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www.storiainrete.com n. 153/154 | Luglio/Agosto 2018 | € 6,90 Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L 353/03(conv in L. 27/02/2004 n°46) Art.1 Comma 1 Salerno Aut /SA/11/2018/C, ITALIANI Nuove conferme smantellano un vecchio luogo comune: l’Italia non è mai stata un' “espressione geografica” e il suo popolo non è un disordinato mix di razze e culture. Ecco la vera storia di una delle nazioni più antiche - e solide - del mondo GIÙ LE MANI DA SUEZ Quando l’Italia di Fanfani e Mattei aiutò l’Egitto contro l’imperialismo anglofrancese 1928, NASCE IL REGIME Passo dopo passo, il Fascismo impiegò più di sei anni per trasformarsi in una vera dittatura «BON APPÉTIT» Così la cucina nell’epoca del Re Sole impose il gusto francese all’Europa

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ITALIANINuove conferme smantellano un vecchio luogo comune:

l’Italia non è mai stata un' “espressione geografica” e il suo popolo non è un disordinato mixdi razze e culture. Ecco la vera storia

di una delle nazioni più antiche - e solide - del mondo

GIÙ LE MANI DA SUEZ Quando l’Italia di Fanfani e Mattei aiutò l’Egitto control’imperialismo anglofrancese

1928, NASCE IL REGIME Passo dopo passo, il Fascismo

impiegò più di sei anni per trasformarsi in una vera dittatura

«BON APPÉTIT»Così la cucina nell’epoca del Re Sole impose il gusto francese all’Europa

COPERTINA DEF - STORIA IN RETE 153.qxp_Layout 1 09/07/18 17:13 Pagina 1

COPERTINAGli italiani allo specchio

ESPRESSIONEGEOGRAFICALO DICI A TUA SORELLA...

«La partenza dei volontari» di GirolamoInduno (1881). Il senso di appartenenzadegli italiani a un’unica nazione è moltoprecedente l’unità politica del paese

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Un dirompente articolo sul mensile di geopolitica «Limes» risponde a decennidi auto-denigrazione degli italiani: non è vero che non siamo una nazione, chenon siamo un popolo con caratteri propri, che siamo una «costruzione artificiale»voluta da elitesetero-dirette. Insomma, non è vero che «gli italiani non esistono».Storia, antropologia e linguistica raccontano una realtà ben diversa: da oltreduemila anni esiste qualcosa chiamata «Italia», con i suoi abitanti che non sonoaltro che italiani, anche se spesso lo ignorano. E la consapevolezza di questaunicità può essere la chiave per uscire da un’epoca buia in cui il paese più bellodel mondo sta rischiando davvero di scomparire

di Emanuele Mastrangelo

«Fatta l’Italia oratocca fare gliitaliani». Fraseinfelice, tantopiù infelicequando decon-

testualizzata. Perché con buona pacedi Massimo D’Azeglio – a cui viene at-tribuita – nel 1861 gli italiani esiste-vano da un pezzo. Così come esisteval’Italia, come concetto che riuniva inun comune destino geografico popoliinizialmente diversi e fusi in quellache i greci chiamavano «koinè», cioèun’unica lingua comune, ma ancheun’unica civiltà comune. L’unica cosache era cambiata – nel 1861 – è cheper la prima volta dai tempi di Odoa-cre, il barbaro che mise fine all’Imperoromano d’occidente nel 476 d.C., gliitaliani avevano di nuovo uno Statounico dalle Alpi alla Sicilia. Questa è

una verità che per decenni gli italianisi sono ripetuti come fondamento delloro patriottismo, e che invece nell’ul-timo quarto di secolo hanno deciso dicancellare, abbandonandosi a uncupio dissolvi fatto di secessionismiscassi e di un autolesionismo patolo-gico il cui spettro va dallo snobismoradical chic al cinismo piccolo bor-ghese fino alla disillusione del popoloabbandonato a se stesso dalle classi di-rigenti. E invece...

«Sebbene ne siano ignari, gli italianihanno nell’omogeneità la loro caratteristicapiù rilevante. Nonostante rivendichinouna parcellizzata alterità, hanno nell’uni-formità culturale la loro dimensione piùstrategica. Gli abitanti del Bel Paese de-notano evidenti particolarità di matriceeconomica, civica, amministrativa. Alpunto da credersi spesso distanti, estranei.

