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Istituto MEME s.rl. Modena associato a Université Européenne Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles La storia del carcere: nascita ed evoluzione. Modena 25-06-2006 Anno accademico 2005-2006 Scuola di Specializzazione: Scienze criminologiche Relatore: Dr.ssa Roberta Frison Contesto di Project Work: Carcere di massima sicurezza Tesista specializzando: Dr.ssa Tagliafierro Mariantonietta Anno di corso: Primo

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Istituto MEME s.rl. Modena associato a

Université Européenne Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles

La storia del carcere: nascita ed evoluzione.

Modena 25-06-2006 Anno accademico 2005-2006

Scuola di Specializzazione: Scienze criminologiche

Relatore: Dr.ssa Roberta Frison

Contesto di Project Work: Carcere di massima sicurezza

Tesista specializzando: Dr.ssa Tagliafierro Mariantonietta

Anno di corso: Primo

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Indice dei contenuti:

PREMESSA 3

1 STORIA ED EVOLUZIONE DEL CARCERE: DAL MEDIOEVO ALL’ETÀ MODERNA. 5

1.1 Conclusioni 25

2 TEORIE DELLA PENA 27

2.1 Illuminismo 29

2.2 Positivismo 34

2.3 Piccola disgressione nel XX° secolo 37

3 LA RIEDUCAZIONE 40

4 CONSIDERAZIONE FINALI 45

BIBBLIOGRAFIA 46

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Premessa

La limitazione della libertà personale, che si verifica all’interno del carcere,

non viene percepita come pena effettiva che possa avere anche funzione inibitoria,

ma solo l’inizio di un viaggio che deve concludersi con una pena il più possibile

“crudele”, in proporzione al reato commesso.

Il luogo comune non valuta la TOTALE PRIVAZIONE della libertà

individuale e la chiusura all’interno di una città dentro alla città, che non permette

nessuna relazione con l’esterno se non regolata dalle autorità competenti, come

già una pena effettiva; ma l’istituto penitenziario viene considerato un “albergo”

dove i suoi ospiti oziano e si dedicano ad attività superflue, “pagato dai

contribuenti”. Alla luce di questo, l’opinione pubblica invoca soluzioni risolutive

come la pena di morte e i lavori forzati, soluzioni che hanno le loro radici nella

storia del carcere e nel valore e nel significato che viene attribuito alla pena.

Lo scopo di questo elaborato è scoprire le matrici storiche che si celano

dietro ai vari pensieri, emozioni, disagi che il carcere e i suoi ospiti generano nei

componenti “onesti” e liberi della società.

Togliere quel velo di mistero che avvolge questo luogo dentro alla città,

ma in ogni caso escluso da essa, dove vengono nascosti i soggetti che,

attraverso i loro comportamenti, mettono in pericolo le regole della convivenza

civile, implica porsi alcune domande: che evoluzione ha avuto il carcere e il

concetto di punizione nel corso dei secoli? Da dove nasce l’idea moderna del

carcere? La rieducazione è effettivamente realizzabile?

I successivi capitoli della tesi cercheranno di delineare un quadro

chiarificatore:

1° capitolo: verrà fatta una ricostruzione storica del carcere; delle istituzioni

che lo hanno influenzato; dell’evoluzione del concetto di punizione (corporale,

pecuniaria) al concetto di pena.

2°capitolo: verrà eseguita un’analisi delle varie teorie che nel corso dei

secoli hanno determinato le diverse gestioni e le diverse finalità del carcere e che,

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contemporaneamente, hanno modificato i concetti di pene corporali e pecuniarie

per arrivare all’idea moderna di carcere come luogo di rieducazione e

reinserimento sociale, attraverso la pena come strumento rieducativo.

3°capitolo: si delineerà un quadro della rieducazione in carcere, partendo

dall’etimologia della parola per arrivare agli strumenti utilizzati per realizzarla.

4° capitolo: le considerazioni di quest’ultimo capitolo verranno delineate

per determinare i presupposti teorici del tirocinio del prossimo anno.

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1 Storia ed evoluzione del carcere: dal Medioevo all’età moderna.

La storia del carcere è tortuosa ed intricata, soprattutto per la complessità e

la varietà delle istituzioni che, nel corso dei secoli, si sono arroccate il diritto di

svolgere questa funzione. La molteplicità di queste esperienze aveva sia modalità

che finalità molte diverse tra loro, ma arrivarono a convivere ed ad influenzarsi.

Fin dall’antichità il commettere un reato portava a dover subire una

punizione/ammenda, che avveniva attraverso la sofferenza del corpo (pene

corporali), ed il carcere “ fu luogo in cui poteva venire irrogata una pena

corporale”.1.

Lo Stato per molto tempo non ha avuto, tra i suoi poteri, quello di erogare

punizioni, perché questo era un diritto di chi subiva l’offesa: la vendetta che ogni

soggetto poteva esercitare nei confronti di chi aveva procurato il danno. Il carcere,

di conseguenza, era solo quella di custodire il colpevole per evitarne la fuga.

Nel Medioevo è questo il carcere attuato, ovvero luogo di custodia “per

assicurarsi che certi individui inaffidabili fossero presenti al processo o

all’emissione del verdetto.”2, mentre le pene si alternavano tra quelle pecuniarie e

quelle corporali.

Partendo dall’idea di giustizia penale medioevale come vendetta personale,

la privazione della libertà personale “protratta per un periodo determinato di

tempo e non accompagnata da alcuna sofferenza ulteriore…, ”3non veniva

considerata una pena effettiva e proporzionata.

I vari cambiamenti sociali apportati dall’incremento demografico

modificarono anche i tipi di reati e, di conseguenza, anche le pene prescritte

cambiarono: aumentarono quelle corporali dove “..il corpo suppliziato, squartato,

amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, esposto vivo o morto,

1 SABATINI GUGLIELMO, Teoria SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto

giudiziario penale", op. cit., pag. 256. 2 WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit. pag. 145. 3 MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema

penitenziario (XVI- XIX secolo) ", op. cit., pag. 21.

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dato in spettacolo …4” diviene il simbolo dell’autorità e del suo potere per i ceti

più poveri che non si potevano permettere di risarcire il reato commesso; mentre

le pene pecuniarie, soprattutto per i ceti abbienti, avevano l’unico scopo di

arricchire giudici e funzionari di giustizia.

Gli ulteriori cambiamenti sociali portarono nel XVI sec alla nascita di

diverse forme di sanzione, tutte aventi la stessa caratteristica: lo sfruttamento della

forza lavoro che i detenuti “offrivano” senza nessun pagamento di salario, ma

come espiazione dei reati commessi. Queste si concretizzavano nella servitù sulle

patrie galere (in Francia la pena minima era di 10 anni), nella deportazione nelle

colonie; nei lavori forzati, questi ultimi attraverso la reclusione coatta all’interno

delle case di correzione, che influenzeranno in modo deciso la nascita del carcere

moderno come luogo di rieducazione.

La loro funzione iniziale era quella di “ospitare” vagabondi e mendicanti, in

modo di "… riformare gli internati attraverso il lavoro obbligatorio e la

disciplina. Inoltre essa doveva scoraggiare altri dal vagabondaggio e dall’ozio e,

particolare non irrilevante, assicurare, attraverso il lavoro, il proprio

mantenimento.”5.

I continui mutamenti in campo economico e sul mercato lavorativo

portarono a trasformare le case di correzione in luoghi dove poter reclutare forza

lavoro gratuita, di conseguenza se prima gli internati erano vagabondi, mendicanti

e piccoli delinquenti, ora anche chi aveva commesso delitti, perciò condannati alla

pena capitale, veniva internato all’interno di queste istituzioni e vedeva

commutare la pena capitale in lunghe pene detentive. La buona reputazione che le

case di correzione si conquistarono in questi anni le portarono ad accogliere tra le

proprie mura poveri, bisognosi, vedove ed orfani quando questi non riuscivano a

mantenersi da soli; e anche “… figli buoni a nulla e i parenti prodighi6”.

Esiste una netta distinzione tra case di correzione e il carcere vero e proprio,

anche se in entrambe le condizioni di vita non erano comunque facili: nelle case

4 FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit. pag. 10. 5 MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema

penitenziario (XVI - XIX secolo) ", op. cit., pag. 34. Il lavoro era in gran parte nel ramo tessile, come l'epoca richiedeva.

6 RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 97.

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di correzione venivano praticate pene corporali, “i carcerieri erano autorizzati a

frustare i detenuti in caso di insubordinazione … mentre vagabondi logori e

spossati che le guardie vi conducevano erano spesso lasciati morire, abbandonati

senza cibo sui tavolacci freddi delle celle7”. Mentre in carcere difficilmente venivano praticate pene corporali per punire

i reati commessi, ma le condizioni di vita descritte erano terrificanti:

• talmente malsani che i periodi di internato non dovevano sperare i

tre anni;

• sovraffollamento con le conseguenti carenze igienico- sanitarie;

• il potere era nelle mani del carceriere e dei secondini, dove tutto

aveva un prezzo e tutto era comprabile: dai beni di primo consumo

(cibo, vestiario, ecc.) alla possibilità di ricevere visite;

• le celle venivano affittate, addirittura i più abbienti potevano

riservarsi “l’ala del padrone”, cioè appartamenti riservati.

Come conseguenza di questa corruzione interna poteva accadere che

detenuti assolti non potessero abbandonare il carcere, ma addirittura

fossero messi ai ceppi perché non in grado di pagare le spese di

liberazione o i debiti contratti con il carceriere.

