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Vivere Marghera 1 14 PERIODICO DI MARGHERA E DINTORNI Numero speciale 1 Dicembre 2014 Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che l’arco de lo essilio pria saetta. Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. Dante Alighieri, Canto XVII Paradiso, poeta e esule Che cosa me ne importa I libri di storia che fin dalle scuole elementari sono pre- sentati ai bambini narrano di cose lontane, più vecchie dei loro genitori e a volte anche dei nonni. Cose lontane, vecchie, si sente dire. Cose che non po- tendo vederle di persona non hanno il sapore, l’odore, il tatto del reality televisivo. La storia diventa sempre una cosa superata, non si educa a comprendere che l’attualità odierna sarà la storia di domani. Noi diven- teremo la storia, noi siamo la storia che verrà. Viviamo, leggiamo, camminiamo, mangiamo, ci curia- mo, ora, adesso. Ma è sempre stato così? Lo sarà anche domani? Per noi e solo per noi o anche per altri? Chi sono questi altri, stranieri, italiani emigrati, italiani scacciati. Ecco, la storia inizia a far scorrere i grani della collana della vita e della morte. Quanto vale la vita di un Italiano immigrato da un’altra regione o quello esule da uno stato che era Italia e a un certo punto per bizzarria della storia non lo è più stato, come è accaduto per gli abitanti di Istria e Dalmazia. Quanto vale la vita di un immigrato italiano in Argentina, a Buenos Aires, la città che ha il più alto numero di immigrati italiani? C’è una scala di valori? Vale di più o di meno di un Italiano residente nella re- gione di nascita? Quando avremo la risposta a questa ruota de “il prezzo è giusto”, solo allora proveremo a dare il prezzo alla vita degli altri, diversi solo perché gli sono capitate delle vicissitudini diverse dalla nostre. La storia siamo noi e nella storia ci siamo anche se non vogliamo farcene una ragione. Se siamo religiosi, allora siamo figli dello stesso Dio, se siamo solo “scientifici” allora siamo figli della stessa progenie, insomma una sola razza, quella umana. Oggi 1 dicembre 2014 in occasione dell’ iniziativa “Il respiro della città!”, abbiamo l’occasione di vive- re, conoscere, condividere la realtà di alcuni esuli, un capitolo che ogni persona ha e sta scrivendo nel grande libro del vivere assieme. La speranza è che la nostra mente sia capace di capire che non siamo sempre noi singoli che decidiamo, ma che forze esterne e avide ci impongono il percorso di vita. La redazione S E N T I T O P E R S T R A D A “Signora è arrivato anche il cous cous marocchino, non solo la polenta.” “Cossa xe?”

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PERIODICO DI MARGHERA E DINTORNI Numero speciale 1 Dicembre 2014

Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale

che l’arco de lo essilio pria saetta. Tu proverai sì come sa di sale

lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.

Dante Alighieri, Canto XVII Paradiso, poeta e esule

Che cosa me ne importa

I libri di storia che fin dalle scuole elementari sono pre-sentati ai bambini narrano di cose lontane, più vecchie dei loro genitori e a volte anche dei nonni.Cose lontane, vecchie, si sente dire. Cose che non po-tendo vederle di persona non hanno il sapore, l’odore, il tatto del reality televisivo. La storia diventa sempre una cosa superata, non si educa a comprendere che l’attualità odierna sarà la storia di domani. Noi diven-teremo la storia, noi siamo la storia che verrà. Viviamo, leggiamo, camminiamo, mangiamo, ci curia-mo, ora, adesso. Ma è sempre stato così? Lo sarà anche domani? Per noi e solo per noi o anche per altri? Chi sono questi altri, stranieri, italiani emigrati, italiani scacciati.Ecco, la storia inizia a far scorrere i grani della collana della vita e della morte.Quanto vale la vita di un Italiano immigrato da un’altra regione o quello esule da uno stato che era Italia e a un certo punto per bizzarria della storia non lo è più stato, come è accaduto per gli abitanti di Istria e Dalmazia.Quanto vale la vita di un immigrato italiano in Argentina, a Buenos Aires, la città che ha il più alto numero di immigrati italiani? C’è una scala di valori? Vale di più o di meno di un Italiano residente nella re-gione di nascita?

Quando avremo la risposta a questa ruota de “il prezzo è giusto”, solo allora proveremo a dare il prezzo alla vita degli altri, diversi solo perché gli sono capitate delle vicissitudini diverse dalla nostre.La storia siamo noi e nella storia ci siamo anche se non vogliamo farcene una ragione.Se siamo religiosi, allora siamo figli dello stesso Dio, se siamo solo “scientifici” allora siamo figli della stessa progenie, insomma una sola razza, quella umana.Oggi 1 dicembre 2014 in occasione dell’ iniziativa “Il respiro della città!”, abbiamo l’occasione di vive-re, conoscere, condividere la realtà di alcuni esuli, un capitolo che ogni persona ha e sta scrivendo nel grande libro del vivere assieme.La speranza è che la nostra mente sia capace di capire che non siamo sempre noi singoli che decidiamo, ma che forze esterne e avide ci impongono il percorso di vita.La redazione

S E N T I T O P E R S T R A D A

“Signora è arrivato anche il cous cous marocchino, non solo la polenta.”“Cossa xe?”

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“Giardiniere, apri la porta del giardino, che io non sono un ladro di fiori” Zaher Rezai

Potrebbe capitare a chiunque. Sì, mi dico, potrebbe capitare a ognuno di noi di trovarsi con tutte le carte ribaltate. Se poi sei in un luogo di confine, la probabili-tà diventa più alta. Si sa, i confini sono linee labili.Mi sto dicendo queste parole mentre vado a incontrare Vani Kamiran, al Servizio Immigrazione e promozione dei Diritti di Cittadinanza e dell’Asilo del Comune di Venezia. Lui rincara subito la dose, riprende il filo dei miei pensieri e cita le parole di Josep Brodsky, rifugia-to polacco, “la geografia combinata al tempo equivale al destino”. Come dire che il destino che ti è riservato dipende dal punto sulla cartina geografica nel quale ti trovi e in quale accadimento storico stai vivendo.

