ISPI · netta tra democrazie e autoritarismi. Il mutamento del significato e del ruolo della...

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ISPI Quadrimestrale dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale n. 2 - Settembre 2006 Democrazia e legittimità ISPI Quaderni di Relazioni Internazionali n. 2 2006 Quaderni di Relazioni Internazionali Democrazia e legittimità

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ISPI

Quadrimestrale dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

n. 2 - Settembre 2006

Democrazia e legittimità

ISPI Quaderni di Relazioni Internazionali

n.2 2006Quaderni di Relazioni Internazionali

Dem

ocrazia e legittimità

Dossier - Democrazia e legittimitàChe cosa c’è di democratico nella pace democratica?Una democrazia senza eguaglianzaÈ possibile una governance democratica del sistema globale?Democratic Peace and Non-ProliferationOrdine internazionale e democrazia

Osservatorio InternazionaleRealpolitik e valori democratici nell’Alleanza AtlanticaDottrina Rumsfeld 2006: la fiera delle ambiguità

Documentazione

9 788823 860391

ISBN 88-238-6039-3

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Editorialedi Boris Biancheri

dossier Democrazia e legittimità

Che cosa c’è di democratico nella pace democratica?Daniele Archibugi e Mathias Koenig-Archibugi

Una democrazia senza eguaglianza.I paradossi di un nuovo ordine internazionale democraticoAlessandro Colombo

Diplomatia: il punto di vistaMassimo Marotti

È possibile una governance democratica del sistema globale?Alberto Martinelli

Democratic Peace and Non-ProliferationGeorge Perkovich

Ordine internazionale e democrazia.L’allargamento dell’Unione Europea e della Nato dopo il 1989Marco Clementi

osservatorio internazionale

Realpolitik e valori democratici nell’Alleanza Atlantica durante la guerra freddaMassimo De Leonardis

Dottrina Rumsfeld 2006: la fiera delle ambiguitàCorrado Stefanachi

documentazionea cura di Antonio Mascia

Quadrennial Defense Review Report 2006

La revisione della Global Posture americana

L’accordo sul nucleare civile tra Stati Uniti e India

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Quaderni di Relazioni InternazionaliComitato di direzioneAlessandro Colombo, Franco Zallio

Comitato editorialeBoris Biancheri (Presidente ISPI), Franco Bruni(Vicepresidente ISPI), Alessandro Colombo, MarioDeaglio, Massimo De Leonardis, Maurizio Ferrera,Alberto Martinelli, Vittorio Emanuele Parsi, MarcoPedrazzi, Sergio Romano, Carlo Secchi(Vicepresidente ISPI), Maria Weber, Franco Zallio

Antonio Mascia (Coordinamento editoriale)

[email protected] © 2006 ISPIPeriodico quadrimestrale registrato al Tribunale di Milano al n. 150 del 01/03/2006Direttore Responsabile: Franco ZallioSede redazione: Via Clerici, 5 - 20121 Milano

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Quaderni di Relazioni Internazionali

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Il richiamo costante alla democrazia costituisce uno dei tratti distintivi del panoramapolitico globale di quest’inizio secolo.Il concetto di democrazia viene declinato con significati almeno parzialmente ineditie con una ampiezza tale da farne uno degli oggetti di maggiore interesse perosservatori, studiosi e protagonisti delle relazioni internazionali.

Il primo aspetto degno di nota risiede nella dilatazione del raggio d’azione dellademocrazia. In un contesto internazionale globalizzato e sempre più interdipendente, essacessa di essere relegata all’interno dei confini nazionali per divenire un elemento di primopiano dell’interazione politica internazionale.