La trasformazione del concetto del carcere come luogo di detenzione

preventiva a pena effettiva non nasce solo dall’influenza reciproca di queste due

istituzioni coesistenti, ma anche dalle trasformazioni politiche che si stavano

verificando: la comunità medioevale lascia il posto allo Stato Nazionale, che ha

bisogno di trasformare la giustizia da evento privato ad evento pubblico, perciò di

sua competenza; dall’altro lato anche l’avvento del protestantesimo, con la sua

nuova idea del lavoro come glorificazione di Dio, portò cambiamenti nell’ambito

delle pene.

Dobbiamo però valutare che in questo periodo di passaggio le pene

corporali diventano lo strumento più adatto per determinare il potere dello stato e

del sovrano: “ in questo contesto politico, l’esecuzione della pena è una delle

7 IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione

industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 36.

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tante cerimonie utili ai sudditi e al sovrano per misurare concretamente la

distanza che li separa, e per mostrare la forza dell’autorità. L’esecuzione

pubblica diviene uno spettacolo teatrale, in cui il potere assoluto del sovrano è

mostrato pubblicante sul corpo del condannato”.8

Lo scoppio della Rivoluzione Industriale porta al decadimento delle case di

correzione, ma il seme era gettato: da queste istituzioni nasce il rifiuto della pena

di morte e delle pene corporale.

Grazie al contributo offerto dalla filosofia illuministica la pena esplicata

attraverso il lavoro diviene la “moneta” con la quale pagare i propri debiti con la

giustizia, “il calcolo, la misura di pena in termini valore-lavoro per unità di

tempo, diviene possibile solo quando la pena è stata riempita di questo

significato, quando si lavora o quando si addestra al lavoro.”9 .

I concetti di libertà e tempo arrivano ad essere connessi tra loro: la libertà

assume un valore economico in connessione alla misurazione del tempo, che ora

può essere misurato, regolato, scandito all’interno delle istituzioni detentive.

I riformatori considerano il carcere e le pene come l’unica forma di

prevenzioni perché i delitti non si ripetano, da qui l’idea dell’individualità della

pena in base al crimine e a chi lo commette. Il metodo usato è quello delle

rappresentazioni “ rappresentazione degli interessi, dei vantaggi, degli svantaggi,

del piacere e del dispiacere.”10

La quotidianità della pena, attraverso una vera e propria manipolazione

dell’individuo è la metodologia utilizzata: “… alla fine ciò che si cerca di

costruire con questa tecnica di correzione … è il soggetto obbediente, l’individuo

assoggettato a certe abitudini, regole, ordini, autorità che si esercita

continuamente intorno a lui e su di lui e ch’egli deve lasciar funzionare

automaticamente in lui.”11

8 GARLAND DAVID, "Pena e società moderna", op. cit. pag. 309. 9 MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema

penitenziario (XVI - XIX secolo) ", op. cit., pag. 87. 10 BURACCHI TOMMASO, "Origini ed evoluzione del carcere moderno", op. cit., pag. 150. 11 FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 141.

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Il corpo assoggettato alle esigenze del potere, attraverso il suo

addestramento, garantisce un maggior controllo sui reclusi.

Grande esponente di questo di modello punitivo è stato John Howard che

grazie agli apporti dati dalle sue teorie, ricavate dalle visite fatte a gran parte delle

istituzioni carcerarie inglesi, favorì l’idealizzazione del Penitentiary Act nel 1779:

si voleva costruire una rete di case per il lavoro forzato dove la vita dei carcerati

fosse scandita ad ore fisse (la sveglia, lettura della Bibbia, la preghiera, i pasti, il

lavoro, ecc.), ai detenuti dovevano essere garantiti il vitto e la divisa carceraria. Il

carcere assume un intenso valore religioso, infatti, per Howard era “… l’arena

dove egli avrebbe potuto lottare contro il male, dimostrando il proprio valore a

Dio.”12

Si avvale, nel suo tentativo di riforma, anche delle scoperte fatte in campo

medico, arrivando a paragonare il crimine ad un virus capace di contagio; il

carcere diviene il luogo dove porre in quarantena i “malati”: l’isolamento ha

duplice valenza, infatti, da un lato serve ad evitare coalizioni tra detenuti, e

dall’altro viene utilizzato per evitare una “contaminazione” tra criminali in “erba”

e quelli incalliti.

La criminalità assume valori sociali: non è più costituita da istinti insiti

nell’uomo, ma è la conseguenza di una socializzazione sbagliata e che perciò può

essere corretta.

L’istituzione pensata da Howard, il Penitentiary Act, non venne mai

realizzato in pieno, ma le idee che in esso erano contenute vennero utilizzate per

migliorare le condizioni dei detenuti: si proibirono le estorsioni e i carcerieri

divennero personale stipendiato; si stabilirono rifornimenti di abiti e di cibo; si

abolì l’uso delle catene e per le fustigazioni divenne necessario il permesso del

magistrato; la disinfestazione degli ambienti e dei detenuti divennero azioni

abituali. Questo insieme di norme igieniche e di regole comportamentali non

servivano solo a garantire condizioni di vita migliori, ma anche e soprattutto per

ribadire l’autorità dello stato, che regola e sancisce ogni momento e azione

12 IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione

industriale inglese”, 1750-1850.", op. cit., pag. 61.

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dell’istituzione. Anche le visite dall’esterno vennero regolate e ridotte, per cercare

di allontanare i criminali dal contesto sociale che li aveva resi tali.

Il cambiamento più eclatante fu la mancanza di pubblicità delle pene: non si

svolsero più in piazza, ora il tutto avviene tra le mura del carcere, senza il

“controllo” del popolo. Tutto è gestito dallo Stato, che poteva permettersi di

regolare le pene a proprio piacimento, senza dover rispondere all’umore della

piazza.

Sulla scia delle teorie di Howard troviamo il Panocticon di Bentham,

ideatore di una prigione moderna e funzionale, che rispondesse anche alle

esigenze economiche dei profitti dati dai prodotti realizzati all’interno del carcere.

Il principio base per la costruzione di quest’istituzione è l’isolamento completo e

continuo, perciò la struttura sarebbe stata la seguente: “ alla periferia una

costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre che si

aprono verso la facciata interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in

celle… Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale, ed ogni cella

rinchiude un pazzo, un

ammalato, un condan-

nato, un operaio o uno

scolaro … il dispositivo

panoptico predispone

unità spaziali che

permettono di vedere

senza interruzione … la

visibilità è trappola”13.

13 FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 218.

Figura 1 Panopticon in pianta

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La mancanza di comunicazione, la non visibilità tra i reclusi e, soprattutto,

la non visibilità di chi gestisce il potere, permettono il mantenimento dell’ordine e

il controllo totale sulle azioni e sui comportamenti degli occupanti le celle.

La creazione del Panopticon cambia la funzione del carcere: non è più luogo

di detenzione preventiva o dove eseguire le pene corporali, ma la privazione della

libertà (vista come offerta del proprio lavoro) viene ora considerata già una pena,

infatti il detenuto è costretto a lavorare per l’imprenditore privato che gestiva il

Panopticon, senza possibilità di scelta.

I detenuti lavoravano per circa 16 ore al giorno all’interno delle loro celle,

sempre sotto stretta sorveglianza. La gestione, secondo Bentham, doveva essere

sempre di privati appaltatori, l’interferenza statale avrebbe minato la qualità

dell’istituto; erano però previste forme di controllo sull’operato dei gestori:

“…egli ammise l’accesso del pubblico alla torre centrale d’ispezione, in modo

che chiunque potesse controllare, in qualsiasi momento, l’appaltatore e il suo

personale…. Per garantire che non avrebbe fatto lavorare i detenuti sino allo

stremo delle forze, si offrì di pagare allo Stato la somma di cinque sterline per

Figura 2 Foto Panopticon

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ogni decesso avvenuto in carcere, oltre il tasso medio di mortalità annua a

Londra.14”.

La struttura del Panopticon è ideale per la custodia e il controllo, ma non per

il lavoro produttivo anche se Bentham sostiene la sua applicabilità in qualunque

istituzione, sia questa detentiva, scolastica o medica: “ è un tipo di inserimento dei

corpi nello spazio, di distribuzione degli individui gli uni in rapporto con gli altri,

di organizzazione gerarchica, di disposizione dei centri e dei canali del potere, di

definizione dei suoi strumenti e dei suoi metodi di intervento, che si possono

mettere in opera in ospedali, fabbriche, scuole, prigioni.15”.

Il progetto del Panopticon fu discusso e approvato dal Parlamento inglese

nel 1792, ma non fu mai realizzato a seguito di un divieto decretato da Re Giorgio

III. Ma le idee che Bentham apportò influenzarono la costruzione delle carceri

negli anni successivi, non solo in Inghilterra ma anche nel resto d’Europa. Gli

elementi che i carceri e il Panopticon hanno in comune sono molteplici: la

sostituzione delle pene corporali con la detenzione; le regole che diventano

quotidianità e cambiamento nel comportamento; il lavoro forzato ed, elemento più

innovativo di tutti, il crimine non più gestito, punito nella “pubblica piazza”, ma

nascosto, separato da mura e sbarre.

Il nuovo concetto di rieducazione del criminale, caro ai riformatori e agli

illuministi, parte dalla concezione che la pena serva al condannato per prendere

coscienza del male compiuto, di conseguenza una detenzione caratterizzata da

abusi, pene corporali eccessive sviliscono la legittimità della condanna e si perde

il valore educativo e di redenzione insita in essa. I cambiamento compiuti nel

concetto di pena dal Medioevo al XVII - XVIII sono fondamentali: “ … la pena

non doveva più essere … un atto di collera e di vendetta, ma un calcolo regolato

da considerazioni sul bene sociale e sul bene dei trasgressori.16”.