Mi mostra un bel manifesto del 2010 realizzato in oc-casione della giornata mondiale del rifugiato “Guarda qua, è capitato a tanti di trovarsi nella condizione di esule. Vedi, ho voluto mettere le foto di Sandro Pertini, Miriam Makeba, Albert Einstein, il Dalai Lama insieme a quelle di una rifugiata curda e a una somala perché per loro la campana è suonata, hanno dovuto lasciare per forza il loro paese. La campana può suonare per tutti”.I dati dell’Onu sono impressionanti. In questo momen-to 56 paesi sono in guerra e circa cinquantaduemilioni di persone sono in giro per il mondo cercando di trova-re un posto dove poter vivere in pace e con dignità.Le notizie che arrivano dalla stampa sono presentate il più delle volte in modo sensazionalistico ma in verità i dati forniti dal Ministero dell’interno dicono che nel 2013 sono stati circa 14.000 i richiedenti asilo in Friu-li, Trentino e Veneto.

Sono cifre poco confrontabili rispetto all’elevato nu-mero di persone che fuggono nei paesi che confinano con quelli in guerra. La maggior parte dei rifugiati non si trova nei paesi occidentali, ma sta nei paesi limitro-fi a quelli che sono teatro degli accadimenti. In questi mesi sono 800.000 i cristiani che sono arrivati in pochi giorni in Kurdistan e nessuno, in questo caso, parla di invasione.Siamo parte di un unico mondo. Se gli emigranti partono perché cercano soprattutto un lavoro ci sono invece ogni giorno donne, uomini e bambini, anche da soli, che scappano perché è l’unica soluzione rimasta.Diventano profughi e rifugiati perché, indipendente-mente dalla propria condizione economica, debbono

‘lasciare’ il proprio paese costretti da guerre, perse cuzioni , per motivi di razza, religione, naziona-lità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, siccità, catastrofi naturali. Un rifugiato non può più tornare indietro.

‘Lasciare la propria terra’.Detta così sembra una cosa dolorosa ma realizzabile. Come andare all’agenzia di viaggi più vicina e farsi rilasciare un biglietto, seppure di sola andata.Ma i viaggi di chi fugge per cercare una vita degna nel nostro paese, ma soprattutto nel resto d’Europa, sono sempre lunghissimi e faticosi, spesso durano anni. Il viaggio, così incerto, a volte ha esiti drammatici. Come il caso di Zaher Rezai, ragazzo afgano che si era legato sotto a un camion per attraversare l’ultima fron-tiera. Ma non ce l’ha fatta ed è scivolato giù. Il capoli-nea per lui è stato qui, vicino al nostro porto, qualche anno fa. Sue sono le parole scritte in alto, sono state trovate insieme ad altre lettere e poesie nelle tasche.

Ma i viaggi continuano. Chi ce la fa a non perdersi per strada, riesce ad avere con sé i documenti necessari, ha la padronanza della lingua italiana, può meglio dimostrare la propria situa-zione e diventare un richiedente asilo. Significa che il suo destino sarà determinato dall’accettazione della sua domanda da parte della Commissione Territoriale per il Riconoscimento della protezione internazionale. Sono dieci in tutta Italia.Anche in questo caso l’attesa è di mesi, di anni in qual-che caso!

Se è sicuro che la storia e la geografia fanno il destino, è anche vero che c’è da prestare attenzione al vocabo-lario degli esodi e degli esili, per cui non tutti i termini e le parole si equivalgono. Uno sfollato per esempio deve abbandonare la propria abitazione, magari per gli stessi motivi del rifugiato, ma non oltrepassa un confine internazionale e resta dunque all’interno del proprio paese.E un extracomunitario non è sinonimo di clandesti-no.Il primo è semplicemente una persona non cittadina di uno dei paesi che attualmente compongono l’Unione Europea: anche uno svizzero o un americano sono extracomunitari.

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Un clandestino è il termine con il quale, in modo piuttosto improprio, si indica il migrante irregolare, cioè chi, per qualsiasi ragione, entra irregolarmente in un altro paese. A volte scordiamo che anche le nostre sono state terre di migrazione e tribolazione, Veneto compreso. A conti fatti, la stima è impressionante: gli italiani espatriati tra Ottocento e Novecento è di circa trenta milioni di persone, mentre gli oriundi attuali sono ben ottanta milioni.Quelli che sono partiti sono andati tutti in agenzia a comprare il biglietto e hanno viaggiato in business class?!Francesca Lamon

L’esodo giuliano dalmata a Marghera

Tarcisio Benedetti, originario di Pirano, il maestro che per tanti anni ha insegnato alle scuole Grimani, qualche anno fa così scriveva sul giornalino parrocchiale di S. Pio X: “Il nucleo (32 famiglie) che abitano ai civici 128 A e B di via Beccaria e 2-4 di via Correnti si è insediato nel 1960. La provenienza è varia: ci sono famiglie di Zara, Fiume, Pola, Neresine, Rovigno, Dignano, Albona, Pirano, Grisignana.

Non arrivano direttamente dai campi, ora esauriti, ma da località e sistemazioni diverse perché sono in Italia ormai da diversi anni.