La manifestazione più evidente di questa evoluzione assume concretezza nelladiffusione, ora per “imitazione” ora per “esportazione”, dei meccanismi, delle procedure edelle istituzioni democratiche. Tale processo è culminato in un esponenziale aumento delnumero dei regimi democratici, registratosi a partire dalla metà degli anni Settanta delNovecento. Se allora si contavano solamente una trentina di democrazie oggi ve ne sonoquasi centoventi – sebbene alcune siano tali più sul piano formale che su quello sostanziale.Nel corso degli ultimi tre decenni si è assistito ad un vero e proprio capovolgimento delleproporzioni numeriche tra regimi democratici e regimi autoritari, e oggi oltre due terzi deipaesi appartengono al primo gruppo.

Tuttavia, quanto detto finora coglie solo la superficie della questione. Al di là del pursignificativo dato quantitativo – che testimonia a favore di un processo incrementaleapparentemente irreversibile – ciò che desta maggiore interesse è l’aspetto qualitativo ditale dinamica espansiva. Nel quadro politico internazionale delineato dall’implosione delblocco sovietico e dal successivo collasso dell’equilibrio bipolare, la diffusione dellademocrazia avviene contestualmente ad un ampliamento del significato della stessa.L’attributo “democratico”, in definitiva, viene investito di una rinnovata funzione che loconfigura come elemento di legittimazione internazionale.

Editorialedi Boris Biancheri

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editoriale

Il rovescio della medaglia di tale tendenza è incarnato da un rischio implicito inessa: vale a dire che lo stesso attributo democratico assurga a strumento didiscriminazione tra i regimi democratici e quelli che tali non sono. Il pericolo dascongiurare è rappresentato dal profilarsi di una nuova linea di faglia che – dopo lafrattura est-ovest ricompostasi con la conclusione guerra fredda – tracci una cesuranetta tra democrazie e autoritarismi.

Il mutamento del significato e del ruolo della democrazia si palesa, inoltre, nellamisura in cui essa prende ad essere concepita come uno strumento per la regolazione dellerelazioni tra stati. La democrazia viene intesa, in quest’ottica, come un composito insiemedi regole e procedure – mutuato da quelle sperimentate a lungo e con successo sul pianopolitico interno – finalizzato all’individuazione di metodi pacifici per la soluzionedell’endemica conflittualità internazionale.

Si tratta di una questione che attualmente – fatta salva la non trascurabile eccezioneeuropea – ha modo di manifestarsi solamente nelle vesti di speculazione concettuale, e checiononostante merita attenzione.

Sebbene sia ardito sposare la prospettiva di chi intravede l’approssimarsi di unademocrazia cosmopolita, è difficile negare che si siano realizzati passi importanti sulla viadell’individuazione di procedure e strumenti democratici di governance globale.

Accanto ai lungamente discussi disegni di riforma delle organizzazioni internazionali –Nazioni Unite in primis – l’unico effettivo esempio di meccanismo virtuoso in grado dicondurre in un’ottica prospettica ad un’effettiva pratica democratica al di là dei confininazionali è rappresentato dall’Unione Europea. L’istituzionalizzazione della cooperazionesovranazionale realizzatasi nel Vecchio Continente mediante la graduale integrazione deimercati, di talune politiche pubbliche e delle monete costituisce un importante modelloper ogni processo di sviluppo di meccanismi analoghi tanto su scala regionale quanto scalaglobale.

L’Europa è stata protagonista di un processo di parziale cessione delle prerogativeproprie della sovranità nazionale da parte dei suoi membri, che ha consentito di archiviaredecenni di ostilità, di logica di potenza, di minaccia ed effettivo uso della violenza bellica eha dischiuso le porte ad un processo di pacificazione.

L’Ue presenta solo elementi embrionali di democrazia, identificabiliin primo luogo nell’elezione diretta dei membri del parlamento

europeo da parte dei cittadini di ciascuno stato membro, accanto aaree di consolidato deficit democratico. E, tuttavia, resta un modello al

quale guardano le élites internazionali e sulquale quelle europee sono chiamate ad investire

con rinnovato vigore.

