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IV^ DOMENICA T.O. Mt 5,1-12
1Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. 2Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: 3"Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. 11Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.
Che cos’è la felicità? Come si fa a essere felici? Si può essere felici per
sempre? Sono solo alcune delle innumerevoli domande che mi risuonano
nella mente e nel cuore quando sento la parola “BEATO” che è martellante
nel testo evangelico di oggi. Tutti noi percepiamo che lo spartiacque tra la
felicità e la disperazione è un muro di carta velina: basta un evento luttuoso,
una malattia seria, l’abbandono del coniuge o di un figlio che fa scelte di
morte ecc., per oltrepassare qual confine. Ebbene, l’utopico Gesù ci da una
possibile proposta: le otto beatitudini. Non sappiamo con certezza, dove le
ha pronunciate, anche se la tradizione l’ha collocato su una collina di 150 m
di altezza sul lago di Tiberiade. Il luogo, o santuario delle Beatitudini, è in
mezzo a un magnifico parco con la chiesa che ricorda il «discorso della
montagna». (Mt 5,1-12). Gli scavi dell’archeologo francescano padre Bagatti
(1935) hanno portato alla luce una cappella del IV secolo, rifatta poi nel X
sec. e successivamente distrutta, situata presso l'attuale strada di Tabgha. Il
pavimento musivo, pressoché distrutto, è esposto a Cafarnao, presso la
sinagoga. La chiesa sorge su una grotta che è, probabilmente, quella descritta
dalla pellegrina Egeria.
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La chiesa, costruita dall’arch. Barluzzi, è a forma ottagonale; all’interno, su
ogni lato, è indicata una delle otto beatitudini mentre sul pavimento sono
rappresentati i simboli delle sette virtù: le virtù teologali (fede, speranza e
carità) e le quattro virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza).
L’edificio, molto severo, è circondato, all'esterno, da un portico che offre un
meraviglioso panorama sul lago e sulla pianura di Genesaret. Il sereno quasi
costante del cielo, la tranquillità del paesaggio sui luoghi principali dove
Gesù ha parlato e operato, il silenzio che tutto avvolge, invitano alla
riflessione e alla contemplazione.
Con le beatitudini questo testo siamo, di fronte a quella che possiamo
definire la “magna charta” del Battezzato; esse ci dicono quali sono le
condizioni per diventare discepoli del Signore e assumere il Suo progetto di
vita. La logica con la quale Dio agisce è il contrario di quella che usiamo noi,
una logica che ci proviene dall’istinto di sopravvivenza, dal metterci al
riparo da paure, frustrazioni, timori di “perdere del nostro”. Il discorso che
Gesù fa sul monte, è un discorso prettamente Battesimale nel quale ci sono
proposti degli atteggiamenti esistenziali che il Figlio di Dio ha vissuto in
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prima persona, e che ora propone ai suoi discepoli. Qui non siamo di fronte
a delle leggi nuove, ma siamo di fronte al CUORE nuovo che era stato
promesso dai profeti : "Vi prenderò dalle genti, dice il Signore, vi radunerò da ogni terra
e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi
purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo,
metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un
cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi
farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri
padri; voi sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio. (Ez. 36, 24-28)
Le parole di Gesù non sono leggi, ma “Buona Novella”, cioè un vangelo per
noi, suoi discepoli, al fine di “essere felici esistenzialmente”, non nella
fugacità del “mordi e fuggi” ma nella consapevolezza di stare con il Maestro
e con i fratelli in una logica veramente umana, rispettosa, leale e profonda.
Nelle Beatitudini non c’è spazio per il banale, ma solo per l’esistenziale!
Il genere letterario delle Beatitudini è spesso usato nell’Antico Testamento
che conta 45 Beatitudini di cui 25 nei salmi (אשרי ashrè, formula tecnica
specie nei salmi di congratulazione) che esprimono la felicità che solo Dio
può donare (cfr. salmo 1,1; 41,2; 128,1). Nel Nuovo testamento troviamo una
ventina di Beatitudini, o macharismi (μακάριος makàrios = beato). Che cosa
significa il termine beato? A quell’epoca indicava la felicità piena e totale
che era la caratteristica gelosa ed esclusiva delle divinità. Nel mondo pagano
gli dei avevano dei privilegi esclusivi: uno di questi era la felicità. Quando si
accorgevano che sulla terra qualcuno raggiungeva una soglia di felicità che
loro giudicavano esagerata, lo colpivano con qualche disgrazia. Questa
"mitologia", è, purtroppo, diventata "convinzione" in molti credenti.