Tutti hanno attività decorose che permettono alle famiglie un tenore di vita dignitoso. Alcuni operai con-tinuano le loro precedenti mansioni nel Monopolio già svolte nella Manifattura Tabacchi di Rovigno o nelle saline di Pirano, altri sono alle dipendenze del IV Artiglieria di via Forte Marghera, altri al Provveditorato al Porto o ai Cantieri Navali; qualcuno è impegnato nella scuola, c’è qualche artigiano, altri lavorano nelle fabbriche e nel terziario”.Il trattato di pace di Parigi del 1947 ha sancito ufficial

mente la cessione dell’Istria, di Fiume e di Zara alla Jugoslavia e da quei territori, in ondate diverse, circa 350.000 persone hanno subito un esodo forzato. Sono tante le esperienze, di quotidianità e di sopraffazione, di morti violente di parenti e amici e poi il dover ab-bandonare tutto per partire verso l’ignoto. Trasporti più organizzati, con la nave, come è successo da Pola, ma anche con mezzi di fortuna e anche fughe rischiose per chi voleva restare italiano e non aveva il permesso di partire.Venezia è stata una delle città più importanti perl’esodo giuliano dalmata, le navi che facevano spola da Pola arrivavano ad Ancona e Venezia che diventava-no un importante centro di smistamento dei profughi. Molti poi si fermarono nel Veneto e nel veneziano in particolare, dove vi erano numerosi campi profughi. Quattro stavano a Venezia, il più importante era nel Convitto Foscarini a Cannaregio, in fondamenta di S. Caterina, poi un altro all’Istituto dei Tolentini (ora Uni-versità di Architettura) e gli altri due alla Scuola Gia-cinto Gallina vicino all’Ospedale Civile e nella Caserma Cornoldi in Riva degli Schiavoni. Uno era a Mestre a Carpenedo nella Scuola di via del Rigo.

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Inoltre a Venezia trovarono ospitalità molti istriani, spe-cialmente di Pola, dipendenti della Marina Militare che vennero alloggiati nella caserma Sanguinetti a S. Pietro di Castello. Singole famiglie vennero anche sistemate nella scuola meccanici in Campo della Celestia, nelle casermette sommergibili dietro le mura dell’Arsenale ed in alcuni forti del Lido.Per alcune persone la permanenza nei campi profughi è stata di qualche mese, ma per altri è durata molti anni e una prima sistemazione è avvenuta proprio a Marghera dove tra gli anni Cinquanta e Sessanta sono state costruite delle abitazioni per i profughi giuliano dalmati. Ecco perché la comunità è costituita e sviluppata nel territorio di Marghera e i drammi dell’esodo forzato sono stati superati grazie al lavoro e alla casa e da questo si è ripartiti per realizzare successivamente una positiva integrazione.Alessandro Cuk, Presidente ANVGD Venezia(Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia)

A Marghera, negli ultimi anni, ci sono state anche altre accoglienze, persone arrivate da lontano, con altre sto-rie, altri drammi, anche altre persecuzioni. In molti hanno trovato posto e un senso comune di possibile convivenza e fratellanza. Spesso silenziosi e abbassati, i loro occhi sono ancora esuli.Dorina Petronio

Gli occhi esuli

Erano giovani e scelsero di restare italiani a costo di dover lasciare tutto e quando arrivarono in questa nuo-va terra che aveva anch’essa il mare di fronte, erano tuttavia estranei, al luogo e alle persone.E in quel tempo, per rimediare al torto subito e per riconoscere la loro identità di origine, lo Stato diede loro lavoro e una casa in affitto. L’inserimento non fu per questo meno aspro, dovendo sottostare a critiche di usurpatori. Erano giovani, arrivati con occhi smarriti, con la sola fiducia di voler andare avanti e costruirsi una vita.

E’ trascorso più di mezzo secolo e quel tipo di invisibi-le connotazione, in alcuni è sopravvissuto come ricor-do amaro di un’ingiustizia ancora portata dentro. In via Correnti a Marghera c’erano le case dei Giuliani e Dalmati. I bambini nati nel giro di pochi anni erano i figli dei profughi e quando uscivano fuori dal cortile e poi a scuola, i loro nomi erano spesso apostrofati con una postilla aggiunta, della quale loro non capivano. Invece per altri, poco informati, era come fossero tutti stranieri, i genitori e pure i loro figli.Un torto subito ingiustamente nell’infanzia, rimane spesso terreno esposto anche nel corso della vita; solo chi sa riscattarsi ne può essere alleggerito.

alloggi per esuli istriani e dalmati in via beccaria e via Correnti

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Casa mia alle “Vaschette”

Siccome Marghera è piena di gente che viene da tante parti, stranieri, italiani… tra questi alcuni venivano dall’Istria. Sì, abitavano pressappoco dove abitavo io una volta, se te lo dico prendi paura.

> va ben, ma cominciamo dall’inizioSono nata nel 1949 a Venezia. Mio papà veniva dal campo profughi allestito a Venezia nel 1945, lui era un italiano di Fiume. Si è trovato a vivere in un momento nel quale, da una parte e dall’altra, non si sapeva cosa sarebbe accaduto, di che nazionalità saresti diventato.

Da Pola, da Fiume son venuti in Italia, sono scappati: quella volta là dovevano decidere se andare in Austra-lia o venire qui.Non so come mia mamma abbia conosciuto mio papà, lei era nativa di Chioggia, però si è sposata a Fiume.I profughi sono stati messi in diversi posti. A Venezia in uno che noi chiamavamo Foscarini. Ero piccola, mi ricordo grandi stanze, tutte divise da tende militari. Ogni famiglia stava dentro allo spazio tra due tende. Beh, io sono nata lì.

C’era anche una mensa, stavamo tutti in fila con una pignattina e ci davano da mangiare.Eravamo io, mio papà, mia mamma e mio fratello. Dopo il campo profughi siamo andati in un altro posto, sempre a Venezia, dove c’erano delle piccole ca-sette e ogni famiglia aveva una stanza.Nessuno lavorava. Nel frattempo hanno costruito le case per i profughi a Marghera, vicino alla chiesa di Cristo Lavoratore, in un posto che si chiama “Le Vaschette”. Da Venezia siamo venuti ad abitare là. Eravamo in centoventi famiglie: chi aveva un appartamento con una camera, chi con due. Eravamo tutti felici.Invece gli abitanti di Marghera che abitavano vicini alle “Vaschette”, alla Rana, ce l’avevano su con noi perché a noi avevano costruito le case nuove. Ci ho abitato per ventidue anni, là sono cresciuta e conoscevo tutti. Da bambina giocavamo tutti insieme. Ero morta di fame ma ho ricordi bellissimi, cantavamo sempre.Mio papà parlava in triestino e io andavo a scuola alla Rana. C’era confidenza e comunità tra le persone.