Eppure non palesano nessuna delle ir-reparabili divisioni che gravano su Statinettamente più potenti». Lo scrive DarioFabbri, firma di «Limes» sul numero dimaggio 2018 della storica rivista di geo-politica diretta da Lucio Caracciolo. Unlungo articolo intitolato «L’insospettabileomogeneità degli italiani» in cui Fabbririvendica accanto alle innegabili pecu-liarità delle varie popolazioni italiane,anche una solidità per l’appunto inso-spettabile se messa a confronto con altriStati nazionali d’Europa. Fabbri analizzail popolo italiano dal punto di vistastorico, antropologico e culturale riscon-trando che i punti di forza unitaria sonoincredibilmente più delle linee di fratturae che dunque un popolo come il nostro,così poco cosciente d’essere una nazione,può trovare in sé stesso quelle caratteri-stiche necessarie e sufficienti a soprav-vivere come Stato nelle tempeste geo-

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Giusto novant’anni fa, nel 1928, l’Italiavisse mesi importanti senza che molti,oggi, lo ricordino. Invece merita atten-zione il 90° del 1928, perché gli eventidi quell’anno costituirono la bruscasterzata verso il regime di partito unico

e rimangono un modello di «colpo di Stato» attuato pervia legislativa, cioè con l’approvazione del Parlamento ela semplice forzatura degli equilibri tra istituzioni apicali,nella opaca indifferenza dei cittadini. Come ampiamentericostruito nel volume «Da Giolitti a Umberto II. Lastoria che torna» (atti di due convegni curati da chi scrivee a pubblicati dal Centro Europeo Giovanni Giolitti,Cuneo, 2014), contrariamente a quanto ripetono autoriquali Emilio Gentile il 1922 non fu affatto «subito regime».Il regime a partito unico venne costruito dal Fascismoanno dopo anno e, per i passaggi fondamentali, semprecon l’approvazione del Parlamento: fu il caso della legge«Regolarizzazione dell’attività delle Associazioni e del-l’appartenenza alle medesime del personale dipendentedallo Stato» (26 novembre 1925, n. 2029, nota come«legge contro la massoneria», di due soli articoli), diquella su Attribuzioni e prerogative del capo del governo

(24 dicembre 1925, n. 2263: 10 articoli, aperti da enun-ciazioni fondamentali: «Il potere esecutivo è esercitatodal Re per mezzo del suo governo. Il primo ministro ècapo del governo. Il capo del governo primo ministro se-gretario di Stato è nominato e revocato dal Re ed è re-sponsabile verso il Re dell’indirizzo generale politico. Ildecreto di nomina del capo del governo primo ministro ècontrofirmato da lui, quello di revoca dal suo successore...)e infine della legge sulla Facoltà del potere esecutivo diemanare norme giuridiche (31 gennaio 1926, n.100).

Punto di partenza e acceleratore della svolta dl 1928 fula «Riforma della rappresentanza politica», cioè la leggeelettorale 17 maggio 1928, n.1019, che prese nome dalsuo «autore», il ministro di Grazia e Giustizia, AlfredoRocco, nazionalista e vera mente del governo Mussolini.Per comprenderne la portata va ricordato che eranotrascorsi appena quindici anni dall’introduzione delsuffragio quasi universale maschile (1912, applicato perla prima volta nelle elezioni del 26 ottobre 1913), bilanciatocon la conservazione dei collegi uninominali a doppioturno. Quel sistema, in vigore dal 1848, frenò gli estremisti(socialisti rivoluzionari, clericali anti-sistema, repubblicani

Mai fidarsi delle date... a ben vedere il Fascismo iniziò a trasformarsi nel sistemaautoritario che conosciamo molto dopo la Marcia su Roma dell’ottobre 1922.Addirittura importanti provvedimenti vennero approvati dal Parlamento solonel 1928, un anno trascurato in questo senso anche se centrale. Mentre leopposizioni tacevano o venivano messe a tacere, il Re non seppe reagire adalcune evidenti forzature dello Statuto Albertino (la Costituzione dell’Italiasabauda) lasciando che la monarchia venisse via via affiancata dal partito unico.Una strana costruzione istituzionale che passerà alla storia come la «diarchia»

di Aldo A. Mola

1928NASCE ILREGIME

FASCISMOProve tecniche di dittatura

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Palazzo Braschi a Roma, sede del Fasciocapitolino, coi manifesti propagandistici

per le elezioni del 1929. L’anno prima la riforma elettorale aveva cambiato

il sistema di composizione della Camerapassando dal proporzionale

pluripartitico al plebiscito pro ocontro la lista di nomi presentata dal PNF

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36 | STORIA IN RETE Luglio/Agosto 2018

Se avete voglia di testarela vostra capacità di stu-pirvi il suggerimento delmese è questo: prendetel’ultimo libro del pro-fessor Emilio Gentile,

«25 luglio 1943» (Laterza, pp. 288, €18,00), leggetelo e poi domandatevi:ma è possibile? Possibile «cosa»?Beh, ad esempio, se è possibile cheun rinomato studioso riesca a com-piere un clamoroso errore di pro-spettiva storiografica ricostruendouno dei momenti più importantidella storia italiana del XX secolo: il25 luglio 1943 appunto, quando cioèil Gran Consiglio del Fascismo, vo-tando a stragrande maggioranza l’or-dine del giorno presentato da DinoGrandi, al termine di una sedutafiume sfiduciò Benito Mussolinidopo quasi 21 anni di potere indi-

scusso. Come è noto, poche oredopo, Mussolini venne arrestato perordine del Re Vittorio Emanuele IIIdopo un’udienza, breve e drammatica,a Villa Savoia. Si apriva così la stradache avrebbe portato, in poco più di40 giorni, al dramma senza finedell’8 settembre, all’invasione tedescae alla Guerra Civile.