Ebbene Gesù per otto volte invita a una vita di pienezza. Matteo elenca otto
Beatitudini. Perché otto? Nel cristianesimo primitivo il numero otto
simboleggiava la resurrezione di Cristo. Gesù è risorto il primo giorno dopo
la settimana, cioè il giorno ottavo: il numero otto, nel cristianesimo
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primitivo, assunse pertanto la simbolica della resurrezione. Ciò vi spiega
perché nell’antichità i battisteri, avevano spesso una forma ottagonale:
rappresentavano la vita indistruttibile, la vita nel Risorto. L’evangelista
calcola otto Beatitudini significando così che la pratica, l’accoglienza di
questo messaggio produce nell’uomo una vita di una qualità tale che è
indistruttibile, perché ancorata alla Risurrezione del Signore. Addirittura -
potrà sembrare qualcosa di maniacale ma era lo stile letterario dell’epoca -
l’evangelista calcola esattamente di quante parole comporre le Beatitudini:
per arrivare al numero voluto inserisce una particella che per se non era
necessaria grammaticalmente, pur di comporre le Beatitudini con 72 parole.
Perché 72? Perché secondo il computo che c’è nel libro del Genesi al cap. 10,
le popolazioni pagane conosciute a quell’epoca erano rappresentate dalla cifra 72,
che sta a indicare tutto l’universo conosciuto, il mondo pagano. Nel vangelo
di Luca, Gesù invia 72 discepoli: un modo per dire che l'annuncio evangelico
deve arrivare in tutto il mondo.
Mentre i comandamenti erano riservati a Israele, le Beatitudini sono per
tutta l’umanità: tutti possono accogliere la proposta di vita offerta da
Gesù.
La prima beatitudine che incontriamo, non è collocata a caso: essa è la
condizione "sine qua non" perché esistano tutte le altre, ed è la beatitudine
che crea più difficoltà, perché ci dice dove poniamo la nostra sicurezza, a
chi diciamo il nostro “Amen”! Seppure velocemente, diamo uno sguardo al
testo cogliendo solo alcuni elementi. Anzitutto un atteggiamento di Gesù:
v.1 Viste le folle εἴδω (anche percepire, considerare)
Il v. 5,1 si apre con un verbo che già abbiamo incontrato in 4,18: Ἰδὼν Idōn participio aoristo di ὁράω horaó, che esclude un guardare generico, ma
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sottolinea come questo sia in realtà una sorta di selezione ed elezione che
Gesù opera.
Gesù non destina questo discorso a un gruppetto ristretto di persone, ma
all’umanità. Un’umanità oppressa, che ha bisogno di sentire qualcuno che
dia un senso nuovo alla vita, che le libera non solo dalla povertà e dalla
tirannia dei potenti, ma dalla tirannia del proprio egoismo, dal proprio
“stare bene io”, per aprirsi allo “stare bene insieme”, a uno stare bene con il
Signore, con noi stessi e con i fratelli che sono, in ultima istanza, le tre grandi
armonie dell’uomo. Tutte le Beatitudini che leggiamo o tutti i vangeli che
ascoltiamo e commentiamo, sono carta straccia se non mi metto in mente che
non devo vivere per stare bene io, per realizzare me stesso, per trovare il mio
angoletto indisturbato! Questo è pensiero prettamente laico, per non dire
pagano! Tutto ciò può avvenire all’interno di una famiglia, della chiesa, della
parrocchia. Vedere le folle è alzare lo sguardo per vedere la salvezza di Dio
che si attualizza non solo nel rapporto personale con lui, ma incrociando gli
altri sguardi di chi sta accanto a me. E’ un lutto dello spirito, una tenebra
della mente, passare accanto ad una persona e abbassare lo sguardo; non
serve a nulla fare penitenza a pane e acqua se poi facciamo finta di non
vedere, di non sentire. Il battezzato è l’uomo, la donna del coraggio, della
pasqua, che non ha paura di mettersi in gioco per sradicare l’orgoglio e il
narcisismo, che non ha paura di chiedere scusa, ben sapendo che il perdono,
dono dello Spirito Santo, non lo concede chi ha ragione ma chi ama di più.
Se manca questo, siamo nella morte spirituale … con tutte le conseguenze
che ne conseguono. Ricordiamo sempre che Matteo ritma il suo vangelo
sostituendo un po’ alla volta la figura di Mosè cin quella di Gesù.
