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ISTITUTO COMPRENSIVO ‘BERTO BARBARANI’ DI MINERBE “GLI EFFETTI E LE CONSEGUENZE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE NEL MIO PAESE, MINERBE” Conseguenze sulla vita dei cittadini, sulle attività economiche e sull’agricoltura SCUOLA SECONDARIA DI I GRADO: CLASSE III B A. S. 2014-2015

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ISTITUTO COMPRENSIVO ‘BERTO BARBARANI’ DI MINERBE

“GLI EFFETTI E LE CONSEGUENZE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE NEL MIO PAESE, MINERBE”

Conseguenze sulla vita dei cittadini, sulle attività economiche e sull’agricoltura

SCUOLA SECONDARIA DI I GRADO: CLASSE III B

A. S. 2014-2015

GLI EFFETTI E LE CONSEGUENZE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE NEL MIO PAESE, MINERBE: sulla vita dei cittadini, sulle attività economiche e sull’agricoltura.

Classe III B, scuola secondaria di I grado Berto Barbarani di Minerbe

Ci presentiamo: siamo i 22 studenti di III B della scuola secondaria di I grado di Minerbe. Come studenti dell’ultimo anno, abbiamo la consapevolezza che la conoscenza approfondita della prima guerra mondiale risulta per noi fondamentale non solo in quanto parte importante del programma di storia, ma anche quale possibile argomento da portare all’esame finale che tra non molto dovremo sostenere. Se poi la conoscenza degli avvenimenti sulla prima guerra mondiale comprende anche fatti e avvenimenti legati al nostro contesto, siamo sicuri che la cosa si fa più interessante e la completa. Di qui la ricerca che segue che ci dà la possibilità non solo di partecipare al concorso di Primo giornale “Gli effetti e le conseguenze della Prima Guerra Mondiale nel mio paese”, ma soprattutto di approfondire e completare le nostre conoscenze storiche sulla Grande Guerra, integrandole con i fatti e gli avvenimenti locali e capire così quale forte impatto abbia avuto sulle attività economiche e sull’agricoltura e come, di conseguenza, abbia influito sulla vita dei nostri nonni... Un lavoro utile anche per gli ormai prossimi esami che ci aspettano…

Doverose alcune informazioni preliminari. Ci hanno aiutato in questo lavoro due documenti particolari. Il primo è il libro delle Memorie parrocchiali di Minerbe, che raccoglie le annotazioni dei parroci che, nel corso del tempo, si sono susseguiti alla guida della comunità. In particolare ci siamo concentrati sul periodo che va dal 1909 al 1924 nel quale a reggere la parrocchia di Minerbe fu Don Sante Gaiardoni. Le sue annotazioni ci hanno infatti consentito di ricostruire i terribili momenti della guerra e del dopo guerra aiutandoci a ‘entrare’ in quel clima e a comprenderne meglio fatti e situazioni. Opportuna pertanto una breve presentazione del parroco che faremo utilizzando quanto scritto da Don Sante stesso.

“Dal 1909 in poi Per non lasciare una lacuna in questo libro di Memorie accennerò anch’io quel poco che mi riguarda. Il 25 marzo 1909 entrai al governo di questa antica Pieve, io Don Sante Gaiardoni, figlio di Angelo e di Bozzini Teresa, nato a Sommacampagna il 14 gennaio 1869. Percorsi le scuole elementari e le ginnasiali inferiori nel paese natio, la quarta e la quinta ginnasiale alle Stimmate in Verona, il Liceo e la Teologia nel Seminario Vescovile. Fui ordinato sacerdote il 12 agosto 1893 e mandato nell’ottobre successivo… il 3 dicembre 1908 feci l’esame canonico per la parrocchia di San Lorenzo di Minerbe, paese da me mai veduto, né in alcun modo conosciuto. Il 10 ricevetti l’investitura e feci l’istanza per il Placet, che mi fu comunicato il 14 gennaio 1909 e il 25 marzo feci l’ingresso…”

Don Sante regge la parrocchia di Minerbe fino al 1924. Nel libro delle Memorie, infatti, alla pagina dell’anno del signore 1925, il nuovo parroco, Don Giovanni Pacega di Castagnaro, prima di annotare un po’ di biografia personale, a maniera dei suoi predecessori, scrive: Don Sante Gaiardoni fu nominato Arciprete della Cattedrale di Verona e lasciò questa Parrocchia nel Luglio dell’anno 1924.

Le pagine scritte da Don Sante Gaiardoni, che tornano maggiormente utili alla nostra ricerca, e riportate a seguire, sono quelle in cui annota fatti e situazioni relativi alla guerra e al dopo guerra. In particolare è da notare come di essa parli solo nel 1918, vale a dire a guerra conclusa annotando soddisfazione per il fatto che si sia conclusa (Deo Gratias), ma inserendo anche molte altre considerazioni utili a farci comprendere la situazione del paese in quegli anni: la demografia del tempo, la nascita delle leghe, bianche e rosse, le elezioni, la siccità e altre avversità climatiche… come più avanti avremo modo di evidenziare.

Don Sante Gaiardoni

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Dal libro “Memorie”, parrocchia di Minerbe

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Trascrizione: “1919 – 20 Firmato l’armistizio nel nov 1918 il governo cominciò subito a licenziare le classi più anziane e così di seguito. Si trovarono così nella primavera del 1919 moltissimi disoccupati, già che il governo aveva promesso tanta forza, mantenne niente ed i proprietari avvezzi a coltivare i loro campi con poche donne rispondevano a coloro che domandavano lavoro che non avevano niente da fare. Intanto i socialisti pescavano nel torbido ed intorbidivano sempre più le acque, acquiescente il governo, per far più abbondante la pescagione. Fu allora che io invitai tutti i proprietari ad un convegno sia perché dessero lavoro ai contadini, sia perché cedessero in affitto parte della loro terra, come solennemente era stato promesso in parlamento: «La terra ai contadini». Tutti approvarono l’iniziativa: sì è giusto, è opportuno, quel che fanno gli altri faccio anch’io.., ecc ecc , ma nessuno si decise, tranne il C. Bernini che ne cedette una porzione alla Cooperativa Concordia, perché fossero distribuite ai contadini. Per tal modo si formarono due leghe, una bianca ed una rossa: noi per primi trattammo con i proprietari per la tariffa della paga ai giornalieri: i proprietari non la vollero accettare, piuttosto accettavano di combinare con i socialisti. Così fecero, ed i socialisti diventavano i padroni del campo, sub………. poi dai signori con danaro, angariavano i piccoli agricoltori imponevano a questi una percentuale di lavoratori molto superiori ai grandi. Ossia mandavano loro tanti lavoratori quanti ai ricchi non tenendo conto delle braccia famigliari. Ci trovammo allora nella necessità di formare l’unione dei piccoli proprietari, affittuari e mezzadri, che divenne la più potente della provincia per l’opposizione …… per il patto concluso coi socialisti durante il famoso sciopero del 1920. In forza di questo patto i nostri piccoli ottennero libertà di lavoro. ……….. …… dai grandi! I socialisti ne avessero avuto un po’ di moderazione nelle esigenze ed avessero rispettato la religione avrebbero potuto trionfare – invece con la loro prepotenza, con l’esigere ciò che era contro giustizia e col combattere la religione fecero nascere la reazione fascista che ora imperversa in tutta Italia, fece il colpo di stato in settembre 1922 e attualmente il fascismo è l’arma micidiale in mano ai ricchi per far tutte le loro vendette contro i socialisti e contro i popolari, dopo di essere stati da questi protetti dalle angherie di quelli e poi nulla offesi nei loro giusti diritti. Questa è la gratitudine degli uomini e specialmente dei potenti! Nelle elezioni del 1919 – 20 salivano al potere i popolari, la minoranza toccò ai socialisti, i liberali non ebbero neppure il coraggio di presentarsi adesso dopo tre anni, mediante la reazione fascista agraria tentano di abbattere con la violenza l’amministrazione popolare per insediarsi loro. Vedremo! In grande maggioranza sarebbe per i polari, se ci fosse libertà di voto nella prossima elezioni provinciali. In realtà stavano a andare il 27corr. maggio 1923”

Il testo, sopra trascritto, viene ripreso e commentato nella parte centrale della ricerca.