> come si è trasformata la comunità?Ci si aiutava reciprocamente e si interveniva anche nel-le dispute delle famiglie vicine di casa.

Nel corso degli anni ho visto tutti i cambiamenti che si sono succeduti nel tempo: dalle persone che se ne sono andate, a quelli che sono morti, i nuovi abitanti che sono venuti a stare, anche zingari.Eravamo molto poveri: il tavolo e le sedie ce le hanno regalate. Ora pare impossibile ma non avevamo i soldi per pagare l’affitto. A volte ci staccavano la luce e stavamo con le candele.

E’ capitato che l’Ater ha preso le tre famiglie più pove-re e in pieno inverno ci hanno buttato fuori con la forza pubblica. La mamma piangeva, era attaccata alla porta e non voleva aprire ai carabinieri.Ci hanno portato via anche la poca mobilia che aveva-mo. Così invece di pagarci l’affitto che noi non poteva-mo pagare, ci hanno mandato a dormire in una pensio-ne a Venezia. Poi ci davano i soldi per comprare il latte. Era buonissimo.Dopo di questo siamo tornati dove abitavamo prima, ci siamo installati nella cantina. Ci hanno buttato fuori anche dalla cantina. Poi si sono messi d’accordo e ci hanno ridato la casa che avevamo. Erano gli anni ses-santa. Mio papà faceva lavoretti saltuari e mia mamma qualche servizio di pulizia.

> e gli altri venuti via da Fiume?Mah, c’era chi stava meglio perché magari aveva dei parenti qui.Quando mio papà finalmente ha avuto un lavoro fisso dopo poco è morto di embolia cerebrale.Adesso metà delle “Vaschette” le hanno buttate giù, erano proprio degradate perché non sono mai stati fatti lavori di risanamento. Mano a mano che si andavano svuotando dei primi abitanti è entrato di tutto, drogati, gente di ogni tipo.

> avevate qualche rapporto con gli altri abitanti di Marghera?Certo! C’era anche un gruppo di ‘fioi’ che veniva da via Case Nuove (che adesso “e xe vecie”) che alla do-menica venivano a prenderci alle Vaschette e andava-mo a ballare nelle cantine. Molti di questi “putei” lavoravano nelle fornase dei ve-tri, a Murano.Quando mi capita di andare a Marghera anche adesso trovo ancora qualcuno dei veri amici, ma-gari quando vado al mercato del sabato.Intervista a Gabriella, raccolta da Enrico Comastri

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Da Miramare

Ora il mio cuore

ècome pietra del Carso,

Cercanoi miei occhi

oltre il grande golfola terra

dove sono nata.Domani,

senza confini,sarà di nuovo mia

Regina Cimmimo, narratrice e poetessa

Quello delle migrazioni è sempre stato un fenomeno normale per le comunità umane che nei secoli si sono spostate verso altri luoghi alla ricerca di nuove oppor-tunità.Ma a volte ad alcune comunità la migrazione è stata imposta con la forza, tra queste l’esilio delle popola-zioni Giuliane e Dalmate che si sono viste costrette ad abbandonare le loro case e tutto quanto possedevano.Il Signor Maggi, sta scrivendo un libro che ripercorre gli avvenimenti ai quali è stato testimone, come l’epi-sodio narrato qui.

Sono nato in un meraviglioso paese

Si chiama Abbazia, sta sul golfo del Quarnaro.Eravamo sotto l’occupazione nazista, si doveva stare attenti a tutto, in particolare al coprifuoco e ai controlli della Gestapo.Quotidianamente sotto i bombardamenti angloame-ricani, tutta la gente aspettava con impazienza la fine della guerra. Finalmente nel 1945 entrarono in Istria i partigiani di Tito.

La gente contenta pensava di essersi liberata dalle atro-cità della guerra, ma l’illusione durò poco.Subito dopo l’invasione dell’Istria da parte dei titini, cominciammo a capire cos’era la vera violenza: stupri, rappresaglie, rapine, infoibamento degli italiani…I partigiani titini entravano nelle case con violenza e rubavano tutto quello che era di valore.Mi è capitato di assistere nascosto a poca distanza, ad una incursione in una casa di un ufficiale italiano torna-to invalido dalla guerra in Africa.

Estate 2014

Risacca di mare“grote” grigie, ciotoli bianchi

terra rossa,profumo di pini caldi,

frinire di cicale:sono a casa.

Regina Cimmino, narratrice e poetess

La madre del ragazzo non voleva far entrare in casa sua i cinque partigiani comandati da una donna, la quale senza indugio, dopo aver sparato nel petto all’anziana signora, entrò in casa seguita dagli altri quattro, e poco dopo aver ucciso il ragazzo, li vidi uscire ridendo, con dei pacchi sulle spalle.

La donna notò che l’anziana morta portava un anel-lo, ed estratto un coltello, tagliò di netto il dito della signora. Noi ragazzi venivamo picchiati per le strade solo perché parlavamo italiano, e subivamo violenze di ogni sorta.La gente, quindi, stanca e terrorizzata incominciò a partire per l’esilio.Ogni giorno andavo al molo a salutare gli amici che partivano, era uno strazio continuo, finché partimmo anche noi.Così è cominciato il nostro lungo calvario.Testimonianza di Gianni Maggi, raccolta da Marilena De Faci