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Democraziae legittimità

dossier

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1 N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, Torino 1991, p. 195.2 J. BENTHAM, Progetto per una pace universale e perpetua, in D. ARCHIBUGI - F. VOLTAGGIO (a

cura di), Filosofi per la pace, Roma 1999, p. 189.3 J. MADISON, La pace universale, in D. ARCHIBUGI - F. VOLTAGGIO, cit., p. 212.4 I. KANT, Per la pace perpetua, Un progetto filosofico, in D. ARCHIBUGI - F. VOLTAGGIO, cit., pp. 245-246.

La speranza liberale

Il rapporto tra le due antinomie democrazia/autocrazia e pace/guerra domi-na da tempo il pensiero politico1. Per varie stagioni, si è cercato di dare una ri-sposta alla domanda: gli stati democratici sono più pacifici di quelli autocratici?Innanzi tutto, occorre giustificare perché ci si dovrebbe attendere una differenzatra i due gruppi di sistemi politici.

La contrapposizione tra democrazia e autocrazia si fonda sul fatto che la pri-ma ha la capacità di affrontare le controversie tra le parti in maniera agonisticapiuttosto che antagonistica. In una parola, la democrazia riesce a minimizzare l’u-so della violenza e lo consente solamente nei limiti imposti dalla legge, mentrel’autocrazia no. Una democrazia vive, infatti, in uno stato di pace, ma limitato aipropri confini. In che misura l’esistenza di democrazia interna consente anche diconseguire la nonviolenza all’esterno, e di risolvere le dispute senza ricorrere aquella specifica forma di violenza organizzata che è la guerra?

L’idea che le democrazie potessero essere pacifiche si afferma alla fine del Set-tecento, quando i paesi che avevano un sistema rappresentativo non erano più diuna manciata. Sono i filosofi liberali a farsi portatori di questa speranza. JeremyBentham2 sostenne che, per limitare la guerra, fosse necessario abolire la segre-tezza nell’operato del ministero degli Esteri. Ciò consentirebbe ai cittadini di ac-certare che la politica estera sia conforme ai propri interessi piuttosto che a quel-li di ristrette élites. Alcuni dei requisiti fondamentali di un sistema democratico,ossia la regola della trasparenza e il controllo parlamentare sull’esecutivo, sareb-bero stati primi antidoti contro il ricorso indiscriminato alla guerra.

James Madison3 riteneva che per fare diminuire le guerre fosse necessario as-soggettare la volontà del governo a quella del popolo. Madison era consapevoleche un governo espresso dai cittadini non sarebbe stato sufficiente ad eliminaretutte le guerre; se le guerre, notava, erano sostenute dal fervore popolare, c’era benpoca possibilità di evitarle se non quella di far pagare ad ogni generazione le spe-se che comportavano.

Immanuel Kant4 sosteneva che se ogni stato avesse avuto una costituzione re-pubblicana, le guerre sarebbero diminuite perché «se è richiesto l’assenso dei cit-tadini per decidere se la guerra debba o non debba venir fatta, nulla è più natu-rale del fatto che, dovendo decidere di far ricadere su se stessi tutte le calamità del-la guerra…essi rifletteranno a lungo prima di iniziare un così cattivo gioco».

Che cosa c’è di democratico nella pace democratica?

DANIELE ARCHIBUGI è dirigente del ConsiglioNazionale delle Ricerche,professore presso ilBirkbeck College, Universityof London, e docente a contratto pressol’Università “La Sapienza”di Roma.

MATHIAS KOENIG-ARCHIBUGIè Lecturer in Global Politicspresso i dipartimenti di International Relationse di Government della London School ofEconomics and PoliticalScience.

Daniele Archibugi e Mathias Koenig-Archibugi

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Che cosa c’è di democratico nella pace democratica?

I ragionamenti di Bentham, Madison e Kant sono sostanzialmente utilitari-stici: poiché ai cittadini generalmente non conviene essere coinvolti in una guer-ra, e poiché le conseguenze sono pagate dalla popolazione piuttosto che dalle éli-tes al governo, rendere l’esecutivo accountable rispetto al volere dei cittadini con-sente di far prevalere gli interessi generali.

