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14. Le parabole in matteo cap. 13 ) Il capitolo 13 del Vangelo di Matteo ci offre il terzo dei cinque grandi discorsi di Gesù che caratterizzano l’opera matteana. Esso è dedicato alle parabole che Gesù raccontò nell’anno e mezzo del suo ministero in Galilea. E’ ambientato sulle rive del lago di Genezareth, ed è indirizzato alla gente comune, alle folle. Gesù si rivelò un ottimo parabolista, capace di usare un modo espressivo che era già presente nell’Antico Testamento (vedi ad esempio 2Sam 12,1-12), ma che egli adoperò con grande abbondanza, quasi facendolo il suo modo usuale di insegnare e di parlare. I Vangeli riportano ben 42 parabole raccontate da Gesù durante la sua vita pubblica. Delle 42 parabole riportate dai Vangeli: -tre sono comuni a tutti e tre i Sinottici (il seminatore, il granello di senape, i vignaioli omicidi); -dieci sono comuni a Matteo e Luca soltanto (andando dal giudice, i fanciulli sulla piazza, il ritorno offensivo dello spirito immondo, il lievito, la pecorella smarrita, il banchetto nuziale, il ladro di notte, il maggiordomo, i talenti/le mine, il fico seccato); -nove sono del solo Matteo (la zizzania, il tesoro nascosto nel campo, la perla, la rete, il servo spietato, gli operai mandati nella vigna, i due figli, le dieci vergini, il giudizio finale); -due sono del solo Marco (il seme che spunta da solo, il portiere); -diciotto sono del solo Luca (i due debitori, il buon samaritano, l'amico importuno, il ricco stolto, il ritorno del padrone, il fico sterile, la porta chiusa, la scelta dei posti, la scelta degli invitati, la costruzione della torre, la partenza per la guerra, la dramma perduta, il figliol prodigo, l'amministratore infedele, il ricco epulone, il servo inutile, il giudice iniquo, il fariseo e il pubblicano). L’evangelista Matteo, al capitolo 13, riunisce insieme un gruppo di parabole che Gesù raccontò con tutta probabilità in luoghi e in momenti diversi nel corso del suo apostolato in Galilea; ma che egli raccoglie in un unico “blocco”. Domandiamoci che cosa sia una parabola. La parabola anzitutto non è una similitudine, un paragone, in cui due realtà vengono semplicemente messe a confronto l'una con l'altra; ad esempio: "Come un fiore profuma una stanza, così la tua bontà profuma la casa in cui vivi"; oppure: "Come un uragano devasta la terra su cui si abbatte, così l'ira e la violenza dell'uomo portano rovina e distruzione nelle persone che ne sono colpite". Queste sono similitudini, paragoni; non sono parabole. 66

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14. Le parabole in matteo cap. 13 )

Il capitolo 13 del Vangelo di Matteo ci offre il terzo dei cinque grandi discorsi di Gesù che caratterizzano l’opera matteana. Esso è dedicato alle parabole che Gesù raccontò nell’anno e mezzo del suo ministero in Galilea. E’ ambientato sulle rive del lago di Genezareth, ed è indirizzato alla gente comune, alle folle.

Gesù si rivelò un ottimo parabolista, capace di usare un modo espressivo che era già presente nell’Antico Testamento (vedi ad esempio 2Sam 12,1-12), ma che egli adoperò con grande abbondanza, quasi facendolo il suo modo usuale di insegnare e di parlare. I Vangeli riportano ben 42 parabole raccontate da Gesù durante la sua vita pubblica.

Delle 42 parabole riportate dai Vangeli:-tre sono comuni a tutti e tre i Sinottici (il seminatore, il granello di senape, i vignaioli omicidi);-dieci sono comuni a Matteo e Luca soltanto (andando dal giudice, i fanciulli sulla piazza, il ritorno offensivo dello spirito immondo, il lievito, la pecorella smarrita, il banchetto nuziale, il ladro di notte, il maggiordomo, i talenti/le mine, il fico seccato);-nove sono del solo Matteo (la zizzania, il tesoro nascosto nel campo, la perla, la rete, il servo spietato, gli operai mandati nella vigna, i due figli, le dieci vergini, il giudizio finale);-due sono del solo Marco (il seme che spunta da solo, il portiere);-diciotto sono del solo Luca (i due debitori, il buon samaritano, l'amico importuno, il ricco stolto, il ritorno del padrone, il fico sterile, la porta chiusa, la scelta dei posti, la scelta degli invitati, la costruzione della torre, la partenza per la guerra, la dramma perduta, il figliol prodigo, l'amministratore infedele, il ricco epulone, il servo inutile, il giudice iniquo, il fariseo e il pubblicano).

L’evangelista Matteo, al capitolo 13, riunisce insieme un gruppo di parabole che Gesù raccontò con tutta probabilità in luoghi e in momenti diversi nel corso del suo apostolato in Galilea; ma che egli raccoglie in un unico “blocco”.

Domandiamoci che cosa sia una parabola.La parabola anzitutto non è una similitudine, un paragone, in cui due realtà vengono

semplicemente messe a confronto l'una con l'altra; ad esempio: "Come un fiore profuma una stanza, così la tua bontà profuma la casa in cui vivi"; oppure: "Come un uragano devasta la terra su cui si abbatte, così l'ira e la violenza dell'uomo portano rovina e distruzione nelle persone che ne sono colpite". Queste sono similitudini, paragoni; non sono parabole.

La parabola non è neppure un'allegoria. Nell'allegoria tutti e singoli gli elementi e i particolari del racconto hanno un corrispondente nella realtà. Ad esempio nell’allegoria della vite e i tralci, raccontata da Gesù in Gv 15,1-8, l'agricoltore è Dio; la vite è Cristo; i tralci siamo noi; se i tralci restano uniti alla vite vivono, così noi se restiamo uniti a Cristo viviamo della vita di Dio; l'agricoltore pota i tralci che portano frutto perché portino più frutto, così Dio agisce su di noi in modo anche doloroso, alle volte, perché portiamo maggiori frutti di bene; ecc.

La parabola invece è un racconto che parte da un fatto di esperienza (un fatto di esperienza noto generalmente anche agli ascoltatori), ma che viene presentato con un aspetto nuovo e singolare, con un aspetto inverosimile e in un certo senso strano che sorprende l’ascoltatore o il lettore, e gli fa dire: "No, di solito non succede così nella realtà; nella realtà di solito le cose vanno diversamente da come dice la parabola!"Sì, è vero, nella realtà di solito le cose non succedono come dice la parabola, anzi succedono proprio diversamente; ma Gesù, con le parabole, vuole appunto annunciare e insegnare la novità di Dio, il modo nuovo e singolare, sorprendente e inedito dell’agire di Dio, il suo farsi presente nella storia del mondo in modo inusitato; Gesù con le parabole vuole rivelare il volto sorprendente di Dio, quel volto e quello stile di agire che l’uomo non si aspetterebbe e non si immaginerebbe mai di lui. Per cui, proprio mediante gli aspetti singolari e originali che Gesù aggiunge ai fatti che racconta nelle parabole, egli insegna il “mistero” di Dio e annuncia le “sorprese” del Signore. Dio è novità;

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Dio è realtà che “spiazza” l’uomo! C'è dunque un aspetto di enigma e di stranezza nella parabola, un aspetto inatteso che lascia perplessi e stupiti, e che va quindi "ascoltato"; e che potrebbe anche -per la sua inverosimiglianza- essere disatteso o rifiutato. Gesù dirà più volte, alla fine delle parabole: “Chi ha orecchi per intendere, intenda”.

Facciamo qualche esempio. Il seminatore della parabola esce a seminare e semina su ogni tipo di terreno, anche sulla strada, tra i sassi e tra le spine. Ma il seminatore di Galilea non fa così! anzi, egli è ben attento a dove getta il seme per non sprecarlo inutilmente. Ma se il seminatore di Galilea non fa così, Dio fa proprio così! Egli semina e offre la sua parola a tutti, senza selezionare in anticipo le persone e senza escludere nessuno “a priori” (Mt 13,3-9).

Il pastore della parabola lascia le novantanove pecore sui monti e va in cerca di quella perduta. Ma il pastore di Galilea non fa così; egli non abbandonerebbe mai il suo gregge, lasciandolo esposto al pericolo dell’aggressione dei lupi, per mettersi alla ricerca di una sola pecora perduta! E' vero, il pastore di Galilea non fa così; ma Dio fa così! Egli è talmente appassionato della sua pecora perduta da commettere una tale…. imprudenza (Lc 15,4-7).

Una donna che fa il pane non mette solo un pugno di lievito in tre staia di fa rina, come fa la donna della parabola. Un pugno di levito infatti non è capace di far fermentare tre staia di farina (86 chili)! Ma Dio sì! Il suo Regno, pur essendo una piccola realtà, è capace di fermentare e rinnovare tutta la storia umana (Lc 13,20-21).

Una donna che perde una dramma e poi la ritrova non chiama tutte le amiche a far festa con lei, e non mette in subbuglio tutto il vicinato. Sarebbe una cosa eccessiva ed esagerata. Ma Dio fa proprio così quando ritrova un peccatore perduto: mette in movimento e in subbuglio tutto il paradiso, da quanto felice è! Per lui una festa infinita non è cosa eccessiva, quando un peccatore viene ritrovato (Lc 15,8-10).