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Sotto le stelle del mondo Il desiderio di muoversi, di cambiare, di vedere mondi nuovi, di migliorare le condizioni di vita è dote natura-le dell’umanità e di tutti gli esseri viventi.Migrare è una condizione del vivere e di rimanere in vita. E’ una forza che coinvolge anche le piante che, nate per radicarsi e rimanere in un determinato luogo, delegano i propri fiori ed i propri semi a migrare. Migrare, allora, è un desiderio globale di cambiare,conoscere, colonizzare e migliorare. I sentimenti come l’amore per le persone e per i luoghi frenano in parte il desiderio di muoversi, favoriscono la voglia di rimanere che, soltanto le guerre e le intem-peranze politiche e religiose inducono, alla fine, queste persone a partire, con dolore, alla ricerca di un mondo migliore.La maggior parte dei “ foresti” che raggiungono oggi il nostro paese fuggono da guerre e da intolleranze di ogni genere nella speranza di risolvere così i loro pro-blemi e di vivere in pace. Sono persone che arrivano da noi impreparate, non conoscono la lingua ne’ la nostra cultura, il loro viaggio miserevole e drammatico ha il solo fine di salvarsi la vita.Fra questi migranti ci sono anche i profittatori, gente senza scrupoli che si aggregano per sfruttare tutte le occasioni, per arricchirsi in modo illecito senza preoc-cuparsi del discredito che gettano su tutti. Gli esuli istriani e dalmati fanno parte della nostra do-lorosa storia, nel febbraio del 1947 a seguito dell’an-nessione dell’Istria alla Jugoslavia più di 16.800 esuli istriani, dopo aver abbandonato le loro case si imbarca-rono sulla nave Toscana che in una decina di viaggi li portò da Pola e Venezia.Sono queste inquietudini che mi portano a guardare al cielo, la fetta infinita che mi è concessa di vedere e immaginare l’enorme immensa infinità esistente oltre il visibile dove la nostra terra scompare ed io dentro di essa mi annullo con tutti i miei pensieri.Giorgio Comastri

Io ed il mio amico Toni

Riunione di redazione, la direttora mi suggerisce di raccontare una storia di migrazione.Penso subito a Toni, mio carissimo amico dall’adole-scenza in poi. Lo vado a trovare, gli spiego lo spirito dell’iniziativa cui aderisce Vivere Marghera, accetta con entusiasmo e quel che segue è il resoconto. “1898 nasce a Chioggia mio nonno Domenico Pugiot-to. quando ha pochi anni resta orfano ed è adottato da uno zio pescatore. Molto giovane comanda un bragoz-zo da pesca e con lo zio si trasferiscono dall’altra parte dell’ Adriatico, perchè il mare era più pescoso. Si stabi-liscono nell’isola di Cherso, allora dominio austriaco. Nel 1915 Domenico fugge con la famiglia e torna in Italia.Lui, nato italiano, divenuto cittadino austriaco si trova a combattere contro l’Austria. Per evitare di venire impiccato come Cesare Battisti o Nazario Sauro, se catturato dagli austriaci, viene invia-to col contingente italiano sul fronte francese a com-battere nella battaglia di Verdun. La famiglia intanto è rimasta a Chioggia e viene sfollata a Nocera Inferiore, in Campania, dopo un bombardamento austriaco sulla città. Finita la Grande Guerra lui e tutta la famiglia torna alla sua casa nell’isola di Cherso, che nel frattempo è tornata ad essere italiana. Nel 1948 le grandi potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale, nonostante si fossero impegnate a fare un referendum perchè la popolazione della zona B del territorio di Trieste decidesse con che nazione volesse andare, decidono invece di assegnarla alla Jugoslavia. Cherso diventa Jugoslavia ma la popo-lazione può decidere se restare o tornare in Italia.Con altri 350 mila la mia famiglia rientra in Italia. Io sono nato nella caserma del centro profughi di Lati-na nel 1949. Abbiamo perso la casa e le terre che avevamo perchè l’Italia le dette alla Jugoslavia in pagamento dei danni di guerra mentre gli indennizzi furono cifre risibili. Per via della storia della mia famiglia, altri due miei nonni hanno origini Slave e l’ultimo è di origine Rumena fa-cendo parte di una migrazione da quel paese avvenuta nel 1200 circa in Istria, i cosiddetti Cici. I fatti che hanno coinvolto la mia famiglia mi hanno vaccinato contro quel sentimento d’inferiorità che è il razzismo. Sogno il giorno in cui in Italia ci sarà una mescolanza di origini un vero melting pot perchè allora avremo sconfitto il razzismo per sempre.”Testimonianza di Antonio Pugiotto, raccolta da Marco Donà

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Piroscafo TOSCANA, 39 anni di vita straordinaria tra guerre, soldati, malati ed esodi. In breve la storia L’imbarcazione venne costruita in Germania, a Bremen, varata nel 1923 con il nome di “SAARBRUCKEN”.Caratteristiche: Stazza 5487/9442 tonnellate, due mac-chine alternative a vapore alimentate a carbone per 4400 cavalli.Lunghezza 146,2 metri, larghezza 17,6 metri, pescag-gio 8,6 metri, 198 posti per passeggeri aumentabili se necessario di 142 unità, 176 persone di equipaggio, “ vistose controcarenature per correggerne l’assetto”. Nel 1935 viene acquistata dal governo italiano e ri-battezzata “TOSCANA”, è affidata alla gestione della Società di Navigazione Italia di Genova per il traspor-to, assieme ad altre navi, verso l’Etiopia, di 570.000 militari, 100.000 civili, 29.000 automezzi, 67.000 ani-mali e più di un milione di tonnellate di merci varie. Nel 1937 la nave viene gestita dal Lloyd Triesti-no e partecipa al trasporto di soldati e lavorato-ri nei porti spagnoli, 80.000 uomini e 44.000 mezzi. Nel 1938 subentra la Flotta Lauro. Il Toscana trasporta in Libia 20.000 coloni e 1720 famiglie. Nel 1939 ritor-na in Spagna per il rimpatrio di 2900 soldati italiani.Nel 1941 viene registrata come naviglio ausiliario, di-venta nave ospedale, è quindi sottoposta a lavori di ri-strutturazione per ospitare 700 posti letto.