Le analisi storiche e statistiche disponibili, purtroppo, smentiscono le speran-ze dei padri fondatori del pensiero liberale: l’incidenza di guerre combattute dademocrazie è analoga a quella delle autocrazie5. Sembra, insomma, che il patto dinon aggressione tra partiti politici, che è il tratto distintivo delle democrazie, nonsi tramuti in un patto di non aggressione tra stati sovrani.

È pur vero che forse le democraziesono, in proporzione, leggermente me-no coinvolte in conflitti delle autocrazie6

e che le guerre da loro combattute sono,di poco, meno sanguinose delle altre7. Le democrazie hanno, infatti, una compren-sibile resistenza a mettere a repentaglio la vita dei propri soldati e, ancor di più, deicittadini non belligeranti. Nel corso degli ultimi anni le democrazie, anche in guer-ra, tendono sempre più a minimizzare le perdite tra la popolazione civile dei paesiavversari. Eppure, è singolare che uno dei principi costitutivi della democrazia, lanonviolenza, si sia ancora così poco e così male esteso all’esterno.

Si tratta, allora, di rimuginare sull’ipotesi utilitaristica e tentare di spiegareperché la democrazia abbia avuto così poco successo nell’eliminare i conflitti. Unapossibilità è che i cittadini siano male informati e “traviati” da demagoghi. Alter-nativamente, si può ritenere che non necessariamente una guerra è contraria agliinteressi di uno stato, ad esempio perché i danni sono limitati e più che ricom-pensati dai benefici, distribuiti non solo alle élites, ma anche alla popolazione.Eventuali benefici possono essere quantificati solo alla fine di un conflitto, ma ungoverno desideroso di combattere potrebbe far credere che ci siano, e i cittadinipotrebbero non avere sufficienti informazioni per contraddirlo. In queste occa-sioni, il ruolo moderatore dell’opinione pubblica nel favorire la pace può venirmeno per la semplice ragione che si crea un’alleanza di interessi tra governo del-le élites e popolo, come testimoniano le avventure coloniali di Gran Bretagna,Francia e Olanda. Per diminuire le guerre sarebbe allora necessario trovare i me-todi per estendere anche all’esterno il patto costitutivo delle democrazie.

Fu addirittura Demostene, invece, ad ipotizzare che le ragioni per cui le de-mocrazie combattono sono sostanzialmente diverse quando si scontrano con oli-garchie o con altre democrazie:

«Prendete in considerazione anche questo, o Ateniesi, che voi avete combattu-to molte guerre sia contro stati democratici sia contro stati oligarchici. E questo lo

5 Si veda ad esempio K. RASLER - W. THOMPSON, The Monadic Democratic Puzzle and an “End ofHistory” Partial Solution?, in «International Politics», 40, 2003, 1, pp. 5-27.

6 K. BENOIT, Democracies Really Are More Pacific (In General): Reexamining Regime Type and WarInvolvement, in «Journal of Conflict Resolution», 40, 1996, 4, pp. 636-657.

7 R.J. RUMMEL, Democracies are Less Warlike Than Other Regimes, in «European Journal ofInternational Relations», 1, 1995, 4, pp. 457-479.

Contrariamente alle speranze dei pensatori liberalil’incidenza delle guerre combattute dalle democrazie è analoga a quella delle autocrazie

