò

per aiutare. Il giovane lavò il sangue della bocca e chiese poi dell’acquavite, ordine

che il poliziotto ripeté in tono autoritario finché un inserviente non arrivò

correndo col bicchiere. Gliela buttarono giù a forza e pochi secondi dopo l’uomo

apriva gli occhi e si guardava intorno. Guardò le facce che lo circondavano, poi,

comprendendo, tentò di sollevarsi.

- Va meglio adesso? - gli domandò il giovane vestito da ciclista.

- Sì, sì... Fa niente, - biascicò il ferito sforzandosi di alzarsi in piedi.

Gli vennero in aiuto. Il direttore fece il nome di un ospedale e fra i presenti ci

s’affrettò a dar consigli. Gli misero in testa la tuba ammaccata. L’agente chiese:

- Dove abitate?

Invece di rispondere l’uomo prese a tormentarsi i baffi, incerto. Non dava

importanza all’incidente. - Una cosa da nulla, - diceva, - una disgrazia -. Parlava

con la lingua grossa.

- Dove abitate? - ripeté l’agente.

L’uomo disse che gli chiamassero una carrozza. Mentre discutevano, un signore

alto, snello, chiaro di colorito e con un lungo impermeabile giallino indosso, si

fece avanti dal fondo del bar e vista la scena, gridò:

- Ehi, Tom, vecchio mio... Che ti succede?

- H’m... Nulla, - fece l’uomo.

Il nuovo venuto diede un’occhiata alla deplorevole figura che gli stava dinanzi, poi

si rivolse all’agente:,

- Potete andare. Penserò io a portarlo a casa.

L’agente si toccò l’elmetto e rispose:

- Benissimo, signor Power.

- Andiamo Tom, - disse il signor Power prendendo l’amico per un braccio. - Nulla

di rotto, no? Puoi camminare?

Il giovane vestito da ciclista lo prese dall’altra parte e la folla si aprì per lasciarli

passare.

- Come hai fatto a ridurti in questo stato? - chiese Power.

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- Il signore è caduto per le scale, - spiegò il giovane.

- Vi’ono g’ato... mo’to g’ato, - biascicò il ferito.

- Macché, vi pare!

- Che... che di’este d’u... d’un bicchiÈino?

- Più tardi, più tardi.

I tre uomini lasciarono il bar e la folla si riversò nella strada. Il direttore condusse

il poliziotto sulle scale perché esaminasse il luogo dell’incidente. Convennero che

quel signore doveva aver fatto un passo falso. Gli avventori tornarono al banco e

un inserviente si mise a togliere le macchie di sangue dal pavimento.

Sboccati che furono in Grafton Street, Power chiamò una carrozza. Il ferito tornò

a dire meglio che poté:

- Vi’ono g’ato... mo’to g’ato. Spe’o ci ‘ived’emo p’esto. Mi ‘iamo Ke... Ke’nan.

Lo “choc” e il dolore incipiente lo avevano in parte fatto tornare in sé.

- Prego, prego, - disse il giovane.

Si strinsero la mano. Il signor Kernan venne issato in vettura e, mentre Power

dava l’indirizzo al conducente, espresse al giovane tutta la sua gratitudine e il

rincrescimento di non poterne bere un goccio insieme.

- Sarà per un’altra volta, - disse il giovane.

La carrozza s’avviò in direzione di Westmoreland Street. Nel momento in cui

passavano dinanzi al Ballast Office suonarono le nove e mezzo all’orologio. Dalla

foce del fiume soffiava un vento tagliente che li sferzava in viso e Kernan si

raggomitolava tutto per il freddo. L’amico gli chiese com’era andata.

- No... non po...sso, - rispose. - Ma’e a’a ‘ingua.

- Fa’ vedere.

Si chinò e gli guardò in bocca ma non riuscì a veder nulla. Accese allora un

fiammifero e riparandolo col cavo della mano tornò a guardarvi mentre Kernan

gliela mostrava docile. Allo sballottìo della vettura il fiammifero oscillava in qua e

in là davanti alla bocca aperta. I denti inferiori e le gengive erano tutti coperti di

sangue rappreso e doveva essersi staccato un pezzetto di lingua. Il fiammifero si

spense.

- Brutto affare, - disse Power.

- H’m... Fa nulla, - fece Kernan chiudendo la bocca e rialzandosi il bavero della

giacca.

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Kernan era un rappresentante di commercio della vecchia scuola, di quelli che

credono ancora nella dignità della professione. Non c’era pericolo che si facesse

vedere in città senza una tuba decorosa e un paio di ghette. Grazie a questi due

capi di vestiario, sosteneva, ci si può presentare dovunque. Continuava insomma

la tradizione del suo Napoleone, il gran Blackwhite, del quale evocava spesso il

ricordo sia con aneddoti che con riuscite imitazioni. Adesso però i moderni metodi

d’affari gli permettevano di tenere solo un modesto ufficio nella Crowe Street, che

portava scritto in vetrina il nome della sua Ditta e l’indirizzo: “London E. C.” Sul

caminetto di questo ufficio si allineava un vero e proprio esercito di scatolette di

latta e sul tavolo dinanzi alla finestra stavano di solito quattro bricchi di

porcellana riempiti a metà di un liquido nero. Era da questi bricchi che Kernan

faceva l’assaggìo del tè. Ne prendeva una sorsata, se ne sciacquava la bocca fino a

saturarsene il palato e la risputava poi nel camino. Quindi giudicava.

Power invece, di molti anni più giovane, faceva parte della reale gendarmeria di

Dublino e l’arco della sua ascesa sociale coincideva con quello del declino di

Kernan; declino mitigato però dalla stima che certi amici, i quali lo avevano

conosciuto all’apice del successo, gli portavano ancora. Fra questi era appunto

Power i cui debiti inesplicabili avevano finito per diventare proverbiali nella

cerchia delle sue conoscenze. Lo consideravano tutti un bel tipo di mattacchione.

La vettura si fermò davanti a una casa modesta nella Glasnevin Road e Kernan

venne aiutato ad entrare. Mentre la moglie lo metteva a letto, Power rimase giù

dabbasso in cucina a chiacchierare con i bambini, domandando loro dove

andavano a scuola e che libri studiavano.

Questi, un maschietto e due femmine, consci dell’assenza materna e

dell’impotenza del genitore, presero a giocarci insieme ai cavalli con una libertà di

linguaggio e di contegno che lo stupirono. Aggrottò le ciglia soprapensiero. Di lì a

poco la signora Kernan ritornava esclamando:

- Che vergogna! Un giorno o l’altro ci rimetterà la pelle e così finirà la storia. È da

venerdì che beve.

Power s’affrettò allora a spiegare che lui non c’entrava per nulla: era capitato lì

solo per caso. La signora Kernan, memore dei buoni uffici del Power in più di un

domestico litigio, nonché di numerosi prestiti, giunti sempre al momento

opportuno, disse:

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- Oh, non c’è bisogno che me lo diciate. So che siete un vero amico voi, non come

quegli altri con cui va in giro. Quelli son buoni solo a tenerlo lontano dalla moglie

e dai figli, finché ha denaro in tasca. Begli amici! Mi piacerebbe sapere con chi era

stasera...

Power scosse il capo, ma non disse nulla.

- Mi dispiace non aver nulla da offrirvi qui in casa. Ma se avete la pazienza

d’aspettare un minuto, mando da Fogarty alla cantonata... Power s’alzò.

- Aspettavamo che tornasse coi soldi. Ma per lui, è lo stesso che non averla la

famiglia...

- Su, su signora. Gli faremo mutar vita, vedrete. Ne parlerò a Martin. È l’uomo

adatto. Verremo qui una di queste sere e combineremo.

Lo accompagnò fino alla porta. Il vetturino passeggiava in su e in giù per il

marciapiedi battendo i piedi e agitando le braccia per riscaldarsi.

- Siete stato gentile a riportarmelo a casa.

- Ma vi pare...

Salì in carrozza e mentre questa s’avviava fece ancora una scappellata

dicendo con brio:

- Ne faremo un altr’uomo, vedrete. Buona notte, signora Kernan.

La signora Kernan seguì la carrozza con gli occhi perplessi finché scomparve.

Allora li distolse, rientrò in casa e si mise a vuotare le tasche al marito.

Era una donnetta di mezza età, energica e attiva. Non molto tempo addietro aveva

celebrato le nozze d’argento e accompagnata al pianoforte da Power, aveva

rinnovato l’intimità col marito ballando con lui un valzer. Nei tempi in cui le

faceva la corte, Kernan le era apparso una figura non priva di nobiltà e ancora

adesso, ogni volta che veniva annunciato un matrimonio, si affrettava alla chiesa

e vedendo la coppia nuziale non poteva fare a meno di rammentarsi con piacere

di quando anche lei era uscita dalla Stella Maris di Sandymount, al braccio di un

bell’uomo florido e gioviale in marsina, pantaloni color lavanda e tuba

di raso graziosamente in equilibrio sull’altro braccio. Dopo tre settimane la vita di

moglie già le appariva piuttosto pesante e, quando cominciava a trovarla

addirittura insopportabile, s’accorse d’essere incinta. Le funzioni di madre però

non avevano presentato per lei difficoltà insuperabili e per venticinque anni era

riuscita a tener su casa con dignità e accortezza. Ormai i due figli maggiori si

potevano dire lanciati: uno lavorava da sarto a Glasgow e l’altro era impiegato

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presso un negoziante di tè a Belfast. Buoni figlioli tutti e due che scrivevano

regolarmente e a volte mandavano anche denaro. Gli altri andavano ancora a

scuola.

L’indomani il signor Kernan mandò una lettera in ufficio e rimase a letto. La

moglie gli preparò una tazza di brodo e lo sgridò ben bene.

Accettava quelle frequenti intemperanze come conseguenza del clima, lo curava a

dovere ogni volta che era ammalato e non mancava mai di esortarlo a far

colazione la mattina. Ce n’erano di peggio di mariti. Dacché i figli s’erano fatti

grandi non si era più abbandonato a violenze di sorta ed ella sapeva che sarebbe

stato capace di farsi a piedi tutta Thomas Street, andata e ritorno, pur di

accaparrarsi un’ordinazione anche modesta.

Due sere dopo gli amici vennero a trovarlo e la signora Kernan li fece salire su in

camera, che sentiva d’odor di malato e di chiuso, e offrì loro da sedere presso il

fuoco. La lingua di Kernan, che durante il giorno lo aveva tormentato di fitte

continue, diventò più trattabile. Stava seduto sul letto, sorretto dai guanciali, e

quel poco di colore sulle guance le rendeva simili a braci accese. Si scusò con gli

ospiti del disordine della stanza e al tempo stesso li guardò con un certo senso

d’orgoglio, l’orgoglio del veterano.

Non s’immaginava neppure d’essere vittima di un complotto che i suoi amici,

Cunningham, M’Coy e Power avevano già rivelato alla moglie giù in salotto. L’idea

veramente era di Power, ma era a Cunningham che ne avevano affidata

l’attuazione. Kernan veniva da famiglia protestante e sebbene si fosse convertito

alla fede cattolica fin dal tempo del suo matrimonio, da vent’anni almeno era

uscito dal seno della santa Chiesa. Non solo, ma all’occasione non gli dispiaceva

tirar botte mancine al cattolicesimo.

Dato il caso, Cunningham era certo l’uomo che ci voleva. Era più anziano di

Power e suo collega. La sua vita domestica non si poteva dire troppo felice. Lo

sapevano tutti che aveva sposato una donna indegna, un’ubriacona inveterata e

tutti gli dimostravano la dovuta simpatia. Per ben sei volte lo sventurato le aveva

messo su casa ed ogni volta lei gli aveva impegnato la mobilia.

Non c’era chi non portasse rispetto al povero Martin Cunningham, uomo sensato;

influente e di spirito. Brevi immersioni nelle acque di una filosofia generale

avevano temperato in lui la lama di una profonda conoscenza dell’anima umana e

di un’astuzia naturale che il lungo contatto con i casi giudiziari aveva reso anche

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più circostanziata. Era sempre bene informato e gli amici s’inchinavano alle sue

opinioni, tenendo nel dovuto conto il suo aspetto vagamente shakespeariano.

Quando l’avevano messa a parte del complotto, la signora Kernan aveva detto:

- Mi rimetto a voi, signor Cunningham.

Dopo quasi un quarto di secolo di vita matrimoniale le restavano ben poche

illusioni. La religione in lei era diventata pressoché un’abitudine e disperava in

cuor suo che un uomo dell’età del marito mutasse ormai un gran che prima di

morire. Quella disgrazia inoltre non le appariva del tutto immeritata e se non

avesse temuto d’apparir sanguinaria, l’avrebbe detto chiaro e tondo a quei signori

che la lingua del marito non ne avrebbe poi tanto sofferto per essersi scorciata un

po’. D’altra parte Cunningham era uomo capace e la religione é pur sempre la

religione. Il progetto quindi poteva anche riuscire a bene: del male ad ogni modo

non ne avrebbe fatto. La sua fede non soffriva certo esagerazioni: credeva

fermamente nel Sacro Cuore di Gesù come la più utile e diffusa fra tutte le

cattoliche forme di devozione e riconosceva i Sacramenti. La sua fede era limitata

insomma dalla sua cucina: al caso però avrebbe anche potuto credere nei demoni

maligni e nello Spirito Santo.

Gli amici presero senz’altro a parlare dell’incidente. Cunningham dichiarò d’aver

già sentito dire di un altro caso simile. Durante un accesso d’epilessia un vecchio

di settant’anni si era morso la lingua fino a staccarsene un pezzo che era però

tornato a ricrescere così che non si vedeva più traccia alcuna del morso.

- Be’, settant’anni io non li ho ancora, - osservò l’invalido.

- Dio ne guardi! - fece Cunningham.

- E adesso non ti fa male? - chiese M’Coy.

Ai suoi tempi M’Coy era stato tenore di certa fama. La moglie, un ex soprano,

seguitava tuttora a dar lezioni di piano ai bambini a condizioni mitissime. Non si

poteva dire che il corso della sua vita costituisse una retta costante, ché anzi per

lo più gli era toccato arrangiarsi a furia di espedienti. E a turno era stato

impiegato presso la Compagnia Ferroviaria del Midland, agente di pubblicità per

l’«Irish Time» e il «Freeman», viaggiatore di commercio per conto di una ditta di

carbone e commesso nell’ufficio del vice-sceriffo, fino a diventare recentemente

segretario del “Coroner”. Dal punto di vista professionale le sue nuove funzioni lo

rendevano particolarmente interessato al caso Kernan.

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- Male? No, non molto, - rispose Kernan. - Ho la nausea però. Mi viene sempre

voglia di vomitare...

- È la sbornia, quella, - dichiarò Cunningham con fermezza.

- No. Credo d’aver preso freddo in carrozza. Mi sento qualcosa qui in gola che mi

torna in su. Catarro dev’essere o...

- Muco, - suggerì M’Coy.

- Sì, mi viene su dal petto... Uno schifo!

- Già, già, sono i bronchi, - disse M’Coy. E al tempo stesso si voltò a guardare

Cunningham e Power con aria di sfida. Cunningham assentì in fretta col capo e

Power disse:

- Be’, tutto è bene quel che finisce bene...

- Ti son grato, sai, vecchio mio, - disse l’invalido.

Power agitò la mano in segno di protesta.

- Quegli altri due con cui stavo...

- Già, con chi eri? - chiese Cunningham.

- Un tale, non ricordo più il nome. Come si chiamava, che il diavolo se lo porti...

Un biondino...

- E l’altro?

- Harford.

- H’m.

A un simile commento da parte di Cunningham la gente di solito taceva. Era noto

ch’egli usufruiva di segrete fonti d’informazione e in questo caso il monosillabo

aveva un valore morale. Harford faceva parte infatti d’una certa combriccola che

la domenica, nelle prime ore del pomeriggio soleva lasciare la città col proposito di

raggiungere nel più breve tempo possibile qualche osteria dei dintorni dove i

compari si qualificavano regolarmente come innocui viaggiatori. Mai però che

questi compagni di gita si fossero indotti a dimenticare le sue origini.

Aveva iniziato la carriera in modo oscuro, prestando denaro agli operai su

interesse d’usura e in seguito s’era associato a un certo Goldberg, un signore

basso e grassoccio della Liffey Leon Bank. Per quanto non avesse mai abbracciato

altro codice morale all’infuori di quello ebraico, gli amici cattolici gli scagliavan

contro anatemi soltanto allorché venivano toccati di persona, o comunque assai

da vicino, dalle sue estorsioni; lo chiamavano allora ignorante, ebreo irlandese,

scorgendo nella persona del figlio idiota segni manifesti della disapprovazione

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divina al suo mestiere di strozzino. In altre occasioni invece ne rammentavano

solo le buone qualità.

- Chissà dove sarà andato a finire, - disse Kernan. Voleva lasciare nel vago i

particolari dell’incidente e far credere agli amici che c’era stato un equivoco e che

lui e Harford non s’erano trovati. Gli amici, però, al corrente com’erano del

contegno di Harford quando aveva bevuto, tacevano. Power ripeté:

- Tutto è bene quel che finisce bene.

E Kernan s’affrettò a mutar discorso.

- Un tipo in gamba, però, quello studente in medicina. Se non c’era lui...

- Se non c’era lui, - intervenne Power, - non te la saresti cavata con meno di sette

o otto giorni di prigione e senza alternativa di multa.

- Già, già, - riprese Kernan sforzandosi di ricordare, - c’era anche un poliziotto,

ora mi rammento. Un brav’uomo, mi pare. Ma di’, com’è andata?

- È andata ch’eri ubriaco fradicio, caro il mio Tom, - dichiarò Cunningham

solenne.

- Verissimo, - assentì Kernan con altrettanta solennità. - Immagino che sarai

stato tu, Jack, a togliere di torno l’agente, - interloquì M’Coy.