A fine anno riprende il mare con il colore bian-co e croci rosse. Negli anni 1942 - 1943 navi-ga nel Mediterraneo in servizio medico ma, no-nostante la sua veste ospedaliera viene più volte attaccata subendo danni e lamentando feriti. Nel 1944 viene cancellata dal registro navi ausiliarie, passa in gestione alla Regia Marina, seguono nuo-vi lavori e ristrutturazioni per poi servire gli alleati. Altri lavori e modifiche vengono fatti alla nave nel 1945 in Inghilterra viene trasferita al Comitato Ge-stione Navi e nel 1946, è restituita al Lloyd Triestino. Nel 1947 effettua 10 viaggi da Pola a Venezia ed An-cona trasportando 13.056 esuli (alcune note parlano di 16.800). Seguono altri lavori di riammodernamento e conversione delle macchine a nafta. Il 1948 la vede in servizio per il Sud Africa e poi in navigazione verso l’Australia per trasportare un notevole flusso emigra-torio giuliano. Nel 1961 viene messa in disarmo in at-tesa della demolizione che avviene nel 1962 a Trieste. Storia di una nave di dolori e delusioni ma anche di speranze che a distanza di tanti anni riesce ancora a commuovere.Note a cura di Giorgio Comastri

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LA CUCINA DI CASA

KIPFEL/CHIFFEL I chiffel possono essere fatti con lo stesso impasto degli gnocchi di patate e fritti nell’olio come accompagna-mento di pollo fritto, arrosti o stinco, oppure in versio-ne dolce cosparsi di miele.L’origine è tedesca ma in Austria si cominciano a fare in forma di mezzaluna in disprezzo dei turchi che sotto il comando di Cara Mustafà assediarono Vienna nel 1683.La versione che vi proponiamo è stata gentilmente offerta dal ricettario di una famiglia italiana residente in Istria. In questo caso vengono utilizzate le noci men-tre generalmente si usa la farina di mandorle.

400 gr. Farina 00250 gr. Burro o margarina150 gr. Noci macinate finemente4 cucchiai grandi di zucchero1 uovo½ bicchiere di latte (in inverno)½ bustina di lievito per dolci1 pizzico di saleLavorare bene la farina con il burro, aggiungere l’uo-vo, lo zucchero, le noci, il lievito e il pizzico di sale. Amalgamare bene gli ingredienti e formare dei biscot-tini a forma di mezzaluna.Cuocere per circa 15 minuti a 180/200 gradi. Una volta raffreddati cospargerli di abbondante zuc-chero a velo.

Il diario

Il fiore ha scritto il suo diario:metà del diario

parlava della bellezza dell’acqua.L’acqua ha scritto il suo diario:

metà del diario parlava della bellezza del bosco.

Il bosco ha scritto il suo diario:metà del diario

parlava della terra armata.E quando la terra scrisse il suo diario

tutto il diarioparlava della libertà.

Sherko Bekas, poeta curdo

IL TE’In gran parte del mondo il tè è la bevanda più diffu-sa, ogni paese ha il proprio cerimoniale per servirlo e berlo.Il tè viene preparato in una teiera tipica.Il pentolino grande viene riempito d’acqua, quello pic-colo appoggiato sopra il primo, come coperchio, con dentro del tè ad ammorbidirsi in pochissima acqua; sopra, un coperchio.

Si mette sul fuoco. Quando in basso l’acqua bolle si toglie la teiera dal fuoco, si scolano le foglie del tè e vi si versa sopra una buona quantità d’acqua bollente. Allora il pentolino più piccolo viene messo direttamen-te sul fuoco,per far raggiungere in un attimo il bollore e far salire in superficie le foglie del tè.

Si spegne, si copre, si rimette sopra al pentolino grande e, in cinque minuti, è pronto.Al momento di servire, in ogni occasione della gior-nata, si versa nei bicchieri il contenuto delle due parti della teiera: l’acqua calda e l’infuso.Ivan Carlot e Giorgio Bombieri, Di tè in tè, 2008 Co-mune di Venezia

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Ma secondo voi fanno più puzza i cavoli lessi o cipolla e curry?

Noi e Loro , comunitari ed extracomunitari, bianchi, neri, rossi e gialli …

Noi e gli Altri.Migrazioni, emigrazioni, immigrazioni, volontarie o imposte. Fame, malattie e Guerre.Globalizzazione, crisi economica: i motivi che spingo-no gli individui a lasciare la propria realtà per una nuo-va sono comunque dettati dalla necessità e dal bisogno, quando addirittura non sono imposti.

Fino a qualche anno fa Noi osservavamo questi feno-meni in maniera distaccata dato che l’immigrazione verso il nostro paese era marginale, ma adesso, in piena crisi economica, ora che ci siamo accorti che Loro sono arrivati e sono tanti e continuano ad arrivare, adesso siamo un po’ smarriti, ci siamo scoperti incapaci di ac-coglienza, ci guardiamo intorno per strada e forse ci sentiamo in minoranza.

Loro occupano i nostri spazi, ci portano via il lavoro.Pero’, invece che barricarci dentro i nostri appartamen-ti, pronti a difendere quello che ci appartiene, potrem-mo aprire il pugno e tendere la mano: trasformare la diffidenza in accoglienza.

Ci vorrà del tempo perché l’integrazione abbia corso, bisogna imparare a conoscersi reciprocamente, ma non esiste alternativa perche finché ci saranno guerre, fame e malattie ci saranno individui che scappano in cerca di opportunità e non esistono confini o regole che possano bloccarli. Claudio

Quartine

Sono l’aquila che vive sulle vetteDall’alto osservo i pascoli.

Senza famiglia, senza casa e terraCome sudario avrò le mie ali soltanto.

Tutto quel che desidero è di avere accantoUn volto splendente come il tulipano.

Se alle montagne narrassi il mio soffrireSui pendii non crescerebbero più i fiori.

E’ addolorato il mio cuore, Signore,soffre e trema d’angoscia

anela la patria, piange l’esilio.E questo fuoco mi brucia.

Baba Tahir, poeta curdo, secolo

Costituzione della Repubblica ItalianaArticolo 10

L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle nor-me del diritto internazionale generalmente riconosciu-te. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati interna-zionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garan-tite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni sta-bilite dalla legge.Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.

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Marghera, che abitanti ha?