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sapete bene anche voi stessi; ma gli obiettivi per i quali voi siete in conflitto congli uni e con gli altri, su questi probabilmente nessuno riflette. Per che cosa, dun-que, si combatte? Contro gli stati democratici, o per capi d’accusa privati che nonpossono essere risolti con accordi politici, o per parti di territorio, o per questionidi confine, o per rivalità, o per l’egemonia; contro gli stati oligarchici non si com-batte per nessuno di questi obiettivi, ma per il governo dello stato e per la libertà.Cosicché io non esiterei a dichiarare che ritengo più utile per voi combattere con-tro tutti i Greci, purché siano governati da regimi democratici, piuttosto che aver-li per amici, ma governati da regimi oligarchici. Perché penso che con quelli chesono liberi non difficilmente potreste fare la pace, qualora lo voleste; mentre conquelli che sono retti da oligarchie non ritengo sicura nemmeno l’amicizia; non èpossibile, infatti, che gli oligarchi siano favorevoli al popolo, né che coloro che cer-cano di dominare lo siano verso chi ha scelto di vivere assicurando a tutti la li-bertà di parola»8.

E se fosse colpa delle cattive compagnie?

Ma la decisione di combattere una guerra non è unilaterale, bensì dipende daun contesto esterno che può facilitare soluzioni pacifiche e diplomatiche dellecontroversie, o le può rendere difficili. In una parola, affinché ci sia una guerra,bisogna che ci siano almeno due contendenti e, se uno dei due è prepotente, an-che il più mansueto degli stati è costretto a difendersi.

Si è così aperto un altro filone di indagine, teso a verificare se le democraziesarebbero intrinsecamente pacifiche, ma non lo sono in condizioni esterne sfavo-revoli. In particolare, in un sistema internazionale composto da stati democrati-ci e autocratici e, soprattutto, con gli stati autocratici che fino a un decennio fadominavano quantitativamente il pianeta, quelli democratici non avrebbero lapossibilità di estendere il principio della nonviolenza anche all’esterno per man-canza di reciprocità. Questo, viene ipotizzato, potrebbe spiegare il loro coinvol-gimento in così tante guerre. È un’ipotesi benevolente con le democrazie, la qua-le suggerisce che le democrazie sono trascinate a combattere contro la propria vo-lontà, e che attribuisce l’esistenza della guerra alle cattive compagnie che si ritro-vano nel sistema internazionale.

La prova va dunque ricercata in una sotto-ipotesi: le democrazie combattonotra loro? L’idea che le democrazie non combattono tra loro fu sostenuta per la pri-ma volta in piena guerra fredda, in una rivista di sociologia piuttosto oscura, daDean Babst9. Passando in rassegna la storia recente, Babst notava che gli stati de-mocratici non si erano mai fatti guerra. La tesi ricevette poca attenzione nel cor-so dei decenni successivi, ma all’inizio degli anni ottanta l’interesse degli studio-

8 DEMOSTENE, Per la libertà di Rodi, 352 a.C., 17-18.9 D.V. BABST, Elective Governments: A Force for Peace, in «The Winconsin Sociologist», 3, 1964, 1, pp. 9-14.

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Che cosa c’è di democratico nella pace democratica?

si di relazioni internazionali ritornò su questo tema. In una serie di articoli, Mi-chael Doyle esaminò la storia delle relazioni internazionali dal 1815, giungendoalla conclusione che gli stati da lui definiti democrazie liberali non avevano maicombattuto tra loro10. Doyle comunque non interpretava le guerre combattutedalle democrazie contro le autocrazie in chiave puramente difensiva, sostenendoche con preferenze nazionaliste le istituzioni democratiche avrebbero prodottouna politica estera di tipo “realista”11.

La cosiddetta ipotesi monadica (ossia quella che verifica quanto una democraziacombatta in assoluto) è così chiaramente passata in secondo piano rispetto alla ipo-tesi diadica (ossia quanto una democrazia combatta con un’altra democrazia). Se dalpunto di vista empirico gli studi sull’ipotesi monadica mostrano che le democraziecombattono quanto gli altri regimi, gli studi sull’ipotesi diadica, al contrario, con-fermano empiricamente che le democrazie non combattono tra loro.