Giusto quindi che alla data del 25luglio sia stata dedicata una delleprime uscite della nuova collana chel’editore Laterza ha voluto per ricor-dare i «10 giorni che hanno fattol’Italia». Detto questo, visto l’autoree viste le più o meno recenti acqui-sizioni storiografiche e documentarie,ci si poteva attendere di più. Moltodi più. Oddio… c’è anche chi si ac-contenta: ad esempio Paolo Mielisul «Corriere della Sera» che ha de-

dicato al libro la solita doppia len-zuolata. Oppure Raffaele Liucci che,su «Il Sole 24 Ore», si è addiritturasbilanciato a definire il volume diGentile «…senz’altro il più appro-fondito mai dedicato al tema». De-cisamente più con i piedi per terra ilprofessor Eugenio Di Rienzo che,sul blog di Dino Messina suCorriere.it, ha pubblicato una pun-tuale – e critica – analisi del lavorodi Gentile, osservando ad esempioche: «Quest’opera testimonia, però,che negli intricati labirinti del 25luglio è facile smarrirsi, perché ilfilo d’Arianna che potrebbe consen-tirci di trovare il cammino è stato,spesso, reso invisibile dalla cortinafumogena stesa dai tanti protagonistie comprimari di quella giornata». Einfatti, Gentile nei meandri del 25luglio si è coraggiosamente avven-

Un nuovo saggio vorrebbe ricostruire i retroscena della riunione delGran Consiglio che pose fine al Regime fascista ma dimentica la cosa piùimportante: tra le tante trame in atto c’era anche la strategia che il Ducestava seguendo per uscire dalla guerra a modo suo. Un ardito pianodiplomatico che avrebbe portato alla pace tra Germania e Russia o all’uscitadell’Italia dal conflitto. Per costringere Hitler a seguirlo, Mussolini avevabisogno di tutto. Anche di essere messo in minoranza dai suoi gerarchi...

di Fabio Andriola

LIBRI25 luglio 1943

L’ULTIMA CARTA di

MUSSOLINI

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Luglio/Agosto 2018 STORIA IN RETE |37

Milano, mattino del 26 luglio 1943. La folla esulta per la sostituzione

di Mussolini con Badoglio, illudendosi che questo avrebbe condotto l’Italia

a uscire dal conflitto. Nel riquadro, «La Stampa» dà la notizia del cambio

ai vertici del governo

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Il progressivo degrado della repubblica trovavapurtroppo un pendant nel progressivo venirmeno del suo contraltare: l’idea monarchica cheaveva conosciuto per molti anni dopo il referendumuna sua ampia vivacità, commentata favorevol-mente e alimentata da rotocalchi e libri (non dai

grandi giornali e radio e TV del regime). Per la verità unprimo colpo al consenso monarchico si ebbe con lapartenza dall’esilio portoghese per la Svizzera della reginaMaria José motivata dalla esistente necessità di operarsiagli occhi […]. Per moltissimi anni la stampa piccoloborghese, i settimanali illustrati che entravano in tutte lefamiglie e famigliole («Oggi», «Gente», «Epoca», «SettimanaIncom») relazionarono i lettori settimanalmente deglieventi lieti e tristi della Famiglia Reale. Una nave, addirittura,appositamente noleggiata, giunse a Lisbona dall’Italia perportare i monarchici al matrimonio della principessaMaria Pia; giunsero a migliaia con ogni mezzo nell’alloralontano Portogallo per partecipare al gioioso evento. NelMuseo civico di Cascais si ricorda questa cerimonia e sidedica un vano al re Umberto che viene definito «il Repiù amato dai portoghesi». La riviera marina di Cascaised Estoril è infatti chiamata la «Riviera dei Re» per essere

stata la residenza di re Carol, dei Conti di Parigi, di JuanCarlos di Spagna e famiglia, del reggente Horthy di Na-gybànya, ecc. A ognuno di questi personaggi il Museodedica un vano. La passeggiata a mare è intitolata aUmberto II e una targa sulla sua ex residenza ricorda illunghissimo e doloroso esilio.

Ricordiamo ancora che la morte di Elena ebbe una riso-nanza enorme in Italia tanto era amata la «Regina dellacarità benefica» (dal messaggio di cordoglio di Pio XII). Sicreò così, spontaneamente, nell’immaginario collettivodegli italiani una vera e propria «leggenda di Cascais», unamore profondo per il Re lontano, anch’egli di fronte «al-l’Atlantico sonante», come il suo avo Carlo Alberto, cantatoda Carducci nel mirabile «Piemonte». Re che interveniva,assente ma presente, nelle vicende dolorose e felici del suopopolo lontano, aiutandolo, ove possibile, con gioia e condolore, con discrezione e gentilezza, struggeasi. Un veroflusso di popolo, alimentato dai reportages dei settimanaliillustrati, si creò verso l’allora lontanissimo Portogallo emigliaia e migliaia di italiani si recarono negli anni quasiin pellegrinaggio, dall’esule di Cascais nel romito borgo dipescatori [...]. Ed egli era lì ad attendere tutti e tutti