Un creditore che ha due debitori, uno dei quali gli deve una piccola somma e l’altro una grande somma, non condona -di solito- il debito; ma attende, sollecita, insiste, chiede e continua ad esigere da tutti e due il pagamento di quanto gli spetta e di quanto gli è dovuto. Ma Dio non fa così. Dio condona il debito a tutti; Dio condona il debito a tutti i suoi creditori! Per cui, per paradosso, chi gli era più debitore viene da lui ad essere più favorito, e viene a ricevere da lui un trattamento di maggiore vantaggio! Per cui costui lo amerà anche particolarmente, e di più degli altri (Lc 7,36-50).

Il padrone di una vigna non dà, generalmente, a tutti gli operai lo stesso compenso, ma proporziona il compenso alla quantità di lavoro svolto da ciascuno di essi. Invece il padrone della vigna della parabola dà un denaro di paga sia agli operai che hanno lavorato tutta la giornata sia a quelli che hanno lavorato un’ora soltanto; e Dio fa così, dona a tutti la piena salvezza, sia a quelli che lo hanno servito per tutta la vita, sia a quelli che si sono convertiti all’ultima ora; perché la salvezza è, per tutti, un dono assolutamente gratuito! (Mt 20,1-16).

Gesù dunque, che aveva da rivelare il volto inedito di Dio e il suo modo sorprendente d’agire, fece ricorso alle parabole, racconti presi da situazioni familiari e vicine agli ascoltatori, ma con l’aggiunta di elementi particolari e originali, per far capire il “mistero” che andava annunciando.

All’inizio del discorso sulle parabole Matteo nota che Gesù stava insegnando lungo le rive del lago di Gennesaret e si rivolgeva alle folle (Mt 13,1-2). Le rive del lago di Gennesaret erano il luogo dove poteva riunirsi tutta la gente, anche la gente semplice e popolana, compresi i pellegrini di passaggio che proprio di là, lungo uno dei due bracci della “via maris”, si recavano a Gerusalemme e in Egitto, o da Gerusalemme e dall’Egitto ritornavano in patria. Alle folle, alla gente in genere, Gesù amava parlare in parabole, perché quello era il linguaggio più semplice e per loro più comprensibile. Agli scribi e ai farisei invece Gesù sapeva parlare in termini di disputa, di controversia, con numerosi richiami alle Sacre Scritture secondo i metodi rabbinici più raffinati (cfr Mt 19,1-9; Mc 12,24-27; Mc 12,35-37).

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Gesù, nel suo anno e mezzo di apostolato in Galilea, predicò e insegnò a tutti: ai farisei in sinagoga e nelle controversie; ai battisti, fino al punto da convertirne alcuni di loro a sé (Andrea, Giovanni, Pietro); agli Zeloti, fino a far diventare uno di loro suo apostolo (Simone); ai pubblicani e ai peccatori, andando a pranzo nelle loro case; ai discepoli, in casa e in disparte; alla gente in genere, lungo le rive del lago di Gennesaret.Il capitolo 13 di Matteo riporta sette parabole.

La parabola del seminatore (Mt 13,3-9; parall. Mc 4,3-9; Lc 8,5-8)

La prima è la parabola del seminatore che getta la semente su tutti i tipi di terreno; essa esprime una specie di bilancio sull’attività apostolica di Gesù in Galilea. Gesù nell’anno e mezzo del suo apostolato aveva seminato la Parola di Dio in tutti i tipi di terreno, aveva predicato a tutte le persone appartenenti a qualsiasi gruppo sociale, religioso o politico, senza esclusione alcuna e senza preclusione di sorta; e molta della sua parola non aveva trovato terreno buono, cioè non era stata accolta dalla gran parte dei farisei, dei battisti, degli zeloti, degli erodiani, dei pubblicani…; ma nel cuore di alcuni la sua parola aveva invece trovato posto ed era stata accolta. Gesù poteva contare su un gruppetto, i dodici apostoli che avevano accolto nel proprio cuore la sua parola e l’avevano fatta fruttare al cento per uno (si erano infatti decisi totalmente per lui e per il Regno di Dio!); Gesù aveva attorno a sé dei discepoli, che lo seguivano con disponibilità e con attenzione (costoro avevano fatto fruttare nella propria vita la parola di Gesù, e di Dio, al sessanta per uno); e Gesù aveva attorno a sé anche un gruppo di simpatizzanti che lo ascoltavano volentieri e lo cercavano (costoro avevano fatto fruttare in se stessi la proposta di Gesù al trenta per uno). L’opera apostolica di Gesù affidatagli dal Padre, dunque, non era andata fallita, non era andata perduta, anzi aveva ottenuto il suo risultato; il Regno di Dio era stato realmente piantato sulla terra e la storia del mondo aveva ormai dentro di sé il germe fecondo e vivo dell’opera di Dio. Dio aveva mandato il suo Figlio nel mondo perché egli piantasse il suo Regno sulla terra, e tale Regno era stato piantato, benché i seguaci di Gesù fossero ancora molto pochi…

Questa visione delle cose, questa fiducia e ottimismo Gesù lo attingeva dal Padre, nelle sue lunghe ore di preghiera e di colloquio con lui; ed egli lo voleva trasmettere ai suoi apostoli, ai suoi discepoli, e a tutta la gente.

Rilettura della parabola del seminatore fatta dalla Chiesa primitiva (Mt 13,18-23; parall. Mc 4,13-20; Lc 8,11-15).

La parabola del seminatore è stata, in un secondo momento, reinterpretata dalla Chiesa primitiva (Mt 13,18-23). La Chiesa primitiva, dopo la morte e la risurrezione di Gesù, ha riflettuto su questa parabola raccontata dal Signore, e da essa ha tratto nuovi insegnamenti adatti e consoni alla sua nuova situazione in cui si trovava.

La Chiesa dei primi tempi cominciò ad avere all’interno di sé, accanto a persone entusiaste e generosissime, anche dei cristiani tiepidi e poco impegnati che, dopo aver accolto con prontezza il Vangelo, si erano raffreddati nel loro entusiasmo; cristiani fragili e deboli che venivano meno di fronte alle persecuzioni; cristiani che si lasciavano risucchiare dalle lusinghe del mondo, dal richiamo delle ricchezze, dal vivere immersi nelle cose della terra, presi e catturati dalle preoccupazioni della vita. Per cui non avevano più spazio nel loro cuore per la Parola di Gesù.Ecco allora che la Chiesa dei primi tempi si servì della parabola del seminatore raccontata da Gesù per sviluppare una riflessione sui vari terreni in cui il seme della Parola di Dio poteva cadere, al fine di invitare i cristiani ad essere “terreno buono”. La riflessione della Chiesa si fermò e si concentrò

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proprio sull’esame dei terreni, istituendo un preciso parallelo tra ciascuno di essi e le singole situazioni dei cristiani di allora.

Il primo terreno, indicato dalla parabola come “strada”, su cui il seme cade ma resta in superficie tanto che gli uccelli vengono a beccarlo e a portarlo via, sono quei cristiani che non permettono alla Parola di Dio, udita, di entrare nella loro mente e di scendere nel loro cuore; gli uccelli che la beccano e la portano via sono il simbolo di Satana, che ha facile gioco e possibilità di rubare la Parola dalla mente di tali cristiani. Satana cerca in tutti i modi di portare via la Parola, perché egli sa che l’uomo finchè conserva in sé la Parola di Dio è impeccabile (1Gv 3,9); mentre, una volta privato della Parola di Dio, diventa attaccabile da tutte le parti. Il cristiano che ode la Parola di Dio deve offrirle profondità di accoglienza e saperla conservare a lungo nel cuore.

Il secondo terreno è il terreno sassoso, che accoglie il seme ma non ha profondità sufficiente perché le radici del seme possano affondare quanto occorre, per cui al sopraggiungere del sole e del caldo la semente si secca e resta bruciata. Tale terreno è simbolo dei cristiani che inizialmente accolgono con gioia la Parola di Dio, ma sono deboli e incostanti, e al sopraggiungere di qualche tribolazione o delle persecuzioni a causa del Vangelo cedono e vengono meno. Nei primi tempi della Chiesa c’era forte la persecuzione violenta, e anche oggi in varie parti della terra è ancora in atto il tentativo di bloccare la fede cristiana arrivando fino ad uccidere; nelle nostre terre la persecuzione si presenta in maniera più sottile e più subdola, ma non per questo meno pericolosa: col tentativo della mentalità pagana del mondo di infiltrarsi e penetrare nel modo di pensare e di agire dei cristiani, così che vengano meno ai principi del Vangelo. E’ facile per i cristiani che vogliono rimanere fedeli a Cristo sentirsi derisi, compassionati, considerati dei diversi, ed emarginati dalla società; è difficile rimanere fedeli a Cristo e resistere a tale persecuzione. Richiede fortezza d’animo e profondo radicamento nella Parola di Dio.

Il terzo terreno è il terreno pieno di spine, che accoglie il seme ma che poi lo soffoca con le sue spine. Le spine, secondo la parabola, sono di due tipi: ci sono le spine che sono le preoccupazioni della vita (le preoccupazioni possono diventare così forti e così invadenti l’animo umano da assorbire del tutto le forze interiori fino a far dimenticare completamente la Parola); spine possono essere il desiderio delle ricchezze, che legano e occupano pienamente il cuore fino a renderlo insensibile a Dio e ai fratelli.