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Il secondo documento, utile a ricostruire la situazione economica e sociale del dopo guerra nel nostro paese, è l’originale di un Patto agrario, con tanto di timbro della Lega contadina, che riporta la data del 7 maggio 1919, contenente tariffe orarie e disposizioni da osservare dalle varie parti contraenti. Si tratta di un Patto agricolo, stabilito nel Comune di Minerbe, sottoscritto e firmato dalla Rappresentanza della Lega, dal Sindaco, quale garante del Patto stesso, e dalla Rappresentanza degli Agricoltori. Il documento è suddiviso in quattro parti: 1. Tariffa unica, che stabilisce le paghe e gli orari di tutti i lavori agricoli che verranno

eseguiti nel territorio del comune di Minerbe 2. Tariffa braccianti, dove dapprima vengono indicate le ore di lavoro giornaliere (la

quantità, non gli orari d’inizio o termine) suddivisi in tre periodi a seconda delle stagioni: nel primo periodo che va da novembre a febbraio le ore di lavoro sono 6; nel secondo, che comprende i mesi di marzo, aprile, settembre e ottobre, le ore di lavoro giornaliere sono 7; nel terzo, che va da maggio ad agosto, le ore sono 8. Segue quindi la tariffa oraria per i lavori ordinari la cui paga è stabilita in £ 1.10 l’ora e quindi l’elenco di 13 lavori speciali con a fianco di ciascuno di essi, specifiche e relativa paga oraria.

3. Tariffa donne: la prima annotazione mette subito in evidenza che l’orario di lavoro è uguale per entrambi i sessi; segue quindi l’indicazione della paga oraria prevista per i lavori ordinari che è di 0,55 l’ora, esattamente la metà di quella prevista per gli uomini, e quindi l’elenco di sette lavori speciali con a fianco di ciascuno di essi specifiche lavorative e paga oraria prevista. Il confronto ci consente di rilevare che solo uno dei lavori indicati è comune, e precisamente la mietitura di frumento, avena, orzo e segala con la differenza che per tale lavoro i maschi ricevono la tariffa oraria di £ 2.20, le femmine di £ 1.60.

4. Disposizioni generali: sono articolate in otto punti e riguardano diritti e doveri che le varie parti sono tenute a garantire ai lavoratori. Vale la pena rilevare che nell’ottavo punto si fa presente che per tutte le norme e condizioni di lavoro non contemplate in tariffa, valgono le consuetudini locali e al nono punto che nella compartecipazione della coltivazione delle barbabietole e del granturco si sia sentita l’esigenza di precisare che i coltivatori debbano seguire l’orario del mese in corso (vale a dire maggio 1919) per cui quello del mattino sarà dalle ore 6 alle ore 8 e dalle 9 alle11; il pomeriggio dalle ore 2 alle ore 6.

Arianna: la mietitura Riccardo: la risaia

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Trascrizione documento: LEGA CONTADINI MINERBE

PATTO AGRICOLO

STABILITO NEL COMUNE DI MINERBE

TARIFFA UNICA

Che stabilisce le paghe e gli orari per tutti i lavori agricoli che verranno eseguiti nel territorio del Comune di Minerbe.

TARIFFA BRACCIANTI ORARIO – Gennaio, Febbraio, Novembre e Dicembre……… ore 6 “ - Marzo, Aprile, Settembre, Ottobre ……………… “ 7 “ - Maggio, Giugno, Luglio, Agosto ………………… “ 8 Lavori ordinari – Paga L.1.10 all’ora. Lavori speciali. 1° - SCALVA LEGNA DOLCE E GELSO , paga oraria del mese in corso, più un palo ed una fascina e spigolatura 2° - SPURGO CORSI D’ACQUA dove richiede lo stivale, paga L. 1.30 all’ora di lavoro in meno sull’orario in corso. 3° - IRRIGAZIONE RISAIA, solo lavoro in acqua (sbattere) L. 1.70 all’ora. 4° - FALCIATURA IN GENERE, paga L. 1.40 all’ora. 5°- MIETITURA FRUMENTO; AVENA; ORZO; SEGALA, paga L.”:”= all’ora e spigolatura. 6 – TRASPORTO COVONI, fare cataste, trebbiatura del frumento, orzo, avena, segala, paga L. 1,70 all’ora. 7 – Trebbiatura erba medica e trifoglio, paga L.1.70 all’ora. 8. – Trebbiatura e trasporto in granaio del granoturco, paga L. 1.50 all’ora. 9° - Aia del riso, lavoro barche, carico e scarico covoni, lavori di consuetudine, paga L. 1.50 all’ora. 10° - Irrorazioni viti, paga L.1.60 all’ora. 11° - Potatura viti, (Brusca), paga del mese in corso più un palo, una fascina e spigolatura. 12° - Spargimento concimi, Paga L. 1.25 all’ora. 13°- Bachicoltura, semente a carico del padrone e metà raccolto.

TARIFFA DONNE ORARIO – Uguale a quello degli uomini. Lavori ordinari – Paga L. 0,55 all’ora. Lavori speciali. 1° - Zappatura granoturco e barbabietole, paga L. 0,65 all’ora. 2° - Mondatura riso, ore di lavoro 6, Paga L. 0,67 all’ora. 3° - Mietitura frumento, orzo, avena, e segala, Paga L. 1,60 all’ora e spigolatura.

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4° - Trebbiatura frumento, orzo, avena e segala, paga L.1,10 all’ora. 5° – Mietitura riso, ore di lavoro 7, paga L. 1,10 all’ora e spigolatura. 6°- Trebbiatura del riso, ore di lavoro 7; paga L. 1,10 all’ora e spigolatura. 7°- Mietitura e trebbiatura sementine in sorte, paga L.1,10 all’ora

DISPOSIZIONI GENERALI 1°- I proprietari e conduttori di fondi si obbligano di occupare a lavoro continuo N° 5 uomini e 4 donne per ogni 100 campi esclusi i famigliari e salariati bovai. Se la distribuzione della mano d’opera nella maniera sopradetta lascia luogo ancora a disoccupazione, la lega di resistenza, in accordo con la rappresentanza degli agricoltori procurerà di distribuire la mano d’opera disoccupata in unione al comune e allo stato. 2° - la mano d’opera occorrente, tanto locale che forestiera, verrà fornita agli agricoltori, a mezzo dei locali uffici di collocamento di classe istituiti presso le singole organizzazioni. 3° – Le eventuali prestazioni straordinarie, saranno compensate, nei giorni feriali coll’aumento del 15% e nei giorni festivi coll’aumento del 50%. 4° – I proprietari e conduttori di fondi riconosceranno il diritto ai lavoratori di festeggiare il 1° maggio e di aderire a tutte le manifestazioni di protesta che venissero deliberate dalla federazione Provinciale e da quella Nazionale dei lavoratori della Terra. 5° – In tutti i lavori, tanto ai braccianti che alle contadine, sarà fornita la legna per riscaldare il cibo sul lavoro e l’acqua potabile. 6° - Tutte le controversie che dovessero insorgere nei rapporti di lavoro, saranno deferite alla Commissione arbitrale composta di Sette membri, due effettivi ed uno supplente nominati dagli agricoltori ed un settimo che funzionerà da Presidente di comune accordo fra le parti. Detta Commissione ha il più ampio mandato di giudizio. Dato che una delle parti si rifiuti di adunarsi a giudicare, il lodo sarà emesso dall’altra insieme al settimo arbitro. 7° - La presente tariffa andrà in vigore coll’8 maggio 1919 ed avrà la durata di UN ANNO. 8°- Per tutte la norme e condizioni di lavoro non contemplate nella presente tariffa, valgono le consuetudini locali. 9° - nella compartecipazione delle barbabietole e granoturco i coltivatori dovranno seguire l’orario del mese in corso. ORARIO – Mattino dalle ore 6 alle 8 – dalle ore 9 alle 11 - Pomeriggio dalle ore 2 alle ore 6 Letto, confermato e sottoscritto. Minerbe, 7 maggio 1919 La Rappresentanza della Lega Il Sindaco La Rappresentanza Agricoltori Migliorini – Schiavo – Franceschetti Gemma Francesco Candiani – Andreasi - Sacchetti Melegaro – Bertelli – Santinello – Lunardi Ferrari – Scala – Vivaldi