Dopo aver raccolto attorno a sé le folle, abbracciate con il suo sguardo, Gesù
compie significativamente tre azioni consecutive: sale sul monte, vi si siede
sopra e apre la sua bocca. Questa scena sottende due significati profondi: da
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un lato, ci riporta alla figura di Mosè, che salito sul Sinai va ad accogliere la
Parola di Jaweh e la dona al suo popolo (Es 24,12-13), raccolto ai piedi del
monte; dall'altro, il porsi di Gesù sul monte e il sedervisi sopra, aprendo la
sua bocca, ci richiama Jaweh che sul monte impartisce la sua Torah, il suo
insegnamento al suo popolo (Es 19,18-20), quasi a dire che in Gesù non solo
è raffigurato il nuovo Mosè, ma ne viene anche sancito il suo superamento;
in Gesù è Dio stesso che parla ora direttamente al suo popolo, senza più
bisogno d’intermediari.
Lo spazio ci consente solo una breve analisi di alcune Beatitudini.
v.3 Beati in poveri nello spirito. Μακάριοι οἱ πτωχοὶ1 τῷ πνεύματι
La prima beatitudine introduce il tema della povertà. Matteo aggiunge quel
“nello spirito” che non troviamo in Luca. L’espressione corrisponde a
un’espressione che troviamo nei documenti di Qumran, nei quali si parla di
“anawè-ruah”, che esprime non solo povertà economica ma dipendenza,
inferiorità. La povertà evangelica non esprime soltanto il distacco dai beni
materiali o un atteggiamento ascetico di disprezzo stoico delle ricchezze, ma
si riferisce a persone che volontariamente accettano di entrare nella logica
della povertà. Gesù in questa beatitudine che cosa chiede? Quelli che
liberamente, volontariamente, per lo spirito, (la forza interiore) entrano nella
categoria di povertà, non per andarsi ad aggiungere ai tanti poveri che ci
sono nel mondo, altrimenti è inutile, Gesù cosa sta chiedendo? Non di patire
la fame o di andare in giro nudi, ma di occuparsi di chi ha fame e di chi è
nudo: ognuno di noi può vestire qualcuno che è nudo senza bisogno di
spogliarsi. Gesù sta chiedendo, la categoria della povertà va compresa e
ritradotta nella nostra cultura, abbassate il vostro livello di vita per
permettere a quelli che l'hanno troppo basso di innalzarlo. Come Gesù stesso
1 Parola originaria: πτωχός
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che, secondo il NT, da ricco che era si è fatto povero perché i poveri fossero
ricchi. Gesù, il Signore, vuol far entrare tutti quanti nella categoria dei
signori, ma non dei ricchi. Gesù è severo con i ricchi, tanto che dice che
nessun ricco entra nel regno dei cieli: perché nessun ricco può entrare nella
sua comunità? Per il semplice fatto che il "ricco patologico", non è capace
assolutamente di un gesto di solidarietà! Il dare non dipende dalla salute,
non dipende dalla cultura, non dipende neanche da quello che ha. Tutti
siamo chiamati a essere signori, quindi Gesù il Signore ci invita a essere
signori. E il ricco chi è? É chi ha costantemente i pugni chiusi e trattiene per
sé. Allora per Gesù non c’è posto per il ricco nella sua comunità, perché la
comunità di Gesù è composta di signori, ma non da ricchi. La
concretizzazione di questa beatitudine, porta a possedere il "regno dei cieli"?
Che cosa significa? Poiché Matteo scrive a giudei convertiti, è attento a non
urtare la loro sensibilità, per cui utilizza quell'espressione per non dire il suo
sinonimo che è "regno di Dio". Regno dei cieli e Regno di Dio sono la stessa
cosa! Che cosa significa regno di Dio? Israele veniva da un'esperienza
disastrosa della monarchia, Dio non aveva voluto la monarchia, perché Dio
non tollera che ci sia un uomo che possa comandare su altri, ma Israele l’ha
voluta nonostante la contrarietà del Signore. Ed è stato l’inizio della
disgrazia nazionale di Israele. Un re peggio dell’altro che poi portò a una
lotta fratricida fra i vari regni, e le potenze vicine occuparono e assorbirono
poi Israele. Allora fece sì che si proiettò in Dio il re ideale, e il re ideale era
chi si occupava dei poveri e degli emarginati. Allora dire che “di essi è il
regno dei cieli”, significa che Dio era il loro re, cioè, che queste persone sono
governate direttamente de Dio, e Dio non governa emanando leggi che gli
uomini devono osservare, ma comunicando il suo spirito.