Infine il quarto terreno è il terreno buono, che fa fruttare con grande abbondanza il seme della parola di Dio. Tale terreno simboleggia i cuori generosi che ascoltano la parola di Dio e la “comprendono”, cioè la lasciano scendere ed entrare nella vita.

Perché Gesù parla in parabole (Mt 13,10-17; parall. Mc 4,10-12. 25; Lc 8,9-10. 18).

Tra la parabola del seminatore e la sua spiegazione l’evangelista Matteo pone alcuni versetti che a prima vista fanno difficoltà.

La prima parte del versetto 11 mostra la cura particolare di Gesù nei confronti dei suoi dodici apostoli. Essi sarebbero dovuti diventare i continuatori della sua opera e della sua missione, e quindi Gesù, nel corso della sua vita pubblica, riservò loro una particolare attenzione per curarne la preparazione e la formazione: “A voi è dato di conoscere i misteri del Regno dei cieli”. Agli apostoli Gesù riservò un insegnamento più approfondito e più completo; si intrattenne con loro più a lungo e in maggiore intimità; li aiutò in modo del tutto speciale a capire e a comprendere il significato del suo messaggio e della sua opera (Mt 13,36; Mc 7,17; Mc 3,13-14). Gli apostoli si lasciarono da lui istruire, fino a “capire”, fino a “comprendere” i misteri del Regno.

La seconda parte del versetto 11 e i versetti 12-13, fanno, a prima vista, problema. Le parole di Gesù: “ma a loro non è dato”, materialmente prese, sembrerebbero dire che Gesù non vuole che le folle, la gente comune, possa “conoscere i misteri del Regno dei cieli”, cioè riesca a comprendere la verità e il messaggio che egli è venuto a portare. Ma questo non può essere il senso del testo!

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Gesù è venuto proprio per comunicare la verità di Dio, e l’ha offerta a tutti (!); è il messaggio della parabola del seminatore appena raccontata, che semina su tutti i tipi di terreno. Gesù vuole la salvezza di tutti e di ciascuno.Il senso di tali parole va capito tenendo presente il contesto in cui si trovano. Qual è il contesto? Gesù sta raccontando delle parabole, e le parabole -come abbiamo visto- contengono degli elementi e degli aspetti singolari e di novità che gli uditori devono “voler” accettare e “voler” accogliere, perché non sono secondo il pensiero corrente umano; per cui sta alla libera volontà degli uditori accettare oppure chiudersi e rifiutare. Non è che con le parabole Gesù voglia velare la verità e non farsi capire, ma le parabole sono avvolte necessariamente da un “velo” (il velo che racchiude la novità del messaggio), e gli uditori devono “voler” penetrare e andare oltre quel velo. Se Gesù dice che “a loro non è dato di capire i misteri del Regno dei cieli”, non è perché egli non li voglia rivelare e comunicare (anzi, è proprio per comunicarli più facilmente e più comprensibilmente che egli ricorre al linguaggio delle parabole, linguaggio concreto e vicino all’esperienza e alla sensibilità degli ascoltatori); ma se “non è loro dato” è perché gli ascoltatori non vogliono aprirsi e accettare. “Chi ha orecchi intenda”, era la finale della parabola del seminatore appena sopra raccontata. Dunque se alle folle “non è dato” di capire, è perché esse, per propria scelta, non vogliono capire; e non già perché Gesù maliziosamente voglia nascondere loro qualcosa. Per cui la responsabilità è delle folle se “pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono”(Mt 13,13).A questo riguardo Matteo inserisce, ai vv 14-15, una lunga citazione del Libro del profeta Isaia (Is 6,9-10), ove Isaia, parlando dell’esito della propria missione, annuncia che essa avrebbe trovato chiusura e ostilità da parte del popolo di Israele. Analogo sarà, presso molti, l’esito della missione di Gesù. Ma “beati”, fortunati, i dodici apostoli, che riescono a vedere e ad udire le grandi cose che Gesù dice e compie, cose che neppure i profeti e i giusti dell’Antico Testamento poterono vedere, perché vissuti prima di lui.

Ci resta ancora da spiegare Mt 13,12, che dice: “A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Il senso di questa frase, conservata anch’essa nel contesto delle parabole, da cui trae luce, significa che chi davanti alle parabole di Gesù “ha la buona volontà” di capire e di accettare il suo insegnamento riceve il dono di comprenderne il messaggio e sarà quindi “nell’abbondanza” della rivelazione; chi invece “non ha tale buona volontà” perde “anche quello che ha”, cioè viene a trovarsi nella povertà spirituale più assoluta, in quanto la conoscenza e la verità che possedeva viene immensamente superata dalla verità portata da Gesù e da essa quindi resa insufficiente e caduca.

La parabola della zizzania ( Mt 13,24-30. 36-43 )

La parabola della zizzania mette in scena un contadino che stranamente, rispetto a quanto fanno tutti i contadini, non strappa dal campo l’erba cattiva a mano a mano che cresce e mette in pericolo la maturazione del grano, ma si riserva di intervenire solo alla fine, al momento della mietitura. Nessun contadino di questo mondo si comporta così, ma ripulisce ben bene il campo ogni volta che l’erba cattiva compare ed è troppo cresciuta; invece il Regno dei cieli si regola secondo una “legge” diversa, segue il comportamento del contadino della parabola.

Il messaggio è un forte invito alla pazienza, a non voler impazientemente e imprudentemente “ripulire” il mondo da ogni errore e da ogni scandalo, in quanto tale operazione, fatta dall’uomo col suo istinto, con la sua scarsa chiaroveggenza e con le sue passioni, potrebbe produrre più danni che benefici. A separare il male dal bene in modo perfetto, definitivo e giusto è competente solo Dio, ed egli lo farà, alla fine dei tempi. L’uomo dunque deve saper sopportare la presenza del male accanto al bene, lungo la storia, senza ergersi a severo e duro censore che vuole sopprimere ed eliminare, punendo, ogni errore, difetto e male.

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In Mt 13,36-43 l’evangelista mette in bocca a Gesù la spiegazione della parabola; spiegazione che potrebbe essere stata data da Gesù stesso, o che potrebbe essere il frutto della riflessione della comunità cristiana primitiva sulla parabola (come era accaduto nel caso della parabola del seminatore in Mt 13,18-23). In ogni caso la parabola, nella spiegazione che ne riceve, viene trasformata in allegoria, in quanto ogni particolare della parabola viene preso a significare un elemento corrispondente nella realtà.

La parabola del granello di senapa ( Mt 13,31-33; parall. Mc 4,30-32; Lc 13,18-19).

La realtà che Gesù era riuscito a far nascere attorno a sé, dopo un anno, un anno e mezzo di attività, era una realtà ancora dalle piccole e modeste proporzioni. C’erano attorno a lui dodici uomini che gli stavano molto vicini; c’era un bel gruppo di discepoli e di discepole che lo seguivano con affetto e attenzione; ma che cos’era tutto ciò a fronte dell’intero popolo di Israele, e a fronte dell’impianto politico-sociale-religioso ebraico? Se poi pensiamo che quel piccolo gruppo era destinato ad invadere tutto il mondo e a diventare proposta di vita per l’intera umanità, come non vederlo piccolo, troppo piccolo e troppo modesto, addirittura in pericolo di venir meno e di scomparire?

Con questa parabola Gesù esprime la propria fiducia nell’opera del Padre. Il Padre gli aveva affidato il compito di piantare il Regno di Dio nel mondo, e quel Regno di Dio nel mondo che era lui e la sua comunità, pur piccola e ancora modesta cosa, aveva in sé una grande vitalità; era come un minuscolo seme che sarebbe cresciuto e avrebbe dato origine ad una grande pianta. Gesù per dire questo si rifà al più piccolo di tutti i semi, il seme di senapa, che, cresciuto e sviluppatosi, “diventa più grande degli altri ortaggi e diventa un albero”. In tal modo Gesù vuole esprimere una specie di paradosso: quel paradosso che gli uomini faticano ad accettare, e cioè che Dio sa fare cose grandi a partire da cose piccole.

Allo stesso tempo Gesù, con questa parabola, vuole invitare i suoi discepoli ad avere fede e fiducia nell’onnipotenza di Dio.

La parabola del lievito (Mt 13,33; parall. Lc 13,20-21).

Con la parabola del lievito immesso in una grande quantità di pasta Gesù vuole insegnare un’altra verità circa il Regno dei Cieli: la straordinaria capacità che il Regno dei Cieli ha di far lievitare e trasformare in “pane buono” tutta la storia umana, facendola diventare storia di salvezza, storia “salvata”. Anche qui Gesù gioca al paradosso: mette in scena un pugno di lievito dentro “tre misure di farina”, dentro 86 kg. di farina. Come può un pugno di lievito far fermentare 86 kg. di farina? Eppure il Regno di Dio è capace di far lievitare e di salvare tutta la storia umana!

Le parabole del tesoro nascosto e della perla preziosa (Mt 13,44-46)

Con le parabole del tesoro nascosto e della perla preziosa Gesù vuole insegnare l’importanza e il valore del Regno dei Cieli. Capitava al tempo di Gesù che un lavoratore preso ad opera da un ricco possidente per arare e vangare i suoi campi, trovasse fortuitamente un deposito di monete o di altri oggetti preziosi sepolti nel terreno (per essere messi al sicuro dai ladri); tesoro di cui lo stesso proprietario non era a conoscenza (avendo egli comperato o avuto in eredità quel campo dopo che si era perduta la memoria del tesoro stesso ivi nascosto). Gesù prende lo spunto da questi fatti, che talora succedevano, per indicare a modello il comportamento di quel lavoratore, che va e vende tutti i propri beni per acquistare il campo e il tesoro trovato.