ANTICIPAZIONIPamphlet anti-repubblicani

AGONIA E MORTE (TRISTE) DI UNA MONARCHIAUn professore universitario di Genova ha deposto i toni paludati dell’Accademiaper scrivere un violento saggio contro la Repubblica italiana. Monarchico convintol’autore non si nasconde gli errori e le debolezze del mondo rimasto fedele ai Savoiama incapace di sfruttare, sin dagli anni Cinquanta, il forte richiamo che la famigliareale in esilio esercitava sul grande pubblico. Ecco – in un brano che anticipiamo pergentile concessione di autore ed editore – come lo stesso Vignoli racconta questoimportante passaggio della storia italiana nel suo «Repubblica Italiana»

di Guido Vignoli

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Umberto II si intrattiene con Amedeo di Savoia Aosta e Claudia d’Orléans

il giorno delle nozze della coppia, nel 1964

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Quattro colpi di pi-stola: 16 morti, ol-tre 500 feriti ecentinaia di arre-sti. Questo il bi-lancio del tentati-

vo di uccidere Palmiro Togliatticompiuto dal giovane Antonio Pal-lante alle ore 11.20 del 14 luglio (ilgiorno della presa della Bastiglia)di fronte a una uscita secondaria diMontecitorio, a Roma. Un attentatoprogettato dal giovane siciliano (li-berale e collaboratore del giornaledell’«Uomo Qualunque») in assolutasolitudine, anche se vennero poiipotizzati mandanti di ogni tipo (lostesso Togliatti in una lettera a Mas-simo Olivetti, fratello di Adriano,definì Pallante «sicario di quellaclasse a cui lei appartiene»). Il gio-vane, che al processo si presentò

come un patriota, si era scontratocon i comunisti più volte nella suaCatania durante la campagna elet-torale per le elezioni del 18 aprileprecedente, ma aveva anche lettocon rabbia e dolore le notizie suitanti omicidi commessi dai parti-giani comunisti, soprattutto nelNord Italia, dopo la fine della guerranei confronti non solo di ex fascisti,ma anche di potenziali avversaripolitici. Vedeva i comunisti comeun pericolo per l’Italia e pensavache la morte del loro leader, il «Mi-gliore», come veniva chiamato daisuoi compagni, avrebbe rappresen-tato un esempio per tutti, risolvendoil problema alla radice, come hadetto in una recente intervista. Cosìcon 250 lire acquistò una pistolaSmith al mercato nero e cinque pro-iettili con altre 25 lire. Prese il treno

Settant’anni fa un giovane studente volle vendicare i troppi morti fatti daicomunisti durante e dopo la Guerra Civile. A pagare doveva essere il capoindiscusso del PCI che, in effetti, per poco non ci lasciò la pelle. Ma in quei giornidrammatici l’Italia rischiò davvero di ripiombare nell’incubo di una guerraintestina? Di fronte alle imponenti manifestazioni e scioperi organizzati dallesinistre sembrò di sì. Ma se la base comunista aveva davvero un pianoinsurrezionale, solo i più alti dirigenti del partito sapevano che era inattuabile.Perché Stalin, a Mosca, non voleva...

di Aldo G. Ricci

HANNO «SOLO» SPARATO AL

ANNIVERSARILuglio ’48: attentato a Togliatti

STATE TRANQUILLI!

MIGLIORE...

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Luglio/Agosto 2018 STORIA IN RETE |47

Una folla di iscritti al PCI manifesta a Milano all’indomani dell’attentato a Palmiro Togliatti, il 14 luglio 1948. Gli sguardi truci e gli slogan violentidanno il polso della guerra civileincombente. Nell’altra foto, il quotidianocomunista «L’Unità» commental’attentato e la mobilitazione

per Roma e cominciò a frequentarela zona del Parlamento in attesa del-l’occasione giusta.

Il 9 e il 10 luglio erano state giornateinfuocate alla Camera per gli scontri acausa dell’approvazione della votazione

sulla ratifica da parte del Governo delPiano Marshall. Ma il 14 il palazzo eraquasi deserto e Pallante vide Togliattiavviarsi verso l’uscita di via della Mercedein compagnia di Nilde Jotti e si mossein anticipo. Appena lo vide uscire dalportone sparò tre colpi, di cui uno al

polmone, e poi un quarto alla testa. Ilquinto gli rimase in canna, mentre laJotti aveva protetto il leader comunistacon il suo corpo, urlando «arrestatelo,ha ucciso Togliatti». Pallante venne im-mediatamente fermato e portato inQuestura, dove firmò un verbale in cui