A Power dispiacque sentirsi chiamare per nome. Non che fosse un formalista ma

non gli era facile passar sopra alla vera e propria caccia di valige e valigette

organizzata di recente da M’Coy nella cerchia degli amici, al nobile scopo di

mettere la signora M’Coy in grado d’accettare immaginari inviti in campagna. Più

ancora del fatto di esserne rimasto vittima lo urtava la volgarità dell’imbroglio.

Rispose quindi alla domanda come se gli venisse da Kernan.

Il racconto indignò l’invalido. Pienamente conscio della propria veste di cittadino

desiderava vivere con la comunità in termini reciprocamente onorevoli e qualsiasi

affronto arrecatogli da quegli zoticoni campagnoli, come li chiamava lui, lo feriva

nel vivo.

- È per questo allora che paghiamo le tasse? Per vestire e nutrire una manica di

villanzoni?

Cunningham si mise a ridere. Si sentiva ufficiale di polizia solo durante le ore

d’ufficio.

- Ma Tom, cos’altro ti puoi aspettare da loro? - Prese un accento greve, provinciale

e disse in tono di comando: - Sessantacinque, prendi il cavolo!

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Risero tutti. M’Coy che voleva intrufolarsi ad ogni costo nella conversazione, finse

di non essere al corrente della storiella. Cunningham spiegò:

- La scena avviene in caserma, così dicono almeno, quando si fa l’istruzione alle

reclute di campagna. All’ora del rancio il sergente te li schiera tutti in fila contro il

muro, - illustrava il racconto via via con gesti grotteschi, - e davanti si mette una

bella marmitta di cavoli e un ramaiolo. Pesca su un malloppo di roba, te lo

scaraventa attraverso la stanza e quei poveri diavoli s’arrabattano a prenderlo a

volo sul piatto. Sessantacinque, prendi il cavolo!

Di nuovo risero tutti. Ma Kernan era ancora indignato. Parlava di scrivere una

lettera ai giornali.

- Brutti macachi, - diceva, - vengono qui e credono di poterla fare da padroni.

Già, a te Martin non c’è bisogno di dirtelo che razza di gentaglia sono...

Cunningham assentì con aria da competente.

- Sai cos’è, - disse, - come sempre succede a questo mondo ci sono i buoni e i

cattivi.

- Oh, sì, sì, ce ne saranno anche di buoni, non dico di no, - convenne Kernan

soddisfatto.

- In ogni modo, secondo me, è meglio non averci nulla a spartire, - interloquì

M’Coy.

Entrò la signora Kernan con un vassoio e lo posò sul tavolo.

- Servitevi, - disse.

Power s’alzò a officiare e le offrì la sua sedia. Ma ella rifiutò, dicendo che aveva da

stirare giù in cucina e scambiato un cenno con Cunningham da dietro le spalle di

Power, s’accinse a lasciare la stanza.

- E per me nulla, tesoro? - le gridò dietro il marito.

- Un manrovescio per te, - fu la secca risposta.

Ma quello non disarmò.

- Proprio nulla per il tuo maritino? - E assunse un tono di voce e un’espressione

così comici che la distribuzione delle bottiglie di birra ebbe luogo in mezzo

all’ilarità generale.

Gli uomini bevvero e posarono i bicchieri sul tavolo. Ci fu una pausa. Poi

Cunningham si rivolse a Power in tono casuale:

- Hai detto giovedì sera, Jack? - chiese.

- Sì, giovedì sera.

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- Potremmo trovarci da M’Auley, - intervenne M’Coy. - Mi pare il posto più adatto.

- Sì, ma non bisogna far tardi, - osservò Power. - Ci sarà un sacco di gente,

vedrete.

- Facciamo per le sette e mezzo, allora, - propose M’Coy.

- Giusto, - disse Cunningham.

- Alle sette e mezzo da M’Auley, siamo intesi.

Seguì un breve silenzio. Kernan aspettò di venire ammesso alla confidenza degli

amici, poi chiese:

- Di che si tratta?

- Oh, nulla, - disse Cunningham. - Una cosetta che stiamo organizzando per

giovedì.

- L’opera, eh?

- No, no, - fece Cunningham in tono evasivo, - una cosa d’ordine spirituale.

Di nuovo ci fu silenzio. Poi di punto in bianco, Power dichiarò:

- Per dirti la verità Tom, vorremmo fare un po’ di penitenza, ecco.

- Proprio così, - confermò Cunningham. - Ne abbiamo bisogno tutti e tre, Jack, io

e M’Coy, di una bella pulizia generale -. Enunciò la metafora con una certa

energia bonaria e incoraggiato dal tono della propria voce proseguì:

- Tanto vale ammetterlo, caro mio, che siamo tutti una manica di mascalzoni.

Tutti, dico, - aggiunse con una sorta di rozzo pietismo e rivoltosi a Power:

- Confessalo dunque!

- Io, per me, lo confesso, - ammise Power.

- E anch’io, - disse M’Coy.

- Così abbiamo deciso di far pulizia tutti e tre, - ripeté Cunningham. Poi d’un

tratto, come colpito da un’idea, si rivolse all’invalido: - Sai che m’è venuto in

mente, Tom? Potresti venire anche tu. Faremo un bel quartetto, no?

- Magnifico! - esclamò Power. - Tutti e quattro insieme.

Kernan taceva. La proposta non aveva gran significato ai suoi occhi, ma,

comprendendo che fattori spirituali stavano per intervenire in suo favore, gli

parve doveroso per la propria dignità dimostrare una certa riluttanza. Per un bel

pezzo non prese parte alla conversazione, ma con aria d’ostilità pacata rimase ad

ascoltare gli amici che parlavano dei Gesuiti.

- Non ne ho una cattiva opinione nemmeno io, - intervenne alla fine, - secondo

me è un Ordine di gente in gamba e in buona fede, per giunta.

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- L’Ordine più importante di tutta la Chiesa, - dichiarò Cunningham con enfasi. -

Per autorità il Generale dei Gesuiti viene subito dopo il Papa.

- Eppoi, c’è poco da dire, - intervenne M’Coy, - se si vuole una cosa ben fatta e

senza tanti inciampi bisogna rivolgersi a loro. Gente che può tutto quella! Vorrei

giusto raccontarvi di un caso...

- Una bell’accolta d’uomini i Gesuiti! - disse Power.

- E notate bene, - aggiunse Cunningham, - qualsiasi altro Ordine religioso prima

o poi ha avuto bisogno di riforme. Ma l’Ordine dei Gesuiti è rimasto tale e quale.

Mai che sia caduto una volta, quello!

- Davvero? - chiese M’Coy.

- Diamine! È storia.

- E guardate che chiese, poi, - aggiunse Power, - e che congregazioni!

- I Gesuiti hanno sempre tenuto dalla parte dei signori, - osservò M’Coy.

- Naturale, - affermò Power.

- Già, ecco perché li ho in simpatia, - interloquì Kernan. - Non sono come quegli

altri pretacci ignoranti...

- Tutta brava gente, va’ là, - lo interruppe Cunningham, - ciascuno a modo suo.

Basta dire che il sacerdozio irlandese è onorato in tutto il mondo.

- Eh, sì, - fece Power.

- Non come gli altri del continente, - disse M’Coy, - indegni del loro

nome.

- Mah, avrete ragione voi, - ammise Kernan raddolcendosi.

- Certo che ho ragione, - riprese Cunningham. - Non per nulla è da tanto che sto

al mondo e ne ho viste abbastanza da potermi fare la mia opinione.

Gli uomini tornarono a bere, ognuno seguendo l’esempio dell’altro. Kernan aveva

l’aria di soppesare qualcosa fra sé e sé. Era impressionato. Stimava molto

Cunningham per la sua penetrazione nel leggere in faccia alla gente e giudicarla.

Chiese particolari.

- Si tratta solo di un po’ di penitenza, come t’ho detto, - lo informò Cunningham. -

Sai, per gli uomini d’affari se ne occupa Padre Purdon.

- Non sarà troppo severo, Tom! - aggiunse Power in tono persuasivo.

- Padre Purdon? Padre Purdon? - fece incerto il malato.

- Sì, dovresti conoscerlo, Tom, - dichiarò Cunningham con fermezza. - Un bel tipo

di mattacchione. Uomo di mondo anche lui né più né meno come noialtri.

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- Ah, sì, sì, mi pare d’averlo già visto. Piuttosto rosso in viso, alto...

- Proprio lui.

- E dimmi un po’, Martin... Come predicatore, vale?

- Be’, sai non si tratta di prediche vere e proprie. Più che altro sono conversazioni

amichevoli, fatte così, alla buona...

Kernan rifletteva. M’Coy disse:

- Padre Tom Burke quello sì che ci sapeva fare!

- Padre Tom Burke era un oratore nato, - affermò Cunningham. - L’hai mai inteso

Tom?

- Se l’ho inteso? Perdinci se l’ho inteso, - fece l’invalido piccato.

- Eppure dicono che come teologo non fosse un gran che.

- È vero? - chiese M’Coy.

- Be’, non che facesse errori veri e propri, s’intende. Solo che a volte le sue

prediche dicono non fossero perfettamente ortodosse, ecco.

- Ah, un uomo splendido per me! - esclamò M’Coy.

- L’ho inteso una volta, - riprese Kernan. - Non mi ricordo adesso su che

argomento. Crofton e io si stava... si giù in fondo... della platea, sai, della...

- Della navata, - suggerì Cunningham.

- Già, vicino alla porta. Non mi rammento... Ma sì, era sul Papa, ecco, sul Papa

defunto. Me lo ricordo bene, ora... E parola mia che eloquenza! E che voce! Per

Dio! Il prigioniero del Vaticano, lo chiamava. Mi ricordo che quando uscimmo,

Crofton mi disse...

- Ma non è un orangista, Crofton? - chiese Power.

- Un orangista, sì, e di quelli buoni te lo dico io, - rispose Kernan. - Quando

uscimmo dunque ce ne andammo da Butler in Moore Street e a dirvi la verità ero

proprio commosso. Mi ricordo ancora le sue parole: «Kernan», mi disse, «anche se

sacrifichiamo ad altari diversi la nostra fede è la stessa». Mi colpirono.

- C’è del vero, infatti, - osservò Power. - Del resto ce n’erano sempre di protestanti

in chiesa quando predicava Padre Tom.

- Non è che vi sia molta differenza fra noi, - disse M’Coy. - Crediamo tutti e due

nel... - esitò un istante, - nel Redentore. Soltanto che loro non credono nel Papa e

nella Beata Vergine.

- Già. Eppoi la nostra di religione è la vera, l’antica, l’originale, - dichiarò

Cunningham pacato e con forza.

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130

- Nessun dubbio in quanto a questo, - approvò Kernan con calore.

La signora Kernan comparve in quella sull’uscio e annunciò:

- Una visita.

- E chi?

- Il signor Fogarty.

- O bravo, avanti, avanti!

Avanzò in luce una faccia pallida e ovale sulla quale l’arco dei baffi biondi,

spioventi si ripeteva nelle sopracciglia egualmente bionde, arcuate su un paio

d’occhi amabilmente sorpresi. Il signor Fogarty era un modesto droghiere. Aveva

aperto una bettola in città ma gli erano andati male gli affari, poiché le condizioni

finanziarie lo avevano costretto a legarsi con birrai e distillatori di second’ordine.

E quindi s’era messo su quel negozietto nella Glasnevin Road dove, almeno così si

lusingava, i modi cortesi gli avrebbero ingraziato le massaie del rione. Si

comportava infatti con grazia, non tralasciava di complimentare i bambini, e

parlava forbito. Inoltre non era uomo privo di cultura.

Il signor Fogarty portava in dono una mezza pinta di whisky speciale. S’informò

cortesemente delle condizioni di salute del signor Kernan, posò il regalo sul tavolo

e si mise a sedere con gli altri, in termini d’eguaglianza. Kernan gradì l’attenzione,

tanto più che era ben conscio di un piccolo conto ancora in sospeso fra lui e il

signor Fogarty. Disse:

- Non c’era d’aspettarsi di meno da te, vecchio mio. Aprila, Jack, fa’ il favore.

Di nuovo Power s’alzò a officiare. I cinque bicchieri vennero risciacquati e riempiti

di una buona dose di whisky. Sotto la nuova influenza, anche la conversazione

non tardò ad animarsi. Il signor Fogarty seduto sull’orlo della sedia, vi prestava

un interesse particolare.

- Papa Leone Tredicesimo, - diceva Cunningham, - era uno dei luminari del suo

tempo. Il suo progetto, come vi sarà certamente noto, era l’unione della Chiesa

latina con la greca. Fu questa la mira costante di tutta la sua vita.

- Anch’io l’ho sentito spesso nominare come una delle più grandi menti d’Europa,

- intervenne Power. - E ciò a parte il fatto che era Papa.

- Giusto, - affermò Cunningham. - Una delle più grandi, se non la più grande.

«“Lux su Lux”» era il suo motto. «Luce su Luce», cioè.

- No, no, no, - lo interruppe il signor Fogarty in fretta. - Qui avete torto. Il motto

era «“Lux in tenebris”» mi pare. «Luce nelle tenebre».

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- Già, già, «“Tenebrae”», - disse M’Coy.

- Permettete, - tagliò corto Cunningham con fermezza. - Il motto era proprio «“Lux

su Lux”». E quello di Pio Nono, il suo predecessore, era «“Crux su Crux”», cioè

«Croce su Croce». E ciò per dimostrare la differenza fra i due pontificati.

Tutti accettarono la spiegazione. Cunningham continuò:

- Papa Leone inoltre era un gran dotto e un gran poeta.

- E che faccia energica, aveva! - osservò Kernan.

- Sì, - disse Cunningham, - scriveva versi in latino.

- Davvero? - chiese il signor Fogarty.

M’Coy assaporò soddisfatto il suo whisky e scuotendo il capo con duplice intento,

dichiarò:

- E non è affare da nulla, sapete, ve lo garantisco io.

- A noi non ce lo insegnavano di sicuro, eh Tom, alla nostra scuoletta da quattro

soldi, - disse Power seguendo l’esempio di M’Coy.

- E intanto quanta brava gente c’è andata alla scuola da quattro soldi e con la

sua brava mattonella di carbone sotto il braccio, - affermò Kernan in tono

sentenzioso. - Il vecchio sistema sarà sempre il migliore, credete a me.

Un’educazione semplice e schietta e senza tanti discorsi, come adesso.

- Giusto, - disse Power.

- Nulla di superfluo, - rinforzò il droghiere. E enunciata la sentenza bevve, grave.

- Ricordo d’aver letto, - disse Cunningham, - che Papa Leone scrisse un poema

anche sull’invenzione della fotografia. E sempre in latino, s’intende.

- Sulla fotografia? - esclamò Kernan.

- Sicuro, - disse Cunningham. Bevve egli pure una sorsata.

- Be’, - fece M’Coy, - del resto se si pensa, non è una bella cosa, la fotografia?

- Oh, certo, certo, - approvò Kernan. - I grandi ingegni poi sanno vedere in fondo

alle cose.

- Come dice il poeta «I grandi ingegni son sempre assai vicini alla pazzia», - citò il

signor Fogarty.

Kernan appariva turbato. Fece uno sforzo per richiamarsi alla mente certi punti

scabrosi della teologia protestante e alla fine si rivolse a Cunningham.

- Ma dimmi un po’, Martin... Non è vero che certi papi, non parlo di quello

d’adesso o del suo predecessore, ma fra gli antichi... non è vero che ce ne furono

di... come dire... non all’altezza, ecco...

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Cadde un silenzio. Cunningham disse:

- Ci sono state anche delle canaglie, questo è vero... C’è una cosa però che

stupisce. Non uno di costoro, non uno, dico, né il più ubriacone, né il più... il più

ruffiano, ecco, che abbia mai predicato una parola di falsa dottrina, “ex

cathedra”. Non è straordinario?

- Eh, sì, - ammise Kernan.

- Già, perché quando il Papa parla “ex cathedra” è infallibile, - spiegò il signor

Fogarty.

- Proprio così, - disse Cunningham.

- Eh, ne so qualcosa io dell’infallibilità del Papa... Ero giovane allora, mi

rammento... O era che...

Il signor Fogarty s’interruppe, prese la bottiglia e mescé da bere. M’Coy, visto che

non bastava per tutti, si schermì col dire che non aveva ancora finito il primo. Gli

altri accettarono, protestando. La leggera musica del whisky che cadeva nei

bicchieri fu di piacevole interludio.

- Che stavi dicendo, Tom? - chiese M’Coy.

- L’infallibilità del Papa, già, - riprese Cunningham. - Non si è mai visto un simile

colpo di scena in tutta la storia della Chiesa.

- Come fu, Martin? - domandò Power.

Cunningham alzò due dita grassocce.

- Dovete sapere che nel Sacro Collegio, nell’assemblea insomma dei cardinali,

vescovi e arcivescovi ce n’erano due di parere contrario, mentre gli altri erano

tutti d’accordo. L’intero conclave, insomma, tranne questi due, era unanime. E

loro, no, non ne volevano sapere.

- Ah! - fece M’Coy.

- Uno era un cardinale tedesco, certo Dolling... o Dowling... o...

- Dowling non era tedesco di sicuro, - osservò Power ridendo.

- Be’, questo gran cardinale tedesco, comunque si chiamasse, era uno, e l’altro

era John MacHale.

- Come? - gridò Kernan. - John of Tuam?

- Ma ne siete proprio sicuro? - chiese il signor Fogarty in tono di dubbio. - Mi

pareva che fosse un qualche italiano o americano...

- No, no, no, John of Tuam, proprio lui, - affermò Cunningham.

Bevve e gli altri seguirono il suo esempio. Poi riprese:

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- Dunque eccoli lì cardinali e vescovi e arcivescovi venuti da tutte le parti del

mondo e quei due dannati che seguitavano a discutere come cani rabbiosi. Finché

alla fine il Papa in persona si alza e dichiara che l’infallibilità del Papa costituiva

d’allora in poi dogma della Chiesa “ex cathedra”. E nel momento stesso in cui

faceva questa dichiarazione John MacHale, che sino allora si era battuto per il

contrario, s’alzò a sua volta ruggendo come un leone: «“Credo!”»