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La prospettiva della parabola non riguarda l’aspetto di onestà o di disonestà del lavoratore (il quale avrebbe dovuto avvisare il padrone del campo del tesoro trovato), ma è tutta concentrata sull’immensa preziosità del tesoro rinvenuto, tale da meritare di essere acquistato a costo di ogni altro bene. Così è il regno dei Cieli. Il regno dei Cieli è un tesoro così importante e prezioso che niente lo eguaglia, e per cui vale la pena dare via tutto, con gioia!Uguale è il senso della parabola della perla preziosa.

La parabola della rete gettata in mare (Mt 13,47-50)

Lungo le rive del lago di Gennesareth c’erano molti pescatori che pescavano, e che, una volta ritirate le reti dalla pesca, si sedevano a riva per selezionare il pesce. La Legge di Mosè classificava come pesci “impuri”, cioè non da mangiarsi, i pesci che non avevano pinne e squame (Lev 11,10), come ad esempio le anguille, gli animali acquatici con guscio; per cui i pescatori, una volta scesi a riva, gettavano via o ributtavano in acqua i pesci che non potevano essere mangiati e che quindi essi non avrebbero potuto vendere.

Gesù prende lo spunto da questa scena per parlare del regno dei Cieli, e per avvertire che alla fine del mondo ci sarà un giudizio, ci sarà una “cernita”, in base alla quale i buoni giungeranno a salvezza, mentre i cattivi cadranno in perdizione. La “fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti” è simbolo della perdizione eterna, dell’inferno.

Conclusione del discorso delle parabole (Mt 13,51-52)

Gesù chiede ai suoi apostoli e alle folle se hanno capito i messaggi delle parabole che egli ha raccontato, ed essi rispondono di sì. Allora Gesù conclude dicendo che ogni pio ebreo osservante della Legge di Mosè (ogni “scriba”) che abbia accolto il suo insegnamento e si sia fatto cristiano (sia divenuto “suo discepolo”) è come un uomo saggio e ricco (un “padrone di casa”) che possiede tutti i beni e tutte le ricchezze dell’Antico e del Nuovo Testamento (che “dal suo tesoro estrae cose nuove e cose antiche).

La parabola del servo spietato (Mt 18,23-35)

Il re della parabola, che è simbolo di Dio, condonò al suo suddito una somma immensa, diecimila talenti. Un talento pesava kg. 34.200, e poteva essere d’argento o d’oro, per cui diecimila talenti corrispondevano al peso di 342 tonnellate d’argento o d’oro; una somma straordinariamente alta, che il servo non sarebbe mai riuscito a soddisfare. Si pensi che le tasse che Erode il grande riusciva a riscuotere in un anno da tutta la Palestina arrivavano a novecento talenti. Quel re fu sommamente generoso nel condonare diecimila talenti, ebbe una misericordia infinita! Dio è disposto a perdonare colpe grandissime, è disposto a perdonare tutto, proprio tutto, e sempre. Chiede che anche noi siamo misericordiosi.

Il punto nevralgico della parabola sta tutto nella sproporzione tra il debito condonato dal re al suddito, e il debito che il suddito a sua volta avrebbe dovuto condonare al suo debitore. Sproporzione immensa: cento denari a fronte di diecimila talenti! Certo, cento denari non erano proprio niente (erano il salario di un bracciante per quattro mesi di lavoro), ma che cosa erano cento denari a fronte di diecimila talenti? Proprio e precisamente in questa sproporzione tra i due debiti sta l’insegnamento di Gesù. Difatti il re dice: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, come io ho avuto pietà

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di te?” La misericordia ricevuta era motivo e pungolo per una misericordia da accordare. Sul punto della sproporzione tra i due debiti va fissata l’attenzione per capire esattamente la parabola; l’attenzione va posta, fuori di parabola, sulla straordinaria misura del perdono di Dio nei nostri riguardi, che è infinitamente superiore rispetto alla misura di perdono che noi siamo chiamati ad accordare ai nostri debitori.

Noi abbiamo un problema grosso, quello di non avere piena coscienza di quanto grave sia il nostro debito contratto con Dio, debito che continuamente contraiamo, a causa dei nostri peccati. Con i nostri peccati noi abbiamo contratto un debito con Dio infinito. Una osservazione che è tanto vera, è questa: “la preziosità di un dono dipende dalla dignità della persona che lo fa; la gravità di un’offesa dipende dalla dignità della persona a cui l’offesa è fatta”. Se a regalarmi un oggetto è una persona importante, quell’oggetto mi è più prezioso che se me l’avesse data una persona qualsiasi (questo Rosario me l’ha regalato il papa, mi è prezioso!); se un’offesa io la faccio ad una persona importante, al Presidente della Repubblica ad esempio, è un’offesa più grave che se la faccio a un semplice cittadino, tant’è vero che la legge mi punisce più severamente. Ora, con i nostri peccati noi offendiamo Dio, e Dio ha una dignità infinita; quindi i nostri peccati contengono in se stessi una gravità infinita. Tant’è vero che non sarebbero bastati atti di riparazione compiuti da semplici uomini, per riparare il debito contratto con Dio; era necessaria una riparazione fatta dall’uomo-Dio, una riparazione che avesse valore infinito. Il nostro debito con Dio è di diecimila talenti, è un debito insolvibile, che noi non riusciremmo mai a saldare! per cui saremmo per sempre perduti. Ma Dio ci ha perdonati. La sua misericordia si é piegata su di noi fino all’ultimo, fino in fondo. Fatti oggetto di una così grande misericordia da parte di Dio, dobbiamo essere capaci di usare misericordia verso chi ci avesse offeso e ci fosse debitore.

La parabola della pecorella smarrita e ritrovata ( Lc 15,4-7 )

Un pastore aveva cento pecore e ne perse una; quando le contò s’accorse che una mancava, e allora lasciò le novantanove nel deserto e si lanciò alla ricerca di quella perduta. E’ un pastore speciale il pastore di questa parabola, un pastore che si comporta come nessun altro pastore si comporterebbe. Nessun pastore infatti, se si accorgesse di aver perduto una pecora, lascerebbe tutto il gregge incustodito nel deserto, col rischio che venga un lupo a sbranare le pecore, o che qualche malintenzionato venga a portarne via qualcuna. Ma questo pastore fa proprio così; lascia incustodito tutto il gregge per quell’unica pecora perduta; anzi “abbandona” tutto il gregge. Matteo nel raccontare questa parabola (Mt 18,12-14) dice che il pastore “lascia”, “afìemi” ( αφίημι ) le pecore, Luca usa un verbo più forte: “abbandona”, “kataleipo” ( καταλείπω) le pecore. Questo pastore, in un certo senso, perde la testa per la pecora perduta, fino a trascurare e ad abbandonare le altre novantanove. Nessun pastore umano farebbe così.

Ma Gesù sta parlando di Dio, e Dio è Padre. Ora un padre, anche se ha molti figli, si preoccupa per ciascuno di essi come se fosse l’unico, si trattasse pure del figlio cattivo. Dio è Padre, e il singolo peccatore gli è importante e prezioso quanto quell’unica pecora perduta era importante e preziosa per il pastore. Anche il Vangelo apòcrifo di Tommaso riporta la parabola della pecorella smarrita, ma dice che la pecorella andata perduta era la più grande, la preferita dal pastore, e che di quella egli andò alla ricerca (Vangelo di Tommaso, n 107). Gerard Rossè commenta: “L’insegnamento di Gesù è dal Vangelo di Tommaso totalmente stravolto. L’evangelista Luca dice che se un uomo perde una pecora del gregge, farà l’impossibile per trovarla non perché è la migliore, ma semplicemente perché gli appartiene. Così agisce Dio. Se per Dio il peccatore ha tanto valore, non è perché possiede qualità particolari, ma perché ha bisogno d’aiuto e di essere salvato” (G. Rossè, Il Vangelo di Luca, ed. Città Nuova, Roma 1992, pag.600). Per Dio ogni singola persona è tutto! San Paolo l’aveva capito quando scrisse nella lettera ai Gàlati: “Cristo mi ha amato, e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). Per ciascuno Cristo è morto, ed è come se per lui ciascuno fosse l’unico al mondo.

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Per questa pecora, bene così prezioso, il pastore si muove e si mette a cercarla. Era necessario, perché la pecora fosse recuperata; da sola, quella pecora, non sarebbe stata capace di ritrovare il gregge, disorientata e sperduta com’era, e forse anche ferita e incapace di camminare. Dio per primo si mette sulle tracce dell’uomo. Fu così fin dall’inizio: Adamo, dopo il peccato, si nascose, e non sarebbe più uscito dal suo nascondiglio, per paura di Dio, per paura di incontrare il suo sguardo, se Dio per primo non lo avesse cercato, non gli avesse rivolto la parola, non gli avesse detto: “Adamo, dove sei?” (Gen 3,9). E così è sempre; per ogni peccatore. La preghiera eucaristica della Riconciliazione prima ce lo ricorda quando dice: “Eravamo morti a causa del peccato e incapaci di accostarci a te, ma tu nella tua misericordia ci sei venuto incontro col tuo Figlio morto e risorto per noi”.