Allora questa prima beatitudine, che ha il verbo al presente, non dice che di
essi sarà il regno dei cieli, cioè un domani, ma è immediato. Se c’è un gruppo
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– attenzione, non un individuo: le Beatitudini non sono mai rivolte a un
singolo individuo, ma sempre a una pluralità - Gesù non viene a dire beato
chi, ma beati voi. Perché Gesù parla al plurale? Non gli serve una persona
che faccia questo, perché Lui vuol incidere profondamente nella società per
cambiarne radicalmente il volto, e allora ha bisogno di un gruppo, di una
comunità. Ebbene Gesù assicura questo: se c’è un gruppo di persone che
oggi, immediatamente che sceglie liberamente, volontariamente per amore
di essere responsabile della felicità e del benessere degli altri, da quel
momento succede qualcosa di straordinario, Dio si prende cura di loro; è un
cambio meraviglioso. Se noi ci prendiamo cura degli altri, finalmente
permettiamo a Dio di prendersi cura di noi. Allora sapete cosa succede? Che
si passa dal credere che Dio sia Padre a sperimentarlo: è grande la
differenza. Quando si chiede alla gente, ai cristiani, se credono che Dio sia
Padre normalmente tutti dicono sì. È un po’ più difficile quando si chiede
loro: “ma lo hai sperimentato come Padre?” e qui nascono i problemi. È la
tragedia di noi cristiani: ci hanno imbottito d'ideologie, ma non ci hanno
trasmesso esperienze vitali; ci hanno fatto credere che Dio è Padre - ed è
giusto - ma non l'hanno fatto sperimentare. Ecco come si può sperimentare,
se ci prendiamo cura e diventiamo responsabili della felicità e del benessere
degli altri, da quel momento esatto permettiamo a Dio di prendersi cura Lui
della nostra felicità, e la vita cambia perché si sperimenta quotidianamente,
anche negli aspetti minimi insignificanti dell’esistenza, la presenza tenera di
un Padre che in qualunque situazione lo senti che ti sussurra: “non ti
preoccupare, fidati di me”. Questo non significa che sono tolte le difficoltà, le
avversità che la vita fa incontrare, ma c’è una forza nuova, una capacità
nuova per viverle.
Riassumendo: quelli che liberamente, volontariamente per amore decidono
oggi, in questo momento, di essere responsabili della felicità degli altri, beati
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perché di questi, ma non degli altri, si prende cura Dio. Se c’è questo, ecco
che vengono tutte le altre Beatitudini, tutte le altre Beatitudini sono
condizionate dalla prima. La prima ha il verbo al presente, tutte le altre,
meno l’ultima, hanno il verbo al futuro.
Il vero povero "nello spirito", è quello che riconosce in Dio la sorgente del
dono e quindi non se ne vanta come una cosa di sua proprietà, non si fa
“bello” con i doni degli altri. La povertà di spirito è il “vuoto” che tutto
riceve: quella assoluta riceve l’Assoluto. La povertà in spirito è l’umiltà,
caratteristica prima dell’amore. Per noi credenti, la povertà è un po’ la
cartina al tornasole per verificare come viviamo il nostro essere chiesa: la
"sobrietà nella vita", le piccole bramosie di potere, il diventare piccoli tiranni
dentro il nostro ambiente. Ciò che però va maggiormente combattuto in
un’attualizzazione del voto di povertà, è un particolare sentimento di cui si
parla poco ma che è estremamente dannoso in tutti ma specie nei nostri
ambienti: la Gelosia! La gelosia, da un punto di vista psicologico, è un
attaccamento feroce a ciò che si ha e che non si vuole perdere. Inutile dire che la
gelosia è proprio l’opposto della povertà evangelica. Il povero non ha paura
di perdere nulla, perché non ha nulla, o se ha, non ne fa un idolo, ed è
disposto alla più totale condivisione. I beni possono essere materiali, ma
ancora pi più sono beni psicologici, intellettivi, e anche morali. La mancanza
di povertà che passa attraverso la gelosia, crea ansia, sospetto, sfiducia negli altri e si
autoalimenta buttando sempre fango sugli altri…oppure semplicemente facendo
finta che non esistano. casa: Gesù! “Entrati in casa, videro il Bambino e sua
madre e prostratesi lo adorarono” (Mt.2,11) (πεσόντες2 προσεκύνησαν
αὐτῷ). Non ci sono distrazioni, c’è solo ed esclusivamente Gesù e la loro
adorazione è per Gesù. Non si tratta di annientarci,ma, come ho evidenziato
2 Parola originaria: πίπτω,
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altre volte, essere capaci di fare la verità su di noi e di capire a chi noi ci
prostriamo. Perché Matteo aggiunge “poveri in spirito?” A quell’epoca, come
già vi dicevo, c’erano i poveri di Yahvè quelli cioè che si fidavano del
Signore per uscire dalla povertà; ma qui con Gesù succede il contrario, ci
sono quelli che si fidano talmente del Signore che decidono loro di entrare
nella povertà. I poveri per lo spirito sono quelli che liberamente,
volontariamente e per amore si sentono responsabili della felicità e del
benessere degli altri.