- Io credo, - spiegò il droghiere.

- «“Credo”», - ripetè Cunningham. - E il fatto di sottomettersi nell’istante

medesimo in cui il Papa parlava, dimostra la sua fede.

- E di Dowling che ne fu? - chiese M’Coy.

- Eh, il cardinale tedesco non ne volle sapere di sottomettersi e uscì dal seno della

Chiesa.

Il racconto di Cunningham era valso ad evocare nella mente degli ascoltatori

l’immagine della grandiosità della Chiesa e la sua voce bassa e roca nel momento

in cui pronunciava quell’unica parola di sottomissione e di fede, li aveva fatti

fremere fin nel profondo. Così, quando la signora Kernan entrò asciugandosi le

mani, sentì nella stanza un’aria solenne. Senza turbare il silenzio andò ad

appoggiarsi alla spalliera ai piedi del letto.

- Io l’ho visto una volta John MacHale, - disse Kernan, - e non lo dimenticherò

mai finché campo -. Si rivolse per conferma alla moglie: - Non te l’ho sempre

detto?

La signora Kernan annuì.

- Fu all’inaugurazione della statua di Sir John Gray. C’era Edmund Dwyer Gray

che parlava infilando sciocchezze su sciocchezze e il vecchio stava là fermo e duro

e lo guardava di sotto a quei cespugli di sopracciglia.

Kernan aggrottò le ciglia e abbassando il capo come un toro infuriato, fissò la

moglie.

- Per Dio! - gridò riprendendo la sua espressione naturale. - Non ho mai visto un

par d’occhi simili in testa d’uomo. Era come se dicessero: «Ti ho in mano, caro

mio!» Pareva un falco.

- Non ce n’è mai stato uno di quei Gray che valesse qualcosa, - osservò Power.

Di nuovo ci fu silenzio. Power si rivolse allora alla signora Kernan e disse con

inattesa giovialità:

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- Be’, signora Kernan, faremo del vostro sposo un cattolico apostolico romano sul

serio.

Incluse tutta la compagnia con un ampio gesto del braccio.

- Si farà un po’ di penitenza tutti insieme e ci confesseremo dei nostri peccati...

Dio solo sa se ne abbiamo bisogno!

- Per me non me la prendo, - disse Kernan sorridendo nervoso.

La signora Kernan credette opportuno celare la propria soddisfazione. Così disse:

- Compiango il povero prete che dovrà starti a sentire.

Subito Kernan mutò espressione.

- Oh be’, se non gli garba può anche andare a farsi... - dichiarò brusco. - Per

parte mia non ho che da vuotare il sacco. In fin dei conti non sono poi così

cattivo...

Cunningham intervenne pronto.

- Rinunceremo tutti al demonio, - disse, - senza però dimenticarne le opere né le

pompe.

- “Vade retro, Satana!” - disse il signor Fogarty ridendo e guardando gli altri.

Power taceva. Si sentiva completamente esautorato ma un’espressione

compiaciuta gl’illuminava il viso.

- Non avremo da far altro che starcene in piedi col cero acceso in mano e

rinnovare i nostri voti battesimali, - disse Cunningham.

- E non dimenticarti il cero, Tom, qualunque cosa accada, - rinforzò M’Coy.

- Come? - chiese Kernan. - Ci vuole anche il cero?

- Ma certo, - rispose Cunningham.

- Perdinci, questo poi no! Metto il punto qui, cari miei. Il resto mi pare

abbastanza: penitenza, confessione, e via dicendo! Ma il moccolo no, perdio

santissimo, il moccolo no! - E scuoteva la testa con comica gravità.

- Sentitelo! - fece la moglie.

- Proprio così. Abolito il moccolo, - disse Kernan conscio d’aver fatto colpo

sull’uditorio e seguitando a scuotere il capo in qua e in là. - Non ne voglio sapere

di luminarie, io.

Risero tutti di cuore.

- Che bel cattolico eh, ve lo raccomando! - disse la moglie.

- Niente moccolo, - ripeté Kernan ostinato. - Niente moccolo, siamo intesi!

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Il transetto della chiesa dei Gesuiti in Gardiner Street era quasi al completo.

Eppure a ogni istante entravano uomini da un uscio di lato e guidati da un frate

laico avanzavano in punta di piedi su per la navata finché non trovavano da

sedere. Erano tutti ben messi e ravviati, e la luce delle lampade cadeva su

un’accolta di panni neri e di colletti bianchi, mitigata qua e là da abiti grigi, il

tutto nello sfondo delle scure colonne di marmo verde variegato e di lugubri

panneggi. Sedevano nei banchi, i calzoni appena rialzati al ginocchio e il cappello

al sicuro da una parte. Sedevano bene impettiti e con sguardo assente fissavano

in distanza la macchia di luce rossastra sospesa dinanzi all’altar maggiore.

In uno dei banchi vicino al pulpito avevan preso posto Cunningham e Kernan, nel

banco dietro M’Coy da solo e in quello ancora più dietro Power e il signor Fogarty.

Veramente M’Coy aveva tentato invano di mettersi a sedere assieme agli altri e

quando il gruppetto si era disposto in forma di quinconce, con eguale insuccesso

aveva azzardato allusioni comiche e commenti. Visto però che non venivano bene

accolti, desistette. Anche lui cominciava a sentire l’influenza di quell’atmosfera

solenne e a rispondere allo stimolo religioso.

In un sussurro Cunningham attirò l’attenzione di Kernan su Harford, l’usuraio,

seduto poco distante e sul signor Fanning, agente elettorale dei candidati a

sindaco della città, il quale sedeva proprio sotto il pulpito accanto a uno dei

consiglieri municipali di recente elezione. A destra invece c’erano il vecchio Micael

Grimes, titolare di tre uffici di pegno e il nipote di Dan Hogan, candidato alle

funzioni di segretario comunale; un po’ più in là, di fronte, stavano seduti il

signor Hendrick, capo cronista del «Freeman» e il povero O’Carrol, vecchio amico

di Kernan e in altri tempi figura di primo piano nel mondo del commercio.

Via via che andava così riconoscendo quei visi familiari, Kernan si sentiva più a

suo agio. Teneva sulle ginocchia il cappello rimessogli a nuovo dalla moglie e una

volta o due si tirò giù i polsini con una mano, mentre con l’altra lo reggeva

delicatamente, ma con fermezza, per il bordo.

A un certo punto si vide una figura imponente avvolta sino a mezzo busto da un

camice bianco farsi strada verso il pulpito e al tempo stesso vi fu un movimento

nell’assemblea: ciascuno tirò fuori il fazzoletto e vi s’inginocchiò sopra con

cautela. Kernan seguì l’esempio degli altri. La figura del sacerdote stava ora dritta

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sul pulpito e due terzi del busto coronati da una faccia massiccia e rubiconda

apparivano di sopra la balaustra.

Padre Purdon s’inginocchiò, si volse verso la rossa macchia di luce e copertosi il

viso con le mani, s’immerse in preghiera. Si rialzava poco dopo a viso scoperto e

anche i fedeli s’alzarono e si rimisero a sedere.

Kernan riportò il cappello nella posizione di prima, sul ginocchio, e prestò una

faccia attenta al predicatore. Questi si rimboccò le larghe maniche del rocchetto

con gesto ampio e studiato e passò adagio in rivista quell’accolta di visi. Quindi

disse:

«Poiché i figli di questo mondo sono più saggi nella loro generazione dei figli della

luce. E perciò io vi dico: fatevi degli amici fra di voi con le vostre inique ricchezze

così che morendo possiate venir accolti nella dimora eterna».

Padre Purdon sviluppò il testo con sicurezza sonora. In tutta la Sacra Scrittura,

disse, non vi era testo più difficile per giusta interpretazione; testo che ad un

osservatore superficiale poteva anche parere in disaccordo con l’alta moralità

predicata altrove da Gesù Cristo, ma che a lui, spiegò ai suoi ascoltatori, era

parso particolarmente adatto per la guida di coloro la cui sorte è vivere nel

mondo, anche se non intendono rendersi partecipi della mondanità. Era un testo

per professionisti e uomini d’affari. Con la Sua divina comprensione infatti, di

ogni più segreto angolo dell’umana natura Gesù Cristo capiva che non tutti

potevano venir chiamati alla vita religiosa e che anzi la più vasta maggioranza era

costretta a vivere nel mondo e, fino a un certo limite almeno, per il mondo. Con

questo passo così Egli si proponeva di dar loro una parola di consiglio, mostrando

come esempi di assiduità e di fede quegli stessi adoratori di Mammona che fra

tutti sono i meno zelanti in materia religiosa.

Disse quindi ai suoi ascoltatori ch’egli non era là quella sera allo scopo di

atterrirli o meravigliarli, ma nella sua qualità di uomo di mondo per parlar loro da

pari a pari. Era lì per parlare a uomini d’affari e avrebbe tenuto linguaggio

d’affari. Se gli permettevano d’usare la metafora anzi, era venuto come loro

contabile spirituale e li invitava quindi ad aprire i propri registri, i propri registri

spirituali e vedere se eran perfettamente conformi alle loro coscienze.

Non si poteva considerarlo un padrone troppo esigente, Gesù Cristo. Egli capiva

tutte le piccole mancanze, capiva la debolezza della nostra povera natura

decaduta e capiva le tentazioni di questa vita. Tutti, possiamo avere e avere

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137

avuto, di quando in quando, le nostre tentazioni, tutti possiamo avere e avere

avuto, le nostre debolezze. Ma una cosa, una sola cosa egli avrebbe chiesto ai

suoi ascoltatori, ed era di essere leali e schietti dinanzi a Dio. E se i loro conti

tornavano giusti in ogni parte dicessero: - Ebbene, Signore, ho verificato i miei

conti e tutto è in perfetta regola -. Ma se al contrario, come poteva anche

avvenire, s’accorgevano di divergenze od errori, fossero franchi a riconoscere la

verità e a dire con fermezza virile:

- Ebbene ho guardato i miei conti e vi ho trovato qua e là degli errori.

Ma con la grazia di Dio rettificherò ogni cosa e rimetterò in ordine la mia

contabilità.

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I morti

Lily, la figlia del portiere, non si reggeva più in piedi tanto aveva corso. Non faceva

nemmeno in tempo ad accompagnare un invitato nello stanzino dietro la

dispensa, a pianterreno, e ad aiutarlo a togliersi il soprabito che l’asmatico

campanello d’ingresso tornava a farsi sentire e lei doveva precipitarsi giù per il

corridoio spoglio per introdurne uno nuovo. Meno male che non aveva da

occuparsi anche delle signore. A quelle ci pensavano la signorina Kate e la

signorina Julia che avevano trasformato il bagno al piano di sopra in una specie

di spogliatoio. Stavan lassù tutte e due e ridevano e spettegolavano e si davan

d’attorno, correndo a turno a capo delle scale e sporgendosi dalla ringhiera per

chiedere a Lily chi fosse arrivato.

Era un avvenimento il ballo annuale delle signorine Morkan. Non c’era persona di

loro conoscenza che non vi intervenisse: parenti, amici, le coriste di Julia, alcune

delle scolare di Kate in età di potervi partecipare e anche qualche allieva di Mary

Jane. E mai una volta che vi si fossero annoiati. Da anni e anni, per quanto

almeno si potesse ricordare, era sempre riuscito splendidamente: da quando cioè,

dopo la morte del fratello Pat, Kate e Julia avevano lasciato la loro abitazione in

Stoney Batter e assieme all’unica nipote Mary Jane erano andate a vivere nella

squallida, tetra casa di Usher Island, della quale avevano preso in affitto il piano

di sopra dal signor Fulham, il sensale in granaglie che abitava al pianterreno.

Erano passati ben trent’anni da allora e pareva un giorno. Mary Jane che a quei

tempi era una ragazzina in sottanine corte, era diventata adesso il sostegno della

famiglia: era lei che suonava l’organo di Haddington Road. Aveva studiato al

Conservatorio e ogni anno dava un saggio nella sala superiore dell’«Antient

Concert»: molte delle sue allieve appartenevano alla migliore società di Kingstown

e di Dalkey.

Vecchie com’erano, però, anche le zie facevano la loro parte: Julia, sebbene

avesse già i capelli grigi, era ancora il primo soprano all’«Adamo ed Eva», e Kate,

troppo cagionevole di salute per andare in giro, dava lezioni di musica ai

principianti sul vecchio pianoforte verticale nella stanza in fondo. Era Lily, la

figlia del portiere, che sbrigava le faccende di casa. Nonostante vivessero

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modestamente, amavano tener buona tavola. Sempre il meglio di tutto: filetto di

vitello, tè da tre scellini e birra di marca; e poiché in quanto a sbagliare Lily

sbagliava di rado, andava abbastanza d’accordo con le sue padrone. Erano solo

un po’ nervose, ecco tutto, e l’unica cosa che proprio non sopportavano era

sentirsi rispondere.

Quella sera del resto non avevano tutti i torti a stare in allarme. Erano già le dieci

passate e ancora non si erano visti né Gabriel né la moglie. Temevano inoltre che

Freddy Malins arrivasse brillo. Per nulla al mondo avrebbero voluto che qualcuna

delle alunne di Mary Jane lo vedesse in quello stato e purtroppo quando lo era

non era tanto facile fargli intendere ragione. Arrivava sempre tardi Freddy Malins,

ma Gabriel non riuscivano proprio a capire cosa avesse potuto trattenerlo.

E così ogni due minuti correvano alla ringhiera per chiedere a Lily se l’uno o

l’altro fosse venuto.

- O signor Conroy, - disse Lily a Gabriel nell’aprirgli la porta, - la signorina Kate e

la signorina Julia temevano quasi che non veniste più. Buona sera, signora

Conroy.

- Sfido io! - esclamò Gabriel. - Ma non lo sanno che a mia moglie ci vogliono tre

ore buone per vestirsi!

In piedi sul tappetino si scuoteva la neve dalle sopra scarpe mentre Lily guidava

la moglie verso le scale gridando:

- Signorina Kate, è arrivata la signora Conroy!

E immediatamente Kate e Julia scesero trotterellando giù per la rampa buia e

abbracciarono la nipote chiedendole se non era morta stecchita dal freddo e se

era venuto anche Gabriel.

- Eccomi, eccomi qua zia Kate, preciso come un orologio! - gridò la voce di Gabriel

dal buio. - Andate pure voi, io vi seguo.

Seguitava a strusciare vigorosamente i piedi sul tappeto mentre le tre donne

s’avviavano di sopra ridendo, verso lo spogliatoio delle signore.

In frangia leggera la neve gli posava a mo’ di bavero sulle spalle e di mascherina

sulle soprascarpe, e via via che i bottoni escivano scricchiolando fuor delle asole

irrigidite, la fragranza fredda e pungente dell’aria esterna sfuggiva dalle pieghe e

dalle aperture del mantello.

- Nevica ancora, signor Conroy? - chiese Lily.

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Lo aveva preceduto nello stanzino per aiutarlo a togliersi il soprabito, e sorridendo

per il modo con cui aveva pronunciato il suo cognome, Gabriel la guardò. Era una

ragazzina esile, nell’età della crescita, pallida in viso e dai capelli color fieno, e il

lume a gas dello stanzino la faceva parere ancora più pallida. Gabriel la

conosceva fin da quando era bambina e si trastullava con una bambola di pezza

sull’ultimo gradino della scala.

- Eh, sì Lily, - rispose, - e ne avremo per tutta la notte, vedrai.

Alzò gli occhi al soffitto che tremava sotto il trepestìo del ballo al piano di sopra e

per un istante tese l’orecchio al suono del pianoforte. Poi riguardò la ragazza

intenta a ripiegare con cura il soprabito in fondo allo scaffale.

- Dimmi un po’, Lily, ci vai ancora a scuola? - le disse in tono amichevole.

- O no, signore. Quest’anno l’ho fatta finita per sempre con la scuola.

- Be’, - continuò Gabriel faceto, - vuol dire allora che uno di questi giorni

c’inviterai alle tue nozze con un bel giovanotto...

La ragazza gli diede un’occhiata da sopra alla spalla, poi disse con accento di

grande amarezza:

- Non c’è da fidarsi degli uomini adesso: pensano solo ad approfittarsi di noi...

Gabriel arrossì come se si sentisse colpevole. Senza guardarla si sfilò d’un colpo

le soprascarpe e col fazzoletto dette una spolverata energica agli scarpini di

vernice.

Era un uomo massiccio, piuttosto alto. Il colorito acceso delle guance che gli

saliva fin sulla fronte si disperdeva là in poche macchie informi di un rosso più

pallido e sul viso sbarbato scintillavano irrequiete le lenti lustre degli occhiali

cerchiati d’oro, che gli proteggevano gli occhi delicati e perplessi. Portava i capelli

lucidi e neri divisi nel mezzo e ravviati all’indietro sulle tempie dove li ondulava

appena la piega lasciata dal cappello.

Ridato che ebbe il lustro alle scarpe si raddrizzò lisciandosi le pieghe del

panciotto sul corpo massiccio, poi in fretta si tolse una moneta di tasca.

- To’, Lily, - disse mettendogliela in mano, - siamo vicini a Natale, no?... ecco

qua... giusto per...

S’avviò a passo svelto alla porta.

- Ma no, signore, - protestò la ragazza, - davvero non...

- È Natale, è Natale, - ripeté Gabriel quasi correndo verso le scale e con la mano

faceva intanto un gesto quasi di scusa.

Page 141: James joyce   gente di dublino

141

Visto che ormai aveva raggiunto il primo gradino la ragazza gli gridò dietro:

- Grazie tante, allora, signore!

Attendeva fuori della sala che il valzer finisse, intento al fruscio delle vesti contro

l’uscio e allo stropicciare dei piedi sul pavimento. L’amara, inattesa risposta della

ragazza continuava a turbarlo. Gli aveva buttato addosso un’ombra di malinconia

che invano tentava di scacciare aggiustandosi i polsini e il nodo della cravatta.