Il pastore della parabola cerca la sua pecora perduta “finchè non la trova”, dice Luca. E’ una ricerca ostinata quella del pastore, una ricerca perseverante, per nessun motivo disposta ad abbandonare la pecora al suo destino. Particolare stupendo, che fa sperare la salvezza di tutti! Hans Urs von Bàlthasar , nel suo volumetto”Breve discorso sull’inferno” sostiene la tesi, avvalorata da una lunga citazione che egli fa di Edith Stein, Santa Teresa Benedetta della Croce, che se da una parte dobbiamo ritenere, in base ai dati della Sacra Scrittura, che l’inferno e la dannazione eterna sono una vera e reale possibilità per l’uomo, in quanto la libertà dell’uomo è tale da poter scegliere anche contro Dio in modo definitivo, dall’altra parte, sempre in base ai dati della Sacra Scrittura che ci parlano di una infinita misericordia da parte di Dio, possiamo nutrire fondata speranza che tutti si salvino. “La Chiesa, che ha canonizzato tanti individui -scrive Hans Urs von Bàlthasar- non si è mai pronunciata sulla dannazione di alcuno. Neppure su quella di Giuda, benchè la Scrittura dica: “Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato” (Mt 26,24). Chi può sapere di che tipo fu il pentimento che egli provò, quando vide che Gesù era stato condannato e restituì i trenta denari ai sommi sacerdoti?” (Hans Urs von Bàlthasar, Breve discorso sull’inferno, ed. Queriniana, Brescia 1988, pag.33). Possiamo sperare che Dio sappia portare tutti a salvezza, e che sappia agire con ciascuno in modo che tutti, liberamente, lo accolgano e lo accettino. Occorre tuttavia cercare di rendere sempre più sicura la propria vocazione e la propria salvezza, come esorta l’apostolo Pietro (2Pt 1,10), lasciandoci trovare da Dio che ci cerca.

La parabola continua descrivendo l’atteggiamento buono e misericordioso del pastore nei confronti della pecora, una volta ritrovata. Non la rimprovera, non la percuote, non la spinge facendola camminare davanti a sé a forza, ma se la carica sulle spalle e la porta lui. La porta sulle spalle perché ferita, o perché spossata per il suo lungo vagare, o solo per farla sentire amata e darle tranquillità. Davvero grande è la misericordia di questo pastore! “Dio ha cura di voi”, dice l’apostolo Pietro nella sua prima lettera (1Pt 5,7); e ricordiamo il bellissimo passo del profeta Ezechiele: “Così dice il Signore: andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia” (Ez 34,16).

Il pastore della parabola, anziché fare ritorno al gregge, cioè alle novantanove pecore che ha abbandonato nel deserto e riunire ad esse la pecora che si era perduta (cosa logica e attesa dal lettore), va, con la pecora ritrovata, a casa a fare festa con gli amici. Quasi dimentica le altre novantanove! La sua gioia per aver ritrovato la pecora è così grande, che sente il bisogno di convocare subito amici e vicini e condividere con loro quanto ha in cuore. Ha in cuore una gioia così incontenibile che la deve partecipare; e, in molti, essa diventa ancora più grande.

Il tema della gioia del pastore è un tema importante nell’economia della parabola. Per ben tre volte esso è fatto risuonare, e in modo esplicito: al v 5 “quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle”; al v 6 “rallegratevi con me”; al v 7 “il vi dico: vi sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte”. Anzi, è precisamente sulla gioia del pastore che verte il significato di fondo della parabola. Essa vuole presentare la gioia immensa di Dio, e di tutto il paradiso, per ogni peccatore che si ravvede. E la cosa è detta con un’espressione tipicamente ebraica, che contrappone in modo esagerato due elementi (le 99 pecore da una parte e la pecora perduta e ritrovata dall’altra) per far emergere con forza ed evidenza il dato che interessa: “vi sarà gioia in cielo per un solo

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peccatore che si converte, più che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. La gioia di Dio per un peccatore che si converte è straordinariamente grande, è immensa! Ogni conversione è il trionfo della sua misericordia! Il Misericordioso è felice di usare misericordia.Matteo, che pure racconta la parabola della pecorella smarrita ritrovata (Mt 18,12-14), le dà un significato diverso. Per lui il comportamento del pastore che va in cerca della pecora perduta deve diventare esempio e stimolo ai membri della comunità di Gesù perché si interessino e vadano in cerca di coloro che dalla comunità si fossero allontanati. Il taglio della parabola in Matteo è di tipo morale, il taglio della parabola in Luca è di tipo kerigmàtico, cioè di annuncio; è l’annuncio della misericordia di Dio verso l’uomo, e in particolare verso l’uomo peccatore.

La parabola della dramma perduta e ritrovata ( Lc 15,8-10 )

La parabola della dramma perduta e ritrovata è la ripresentazione della parabola della pecorella smarrita e ritrovata, con immagini diverse. L’ambiente non è più il deserto, luogo aperto, ma è una casa; il protagonista non è più un uomo, il pastore, ma è una donna; la realtà perduta non è più un animale, la pecora, ma è una cosa, la dramma. Tuttavia il messaggio è identico e lo stesso: Dio è misericordioso e si mette alla ricerca del peccatore che si è perduto.Anche il procedere delle due parabole è il medesimo:

Lc 15,4-7 Lc 15,8-10

quale uomo quale donna cento pecore dieci dramme perduta perde una unaabbandona nel deserto accende la lampadava spazza la casafinchè non la trova finchè non la trovaquando l’ha trovata dopo averla trovatachiama gli amici e i vicini chiama le amiche e le vicinerallegratevi con me rallegratevi con meperché ho trovato perché ho trovatola pecora la drammache si era perduta che avevo perdutacosì vi dico così vi dicovi sarà gioia in cielo vi è gioia davanti agli angeli di Dioper un solo peccatore per un solo peccatoreche si converte che si converte

Si tratta di un duplicato. “La ripetizione è uno dei principali moduli espressivi di cui un abile narratore può disporre per comunicare ciò che più gli importa. Se poi si ribadisce lo stesso concetto usando un’immagine differente, non si ha una semplice ripetizione, ma un arricchimento. Nel nostro caso il parabolista utilizza la nuova immagine per sottolineare con maggior forza la vivacità della ricerca. Come nella parabola precedente si era diffuso nel descrivere i particolari del ritrovamento, così qui indugia nel riportare i dettagli della ricerca: la donna accende la lampada, scopa la casa, cerca accuratamente la dramma, e non si dà pace finchè non l’abbia trovata.

Quella dramma (una dramma valeva quanto la paga giornaliera di un bracciante) era preziosa per quella donna perché faceva parte dei suoi beni personali, quelli che aveva ricevuto in dote dal padre al momento del matrimonio; rivestiva quindi anche un valore affettivo oltre che venale, E’ ciò che siamo noi per Dio. Dio dice nel libro del profeta Isaia: “Non temere, perché io ti

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ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare, perché io sono il Signore tuo Dio, e tu sei prezioso ai miei occhi, degno di stima e io ti amo” (Is 43,1-4).

La donna fa tutto quello che può per ritrovare la dramma (l’uso della scopa si spiega in una casa di allora, col pavimento rugoso e pieno di piccole buche; la scopa permette di far tintinnare la moneta). Così fa Dio; egli mette in atto tutte le sue premure per ritrovare il peccatore, Nel libro del profeta Isaia Dio dice: “Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?” (Is 5,4). E nel libro del profeta Geremia dice: “Da quando i vostri padri sono usciti dall’Egitto fino ad oggi, io vi ho inviato di continuo i miei profeti, con assidua premura” (Ger 7,25). E nella pienezza dei tempi Dio ha mandato il suo Figlio ad incarnarsi e a morire in croce per noi. Poteva fare qualcosa di più, qualcosa di “oltre” quanto ha fatto, il Signore? Anche questa parabola della dramma perduta e ritrovata insiste sulla gioia della donna nel ritrovare la sua moneta, cioè, fuori di immagine, sulla gioia di Dio nel ritrovare anche un solo peccatore.

La parabola del padre misericordioso ( Lc 15,11-32 )Ed ora la terza parabola della misericordia del capitolo quindici di Luca, la parabola del

“figliol prodigo”, o, meglio, del “padre misericordioso”. E’ più giusto chiamarla così perché la figura centrale della parabola è il padre. Quel padre ha due figli, non solo il figliol prodigo; ed egli si mostra buono e misericordioso con tutti e due i suoi figli. E’ giusto chiamarla così la parabola anche perché Gesù sta parlando agli scribi e ai farisei, e a loro vuole rivelare quanto Dio sia buono con i peccatori, impersonato nella figura del padre.

Un famoso scrittore russo scrisse tra i suoi appunti che se fosse stato preso e incarcerato dal regime comunista e non gli fosse stato possibile portare con sé nessun libro, avrebbe desiderato soltanto di poter tenere in tasca, nascosta, la pagina del Vangelo di Luca che racconta questa parabola, “perché quella è la mia storia”, scrisse, “e lì si racconta di me, proprio di me; e lì si racconta di Dio, del vero Dio, di Dio che è Padre, che è misericordia, che è remissione delle colpe, e perdona”.