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54 | STORIA IN RETE

Annoiati, distratti,superficiali, sempreconnessi e costan-temente con la testaaltrove, tendiamoa sottovalutare cose

molto importanti. Ad esempio che senon ci fosse il Canale di Suez parecchiecose non potremmo averle così facil-mente e a prezzi accettabili. E quelloche vale per noi valeva anche per inostri genitori e pure per i nostrinonni, bisnonni e trisavoli… Già per-ché il Canale di Suez è lì ormai daquasi 150 anni (li compie il prossimoanno) e le navi cariche di qualunquecosa che l’hanno attraversato ormaisono quasi tante come le stelle in cielo.A questa incredibile realtà che rara-mente fa capolino sui giornali e neiTG anche se è stata ed è un’opera co-lossale che svolge un ruolo fonda-mentale, ha dedicato un libro MarcoValle. Valle è firma nota ai lettori di«Storia in Rete» ma soprattutto è una

delle non molte intelligenze attivefuori dai recinti del «politicamentecorretto». Il suo recente «Suez. Il Ca-nale, l’Egitto e l’Italia» (Historica, pp.336, € 22,00) è semplicemente un bellibro: scorrevole, documentato, capacedi offrire ampie panoramiche e sug-gerire prospettive inattese. Almenoper chi non mangia pane e Suez finda piccolino… E ad aver avuto unainfanzia lontana da certi alimentisiamo stati in molti ovviamente. Pren-dendo spunto da sottotitolo del libro– «Da Venezia a Cavour, da Mussolinia Mattei» – abbiamo fatto qualche do-manda a Valle per capire non solol’importanza del Canale e la sua storiama anche come l’Italia sia stata coin-volta già in tempi non sospetti inquesta straordinaria avventura intel-lettuale ancor prima che ingegneristicae commerciale.

Definisci il Canale di Suez «un’arteriacentrale del sistema mondo». Ma

INTERVISTEStoria & Commerci

NOI, SUEZE GLI ALTRI......che non ci volevano tra i piedi. La storia del Canale più famoso e contesodel mondo riguarda da vicino anche l’Italia, il suo ruolo nel Mediterraneo, le sueambizioni e le sue esigenze. E, sullo sfondo, i rapporti con i nostri «alleati»europei: Francia e Gran Bretagna. Ieri come oggi pronti a tutto pur di tenerlontana Roma dalle stanze dei bottoni. Per avere un idea su tutto questo bastaleggere sia un libro appena uscito - «Suez. Il Canale, l’Egitto e l’Italia - che questaintervista al suo autore: Marco Valle.

di Luca Di Bella

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Primi anni Venti: il canale di Suez in uno scatto del fotografo statunitense

William Henry Goodyear (1846–1923)

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58 | STORIA IN RETE Luglio/Agosto 2018

In quei mesi convulsi, l’Egitto nasseriano si «accorse»d’avere una sponda amica in Occidente: l’Italia repub-blicana. In realtà si trattava di un legame consolidato;nell’immediato dopoguerra la diplomazia italiana erariuscita, grazie agli sforzi di Renato Prunas e GiovanniDe Astis, a ristabilire i rapporti interrotti dalla guerra e

a sanare in modo soddisfacente la pesante situazione della col-lettività italiana. Dopo laboriose mediazioni – costantementeostacolate dagli inglesi per nulla entusiasti di un «ritorno»italiano – il 25 settembre 1947 veniva ratificato un accordo chenormalizzava le relazioni tra i due Stati e metteva fine alsequestro dei beni consentendo, dopo sette dolorosi anni, ai 65mila connazionali residenti in Egitto di riappropriarsi delleloro proprietà. Più difficile fu riottenere il dissequestro degliimmobili dello Stato e degli enti di beneficenza italiani nellazona del Canale. [...] Nel frattempo la nostra diplomazia fissavanel Cairo, destinandovi come ambasciatore proprio Prunas, il

baricentro della linea adottata dopo il voto dell’ONU che, il 21novembre ’49, aveva affossato ogni residuo sogno colonialeitaliano. Per quanto dolorosa, la perdita dei possedimenti d’ol-tremare si rivelò provvidenziale per un’Italia decisa a ritrovare,come annunciato da Alcide De Gasperi, «una funzione daprotagonista» in seno al mondo arabo e nel Mediterraneo.Libera da ingombranti fardelli, la nuova fase si concretizzò inuna miriade d’iniziative: accanto agli strumenti ereditati dalventennio mussoliniano – l’ISMEO (Istituto per il Medio el’Estremo Oriente) e l’Istituto per l’Oriente, affidato al già fasci-stissimo Raffaele Ciasca – si affiancarono l’Accademia del Me-diterraneo, il Centro per le relazioni italo-arabe, il Centro perla cooperazione mediterranea e la rinnovata Fiera del Levantedi Bari. Proprio in quella sede, l’11 settembre 1951, il sottosegretarioagli Esteri Paolo Emilio Taviani: «Parlò dell’Italia come di “unponte naturale fra Occidente e mondo arabo” e offrì ai popoliarabi la solidarietà italiana per la loro emancipazione. [...]