La fine della Guerra Fredda ha por-tato con sé una vera e propria esplo-sione di studi sul fenomeno, battezza-to entusiasticamente la “pace demo-cratica” (e che noi preferiamo definire “pace tra democrazie”)12. Alle decine di vo-lumi sull’argomento, si sono aggiunti centinaia e centinaia di studi pubblicati sul-le riviste di scienza politica e relazioni internazionali. Una vasta batteria di stru-menti statistici è stata utilizzata per corroborare la tesi. L’asserzione è diventatacosì perentoria che nel suo studio sulla giustizia internazionale John Rawls ha ad-dirittura elevato l’esistenza di pace tra democrazie a “presupposto costitutivo”13.

I più accorti propugnatori della pace tra democrazie sono ben consapevoli deisuoi limiti14. Non viene negato che le democrazie combattano guerre, che possanoessere loro ad iniziarle, che si possano alleare a regimi autocratici anche quando i re-gimi autocratici combattono contro democrazie. Né che le democrazie possanosvolgere azioni ostili più o meno segrete contro altri governi democratici15. L’ipote-si si limita a sostenere che gli stati democratici non si fanno guerra direttamente.

L’ipotesi non viene neppure sconfessata dalle turbolenze che spesso si asso-ciano alla transizione da un regime autoritario ad uno democratico. Mansfield eSnyder hanno fatto notare che una costituenda democrazia può, infatti, essere an-cora più aggressiva di un’autocrazia16. La transizione implica un cambiamentonelle élites che controllano il paese e, allo stesso tempo, l’unità di intenti del po-

10 Si veda ad esempio M. DOYLE, Kant, Liberal Legacies, and Foreign Affairs, in «Philosophy and PublicAffairs», 12, 1983, 3-4, pp. 205-235 e 323-354.

11 M. DOYLE, Ways of War and Peace: Realism, Liberalism, and Socialism, New York 1997, pp. 137-160.12 Il termine pace democratica, infatti, potrebbe far supporre che tra i paesi che si ritrovano in una

condizione di pace vigano anche accordi democratici per il governo e l’amministrazione. L’ipotesi inquestione, invece, si limita a notare l’assenza di guerre tra paesi democratici, e non l’esistenza di unaforma di gestione politica tra loro.

13 J. RAWLS, Il diritto dei popoli, Milano 2001, pp. 54 e 58.14 Si vedano B. RUSSETT, Grasping the Democratic Peace, Princeton, 1993; B. RUSSETT - J. ONEAL,

Triangulating Peace: Democracy, Interdependence, and International Organizations, New York 2001.15 Sulle azioni ostili degli Stati Uniti contro i governi eletti in Iran (1953), Guatemala (1954), Indonesia

(1955), Brasile (anni ‘60), Cile (1973), Nicaragua (anni ‘80), si veda D.P. FORSYTHE, Democracy, War,and Covert Action, in «Journal of Peace Research», 29, 1992, 4, pp. 385-395.

16 E.D. MANSFIED - J. SNYDER, Electing to Fight. Why Emerging Democracies Go to War, Cambridge 2005.

La teoria della pace tra democrazie poggia sull’evidenzaempirica che mostra come le democrazie non sifacciano guerra

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polo può spesso associarsi a nuove o rinnovate rivendicazioni nazionalisticheche si possono scaricare anche all’esterno.

Nonostante le varie limitazioni cui è sottoposta la tesi della pace tra democrazie,sembra notevole, come è stato ripetuto più volte, trovare almeno una legge nelle re-lazioni internazionali con valore euristico così generale. Nel sempreverde dibattitotra i cosiddetti realisti e idealisti nelle relazioni internazionali, sarebbe finalmente di-mostrato che non tutti gli stati sono uguali, e che almeno su un aspetto circoscrittola natura del regime interno è capace di condizionare la politica estera17. Ciò dimo-strerebbe che le democrazie sarebbero capaci di estendere all’esterno la pratica del-la nonviolenza, anche se solo con gli stati che sono anch’essi democratici, una sortadi pace separata che si applica solamente tra simili18.“Cane non mangia cane”, si po-trebbe dire, ma la stessa massima non vale per tutti: le guerre tra regimi autoritarisono frequenti quanto quelle tra regimi autoritari e democratici. Il lupo morde nonsolo il cane, ma anche il lupo. Portando alle sue logiche conseguenze questa ipotesi,si arriva a sostenere che il fenomeno della guerra può essere eliminato qualora tuttigli stati del mondo fossero democratici. E quindi si individua un nesso causale cheva dalla democrazia all’interno alla pace internazionale.