La parabola inizia mettendo in scena il figlio più giovane, che esige dal padre la parte di eredità che gli sarebbe spettata alla morte del padre stesso. Noi proviamo un moto interiore di repulsa verso questo figlio che è così cinico nel suo cuore da far balenare nella mente del padre, quasi anticipandolo, il giorno della sua morte. “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”, dice il figlio prodigo. Ma gli spettava davvero l’eredità? L’eredità che un padre lascia ai figli non è sempre, e comunque, un dono? Quel padre, dice Luca, divise tra i suoi due figli le sue sostanze, e diede al figlio più giovane ciò che gli avrebbe lasciato alla sua morte. Chissà con quale dolore e sofferenza quel padre avrà atteso al computo, al conteggio dei suoi beni per fare un testamento così anticipato; tanto più che aveva capito che la richiesta del figlio era finalizzata ad andarsene via di casa, a lasciarlo, ad abbandonarlo. Avrà sentito un colpo al cuore. Quel figlio non era contento di lui, non sentiva più la sua casa come la propria casa; era insoddisfatto e stufo; non era felice in casa! Quel figlio non aveva capito il cuore del padre. Non aveva capito che era amato. E sì che il padre gli aveva voluto bene! Dio si lamenta così nel libro del profeta Geremia: “Sono forse divenuto un deserto per Israele o una terra dove è sempre notte?” (Ger 2,31). E nel libro del profeta Michea Dio dice: “Popolo mio, che cosa ti ho fatto? in che cosa ti ho stancato? Rispondimi” (Mi 6,3).

Quante volte capita anche a noi di non essere sufficientemente contenti di Dio; che il suo amore non ci basti; che la sua Parola e l’Eucaristia non ci dicano più di tanto; che l’essere suoi figli non ci tocchi; che il suo essere stato messo in croce ci lasci indifferenti, o commossi solo per un momento, il venerdì santo; che il continuo perdono dei peccati che egli sempre ci accorda ogni volta che glielo chiediamo ci lascia ingrati…; e cerchiamo altrove, ci rivolgiamo ad altri amori, ad altre

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acque che immaginiamo più fresche e più dissetanti dell’acqua che è lui. “Il mio popolo -dice Dio nel libro del profeta Geremia- ha commesso due iniquità: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne screpolate che non trattengono l’acqua” (Ger 2,13). “Io ho un’acqua viva -dice Gesù alla Samaritana-, un’acqua che chi la beve non avrà più sete in eterno” (Gv 4,10-15). Ma noi siamo contenti di quest’acqua? Il Vescovo di Beluno-Feltre, Vincenzo Savio, morto il 31 marzo 2004, una settimana prima della morte ha scritto nel suo testamento spirituale: “La cosa più importante che voglio dire a tutti è che io sono senza misura contento di Dio. Una meraviglia! Una sorpresa continua, tale da poter dire a me, con convinzione, che in ogni istante la sua misura era piena e pigiata” (Dal Testamento spirituale di mons. Vincenzo Savio, vescovo di Belluno-Felttre, 25 marzo 2004).

Il figlio prodigo se ne andò in un paese lontano; in un paese che più lontano di così non poteva essere, perché era un paese dove si allevavano i maiali (e i maiali in Israele non si allevavano, perché erano ritenuti immondi); e quindi un paese lontano non solo geograficamente, ma anche culturalmente, anche dal punto di vista religioso e delle tradizioni, dal punto di vista della fede; un paese pagano. Il figlio prodigo vuole tagliare tutte le radici con suo padre, con la sua casa, col suo ambiente. Tutte le radici, di qualsiasi tipo; in cerca di libertà e di indipendenza. E’ il peccato di Adamo; è il peccato di ogni uomo; è l’atteggiamento che sta al fondo di ogni peccato: il volersi sganciare da Dio e il volersi costruire da sé. Mentre la verità è che noi non ci facciamo da noi, ma siamo fatti da un Altro, da Dio. Don Giussani esprime ciò con una frase lapidaria quanto mai efficace quando dice:”Io sono Tu che mi fai”. La cosa più stupida e più irragionevole che un fiume potrebbe fare è quella di staccarsi dalla sorgente. E spesso siamo così stupidi e irragionevoli anche noi. C’è al fondo di ogni cuore un che di trasgressivo e di anarchico. La via dell’autonomia da Dio però porta alla rovina. Illude e promette vita, in realtà porta morte. Il figliol prodigo a un certo punto si trova rovinato, perduto. Finisce in mezzo a una mandria di porci, immondo anche lui come loro.

A questo punto rientra in se stesso e dice: “Stavo meglio in casa di mio padre; mi alzerò e tornerò da lui e gli dirò: ‘padre, ho peccato, accettami come un tuo servo, come un tuo garzone”. Grande gesto, questo del figlio! gesto decisivo e di salvezza. Adamo si era nascosto dopo il suo peccato; questo giovane ha il coraggio di tornare da suo padre. Adamo sarebbe rimasto perduto per sempre; questo giovane, nel ritorno, trova salvezza.

Notiamo: non è proprio nobile il motivo per cui egli torna da suo padre. Non è precisamente un motivo d’amore. L’evangelista Luca lo lascia capire chiaramente anche con la forma del verbo che usa. “Porèusomai” ( πορευσομαι ), dice il figliol prodigo: “andrò”. “Porèusomai” è la forma media del verbo “porèuo” ( πορευω ). La forma media in greco esprime interesse, azione fatta per proprio interesse, a proprio vantaggio, per proprio tornaconto. Il figliol prodigo si alza e si incammina verso casa per proprio tornaconto; non torna a casa perché dice: “Povero mio padre! forse è morto di crepacuore ad avere un figlio in giro per il mondo senza sapere dove sia. Tornerò perché abbia la consolazione di avermi tra le sue braccia”. No. Egli dice invece. “porèusomai”, “tornerò a casa perché ho bisogno, perchè io qui muoio di fame”. E’ quindi un motivo di interesse ed egoistico quello che lo spinge a tornare. Ma al padre va bene lostesso. Al padre va bene tutto, pur di avere il figlio a casa. Così buono è Dio! Ci accetta sempre; ci accetta in qualsiasi modo; ci accetta per qualsiasi motivo! E non ci fa rimproveri, non ci fa grossi esami di coscienza. E’ bello nella parabola vedere che il padre non lascia neppure finire al figlio il discorso di richiesta di perdono che il figlio si era preparato. Glielo tronca a metà! Non lo lascia finire. Gli cade sul collo e lo copre di baci. E’ stato bravo quel figlio ad aver avuto il coraggio di tornare! Poteva temere di essere cacciato, di trovare la porta chiusa, e di non tornare. Invece ha avuto fiducia in suo padre.

E giunto a casa trovò un padre che era anche madre. L’evangelista Luca quando descrive il momento del padre che scorge da lontano il suo figlio che sta tornando, usa un verbo particolare che non si addice propriamente a un genitore uomo, ma piuttosto a un genitore donna, si addice ad una

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“madre”. Dice Luca: “Quando il figlio era ancora lontano il padre lo vide, ne ebbe compassione e gli corse incontro” Quel “ne ebbe compassione” nel testo greco è il verbo “esplagchnìsthe” ( εσπλαγχνίσθη ), che è l’aoristo del verbo "splagchnìzo” (σπλαγχνίζω), e "splagchnìzo” significa “sentirsi muovere dentro le viscere”, “sentirsi sconvolgere l’utero” ("splagchnìzo” deriva infatti da "splàgchna", σπλάγχνα, che è l'utero, il grembo materno). "Splagchnìzo” dunque è il verbo che esprime lo sconvolgimento, anche fisico, che prova dentro di sé una madre qualora veda il suo figlio in difficoltà, in pericolo. Il padre della parabola è anche “madre”. Dio è padre e madre insieme. Dio ama di un amore perfetto, pieno, totale; un amore che è insieme promozione paterna verso il bene, e tenerezza materna accogliente e misericordiosa. Sono commoventi i testi di Is 63,15-16 (Dio-padre) e di Is 66,12-13 (Dio-madre).

E Luca insiste sull’amore e sulla tenerezza di quel padre-madre, nella sua parabola, anche quando descrive ciò che il padre fa quando ha il figlio davanti a sé. “Gli si gettò al collo”, dice Luca, “e lo baciò”. Così non è proprio tradotto bene. L’italiano non rende tutta la forza del testo greco. Il testo greco non dice: “gli si gettò al collo”, ma dice “cadde (“epèpesen”, επέπεσεν) sopra il suo collo”. Quel padre “cadde” sopra il collo del figlio come attratto e attirato dal collo, dal volto del figlio. Il padre non si gettò, quasi dovendo fare un atto di volontà, e come traendo da sè la decisione di gettarsi al collo del figlio, ma si trovò “caduto” sul collo del figlio, come irresistibilmente attratto dal volto del figlio tornato! Dio non può stare senza di noi; Dio perde l’equilibrio davanti a noi, davanti all’uomo, davanti all’umanità peccatrice, povera e perduta. Dio nella sua misericordia si china su di noi e “cade” su di noi, cade tra di noi e si trova ad essere uomo, uomo tra gli uomini, si trova ad essere Verbo incarnato!

Luca poi dice che quel padre baciò il figlio: gli si gettò al collo e “lo baciò”. Neanche qui l’italiano rende compiutamente il greco. Il verbo greco che Luca usa dice di più del semplice “baciare”. Luca usa il verbo “katafilèo” (καταφιλέω), che è un composto del verbo “filèo” (φιλέω), un rafforzativo di “filèo”. “Filèo” significa baciare, e “katafileo”, che è il suo rafforzativo, il suo intensivo, significa “coprire di baci”. Thomas Pellegrini, che ha tradotto i quattro Vangeli in dialetto bellunese, dice così: “l’à basà e strabasà” (Thomas Pellegrini, I Vangeli in dialetto bellunese, ed. Istituto di Scienze Religiose “San Gregorio Magno, Belluno 2005, pag.211), lo ha baciato e strabaciato! lo ha coperto di baci! .