A coronamento di una lunga storia che ha visto l’Italia giocare un ruoloimportante in tutta la vicenda del Canale di Suez, a metà degli anni Cinquanta lafragile Repubblica italiana riesce a conquistarsi spazi di autonomia e di creditodurante la grave crisi per il controllo del Canale. Nell’autunno 1956 la decisionedell’Egitto di Nasser di nazionalizzare il canale scatena la reazione di Francia eGran Bretagna (appoggiate da Israele) che da un secolo controllano Suez e granparte dei commerci mondiali. Come racconta Valle nel brano che anticipiamo –tratto da «Suez. Il Canale, l’Egitto e l’Italia», finalista al Premio Acqui Storia – ilnostro paese si stacca dagli altri paesi europei per seguire i propri interessi. Neglianni a seguire l’amicizia tra Roma e Il Cairo sarà sempre più forte grazie soprattuttoa due personaggi: Amintore Fanfani, segretario della Democrazia Cristiana, edEnrico Mattei, presidente dell’ENI.

di Marco Valle

ANTICIPAZIONIPolitica estera italiana

L’EGITTOAMICI ITALIANI

e gli

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Luglio/Agosto 2018 STORIA IN RETE |59

Enrico Mattei con Gamal Abd el-Nasser dopo gli accordi fra ENI ed Egitto che inaugurarono la politica italiana di penetrazione nel mercato petroliferoassicurando ai paesi produttori fino ai tre quarti della produzione. Nel riquadro, una vignetta satirica sovietica: il gallo francese e il leonebritannico escono spellacchiati dal canale di Suez, dove ci hanno rimesso la coda. La débâcle di Suez fu la campana a morto per gli imperi colonialidelle due oramai ex potenze mondiali

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66 | STORIA IN RETE

«L odato no-stro Signo-re, è mar-ciata l’Ar-mata pertre giorni

con bellissimo ordine, senza alcun’in-contro, et in ciò può dirsi una dispo-sizione di Dio, che con tali buoni prin-cipii ci presagisce ottimo evento». Ascrivere è il frate cappuccino Marcod’Aviano (1631-1699), in una letterainviata all’imperatore del sacro RomanoImpero Leopoldo I (1658-1705) l’11settembre 1683. L’«ottimo evento» ineffetti arrivò appena il giorno succes-sivo: di fronte a Vienna l’imponenteesercito della coalizione cristiana con-

dotta dal re di Polonia Giovanni IIISobieski ebbe la meglio sulle truppeottomane di Kara Mustafa e spezzòl’assedio turco alla capitale asburgicaprotrattosi per due interminabili mesi.Grande vittoria che, si badi bene, nonva attribuita soltanto alla spada, ancheperché i cristiani erano in minoranzanumerica: furono piuttosto lingua epenna ad essere decisivi. E qui entrain gioco Marco d’Aviano, il carismaticofrate che appianò i dissidi nello schie-ramento cristiano favorendone il suc-cesso. Oggi in Italia non gode di grandepopolarità: qualche saggio specialistico,alcuni eventi per ricordarlo e nel 2012la pellicola di Renzo Martinelli inti-tolata «11 settembre 1683». Nient’altro.

PROTAGONISTIFrati tosti

QUANDO AITURCHI ANDÒDI TRAVERSOIL CAPPUCCINONel settembre 1683 un frate celebre in tutta Europa per le sue predicheinfuocate e per i suoi miracoli prende parte alla disperata difesa di Viennaassediata dall’esercito ottomano. Preghiere, incitamenti, benedizioni e diplomaziasono le armi di Marco d’Aviano, un uomo col saio francescano che parla da paria pari a re, condottieri e pure al Papa. Alla fine, anche grazie a lui, gli eserciticristiani respingono brillantemente una delle più gravi minacce mai subite dal-l’Europa. E per l’impero turco inizia un declino inarrestabile, destinato a durarepiù di due secoli

di Giulio Talini

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August Querfurt (1696–1761), «L’assedioturco a Vienna». Sotto, il monumento

a Marco d’Aviano al Neuer Markt di Vienna. Il frate è sepolto nella capitale austriaca,

assieme agli Imperatori d’Asburgo

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Porre date precise per qualsiasi fenomenostorico è azzardato, ma in questo caso pos-siamo dire che l’uscita di un ricettario, nel1651, segna la nascita della grande cucinafrancese. Dopo ben 150 anni di silenzio,infatti, appare il ricettario «Le cuisinier

françois» di Pierre François de La Varenne (1618-1678),per dieci anni cuoco del conte d’Uxelles. Il testo ebbe ben41 riedizioni in 50 anni e continuò a essere consultato finoagli inizi del XIX secolo. Fino ad allora i ricettari non insi-stevano sulla nazionalità delle ricette, anche se esistevanodifferenze tra un paese e l’altro. Ad esempio: i grandiricettari italiani del Cinquecento, che fecero scuola in tuttaEuropa, non mostrano mai il minimo accenno nazionalista.Per trovarne dobbiamo risalire – guarda caso – al ricettario«Le Mesnagier de Paris» del 1393. Tutti i trattati culinarifrancesi, pubblicati a ritmo sempre più serrato nel Seicentoe nel Settecento, non faranno che ribadire la superioritàdella Francia in ogni campo e naturalmente la superioritàdella cucina francese, sorvolando opportunamente sullericette che, qua e là, venivano riprese dai grandi cuochiitaliani del Rinascimento.