Il Rappresentante la Federaz. Provinciale lavoratori

Scarmagnan Giuseppe

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Accanto a questi due documenti che hanno consentito lo sviluppo della ricerca ci è stata utile anche la lettura del libro I léori del socialismo di Dino Coltro. L’autore vi narra le vicende di suo nonno, nonno Moro, un bracciante agricolo della Bassa veronese che come tanti altri, al ritorno dalla guerra, si aspettava una vita diversa. In realtà l’orizzonte, per lui e per tanti altri come lui, sembra aprirsi a migliori condizioni solo con grande fatica e sacrifici. Occorrerà la forza dirompente degli scioperi e l’adesione dei contadini e dei braccianti alle leghe rosse perché cominci a cambiare qualcosa. Le sue vicende ci sono utili non solo perchè ci consentono di entrare nello stato d’animo della popolazione bracciatile del tempo, in gran parte legata a pesanti condizioni di lavoro, e capire di conseguenza l’evolversi delle varie questioni sociali, ma anche per il fatto che nonno Moro rappresenta in modo concreto tutte le annotazioni di Don Sante Gaiardoni quando parla dei socialisti e del sorgere delle leghe. Ci sembra proprio che tutte le vicende che Don Sante annota nelle sue Memorie siano quelle che nonno Moro vive per cercare di migliorare le condizioni di vita sue e di tanta altra gente come lui.

Arianna: una famiglia degli anni venti

Nicol

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Schema di sintesi del nostro lavoro

Il lavoro di ricerca svolto, sulla base dei documenti sopra indicati e con riferimento al contesto locale, si articola nel modo che segue.

La partenza: Abbiamo approfondito cosa significhi entrare in guerra e le conseguenze economiche che ne derivano nei vari ambiti: nelle famiglie, in agricoltura, nel costo della vita,…

Al centro: Abbiamo messo la rappresentazione delle conseguenze della guerra nella vita delle famiglie e del paese secondo Don Sante Gaiardoni, dopo il 1918:

conseguenze della guerra nell’agricoltura locale

il costo della vita

il calmiere dei prezzi

dopo il 4 novembre 1918

la terra ai contadini

la nascita delle leghe

il fascismo

braccianti e socialismo

In parallelo: Si è analizzata la condizione dei braccianti nel primo dopoguerra ricostruendola attraverso le vicende del protagonista del racconto di Dino Coltro I leori del socialismo, nonno Moro.

Al termine: Abbiamo ricostruito uno spaccato di vita concreta dei braccianti nel primo dopoguerra attraverso l’analisi di un Patto agricolo del Comune di Minerbe del 1919 e due interviste:

alla sig.ra Oliva Motteran che lo ha conservato fino ai nostri giorni,

al sig. Tullio Ferrari, sindaco di Minerbe negli anni novanta, i cui ricordi ci hanno aiutato a ripensare alle condizioni di vita e al paesaggio agricolo di quell’ormai lontano dopoguerra.

Angela: lavori nei campi, la semina Silvia: il riso mietuto arriva al barcagno

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La partenza. Cosa significa entrare in guerra e le conseguenze economiche che ne derivano nei vari ambiti: nelle famiglie, in agricoltura, nel costo della vita,…

Economia di guerra In ogni nazione in stato di guerra si instaura una particolare economia. Più la guerra si prolunga più incide negativamente sul tenore di vita che automaticamente si impoverisce. I beni di prima necessità scarseggiano, aumentano i prezzi e talvolta si instaura il “mercato nero” al di fuori di ogni controllo statale. Tutti gli sforzi della nazione sono indirizzati al superamento della crisi e alla vittoria sul nemico che si gioca in termini di superiorità di armamenti e di uomini, di resistenza e di scaltrezza nelle strategie militari e diplomatiche. Lo Stato deve riorganizzare l’intera produzione, industriale e agricola, mettendo al primo posto le forniture all’esercito. In molti fogli matricolari consultati, ad esempio, si riscontra che la marca di mitragliatrici a cui erano destinati i soldati corrisponde alla fabbrica italiana automobili Torino, FIAT, che in tale periodo orienta pertanto la sua produzione in funzione delle esigenze belliche, così come molte altre industrie. Quando Vittorio Emanuele firmò la dichiarazione di guerra era consapevole dei sacrifici che avrebbe comportato, ma i governanti erano convinti di vederne in fretta la fine, anche se gli avvenimenti bellici in corso da circa un anno non facevano ben sperare. Possiamo infatti immaginare di quanti beni avesse bisogno l’esercito di milioni di uomini dislocati lungo i seicentoquaranta chilometri di un fronte particolarmente difficile da un punto di vista ambientale: innanzitutto armi e munizioni, automezzi, velivoli, sommergibili, ma anche medicine, vestiario, vettovaglie e beni di varia natura.

La guerra si ripercuote nelle famiglie La guerra ebbe un forte impatto sulla popolazione dei nostri paesi già dal suo inizio. Oltre il dolore per le separazioni e la preoccupazione continua per gli uomini al fronte le famiglie si trovarono a vivere situazioni quotidiane difficili. Il quotidiano L’Arena, testimone dei cambiamenti sociali ed economici del territorio, analizza in un articolo del 31 agosto ’15 che “comincia la guerra e per i veronesi cominciano i sacrifici” che si riflettevano tra l’altro nell’alimentazione. Il pane, dopo essere diventato scadente all’aspetto e al gusto, diventò reperibile solo raffermo. La disponibilità dei cibi di base come uova, latte, burro diminuisce. Lo zucchero è introvabile, la carne diviene merce rara perché doveva servire primariamente per i soldati al fronte. È noto peraltro come anche per loro la prosecuzione della guerra abbia comportato peggioramento del cibo in qualità e consistente diminuzione delle calorie fornite, che all’inizio della guerra tenevano conto delle diverse situazioni ambientali in cui si trovavano i combattenti. Immaginiamo che la maggiore disponibilità di prodotti della campagna abbia reso migliori le condizioni di vita della famiglie del nostro paese rispetto alla città. L’allevamento degli animali da cortile o nella stalla, la coltura degli orti, l’ingegno delle donne abituate alla collaborazione nell’economia agricola potevano dare qualche disponibilità in più rispetto alle ristrettezze della città.