Poi Luca continua a descrivere il comportamento del padre, che ricopre il figlio del vestito più bello, gli mette l’anello al dito, i calzari ai piedi e fa uccidere il vitello grasso. L’accoglienza del padre è descritta con sette verbi all’imperativo che indicano altrettante azioni nei confronti del figlio: “portate il vestito più bello; fateglielo indossare; mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi; prendete il vitello grasso; ammazzatelo; mangiamo; facciamo festa”. Sette azioni, sette gesti. E’ un numero a caso? o un numero, il sette, il numero della totalità e della completezza, scelto apposta per indicare che il padre fece tutto, quel giorno, ciò che poteva fare per il figlio tornato?

“Portate il vestito più bello e fateglielo indossare”, dice il padre. Il figliol prodigo si era abbrutìto, aveva perso dignità, era finito tra i porci; e ora il padre, facendogli indossare il vestito più bello, gli ridà onore e lo riporta alla bellezza e allo splendore primitivi. Così fa il Signore col peccatore: ristampa in lui la propria immagine, ri-imprime in lui le proprie fattezze, la propria gloria, il proprio volto. Noi, peccatori, ci vergogniamo di noi stessi e ci vediamo brutti, deformi dopo il nostro peccato, siamo portati a rifiutarci, ma dopo l’abbraccio del Dio misericordioso noi siamo fatti “nuova creazione” (2Cor 5,17), e siamo capaci di volerci ancora bene e accettarci. La vera strada per stare bene con noi stessi e il vero segreto per conservare l’autostima di noi non siamo noi stessi, le nostre capacità, le nostre doti, le nostre opere, ma il suo perdono, il suo abbraccio buono, il suo rivestirci di sé. “Gerusalemme alzati”!, dice Isaia, alla città devastata e distrutta dagli eserciti di Nabuccodonosor, “alzati e rivestiti di luce, perché viene a te la tua luce” (Is 60,1).

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“Mettetegli l’anello al dito”, dice il padre. Si tratta probabilmente di un anello con sigillo, e quindi il figlio prodigo viene ristabilito nella dignità filiale con tutta l’autorità e i poteri ad essa annessi rispetto ai servi di casa.

”Mettetegli i sandali ai piedi”. Il sandali erano il segno di un uomo libero; lo schiavo camminava a piedi scalzi.

“Prendete il vitello grasso e ammazzatelo” Il testo di Luca dice alla lettera: “prendete il vitello nutrito col grano”, il vitello “siteutòn” (σιτευτόν). In greco “sitìon” (σιτίον) significa “grano”, e “siteutòn” significa “nutrito con il grano”. Si nutre forse un vitello con il grano? ad un vitello non si dà forse da mangiare erba e fieno? Ma a quel vitello il padre del figliol prodigo ha dato da mangiare grano, lo ha allevato col grano, con un cibo cioè del tutto particolare e speciale, per riservarlo per un giorno speciale, per una festa e un giorno che avrebbe dovuto essere celebrato con un banchetto speciale; e quale giorno più speciale, per quel padre, del giorno del ritorno del figlio? Il banchetto che viene imbandito è un banchetto ricco, abbondante. Luca per descriverlo usa un verbo particolare, il verbo “eufràino” ( ευφραίνω ), che indica un banchetto che solo gente facoltosa può permettersi. Il verbo “eufràino” ricorre solo altre due volte nel Vangelo di Luca, per descrivere i banchetti lussuosi del ricco stolto (Lc 12,19) e del ricco epulone (Lc 16,19). E dal v 25 veniamo a sapere che il padre ha anche provveduto ad un’orchestra strumentale per rendere quel banchetto più festoso e più gioioso. Dunque il padre ha fatto proprio tutto ciò che poteva per il suo figlio tornato!

Il figlio, tornato a casa, non solo fu felice lui, ma fece felice anche suo padre. Dovette essere felice, quel giorno, quel padre! di una felicità immensa! Ma chi gliela diede quella felicità? Gliela diede il figlio; il figlio, tornando. Noi possiamo dare gioia a Dio. Convertendoci e tornando a lui, noi lo facciamo felice. Di una felicità che noi solo gli possiamo dare. Dio, pur essendo Dio, non può darsi questa felicità, la felicità di averci tra le sue braccia; questa felicità gliela possiamo dare solo noi, con la nostra libertà Mistero straordinario! L’uomo che fa felice Dio! e per di più l’uomo peccatore che fa felice Dio! Ogni volta che andiamo a confessarci noi facciamo felice Dio. Andiamo allora a confessarci con questa intenzione, con il desiderio di fare felice Dio, e sarà più bello e meno faticoso!

Ma c’è ancora qualcosa di grande che il padre della parabola fa nei confronti del suo figlio prodigo, anzi dei suoi due figli, perché aveva due figli, e non uno solo, quel padre.Nei confronti del figlio prodigo egli lo aiuta a sentirsi ancora “figlio”. “Ma come? io ho peccato e tradito l’amore di mio padre”, ragiona tra sé il figlio prodigo; “ora gli sto davanti come il suo disonore; e sono qui solo per bisogno, e perché stretto dalla morsa della fame. Sono qui per interesse, non per amore. Se potrò stare ancora in questa casa, potrò starci solo da servo. “Trattami o padre come uno dei tuoi servi, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre gli dice invece: “No, tu non sarai qui come servo, tu sei e sarai qui ancora, e sempre, come prima, come mio figlio!”. Tant’è vero che fa portare la veste più bella, l’anello da mettere al dito, e i sandali da mettere ai piedi. Il figlio sarebbe stato disposto a rinunciare ad essere figlio, ma il padre, quel padre, non può e non ce la fa a non essere più suo padre. Ha bisogno, lui, che quel ragazzo, quel giovane, sia ancora suo figlio, e dice: “Facciamo festa perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. Quel padre fa sentire e fa risuonare, anche materialmente, agli orecchi del figlio che egli è ancora figlio e che lui è ancora suo padre.

Noi quando sbagliamo, quando ci allontaniamo da Dio, abbiamo paura che le cose tra noi e Dio non siano più quelle di prima, che qualcosa ormai si sia rotto per sempre e compromesso in modo irreparabile. Il nostro nemico, Satana, ci spinge a pensare e ci dice: “Non sei più degno di Dio, non puoi più andare da lui?” Egli, Satana, è “l’accusatore”, dice il libro dell’Apocalisse (Ap 12,10); è colui che prima ci spinge al male, e poi, quando l’abbiamo commesso, ci accusa del male che abbiamo commesso. Ma Dio invece ci supplica di sentirci ancora suoi “figli”, ci chiede di chiamarlo ancora “padre”, con la confidenza e la sicurezza di sempre, quella di prima del peccato! Egli, Dio, è così buono con noi che vuole salvaguardare e salvare, conservare in noi la nostra

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dignità di figli, che noi, o per vergogna, o per un senso di orgogliosa giustizia, vorremmo cancellare e rimuovere da noi stessi.

E anche nei riguardi dell’altro figlio, il più vecchio, il padre della parabola compie qualcosa di grande; lo aiuta anche lui a sentirsi “figlio”. Infatti anche il figlio più vecchio aveva smarrito il senso e la coscienza della propria figliolanza. Al padre che lo prega di entrare in casa e di partecipare alla festa del fratello ritornato, il figlio maggiore risponde: “Ecco io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un solo comando e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici”. Io ti “servo” da tanti anni. Sì, quel figlio non ha mai trasgredito nessuno dei comandi del padre, ma l’ha fatto da “servo”; lo ha fatto da servo e non da figlio; lo ha fatto per dovere e non per amore! Lo ha fatto da servo; infatti egli dice: “Io ti servo da tanti anni”, e il testo greco del Vangelo usa proprio il verbo “dulèuo” (δουλέυω), che è il verbo che indica il lavoro dello schiavo. Ciò che il figlio maggiore ha fatto, lo ha fatto da schiavo!

Povero quel padre! Aveva due figli, uno se n’è andato e ora non se la sente più di essere suo figlio; l’altro è sempre rimasto con lui, ma gli è stato servo e non figlio. E invece lui, il padre ha bisogno di figli! Tant’è vero che al figlio più vecchio egli dice: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo”. Lo chiama “figlio”, gli fa risuonare agli orecchi e al cuore questa parola grande, come aveva fatto con il figlio minore; gli ricorda e lo richiama a quella piena comunione di beni e di vita che il padre intende offrigli e che gli ha sempre offerto “Tutto ciò che è mio è tuo”. Non aveva senso quindi che il padre gli desse un capretto per paga, come compenso, come remunerazione; era tutto suo ciò che il padre aveva; ne era anche lui, come il padre, e allo stesso modo, il proprietario e il padrone!