A Marghera siamo in 33.178 residenti: 28.525 di citta-dinanza italiana e 5.881 di altre nazionalità. La media generale dei residenti nell’intero Comune di Venezia è per i maschi di circa 45 anni, mentre per le donne è di circa 49 anni.Ma se osserviamo più da vicino i numeri scopriamo che nel Comune di Venezia ci sono delle vistose diffe-renze anagrafiche tra i cittadini di nazionalità italiana, rispetto alle altre nazionalità.Ecco i dati forniti dal Comune:maschi italiani 124.783 con età media 47 annifemmine italiane 140.103 con età media 51 annimaschi altre nazionalità 14.530 con età media 32 annifemmine altre nazionalità 17.271 con età media 36 anniLe attività principali degli abitanti di Marghera di na-zionalità non italiana sono legate al commercio, al set-tore alberghiero, al facchinaggio, alle commesse por-tuali e all’assistenza famigliare.Ci risulta che nella maggior parte dei casi i lavorato-ri sono legalmente iscritti nelle gestioni dell’INPS e come tali versano i contributi dovuti.Ora mettiamo “i piedi nel piatto” e dopo questi, seppur parziali numeri, dobbiamo parlare di legalità, rispetto delle “regole sociali”, “regole economiche”, d’ordine pubblico.

Tutto questo è doveroso che sia operato e osservato dagli immigrati cosi come lo deve essere dagli italiani. Non ci sono due metri di misura, non esiste la tolleran-za per le azioni non legali se compiuto da un soggetto, mentre per un altro no.Fare distinzioni di finto buonismo in realtà è contropro-ducente e paradossalmente si diventa razzisti al contra-rio, in quanto non tratto chi commette reati ancora una volta come se non fosse una persona con uguali diritti e doveri.

Chi delinque è un delinquente; chi non paga le tasse è un evasore; chi non rispetta l’ambiente è un inquinato-re. Chi sfrutta la prostituzione sia come magnaccio che come “cliente”; chi discrimina le donne; chi fa violen-za alle donne e ai minori; chi utilizza il credo religioso non per la pace e l’armonia dei cuori ma per esercitare subdole coercizioni, è un criminale.Il concetto vale per tutte le persone che vivono la città, che siano amministratori pubblici, imprenditori privati, cittadini italiani o stranieri.Aldo Bastasi

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Architetti e urbanisti senza saperlo perché emigrati

Marghera ha qualcosa di raro nella sua configurazione urbanistica, grazie a un meraviglioso sognatore del vivere bene come l’ingegner. Emmer, che ha struttura-to quella che noi chiamiamo “Città Giardino”. Poi una strana convivenza tra quelli che erano i luoghi del lavo-ro e la città per il segno, l’arteria, la linea d’asfalto che è via Fratelli Bandiera. Negli anni successivi come un segno di disprezzo ai predecessori si volle dare corso al complesso edile anomalo e sovrastante “La CITA”. Infine le due periferie quella dei Cà Emiliani e quella di via Trieste.Ma non dobbiamo dimenticare il casuale, stupefacente contributo che anonimi nostri concittadini hanno rega-lato a tutta la comunità.Prendiamoci la libertà di passeggiare partendo da Piaz-zale della Concordia e inoltriamoci in via della Ri-nascita per poi deviare in via Lazzaneo quindi in via Canetti e passare ancora in via Beccaria e poi in via Silvio Pellico, via Meneghetti angolo Via Cavour, via Manetti…Sono tanti gli spazi da scoprire, anzi vi invitiamo a se-gnalarceli.Li vedete tutti quegli spazi verdi, con accesso dalle strade e tutto attorno alle abitazioni? Tappeti erbosi che ricevono la compagnia di alberi tutti rigorosamente nati e cresciuti da soli.Sono superfici che senza cartelli monitori di divieti sono mantenuti puliti, vivi.Mi fermo davanti ad uno di essi e vi racconto una storia silenziosa e commovente. Ricordo che questi appezza-menti c’erano sempre stati e su di essi non si edificava neppure quando negli anni 60 ogni lembo di terra era un cantiere.

Perché non accadeva? Perché sono arrivati a noi per essere fruibili? La proprietà di questi terreni di chi era?Ecco la storia, anzi le tante misteriose storie di tutti questi lembi di verde.Negli anni 80 l’amministrazione comunale chiese che i proprietari delle terre non recintate dessero segno di interesse e si qualificassero. Ci fu chi si identificò e recintò quello che fino ad allora era libero, altri invece non diedero corso alla richiesta.A quel punto tutti gli “assenti” persero il diritto della proprietà e la terra divenne pubblica. La cosa mera-vigliosa è che tutti i pezzi di terra sembrano pensati, disegnati, inseriti ad arte nella città. Invece nessun di-segno a tavolino ma la bizzarra storia della vita che lascia delle tracce anche se non si è andati a scuola.Ma chi erano questi uomini e donne che ci hanno fatto dono di questo bene: il verde? Quando se ne sono andati e in quali luoghi lontani?Perché non c’è traccia della loro storia. Emigrati, quan-ti e dove? Sarebbe bello poter raccogliere e tessere la conoscenza di coloro che ad un certo punto hanno la-sciato la nostra città per vivere altrove.Chi conosce, chi ha parenti, chi ha amici che sono emi-grati, batta un colpo e potremo raccontare insieme la loro storia.Corrado Gasparri

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Vi segnaliamo un libro, un film, un luogo che ci diano degli stimoli per riflettere ancora.