Cristiano

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Al centro La rappresentazione delle conseguenze della guerra nella vita delle famiglie e del paese secondo Don Sante Gaiardoni, dopo il 1918:

conseguenze della guerra nell’agricoltura locale

il costo della vita

il calmiere dei prezzi

dopo il 4 novembre 1918

la terra ai contadini

la nascita delle leghe il fascismo

braccianti e socialismo

Conseguenze della guerra nell’agricoltura locale

Durante la prima guerra mondiale regge la parrocchia di Minerbe un sacerdote contraddistinto da rettitudine morale nonché da intraprendenza culturale e operativa: Don Sante Gaiardoni. Egli redige con cura le Memorie della parrocchia di Minerbe come è buona norma per chi ha quell’incarico. Sono quelle note, riportate a brani, il riferimento storico per ricostruire gli effetti e le conseguenze della guerra sull’economia del paese. Minerbe in corrispondenza degli anni di guerra era un paese di contadini: se la loro percentuale rispetto all’esercito nazionale era del 46%, su un campione di 59 fogli matricolari di arruolati minerbesi, coloro che avevano denunciato la professione di contadini erano 31. A Minerbe l’agricoltura era praticata in aziende agricole di medie estensioni, ma anche in latifondi in possesso di nobili che risiedevano altrove e che venivano gestiti da grossi fittavoli o conduttori del fondo che si avvalevano del lavoro di salariati stabili e di braccianti, uomini e donne, con contratti saltuari. In questo contesto, dopo aver riportato i dati numerici dei chiamati in guerra, il parroco annota che

“ non rimasero a casa per le coltivazioni dei campi che donne, pochi vecchi e fanciulli”.

Questo dato, che mette in campo prestatori d’opera, certamente a basso prezzo, avrà conseguenze decisive nel dopoguerra nei rapporti tra proprietari agricoli e braccianti. Don Sante è preciso nel riportare anche gli immediati riscontri di una gestione della terra priva della forza maschile che poteva dissodare i terreni a fondo, valutare tempi e modi di coltura. Nonostante le esigenze produttive dello stato in guerra accrescano, Don Sante annota:

“La produzione andò di anno in anno diminuendo in guisa che fu ridotta ad una metà e molti campi rimasero anche incolti. Fu seminata la polenta, le bietole e poi altro niente.”

Triste questo riscontro in un paese noto per il fatto che tutto il terreno di norma veniva coltivato. Di certo lo scoraggiamento, le difficili previsioni del futuro avranno influito negativamente insieme alle avversità atmosferiche che, sia nel ’17 che nel ’18, si abbatterono sui campi e sui raccolti. Il parroco annotando tali eventi dannosi per l’agricoltura dimostra comprensione per i danni economici subiti dai parrocchiani.

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Se ne ricava come tutta l’economia del paese gravitasse sul lavoro agricolo nonostante anche a Minerbe si affacciassero allora le prime attività industriali, legate comunque all’agricoltura, come lo stabilimento bacologico di Bellinato, la triturazione delle radici di cicoria di Tonazzi, la commercializzazione di prodotti agricoli di Scarmagnan nonché la fabbrica di laterizi Giacomelli.

“Anno 1917- Il giorno 26 maggio di quest’anno alle ore 22 cadde una grandine così fitta che in pochi minuti distrusse i raccolti tanto promettenti.”

Cita l’uva e il frumento che andarono totalmente rovinati, ma anche la presenza di sistemi assicurativi che pagando i colpiti al cento per cento dimostrarono la furia distruttiva delle grandinate.

“1918 – anche nel 1918 fummo colpiti dalla grandine: essa cadde così violenta la sera del 12 luglio che devastò e distrusse il granoturco e l’uva interamente. Di uva non restò nessuna traccia e del granoturco non se ne farà in certi campi che un quintale e mezzo.”

Egli racconta che si è salvato almeno il raccolto del frumento perché a luglio era già “in crosetta”.

Il costo della vita

“I prezzi di ogni genere crebbero in una maniera spaventosa.”

Con questa forte annotazione Don Sante chiude le sue lapidarie osservazioni rispetto all’economia di famiglia del paese in guerra, e introduce il discorso dell’aumento dei prezzi, conseguenza diretta della scarsità dei beni in circolazione. Inserisce un elenco “come saggio”, poi diventato, con integrazione che sembra successiva, una tabella, con annotazioni, in due colonne, relative all’anno 1920 e 1921. Gli esempi citati sono vari e tutti relativi ai bisogni primari; per finire non mancano le candele, bene “di consumo” della chiesa.

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Trascrizione:

“I prezzi di ogni genere crebbero di una maniera spaventosa: eccone alcuni come saggio”

Da osservare il raddoppiamento del prezzo del caffè che era forse un bene superfluo, ma non lo era la legna, indispensabile per scaldarsi e cucinare, il cui prezzo risulta aumentato in modo considerevole come quello di altri beni di base. In calce alla tabella il parroco si rivolge allo sconosciuto lettore quando lo invita ad immaginare la situazione del dopoguerra:

“Immagini ciascuno quanta economia e quanta ristrettezza di vivere: tanto più che di ogni cosa sempre si trova difetto, dovendo tutto acquistare con la tessera dal consorzio per mezzo dello spaccio comunale. Questo caro viveri è sentito specialmente da quelle classi che non hanno avuto nessun aumento di rendita né compenso di sorta: tali sono specialmente i sacerdoti poiché tanto gli impiegati governativi come i comunali hanno avuto l’aumento per il caro viveri. Così i contadini e gli operai hanno accresciuto di molto la loro mercede = Lire 6 – 8 – 10 – 12 al giorno a seconda della stagione dei lavori. Per il clero tutto stazionario. (a pie’ pagina) Ma questo è il meno. Basterebbe che ora finalmente cessasse l’orribile flagello della guerra!”

Nell’ultima frase sembra voler ridimensionare le lamentele a nome del clero in confronto alle altre classi sociali che denuncia come destinatarie di aumenti salariali dovuti al caro viveri. Infatti le enormi spese sostenute dallo stato italiano per la guerra causarono un crescente disavanzo sul bilancio dello Stato. Si era intervenuti con un incremento della circolazione cartacea che provocò una conseguente svalutazione della lira. I prezzi aumentarono e anche i salari, ma non in misura sufficiente a non creare problemi, causando una forte inflazione. I libri di storia e i giornali del tempo riportano i disordini e le violenze per il carovita che interessarono tutta l’Italia, accompagnati da richieste sindacali e scioperi. Come indicatore della svalutazione riportiamo un dato esemplificativo sulla variazione del valore della lira: partendo dal valore di 100,0 centesimi nel luglio del 1914 si cade progressivamente al valore di 58,8 centesimi nel luglio del 1918 (da tabella tratta da Storia dell’Italia Moderna, vol VIII, G. Candeloro).

Prezzi 1920 Prezzi 1921 Il latte 0,75 al litro £ 0,80 £ 1,= Un uovo 0.80 -,35 0,40-0,80 La polenta in farina 55 lire il quintale 65,= 130,= Lo zucchero non raffinato £ 4,50 il Kg 5,60 6,50 Il caffè 10 lire il Kg 22,= 24,= Il lardo 9 lire il Kg 14,= 10,= L’olio £ 5,50 il Kg 14,= 10,- 6 La legna £ 15 IL QUINTALE 20 15 – 25 La carne £ 8 il Kg 10 12- 8 -10 Un paio di scarpe £ 50 80 70 -80 Un paio di buoi anche lire 12.000 --- 6000.- Le candele 12 il Kg 10.- 10. 13

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Il calmiere dei prezzi

Per controllare i prezzi dei generi alimentari, al fine di contrastarne un aumento eccessivo a causa dall'inflazione, vengono istituiti dei calmieri. È possibile averne un esempio ed effettuare un confronto di prezzi attraverso il quotidiano L’Arena, che il 10 agosto ha pubblicato un listino riferito al Municipio di Verona. Come si nota dalla data, un calmiere comunale per controllare i prezzi dei generi alimentari, dovette essere applicato già nel 1914 quando la situazione si fece difficile anche per i moltissimi emigrati che rientrarono dal centro Europa a causa degli sconvolgimenti bellici. Con l’entrata in guerra i problemi si moltiplicarono.

Anche a Minerbe dunque, come riferisce Don Sante, il Comune istituisce uno spaccio gestito dal Comune stesso, dove i prezzi sono controllati e le quantità sono acquistabili secondo una tessera personale. A Bonavigo, nel calmiere, di anno in anno entra un numero sempre maggiore di prodotti alimentari, compresi anche i concimi. Si suppone che per questo aspetto la situazione minerbese rispecchiasse quella di Bonavigo, di cui si hanno dati derivati dal libro Bonavigo, il territorio, gli uomini, il fiume, vista la vicinanza territoriale e la somiglianza nell’economia.