Toltosi dal taschino del gilè un foglietto di carta diede un’occhiata agli appunti

presi per il discorso. Era incerto sui versi di Robert Browning perché temeva

fossero al di sopra della portata dei suoi ascoltatori. Sarebbe stata meglio forse

qualche citazione di Shakespeare o delle “Melodie”, citazioni che avrebbero

riconosciuto di certo. Il picchio volgare dei tacchi maschili e lo strofinio delle

suole sull’impiantito venne a ricordargli che il loro grado di cultura differiva di

molto dal suo. Non avrebbe fatto altro che rendersi ridicolo a citare versi che non

potevano essere capiti: come se volesse far sfoggio della propria erudizione. E

naturalmente avrebbe fatto fiasco con loro, come aveva fatto fiasco con la ragazza

nello stanzino. Non aveva preso il tono giusto, ecco, e l’intero discorso non era

che uno sbaglio dal principio alla fine, uno sbaglio completo.

Proprio in quel momento le zie e la moglie uscirono dallo spogliatoio.

Erano due vecchiette piccoline, le zie, e vestite modestamente. Zia Julia, più alta

dell’altra di qualche centimetro, aveva grigi i capelli, pettinati bassi sulle orecchie,

e grigia, con ombre più scure, la faccia, flaccida e larga.

Per quanto forte d’ossatura ed eretta nella persona, gli occhi lenti e le labbra

semiaperte le davano l’aspetto di una donna che non sa dov’è né dove va. Zia Kate

invece era più vivace. Il viso, più sano di quello della sorella, era tutto grinze e

fossette come una rossa mela vizza e i capelli pettinati anch’essi all’antica, non

avevano ancora perduto il loro colore di nocciola matura.

Tutte e due abbracciarono Gabriel con slancio. Era il nipote prediletto, Gabriel,

figlio della sorella maggiore morta, Ellen, che aveva sposato T. J. Conroy,

funzionario del porto e dei docks.

- Gabriel, Gretta ci stava giusto dicendo che non tornerete a Monkstown in

carrozza, stanotte, - disse zia Kate.

- Infatti, - confermò Gabriel rivolgendosi alla moglie. - Ne abbiamo già avuto

abbastanza l’anno scorso, vero? Non ti ricordi, zia Kate, il raffreddore che ci si

prese Gretta? Gli sportelli non facevano che apri e serra per tutta la strada e tutto

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quel vento che soffiava dentro, passato Merrion... Uno spasso, ti dico! Gretta poi

ci si buscò un bel malanno!

Ad ogni parola zia Kate aggrottava le sopracciglia severa e assentiva col capo.

- Giusto, Gabriel, giusto. La prudenza non è mai troppa.

- Gretta invece, se la lasciassi fare, sarebbe capacissima di tornarsene a piedi fino

a casa, sotto la neve.

La signora Conroy si mise a ridere.

- Non gli dar retta, zia Kate... È lui ch’è un tormento con le sue visiere verdi per

gli occhi di Tom la sera e gli esercizi coi manubri e la pappa d’avena per Eva.

Povera piccola, lei che non la può soffrire!... Ah, ma non v’immaginerete mai cosa

mi fa portare adesso!

Ruppe in una risata squillante e guardò il marito, i cui occhi erravano ammirati e

felici dalla sua veste al viso e ai capelli. Anche le zie risero di cuore poiché la

sollecitudine di Gabriel era per loro continuo oggetto di scherzo.

- Soprascarpe! - disse la signora Conroy. - L’ultima novità. Non appena c’è un po’

d’umido, non c’è scampo, me le debbo mettere. Voleva che me le mettessi anche

stasera ma io mi sono ribellata. Scommetto che il primo regalo che mi farà, sarà

un costume da palombaro.

Gabriel rise nervoso raggiustandosi la cravatta per darsi un contegno, mentre zia

Kate quasi si piegava in due dal gran ridere, tanto aveva gustato lo scherzo. Ma

ben presto il sorriso svanì dalla faccia di zia Julia i cui occhi smorti si rivolsero al

nipote. Chiese, dopo una pausa:

- E cosa sono le soprascarpe, Gabriel?

- Ma Julia, - esclamò la sorella. - Che diamine, non sai cosa sono le soprascarpe?

Si mettono... si mettono sopra le scarpe, vero Gretta?

- Sì, sono di gomma, - rispose la signora Conroy. - Ne abbiamo un paio per

ciascuno adesso. Gabriel dice che le portano tutti nel continente.

- Oh, nel continente! - mormorò zia Julia, scuotendo adagio la testa.

Gabriel aggrottò le sopracciglia e prese un tono quasi indispettito.

- Per me non ci vedo nulla di strano in realtà, non so perché Gretta le trovi

buffissime!

- Senti un po’, Gabriel, - intervenne zia Kate con un certo tono risoluto, - avete

provveduto no, per la stanza? Gretta mi stava dicendo...

- Sì, sì, ho già combinato. Ne ho fissata una al Gresham.

Page 143: James joyce   gente di dublino

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- Benissimo. Non potevate far meglio. E per i bambini, Gretta, non starai in

pensiero?

- Oh, be’, per una notte... C’è Bessie poi che li guarda.

- Dev’essere una bella tranquillità avere una ragazza come quella, una di cui ci si

può fidare... C’è Lily invece che non so proprio cosa le sia preso ultimamente. Non

è più la stessa.

Gabriel stava giusto per rivolgere alla zia alcune domande sull’argomento quando

questa s’interruppe d’un tratto per cercare con lo sguardo la sorella che

sporgendo il collo di sopra alla ringhiera si allontanava adagio giù per le scale.

- Ma insomma, - disse in tono un po’ brusco, - dove va Julia... Julia! Julia! Dove

vai?

Julia che aveva già sceso mezza rampa tornò indietro e annunciò blanda:

- C’è Freddy.

Nello stesso istante un applauso e l’ultimo accordo del pianista annunciarono la

fine del valzer, la porta della sala venne aperta dal di dentro e uscirono alcune

coppie. In fretta zia Kate trasse Gabriel da parte e gli mormorò all’orecchio:

- Fa’ un salto giù, Gabriel, da bravo, e vedi un po’ in che stato si trova. Se è

ubriaco non lasciarlo salire, mi raccomando. Ma lo sarà di sicuro, vedrai...

Gabriel scese le scale e tese l’orecchio dalla ringhiera. Sentì le voci di due persone

che parlavano nello stanzino, poi riconobbe la risata di Freddy Malins. Continuò a

scendere rumorosamente.

- È un tale sollievo, avere qui Gabriel, - disse zia Kate alla signora Conroy. - Mi

sento sempre più tranquilla quando c’è lui... Julia, ecco qui la signorina Daly e la

signorina Power che vorrebbero prendere qualcosa... Grazie del magnifico valzer,

signorina Daly. Un ritmo splendido.

Un uomo alto dai duri baffi brizzolati e dalla faccia scura e grinzosa, che stava

uscendo in quel momento con la sua dama, si fece avanti a domandare:

- E per noi nulla, signorina Morkan?

- Julia, - riprese zia Kate in tono conciso, - c’è qui il signor Browne e la signorina

Furlong. Accompagnali di là, ti prego, insieme alla signorina Daly e alla signorina

Power...

- Farò io da cavaliere alle signore, - disse il signor Browne sporgendo le labbra

sotto i baffi appuntiti e ridendo con tutte le rughe, - vedete, signorina Morkan,

esse mi concedono la loro simpatia solo perché...

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Non finì la frase e visto che zia Kate non gli dava più ascolto, guidò senz’altro le

tre signorine nella stanza di fondo.

Qui, nel mezzo erano stati messi due tavoli quadri, disposti l’uno di contro

all’altro e su di essi zia Julia e il portiere stavano in quel momento stendendo una

grande tovaglia. Piatti, bicchieri, vassoi e mazzi di posate erano allineati sulla

credenza, il coperchio abbassato del pianoforte serviva per poggiarvi dolci e

vivande e in un angolo, a una credenza più piccola, due giovanotti in piedi

bevevano birra.

Il signor Browne condusse innanzi le sue protette e le invitò scherzando a

prendere un ponce per signore, caldo, dolce e forte. Ma avendo quelle dichiarato

che non erano avvezze a prender nulla di spiritoso, aprì per loro tre bottiglie di

limonata. Chiese poi a uno dei giovanotti di farsi da parte e impossessatosi della

caraffa si mescé un buon bicchiere di whisky. I giovanotti lo guardavano con

rispetto, mentre ne tracannava un primo sorso per prova.

- Che Dio m’assista, - disse sorridendo, - ma è prescrizione del medico.

La faccia rugosa gli si ruppe in un più ampio sorriso e le tre signorine gli fecero

eco ridendo musicalmente allo scherzo e dondolandosi in qua e in là con scosse

nervose delle spalle. La più ardita disse:

- Ah, signor Browne, son certa che il medico non vi ha ordinato nulla di simile!

Il signor Browne tracannò un’altra sorsata e con una smorfia ambigua riprese:

- Vedete, io sarei un po’ come la famosa signora Cassidy, nota per aver detto: «Be’,

Mary Grimes se non lo prendo, fatemelo prendere perché sento di averne proprio

bisogno».

E poiché nel discorso aveva piegato innanzi la faccia accaldata in gesto troppo

confidenziale e preso un forte accento dublinese, le tre signorine di comune

accordo accolsero la sua frase in silenzio. La signorina Furlong, una delle allieve

di Mary Jane, chiese alla signorina Daly il titolo del bel valzer che aveva suonato e

il signor Browne, visto che non si occupavano più di lui, si rivolse senza indugio

ai due giovanotti che parevano in grado di apprezzarlo meglio.

Una giovane donna rossa in viso e vestita di viola entrò nella stanza battendo

eccitata le mani e annunciando:

- La quadriglia! La quadriglia!

Le veniva dietro zia Kate che gridava:

- Tre dame e due cavalieri, Mary Jane.

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- Oh, ecco qua il signor Bergin e il signor Kerrigan, - disse Mary Jane. - Signor

Kerrigan, volete prendere per dama la signorina Power? E voi, signorina Furlong

vi posso dare per cavaliere il signor Bergin?... Benissimo!

- Tre dame, Mary Jane, - tornò a ripetere zia Kate. I due giovanotti chiesero alle

rispettive compagne se potevano avere l’onore e Mary Jane si rivolse alla

signorina Daly.

- Cara signorina Daly siete stata proprio gentile a suonare in questi due ultimi

balli, ma a dir la verità siamo così a corto di signore, stasera...

- Prego, prego signorina Morkan...

- Ho però un simpatico cavaliere per voi, il signor Bartell D’Arcy, il tenore. Voglio

farlo cantare più tardi. Tutta Dublino ne è entusiasta.

- Una voce magnifica! Magnifica! - commentò zia Kate.

E poiché il pianoforte aveva già ripreso per due volte l’introduzione, Mary Jane

guidò senz’altro le sue reclute fuor della stanza. Ne erano appena usciti che entrò

zia Julia adagio, voltandosi ogni tanto a guardarsi dietro le spalle.

- Cosa succede Julia? - chiese ansiosa zia Kate. - Chi c’è?

Julia che portava una pila di tovaglioli si rivolse alla sorella e disse con

semplicità, quasi che la domanda non l’avesse sorpresa:

- Niente Kate. C’è Freddy, insieme a Gabriel.

Proprio dietro di lei infatti si vedeva Gabriel che pilotava Freddy Malins attraverso

il pianerottolo. Era questi un uomo sui quaranta, su per giù dell’altezza e

corporatura di Gabriel, dalle spalle rotonde. Aveva il viso pallido e carnoso con

appena un accenno di colore sui lobi spessi e penduli delle orecchie e sulle larghe

pinne nasali, fattezze grossolane, naso schiacciato, fronte convessa e sfuggente e

labbra tumide. Gli occhi dalle palpebre pesanti e il disordine dei capelli radi gli

davano un’aria assonnata. Stava ridendo forte e di cuore a una storiella che aveva

raccontato a Gabriel su per le scale e al tempo stesso si strofinava col pugno

l’occhio sinistro.

- Buona sera, Freddy, - disse zia Julia.

Con una voce che a causa di un singulto cronico poteva anche suonare piuttosto

incurante, Freddy Malins augurò alle signorine Morkan la buona sera e visto poi

il signor Browne che gli faceva l’occhietto da presso alla credenza, traversò a passi

malsicuri la stanza e prese a ripetergli sottovoce la storia che aveva finito giusto

allora di raccontare.

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- Non c’è male, vero? - osservò zia Kate rivolta al nipote.

Gabriel era accigliato in viso, ma subito spianò la fronte e disse:

- Ma certo, si nota appena...

- Sciagurato! E dire che quella povera donna di sua madre glielo aveva fatto

giurare la vigilia di Capodanno... Be’, vieni Gabriel, andiamocene un po’ in sala...

Prima però di lasciare la stanza assieme al nipote s’adoperò a far cenni d’intesa al

signor Browne, aggrottando le sopracciglia e scuotendo a mo’ d’avvertimento il

dito. In risposta, questi assentì col capo e appena se ne fu andata si rivolse a

Freddy.

- Su, Freddy, bevici sopra un po’ di limonata per rimetterti in sesto.

Freddy Malins che proprio allora stava arrivando al punto culminante del

racconto, rifiutò dapprima l’offerta con un gesto impaziente, ma il signor Browne,

dopo avergli richiamata l’attenzione sul disordine delle vesti, riempì senz’altro un

bicchiere e glielo porse. Macchinalmente Freddy lo prese con la sinistra, essendo

la destra impegnata a riassettare altrettanto macchinalmente il vestito, e ancor

prima d’aver raggiunto il culmine della storiella, mentre il signor Browne, cui

l’allegria raggrinziva sempre di più il viso, si mesceva un altro whisky, esplose in

una risata rauca e acuta e posato il bicchiere intatto sulla credenza, tornò a

fregarsi l’occhio col pugno sinistro ripetendo, per quanto glielo permetteva

l’accesso d’ilarità, l’ultima frase della storiella.

Gabriel non riusciva a prestare attenzione al pezzo da concerto irto di scale e di

passaggi difficili che Mary Jane suonava in sala dinanzi all’uditorio silenzioso. Gli

piaceva la musica ma quel pezzo per lui era privo di melodia e dubitava che fosse

tale anche per gli altri, sebbene avessero pregato tutti insistentemente Mary Jane

di suonare qualcosa.

Quattro giovanotti che, richiamati dal suono del pianoforte, avevano lasciato il

“buffet” per venirsi a fermare sulla soglia, se n’erano andati via pian piano, due

alla volta, pochi minuti dopo. Le sole persone che avevan l’aria di seguire la

musica erano Mary Jane stessa le cui mani scorrevano sulla tastiera o si

alzavano nelle pause come quelle di una sacerdotessa in una momentanea

invocazione, e zia Kate che le stava a fianco per voltarle le pagine.

Gli occhi di Gabriel abbagliati dal riflesso del pesante lampadario sul pavimento

lucidato a cera, si spostarono sulla parete di fronte, sopra il pianoforte. Là stava

appeso un quadro della scena del balcone nella “Giulietta e Romeo” accanto a un

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altro ricamato in lane blu, rosse e marroni da zia Julia quand’era ragazza, e

raffigurante i due giovani principi uccisi nella Torre. Probabilmente nella scuola

cui andavano allora, quel lavoro aveva costituito l’insegnamento di un anno

intero.

Anche sua madre gli aveva fatto in dono per un compleanno un panciotto di

moerro viola lavorato a piccole teste di volpi, con bordi in seta marrone e bottoni

rotondi a forma di more. Era strano ch’ella non avesse alcun talento per la

musica, sebbene zia Kate solesse chiamarla il cervello della famiglia Morkan.

Erano sempre state fiere tutt’e due, Kate e Julia, di quella sorella rigida e

imponente. C’era la sua fotografia sulla specchiera: teneva un libro aperto sulle

ginocchia e vi additava qualcosa a Constantine che le sedeva ai piedi, vestito alla

marinara. Lei stessa aveva scelto i nomi ai figlioli, sensibile com’era ad ogni sorta

di dignità familiare, e grazie a lei Constantine faceva adesso il curato a

Balbriggam e Gabriel aveva preso la sua laurea all’università. Un’ombra gli passò

sul viso rammentando l’ostinata opposizione della madre al suo matrimonio.

Frasi meschine da lei usate in proposito gli tornarono alla memoria: una volta

aveva parlato di Gretta come di una contadina astuta, cosa assolutamente non

vera. Ed era stata proprio Gretta a curarla in quella sua ultima lunga malattia

nella casa di Monkstown.

Capì che Mary Jane doveva esser prossima alla fine poiché ripeteva la melodia

iniziale con volate di scale ad ogni battuta, e aspettando, il risentimento gli morì

in cuore. Un trillo di ottave negli acuti e un fondo accordo finale nel basso

terminarono il pezzo e un applauso nutrito salutò Mary Jane che arrossendo e

arrotolando nervosamente il foglio di musica, fuggiva dalla sala. L’applauso più

fragoroso venne dai quattro giovanotti che, ritiratisi al “buffet” appena cominciato

il pezzo, eran riapparsi sull’uscio alla fine.

Si combinarono i lancieri e Gabriel si trovò ad aver per compagna la signorina

Ivors, una ragazza loquace e franca di modi, col viso lentigginoso e gli occhi bruni

e sporgenti, la quale portava un vestito accollato e sul davanti un largo fermaglio

con sopra un motto e un emblema irlandese. Quando ebbero preso posto, ella

disse d’un tratto:

- Avrei un conto da regolare con voi.

- Con me?

Assentì grave.

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- E di che si tratta, sentiamo? - chiese Gabriel sorridendo di tanta sostenutezza.

- Mi sapreste dire chi sarebbe G. C.? - fece la ragazza di rimando piantandogli gli

occhi in viso.