Alla luce di queste nuove considerazioni si cercò di eliminare il potere che il

personale di sorveglianza deteneva all’interno dei penitenziari. Non considerando

14 TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle

detentive", op. cit., pag. 53. 15 FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 224. 16 IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione

industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 83.

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più positiva la gestione dei privati tutto doveva passare nelle mani dello Stato, in

considerazione dei mutamenti nell’esecuzione delle pene che, da pubbliche e

catartiche per il popolo, divennero professionali e burocratizzate. Il personale

divenne perciò controllabile e sorvegliato come i detenuti di cui si doveva

occupare.

Ma all’orizzonte importanti cambiamenti politici e sociali andarono a

trasformare ulteriormente le funzioni delle carceri: l’influenza dei quaccheri fu

determinante per un’ulteriore riforma carceraria a seguito dell’ennesima crisi

sociale che l’Europa venne a vivere.

Ogniqualvolta si viene a determinare una profonda crisi sociale, legata al

mercato del lavoro e, conseguentemente alla qualità della vita, la criminalità

aumenta. L’incremento criminale richiede, da parte dell’opinione pubblica (ceti

nobili e borghesi soprattutto) un ritorno al passato nella gestione delle punizioni,

delle pene e del carcere che si traduce in istituzioni lasciate allo sbando, con

condizioni di vita, per chi vi è rinchiuso, impossibili:

• nessuna dieta regolare;

• mancanza di abiti;

• perdita del concetto di isolamento come forma di rieducazione a

causa del sovraffollamento;

• detenuti messi in catene e vessati dalle guardie;

• nessuna distinzione tra i reclusi, perciò detenuti in attesa di giudizio

entravano in contatto con condannati a morte;

• assenza di disciplina che regolasse gli istituti.

Il quadro sopra presentato mostra come la criminalità si stia trasformando

nell’emblema della lotta di classe. I quaccheri impegnati, nella filantropia come

atto politico finalizzato a dirigere a buon fine i bisogni dello Stato17, mettono in

primo piano il problema della delinquenza minorile. Quest’ultima intesa come

manifestazione del crollo dei valori famigliari e della disgregazione della

famiglia, che stava avvenendo a seguito dell’industrializzazione dei ceti più

17 Inteso come formato “da chi governa e da chi è governato”.

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poveri e con la creazione del proletariato: “quando qualcuno diviene rapinatore

per necessità, ciò accade perché non ha potuto sopportare di essere un

mendicante o perché ha deciso di sfidare la morte piuttosto che divenire uno

scheletro a causa della fame.18”.

L’incremento della criminalità portò i giudici a non credere più nelle

riforme, ma ad utilizzare il terrore della sofferenza del corpo come deterrente al

crimine. Le riforme tanto propagandate dai filantropi non trovarono consensi

all’interno della società. Le migliorie che si sarebbero dovute apportare, per

garantire ai detenuti un tenore di vita accettabile, entravano in contrasto con le

condizioni delle fasce più povere. Se si fossero applicate le riforme volute dai

quaccheri il carcere avrebbe perso il suo valore inibitorio, anzi sarebbe stato

preferito, visto che garantiva “vitto e alloggio”, rispetto alla vita fuori di esso.

Si applicarono restrizioni molto forti:

• nessun libro all’interno del penitenziario, perché visto come forma di

divertimento e di distrazione;

• le visite furono ridotte a pochi minuti e sorvegliate dalle guardie;

• obbligo di esercizi di camminata eseguiti in assoluto silenzio;

• dieta ridotta al minimo;

• introduzione della ruota, utilizzata senza limiti e molto apprezzata

dai giudici;

• aumento delle punizioni atte a stroncare la subcultura carceraria:

“… ferri, pane, acqua, celle sotterranee e frusta punivano qualsiasi

tentativo di parlare o protestare.19”.

Nel tentativo di garantire una certa stabilità sociale i giudici incrementarono

il numero di condanne verso i reati minori, con l’obiettivo di stroncare sul nascere

18 IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione

industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 176. 19 IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione

industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 198.

Page 15: Istituto MEME s.rl. Modena Université Européenne Jean ... · 4 FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit. pag. 10. 5 MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO,

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la piccola criminalità. In questa direzione nacquero nuovi corpi di polizia

specializzati nella cattura dei piccoli criminali20.

L’organizzazione era molto burocraticizzata e avevano regole ferree,

permettendo una sorveglianza costante di tutta la popolazione e i garantendo

sicurezza e giustizia anche alle classi più povere: “Tuttavia, anche i più poveri

beneficiavano di una più rigida applicazione della legge, nella misura in cui

erano essi stessi vittime della criminalità.21”.

I nuovi corpi di polizia portarono alla professionalizzazione di buona parte

degli apparati di controllo delle carceri, imponendo così una più ferrea disciplina

derivata dall’esperienza militare che il personale di custodia portava con se.

Questi nuovi cambiamenti portarono stravolgimenti anche all’interno delle

carceri: la gestione divenne simile a quella degli apparati militari, regole

inflessibili; punizioni per ogni minima infrazione; minuziosa scansione tempo.

Questa nuova gestione carceraria fu contrastata non solo dai detenuti, che

vedevano ristrette le già poche libertà di cui godevano, ma anche dalle guardie

che traevano profitti dagli illeciti che si verificavano all’interno dei penitenziari.

Le varie riforme che in questo periodo si tentò di applicare alla gestione

delle carceri, presero spunto dall’esperienze americane di Philadelphia e di

Ausburn: ecco una breve descrizione.

• Il modello di Philadelphia si basa sull’isolamento cellulare assoluto, sul

silenzio, sulla meditazione e sulla preghiera; il tutto per permettere al

detenuto di entrare in contatto con la sua parte più intima, prendere

coscienza del reato commesso ed espiarne la colpa. Ogni contatto tra

detenuti è impedito in modo assoluto, fuori dalle celle i carcerati usciranno

solo bendati o incappucciati.

La solitudine imposta ha la funzione di permettere un’autoregolazione

della pena, infatti se all’inizio questa sarà insopportabile poiché il detenuto

20 Ubriachi, vagabondi, prostitute, ecc. 21 IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione

industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 206.

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dovrà riflettere quotidianamente sul reato commesso, nel momento in cui

giungerà il pentimento la solitudine diverrà molto più sopportabile.

Questo modello carcerario basato sull’isolamento e il silenzio assoluti

ebbero effetti devastanti sulla psiche dei detenuti: alti tassi di depressioni,

suicidi, allucinazioni, danni cerebrali e fisici, a causa dello spazio ridotto

in cui erano costretti; i reclusi “cadono nella malinconia e nel pianto,

fenomeni questi che a torto vengono presi come manifestazione di

pentimento, mentre sono segno di disperazione e spesso si risolvono in

vere e proprie alienazioni mentali.22”.

I difensori del modello di Philadelphia sostennero che gli aspetti

negativi poteva essere superati grazie ad alcuni interventi mirati: le

deficienze fisiche, causate dal poco esercizio e dal poco spazio,

vennero risolte permettendo ai detenuti di svolgere esercizi all’aria

aperta per una al massimo due volte alla settimana, in appositi

recinti. Mentre i problemi psichiatrici, derivati dall’isolamento e

dal silenzio, poteva essere risolti o curati, attraverso colloqui di

mezz’ora al giorno che ogni detenuto avrebbe potuto sostenere con

medici, maestri, custodi, ecc,; questi ultimi venivano anche

incoraggiati a svolgere questo colloqui perché, essendo persone di

fede irreprensibile, potevano influenzare positivamente i detenuti.

• Il modello del carcere di Ausburn ha come punto di partenza

sempre la segregazione cellulare e il silenzio, ma alternati a

momenti di lavoro comune. Questa divisione corrispondeva a

precisi momenti della giornata: il giorno era dedito al lavoro, che si

svolgeva in assoluto silenzio; mentre durante la notte vi era

l’isolamento all’interno delle celle.

Il regime definito “ day - association” e “nigth-separation”

rispondeva a ben precise esigenze dell’istituzione che, se da un lato

con l’isolamento e il silenzio cercava di eliminare qualsiasi

22 CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del

cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 151.

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contatto/contaminazione tra detenuti, dall’altro con il lavoro si

cercava di introdurre l’aspetto produttivo dell’istituto. La gestione

era prettamente militare dando così hai detenuti una ferrea

omogeneità di comportamento, di estetica e di materiali: “… nella

cella, una branda, un secchio, pochi utensili di latta uguali per tutti

sono i soli oggetti forniti dall’amministrazione; i prigionieri

devono poi indossare un’uniforme e i capelli devono essere

rasati23”. Vengono stabilite regole anche nelle posture del corpo

“gli internati non possono infatti camminare, bensì devono sempre

procedere in ordine chiuso o in fila per uno …24”. Non era escluse

le pene corporali come determinazione della disciplina e la frusta

risultò la migliore, perché non minava la salute del detenuto e,

soprattutto sottometteva immediatamente il soggetto senza che

questi interrompesse la sua attività lavorativa.

Gli aspetti negativi del modello auburniano risiedono nella

difficoltà di sorvegliare i detenuti durante il lavoro in comune e, la

quasi totale, impossibilità di far mantenere il silenzio. L’esecuzione

penale svolta all’interno di questo modello di carcere superava il

fine rieducativi che andava professando per abbracciare, come

scala di valutazione della buona condotta, la capacità lavorativa del

soggetto recluso. Il lavoro all’interno del carcere di Ausburn

assunse così le caratteristiche del mercato economico, non avendo

più la funzione pedagogica che avrebbe dovuto caratterizzarlo.