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Dopo il 4 novembre 1918

La fonte storica di riferimento per ricostruire la situazione economica del dopoguerra nel paese di Minerbe è sempre il libro delle Memorie compilato negli anni corrispondenti alla prima guerra mondiale da Don Sante Gaiardoni. Probabilmente a posteriori, egli raggruppa gli anni 1919-1920 e parla di temi sociali molto importanti e del ruolo determinante costituito dai sacerdoti nella realtà del dopoguerra. Furono il punto di riferimento di molti cittadini cattolici che avevano bisogno di persone competenti per intraprendere le strade nuove del cooperativismo nel rispetto dei valori cristiani. Le annotazioni sulla guerra si chiudono con un liberatorio “Deo gratias!” e in data 10 novembre, Don Sante, con coraggio, ma in armonia con i principi cristiani di solidarietà con chi sta peggio, riferisce che

“fu raccolta un’offerta per i fratelli della terra liberata che fruttò lire 152,50 spedita al Comitato di Verona.”

Evidentemente si trattava di Comitati già attivi contemporaneamente alla guerra che, anche nei paesi della provincia, si prodigavano per i concittadini più poveri. Di seguito il parroco annota:

“1919-1920

Firmato l’armistizio nel novembre 1918 il governo cominciò subito a licenziare le classi più

anziane e così di seguito. Si trovarono così nella primavera del 1919 moltissimi disoccupati,

già che il governo aveva promesso tanta forza, mantenne niente ed i proprietari avvezzi a

coltivare i loro campi con poche donne rispondevano a coloro che domandavano lavoro che

non avevano niente da fare.

Intanto i socialisti pescavano nel torbido ed intorbidivano sempre più le acque,

acquiescente il governo, per far più abbondante la pescagione”

Se durante la guerra le donne contribuirono all’economia e a mandare avanti la difficile situazione, alla fine della guerra si trovarono gli uomini, ex combattenti, disoccupati. Il clero si dimostra ostile ai socialisti, descritti quali “pescatori in acque torbide”.

La terra ai contadini Prosegue Don Sante:

“Fu allora che io invitai tutti i proprietari ad un convegno sia perché dessero lavoro ai contadini, sia perché cedessero in affitto parte della loro terra, come solennemente era stato promesso in parlamento: “La terra ai contadini”.

Lo Stato italiano aveva terre incolte, altre mal coltivate, beni terrieri di proprietà di enti o di associazioni caritatevoli, ma anche vasti latifondi: occorreva una radicale riforma agraria perché tutte le famiglie avessero di che vivere. Con la guerra le scorte non si dimostrarono sufficienti anche per l’abbandono delle terre da parte dei soldati impegnati al fronte. La produzione nazionale diminuì di molto così come quella minerbese, secondo le annotazioni di Don Sante.

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Si susseguirono proposte politiche e disegni di legge per rafforzare la produzione e si affacciò lo slogan “la terra ai contadini” surrogando così la mancanza di obiettivi veri di allargamento territoriale con una sorta di colonizzazione interna. Si voleva dare un incentivo, una motivazione forte ai ‘fanti contadini’ che erano la metà dell’esercito, ignari dei motivi di tanti morti e sacrifici. I modi di ridistribuire le terre furono oggetto di progetti e proposte di legge da parte dei vari schieramenti politici fin dall’inizio della guerra: se la sinistra mirava alla socializzazione delle terre, la destra intendeva inviolabile il diritto alla proprietà privata. Spicca la tesi di Don Sturzo, fautore del Partito Popolare Italiano, che intendeva creare la piccola proprietà e mediare tra iniziativa privata e intervento statale: vasti territori, così com’erano, erano fonte di impoverimento più che di ricchezza, perché mancavano terreni livellati, strade, acqua per irrigazione, problemi strutturali che dovevano essere di competenza statale. Le cooperative, sovvenzionate dalle banche, potevano essere a suo parere il ponte di passaggio tra i latifondisti e i piccoli proprietari che potevano riscattare i terreni lavorati. Nel frattempo la guerra divenne ancora più gravosa, dopo Caporetto la propaganda “la terra ai contadini” si rinforzò rivolgendosi genericamente agli ex combattenti, tanto da essere inglobata nel ‘19 nell’Opera Nazionale Combattenti che aveva il compito del reinserimento dei reduci. Vere riforme distributive dei terreni per un miglioramento di vita dei contadini non ebbero luogo. Il ‘fante contadino’ voleva essere risarcito come promesso: il malcontento sfociò nel primo dopoguerra in agitazioni sociali con le prime occupazioni delle terre, come per gli operai l’occupazione delle fabbriche. La guerra aveva profondamente cambiato l’economia e le idee delle persone, la società di massa esigeva valori nuovi che tendevano all’uguaglianza sociale, i contadini non potevano tornare ad essere i nullatenenti di sempre. Nelle Memorie il parroco registra puntualmente tutto questo, dimostrandosi vicino e operoso nei confronti dei parrocchiani che erano nel bisogno, pur cercando di mediare con i proprietari terrieri come si legge di seguito.

La nascita delle leghe

Nelle annotazioni di Don Sante si legge:

“Tutti approvarono l’iniziativa: sì è giusto, è opportuno, quel che fanno gli altri faccio anch’io.., ecc. ecc., ma nessuno si decise, tranne il Conte Bernini che ne cedette una porzione alla Cooperativa Concordia, perché fossero distribuite ai contadini. Per tal modo si formarono due leghe, una bianca ed una rossa: noi per primi trattammo con i proprietari per la tariffa della paga ai giornalieri: i proprietari non la vollero accettare, piuttosto accettavano di combinare con i socialisti. Così fecero, ed i socialisti diventavano i padroni del campo, sub….. poi dai signori con danno, angariavano i piccoli agricoltori imponevano a questi una percentuale di lavoratori molto superiori ai grandi. Ossia mandavano loro tanti lavoratori quanti ai ricchi non tenendo conto delle braccia famigliari.”

Emerge qui la posizione della Chiesa che si prodiga per una soluzione pacifica dei gravi problemi per procurare a tutti di che vivere attraverso la cooperazione e la diffusione della piccola proprietà. Nonostante la difficoltà di interpretare tutte le parole a causa della grafia minuta e sommaria, il senso del discorso è chiaro.

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“Ci trovammo allora nella necessità di formare l’unione dei piccoli proprietari, affittuari e mezzadri, che divenne la più potente della provincia per l’opposizione …per il patto concluso coi socialisti durante il famoso sciopero del 1920. In forza di questo patto i nostri piccoli ottennero libertà di lavoro. ……. dai grandi!”

Il fascismo

Nelle righe successive il parroco commenta i fatti e rivela di scrivere a posteriori rammaricandosi dell’ascesa del potere del fascismo causata, a suo dire, da posizioni intransigenti del socialismo negli anni del dopoguerra al ritorno dei soldati dal fronte da ricollocare al lavoro. Denomina il fascismo “arma micidiale in mano ai ricchi” che giudica in modo dispregiativo.

“I socialisti ne avessero avuto un po’ di motivazione nella ……ed avessero rispettato la religione avrebbero potuto t……… – invece con la loro prepotenza, con l’esigere ciò che era contro giustizia e col combattere la religione fecero nascere la reazione fascista che ora imperversa in tutta Italia, fece il colpo di stato in settembre 1922 e attualmente il fascismo è l’arma micidiale in mano ai ricchi per far tutte le loro vendette contro i socialisti e contro i popolari, dopo di essere stati da questi protetti dalle angherie di quelli e poi nulla offesi nei loro giusti diritti. Questa è la gratitudine degli uomini e specialmente dei potenti!”