Ebbene poiché capita questo, Gesù dice “beati perché di essi è il regno dei cieli".
Hanno cioè capito qual è il bene più grande da raggiungere, la perla preziosa
per la quale vale la pena vendere tutto per averla. Attenzione: non
dobbiamo entrare nella miseria, buoni sì ma non stupidi, ma diventare
capaci di gesti di condivisione e solidarietà.
4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
La prima di queste situazioni di sofferenza dell’umanità è: “Beati coloro che
sono nel pianto, perché saranno consolati”. Letteralmente: “Beati gli afflitti,
perché questi saranno consolati”
Gesù afferma beati gli afflitti o gli oppressi (il termine πενθοῦντες può
essere tradotto in entrambe le maniere), perché questi saranno consolati.
Non fraintendiamo: non significa assolutamente che i disgraziati di questo
mondo un domani nell’aldilà saranno consolati. Gesù non parla di conforto,
ma di consolazione, non parla di un'afflizione o tristezza qualunque;
l’evangelista sta citando il profeta Isaia al capitolo 61, dove si dichiara che il
giorno della venuta del Messia sarà per consolare tutti gli afflitti. Questa
beatitudine si rivolge a una categoria particolare di afflitti e di oppressi:
l'afflizione di cui parla Isaia è legata a due chiare situazioni che rendono la
vita impossibile: a livello esterno c'è la dominazione dei romani, mentre
all'interno c'è l’oppressione dei capi religiosi. Queste due situazioni fanno si
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che il popolo sia nel pianto e nell'afflizione. Gesù non proclama beati gli
afflitti perché Marco, acuto teologo, usa attentamente i termini per le sue
Beatitudini: non usa infatti il verbo confortare (™ ἐηιςχύω ), bensì consolare
(παρακαλέω) che significa l’eliminazione alla radice della causa della
sofferenza. Tutte queste Beatitudini sono condizionate dalla prima; se c’è un
gruppo di persone, una comunità che incomincia a prendersi cura di coloro
dei quali nessuno si occupa, quelle persone che soffrono al punto di dover
gridare la loro disperazione, saranno beati perché grazie a questa comunità
che si prenderà cura di loro vedranno la fine delle loro afflizioni. Non siamo
quindi di fronte ad un messaggio alienante, ma a una spinta atta a cambiare
mentalità: guai se la politica e la religione fanno piangere le persone ma guai
se la comunità dei credenti rimane inerte a ciò!
v.5 beati i miti perché erediteranno la terra. Μακάριοι οἱ πραεῖς3
E' bene dire subito che, spesso, nel linguaggio odierno facilmente la mitezza
acquista un senso dispregiativo perché si confonde con "debolezza",
“mancanza di carattere”, “mancanza di personalità”, soggiacendo a ciò che gli
altri impongono anche in modo del tutto ingiusto. Per capire meglio il senso
della beatitudine dei miti, la Bibbia Interconfessionale rende così: "Beati
quelli che non sono violenti perché Dio darà loro la terra promessa". Un esegeta
tedesco sceglie nella sua lingua un termine che in italiano significa: cortese,
gentile, buono di cuore. In Gal.5,22 poi la mitezza compare nel frutto dello
spirito Santo: un modo di essere moderato, benevolo, un atteggiamento così
intriso di carità che ti dà di essere comprensivo e di mano leggera nel punire.
Scrive il Card. Martini: "Mitezza è la capacità di cogliere che, nei rapporti
interpersonali che costituiscono il livello propriamente umano dell'esistenza,
non ha luogo la costrizione e la prepotenza, ma la passione persuasiva, la
3 Parola originaria: πραΰς
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forza e il calore dell'amore". Jacques Dupont, illustre esegeta, scrive: "La
mitezza di cui parla questa beatitudine, non è altro che quell'aspetto dell'umiltà che
si manifesta nell'affabilità messa in atto nei rapporti con il prossimo". Tale
mitezza trova la sua illustrazione e il suo modello perfetto nella persona di
Gesù, mite e umile di cuore. Come va intesa questa beatitudine piuttosto
imbarazzante? Il salmo 37,11 prega così: "I poveri invece avranno in eredità la
terra e godranno di una grande pace". Qual è il contesto? Nella storia di Israele,
quando il popolo era entrato a Canaan, la terra fu divisa secondo le tribù, e
ognuna di essa, fu ulteriormente divisa secondo i clan; a loro volta, i clan,
divisero la terra secondo le famiglie in modo che ogni famiglia avesse un
pezzo di terra. La terra è importante in oriente; un uomo senza terra è un
uomo senza dignità; non è solo un appezzamento di terra, ma la vita, la
dignità perché, se un uomo ha terra, lavora e quindi può nutrire e mantenere
bene la propria famiglia. Se manca la terra, manca tutto! Dopo questa
divisione, è successo che nel giro di poche generazioni, i più prepotenti, i più
astuti e disonesti, si impossessarono della terra delle persone meno capaci,
delle persone più deboli. Il risultato fu che gran parte della terra fu
posseduta da pochissime famiglie e la gran parte della gente era costretta ad
andare a lavorare come bracciante nella terra che era stata di loro proprietà.