I modelli americani sopra descritti furono analizzati dai riformatori europei,

che cercarono quale fosse il migliore da applicare nella realtà della vecchia

Europa.

Uno degli elementi del modello di Philadelphia che non venne ben visto

dall’opinione pubblica europea, era legato al reinserimento sociale dei detenuti

23 MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema

penitenziario (XVI- XIX secolo) ", op. cit., pag. 218. 24 Ibidem, pag. 219.

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che avevano scontato la pena. I primi problemi legati a questa metodologia si

riscontrarono nei comportamenti che i detenuti avevano al di fuori delle carceri,

infatti l’isolamento ed il silenzio a cui erano stati sottoposti durante il periodo di

detenzione avevano causati seri danni psichici a questi soggetti, “… molti

soffrivano di crisi isteriche e di pianto. Altri trovarono assordante il rumore delle

strade e chiedevano cotone da mettere nelle orecchie; altri ancora spaventavano i

familiari con un torpore e un’indifferenza che passavano solo dopo alcune

settimane.25”.

Il quadro delineato mostra come la gestione delle carcere e le teorie a cui

fanno riferimento nel corso degli anni si dividono in due rami principali:

1. Carcere come luogo di rieducazione, attraverso varie forme punitive

che andavano dai lavori forzati all’isolamento e al silenzio assoluti.

Tutti in ogni caso avevano un unico scopo, cioè quello di far

prendere coscienza al reo del reato commesso, vivere appieno il

senso di colpa che questa presa di coscienza porta con sé e di vivere

così la sua condanna con pentimento. Solo con l’influenza

dell’esperienza americana si arrivò a pensare ad un possibile

reinserimento nella società.

2. Carcere come luogo di reclusione, di pena, di dolore. I detenuti

dovevano seguire regole rigide, lavorare sino al massimo della

sopportazione e subire punizioni per ogni minima infrazione.

All’interno di queste istituzioni non veniva garantito nemmeno il

mimino per la sopravvivenza, tutto era improntato sul terrore.

Lo scoppio della rivoluzione industriale e la nascita di un nuovo ceto

sociale, il proletariato, influenzarono il crimine e, di conseguenza, la gestione

25 IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione

industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 221.

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delle carcere. La distinzione che si viene ora a delineare riguarda se chi commette

il crimine è un lavoratore o no; stabilito questo si distinguono due tipologie di

reato:

• Crimini politici commessi da chi lavorava, si concretizzavano

attraverso manifestazioni che spesso venivano sedate da corpi di

polizia nati allo scopo.

• Crimini personali commessi da chi non lavorava nel tentativo di

ottenere un minimo per la propria sopravvivenza.

La caratteristica di queste due modalità di commettere crimini è il tentativo

di sovvertire l’ordine sociale, di rifiutare l’autorità dello stato. Il tentativo di

contrastare l’avanzata di queste tipologie di reato fu l’istituzione di dipartimenti di

polizia preposti al mantenimento dell’ordine pubblico. La nascita di questi nuovi

corpi influenzò anche la sorveglianza/punizione dei detenuti: l’applicazione dei

codici, mutuati dal diritto, garantivano lo status quo sociale che era costituito dalle

classe borghesi, ben distinte dal proletariato e sotto proletariato26. Da questo

momento in poi si cercò di rendere i penitenziari simili e redditizi come le

nascenti fabbriche, “più correttamente possiamo affermare che le prime realtà

storicamente realizzate di carcere si sono strutturate…sul modello della

manifattura, sul modello della fabbrica.27”. La trasformazione del soggetto del

detenuto si basa sulle nuove tipologie di lavoro che l’industrializzazione offre,

viene cioè tramutato in un operaio/proletario, “… il carcere può essere

interpretato come una macchina capace di trasformare, dopo un’attenta

osservazione del fenomeno deviante, il criminale violento, agitato, irriflessivo in

un detenuto disciplinato, in un soggetto meccanico, attraverso l’apprendimento

forzato delle discipline della fabbrica.28”.

La situazione delle carceri alla metà dell’ottocento versava in condizioni

disastrose, l’unico scopo era quello di limitare le evasioni, per cui tutti gli altri

26 Per sotto proletariato si intendono i lavoratori occasionali, che vivevano alla giornata. 27 MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema

penitenziario (XVI- XIX secolo) ", op. cit., pag. 201. 28 Ibidem, pag. 91.

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aspetti venivano tralasciati, dando origine a luoghi insalubri, in cui la disciplina

era ottenuta attraverso punizioni indescrivibili; misure igieniche quasi inesistenti;

lavoro non organizzato e lasciato in gestione alle guardie del carcere; promiscuità

tra uomini e donne; contatti tra i vari tipi di criminali e dove, spesso, spesso le

pene inflitte venivano deliberatamente modificate dai regolamenti interni dei

penitenziari a causa delle leggi quasi inesistenti.

Il quadro globale si manifestò in modo così disastroso che pensatori e

filosofi dell’epoca iniziarono a chiedere riforme consistenti sulla gestione degli

istituti di pena. La domanda fondamentale che questi nuovi riformatori andarono a

sviluppare fu relativa a quali principi e metodi si dovessero utilizzare per il

trattamento dei detenuti.

L’analisi iniziale che venne fatta fu relativa allo stato sociale di provenienza

dei detenuti, tutti dagli strati più bassi; la conseguenza di pensiero fu che

andavano intimiditi proprio quegli strati sociali che consideravano migliore la

segregazione in carcere che la vita fuori da esso. Conseguenza fu considerare la

privazione della libertà non più un deterrente soddisfacente, ma il detenuto si

sarebbe dovuto sottomettere completamente all’autorità. La vita all’interno delle

carceri doveva essere caratterizzata dalla tranquillità, gestita da regole, e dedita al

lavoro, “non è tanto ai fini dell’ordinato svolgersi della vita carceraria che si

richiede l’obbedienze, ma per il bene del condannato stesso, che deve apprendere

a sottomettersi volontariamente al destino delle classi inferiori.29”. L’opinione

corrente in questo periodo vuole che i detenuti vengano riforniti del minimo

vitale, infatti “il limite superiore del tenore di vita dei detenuti era così

determinato da quello inferiore della popolazione libera.30”.

Il lavoro svolto all’interno delle carceri diviene un paradosso: i criminali

sono soggetti che non lavorano (se avessero lavorato non avrebbero trovato il

tempo per commetter il reato), all’interno del carcere trovano/imparano un lavoro

che gli permetta un eventuale reinserimento nella società, ma … dentro alle

carceri il lavoro è diventato una punizione, uno strumento di tortura. Si inventano

29 RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 184. 30 Ibidem, pag. 185, ma le misere condizioni della classe operaia riducevano il tenore di vita nelle

carceri molto al di sotto del minimo vitale ufficialmente riconosciuto.

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Figura 3 Una tread wheel a Pentonville

macchine per lavori inutili, come le tread-wheel “… erano semplici strumenti che

potevano essere sistemati all’interno di una cella e il cui significato reale … era il

tormento, la tortura.”31

Nella seconda metà dell’Ottocento, dopo altalenanti modalità di gestione dei

penitenziari attraverso l’utilizzo delle più svariate forme di punizione, si arriva

alla consacrazione del carcere moderno con l’abolizione definitiva di tutte le

forme di sanzioni che non fossero l’isolamento.

Il modello a cui si fa riferimento è quello americano di Philadelphia, grazie

alla sua caratteristica di terrorismo applicato attraverso l’isolamento e il silenzio

perenni. Unico “svago” concesso era il lavoro, che però si andava così

trasformando in “… vera e propria tortura fisica - cinque, dieci, venti anni di

condanna.32”.

Il sistema philadelphiano ottenne un discreto successo in Europa, in quanto

riusciva a conciliare al suo interno le due esigenze fondamentali per la società del

31 MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema

penitenziario (XVI- XIX secolo) ", op. cit., pag. 76. 32 Ibidem op. cit., pag. 93.

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Vecchio Mondo, infatti “corrisponde perfettamente all’esigenza di carcere

punitivo e deterrente, senza uso di lavoro “utile” …33”.

Si va lentamente delineando quella che è la reale funzione del carcere

nell’età moderna: rendere il soggetto colpevole completamente dipendente e

assoggettato allo Stato, “una volta ridotto il carcerato a soggetto astratto, una

volta annullata la sua diversità, una volta messo di fronte ai beni materiali che

non più soddisfare autonomamente … l’unica possibile alternativa alla propria

distruzione, alla propria follia è la forma morale della soggezione.34”.

In questa nuova visione il carcere prende in carico il soggetto recluso nella

sua globalità attraverso:

• L’addestramento fisico;

• L’attitudine al lavoro;

• La condotta giornaliera.

• La condotta morale.

L’educazione/disciplina impartita all’interno del carcere ha come scopo

la conoscenza del criminale ai suoi livelli più intimi, per arrivare a capire la

possibile connessione esistente tra il carattere dei soggetti e il loro

comportamento criminoso.

I riformatori vivevano una profonda contraddizione interna, se infatti da

un lato negavano determinatamente il ritorno alle pene corporali, dall’altro

rimaneva fermi sull’idea di un carcere “duro”, che intimidisse e inibisse i

comportamenti criminali.

L’isolamento veniva ancora considerato lo strumento migliore per il

mantenimento della disciplina, per la gestione delle carceri, e per l’espiazione

del detenuto, anche se in realtà questo aspetto dell’isolamento fallì creando

solo sofferenza, malattia, e in molti casi l’emarginazione totale a livello

sociale.

33 MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema

penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 76. 34 Ibidem op. cit., pag. 209.