Nel 1919 Don Sturzo dà avvio al Partito Popolare Italiano che costituirà preciso punto di riferimento politico per i cattolici. Politicamente autonomi dalla Chiesa i Popolari intendono opporsi alla minaccia bolscevica affermando i principi cristiani nell’organizzazione sociale. Ecco come Don Sante registra la crisi dei liberali, che avevano dominato la scena politica fino a pochi anni prima, a vantaggio dei Popolari che in breve costituiscono una rete organizzativa.

“Nelle elezioni del 1919 – 20 salivano al potere i popolari, la minoranza toccò ai socialisti, i liberali non ebbero neppure il coraggio di presentarsi adesso dopo tre anni, mediante la reazione fascista agraria tentano di abbattere con la violenza l’amministrazione popolare per insediarsi loro. Vedremo! In grande maggioranza sarebbe per i popolari, se ci fosse libertà di voto nella prossima elezioni provinciali. In realtà stavano a andare il 27… maggio 1923”

Don Sante mette in risalto la non libertà di voto nel regime fascista; il grande sforzo delle popolazioni agricole di classe media per cooperare migliorando le condizioni di vita era vanificato.

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Braccianti e socialismo

Le annotazioni di Don Sante ci consentono di ricostruire anche la nascita delle leghe rosse di cui faceva parte la maggioranza dei braccianti agricoli. La loro unica proprietà erano le braccia, per lavorare non con un contratto a lungo termine, ma da prestatori d’opera quando i possidenti o i grossi affittuari ne avevano bisogno, e quando la ‘forza’ familiare era insufficiente. Ciò accadeva anche nelle medie aziende per i lavori di raccolta dei prodotti che dovevano essere compiuti in tempi ristretti. I braccianti chiedevano lavoro e paghe adeguate, ma anche i proprietari avevano pressante bisogno di loro per le varie fasi di coltura e raccolta dei prodotti e per la cura quotidiana del bestiame nelle stalle. Le posizioni intransigenti del socialismo che promuoveva la lotta di classe fece breccia tra costoro che erano disposti a reazioni violente in contrasto anche con le leghe cattoliche accusate di essere dalla parte dei padroni. L’arma per rivendicare i diritti diventa lo sciopero: in mano ai lavoratori della terra acquista conseguenze molto importanti, tali da compromettere la raccolta dei prodotti agricoli quando era il momento.

Corte Colombaron a Minerbe

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In parallelo La condizione dei braccianti nel primo dopoguerra attraverso le vicende di nonno Moro, protagonista del racconto di Dino Coltro, I leori del socialismo

“…e viene il momento che non se ne può pì, de granari pieni nessuno ne aveva, un bel giorno si trova la chiave par aprire la situazione, si dice, qui si fa scioparo. L’è una parola fare scioparo, l’ultimo assalto alla trincea nemica, ma qui la dura de pi chi ha più spago da svolgere, non credo che le nostre donne ne avessero ancora tanto, a tirare si scurta o si può rompere, forza ce n’era, non era quella la paura, ma scioparare significava vivare par la prima volta, almanco noialtri, senza dipandare dai paroni, con il solo fiato che aveimo, comandarse tra di noi, fare una disciplina de corpo, ragionare e decidere, mettare in fila tante teste, si sa che sentivano più i brontoloni della panza uda che la spinta delle idee socialiste, era naturale che molti fossero socialisti par fame e par disperazione, desperati de tutto, i capi contrada avevano il loro da fare par rostare l’impazienza e tegnére l’acqua al so livello così da farla scoppiare al momento giusto che se lo scioparo non ha la forza de farsi sentire…”

Sono le parole di Moro, nonno di Dino Coltro, che nel libro romanzo I leori del socialismo testimonia le idee e la lotta dei braccianti nel dopoguerra. È ambientato a Pilastro di Bonavigo in una grossa azienda agricola, la corte, che, come altre nella bassa veronese, costringeva la manodopera locale a un bracciantato misero e senza possibilità di riscatto sociale. L’autore ha condiviso la vita dei lavoratori della terra e, oltre ad aver dato loro voce scrivendone le memorie nella lingua contadina originaria, si è speso per le giuste conquiste sindacali. Tra le righe si legge come la guerra, facendo circolare le idee, avesse contribuito a una nuova coscienza di sé mettendo in discussione i ruoli sociali precedenti:

“La to dona sempre sgramegnata, piena degli odori della fadiga, niente bella e saponosa al pari della siora… do vite massa differenti, il dritto e il rovescio de un tabarro…”

La rabbia era inoltre acuita dalle promesse non mantenute da parte dello Stato che aveva chiamato alla guerra per così lungo tempo. Il nonno Moro commenta:

“Il governo ci ha dato il sussidio, par du mesi, con quello uno doveva vivare, ma cosa prendevi con un sussidio, da sfamarti tu non la fameja… … la Patria aveva goduto del loro servizio, adesso li dimenticava,( i mutilati) immaginarsi noialtri con gambe e braccia a posto, bisognava arrangiarse come al fronte…morire in piedi ci fanno…”

Nonno Moro racconta del malessere diffuso ed è interessante osservare come il sapere organizzarsi è un conquista dovuta all’esperienza di guerra:

“Allora si è fatto un capo par dare ordine e disciplina, ce lo avevano insegnato lori..il comando lo ha preso un certo Straccagno di isola Rizza, socialista di prima razza, … la proposta generale era de roversare la situazione con il socialismo..ci pareva una cosa facile oltre che giusta, ci aspetaino sulle crosare con il culo incollato sulle piere dei ponti…”

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Riferisce della convinzione che le leghe bianche sono dalla parte dei padroni:

“… nati dopo, contro de noialtri non contro i siori…cosa puoi aspettarti di buono dai preti…il socialismo ha la bandiera rossa, vuole dire che è la bandiera dei pitocchi, bisogna andare dietro a questa, come quando correvimo all’assalto…il bianco sta con tutto, il rosso è forte par conto proprio…”

Dalle idee ai fatti:

“…andare a slongare la mano par un’ora de lavoro, par piasere e par carità… ti veniva dentro una rabbia che schiumava fora, così la rabbia de uno messa insieme alla rabbia degli altri cominciò a boiare, a dare su e sbattere il coperchio…

Più avanti si dimostra cauto e concreto:

…il grave è che cambiare tutto non si può, arrivare a un combinamento tra le parti, un buon contratto ci vuole, con la bandiera non mangi mica…

Gli stessi eventi, già descritti da Don Sante Gaiardoni, travolgono il bracciante Moro.

…Intanto i siori non volevano firmare, in paese capitano, venuti fora da dove lo so mi, quelli del manganello, ne fanno che lo sa altro che Dio, la faccenda si metteva in modo diverso dai nostri calcoli…

In nonno Moro possono così identificarsi tutti i braccianti della Bassa che Coltro denomina i léori del socialismo (le “lepri del socialismo”): presi dalla paura di tornare a casa e di finire nelle mani dei fascisti si nascondevano nei fossi, avevano la barba lunga e … spuzzavi da freschin come un léoro.