Una situazione di totale ingiustizia! Queste persone che erano state
espropriate della loro terra protestavano e, per calmarli, sempre le persone
pie, citavano il salmo 37 per tenere tranquilla la gente defraudata,
nell'ipotetica speranza di riavere la terra. Quando Gesù parla di "miti", non
indica una qualità morale dell’individuo, ma una situazione sociale
disperata; è la stessa differenza che c’è tra l’umile e l’umiliato: qui non si
tratta di umili, bensì di umiliati, i diseredati, quelli che hanno perso tutto,
può darsi per colpa propria, per incapacità. Sono poveri perché i potenti
hanno sottratto loro il campo, la casa, i pochi risparmi e magari addirittura i
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figli e le figlie. Sopportano l’ingiustizia senza nemmeno poter protestare.
Non si rassegnano, ma si rifiutano di ricorrere alla violenza per ristabilire la
giustizia. Non si lasciano guidare dall’ira, non alimentano sentimenti di odio
e di vendetta. Confidano in Dio e attendono la venuta del suo regno.
Gesù afferma: i diseredati, quelli che sono stati espropriati di tutto, compresa
la dignità, ebbene beati perché erediteranno la terra (e l’articolo
determinativo significa la totalità). Torniamo a gamba tesa sulla prima
beatitudine: se c’è una comunità di persone che s' impegna a sentirsi
responsabile della felicità degli infelici di questo mondo, questi nella
comunità ritroveranno non un terreno, un po’ di dignità, ma la terra, la
totalità. Nell'ambito nell’ambito della comunità delle Beatitudini, i diseredati
ritroveranno una dignità che non avevano mai conosciuto nella vita,
neanche prima di perderla.
Le Beatitudini degli afflitti e dei diseredati sono poi riassunte
dall’evangelista in una terza beatitudine.
6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati o
letteralmente “Beati gli affamati e assetati della giustizia, perché questi saranno
saziati”.
In questa beatitudine, l'evangelista usa un verbo piuttosto originale ormai
desueto: χορτάζω chortazó. Questo verbo è usato per gli animali, che
mangiano e si saziano, fino a scoppiare; in italiano potremmo tradurre con
"satolli". Gli affamati e gli assetati di giustizia, saranno saziati sino a
scoppiare. La situazione dell'essere "satolli", Matteo la riporta a uno specifico
episodio nel quale usa lo stesso verbo: la condivisione dei pani e dei pesci
dove quelli che mangiarono furono "satolli" (Mt 14,20). L’evangelista, con
questa tecnica letteraria, fa comprendere che si sazia la propria fame e sete di
giustizia, saziando la fame fisica degli altri, si avrà che, all'interno della
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comunità, non ci saranno più ingiustizie. Gesù assicura che l'impegno
perché la disuguaglianza sia appianata mediante la condivisione, evitando
ranghi e gerarchie all’interno della sua comunità, questa fame di "operare il
bene dell'altro", troverà la sua giusta collocazione.
Dopo aver presentato le situazioni negative dell’umanità, l’evangelista ora
gli effetti positivi all’interno della comunità negli individui che hanno fatto
questa scelta.
Ricordiamo che Matteo scrive sul modello delle opere di Mosè il quale, dopo
aver annunziato i comandamenti, proclama una specie di credo di
accettazione di questi comandamenti, che in ebraico si chiama lo “shemà
Israel” שמע ◌שראל (ascolta Israele). Matteo fa lo stesso: dopo la
proclamazione delle Beatitudini, presenta il Padre Nostro.
Il Padre Nostro non è una preghiera, ma è la formula, sotto forma di
preghiera, dell’accettazione delle Beatitudini, tanto è vero che a ogni
beatitudine corrisponde una richiesta del Padre Nostro: le prime richieste
riguardano l’umanità e il regno, per poi coinvolgere la comunità. Nelle
Beatitudini, abbiamo lo stesso processo:
• nella prima parte delle Beatitudini si presenta la situazione di sofferenza
dell’umanità che è compito della comunità cristiana eliminare;
• nella seconda parte si passa a vedere gli effetti all’interno della comunità.