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Il fallimento del sistema cellulare ha portato i riformatori a ritornare

all’idea di un carcere “preventivo” attraverso il lavoro e, per la prima volta, si

iniziò a parlare di sconti di pena “… sulla possibilità loro offerta di passare

in carcere un tempo inferiore a quello previsto nella sentenza di condanna,

qualora si fossero ben comportati.35”; e si iniziano a rilasciare i detenuti in

libertà vigilata, “le prime persone ad ottenere la libertà vigilata furono

rilasciate nel 1853 fra il timore generale.36”. I detenuti rilasciati avevano

l’obbligo di mantenere una condotta irreprensibile a livello lavorativo e di

frequentazione, cioè evitare legami con ex-detenuti e, dovevano presentarsi

alla polizia ad intervalli regolari. Ma i problemi si presentarono

immediatamente, in quanto l’opinione pubblica e i corpi di polizia misero in

atto comportamenti molto duri: “i detenuti in libertà vigilata si videro esclusi

da quasi tutte le occupazioni e dovettero subire le vessazioni della polizia e

gli insulti della stampa.37”.

Le riforme non furono accolte favorevolmente né dalla collettività né

dai detenuti, ma si resero necessarie a seguito dell’abolizione della pena di

morte e della deportazione, che vennero trasformate in lunghe pene detentive.

I detenuti risposero a questi cambiamenti con sommosse e disordini

all’interno degli istituti penitenziari, portando così alla luce una verità

scomoda: l’autorità tanto declamata sia dai direttori che dalla società in realtà

non era assoluta come volevano credere. I provvedimenti presi in

conseguenza a questi tumulti furono severissimi: all’interno delle carceri

furono attuate restrizione delle diete e limitazione nel concedere la libertà

vigilata; per chi già usufruiva della libertà maggior intransigenza sui controlli

(revoca immediata per chi non si presentava). Venne istituito un corpo di

polizia preposto alla sorveglianza dei detenuti, con anche l’incarico di

aggiornare le schede segnaletiche utilizzate nei tribunali; “… alla fine degli

anni Settanta venne introdotto l’uso di fotografare gli ex detenuti, e durante

35 CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del

cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 182-183. 36 IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione

industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 223. 37 Ibidem, pag. 223.

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gli anni Novanta si cominciarono a prendere le impronte digitali allo scopo

di facilitare l’identificazione e la sorveglianza di “criminali abituali”38”.

Queste nuove e più sofisticate forme di controllo, nate per sorvegliare

gli ex detenuti, dimostrano come in realtà il carcere abbia perso,

nell’opinione di tutti, la sua valenza rieducativa, “ il movimento avviato da

Howard instillò nella mente degli scettici borghesi … l’idea che le prigioni

avrebbero dovuto rieducare; ma i riformatori non dovettero mai convincere

…che i penitenziari assolvessero a quella funzione …39”; mantenendo la sua

caratteristica detentiva e di allontanamento dei “malati” dalla società sana.

Caduta anche questa illusione il carcere diviene definitivamente luogo

di terrore e di pena, dove il lavoro non è più una forma di riscatto ma diviene

vero e proprio tormento. I detenuti vengono lasciati in silenzio e solitudine

solo per creare un clima di paura e di conseguente sottomissione.

Le basi del carcere moderno erano state gettate con l’abolizione della

pene di morte e la riduzione delle pene corporali. Le pene capitali erano

rimaste per gli omicidi, ma anche in questo caso i cambiamenti erano stati

sostanziali: non più esecuzioni pubbliche, con rituali lunghissimi e atroci, ma

esecuzioni veloci all’interno delle mura carcerarie o, quando questo non era

possibile, eseguite all’alba in zone periferiche della città: “nelle carceri, come

nelle strade, la cerimonia dell’esecuzione divenne assai breve. Il cadavere

del condannato fu sottratto quanto più possibile alla curiosità pubblica.40”.

Analizzando la situazione delle carceri tra la metà dell’Ottocento e

l’inizio del Novecento si può notare come il sistema carcerario avesse deluso

quasi totalmente le promesse fatte, ma nello stesso tempo continuava a

raccogliere consensi in quanto presentati come l’unica soluzione possibile al

crimine, quest’ultimo cartina di tornasole di una crisi molto più profonda

della società.

38 Ibidem, pag. 226. 39 IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione

industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 231. 40 PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età

moderna", op. cit., pag. 150.

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25

Le carceri divennero il simbolo dell’ordine sociale tanto sospirato e la

pena diviene il mezzo per rendere possibile questa stabilità sociale, il cui

scopo è difendere la società da chi commette azioni criminose.

Inizia l’uso sistematico dei codici, redatti come strumenti difensivi dei

valori sociali, con una duplice funzione: da un lato forniscono le motivazioni

razionali alle pene inflitte e dall’altro delineano i tentativi di rieducazione

attraverso l’adozione di comportamenti consoni alla disciplina imposta in

carcere.

La pena è sempre la reazione ad un agire criminoso, non un tentativo di

opporsi a quello che è avvenuto, ma è sempre rivolto a ciò che l’atto lascia

dietro di se, alle conseguenze di negazione dell’autorità che si effettua sempre

nel momento in cui si commette un reato. In realtà la pena non è rivolta al

condannato, ma alla società che tramite la condanna acquisisce i limiti tra ciò

che è lecito fare e il potere/volere dello Stato.

La pena esprime i sentimenti che nascono dalla collettività e, nello

stesso tempo, non è in grado di prevenire i comportamenti criminali, in

quanto non ha nessuna funzione inibitoria sui comportamenti.

Si fa strada così l’idea che non è la crudeltà e la durezza delle pene che

inibiscono i comportamenti delittuosi, ma la paura di subire una pena.

Nascono nuove forme di detenzione, in sostituzione di quelle corporali:

• il carcere duro, dove attraverso l’isolamento si cerca di ottenere

il massimo della disciplina;

• l’ergastolo, dove con la segregazione a vita sì “elimina” il

“malato” dalla società sana. Non lo si uccide fisicamente, ma

socialmente.

1.1 Conclusioni

L’evoluzione del carcere e delle pene nel corso dei secoli, a partire dal XIV

sino al XX sec, è ricca di mutamenti e dinamismo che si possono riassumere in

cinque forme:

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1) pena di morte

2) torture e supplizi;

3) pene pecuniarie o confisca dei beni;

4) bando;

5) detenzione.

L’apporto che le scienze letterarie ed umane, che si sono andate sviluppando

nel corso degli anni, è determinante.

I cambiamenti politici, geografici (1492 la scoperta dell’America), tecnici e

medici hanno determinato trasformazioni negli stili e nel tenore della vita e,

conseguentemente variazioni nelle modalità di difesa (le leggi) che la società

applicava per difendersi da chi l’attaccava.

Nel prossimo capitolo verranno delineate le principali teorie che hanno

portato alla nascita di varie tipologie detentive (case di correzione, Panapticon,

ecc.) ed alle molteplici varietà di pene che si sono susseguite.

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2 Teorie della pena

Tra gli argomenti più dibattuti dall’uomo sin dalla sua comparsa sulla terra

figurano senz’altro le dissertazioni su temi quali il bene ed il male, e le

conseguenti gratificazioni o punizioni.

Filosofia, teologia, diritto, scienze penali e numerose altre discipline che al

centro della loro dialettica hanno l’uomo con le sue innumerevoli sfaccettature,

hanno contribuito a rendere il panorama sul “perché” delle pene ancora più vasto

e complesso.

Le risposte al quesito sono state infinite, ma tutte oscillano tra due posizioni

contrapposte che, nel corso dei secoli, si sono alternate nella gestione delle

carceri:

TEORIE ASSOLUTE.

Secondo le Scienze Assolute la pena è la dimostrazione del reato commesso,

quindi devono essere direttamente proporzionali e si devono basare su due criteri:

1) Morale dove la pena è considerata un’esigenza etica della coscienza

dell’uomo. Fine ultimo della pena è la realizzazione dell’idea

assoluta di giustizia.41

2) Giuridica dove la pena ha come funzione quella di ristabilire

l’equilibrio sociale che il reato commesso aveva compromesso. La

sanzione riafferma anche l’autorità dello Stato e annulla il panico

che il reo, con il suo comportamento, ha scatenato all’interno della

società.42

41 Maggior esponente fu il filosofo Emanuel Kant. 42 Esponente di questo criterio fu il filosofo Hegel.

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TEORIE RELATIVE

Scopo della pena è evitare che il reato sia commesso ancora. Le teorie

relative si raggruppano all’interno delle dottrine utilitaristiche che, a loro volta, si

suddividono in tre teorie principali:

1) Prevenzione generale, nata in seno alla filosofia illuministica,

considera la pena come lo strumento per evitare che i soggetti

possano commettere atti illeciti.

2) Prevenzione speciale quando la pena dovrebbe, se non proprio

eliminare, comunque ridurre le possibilità che il reo ricommetta il

reato, per un conseguente reinserimento sociale.

3) Emenda il cui scopo è il pentimento del criminale attraverso il suo

ravvedimento spirituale. La pena, in questo caso, purifica l’anima.

Tralasciando il periodo Medioevale, dove tutto era intriso di religione e di

colpa, e dove la giustizia era solo vendetta personale, si prenderanno in

considerazioni le idee che nascono verso la metà del XVII sec. per cercare una

soluzione alla domanda “perché la pena?”.

Nei paragrafi successivi si cercherà di delineare un quadro più specifico

delle teorie riguardanti il concetto di pena, prendendo spunto dalle due principali

correnti filosofiche che si sono contrapposte in Europa: l’Illuminismo e il

Positivismo. Da queste due posizioni nacquero due scuole di pensiero poi

contrappostesi nel corso del XVIII e XIX sec:

• La scuola classica che basandosi sulle teorie illuministe, dove

l’uomo dotato di libero arbitrio, può scegliere tra il bene e il male.