Gabriel arrossì e stava per aggrottare le sopracciglia, come sempre gli accadeva

quando non capiva, allorché lei disse brusca:

- Non mi fate l’innocentino adesso. Ho scoperto che scrivete sul «Daily Express».

Non vi vergognate?

- E perché dovrei vergognarmi? - domandò Gabriel, sbattendo le palpebre e

sforzandosi di sorridere.

- Vuol dire che allora mi vergognerò io per voi, - dichiarò la signorina

Ivors con franchezza. - Pensare che scrivete per un giornale simile. Non credevo

che foste un anglofilo.

Il viso di Gabriel prese un’espressione perplessa. Era vero che ogni mercoledì

scriveva per il «Daily Express» un articolo di critica letteraria che gli veniva pagato

quindici scellini. Ma ciò non stava certo a significare che fosse un anglofilo. I libri

che riceveva da recensire gli giungevano più graditi del misero assegno: amava

sentirsene fra le dita la copertina e sfogliarne le pagine stampate di fresco. Quasi

tutti i giorni, finite le lezioni al collegio, se ne andava a vagabondare sul

lungofiume nelle botteghe di libri usati, da Hickey sulla Bachelor Walk, da Webb

o da Massey sull’Alston Quay e da O’Clohissey in un vicolo laterale. Non sapeva

adesso come far fronte all’accusa della ragazza.

Avrebbe voluto dirle che l’arte e la letteratura restavano sempre al di sopra della

politica. Ma erano amici di lunga data e anche nella vita avevano seguito strade

parallele, prima all’università e in seguito come insegnanti: e non poteva

azzardarsi a frasi pompose con lei. Seguitò così a sbattere le palpebre sforzandosi

di sorridere, poi balbettò che non vedeva cosa c’entrasse la politica con le

recensioni.

Era ancora perplesso e distratto quando venne il loro turno di traversare e la

signorina Ivors dovette prenderlo con mossa decisa per mano dicendogli in tono

bonario:

- Via, via scherzavo! Venite, tocca a noi passare dall’altra parte.

Quando poi si ritrovarono insieme portò il discorso su questioni universitarie e

Gabriel si sentì più a suo agio. Era stata un’amica, gli disse, a mostrarle una sua

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critica sui poemi di Browning e così aveva scoperto il segreto. L’articolo però le

era piaciuto immensamente. Disse ad un tratto:

- Ma perché Conroy, non ci venite anche voi alle isole Aran quest’estate? Noi ci

staremo tutto un mese. Sarà magnifico trovarsi laggiù in pieno Atlantico.

Dovreste proprio venirci. Verranno anche il signor Clancy e il signor Kilkelly e

Kathleen Kearney... Anche a Gretta piacerebbe, ne sono sicura. È di Connacht,

vero?

- La sua famiglia, sì, - tagliò corto Gabriel.

- Verrete allora? - ripeté con entusiasmo la ragazza posandogli la mano calda sul

braccio.

- Il fatto è che avrei già in mente di andare...

- Andare dove?

- Sapete ogni anno combiniamo un giro in bicicletta con gli amici e...

- Ma dove?

- Be’, di solito in Francia o nel Belgio o magari in Germania... - rispose Gabriel

imbarazzato.

- E perché ve ne andate in Francia o nel Belgio invece di visitare il vostro paese?

- Mah, così, un po’ per tenermi in esercizio con le lingue e un po’ per cambiare

aria.

- E la vostra lingua, l’irlandese non vi basta?

- Be’, in quanto a questo allora vi dirò che l’irlandese non é la mia lingua.

Le coppie vicine si erano già voltate per seguire la discussione; Gabriel si

guardava nervosamente a destra e a sinistra e nonostante la prova che lo faceva

arrossire fino alla radice dei capelli, si sforzava di non perdere il buonumore.

- Non avete dunque il vostro paese da visitare, il vostro paese e la vostra gente

che ancora non conoscete? - lo incalzò la signorina Ivors.

- Oh, a dirvi la verità sono stufo del mio paese, stufo! - esplose Gabriel d’un

tratto.

- E per quale ragione, sentiamo?

Ma Gabriel non rispose perché lo scatto improvviso gli aveva mandato il sangue

alla testa.

- Per quale ragione? - insisté la Ivors.

La danza imponeva adesso la figura delle visite e siccome egli continuava a tacere

la Ivors lo rimbeccò brusca.

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- Non avete nulla da rispondermi, naturalmente.

Gabriel cercava di nascondere il suo turbamento partecipando alla danza con

grande energia. Evitava però d’incontrare gli occhi della ragazza in cui leggeva

l’irritazione; e quando così si ritrovarono nella catena lo sorprese sentirsi

stringere forte per mano. Ella lo guardò per un istante con aria beffarda finché lui

non fu costretto a sorridere, poi, proprio mentre la catena stava per riprendere,

s’alzò in punta di piedi e gli sussurrò all’orecchio:

- Anglofilo!

Finito il ballo, Gabriel si ritirò in un angolo appartato della stanza dov’era seduta

la madre di Freddy Malins, una vecchia grossa e malandata, dai capelli bianchi.

Aveva anche lei una specie di singulto nervoso come il figlio, e parlando

balbettava un poco: le avevano detto che Freddy era arrivato e non stava poi tanto

male. Gabriel le chiese se aveva fatto una buona traversata: viveva a Glasgow in

casa d’una figliola e veniva a Dublino una volta l’anno. Rispose placida che sì la

traversata era stata ottima e il capitano si era dimostrato pieno di attenzioni nei

suoi riguardi. Parlò anche della bella casa della figlia a Glasgow e dei numerosi

amici che frequentavano, e via via ch’ella seguitava nel suo balbettìo, Gabriel si

sforzava di bandire dalla memoria ogni ricordo dello spiacevole incidente con la

signorina Ivors.

Certo la ragazza, o donna che fosse, era un’esaltata, ma c’è sempre tempo e luogo

per tutto. Lui forse non avrebbe dovuto risponderle a quel modo e d’altra parte lei

non aveva diritto di chiamarlo anglofilo in presenza di tutti, nemmeno per

scherzo. Aveva voluto metterlo in ridicolo dinanzi alla gente, punzecchiandolo con

le sue domande ridicole e piantandogli in faccia quegli occhi da coniglio.

Vide la moglie che gli veniva incontro attraverso le coppie dei ballerini. Raggiunto

che l’ebbe, gli disse all’orecchio:

- Gabriel, zia Kate vorrebbe sapere se la taglierai tu l’oca, come al solito. La

signorina Daly taglierà il prosciutto e io il “pudding”.

- Benissimo.

- Dice che prima manderà al “buffet” la gioventù, appena finito il valzer, così dopo

avremo il tavolo tutto per noi.

- E tu hai ballato?

- Certo. Non m’hai visto? A proposito si può sapere che razza di battibecco hai

avuto con Molly Ivors?

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- Nessun battibecco. Perché? Te l’ha detto lei?

- Già, press’a poco. Vorrei indurre a cantare quel signor D’Arcy. Ma mi pare un

tipo pieno di sé...

- Nessun battibecco, - ripeté Gabriel irritato. - È stato solo che avrebbe voluto

farmi partecipare a un viaggio nell’Irlanda dell’ovest e io le ho detto di no.

La moglie ebbe un balzo e giunse le mani eccitata:

- Oh, Gabriel ti prego, mi piacerebbe tanto rivedere Galway!

- E vacci tu allora se ti va! - rispose Gabriel freddo.

Lei lo guardò un istante poi si rivolse alla signora Malins.

- Che maritino gentile, eh, signora? - le disse.

Mentre tornava ad allontanarsi attraverso la sala la signora Malins, senza

avvertire l’interruzione, continuò a parlare a Gabriel dei bei posti che c’erano in

Iscozia e dei paesaggi magnifici. Ogni anno il genero li portava sui laghi e là

andavano a pesca: era un pescatore nato, suo genero. Un giorno aveva preso un

pesce stupendo e il cuoco dell’albergo lo aveva cucinato per desinare.

Gabriel udiva appena ciò che stava dicendo. Adesso che s’avvicinava l’ora di cena

ricominciava a pensare al suo discorso e alle famose citazioni, e visto Freddy

Malins che veniva ad intrattenersi con la madre, gli lasciò libera la sedia e si ritirò

nel vano di una finestra. La sala si era in parte svuotata e dalla stanza di fondo

veniva un acciottolìo di piatti e posate: i rimasti parevano stanchi di ballare e

conversavano quieti a gruppetti. Le dita di Gabriel calde e tremanti

tamburellavano il vetro della finestra. Come doveva far freddo fuori! E che piacere

sarebbe stato passeggiare là, solo, prima lungo il fiume e poi attraverso il parco!

Ci doveva esser neve sui rami degli alberi e neve in splendente cappuccio in cima

al monumento di Wellington. Quanto sarebbe stato più bello trovarsi laggiù che

non lì, al tavolo della cena!

Ripassò nella mente i punti principali del discorso: l’ospitalità irlandese, i tristi

ricordi, le tre Grazie, Paride, e la citazione del Browning. Si ripeté una frase

scritta nell’articolo: «Par d’ascoltare una musica tormentata di pensiero». La Ivors

gliene aveva fatto le lodi. Era sincera? Viveva veramente di una vita propria dietro

lo zelo della propagandista? Fino a quella sera non c’erano stati malintesi di sorta

fra loro. Lo innervosiva il pensiero che sarebbe stata lì al tavolo della cena

fissandolo con quei suoi occhi canzonatori mentre parlava: non le sarebbe

dispiaciuto forse, vederlo far fiasco. Un’idea venne a dargli coraggio. Avrebbe

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detto alludendo a zia Julia e zia Kate: «Signore e signori! la generazione che

giunge adesso al declino potrà avere avuto le sue colpe ma per parte mia non

credo mancasse di certi pregi di ospitalità, spirito e comprensione di cui questa

nuova generazione, sapercolta e pacata che ci vediamo crescere sotto gli occhi, mi

appare invece completamente priva». Magnifico: quella era la botta per la

signorina Ivors. Che gliene importava in fin dei conti se le zie non erano poi che

due vecchie ignoranti!

Un mormorio in sala attrasse la sua attenzione. Dalla soglia veniva avanti il

signor Browne a galante scorta di zia Julia che gli s’appoggiava al braccio

sorridendo e chinando il capo. Una salva d’applausi li accompagnò fino al

pianoforte e andò poi spengendosi via via mentre Mary Jane s’accomodava sullo

sgabello e zia Julia senza più sorridere, si voltava a mezzo verso l’uditorio in

modo da aggiungere alla voce maggior risonanza.

Gabriel riconobbe subito il preludio, quello d’una vecchia canzone di zia Julia:

“Adorna per le nozze”. La voce forte e chiara di tono attaccò con brio i gorgheggi

che abbellivano la melodia senza mancarne, nonostante la fretta, la minima

fioritura, e a seguirla, evitando di guardare la faccia della cantante, pareva di

partecipare all’impeto di un volo rapido e sicuro. Alla fine del pezzo, Gabriel

applaudì forte assieme agli altri, un nutrito applauso si partì anche dall’invisibile

tavolata nella stanza di fondo e suonò così sincero che un po’ di rossore salì al

viso di zia Kate, intenta a riporre nello scaffale il vecchio volume di canzoni

rilegato in cuoio, con le iniziali sulla copertina.

Freddy Malins poi, che era stato ad ascoltare con la testa inclinata da un lato per

sentir meglio, continuava ad applaudire anche adesso che tutti avevano finito e

intanto parlava animatamente con la madre la quale assentiva grave col capo. E

finalmente quando proprio fu stanco di applausi s’alzò e traversata in fretta la

sala si precipitò a stringere con ambo le mani quelle di zia Julia scuotendogliele

con forza ogni volta che lo prendeva il singulto o venivano a mancargli le parole.

- Stavo giusto dicendo alla mamma che non vi ho mai sentita cantare così bene.

Sì proprio, la vostra voce non mi è mai parsa così bella come stasera. Non mi

credete? Eppure, parola mia d’onore, è la verità... Davvero, non l’ho mai sentita

così fresca e chiara, mai...

Zia Julia ebbe un largo sorriso e liberando la mano dalla stretta mormorò

qualcosa sui complimenti in generale. Allora il signor Browne tese il braccio verso

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153

di lei e col tono e il gesto dell’imbonitore che presenta al pubblico un fenomeno

vivente, disse a coloro che gli stavano vicino:

- La signorina Julia Morkan, la mia ultima scoperta!

Continuava a ridersela da solo di tutto cuore, quando intervenne Freddy Malins.

- Scherzi a parte, Browne, come scoperta non avete da lamentarvi.

Quanto a me vi posso dire che da quando vengo qui in casa non l’ho mai sentita

cantare come stasera, ecco. E questa è la pura verità.

- Giustissimo, - confermò Browne. - E infatti ritengo anch’io che la sua voce sia

migliorata di molto.

Zia Julia alzò le spalle e disse con timido orgoglio:

- Be’, una trentina d’anni fa forse non era male davvero.

- Quante volte gliel’ho detto io che era sprecata in quel coro, - interloquì zia Kate

con enfasi. - Ma lei non mi ha mai voluto dar retta.

Si rivolse agli altri come per fare appello al loro buon senso di fronte a una

bambina capricciosa, nel mentre zia Julia guardava fisso dinanzi a sé, un vago

sorriso di reminiscenza sul volto.

- E invece non si è mai lasciata convincere né da me né da nessuno, - continuò

zia Kate, - e ci s’è affaticata giorno e notte. Giorno e notte, sì

In piedi alle sei del mattino anche il giorno di Natale! E tutto a che scopo?

- A maggior onore e gloria di Dio, non credi, zia Kate? - osservò Mary Jane

sorridendo e rigirandosi sul seggiolino.

Ma zia Kate le si rivoltò furibonda.

- A maggior onore di Dio, già, ma in quanto al Papa non trovo che gli torni affatto

ad onore cacciar via dai cori le donne che ci hanno faticato tutta la vita per

rimpiazzarle con dei marmocchi buoni a nulla. Lo farà magari per il bene della

Chiesa, ma non è giusto, ecco, non è giusto!

Si era accalorata nel discorso e dato che il soggetto le cuoceva avrebbe anche

potuto continuare all’infinito la difesa della sorella se Mary Jane, visto che i

ballerini erano tornati tutti, non fosse intervenuta a placarla.

- Su su zia Kate, non t’accorgi di dare scandalo al signor Browne che è di opinioni

diverse?

Zia Kate si rivolse in fretta al signor Browne che a quell’accenno alla sua religione

se la ridacchiava piano fra sé, e disse in fretta:

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- Oh, non voglio mica mettere in dubbio le ragioni del Papa. So bene di non essere

che una povera vecchia e non mi presumo da tanto. Ma nella vita di tutti i giorni

non c’è cosa come la gentilezza d’animo e la gratitudine. E fossi io Julia glielo

direi chiaro e tondo a quel Padre Healey.

- Del resto, zia Kate, - osservò Mary Jane, - abbiamo tutti fame e si sa che

quando si ha fame ci si sente d’umor battagliero.

- Be’, questo succede anche quando si ha sete, - disse il signor Browne.

- In conclusione allora faremmo bene ad andarcene tutti a tavola e rimandare a

dopo la discussione.

Sul pianerottolo dinanzi alla sala Gabriel trovò Mary Jane e la moglie che

cercavano di convincere la signorina Ivors a rimanere per la cena. Ma la Ivors che

si era già messa il cappello e si stava abbottonando il soprabito, non ne voleva

sapere. Non sentiva per nulla appetito e si era trattenuta anche troppo.

- Ma è questione di dieci minuti, Molly, - disse la signora Conroy. - Non sarà per

questo che farai tardi, no?

- Fa bene un boccone dopo il ballo! - insisté Mary Jane.

- Davvero non posso!

- Ma allora vuol dire che non ti sei divertita!

- Che dici, non mi sono mai divertita tanto in vita mia, stanne certa. Ora però

dovete proprio lasciarmi scappare... - - E come fai a tornare a casa?

- Son solo due passi da qui al lungofiume.

Gabriel esitò un istante poi disse:

- Se proprio siete decisa ad andarvene signorina Ivors, permettete almeno che

v’accompagni.

Ma quella già s’avviava.

- Per l’amor di Dio, non ne parlate neppure. Andate, andate alla vostra cena e non

vi date pena per me. So cavarmela da sola.

- Che tipo strano sei, Molly! - dichiarò franca la signora Conroy.

- «“Beannacht libh!”» - gridò la Ivors con una risata correndo giù per le scale.

Mary Jane la seguì con lo sguardo, un’espressione fra urtata e perplessa sul viso,

mentre la signora Conroy si sporgeva dalla ringhiera per sentire se la porta

d’ingresso veniva richiusa. Dal canto suo Gabriel si domandò se non fosse lui per

caso la causa di quella brusca partenza. Non pareva di cattivo umore, però: anzi

se n’era andata ridendo. Fissò le scale con occhio distratto.

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In quella sopraggiunse trotterellando zia Kate che quasi si torceva le mani dalla

disperazione.

- Ma Gabriel, Gabriel, dove diavolo ti sei cacciato? Son tutti di là ad aspettare col

piatto in mano e nessuno che mi tagli l’oca.

- Eccomi, eccomi zia Kate, - gridò Gabriel con improvvisa animazione, - pronto a

tagliarne anche un reggimento, se necessario.