La prima Beatitudine che troviamo nella seconda parte dice: 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Le Beatitudini che ora mediteremo, non riguardano categorie differenti di
persone: i misericordiosi, i puri di cuori, i costruttori di pace, bensì sono tutti
gli effetti che si producono nella comunità, dopo avere accolto le Beatitudini.
Chi sceglie la prima beatitudine e liberamente entra nella condizione di
servizio per permettere ai poveri di uscirne, rendendosi così pane per i
fratelli, diventano misericordiosi, puri di cuore, costruttori di pace.
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Quelle che l’evangelista enumera, non sono qualità degli individui ma
caratteristiche che diventano riconoscibili.
La prima caratteristica è la misericordia.
Misericordioso ἐλεήμων eleémón non è un sentimento, ma un'azione
concreta con la quale si aiutano gli altri a uscire da una situazione di
difficoltà. Non si tratta di una caratteristica "una ogni tanto", ma un tratto
costante della persona ce la rende riconoscibile per il suo atteggiamento, e
che permette a Dio e alla comunità di essere misericordioso verso di lui.
Questo scambio è sempre a nostro favore: se noi ci sentiamo responsabili
della felicità degli altri, permettiamo a Dio di esserlo della nostra! 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
In passato la purezza non era nel cuore, ma nei genitali. C'era l'ossessione
della sessualità, fino al punto di creare gravi turbe alle persone. Si è perso
così la bellezza di questa beatitudine.
Gesù non sta parlando di purezza a livello sessuale. In ebraico, cuore si dice
leb, e non ha lo stesso significato che ha nella nostra cultura occidentale; il לב
cuore non è la sede dell’affetto dell’amore, ma il cuore è l’equivalente della
nostra mente, della nostra coscienza. Quando nel vangelo si parla di duri di
cuore, non si intendono persone crudeli ma persone ostinate, persone
resistenti. Il "puro di cuore", è la persona limpida nella propria coscienza, nel
proprio intimo, nella propria intelligenza. Anche qui Matteo richiama il
Salmo 24,4-5: 3 Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo? 4 Chi ha mani innocenti e cuore puro (ב ב (ובר־ל
chi non si rivolge agli idoli, chi non giura con inganno.
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La purezza di cuore, l'onestà intellettuale, era condizione necessaria per
salire al tempio e partecipare alla liturgia.
La "limpidezza" di cui Gesù parla, non è solo una qualità della persona, ma
un atteggiamento che lo rende riconoscibile; quando una persona ha scelto la
prima beatitudine, cioè la condivisione, finalmente diventa una persona
sempre più vera, sempre più trasparente. L'impuro è colui che ha mente e
coscienza corrotte!
Gesù dice: le persone limpide, le persone vere, le persone trasparenti che
non fanno il "doppio gioco", quelle che non hanno maschere, sono, beate
perché vedranno Dio. Non si tratta di avere "visioni", e nemmeno di vedere
Dio nell'al di là, ma lo vedono già in questa terra. Spieghiamoci meglio. Il
verbo greco vedere si scrive in 2 modi: (βλεπω “blepo) indica la vista fisica,e
(ὁράω horaó ) che indica una profonda esperienza interiore. Che cosa vuol
dire? Significa che alle persone, limpide, trasparenti e vere, Dio sarà
"trasparente" con questa persona. la quale si accorgerà della presenza di Dio
nella sua esistenza come un padre tenero che si prende cura anche degli
aspetti minimi, insignificanti della sua vita. L'esperienza reale di Dio si fa
quando si accoglie la prima beatitudine; per queste persone, Dio sarà sempre
accanto, un Dio di tenerezza che tutto trasforma in bene, un Dio che si mette
a nostro servizio.
9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. μακάριοι οἱ
εἰρηνοποιοί
Gesù non proclama beati i pacifici, ma i pacificatori, coloro che lavorano per
la pace. C'è una differenza sostanziale. Il "pacifico" è colui che pensa ai fatti
propri per non avere nessuna grana. L'operatore di pace, viceversa, chi
lavora per la pace è disposto a mettersi in gioco pagando di persona. La
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parola ebraica “ pacificatori” significava soprattutto “coloro che
compongono i dissidi”.
Anche qui, non siamo in presenza di una "qualità" del soggetto, ma di un
"segno di riconoscimento".
In ebraico la parola “שלום shalom" che traduciamo riduttivamente con
"pace", indica tutto quello che concorre alla pienezza, alla felicità delle
persone, e Gesù può fare questo invito alla felicità perché lui è il
responsabile di questa felicità. Il progetto di Dio è che l'uomo sia felice!