Samuele

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Al termine Uno spaccato di vita concreta: il Patto agricolo del Comune di Minerbe del 1919:

intervista alla sig.ra Oliva Motteran che lo ha conservato fino ai nostri giorni

intervista al sig. Tullio Ferrari, sindaco di Minerbe negli anni novanta, ci cui ricordi ci aiutano a ricostruire le condizioni di vita e il paesaggio agricolo di quell’ormai lontano dopoguerra

Il Patto agricolo del 1919 del Comune di Minerbe

Il documento in esame che ci consente di portare in luce le condizioni di vita della classe bracciantile e il lento emergere delle nuova coscienza del proprio ruolo sociale è quello conservato con cura da una famiglia di Minerbe. È ingiallito e macchiato dal tempo, ma ancora ben leggibile e utile a ricostruire l’economia e il clima sociale del primo dopoguerra. Il Patto agricolo stabilito nel Comune di Minerbe metteva, nero su bianco, le paghe e gli orari “per tutti i lavori agricoli nel territorio comunale”. È la primavera inoltrata del 1919, la guerra era finita da sei mesi, si avvicinava l’estate con l’intensificarsi dei lavori nelle campagne. Per quanto riguarda gli orari, le ore di lavoro vengono quantificate da un minimo di sei in inverno a un massimo di otto nei mesi estivi, frazionate per lasciar posto al riposo. Le ore in più, o festive, erano considerate straordinarie con paga oraria maggiorata; per l’ora di lavoro festiva veniva pattuita una paga oraria aumentata della metà. I libri di storia riportano che anche per l’industria nazionale i sindacati ottennero, a fatica, nel febbraio del ‘19, il riconoscimento della giornata lavorativa di otto ore. I contraenti risultano in calce al documento: sette cognomi come rappresentanti della Lega e sei come rappresentanza agricoltori. Garante è stato l’allora sindaco di Minerbe Francesco Gemma, possidente, nato nel 1882 e dispensato dall’arruolamento per la guerra per questa sua funzione di sindaco. Il sindacalista Scarmagnan rappresentava la Federazione Provinciale lavoratori, a sua volta emissaria, come si legge nel documento, della Federazione Nazionale dei Lavoratori della Terra: la struttura sindacale a piramide risulta ben delineata. In alto, nel frontespizio, la stampiglia dice: Lega contadini Minerbe. Nelle disposizioni generali che completano il patto, nelle condizioni richieste ai padroni, riecheggia l’impianto delle leghe socialiste, chiamate qui Leghe di Resistenza. Si legge fra le righe il desiderio di una netta salvaguardia dei diritti primari della persona come quello di acqua potabile e la possibilità di consumare un pasto caldo al lavoro. Ad un gradino più alto il diritto di non lavorare il primo maggio e di aderire alle proteste di categoria senza le ritorsioni dei datori di lavoro. In caso di controversie si auspicava una equilibrata rappresentanza delle parti per garantire equità di giudizio nei confronti dei lavoratori e protezione dei più deboli. Nei primi punti delle disposizioni è leggibile la difficoltosa situazione economica locale di quei mesi del ‘18 e ‘19 a causa della disoccupazione descritta e motivata anche dal parroco del paese nelle Memorie.

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Per arginarla, le leghe miravano ad obbligare i proprietari e conduttori dei campi ad occupare un certo numero di uomini e di donne in rapporto all’estensione dei fondi agricoli, come specificato nella prima disposizione. Don Sante a questo proposito descriveva atteggiamenti intransigenti delle leghe rosse. Una parola per tutte racconta quanto era grave la povertà di tante famiglie in quegli anni: la spigolatura. È contemplato nel Patto il diritto, da parte dei braccianti, a raccogliere con pazienza ciò che restava dopo il raccolto: la legna degli alberi e delle viti, il grano e il riso dopo la mietitura.

Intervista ai proprietari del documento “PATTO AGRICOLO”, i signori Motteran, via Casteldivento, Minerbe

La sua famiglia, signora Oliva, in occasione della ricostruzione della storia del vostro congiunto, il soldato Motteran Andrea Silvio, morto sul Grappa nel ’17, ha presentato un documento utile a ricostruire la situazione economica e sociale conseguente alla guerra in un ambiente ancora quasi del tutto agricolo. Secondo lei la guerra ha avuto conseguenze nell’economia familiare?

Di certo le preoccupazioni per gli uomini al fronte aumentavano le sofferenze e le tribolazioni nelle famiglie. Con i dispiaceri diminuiva il vigore, il desiderio di coltivare al meglio la terra che, per certi lavori, aveva bisogno di braccia maschili.

Il documento voleva pattuire con i padroni confini di orario e di paga. Come mai siete in possesso di tale documento?

La famiglia Motteran, di cui noi tre fratelli siamo eredi, aveva da sempre questo piccolo podere. Questo documento era la copia di un patto che tutte le famiglie che davano lavoro ai braccianti dovevano avere per applicarlo nelle paghe. Il mio bisnonno era ferraiolo, lavorava il ferro anche in forme artistiche, ma il figlio Giovanni era un tipo intraprendente che partito da poco, ancora giovanissimo, con capacità e fortuna, riuscì ad acquistare questo fondo agricolo che, dopo aver subito ulteriori allargamenti, noi tre fratelli conduciamo tuttora.

Giovanni Motteran, nato nel 1860

Angelica

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Come mai l’avete conservato? In fondo non parla direttamente di voi. Molti erano i documenti cartacei della famiglia e molti purtroppo sono andati perduti, “remenghi”. Ma questo, macchiato e ingiallito, ci sembrava importante ed è rimasto a raccontare la storia del paese. Era stato messo in granaio con altre scartoffie.

L’elenco delle prestazioni del bracciantato agricolo dà uno spaccato dell’agricoltura di cento anni fa a Minerbe. La vostra era un’azienda abbastanza grande per aver bisogno di manodopera?

Io posso riferire dei modi di vivere dei contadini di quando ero piccola o che mi sono stati raccontati, potrebbero rispecchiare un po’ gli anni del primo dopoguerra. I lavori si facevano tutti a mano ed erano molti a cominciare dalla gestione della legna che era pane a quel tempo. Venivano a lavorare anche dei ragazzini chiamati “fameji”. Le famiglie collocavano i numerosi figli, ancora piccoli, nelle aziende agricole perché portassero a casa qualcosa. Ricordo il ragazzo Natalini, che apparteneva a una famiglia numerosa. Si aveva bisogno anche di un dipendente stabile, l’ultimo è stato un certo Chiocchetta. Ricordo anche che c’è stato un periodo in cui c’era l’obbligo di assumere, proprio come si intuisce leggendo con attenzione questo patto.

Ricorda più donne o uomini? Ricordo molte donne ma anche la presenza di alcuni uomini.

Quali coltivazioni avevate che sono citate qui? Ad eccezione del riso tutte le altre culture erano presenti, la nostra economia era mista e composita. Si allevava anche il bestiame, necessario e utile per il tiro a costituire forza da traino. Gli animali erano quasi ammaestrati, si offrivano al momento di essere aggiogati. La legna da ardere era come pane a quel tempo. Con lo “stegagno” e la roncola si faceva la “smaia” a cadenza triennale. Con i piccoli rami le donne facevano fascine che radunate nella corte venivano anche vendute alle persone del paese mettendo mano alle legnaie dove, disposte ad arte e distinte, si erano seccate. Le donne del paese si informavano sui tempi di inizio vendita per avere legna per i focolari.

Secondo lei quali culture e relativi lavori erano praticati nella azienda Motteran negli anni venti del novecento?

Il riso certamente no, ma i rimanenti, in una economia agricola mista, c’erano tutti. Si coltivavano le viti e si produceva vino da vendere. Il concime era lo stallatico dispensato a mano nei campi. Oggi tutto è stravolto. La nostra azienda è cambiata nel tempo e si è riconvertita a frutteto, soia, viti. Abbiamo bisogno di manodopera stagionale.

Conosce qualche cognome di agricoltori citato qui? Quasi tutti, i Bertelli mi pare che conducessero la corte alla Busa al bivio per Anson.

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Intervista al signor Tullio Ferrari Chiediamo il suo contributo dato che rappresenta una famiglia che abita da più generazioni a Minerbe, paese che lei conosce bene avendo ricoperto il ruolo di sindaco negli anni ’90. Riconosce i cognomi presenti nel Patto?

Ricordo le famiglie di lavoratori agricoli di Minerbe e San Zenone che sono qui citati quali rappresentanti della Lega: Melegaro, Bertelli… Scarmagnan, che è un cognome minerbese, era il sindacalista che rappresentava la Federazione Provinciale. La rappresentanza degli agricoltori era costituita da proprietari e grossi fittavoli; Andreasi per esempio era il fattore della proprietà Campeggio del conte Bernini.