A un capo del tavolo troneggiava un’oca grassa e dorata e dall’altro, sopra un letto

di rametti di prezzemolo e di carta pieghettata che ne avvolgeva l’osso in nitida

frangia, un enorme prosciutto libero di cotenna e debitamente cosparso di pane

grattugiato, con accanto un bel tocco di manzo arrosto alle spezie. Fra questi

capisaldi rivali correvano due file parallele di piatti di mezzo: due cupole di

gelatina gialla e rossa, una coppa colma di blocchi di bianco mangiare e di

marmellata, un vassoio verde a forma di foglie di fico col manico a mo’ di gambo e

sul quale s’ammucchiavano grappoli d’uva porporina e mandorle sbucciate e un

altro compagno che faceva da piedistallo a un solido cubo di fichi di Smirne, una

scodella di mostarda coperta di crema e spruzzata di noce moscata, una coppa

piena di cioccolatini e altri dolci incartati d’oro e d’argento, un vaso di vetro da

cui spuntavano lunghi gambi di sedano; e nel centro, come sentinelle dinanzi a

un’alzata che reggeva una piramide d’arance e di mele americane, due belle

caraffe di cristallo all’antica, una ricolma di porto e l’altra di sherry scuro. Sul

piano poi aspettava l’enorme vassoio giallo del “pudding” e dietro s’allineavano tre

squadre di bottiglie di birra e d’acqua minerale, disposte a seconda del colore

dell’etichetta: le prime due nere a strisce rosse e marroni e la terza, più piccola,

bianca a strisce verdi.

Gabriel prese baldanzoso il suo posto ed esaminato il filo del coltello, con mano

ferma piantò la forchetta nell’oca. Si sentiva adesso perfettamente a suo agio e

poiché era esperto nell’arte del siniscalco, nulla gli riusciva più gradito che

trovarsi a capo d’una tavola bene imbandita.

- Signorina Furlong che preferite, un’ala o una fettina di petto?

- Una fettina di petto, prego.

- E voi, signorina Higgins?

- Quel che vi pare, signor Conroy.

Mentre Gabriel e la signorina Daly scambiavano i piatti con l’oca, l’arrosto e il

prosciutto, Lily faceva il giro degli invitati col vassoio delle patate calde e farinose

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avvolto in un tovagliolo di bucato. Quella era stata un’idea di Mary Jane che

aveva suggerito anche la composta di mele da servire con l’oca. Ma zia Kate aveva

detto che a gusto suo la semplice oca arrosto senza composte di sorta era sempre

parsa anche troppo e s’augurava di non averla mai da rimpiangere.

Mary Jane vigilava sulle sue alunne, attenta a che prendessero i bocconi migliori

e nel frattempo zia Kate e zia Julia provvedevano a trasferire via via dal pianoforte

alla tavola le bottiglie di birra chiara e scura per gli uomini e di acqua minerale

per le signore. C’era insomma una gran confusione: ciarle, risate, ordini,

contrordini, rumor di forchette e coltelli, di tappi e coperchi. Finito il primo giro

Gabriel, senza nemmeno servirsi, attaccò immediatamente il secondo, ma alle

generali proteste dovette in via di compromesso accettare un buon sorso di birra

poiché davvero aveva fatto una bella fatica.

Anche Mary Jane si era adesso seduta calma calma dinanzi al suo piatto mentre

zia Kate e zia Julia continuavano a trotterellare attorno al tavolo pestandosi i

piedi, sbarrandosi il passo e dandosi reciprocamente degli ordini di cui nessuna

delle due teneva conto. Il signor Browne le pregò allora di accomodarsi a cenare

in santa pace e anche Gabriel insistette, ma loro dissero che c’era tempo per

quello, finché alla fine Freddy Malins non s’alzò e afferrata per le spalle zia Kate,

non la costrinse fra le risate generali a sedersi al suo posto.

Servito che ebbe tutti a dovere, Gabriel dichiarò sorridendo:

- Adesso se qualcuno ha ancora voglia d’abboffarsi, come volgarmente si dice, non

ha che da dirlo.

In risposta un coro di voci lo esortò a prendersi la sua cena e Lily si fece avanti

con le tre patate che gli erano state messe da parte.

- Benissimo, - consentì amabile tirando giù come aperitivo un altro sorso di birra,

- vuol dire che vi prego allora di dimenticarvi per qualche minuto la mia

esistenza.

Attaccò così il pasto senza partecipare alla conversazione con cui i commensali

coprivano il rumore dei piatti che Lily toglieva via via dalla tavola. Ne era oggetto

la compagnia lirica a quel tempo in funzione al Royal Theatre. Il signor Bartell

D’Arcy, il tenore, un giovanotto scuro di pelle e dai baffetti alla moscardina,

teneva in gran pregio il contralto, mentre la signorina Furlong le riscontrava

invece un gioco scenico piuttosto volgare; e Freddy Malins, dal canto suo,

sosteneva che a suo parere il capo tribù negro che si esibiva nella seconda parte

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del balletto aveva una delle più belle voci di tenore che gli fosse mai capitato di

udire.

- L’avete inteso? - domandò al signor D’Arcy interpellandolo dall’altra parte del

tavolo.

- No, - rispose D’Arcy in tono incurante.

- Perché m’interesserebbe sapere la vostra opinione, - spiegò Freddy Malins. - Per

conto mio è una voce magnifica.

- Eh, ci vuole il nostro Teddy qui per scoprire i tipi in gamba, - osservò

familiarmente il signor Browne rivolgendosi a tutta la tavolata.

- E perché non dovrebbe avere una bella voce, sentiamo? - lo rimbeccò Freddy

Malins in tono acre. - Perché è un negro, forse?

Nessuno rispose alla domanda e Mary Jane riportò il discorso sul tema dell’opera

in generale. Una delle sue allieve le aveva dato un biglietto per la “Mignon”; un bel

lavoro certo, ma le faceva rivenire in mente la povera Georgina Burns. In quanto

al signor Browne poteva risalire ad epoche anche più remote, allorché venivano a

Dublino le compagnie italiane d’una volta: Tietjens, Ilma de Murzka, Campanini,

il grande Trebelli, Giuglini, Ravelli, Aramburo. Che tempi, diceva, allora sì che si

sapeva cantare! E narrava di quando non c’era sera che l’anfiteatro al Royal non

fosse gremito e del tenore italiano che aveva dovuto bissare per ben cinque volte

l’aria “Lasciatemi cader come un soldato!” salendo ogni volta al do di petto, e di

quelli del loggione che nell’impeto dell’entusiasmo solevano staccare i cavalli dalla

carrozza di certe prime donne famose per portarle loro stessi in trionfo per le vie

fino all’albergo. Perché oggi non si dànno più le grandi opere di un tempo, come la

“Dinorah” e la “Lucrezia Borgia”? Perché non ci sono più voci che le sappian

cantare. Ecco perché.

- Be’, a mio avviso oggi come allora non mancano i bravi cantanti, - affermò

Bartell D’Arcy.

- E dove sono, me lo sapete dire? - domandò il signor Browne in tono di sfida.

- A Londra, a Parigi, a Milano, - rispose Bartell D’Arcy con calore. - Caruso, tanto

per fare un nome, non credo possa dirsi da meno di quelli che avete nominato or

ora.

- Sarà, ma permettetemi di dubitarne.

- Ah, darei chissà cosa pur di sentire Caruso! - esclamò Mary Jane.

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- Per me invece, - dichiarò zia Kate che aveva finito giusto allora di rosicchiare un

ossicino, - non c’è stato che un tenore al mondo. A gusto mio s’intende. Ma forse

voi non ne avrete mai sentito parlare...

- E chi, signorina Morkan? - domandò Bartell D’Arcy per cortesia.

- Si chiamava Parkinson, - rispose zia Kate. - L’ho inteso nel pieno del suo

splendore e a mio parere aveva allora una delle voci più pure che sia mai stata

data a essere umano.

- Strano, - osservò Bartell D’Arcy, - m’è un nome nuovo.

- Sì, sì, la signorina Morkan ha ragione, - intervenne il signor Browne, - ricordo

anch’io d’averlo sentito nominare il vecchio Parkinson, ma si risale a tempi un po’

troppo lontani per me...

- Un bel tenore inglese dalla voce dolce e melodiosa, - disse con entusiasmo zia

Kate.

Poiché Gabriel aveva finito venne portato in tavola il “pudding” e il tintinnìo di

forchette e cucchiai ricominciò. Era la moglie di Gabriel a scodellarlo nei piatti

che passava poi torno torno alla tavola e che Mary Jane tratteneva a metà strada

per guernirli di conserva d’arance o di lamponi, di gelatina o bianco mangiare.

L’aveva fatto zia Julia il “pudding” e ne fu lodata all’unanimità. Lei però non lo

trovava brunito abbastanza.

- Guardate me allora per consolarvi, signorina Morkan, - le disse il signor

Browne. - Io sì che sono bruno e di nome e di fatto! [bruno - N.d.T.].

Tutti gli uomini per riguardo a zia Julia presero un po’ di “pudding” eccetto

Gabriel che non mangiava mai dolci e al quale avevano perciò riservato il sedano.

Anche Freddy Malins anzi ne prese un gambo e lo mangiò assieme al “pudding”:

gli avevano detto che faceva bene al sangue e lui si trovava appunto sotto cura.

La signora Malins che aveva taciuto per tutta la cena disse che il figlio sarebbe

andato a Mount Melleray fra una settimana o due. Si misero così a parlare tutti di

Mount Melleray e della bell’aria che c’era e dei monaci che non chiedevano mai

un centesimo per la loro ospitalità.

Il signor Browne domandò incredulo:

- Non vorrete mica darmi ad intendere che può andarcisi a installare chiunque

come all’albergo e mangiare e bere e dormire a volontà senza pagare un soldo,

no?

- Be’, i più lasciano un obolo per la chiesa prima d’andarsene, - disse Mary Jane.

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- Magari ci fossero anche nella nostra chiesa, istituzioni del genere! - dichiarò

ingenuamente il signor Browne. Lo stupì inoltre sentire che i monaci non

parlavano mai, s’alzavano alle due del mattino e dormivano in una bara. Ne

domandò la ragione.

- È la regola, - rispose zia Kate con fermezza.

- Sì, ma perché? - tornò a insistere il signor Browne.

Zia Kate ripeté che era la regola, ecco tutto e poiché il signor Browne non si

dimostrava convinto, Freddy Malins cercò di spiegargli come meglio poté che a

quel modo i monaci intendevano far penitenza per i peccati di tutti i peccatori del

mondo. Ma evidentemente nemmeno questa spiegazione resultò troppo chiara

perché il signor Browne fece una risatina e osservò:

- L’idea mi piace, ma invece della bara non sarebbe meglio un bel letto morbido?

- La bara, - intervenne allora Mary Jane, - dovrebbe ricordar loro l’inevitabile fine.

Il discorso cadeva nel lugubre e opportunamente venne sepolto nel silenzio di

tutta la tavola, durante il quale si udì la signora Malins confidare in mormorio

indistinto al suo vicino:

- Brava gente i monaci, gente timorata di Dio...

Venivano adesso serviti mandorle, uva, fichi, mele, arance e cioccolatini, e zia

Julia offriva a tutti porto e sherry. Dapprima Bartell D’Arcy rifiutò l’uno e l’altro

ma a una gomitata di uno dei suoi vicini di tavola che si chinò a sussurrargli

qualcosa, permise che gli riempissero il bicchiere. Man mano che si mesceva, la

conversazione languiva.

Seguì una pausa, rotta solo dal gorgogliare del vino e da un rumore di sedie

smosse. Le tre signorine Morkan abbassarono di comune accordo gli occhi sulla

tovaglia, qualcuno tossì e altri batterono colpetti sulla tavola per ristabilire il

silenzio. Ottenuto che fu, Gabriel spostò la sedia e s’alzò.

S’accrebbero allora i colpetti come per incoraggiamento, e poco a poco cessarono.

Appoggiate dieci dita tremanti sulla tovaglia, Gabriel sorrise nervoso alla

compagnia e incontrando quella fila di facce voltate a guardarlo, alzò gli occhi al

lampadario. Di là in sala il pianoforte suonava un tempo di valzer e gli giungeva

fin lì il fruscio delle vesti contro la porta. Fuori forse, sulla neve del lungofiume la

gente guardava le finestre illuminate e ascoltava la musica. Era pura, l’aria,

laggiù. In distanza si stendeva il parco con gli alberi carichi di neve, e neve in

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splendente cappuccio scintillava sul monumento di Wellington, scintillava verso

ovest, sulla bianca pianura dei Fifteen Arcs.

Cominciò:

- Signore e signori, m’è dato in sorte stasera, come già in anni trascorsi,

d’assolvere un compito senza dubbio gradito, ma per il quale assai temo

l’inadeguatezza delle mie scarse facoltà d’oratore.

- No, no! - lo interruppe a protesta il signor Browne.

- Comunque non mi resta che pregarvi di tener conto soprattutto della buona

intenzione e di prestarmi orecchio attento nei pochi momenti in cui mi sforzerò

d’esprimere in parole quali siano in tale circostanza i miei sentimenti. - Non è la

prima volta, signore e signori, che questo tetto ospitale e questa ospitalissima

mensa ci riuniscono e non è la prima volta che siamo oggetto, o forse sarebbe

meglio dire vittime, della cortesia di certe care madamigelle...

Fece un largo gesto circolare col braccio e si fermò mentre sorrisi e risate venivan

rivolti all’indirizzo di zia Kate, zia Julia e Mary Jane che si erano fatte color

cremisi dal piacere. Proseguì più ardito:

- Ogni anno che passa sento con maggior forza come non vi sia

tradizione che più onori il nostro paese e che più gelosamente debba essere

conservata, dell’ospitalità. Tradizione invero più unica che rara fra le nazioni

moderne, per quanto almeno me lo consente la mia esperienza, e non son poche

le città e i paesi stranieri da me visitati.

Taluno mi vorrà forse osservare che si tratta qui più d’un difetto che di una

qualità di cui ci sia da vantarsi. Ma anche ammettendolo, si tratta pur sempre a

mio avviso di difetto ben nobile e tale d’augurarsi che a lungo venga coltivato fra

noi. Di una cosa almeno son certo: fintanto che questo tetto darà riparo alle

gentili signore sunnominate - il che m’auguro di tutto cuore sarà ancora per

molti, moltissimi anni a venire - fino allora, dicevo, la tradizione della sincera,

nobile e cordiale ospitalità irlandese, trasmessaci dai nostri avi e che a nostra

volta trasmetteremo ai nostri discendenti, non si spegnerà fra noi.

Un caloroso mormorio di consenso corse attorno alla tavola. In quel momento gli

tornò in mente la scortese fuga della signorina Ivors e aggiunse sicuro:

- Signore e signori, una generazione nuova ci sta crescendo sotto gli occhi, una

generazione animata da nuove idee e da nuovi principi, seria ed entusiasta,

poiché sia le idee che l’entusiasmo che ne deriva, anche se mal diretti, sono a mio

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avviso per la maggior parte sinceri. Ma purtroppo viviamo in un’epoca di

scetticismo e, permettetemi la parola, di crisi, e a volte mi coglie il timore che

questa gioventù, per colta e raffinata che sia, manchi di quelle doti di ospitalità,

spirito e comprensione, proprie del tempo antico. Riudendo stasera i nomi di quei

grandi cantanti d’allora m’è parso, lo confesso, di vivere oggi in un’epoca di meno

vasti orizzonti. Erano tempi, quelli, che non a torto potevano esser definiti

spaziosi e anche se ormai sono passati senza più speranza di ritorno,

auguriamoci che in riunioni come questa se ne possa ancora parlare con orgoglio

ed affetto, continuando a nutrire in cuor nostro la memoria dei grandi scomparsi,

la cui fama il mondo non lascerà certo perire.

- Bravo! Bravo! - gridò forte il signor Browne.

- Eppure, - proseguì Gabriel addolcendo la voce in più tenere inflessioni, - eppure

in tali riunioni non mancano mai d’assalirci tristi ricordi: ricordi del passato,

della giovinezza, dei mutamenti, dei visi svaniti di cui sentiamo stasera

l’assenza... Tutto il nostro cammino terreno è sparso di tali ricordi e se dovessimo

indugiarvi, mai troveremmo il coraggio di continuare bravamente la nostra opera

fra i vivi. E tutti li abbiamo questi doveri vitali, questi affetti vitali che reclamano e

con diritto il nostro sforzo più strenuo.

- Non voglio quindi soffermarmici più a lungo, né trarne tristi considerazioni

moralistiche. Ci siamo qui tutti riuniti per un breve istante, a riposo del peso e

dell’affanno della vita quotidiana. Ci siamo qui riuniti non solo come amici, nello

spirito della buona amicizia e, sotto un certo aspetto almeno, come colleghi, nello

spirito del vero cameratismo, ma anche come ospiti delle, come chiamarle? delle

tre Grazie del mondo musicale dublinese.

Risate e applausi seguirono all’allusione e invano zia Julia si pose a domandare

all’uno e all’altro dei suoi vicini cosa avesse mai detto Gabriel.

- Ha detto che siamo le tre Grazie, zia Julia, - le spiegò Mary Jane. Zia Julia non

capì, ma sorridendo alzò gli occhi su Gabriel che continuò sullo stesso tono.

- Signore e signori, non m’azzarderò questa sera alla parte che in altra

circostanza ebbe Paride. Non oserò la scelta. Il compito sarebbe arduo e troppo al

di sopra delle mie povere facoltà. Quando infatti indugio a volte a guardarle, sia

che si tratti della nostra, diremo così, principale padrona di casa il cui buon

cuore, il cui eccessivo buon cuore, anzi, è diventato proverbiale fra tutti coloro

che la conoscono, o della sorella, che pare dotata di un’eterna giovinezza e il cui

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canto stasera ha certamente costituito per tutti una sorpresa e una rivelazione, o

meglio ancora, ultima ma non in merito, della nostra più giovane ospite,

intelligente, gaia, laboriosa e nipote affezionata, confesso che proprio non saprei a

chi dare la palma.

Gabriel abbassò lo sguardo sulle zie e notando il largo sorriso sulla faccia di zia

Julia e le lacrime negli occhi di zia Kate, s’affrettò alla conclusione. Alzò in gesto

cavalleresco il bicchiere di porto e mentre ognuno faceva altrettanto, in attesa,

disse forte:

- Brindiamo dunque a tutt’e tre insieme. Brindiamo alla loro salute, benessere e

lunga vita, felicità e prosperità e a che per molti anni ancora possano mantenere

con orgoglio il posto sì duramente conquistato nella professione, nonché quello

onorato ed amato che tengono nel nostro cuore.