Avendo libertà di scelta il reato diviene atto volontario e

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consapevole, di conseguenza la pena è la retribuzione al reato

commesso.43

• La scuola positiva che, partendo dai presupposti del Positivismo,

secondo il quale il comportamento umano è il risultato di tratti

biologici, psicologici, sociali, nega il libero arbitrio e sostiene che la

funzione della pena non è punire ma prevenire. Il criterio di

assegnazione non è la gravità del reato, ma la pericolosità del

criminale.

La contrapposizione tra queste due scuole si è, in parte, risolta solo nel 1936

con la stesura del Codice penale Rocco che, grazie al tecnicismo giurino applicato

dal suo autore Arturo Rocco, fonde al suo interno il Classicismo ed il Positivismo.

Viene applicato il sistema sanzionario del “doppio binario”, cioè la pena

inflitta ha sia funzione retributiva del reato, che di prevenzione del

comportamento criminale attraverso la rieducazione del soggetto.

2.1 Illuminismo

Il pensiero illuminista fu determinante nei cambiamenti che si verificarono

in ambito penale tra la seconda metà del XVIII°e la prima metà del XIX° secolo:

la critica è totale nei confronti dell’Ancien Regime, soprattutto nei confronti delle

ingiustizie, “… la libertà di ciascuno deve essere, perciò, libertà di tutti:

uguaglianza, fraternità, legalità rampollano da un’unica fonte … il monarca non

è più visto come padrone, ma come servitore del popolo …44”.

La nuova visione dell’uomo e della società, riscontrabili soprattutto

nell’idee di Hobbes e Locke, i quali teorizzarono un “patto sociale” tra gli uomini

43 Codice Zanardelli del 1889 è stato ispirato da questa impostazione teorica.

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che avrebbe consentito il passaggio dallo stato di natura allo stato sociale, poneva

l’uomo ad avere accettato le leggi che regolano la società di cui fa parte e, nello

stesso tempo, di aver accolto anche le punizioni previste per le violazioni di

queste leggi. Il criminale diviene così un paradosso, “… egli ha rotto il patto

dunque è nemico dell’intera società, e tuttavia partecipa alla punizione che

subisce …45”.

I nuovi concetti di giustizia, di uguaglianza che gli illuministi andavano

propagandando, influenzarono tutta Europa, portando alla stesura della pietra

miliare delle riforme in ambito penale che si verificarono in questi anni.

Nel 1764 Cesare Beccaria, in forma anonima, manda alle stampe un piccolo

libretto intitolato “Dei delitti e delle pene”.

Per la prima volta, all’interno della sua opera, Beccaria delinea le

caratteristiche essenziali del carcere moderno, visto come luogo di recupero. La

pena assume valore di dissuasione a commettere il reato, non più solo una

punizione. Le torture vengono bandite come brutali ed inutili, “non addestra il

corpo, non lo assoggetta, né può costringerlo, una volta passata la prova, ad un

regime duraturo di sottomissione fisica ed economica alle mansioni produttive

imposte.46”; così come la pena di morte viene considerata anacronistica e crudele,

senza una validità né preventiva né inibitoria.

Il pensiero di Beccaria è profondamente innovativo anche nella nuova

concezione dell’accusato e del relativo approccio alle indagini. Infatti la

colpevolezza dell’accusato è da dimostrare, finché questo non accade il soggetto è

innocente. Nel momento in cui la responsabilità è accertata la pena migliore è

l’incarcerazione, anche per l’uniformità sociale che questa garantisce: “era anche

un metodo sicuro per uniformare la pena tra coloro che avevano i mezzi per

44 GALLO ERMANO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa-trattamento e

risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella ‘galera europea’”, op. cit., pag. 69.

45 FOUCAULT MICHEL,“Sorvegliare e punire. Nascita della prigione.”, op. cit. pag. 111. 46 GALLO ERMANO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e

risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella ‘galera europea’”, op. cit., pag. 74.

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pagare un’ammenda e coloro che non li avevano, dato che i primi sarebbero stati

soggetti alle stesse condizioni dei secondi.47”.

L’assegnazione della pena doveva essere immediata ed intransigente e

doveva essere scontata completamente, “non doveva esserci possibilità di appello

o di sospensione.48”. Il miglior deterrente non era la crudeltà della pena inflitta,

ma la certezza che la pena venisse erogata nel momento in cui si commetteva un

reato; in questo modo Beccaria cercava di superare gli intrighi e le scappatoie che

la legislazione metteva in atto proprio per evitare di scontare le condanne. Le

considerazioni morali, sociali e personali sul detenuto non avevano nessuna

importanza nello stabilire la pena da assegnare o il grado di colpevolezza del

soggetto; il criterio più equo è la responsabilità del colpevole, solo così sarà

rispettata l’idea di giustizia uguale per tutti davanti alla legge.

In merito alla prevenzione Beccaria pone la sua più totale fiducia su un

sistema legale e procedurale equo e razionale, sulla base di questo nega l’utilità

dei corpi di polizia non considerandoli al servizio del popolo, ma del potere

punitivo dello Stato che, secondo i riformatori, deve essere limitato.

Gli scritti di Cesare Beccaria influenzarono i riformatori illuministi,

soprattutto nell’ambito delle riforme delle principali istituzioni giuridiche.

L’ambito in cui riscossero maggior successo fu la modificazione del diritto

penale, intorno al problema riguardante i limiti del diritto dello Stato di punire. La

domanda che si posero esaminava le ragioni per le quali lo Stato avesse il diritto

di punire i suoi componenti e i limiti entro i quali lo Stato poteva agire. “Primo

carattere fondamentale della rivoluzione Illuministica in ambito giuridico-penale

fu quello della cosiddetta secolarizzazione del diritto, fenomeno sintetizzabile

nell’assunzione di una posizione di distacco del diritto dalla religione, attraverso

una distinzione netta dei concetti di peccato e di delitto, da un lato, e di castigo e

di espiazione e di pena, dall’altro.49”.

47 Ibidem, pag. 120. 48 Ibidem, pag. 120. 49 TESSITORE GIOVANNI, “L’utopia penitenziaria borbonica- Dalle pene corporali a quelle

detentive.”, op. cit. pag. 55.

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L’innovazione del concetto di reato è fondamentale, infatti sono da

considerarsi tali solo quei comportamenti, o gesti, atti a danneggiare la società e

chi la abita, perciò “i delitti sarebbero stati … cioè puniti non a causa della loro

intrinseca moralità … ma perché fatti pericolosi per la convivenza civile …50”.

Da questo momento tutte le azioni, comportamenti legati alla sfera privata come

suicidio, eresia, omosessualità, non furono più considerati reati punibili dallo

Stato, “… la secolarizzazione condusse ad una maggiore tutela delle convinzioni

interiori dell’uomo, alla tolleranza civile e religiosa, all’ampliamento della sfera

della libertà della persona.51”.

Il reato genera caos e disordine sociale e la pena corrispettiva deve inibire il

reiterarsi di questo disordine, perciò la sua durezza deve essere tale quel “tanto

che basta” per impedire che il crimine venga commesso ulteriormente.

Secondo i riformatori illuministi il reato viene compiuto perché conviene,

procura vantaggi, di conseguenza la pena deve negare questa posizione e lo fa

punendo chi trasgredisce, dimostrando l”l’inconveniente” del commettere reati.

Ulteriore elemento riguarda a “chi” è rivolta la pena, e si scopre che non è il reo,

ma la società la vera destinataria della pena.

Il pensiero Illuminista fu il precursore della Scuola Classica che si basò su

concetti come proporzionalità della pena; limiti del potere punitivo Statale;

principio di legalità.

Il pensiero classicista ha influenzato l’idea di carcere moderno in modo

pregnante, ma vanno presi in considerazione anche i limiti che hanno comunque

influenzato la procedura penale di quegli anni:

• Il diritto penale, non prendendo in considerazione la personalità del

condannato, lo confina in un piano astratto di un ipotetico diritto

naturale/razionalistico, lontano però dalla realtà sociale ed

individuale dove è immerso. Il libero arbitrio, tanto sostenuto dai

50 Ibidem, pag. 56. 51 TOMMASO BURACCHI, “Origini ed evoluzione del carcere moderno.”, op. cit. pag. 139.

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riformatori, ha portato a non riconosce i condizionamenti ambientali

e personali che ogni soggetto si trova a subire, non permettendo così

di attuare un tipo di pensa individualizzata. Si deresponsabilizza la

società in entrambi gli ambiti a lei competenti: le cause sociali

dell’agire criminologico, la ricerca degli strumenti atti alla

prevenzione.

• La difesa sociale viene garantita solo attraverso la sanzione della

pena, che ha anche funzione preventiva sia generale che speciale.

Nessun tentativo è fatto per neutralizzare il comportamento

delittuoso attraverso la risocializzazione a misura della personalità

del condannato.

• La pena non è mai considerata come recupero sociale, perché il

diritto penale illuminista e classico non considera mai gli eventuali

comportamenti futuri, ma solo quelli passati perché il

comportamento è determinato da un atto di volontà libero, sul quale

è impossibile compiere un giudizio di possibile ripetitività.

La scuola classica sembra realizzare in pieno tutti i suoi postulati in merito

al diritto penale, ma le critiche mosse portano ad una evoluzione sia del pensiero

illuminista che della sua scuola.

Nasce così la Scuola Positiva “è il caso della scuola positiva, tutta tesa ad

individuare e discutere sia la figura del delinquente che i fattori antropologici,

sociali e naturali della devianza criminale.52”.