UN LIBRO

Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, 2010, Mondadori editore

La famiglia Peruzzi di Codigoro, contadini a mezza-dria, lavoravano la terra con un sacco di figli per il conte Zorzi Vila. La terra era buona, non si potevano lamentare, quando all’improvviso nel 1927 il patatràc: la quota 90!L’industria italiana era in crisi, e la produzione del gra-no insufficiente, bisognava acquistarlo all’estero con il cambio in sterline a 150 lire per una sterlina. Ecco allora la bella trovata del Duce: si rivaluta a non più di 90 lire per una sterlina. Tutti contenti ma quando i Peruzzi a fine raccolto fanno i conti col conte si tro-vano a dividere le spese con cifre da far paura, che non avevano.“Nudi e crudi. Una mano davanti e una di dietro ci hanno ridotto. Ridotti alla fame”.Racconta Antonio Pennacchi nel suo libro “Canale Mussolini” le ragioni dell’esodo nelle Paludi Pontine della famiglia Peruzzi come per tante altre dal Friuli, dalle campagne tra Rovigo e Ferrara, dalla pia-nura Padana. Un esodo!In trentamila nel giro di tre anni lasciano tutto quel che hanno, poco, visto che i vari nobili e latifondisti li ave-vano portati alla fame per questa “quota 90”, e per la fame vengono spediti nelle terre Pontine per renderle fertili con la speranza di averle un giorno in proprietà.“Le Pontine? Ha fatto lo zio Pericle terrorizzato, per-chè lui da militare Le Pontine le aveva viste … le foreste impenetrabili, gli stagni, gli acquitrini e … da Cisterna … i banditi di cui raccontavano i cisterne-si, gente che aveva ammazzato al suo paese e si veniva a rifugiare qua, perchè qua nessuno veniva a cercar-li.”

In realtà “A Littoria (Latina) c’era gente di tutte le cit-tà e regioni d’Italia. Calabresi, siciliani, toscani, pie-montesi, sardi, marchigiani, genovesi, chi non aveva da lavorare al paese suo era venuto a Littoria.” ed il lavoro in Pontinia era già avanzato con i poderosi in-terventi di bonifica e canalizzazione, come, appunto, il canale Mussolini. E le genti dei monti Lepini e del Lazio con il dente avvelenato: “Cispadani, invasori ci avete rubato i po-deri!” e loro in risposta “Marocchini!”Una storia di vicende umane, di lotte, adattamenti e pacificazioni di genti accomunate da un medesimo de-stino, quell’antico legame che unisce i popoli nel me-desimo cammino per la vita!Enrico Comastri

UN FILM

Amore, cucina e curry. Regia di Lasse Hallström. 2014

Il film è stato in programmazione al cinema Dante poco tempo fa, non appena uscito sugli schermi. Ci parla dell’incontro tra due cucine, quella francese, stellata Michelen e quella indiana, ricca di spezie e di aromi. Così diverse, sembrano inconciliabili tra loro, come impossibile pare la convivenza tra le due famiglie dirimpettaie, ognuna impegnata ai fornelli del proprio ristorante.Il regista di Chocalat questa volta ci propone di pren-dere coscienza dei pregiudizi razziali. Essi sono il frut-to della paura di perdere qualcosa (il lavoro, i privilegi, lo status sociale). Il suo è un messaggio di tolleranza e ci ricorda la necessità di superare le barriere tra le persone e le culture. Lo fa in modo molto preciso e delicato al contempo, mettendo in primo piano il cibo, perché “parla in modo diretto a tutti i sensi senza pas-sare per la mediazione dell’intelletto o dell’esperienza, ed è dunque una forma di comunicazione immediata e piena di amore”.Francesca Lamon

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UN LUOGOScegliamo un luogo che ci è vicino: la CITA di Marghera. In una delle zone più diversifica-te di Marghera è nato un nuovo esperimento di condivisione.

Ago e filò: “Chi sa insegna, chi non sa impara”

Questo è il motto di Ago e Filò, laboratorio multicultu-rale di pratiche tessili nato a Marghera nella primavera dello scorso anno. Il progetto è stato promosso dal Ser-vizio Immigrazione in collaborazione con il Servizio Sociale della Municipalità di Marghera e organizzato dalla Cooperativa Sociale La Gagiandra. L’obiettivo è quello di mettere in relazione donne di diverse nazionalità attraverso le pratiche tessili. Cucito, uncinetto, maglia, ricamo ... ognuna porta il proprio sa-per fare (o la voglia di imparare) che diventa occasione di incontro.Da ottobre 2014 il gruppo di Ago e Filò, desideroso di proseguire questa esperienza, si costituisce in Associa-zione Culturale. E’ un traguardo molto importante e una prova di cit-tadinanza attiva tutta al femminile. Il direttivo è com-posto da sette donne di cinque nazionalità diverse: tre italiane residenti alla Cita, una spagnola, una bengale-se, una curda turca e una macedone. Una integrazione tra la cittadinanza che parte direttamente dal gruppo costitutivo. L’inaugurazione del 7 novembre 2014 era perfettamente nello stile Ago e Filò: una cena multiet-nica, colorata, festosa e partecipata. Un clima davvero conviviale.Primo obiettivo è quello di mantenere il laboratorio settimanale: tutti i mercoledì dalle 9.30 alle 12.30 pres-so il patronato del quartiere Cita: il laboratorio è aperto per i soci. Ma in cantiere anche laboratori pomeridiani, piccoli corsi e non solo a proposito di filati e di tessuti ... ma anche di cucina multietnica!>Come sostenere Ago e Filò?“E’ semplice” dicono le ideatrici dell’associazione. “La quota associativa 2014-15 costa solo 5 euro. Potete venire a trovarci il mercoledì mattina o seguirci sulla pagina facebook Ago e Filò per rimanere aggior-nati sulle nostre proposte”.Chiara Bertoncello

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“Poi, dopo l’esodo c’è il tempo dell’esilio: più che i corpi riguarda le anime” Anna Maria Mori

Registrazione al tribunale di Venezia - Num.2 del 27/1/2010REDAZIONE: Aldo Bastasi, Anita Costanzo, Marilena De Faci, Marco Donà, Corrado GasparriHanno collaborato: Chiara Bertoncello, Enrico Comastri, Alessandro Cuk, Claudio Petti, Dorina PetronioDIRETTORE RESPONSABILE: Francesco MoisioDIRETTORE: Francesca LamonQuesto numero è realizzato in collaborazione con Area Solidale dell’Osservatorio Politiche di Welfare del Comune di Venezia, stampa a cura del Comune di Veneziaweb: www.viveremarghera.itemail: [email protected]: Vivere Margheratel: +39 3311030819Vivere Marghera è gemellato con LeVoci di Via Piavewww.levocidiviapiave.com