Tutti i commensali s’alzarono, il bicchiere in mano, e volgendosi alle tre donne

che erano rimaste sedute, presero a cantare in coro sotto la guida del signor

Browne:

Poiché cari amici sono

poiché cari amici sono

poiché cari amici sono

mai nessun potrà negar.

Zia Kate ora faceva apertamente uso del fazzoletto e anche zia Julia aveva l’aria

commossa. Freddy Malins batteva il tempo con la forchetta da “pudding” e i

cantori si volgevan l’un l’altro quasi in melodioso discorso, cantando con enfasi.

A men di dire il falso

a men di dire il falso

E tornando poi a voltarsi verso le padrone di casa riprendevano:

Poiché cari amici sono

poiché cari amici sono

poiché cari amici sono

mai nessun potrà negar.

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L’acclamazione che seguì venne ripetuta in diverse riprese dagli altri ospiti, dietro

la porta della stanza, e Freddy Malins seguitava a fare da direttore d’orchestra

con la forchetta per aria.

L’aria pungente del mattino entrava nell’atrio dove si eran raccolti, tanto che zia

Kate disse:

- Chiuda un po’ la porta qualcuno. La signora Malins si prenderà un malanno, se

no.

- C’è Browne di fuori, zia Kate, - disse Mary Jane.

- Vorrei sapere dove non è quel Browne! - osservò zia Kate abbassando la voce.

Mary Jane si mise a ridere.

- Certo che è molto assiduo, - commentò con malizia.

- Già, non si riesce a levarselo di torno finché durano le feste, - disse zia Kate

nello stesso tono.

E questa volta fu lei a ridere di cuore, soggiungendo poi in fretta:

- Be’, ma digli di venir dentro, Mary Jane, e di chiudere la porta. Speriamo che

non m’abbia sentito.

In quel momento la porta si spalancò per dare il passo al signor Browne che

rideva da scoppiare. Aveva indosso un lungo pastrano verde con paramani e

colletto in finto astrakan e in testa un berretto egualmente di pelo. Indicò il

lungofiume tutto coperto di neve, dal quale giungeva lo stridore di un fischio

continuato.

- Teddy farà accorrere tutte le carrozze di Dublino, - disse.

Infilandosi a fatica il cappotto Gabriel si fece avanti dallo stanzino, dietro la

dispensa, e guardatosi attorno chiese:

- E Gretta, non è ancora scesa?

- Si sta vestendo, Gabriel, - gli rispose zia Kate. - Chi è che suona di sopra?

- Nessuno. Se ne sono andati via tutti.

- Ma no zia Kate, - intervenne Mary Jane, - ci sono ancora Bartell D’Arcy e la

signorina O’Callaghan.

- Comunque c’è qualcuno che strimpella, ecco, - ripeté Gabriel.

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Data un’occhiata sia a Gabriel che al signor Browne, Mary Jane disse

rabbrividendo:

- Mi fa venir freddo vedervi così intabarrati. Non vorrei davvero dover tornare a

casa a quest’ora.

- Per me invece, - dichiarò forte il signor Browne, - non ci sarebbe nulla di più

piacevole adesso che una bella camminata in campagna o una scarrozzata di

quelle che intendo io, con un buon cavallino fra le stanghe.

- A casa un tempo tenevamo anche noi cavallo e carrozza, - disse zia Julia con

rimpianto.

- L’indimenticabile Johnny! - rise Mary Jane, e anche zia Kate e Gabriel si misero

a ridere.

- Perché, cosa aveva di straordinario questo Johnny? - chiese il signor Browne.

- Il povero Patrick Morkan, cioè nostro nonno, buon’anima, - spiegò Gabriel, - più

noto negli ultimi anni della sua vita come «il vecchio signore», era un fabbricante

di colla.

- Andiamo, Gabriel, - lo interruppe zia Kate ridendo, - era un mulino d’amido!

- Be’, amido o colla che fosse, il fatto è che il vecchio signore aveva un cavallo

chiamato Johnny. E Johnny lavorava al mulino girando e girando tutto il giorno

per farlo andare. Fin qui niente di male, ma ora viene il tragico. Una bella mattina

il vecchio signore pensò che gli sarebbe piaciuto uscirsene in carrozza come i

gentiluomini suoi pari per assistere a una rivista militare nel parco.

- Che Dio lo abbia in gloria! - commentò zia Kate in tono pio.

- Amen, - le fece eco Gabriel. - E così, come vi dicevo, il vecchio signore attaccò

Johnny, si mise il colletto duro e la tuba migliore e in pompa magna se ne partì

dall’avita magione che si trovava, mi pare, nei pressi di Back Lane.

Tutti si misero a ridere alle parole di Gabriel e zia Kate disse:

- Ma no, Gabriel, non abitava a Back Lane. Là c’era solo il mulino.

- Si partì insomma con Johnny dalla magione dei suoi padri, - continuò Gabriel, -

e tutto andò a meraviglia finché Johnny non arrivò dinanzi alla statua di re Billy e

là, sia che s’innamorasse del cavallo di re Billy sia che pensasse di ritrovarsi al

suo mulino, fatto sta che si mise a girare e a girare attorno al monumento. E in

mezzo alle risate generali, Gabriel con le sue soprascarpe fece un mezzo giro

nell’atrio.

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- Girava e girava e il vecchio signore che molto teneva alla sua dignità, montò su

tutte le furie: «Avanti, avanti signore! Che vi prende dunque? Johnny! Johnny!

Cosa significa questa condotta! Incomprensibile!»

Lo scroscio di risa che seguì alla mimica di Gabriel fu qui interrotto da un sonoro

picchio alla porta d’ingresso. Mary Jane corse ad aprire ed entrò Freddy Malins,

un Freddy Malins col cappello tirato fin sulla nuca, le spalle rattratte a causa del

freddo e sbuffante e ansimante in conseguenza delle sue fatiche.

- Non ho potuto trovare che una carrozza sola, - annunciò.

- Be’, noi ne troveremo un’altra sul lungofiume, - disse Gabriel.

- Sì, sì, - assenti zia Kate. - Meglio non tenerla qui alle correnti la signora Malins.

La signora Malins venne infatti aiutata a scendere i gradini dal figlio e dal signor

Browne e dopo molte manovre issata in carrozza. Freddy Malins salì subito dopo

di lei e impiegò un’infinità di tempo ad accomodarla sul sedile col signor Browne

che lo aiutava coi suoi consigli. Alla fine, comodamente sistemata che fu, Freddy

invitò il signor Browne a salire. Ne seguirono un bel po’ di complimenti e discorsi,

poi come Dio volle anche il signor Browne si decise. Il vetturino allora s’avvolse le

gambe nella coperta e si chinò a chiedere l’indirizzo, la confusione s’accrebbe e

Freddy Malins e il signor Browne si sporsero ciascuno da un finestrino dando due

indicazioni diverse. La difficoltà, era decidere dove depositare il signor Browne e le

zie e Mary Jane, che dalla soglia assistevano alla discussione, venivano in aiuto

con ordini, contrordini e un’infinità di risate. In quanto poi a Freddy Malins non

gli riusciva nemmeno più di parlare dal gran ridere e con la testa faceva un

dentro e fuori continuo, a notevole rischio del cappello, per riferire alla madre i

progressi del dibattito. Finché finalmente il signor Browne dominando il

frastuono, non gridò al cocchiere:

- Sapete dov’è il Trinity College?

- Sissignore.

- Be’, andate dritto fino al Trinity College e là vi diremo che direzione prendere.

Capito?

- Sissignore.

- Come una freccia al Trinity College, allora! - Benissimo, signore.

Un colpo di frusta al cavallo e la carrozza s’avviò rumorosamente fra un ultimo

coro di risate e d’addii.

Page 166: James joyce   gente di dublino

166

Gabriel non era uscito sulla soglia con gli altri. Era rimasto nella parte buia

dell’atrio e guardava su in alto verso le scale. C’era una donna lassù, in cima alla

prima rampa, in ombra anche lei. Non ne riusciva a vedere il viso ma solo i quadri

rosa e color mattone della sottana che l’ombra faceva apparir bianchi e neri. Era

sua moglie. S’appoggiava alla ringhiera e ascoltava qualcosa. Lo sorprese quella

sua immobilità e tese l’orecchio. Ma oltre il rumore delle risate e della discussione

sull’ingresso poté udire ben poco: alcuni accordi sul pianoforte e note sparse

d’una voce d’uomo che cantava.

Fermo nel buio dell’atrio si sforzava d’afferrare il motivo della canzone e guardava

la moglie. Vi era nel suo atteggiamento una grazia e un mistero particolari quasi

ch’ella fosse il simbolo di qualcosa. Si chiedeva cosa potesse mai simboleggiare

una donna lì in piedi nel buio, in ascolto d’una musica lontana. Se fosse stato un

pittore l’avrebbe ritratta così: il bronzo dei capelli a spicco contro l’azzurro del

morbido cappello di feltro e i quadri scuri della sottana che avrebbero dato risalto

a quelli più chiari. “Musica lontana” avrebbe intitolato il quadro, se fosse stato un

pittore.

La porta d’ingresso si richiuse e rientrarono zia Kate, zia Julia e Mary Jane

ancora ridendo.

- Ma sapete ch’è tremendo quel Freddy, - diceva Mary Jane. - Tremendo!

Gabriel non fece parola ma indicò la scala nel punto dove stava la moglie. Ora che

la porta era chiusa la voce e il suono del pianoforte s’udivano più chiaramente.

Sembrava una canzone di vecchio stile irlandese e il cantante appariva incerto sia

delle parole che della propria voce; una voce roca che fatta lamentosa dalla

distanza ne illuminava appena il motivo con espressioni di dolore:

Oh, la pioggia cade sulla mia chioma greve

e la rugiada bagna il mio corpo;

il mio bambino giace gelido...

- Oh, è Bartell D’Arcy che canta! - esclamò Mary Jane. - E pensare che l’avevo

tanto pregato... Gli farò cantare qualcosa adesso, prima che se ne vada.

- Sì, sì vai, Mary Jane, - disse Kate.

Passando davanti agli altri, Mary Jane corse verso le scale ma prima che l’avesse

raggiunte il canto s’interruppe e s’udì il secco richiudersi del pianoforte.

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- Che peccato! Viene giù, Gretta?

Gabriel sentì la risposta affermativa della moglie e la vide scendere verso di loro.

A pochi passi la seguivano il signor Bartell D’Arcy e la signorina O’Callaghan.

- Ah, signor D’Arcy è stata proprio una cattiveria da parte vostra smettere così

d’un tratto proprio mentre tutti noi vi stavamo a sentire incantati! - gridò Mary

Jane.

- L’ho pregato tutta la sera, - disse la signorina O’Callaghan, - e anche la signora

Conroy. Ma lui sostiene che è raffreddatissimo e non può cantare...

- Bugia nera, signor D’Arcy, - osservò zia Kate.

- Ma come, non avete sentito che sono rauco come una cornacchia? - ribatté

brusco il tenore e senz’altro si diresse verso lo stanzino per indossare il soprabito.

Gli altri stupiti da tanta scortesia non seppero che rispondere e zia Kate,

aggrottando le ciglia, fece loro cenno di non insistere. Il signor D’Arcy scuro in

viso s’avviluppava il collo con cura.

- È il tempo, - commentò zia Julia dopo una pausa.

- Eh sì, son tutti raffreddati, - aggiunse pronta zia Kate, - tutti!

- Pare che da trent’anni almeno non si sia mai vista tanta neve, - osservò Mary

Jane. - È nevicato dappertutto, dice il giornale.

- A me piace la neve, - disse zia Julia con tristezza.

- Oh, anche a me! - esclamò la signorina O’Callaghan. - Anzi il Natale non mi pare

nemmeno Natale, se non c’è neve.

- Forse il povero signor D’Arcy non la pensa allo stesso modo, vero? - disse

sorridendo zia Kate.

Il signor D’Arcy uscì dallo stanzino fasciato e imbacuccato fino al collo e in tono

pentito prese a narrare la storia del suo raffreddore. Diedero tutti il loro consiglio,

dissero ch’era un gran peccato e lo esortarono a salvaguardarsi dal fresco della

notte. Gabriel osservava la moglie che non prendeva parte alla conversazione.

Stava in piedi sotto il lampadario polveroso e la fiamma a gas le accendeva il ricco

color bronzo dei capelli che egli le aveva visto asciugare dinanzi al fuoco, pochi

giorni prima. Aveva lo stesso atteggiamento, adesso, e pareva incurante dei

discorsi che si tenevano attorno a lei. Alla fine si voltò e vedendole le guance

arrossate e gli occhi scintillanti, un’onda improvvisa di gioia gli balzò dal cuore.

- Che canzone cantavate prima, signor D’Arcy? - chiese.

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- “La Fanciulla di Aughrim”. Ma non la so bene, - rispose D’Arcy. - Perché? La

conoscete?

- “La Fanciulla di Aughrim”. Non riuscivo a ricordarne il nome.

- Una bella canzone, - disse Mary Jane. - Mi dispiace che non siate in voce

stasera.

- Su, Mary Jane, - intervenne zia Kate, - non stare a tormentarlo questo povero

signor D’Arcy!

Visto che erano tutti pronti li guidò verso la porta dove vennero scambiati gli

ultimi saluti.

- Buona notte, zia Kate e grazie della magnifica serata.

- Buona notte, Gabriel! Buona notte, Gretta!

- Buona notte, zia Kate e grazie di nuovo. Buona notte, zia Julia.

- Oh! buona notte, Gretta, non t’avevo visto...

- Buona notte, signor D’Arcy. Buona notte, signorina O’Callaghan.

- Buona notte.

- Buona notte a tutti e buon viaggio.

- Buona notte, buona notte...

Era ancora buio. Un’opaca luce giallastra s’attardava sulle case e sul fiume e il

cielo pareva più basso sulla terra. C’era fanghiglia al suolo, e la neve restava solo

in chiazze e strisce sui tetti, sui parapetti e sulle cancellate, e le lampade

ardevano rossastre nell’aria buia. Di là dal fiume il Palazzo di Giustizia s’ergeva

minaccioso contro il cielo greve.

Ella gli camminava dinanzi assieme a Bartell D’Arcy, le scarpette involtate in

carta scura sotto il braccio, e le mani reggevano la gonna perché non

s’infangasse. Non aveva più grazia alcuna d’atteggiamento, ma gli occhi di Gabriel

scintillavano ancora di felicità, il sangue gli pulsava impetuoso nelle vene e

pensieri arditi, gai, teneri e orgogliosi gli s’affollavano alla mente.

Gli camminava dinanzi dritta e leggera tanto che avrebbe voluto correrle dietro

senza rumore, afferrarla per le spalle e mormorarle una qualsiasi sciocchezza

affettuosa all’orecchio. Gli pareva così fragile da provare il desiderio di difenderla,

non sapeva nemmeno lui contro chi, e di restare poi solo con lei. Attimi segreti

della loro vita in comune gli sfolgorarono come stelle alla memoria. Una busta

color eliotropio accanto alla tazza della colazione e lui la carezzava piano con le

dita, fuori gli uccelli cinguettavano nell’edera e la trama assolata della tendina

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tremava rasente terra: non riusciva nemmeno a mangiare tanto era felice.

Stavano in piedi nella piattaforma affollata e lui le infilava il biglietto nel palmo

caldo, sotto il guanto. Le era accanto nel freddo e insieme guardavano attraverso

la grata l’uomo che soffiava bottiglie nella fornace ruggente. Faceva freddissimo.

Si sentiva vicino il viso di lei fragrante nell’aria gelida e tutto a un tratto aveva

gridato all’uomo della fornace:

- Ehi, è caldo il fuoco?

Ma quello non aveva inteso per via del rumore. Tanto meglio così: avrebbe potuto

anche rispondergli male. Un’ondata di più tenera gioia gli sfuggì dal cuore e gli

corse in flusso caldo per le vene. Simili a lievi fuochi di stelle, attimi della loro vita

segreta, di quella vita di cui nessuno sapeva e avrebbe mai saputo, irruppero a

rischiarargli la mente.

Desiderava ricordarglieli quegli attimi, e farle dimenticare gli anni della loro

monotona esistenza in comune rendendola memore solo dei momenti di estasi.

Poiché quegli anni, lo sentiva, non avevano spento né la sua anima né quella di

lei, e i figli, il lavoro, le cure domestiche non avevano attenuato il tenero fuoco dei

loro cuori. In una lettera scritta allora le aveva detto: «Perché avviene che parole

come queste mi paiano sempre troppo fredde e insignificanti? È forse perché non

esiste per te nome abbastanza soave?»

Come musica lontana queste parole scritte anni prima gli rinascevano dal

passato. Voleva restar solo con lei. Quando gli altri se ne fossero andati e lui e lei

si fossero ritrovati nella loro camera in albergo, allora sì che sarebbero stati soli.

L’avrebbe chiamata, piano:

- Gretta!

E forse non l’avrebbe inteso subito, intenta a svestirsi. Poi qualcosa nella sua

voce l’avrebbe colpita e si sarebbe voltata a guardarlo...

All’angolo di Winetavern Street trovarono una carrozza, ed egli fu contento che il

rumore che faceva sul selciato lo esimesse dalla conversazione. Ella guardava

fuori del finestrino e aveva l’aria stanca.

Gli altri scambiavano poche parole, additandosi a vicenda un monumento o una

strada. Il cavallo trottava stanco sotto il cielo buio del mattino trascinandosi

dietro la vecchia carcassa scricchiolante e Gabriel di nuovo si ritrovava solo in

carrozza con lei, in corsa per arrivare a tempo al battello, in corsa verso la loro

luna di miele.

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170

Mentre passavano sull’O’Connel Bridge la signorina O’Callaghan disse:

- Pare che non si possa traversare questo ponte senza vedere un cavallo bianco.

- Io vedo un uomo bianco, questa volta, - osservò Gabriel.