52 GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa - trattamento e

risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 86.

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2.2 Positivismo

In posizione antitetica rispetto alla scuola classica troviamo la scuola

positivista, la cui matrice di pensiero fu la nuova corrente filosofica nata in

Francia nella prima metà dell'Ottocento.

I positivisti considerano la scienza come “Il linguaggio” per antonomasia da

utilizzare per la cultura, infatti la filosofia perde il proprio primato per lasciare

spazio alle scienze particolari (antropologia, psichiatria, criminologia, ecc.).

Oggetto privilegiato di studio è l'uomo nella sua complessità fisica,

psicologica, sociale. Tutto viene ricercato, spiegato e capito attraverso la scienza,

che arriva ad assurgere il ruolo di nuovo credo sociale, relegando la religione alla

stregua di fantasie popolari.

Il positivismo viene introdotto in Inghilterra da John Stuart Mill, il quale

sostenne che tutte le conoscenze debbano avere la loro origine dall’esperienza;

dall’altro lato riceve un impulso straordinario dalle teorie evoluzionistiche di

Darwin e Spencer, grazie ai quali assurge a ruolo di scienza anche la biologia;

mentre l'assolutismo politico di Comte sosteneva che solo le scienze positive

avrebbero assicurato la stabilità del nuovo ordine sociale che si andava

costruendo.

Questo nuovo interesse per l’uomo nella sua globalità ha apportato

cambiamenti considerevoli in ambito sociale e questo ha, ovviamente, coinvolto

anche il mondo carcerario e i suoi abitanti. Partendo dai postulati sopra descritti in

campo penale, la giustizia dovrà posare le sue basi su una nuovo concetto di

libertà: ogni uomo gode di libertà che sarà limitata “solo” dalle libertà altrui. Da

questo assunto fondamentale si può dedurre che i positivisti consideravano

importante difendere la società e i suoi interessi dal comportamento criminale.

L’atto criminale verrà interpretato come un’anomalia del corpo sociale, la

cui difesa verrà espletata tramite l’applicazione della pena; che verrà designata in

base alle caratteristiche del criminale, alla sua pericolosità e alla sua riadattabilità

al contesto sociale.

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Le tesi sostenute portano ad una nuova formulazione della sanzione penale:

non trovano più giustificazione le pene atte a lenire o degradare il reo, le misure

da attuare devono avere come risultato la difesa di tutta la società attraverso la

prevenzione degli atti criminali. Questa prevenzione viene messa in atto, dove è

possibile, attraverso il reinserimento nella vita sociale.

Viene formulata una nuova idea del delitto visto come una manifestazione

necessaria di determinate cause (bisogni, istinti, ecc.) presenti nella società,

negando così la posizione illuminista della libera volontà di compiere un reato,

investendo così la società di responsabilità nei confronti dei comportamenti

criminali che in essa si verificano.

In questo nuovo quadro teorico il diritto penale diviene scienza sociale, “per

questi riformatori, quindi, la scienza del delitto fu essenzialmente scienza della

società53”. La nuova politica sociale così attuata porterà a rifiutare pene detentive

di breve durata, perché considerate inutili nell’ottica del trattamento rieducativo. I

soggetti considerati idonei alla rieducazione dovevano essere trattati con cura e

attenzione, per evitare che cadessero in comportamenti criminali recidivi.

Nella valutazione complessiva dei soggetti si cercava sempre di attuare la

rieducazione in tempi più o meno lunghi, nei casi in cui questa non fosse stata

applicabile il reo sarebbe stato allontanato dalla società per un tempo

indeterminato (spesso a vita), mettendo così “in salvo” la società da

comportamenti criminali reiterati.

Lo studio dei criminali e dei crimini attraverso il metodo positivista portò a

prendere in considerazione, come causa dei comportamenti criminali, l’eredità

fisiologica del soggetto. Massimo esponente di questa branchia della criminologia

fu Cesare Lombroso. Le sue osservazioni sui criminali, attraverso lo studio dei

tatuaggi, lo portano a credere di aver scoperto un tipo anormale di uomo “il

delinquente nato, che definì in base ad elementi prevalentemente somatici e

fisiologici ...54”.

53 RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHEIMER, “Pena e struttura sociale”, op. cit. pag. 237. 54 BORGHESE SOFO, “La filosofia della pena”, op. cit. 289.

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Alla base delle sue ricerche pone l’antropologia criminale (una delle nuove

scienze), che come criterio di valutazione utilizza la corrispondenza esistente tra il

fisico e la morale del soggetto: più un soggetto ha anomalie fisiche, più queste

corrispondono ad anomalie morali, perciò a comportamenti criminali. Viene

definita una categoria umana, quella di criminali, al cui interno i soggetti sono

suddivisi in classi per precise, ad ogni classe dovrebbero corrispondere una

misura di sorveglianza, una punizione o rieducazione idonee.

Lombroso afferma, nella sua teoria, che il delitto è inevitabile (come la vita

e la morte), di conseguenza il punire è la difesa inevitabile della società, senza

alcuna connotazione morale.

Il trasporto dell’antropologia criminale all’interno delle aule comporta il

supporto di altre figure specialistiche come gli psichiatri, i criminologi, il cui

compito è quello di scandagliare minuziosamente ogni aspetto del reo.

Lo studio del crimine diviene scienza con la nascita della sociologia

criminale, che delineando le caratteristiche di ciò che è anomalo all’interno della

società, definisce anche tutto ciò che è normale.

Gli assunti teorici del positivismo non sono privi di critiche sulla loro

efficacia:

• deresponsabilizzazione dell’individuo;

• crimine legato al soggetto che lo compie, questo comporta una

rimessa in discussione delle garanzie di legalità e certezza giuridica,

in quanto sì da più potere discrezionale al giudice;

• sostituendo alla colpevolezza il concetto di pericolosità sociale,

dovrebbero essere sottoposti a misure di sicurezza anche quei

soggetti che ancora non hanno commesso nessun reato, ma che

risultano socialmente pericolosi in base ai criteri dell’antropologia

criminale.

La scuola positivista non considera l’individuo nel suo valore umano e diviene

socialmente pericoloso e non più responsabile degli atti che compie. Il sistema da

punitivo diviene curativo, i comportamenti anomali (pazzi, malati, delinquenti,

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ecc) divengono malattie che le nuove scienze specialistiche positiviste possono e

devono curare.

2.3 Piccola disgressione nel XX° secolo

Alla fine del XIX° secolo le pene capitali erano state abolite in quasi tutti gli

stati europei e le pene corporali sostituite con la detenzione.

Lo spaccato italiano dei primi anni del XX° secolo mostrano un’involuzione

determinata dall’avvento del regime fascista, dove il criminale venne definito

“peccatore criminalizzato” e dove venne reintrodotta la pena di morte. L’unico

aspetto positivo di questo periodo è l’entrata in vigore del Codice Rocco nel 1930,

dove il legislatore cercò di superare il dualismo della scuola classica e della

scuola positivista. Sulla scia nel 1931 viene approvato il “Nuovo regolamento per

gli Istituti di prevenzione e pena” dove la punizione ha in se le tre caratteristiche

principali che si sono alternate nel corso dei secoli:

• emendativa;

• affittiva;

• intimidatoria.

Bisognerà aspettare il 1975, con la Riforma penitenziaria e il 1976 con il

successivo Regolamento di esecuzione, perché l’Italia si adatti alle convenzioni

europee.

Elemento d’innovazione è la posizione negativa della pena detentiva

inframuraria come unica soluzione attuabile, si inizia a parlare di flessibilità della

pena dando così la possibilità di variare e graduare la pena nel corso

dell’esecuzione. La funzione del carcere,nel corso della pena, diviene un

momento di passaggio nel tentativo di risocializzare il soggetto e non più luogo di

“arrivo definitivo”.

Vengono inseriti, all’interno del trattamento penitenziario, elementi

rieducativi come il lavoro, l’istruzione, le attività culturali/ricreative/sportive.

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L’emanazione dell’Ordinamento Penitenziario, si rivela inadatta alla

rieducazione, in quanto l’allarme sociale causato dal terrorismo, portando lo Stato

a porvi rimedio attraverso una forte azione repressiva.

Nascono in questo periodo le cosiddette carceri di “massima sicurezza”,

sottoposte ad una disciplina di speciale rigore e a severe forme di controllo.

Solo all’inizio degli anni Ottanta, grazie alla progressiva sconfitta del

terrorismo, si assiste ad un recupero dell’ideologia rieducativi.

Ulteriori disposizioni furono:

• La Legge Gozzini del 1986 amplia ed estende le misure alternative

alla pena carceraria, L’obiettivo principale della riforma di legge è

favorire il processo di reinserimento nella società del soggetto,

allargando la possibilità di accesso alle misure alternative alla

detenzione.

• Legge Simeoli-Saraceni del 1998 ha introdotto modifiche

procedurali volte ad assicurare l’accesso alle misure alternative a

tutti i condannati astrattamente meritevoli.

• Nuovo Regolamento penitenziario del 200027, che apporta

importanti innovazioni al regime detentivo e maggiori garanzie per i

ristretti. Particolari modifiche sono state introdotte in tema di lavoro

allo scopo di dare un nuovo impulso alle attività dei detenuti ed

ovviare alla grave insufficienza di risorse lavorative. Si sono volute

incrementare le possibilità occupazionali dei carcerati, affidando le

lavorazioni penitenziarie ad imprese esterne ed in particolare a

cooperative sociali, che stabiliscono rapporti lavorativi diretti con i

detenuti lavoratori. Al fine di facilitare l’ingresso in carcere di

imprese e cooperative si sono stipulate convenzioni che regolano i

rapporti tra questi soggetti economici e la direzione dell’istituto, che

ha la possibilità di affidare in comodato gratuito locali utilizzabili ed

anche le eventuali attrezzature.