Anche noi siamo chiamati a conservare la coscienza di chi siamo e di che cosa già possediamo. Possediamo Dio, possediamo il paradiso; ci aspetta ed è già nostra l’eredità del cielo “che non si corrompe, non si macchia e non marcisce” (1Pt 1,4); “siamo eredi di Dio, coeredi di Cristo” (Rom 8,17). San Paolo nella lettera agli Efesini prega perchè i suoi cristiani abbiano spirito di sapienza e di rivelazione per comprendere la grande speranza a cui sono chiamati (Ef 1,16-19). “Siamo già ora figli”, esclama San Giovanni nella sua prima lettera, anche se ancora non si è manifestato del tutto ciò che questo vuol dire, ciò che questo comporta e significa. Lo sarà negli ultimi tempi, “quando vedremo Dio così come egli è” (1Gv 3,2). E sarà tutto! Allora non ha senso che noi serviamo Dio per dovere, ha senso che noi facciamo la sua volontà per amore, solo per amore; ogni cosa per amore.

E da ultimo, il padre della parabola compie un’altra grande cosa nei riguardi del figlio maggiore: lo aiuta a conservare in sé un’altra dimensione, un altro valore, quello della fraternità. Ricordiamo: il figlio maggiore, quando si avvicina a casa e sente il rumore della musica e delle danze, e viene a sapere che quella musica e quelle danze sono per suo fratello che è tornato, si arrabbia e non vuole entrare in casa. “No, egli dice: non voglio entrare. Non è giusto che mio padre faccia così. Quello che è tornato a casa io non lo considero più mio fratello; se n’è andato, e … chiuso. Per me non è più quello di prima. Mio padre ha il cuore troppo molle, troppo debole”. Difatti parlando con il padre egli dice: “Ora che è tornato questo tuo figlio che ha divorato i tuoi beni con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Dice: ora che è tornato “tuo figlio”; non dice ora che è tornato “mio fratello”, ma “tuo figlio”. E’ “tuo figlio”; se lo vuoi ancora considerare tale, è affare tuo, ma non è più mio fratello. E il padre a pregarlo: “ Bisognava far festa; questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. Questo tuo fratello…! Entra. Vieni. Facciamo un'unica festa; con tuo fratello!

Anche noi, se non stiamo attenti, le persone che hanno sbagliato le giudichiamo con durezza. Prendiamo da loro facilmente le distanze. Siamo portati come a cancellarle da noi, a sentirci diversi da loro. E invece sono sempre nostri fratelli, perché figli dell’unico e stesso Padre, Dio. Magari fratelli peccatori, ma fratelli nostri. Il conservare la fraternità è un dono, e un valore. Solo così ci si può aiutare e continuare a camminare insieme, senza farci del male reciprocamente. E anche questo

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è Dio che la conserva in noi. E’ lui che può darci e comunicarci “viscere di misericordia”, le sue viscere di misericordia, di Lui che è padre e madre insieme. E’ lui che può renderci capaci di guardarci da fratelli. Somma misericordia!

Ed ora, a mò di conclusione al commento di questa parabola, azzardiamo una lettura che non parte dal senso letterale del testo, e che ha piuttosto l’aspetto di un senso accomodato, ma che ha una sua suggestione e verità, e che può farci crescere ulteriormente nell’amore a Gesù, e quindi può avere una sua utilità. Nel figliol prodigo della parabola noi possiamo vedere Gesù. Gesù è il Figlio di Dio che ha lasciato il Cielo, la casa de Padre, ed è venuto tra noi. E’ venuto in una regione lontana, la terra, l’umanità immersa nel peccato e nel male, lontana da Dio. Si è spinto addirittura nel punto più distante da Dio, gli inferi, là dove giaceva l’uomo più peccatore del mondo. Egli si è messo a fianco del più peccatore dei peccatori, l’ultimo di tutti, e da lì ha iniziato il processo di ritorno al Padre; non da solo, ma con noi suoi fratelli, gli uomini, presi per mano. Egli è il Figlio prodigo; prodigo nel senso che ha dato via tutto ciò che aveva e tutto ciò che era, fino alla vita, senza tenere nulla per sé, per riscattarci tutti. Egli si è presentato al Padre lacero e sporco, imbrattato ben più del figliol prodigo della parabola, perché ricoperto di tutti i peccati del mondo dagli inizi dell’umanità fino alla fine della storia. Egli ha compiuto un atto di fiducia nel Padre ben più grande, infinitamente più grande, di quello fatto dal figliol prodigo quando disse: “Mi alzerò e andrò da mio padre”. Cristo, ricoperto di tutti i peccati del mondo, sentendo in maniera infinita la sua indegnità, davanti al Padre, perchè “fatto peccato” per i nostri peccati (2Cor 5,21), ha avuto la forza, la fede di tornare a Dio sperando di non essere rifiutato. “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46), disse sulle croce subito prima di morire. E fu accolto dal Padre. E in lui fummo accolti anche tutti noi. Tutti riportati a casa! Da una misericordia infinita!

La parabola dell’ amministratore disonesto (Lc 16,1-9)

Per comprendere bene questa parabola, che ci si presenta con qualche aspetto di oscurità, occorre considerarla alla luce degli usi e dei costumi in Palestina al tempo di Gesù.

Al tempo di Gesù i grandi proprietari terrieri usavano mettere in mano i propri beni ad un uomo di fiducia, che li amministrasse. L’amministratore non percepiva nessun compenso da parte del proprietario terriero per questo servizio, ma doveva provvedere per conto proprio a vivere e a guadagnare. Egli lo faceva servendosi dell’ufficio stesso di amministratore, maggiorando, presso i clienti del suo padrone, la nota dei beni del padrone che ad essi egli vendeva. Ad esempio, se vendeva ad un cliente cinquanta barili d’olio del suo padrone, egli, sulla ricevuta che consegnava in mano al cliente, scriveva cinquantadue o cinquantacinque, così che il cliente, al momento del pagamento finale, pagasse cinquantadue o cinquantacinque barili d’olio, e non cinquanta, come effettivamente aveva acquistato; la differenza andava nelle tasche dell’amministratore; ciò era tollerato da tutti, anche dagli stessi acquirenti.

Ma l’amministratore della parabola di Gesù maggiorava il compenso a favore di se stesso in misura esagerata ed esorbitante. Cinquanta barili d’olio egli li faceva diventare cento, e ottanta misure di grano egli le faceva diventare cento, esigendo per sè un onorario esagerato, ingiusto e disonesto. Per questo la gente cominciò a lamentarsi col padrone e ad accusare presso di lui l’amministratore. Il padrone allora chiamò l’amministratore e gli disse: “Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore”.

L’amministratore, vista la mala parata, cercò di salvarsi in qualche modo, tentando di farsi degli amici che un giorno lo avessero aiutato, quando egli sarebbe stato privato del suo ufficio di amministratore e sarebbe rimasto senza lavoro. Per la verità, avrebbe potuto cercarsi un’altra occupazione, ma….. “zappare, non ho forza; mendicare, mi vergogno”… Allora ad un cliente sulla cui ricevuta egli aveva scritto “cento barili d’olio” disse: “scrivi cinquanta”, cioè scrivi l’importo di quanto effettivamente tu hai acquistato dal mio padrone; io rinuncerò al compenso dei cinquanta

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barili d’olio in più che avevo esigito da te e che avevo segnato sulla ricevuta, a mio interesse. E a un altro cliente disse: “Tu hai acquistato dal mio padrone ottanta misure di grano? Bene, io rinuncio alle venti in più che ho segnato sulla tua ricevuta all’atto della vendita; scrivi ottanta”. Così facendo quell’amministratore non solo rinunciava al di più che disonestamente aveva imposto ai clienti del suo padrone, ma rinunciava anche a quel compenso giusto che avrebbe potuto, con buona pace di tutti, richiedere. In tal modo egli sperava di farsi degli “amici”, usando a loro un trattamento di favore, oltre che, prima ancora, di giustizia.

La parabola dice che “il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”. Evidentemente il padrone non lodò l’amministratore per il fatto che nel suo lavoro era stato disonesto (la disonestà, anzi, era stata proprio il motivo per cui il padrone aveva deciso di rimuovere dall’ufficio quel suo dipendente); ma lo lodò perché era stato scaltro, lo lodò “ per la sua scaltrezza” -dice il testo- , cioè per il fatto che, dopo essere stato disonesto, egli era stato astuto nel trovare il modo di “farsi degli amici” per mezzo del denaro che aveva disonestamente maneggiato.

Gesù, dopo aver raccontato la parabola, dice che “i figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce”; egli vuole dire che spesso la gente che non ha fede e non ha scrupoli morali sa meglio trovare i mezzi più adatti e più efficaci per raggiungere i propri scopi (magari non buoni e di puro interesse terreno) di quanto non sappiano fare i credenti per raggiungere il vero importante scopo, quello di salvarsi l’anima per l’eternità. Anche per salvarsi l’anima occorre una certa “furbizia”, quella di non attaccare il cuore alle cose di quaggiù in modo disordinato e non secondo Dio.

L’invito finale di Gesù è: “Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne; è l’invito ad usare della ricchezza acquistata disonestamente per fare del bene, per compiere opere di carità verso i bisognosi, in modo che nel giorno del giudizio finale essi ci aprano le porte del paradiso e parlino bene di noi a Dio.

Si potrebbe porsi un’ulteriore domanda: “disonesta ricchezza” è anche e diventa anche quella che, pur acquistata onestamente, si rivela per noi superflua, a fronte di persone che si trovassero in necessità e non avessero il necessario per vivere dignitosamente? La Bibbia sembrerebbe proprio dire di sì. La Bibbia dice che si deve saper far parte dei propri beni con chi è nel bisogno. La carità lo esige, altrimenti non si è a posto davanti a Dio; il superfluo è, per noi, ricchezza “disonesta”, cioè non gradita a Dio.

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