E il cognome Ferrari? Il Ferrari citato qui è probabilmente mio nonno Tullio, fratello di Emilio che a Santo Stefano originò un altro ramo della famiglia Ferrari. Aveva terreni di proprietà e in affitto. Era amico di Lino Menin, originario di San Zenone, persona influente in paese che diventò conduttore del fondo agricolo Bellinato avendo sposato Bellinato Giuseppina. Egli mi raccontava che in quegli anni il parroco di Minerbe, quello di San Zenone e Lino Menin chiesero a mio nonno Tullio, molto cattolico, di proporsi come sindaco in quei momenti difficili dato che non si trovava nessuno disposto a candidarsi. Aveva una famiglia numerosa e non intendeva affatto impegnarsi, ma i parroci motivarono il suo impegno civico come un dovere cristiano. Mio nonno si presentò alle elezioni comunali, ma come esponente del neonato Partito Popolare di Don Sturzo. Governò per poco, erano gli anni 1920-21, poi diede le dimissioni sempre per problemi conseguenti alle leghe, quindi subentrò il fascismo.

Di quali difficoltà si trattava? Nel dopoguerra non si verificò una guerra civile, ma una lotta civile sì, tra i lavoratori e i proprietari terrieri, rischiavano di darsele davvero, era in gioco la sicurezza fisica. C’erano le leghe bianche, quelle rosse e i proprietari che erano un po’divisi. In conclusione sono le posizioni politiche di centro, di sinistra e di destra. I contadini coalizzati nelle leghe facevano sciopero lasciando i proprietari in grandi difficoltà, pretendevano il controllo della manodopera anche nei confronti delle ditte che lavoravano per il Comune, come mi raccontava mio padre. Comandavano loro facendo lavorare solo chi aveva la tessera.

Cosa racconta delle leghe bianche? A mio parere il Veneto, cosiddetto bianco, affonda le radici in certe premesse storiche che risalgono al dominio austriaco che dominava i tanti popoli dell’impero con metodi repressivi, con governanti boemi, croati,…; in quel contesto i preti costituirono un potere alternativo, prendevano le parti della povera gente difendendola dalla prepotenza austriaca. Era il potere spirituale difficile da osteggiare da parte del potere imperiale d’impronta cattolica. Così anche nel primo dopoguerra, nonostante si respirasse dell’anticlericalismo, proseguirono in quel ruolo, prendendo iniziative volte a migliorare le condizioni economiche dei parrocchiani in quel periodo particolarmente difficile. Di fatto furono un punto di riferimento. Fondarono case di riposo, asili, orfanatrofi; favorirono la nascita di casse rurali, delle forme associative in difesa di giusti diritti nei confronti dei datori di lavoro.

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E delle leghe rosse? Erano tutti socialisti, volevano solo lavoro, e all’interno c’erano anche elementi bolscevichi.

Secondo lei il padrone rispettava i prezzi stabiliti dal patto? Sa giustificare la maggior paga oraria per la mietitura?

Di certo i lavoratori erano pagati secondo il patto. La paga elevata corrispondeva al periodo di massima richiesta di manodopera.

Cosa ricorda, per sentito dire, dell’economia di Minerbe negli anni di guerra? Industria vera e propria non ce n’era, era un paese agricolo. Spesso le aziende erano grosse affittanze che avevano la possibilità di ingrandirsi. L’affitto si pagava in due momenti, era collegato al raccolto e valutato in quintali di prodotto per campo secondo il valore in corso: per il frumento il giorno di San Giacomo, il 14 luglio, per il granoturco l’11 novembre. Il clero, in caso di piccole proprietà della chiesa, ricavava beni di prima necessità: galline, polenta, legna, vino …

La situazione sociale non era facile… I danneggiati da queste agitazioni sociali erano i proprietari. E il fascismo raccolse il loro malcontento.

Qual era la realtà agricola di un secolo fa a Minerbe? Oltre all’aspetto sociale il Patto agricolo del 1919 fa emergere un interessante spaccato dell’agricoltura di un secolo fa nel territorio di Minerbe. Le paghe e gli orari stabiliti riguardano i braccianti, ovvero i lavoratori con contratti saltuari stipulati in corrispondenza con i bisogni speciali delle colture nelle varie fasi. Non vengono citati i lavori relativi all’allevamento del bestiame molto praticato nelle stalle come ricordano gli anziani: infatti al punto sette si nomina l’erba medica e il trifoglio, come pure la falciatura. A differenza dei braccianti, i bovai avevano contratti duraturi nonostante la tradizionale scadenza dell’undici novembre nella ricorrenza di San Martino. A Minerbe non mancava l’acqua… Le ricchezza d’acqua del territorio si vede riflessa nella cura dovuta ai fossati che, soprattutto in inverno, venivano “spurgati”, riscavati nel letto con la vanga, per un corretto deflusso dell’acqua. Le alberature, per la maggior parte lungo i fossati a costituire adeguati frangivento, periodicamente erano spogliate completamente dei rami che costituivano fonte rinnovabile di energia. Vediamo nominata l’irrigazione della risaia, che poteva essere la preparazione dell’invaso. Il corrispondente femminile era il lavoro delle mondine che a 67 centesimi l’ora liberavano le piantine dalle malerbe; il contratto prevedeva che erano sufficienti sei ore giornaliere per quella postura faticosa. Di questa coltura restano nel territorio alcune pile, qualcuna in totale degrado, qualche altra recuperata al funzionamento sporadico con l’utilizzo dell’acqua corrente. Del “lavoro barche” rimane la forma dei fossati, i barcagni, in corrispondenza delle estese aie dove venivano scaricati i covoni. E i cereali? Da sempre il territorio minerbese è del tutto coltivato, in primis a cereali per una giusta rotazione delle colture: per primo è nominato il frumento, di cui chiunque ricorda la buona valutazione di qualche decennio fa, ma anche avena, orzo, segala. I lavori intensivi riguardavano il momento della mietitura, poi della trebbiatura nelle aie. I grani dovevano essere trasportati, con un lavoro gravoso, nel granaio, per una corretta essiccazione del prodotto.

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Quali altre colture ancora? Leggiamo che era praticata la coltura della vite anche se il terreno compatto di pianura non è l’ambiente elettivo della pianta, ma certo il vino che se ne poteva ricavare dava un buon reddito. All’inizio della primavera le piante venivano potate ovvero “bruscate”, quindi irrorate per contrastare i parassiti di vario genere, come specificato al punto dieci. Il primo punto che nomina il gelso si collega all’ultimo che parla della bachicoltura. Minerbe eccelleva già alla fine dell’ottocento per l’allevamento dei bachi da seta a livello industriale: la ditta dell’ingegner Bellinato commercializzava i bozzoli raccolti nelle famiglie che praticavano l’allevamento nelle case. La partecipazione di quella ditta alle fiere di primo livello è documentata da diplomi che riconoscevano il prestigio del prodotto. È citata anche la coltura delle barbabietole che erano lavorate negli zuccherifici del legnaghese.

Come immagina i lavori delle donne nel primo dopoguerra? Immaginiamo le donne del tempo impegnate nella gestione della casa e nelle cura dei numerosi figli e degli anziani. Le esigenze richiedevano uno sforzo ancora maggiore al momento dei lavori agricoli che le vedeva nei campi con gli stessi orari degli uomini. Occorre rilevare che la parità salariale era ancora un’idea lontana: la paga oraria era esattamente la metà di quella maschile. I lavori speciali riservati alle donne erano tipicamente femminili tali da richiedere minor forza, ma resistenza e pazienza: la zappatura, la mondatura del riso, la mietitura e trebbiatura dei cereali e altre piante da seme.

Marco G. e Isabella B.: Corte Biondani a San Zenone di Minerbe