• Legge Smuraglia aveva lo scopo di facilitare il reinserimento del

detenuto estendendo il sistema di sgravi contributivi e fiscali, già

previsto per le cooperative sociali, alle aziende pubbliche o private

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che organizzino attività produttive o di servizi all’interno delle

carceri, impiegando manodopera detenuta e ricomprende nella

definizione di persona “svantaggiata” le persone detenute o internate

negli istituti penitenziari.

• Il Testo Unico delle leggi sugli stupefacenti modifica profondamente

l’inquadramento legislativo delle tossico e alcool-dipendenze, che da

allora viene inserito all’interno del circuito giudiziario-dententivo.

La Legge stabilisce comunque che queste categorie di detenuti

vengano ospitati in “istituti idonei per lo svolgimento dei programmi

terapeutici”30, in sezioni con reparti carcerari attrezzati oppure in

Case specificatamente attrezzate31. Poiché l’eliminazione dello stato

di dipendenza fisica e psichica dalle sostanze psicotrope risulta di

importanza primaria rispetto a qualsiasi intervento rieducativo, la

nuova normativa prevede la sospensione della pena32 e

l’affidamento particolare33 per soggetti tossico e alcol dipendenti

con condanna definitiva inferiore ai quattro anni che abbiano in

corso o intendano sottoporsi a programma di recupero.

Il diritto penale applicato in Italia dal 1930, con il Codice Rocco, considera

il carcere e la pena momenti di passaggio della rieducazione sociale del reo. Nel

prossimo paragrafo si cercherà di capire cosa si intende per educazione ed i

converso rieducazione.

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3 La rieducazione

Il viaggio nella storia del carcere e nelle teorie che lo hanno influenzato,

definiscono un quadro della realtà penitenziaria e del diritto penale molto

complesso.

La realtà penitenziaria del XXI° secolo è il risultato dell’evoluzione

carceraria verificatasi tra il XIII° e il XIX° secolo: carcere come pena effettiva,

ma anche la rieducazione del soggetto è allo stesso piano.

Ma cosa s’intende per rieducazione?

L’etimologia del termine “Educazione può essere fatto risalire ai due verbi

latini educare (da ex-ducere trarre fuori, condurre fuori) ed educare, rafforzativo

di educere che sembra avere attinenza con il verbo più antico edere, il cui

significato è nutrire. Da queste due diverse interpretazione nascono due

concezioni educative:

• Il puerocentrismo secondo il quale l’educazione non è altro che il

processo attraverso il quale vengono liberate le potenzialità interne

del soggetto, in modo naturale. È un’educazione indiretta in quanto

l’educatore non interviene, ma il suo compito è solo quello di

allestire un ambiente il più possibile stimolante.

• Il magistrocentrismo ha come fulcro il maestro il cui comportamento

educativo è depositario del sapere all’interno del soggetto.

Queste posizioni statiche non prendono in considerazione un aspetto

basilare dell’educazione: tra i due attori del processo si instaura una relazione

interpersonale di scambio reciproco, dove entrambi subiscono un cambiamento

che diviene simbolo dell’educazione. Educare significa cambiare, mutare, e il

cambiamento non può attuarsi senza educazione.

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Cercando di dare una definizione il più possibile completa del concetto di

educazione, bisogna analizzare le principali posizioni pedagogiche in proposito.

Duccio Demetrio

Parte dal concetto di educazione come cambiamento e il

processo viene suddiviso in sei parti:

1. Temporalità: l’educazione/cambiamento avviene solo in

determinate situazioni e per un tempo determinato.

2. Novità: sono gli eventi sconosciuti che determinano il

cambiamento.

3. Spazialità: i luoghi in cui il processo educativo si verifica

sono ben definiti, ma spesso non corrispondono a quelli che

la società ritiene più idonei.

4. Direzionalità: il cambiamento avviene sempre per

raggiungere uno scopo prefissato.

5. Reversibilità: il cambiamento è trasformazione in qualcosa

d’altro rispetto allo stato precedente.

6. Emozionalità: i cambiamenti riguardano anche gli aspetti

emotivi ed emozionali del soggetto.

Piero Bertolini

Il processo educativo è una realtà dinamica sempre in

realizzazione e perché questo si attui si devono verificare cinque

strutture:

1. Sistematicità: l’educazione è un evento sistemico

determinato da molteplici variabili.

2. Relazione reciproca: il processo educativo deve avere

sempre come base la reciprocità fra le parti.

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3. Possibilità : l’evento educativo deve essere possibile

nell’ottica che ogni esperienza umana può essere

possibile.

4. Irreversibilità: ogni evento è inserito in un continuum

temporale, che non può essere cambiato. Non si può

tornare indietro, si può solo attuare un altro cambiamento

sempre sulla retta del tempo.

5. Socialità:l’uomo è un essere sociale, il cui habitat è la

società, all’interno della quale si verifica ogni sua

esperienza.

Giuseppe Milan

La sua ottica dialogica e comunitaria lo porta a definire otto

elementi fondamentali pechè il processo educativo si attui:

1. Intenzionalità: perché il processo si verifichi il soggetto

deve prendere atto e essere cosciente di quello che va ad

intraprendere.

2. Responsabilità: riguarda l’educatore nel suo impegno nel

promuovere le potenzialità di chi in quel momento è in

una posizione di svantaggio.

3. Reciprocità: solo la relazione interpersonale permette

quell’apertura al dialogo che permetterà l’accettazione

dell’altro e del diverso.

4. Possibilità: si riferisce all’imprevedibilità dei momenti

educativi, che possono verificarsi in qualsiasi tempo e

luogo, e sono legati all’individualità del soggetto.

5. Temporalità: ogni momento può essere momento

educativo e generare il cambiamento. Spontaneità,

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improvvisazione, estemporaneità solo elementi

importanti del processo educativo.

6. Socialità: ogni cambiamenti individuale determinato

dall’evento educativo determina un cambiamento, anche

piccolo all’interno della società.

7. Sistematicità: la società può essere considerata una realtà

sistemica, e anche il processo educativo deve considerare

la molteplicità delle relazioni che ogni soggetto vive

all’interno della sua complessa rete relazionale

8. Testimonianza: l’educatore deve essere un “modello di

intenzionalità” all’interno de processo educativo sempre

aperto al miglioramento.

L’analisi delle principali teorie pedagogiche porta, tramite il processo

deduttivo alla seguente definizione: “l’educazione intesa come piena

realizzazione di se stesso all’interno della società e delle norme sociali che la

regola, è sempre un percorso intenzionale, responsabile il cui scopo è la

promozione totale dell’uomo”. Alla luce di questa definizione l’educazione

diviene percorso permanente, che dura tutta la vita, con lo scopo di un

miglioramento continuo.

Compito dell’educazione è aiutare l’uomo a riportare se stesso al centro di

se, solo così diventerà artefice della propria esistenza.. ma l’educazione sociale

non risponde a questi presupposti basilari. La difficoltà maggiore riguarda la

responsabilità delle proprie azioni, essere cioè capace di rispondere del perché

delle proprie azioni e dei propri pensieri.

Partendo da questa mancanza possiamo inserire il concetto di ri-

educazione,cioè” l’educare di nuovo” all’interno della definizione di educazione

data precedentemente completandola con la precisazione che questo processo

rieducativo viene posto in atto perché “non completamente raggiunto nel

precedente processo”.

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Trasportando quest’ultima definizione in ambito carcerario, il

comportamento criminale diviene comportamento deviante rispetto al normale

processo educativo che, per definizione, si attua nel rispetto delle norme sociali

nelle quali vive.

Il processo rieducativo ha però un contesto di riferimento, il carcere, molto

problematico dato dalle condizioni di detenzione in cui si ritrova il soggetto, che

negano il diritto fondamentale della libertà dell’individuo. Da qui si deduce che lo

scopo della rieducazione carceraria è il reinseriemento del soggetto alla vita

sociale, attraverso l’accettazione e la comprensione delle norme precedentemente

violate.

Essendo l’educazione la realizzazione delle potenzialità intrinseche in ogni

uomo, la ri-educazione è la “seconda possibilità” che ogni soggetto dovrebbe

avere per riuscire a realizzare se stesso.

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4 Considerazione finali

Carceri buie e terrificanti che si trasformano, nel corso dei secoli, in luoghi

di lavoro coatto e di torture. Pene il cui scopo oscilla dal punire e “vendicarsi” del

torto subito, al rieducare il soggetto per reinserirlo nella società.

Le domande poste all’inizio hanno ricevuto una risposta parziale: è stato

tracciato il percorso storico del penitenziario sin dalla sua nascita e sono state

prese in considerazione le principali teorie che hanno determinato stili punitivi e

la nascita del diritto penale oggi concepito. Si è data lettura del concetto di

educazione e di come questo processo potrebbe essere inserito nel contesto

carcerario.

Ma è effettivamente realizzabile la rieducazione carceraria?

I pregiudizi teorici sono stati definiti e da questi partirà il tirocinio

all’interno del penitenziario di Parma: fermo restante la convalida da parte

dell’istituto, il progetto partirà dall’ufficio nuovi giunti per arrivare a seguire, nei

prossimi due anni, un gruppo di detenuti nel loro percorso inframurario ed

eventuali pene alternative alla detenzione.

Finalità del progetto sarà determinare la reale possibilità di rieducazione dei

detenuti, il loro effettivo reinserimento sociale e gli eventuali casi di recidiva.

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