Durante il regno del Re Sole, assistiamo alla prima glo-balizzazione della storia moderna. Tutta l’Europa è così af-fascinata dalla Francia che ci si veste alla francese, ci siacconcia alla francese, ci si trucca alla francese, si parla infrancese tra re, aristocratici e ambasciatori. Gli studiosi

hanno tentato di spiegare questo fenomeno, ma pur consi-derando la forte personalità di Luigi XIV, i suoi legami coni regnanti di Spagna, Gran Bretagna e Savoia, il fasto dellasua corte, le personalità artistiche del suo regno, nessunoarriva a spiegare in modo convincente quella dilagante einarrestabile francomania, cui la cucina collaborò nonpoco. Al testo di La Varenne seguirono «Le jardinièrefrançais» di Nicolas de Bonnefons (1651), «Le patissierfrançois» (1653), «Les délices de la campagne» di Nicolas deBonnefons (1655), «Le cuisinier» di Pierre de Lune (1656),«L’École parfaite des officiers de bouche» di Pierre Ribou(1662), «L’art de bien traiter» di L.S.R., «Le nouveau etparfait cuisinier» di Pierre de Lune (1668), «Le cuisinierroyal et bourgeois» di François Massialot (1691), «La maisonbien reglée» di Audiger (1692). E non mancarono numeroseriedizioni, anche nel secolo successivo. Il numero, lafrequenza di apparizione e la diffusione all’estero di questiricettari forgiarono una precisa fisionomia culinaria, con-solidarono la fama della cucina «alla francese», e nediffusero lo stile, i procedimenti e la terminologia.

Il cuoco francese del XVII secolo usava molti ingredientidiversi, ma voleva renderne irriconoscibili i sapori nelrisultato finale. Per camuffare, ma anche per variareall’infinito i gusti, giocava con insaporitori preparati in an-ticipo: i vari bouillon (brodi ricchissimi lasciati cuocereper ore), i jus e i coulis (di manzo, di vitello, di pernice, digamberi, di funghi, di prosciutto, ecc…). Si osa così

La Francia della Monarchia assolutista del Re Sole è stata anche la culladella cucina raffinata moderna: alle solite, i francesi non si fecero problemi adappropriarsi di cibi e ricette altrui (soprattutto italiane, guarda caso...) in nome diuna «grandeur» che era soprattutto nazionale ma anche personale. Infatti è ametà del Seicento che nasce una figura molto in voga anche oggi: lo chef.All’ombra di Versailles, il cuoco diventa un vero artista, perché la cucina rivendicail diritto di essere considerata un’arte

di Elena e Michela Martignoni

BEL VIVEREMasterchef nel Settecento

MANGIARE È PIACEREMANGIARE È POTERE

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Un «trionfo» di frutta e dessert vari inscenato alla corte di Luigi XIV da Francois Massialot, cuoco reale. La cucina francese del Sei-Settecento non perse la teatralità ereditata dal Rinascimento,ma modificò notevolmente le ricette

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Le paghe erano le stesse, a Nord e a Sud, al mo-mento dell’Unità d’Italia; e per diversi anni aseguire. In alcuni casi erano un po’ più alte inSicilia e Sardegna; in altri un po’ più basse, matali pure i prezzi, quindi il potere d’acquisto eragrosso modo lo stesso. E ci sono voluti più di

150 anni per scoprirlo? Lo chiedo ai professori Paolo Malanima,toscano, e Vittorio Daniele, calabrese, due affermati storicidell’economia, docenti all’università della Magna Grecia diCatanzaro, non nuovi a ricerche di questo genere e ora autoridel saggio «Regional wages and the North-South disparity inItaly after the unification», (cioè «Stipendi regionali e disparitàNord-Sud in Italia dopo l’unificazione») pubblicato sulla«Rivista di Storia Economica» (n. 2, 2017). «Per essere precisi– premettono i due studiosi – le serie dei salari da noi elaboratenon mostrano che fra Nord e Sud non ci fosse un divario eco-nomico, ma solo che, nei primi anni post-unitari, non risultavaun divario nel livello dei salari. È bene precisare che i salarisono una misura attendibile del tenore di vita medio di unaparte ampia della popolazione, sebbene non coincidano con ilPIL per abitante. Abbiamo considerato i salari dei lavoratoriedili (da quelli più specializzati come i capomastri e i muratori,a quelli generici come i manovali e i terraioli, inclusi i ragazziin aiuto e le donne) in 69 province nel periodo 1862-78. Nelcomplesso, abbiamo raccolto circa 10 mila dati sui salari. Irisultati possono essere così sintetizzati: 1) nel periodo inesame, i salari nominali medi (le retribuzioni) dei lavoratoriedili del Mezzogiorno erano uguali a quelli del Centro-Nord;

2) i salari medi nel Sud peninsulare erano inferiori del 14 percento rispetto a quelli del Centro-Nord; 3) questa differenzaera dovuta, essenzialmente, alle minori retribuzioni delledonne e dei ragazzi, mentre quelle dei lavoratori più qualificati,come i muratori, erano sostanzialmente simili a quelle delCentro-Nord; 4) nel Sud peninsulare, i prezzi risultavano piùbassi di circa il 15% di quelli del Centro-Nord, per cui i salarireali (il potere d’acquisto) nelle due ripartizioni era analogo».