Nella teologia giudaica, si insegnava che Dio aveva lavorato per sei giorni e
il settimo si era riposato. Il mondo si era poi rovinato per colpa dell'uomo.
Gesù non è d’accordo: quando gli rimproverano di non osservare il sabato,
nel vangelo di Giovanni 5,17 Gesù risponde: "Il Padre mio lavora e anche io
lavoro". La creazione non è terminata. La narrazione che troviamo nel libro
del Genesi di quella armonia tra l’uomo e la donna, tra l’uomo e il creato,
non è un rimpianto di un paradiso perduto, ma la profezia di un paradiso da
realizzare. Non c'è da piagnucolare per un paradiso perduto, ma c'è da
rimboccarci le maniche per realizzare questo paradiso continuando a
collaborare con Dio nella sua opera di creazione che non si è mai interrotta.
Chi costruisce pace, è chiamato "figlio di Dio". Nella cultura semitica
l'espressione "Figlio di Dio" ha essenzialmente due significati: assomigliare a
Dio ed essere protetto da Lui. Gesù garantisce che chi lavora per costruire
ponti di pace, che lavorano per la felicità, per la dignità e la libertà degli
uomini, sono beati perché, prima di tutto, assomigliano a Dio, cioè fanno il
suo stesso lavoro: dare felicità e vita agli altri.
Se assomigliano a Dio, significa che fanno lo stesso lavoro di Dio. E poi beati
perché avranno Dio dalla parte loro. Dio sta dalla parte non di chi toglie la
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felicità, ma di chi la costruisce, non di chi toglie la dignità, ma di chi
restituisce la dignità agli uomini, cioè Gesù ci invita a collaborare alla
creazione. Nella lettera di Paolo agli Efesini, al capitolo 1, leggiamo:
"3 Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo. 4 In lui ci ha eletti prima della creazione del mondo perché fossimo santi e irreprensibili dinanzi a lui, 5 avendoci predestinati nel suo amore a essere adottati per mezzo di Gesù Cristo come suoi figli, secondo il disegno benevolo della sua volontà, 6 a lode della gloria della sua grazia, che ci ha concessa nel suo amato Figlio". Il concetto di "figlio adottivo", ha un significato molto più pregnante di come
noi lo intendiamo oggi. In antichità, quando un re o un imperatore vedeva la
sua vita volgere al termine, non lasciava il suo regno a un figlio suo naturale,
ma sceglieva tra i propri ufficiali la persona che gli sembrava più adatta, la
più capace di continuare come lui il suo impero, e lo adottava come figlio. È
questa l’adozione a figli che Paolo ci comunica: Dio ci vuole così bene e ci
stima così tanto, che ci chiede di essere suoi figli adottivi, cioè di collaborare
con Lui e come Lui alla creazione del mondo, a costruire la pace.
Abbiamo visto che queste Beatitudini sono tutte espresse al futuro, e sono
rese possibili se esiste la prima beatitudine; l'ultima beatitudine ha, come la
prima, il verbo al presente come la prima: 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Il verbo al presente non è posto a caso: quelli che sono fedeli alle Beatitudini,
non si aspettino l’applauso o il riconoscimento dalla società né civile, né
religiosa, ma si attendono una serie di ostacoli. L'onesto disturba chi vive
nelle tenebre! La gravità della situazione è espressa dal verbo “perseguitare”
adoperato dall’evangelista (διώκω diókó); è un verbo che indica la
persecuzione in nome di Dio, la più terribile, perché non viene da nemici
esterni, bensì viene proprio da quelli sui quali credevi di contare, quelli che
avrebbero dovuto collaborare con te.
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Nel vangelo di Giovanni 16,1-2, c'è un'espressione inquietante che però
vediamo realizzarsi anche ai nostri giorni: “Vi scacceranno dalle sinagoghe, anzi
viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà, crederà di dare culto a Dio. E faranno ciò
perché non hanno conosciuto né il Padre né me”.
Inutile negarlo: anche la chiesa in alcuni periodi storico, ha chiuso, occhi e
orecchi di fronte ai profeti (es. don Mazzolari; don Milani ecc.) perché
disturbano il quieto vivere dei "pacifici" che non volevano rogne e
desideravano mantenere lo "status quo ….". Gesù, con le Beatitudini, non
detta delle regole morali, ma uno stile di vita: è lo stile dell’agnello,
consapevole che le belve continueranno ad esserci e tenteranno di sbranarlo.
Nonostante questo il “beato” non cederà alla logica del “disumano”, ma,
pagando di persona, vorrà continuare ad essere semplicemente “uomo”!
A cura di padre Umberto