- Dove? - chiese D’Arcy.

Gabriel additò la statua chiazzata di neve e facendole un cenno familiare col capo

agitò la mano in segno di saluto.

- Buona notte, Dan! - disse allegramente.

Quando la carrozza si fermò davanti all’albergo, Gabriel saltò giù per primo e

nonostante le proteste del signor D’Arcy pagò la corsa. Diede al cocchiere uno

scellino di mancia e quello salutò e disse:

- Felice anno, signore!

- Altrettanto a voi, - rispose Gabriel cordialmente.

Ella gli s’appoggiò al braccio un momento sia nello scendere dalla vettura sia

dopo, mentre ferma sul marciapiede augurava agli altri la buona notte. Gli

s’appoggiava appena come quando aveva ballato con lui poche ore prima. E

mentre allora si era sentito fiero e felice, felice che fosse sua, fiero della sua

femminilità e della sua grazia, adesso, dopo il riaccendersi di tanti ricordi, quel

primo contatto del suo corpo, strano e armonioso e profumato, gli sollevò dentro

un’ondata impetuosa di lussuria. Protetto dal silenzio se ne strinse il braccio

contro il fianco e mentre stavano lì in piedi sulla porta dell’albergo sentì che erano

fuggiti entrambi dalla loro vita solita e dai soliti doveri, fuggiti dalla famiglia, dagli

amici, fuggiti insieme con cuori raggianti e appassionati verso una nuova

avventura.

Un vecchio sonnecchiava in un seggiolone nell’atrio. Accese una candela in

dispensa e li precedette su per le scale. Lo seguirono in silenzio, il rumore dei

passi attutiti dal tappeto. Ella saliva dietro il facchino, la testa china, le esili

spalle curve come sotto un peso, la gonna raccolta attorno alle gambe. Avrebbe

voluto afferrarla ai fianchi e tenerla stretta tanto che le braccia gli tremavano dal

desiderio e solo piantandosi le unghie nelle palme riuscì a trattenere lo sfrenato

impulso della sua carne.

Il facchino si fermò sulle scale a fissare nel candeliere la candela che smoccolava,

e anche loro si fermarono sul gradino di sotto. Nel silenzio Gabriel sentiva lo

sgocciolio della cera sul piattello e il battere del proprio cuore in petto.

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Il facchino li guidò lungo il corridoio e aprì una porta. Poi posò la candela

oscillante sul cassettone e chiese a che ora volevano essere svegliati l’indomani.

- Alle otto, - disse Gabriel.

Quello borbottò allora una scusa accennando all’interruttore della luce ma

Gabriel tagliò corto.

- Non ne abbiamo bisogno di luce. Ne viene abbastanza dalla strada. E in quanto

a quell’arnese, - aggiunse indicando la candela, - ve la potete anche portar via.

L’uomo la riprese ma adagio, stupito di quella novità. Poi biascicò una buona

notte e uscì. Gabriel tirò il paletto. La squallida luce del lampione giù in istrada

s’allungava a striscia dalla finestra alla porta e Gabriel, gettati cappotto e cappello

sul divano, traversò la stanza e s’accostò ai vetri. Guardava fuori per calmarsi,

poi si voltò appoggiandosi al cassettone, con le spalle alla luce. Anche lei si era

tolto cappello e mantello e in piedi dinanzi alla specchiera si sganciava il corpetto.

Per un po’ Gabriel rimase zitto a osservarla, poi disse:

- Gretta!

Adagio ella s’allontanò dallo specchio e gli venne incontro lungo la striscia di luce.

Aveva un viso così serio e stanco che le parole gli morirono sulle labbra. No, non

era ancora il momento.

- Hai l’aria stanca, - le disse.

- Lo sono infatti.

- Non ti senti mica male, no?

- No, solo un po’ stanca.

S’avvicinò alla finestra e guardò fuori. Gabriel aspettò ancora, poi temendo che la

timidezza prendesse in lui il sopravvento, disse a un tratto.

- A proposito, Gretta...

- Cosa?

- Sai quel povero Malins...

- Ebbene?

- Be’, poveraccio, è un brav’uomo in fondo, - continuò Gabriel in tono sforzato. -

M’ha reso quella sterlina che gli avevo prestato e ormai, ti dico la verità, ci avevo

fatto la croce. Peccato che non riesca a tenersi lontano da quel Browne perché, in

fin dei conti non sarebbe cattivo...

Tremava dalla tensione. Perché aveva quell’aria distratta? Forse anch’essa era

tormentata da qualcosa? Se almeno si fosse rivolta a lui e spontaneamente gli

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fosse venuta vicino! Prenderla così sarebbe stato brutale. No, prima voleva vederle

un po’ di fuoco negli occhi. Voleva vincerlo, quel suo strano umore.

- E quando gliel’avevi prestata? - gli chiese dopo una pausa.

A stento Gabriel si trattenne dal prorompere in improperi contro quello sciocco di

Malins e la sua sterlina. Avrebbe voluto dar sfogo in un grido all’anima sua,

stringerla a sé, dominarla. Invece disse:

- Oh, a Natale quando aprì quel negozietto di cartoline nella Henry Street.

Tale era la sua febbre di rabbia e di desiderio che non la udì allontanarsi dalla

finestra. Per un attimo gli stette dinanzi, guardandolo stranamente. Poi alzatasi

ad un tratto in punta di piedi e appoggiategli appena le mani sulle spalle, lo

baciò.

- Sei buono, tu, Gabriel, - gli disse.

Tremante di piacere per quel bacio improvviso e per la stranezza della frase,

Gabriel le mise le mani sui capelli e prese a carezzarglieli piano, sfiorandoli

appena con le dita. Eran diventati più fini e lucenti dopo che li aveva lavati. Il

cuore gli traboccava di felicità. Proprio nel momento in cui la desiderava ella era

venuta a lui, spontaneamente. Forse i suoi pensieri avevan seguito lo stesso corso

dei propri, forse aveva sentito in lui l’impeto del desiderio e ciò l’aveva disposta

all’abbandono. Adesso ch’ella gli s’era arresa così facilmente si domandava il

perché della sua sfiducia.

Rimase immobile tenendole la testa fra le mani. Poi, passandole in fretta un

braccio intorno alla vita, l’attirò a sé e disse piano:

- Gretta cara, a che pensi?

Essa non rispose né si abbandonò interamente all’abbraccio. Ripeté ancora:

- Dimmi cos’hai... Credo d’indovinare di che si tratta. Vero?

Non rispose subito. Poi a un tratto scoppiò in lacrime e disse:

- Pensavo a quella canzone “La Fanciulla di Aughrim”.

E scioltasi dalla stretta, corse al letto, gettò le braccia sulla spalliera e vi nascose

il viso. Per un istante Gabriel rimase pietrificato dallo stupore, poi la seguì e

passando dinanzi alla specchiera vi si vide riflesso da capo a piedi: il petto della

camicia teso e rigonfio, gli occhiali cerchiati d’oro e il viso, la cui espressione lo

imbarazzava sempre quando si guardava allo specchio. Si fermò a pochi passi da

lei e chiese:

- E cosa c’entra la canzone? Perché ti fa piangere?

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Ella rialzò la testa dalle braccia e s’asciugò gli occhi col dorso della mano, come

una bambina, così che la sua voce, involontariamente, prese una nota più gentile.

- Perché, Gretta? - le domandò.

- Mi fa pensare a qualcuno che la cantava tanti anni fa...

- E chi? - chiese Gabriel sorridendo.

- Uno che avevo conosciuto a Galway quando stavo da mia nonna.

Il sorriso scomparve dalla faccia di Gabriel. Una rabbia opaca tornò ad

accumularglisi nel fondo della mente e opache fiamme di lussuria gli arsero

rabbiose nelle vene.

- Uno di cui eri innamorata, vero? - chiese beffardo.

- Era un ragazzo. Si chiamava Michael Furey e cantava quella canzone “La

Fanciulla di Aughrim”. Era molto delicato di salute.

Gabriel taceva. Non voleva pensasse che questo ragazzo lo interessava.

- Mi pare ancora di vederlo, - ella disse dopo un momento. - Gli occhi che aveva,

grandi, scuri... E che espressione, che espressione!

- Oh, ma allora ne sei proprio innamorata sul serio?

- Andavamo a spasso insieme quando stavo a Galway.

Un pensiero gli traversò la mente.

- Forse è per questo che volevi andare a Galway con quella Ivors? - le domandò

freddo.

Lei lo guardò stupita.

- Perché?

Il suo sguardo lo imbarazzò. Si strinse nelle spalle.

- Che so io! Per vederlo, forse.

Sempre tacendo ella distolse gli occhi da lui lungo la striscia di luce che entrava

dalla finestra.

- È morto, - disse alla fine, - morto che aveva appena diciassette anni. Non è

tremendo morire così giovani?

- E che faceva questo ragazzo? - domandò Gabriel sempre ironico.

- Era impiegato del gas.

Si sentì mortificato dall’inefficacia della sua ironia e dall’evocazione di questa

immagine del morto, un ragazzo impiegato del gas. Mentre egli si saziava dei

ricordi della loro vita in comune, di tenerezza, di gioia, di desiderio, lei dentro di

sé lo aveva confrontato ad un altro. Una coscienza umiliata della propria persona

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lo assalì. Si vide come una figura ridicola, una specie di galoppino delle zie, un

sentimentale nervoso e bene intenzionato che arringava la gente dappoco e

idealizzava i propri bassi appetiti, quell’essere insomma fatuo e pietoso di cui

aveva scorto l’immagine nello specchio. D’impulso voltò le spalle alla luce per

tema ch’ella potesse accorgersi della vergogna che gli bruciava la fronte.

Si sforzò di mantenere un tono di freddo interrogatorio, ma quando parlò la voce

gli suonò umile e smorta.

- Immagino che ne fossi innamorata, di questo Michael Furey, vero?

- Stavamo molto insieme, allora.

Aveva una voce triste e velata. E Gabriel sentendo quanto sarebbe stato vano

ormai tentare di ricondurla là dove avrebbe voluto, le carezzò una mano e disse

con eguale tristezza:

- E di cosa è morto così giovane, Gretta? Di tisi?

- Credo che sia morto per me.

A quella risposta un vago terrore afferrò Gabriel quasi che proprio nell’ora in cui

aveva sperato di trionfare, un qualche essere impalpabile e vendicativo gli venisse

contro dal suo etereo mondo, raccogliendo le sue forze contro di lui. Con uno

sforzo però si liberò da quella specie d’incubo e continuò a carezzarle la mano.

Non le domandava più nulla adesso perché sapeva ch’ella gli avrebbe detto tutto

di sua spontanea volontà. La sua mano era umida e calda e non rispondeva alla

carezza, ma egli seguitava a carezzarla allo stesso modo che aveva accarezzato la

prima lettera sua, in quella lontana mattina di primavera.

- Fu in inverno, - ella disse, - sì, proprio al principio dell’inverno quando stavo per

lasciare la casa di mia nonna, per venire qui in convento. E lui s’era ammalato, a

Galway, tanto che non poteva nemmeno uscire e avevano scritto ai suoi giù a

Oughterand. Era sul declino dicevano, o qualcosa di simile. Non l’ho mai saputo

per certo.

S’interruppe un istante e sospirò.

- Povero ragazzo! Mi voleva così bene ed era d’animo così gentile! Facevamo delle

passeggiate insieme, sai Gabriel, come si fa in campagna. Avrebbe studiato canto

se non fosse stato per la salute. Aveva tanto una bella voce, povero Michael!

- Be’, eppoi?

- E poi quando venne il momento che dovevo lasciare Galway per entrare in

convento, lui stava peggio assai e non mi permisero di vederlo. Così gli scrissi una

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lettera dicendo che andavo a Dublino e che sarei tornata per l’estate e speravo di

trovarlo meglio allora...

S’interruppe di nuovo per dominare la voce, poi riprese:

- La notte prima che partissi però, mentre stavo in casa della nonna a Nuns

Island facendo i bagagli, sentii un rumore di sassolini contro i vetri. Ma erano

così bagnati di pioggia i vetri, che non riuscivo a vedere e così corsi giù com’ero e

uscii fuori in giardino dalla porta posteriore e là in fondo c’era quel povero

ragazzo che tremava tutto dal freddo...

- E non gli dicesti di andar via?

- Oh, lo implorai di tornare a casa subito, che sarebbe morto con quella pioggia.

Ma lui mi rispose che non ci teneva a vivere. Mi pare di vederli ancora i suoi

occhi. Stava in piedi in fondo al muro, dove c’era un albero.

- E poi, se ne andò?

- Sì, se ne andò. Non era passata una settimana dacché mi trovavo in convento

che egli morì e fu sepolto a Oughterand, il paese dei suoi. Ah, il giorno che lo

seppi, il giorno che seppi ch’era morto...

S’interruppe soffocata dai singhiozzi e sopraffatta dall’emozione si gettò sul letto,

la faccia contro le coperte... Gabriel le tenne ancora un momento la mano,

irresoluto, poi, quasi temendo di riuscirle importuno nel suo dolore, la lasciò

ricadere pian piano e se ne andò senza far rumore alla finestra.

Si era profondamente addormentata.

Appoggiato sui gomiti Gabriel le guardò per alcuni istanti, senza rancore, i capelli

scomposti, la bocca semichiusa e ne ascoltò il fondo respiro. Dunque c’era un

romanzo nella sua vita: un uomo era morto per lei. Quasi non gli doleva adesso

pensare alla parte meschina che lui, invece, il marito, vi aveva avuto. La guardava

dormire come se mai fossero vissuti insieme da uomo e donna. Incuriositi gli

occhi s’attardarono a lungo sul suo viso, sui suoi capelli e pensando a quella che

doveva essere stata allora, all’epoca della sua prima bellezza di fanciulla, una

strana, dolce pietà per lei gli penetrò l’anima. Non voleva confessarlo nemmeno a

se stesso che quel viso non era più bello; ma certo non era più il viso per il quale

Michael Furey aveva sfidato la morte.

Forse non gli aveva detto tutto. Portò gli occhi alla sedia su cui ella aveva buttato

alcuni dei suoi indumenti. Il laccio di una sottana pendeva sul pavimento, uno

stivaletto stava in terra per ritto, il gambale floscio ripiegato, e il compagno gli

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giaceva accanto su un fianco. Lo meravigliava quel disordine di emozioni, un’ora

prima. Da dove era nato? Forse dalla cena delle zie, dal proprio sciocco discorso,

dal vino e dal ballo, dall’allegria di quegli ultimi saluti nell’atrio, dal piacere della

passeggiata lungo il fiume, sulla neve. Povera zia Julia! Anche lei ben presto

sarebbe stata un’ombra, come Patrick Morkan e il suo cavallo.

Per un attimo mentre cantava “Adorna per le nozze” glielo aveva letto in viso. Sì,

presto forse si sarebbe trovato seduto in quello stesso salotto, vestito di nero, la

tuba sulle ginocchia: le imposte sarebbero state accostate e zia Kate seduta

accanto a lui, piangendo e soffiandosi il naso, gli avrebbe raccontato com’era

morta. Si sarebbe torturato il cervello allora per trovare qualche parola che

potesse consolarla e ne avrebbe trovate solo di goffe e inutili. Sì, sì, non sarebbe

passato molto tempo.

L’aria fredda della stanza gli gelava le spalle. S’allungò adagio sotto le coperte

accanto alla moglie. Uno ad uno tutti si sarebbero mutati in ombre. Meglio, del

resto trapassare baldanzosi nell’altra vita, nel pieno della passione, che appassire

e svanire a poco a poco nello squallore degli anni. Pensò a come colei che gli

giaceva a fianco aveva serbato così a lungo in cuor suo l’immagine degli occhi del

suo innamorato quando le aveva detto che non ci teneva a vivere.

Lacrime generose gli gonfiarono gli occhi. Non aveva mai provato nulla di simile

per nessuna donna e sentiva che quello doveva essere veramente amore. Più fitte

le lacrime gli velarono gli occhi e nella semioscurità immaginò la figura di un

giovane in piedi sotto un albero gocciolante di pioggia. Altre figure gli erano

accanto. Insensibilmente l’anima sua s’avvicinava alle regioni abitate

dall’immensa folla dei morti. E pur essendo cosciente di quella loro illusoria e

vacillante esistenza non riusciva ad afferrarla. La sua stessa identità svaniva in

un mondo grigio e impalpabile e la terra in cui pure quei morti avevano dimorato

e procreato, perdeva sostanza.

Un battere leggero sui vetri lo fece voltare verso la finestra. Aveva ripreso a

nevicare. Assonnato guardava i fiocchi neri e argentei cadere di sbieco contro il

lampione. Era venuto il momento di mettersi in viaggio verso l’ovest. I giornali

dicevano il vero: c’era neve dappertutto in Irlanda. Neve che cadeva su ogni punto

dell’oscura pianura centrale, sulle colline senz’alberi; cadeva piana sulle paludi di

Allen e più a occidente sulle fosche onde rabbiose dello Shannon. E anche là, sul

cimitero deserto in cima alla collina dov’era sepolto Michael Furey.

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S’ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle tombe, sulle punte del cancello e

sui roveti spogli. E l’anima lenta gli svanì nel sonno mentre udiva la neve cadere

lieve su tutto l’universo, lieve come la discesa della loro ultima fine su tutti i vivi,

su tutti i morti.

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Sommario

Sorelle ................................................................................................................. 2

Un incontro ....................................................................................................... 10

Arabia................................................................................................................ 18

Eveline .............................................................................................................. 24

Dopo la corsa..................................................................................................... 29

I due galanti ...................................................................................................... 35

Pensione di famiglia ........................................................................................... 45

Una piccola nube ............................................................................................... 52

Contropartita ..................................................................................................... 65

Cenere ............................................................................................................... 75

Un increscioso incidente .................................................................................... 81

Il Giorno dell’Edera ............................................................................................ 90

Una madre ...................................................................................................... 105

La grazia .......................................................................................................... 117

I morti ............................................................................................................. 138