Come mai tante resistenze per una verità storica cheavrebbe potuto essere riconosciuta già con gli studi diFrancesco Saverio Nitti e altri?

«La verità storica non si raggiunge mai; come mostra il lungopercorso della storiografia sulla Questione meridionale.Possiamo solo avvicinarci e tentare un quadro più soddisfacentein un lungo dibattito influenzato molto più dalle ideologie(per il 90 per cento?), che dall’esame dei fatti. Esprimereopinioni è sempre più facile che fare ricerca. Tuttavia, la ricercanegli ultimi anni ha fatto molti passi in avanti e si è arricchitadi nuovi elementi quantitativi – indicatori economici e sociali– che consentono di gettare nuova luce sulle condizioni eco-nomiche dell’Italia nel primo periodo post-unitario. Abbiamocercato anche noi di portare un contributo».

Non è sorprendente che un giacimento di dati così im-ponente e persino di non difficile consultazione (ministerodi Agricoltura, Industria e Commercio. Salari. Prezzi

NORD-SUDSalari e Unità d’Italia

Una sorprendente indagine statistica sulle retribuzioni in Italia subito dopo l’uni-ficazione rivela che, in fondo, gli stipendi nell’ex Regno delle Due Sicilie non eranocosì male. Anzi, poiché il costo della vita era più basso, nel Mezzogiorno si viveva so-stanzialmente meglio. È sufficiente questo dato per sostenere che davvero il Sud,col Risorgimento, ci ha perso? Forse no, non basta, sostengono i due autori dellaricerca. Ma è indubbio che c’è ancora molto da studiare e scavare per arrivare ad unquadro complessivo della situazione di allora e affrontare su basi concrete l’eternodilemma: quando è nato davvero il divario tra Nord e Sud d’Italia?

di Pino Aprile

SI STAVA DAVVERO MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO?

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Gustave Courbet, «Lo spaccapietre» (1849). Nella prima metàdell’Ottocento la condizione dei manovali era molto simile in tuttaEuropa. Anche fra nord e sud dell’Italia non si registravano grandi

differenze di reddito. Tuttavia, con l’industrializzazione alcune areegeografiche si proiettarono in avanti, relegando quelle che non

riuscirono a seguire lo slancio a condizioni di povertà e sottosviluppo

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Era il 21 ottobre del1911. Quel giorno aSchwarzau, nella bassaAustria, Carlo d’Asbur-go Lorena e Zita diBorbone-Parma avreb-

bero celebrato il loro matrimonio. Luiaveva 24 anni lei 19. Carlo era il pro-nipote dell’ottantunenne imperatoreFrancesco Giuseppe ed erede all’Im-perial-regio trono d’Austria e d’Un-gheria. Zita era la figlia dell’ultimoDuca regnate di Parma, Roberto I,padre di ben 24 figli. Francesco Giu-seppe quel giorno era insolitamentedi buon umore. Dopo tante traversiefamiliari, tra cui lutti e matrimonisbagliati che avevano messo in pericoloil futuro della dinastia, finalmentequesto sposalizio rispecchiava in tuttoe per tutto le ferree regole imperialidella Casa d’Austria che imponeva aisuoi membri di poter sposare solodiscendenti di case regnanti o ex re-gnanti. In caso contrario si potevano

perdere i diritti di successione al tronoo, se l’Imperatore concedeva di potercelebrare un matrimonio morganatico,come era stato per Francesco Ferdi-nando, i figli non avrebbero potutoaspirare al trono. Ad aumentare lacontentezza di Francesco Giuseppec’era il fatto che i due sposi erano sin-ceramente innamorati. Non che questofosse ritenuto fondamentale ma vistoche l’amore c’era, si poteva sperareanche in una numerosa prole. Nonandava poi trascurato il fatto cheCarlo e Zita apparivano ambedue at-taccati ai principî della fede cattolicae ligi ai doveri verso l’Impero e la di-nastia. Insomma Francesco Giuseppe,avendo avuto ruolo nel favorire questomatrimonio era soddisfatto. Questavolta l’Imperatore «ci aveva preso».

Per giungere a Schwarzau FrancescoGiuseppe era partito da Vienna conlo sfarzoso treno personale costruitonel 1891 dai cantieri praghesi Ron-

Dalle confidenze dell’ultima imperatrice d’Au-stria emerge un ritratto umano di Francesco Giu-seppe diverso da quello prevalente: un sovranocapace di tenerezze, lungimirante, disincantato,«prigioniero» di una corte sovente troppo bellicosae rigida. Nei pochi anni passati a corte comemoglie dell’erede al trono, Zita ha avuto modo divedere e frequentare (ma anche consolare) l’an-ziano Imperatore. Ecco ciò che ha visto e sentito...

di Eugenio Parisi

IMPERATORIL’altra faccia di Franz Joseph

SILENZIO!

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PARLA ZITA...

21 ottobre del 1911, le nozze dell’arciducaCarlo d’Asburgo con Zita di Borbone-Parma.

A destra, l’imperatore Francesco Giuseppe

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