Deterministi e probabilisti

I fautori della tesi della pace tra democrazie la sostengono con diversi gra-di di convinzione. La variante forte è addirittura deterministica, e fu già for-mulata da Babst19: «Nessuna guerra è stata combattuta tra nazioni indipen-denti con governi eletti tra il 1789 e il 1941». Il comune carattere democrati-co di due paesi è una condizione sufficiente (ma non necessaria) per l’assen-za di guerre. Lo storico Spencer Weart offre la panoramica più ambiziosa a so-stegno della tesi deterministica. Esaminando i rapporti tra regimi democrati-ci e repubblicani dall’Antica Grecia ad oggi, passando per i comuni dell’Italiamedievale, le repubbliche svizzere e le vicende del ventesimo secolo, Weartperviene a due “regole”: primo, democrazie consolidate non si sono mai fatteguerra; secondo, repubbliche oligarchiche consolidate non si sono quasi maifatte guerra.

L’interpretazione degli eventi storici e la classificazione dei regimi è tuttaviaassai discutibile, e i casi di possibili guerre tra democrazie sono rigettati con ec-cessiva disinvoltura, a volte addirittura con fastidio, da chi propugna l’idea dellapace tra democrazie20. Per esempio, la maggior parte di questi studi esclude il ca-

17 L. CARANTI, Dalla pace kantiana alla pace democratica, in «Filosofia e Questioni Pubbliche», 10, 2004, 3,pp. 23-46.

18 S.R. WEART, Never at war: Why democracies Will not fight one another, New Haven 2000.19 D.V. BABST, A Force for Peace, in «Industrial Research», 14, 1972, pp. 55-58.20 Alcuni studiosi italiani sono usciti dal coro della letteratura anglosassone e hanno vagliato

criticamente l’ipotesi della pace democratica. Si vedano ad esempio L. CORTESI, Storia e catastrofe,Napoli 1984; L. BONANATE, Una giornata del mondo. Le contraddizioni della teoria democratica,Milano 1996; A. PANEBIANCO, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Bologna1997; F. ANDREATTA, Democrazia e politica internazionale: pace separata e democratizzazione delsistema internazionale, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», 35, 2006, 2, pp. 212-233.

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Che cosa c’è di democratico nella pace democratica?

so della guerra di secessione americana, perché si tratterebbe di un conflitto in-terno piuttosto che tra stati, sebbene l’alto livello di autonomia detenuto da cia-scun membro dell’Unione prima del 1864, potrebbe farla considerare una guer-ra inter-statale. Per quanto riguarda la prima guerra mondiale, Francia, GranBretagna e Italia sono classificate come paesi democratici, mentre la Germaniano. La classificazione può sembrare arbitraria, e soprattutto non sembra che ildifferenziale di democraticità tra i vari stati fosse sufficientemente ampio da giu-stificare la diversa classificazione.

Sono escluse dalla tesi anche il breve conflitto tra la neonata Repubblica Ro-mana e la Francia nel 1849; la guerra tra Serbia e Croazia tra il 1991 e il 1995 e laguerra condotta nel 1999 dalla Nato, i cui membri sono tutti democratici, controla Serbia. La ragione che porta all’esclusione, in questi casi, dipende dal fatto chei regimi democratici della Repubblica Romana, della Serbia e della Croazia nonerano sufficientemente consolidati. L’ipotesi, viene sostenuto, è valida solamentedopo che un paese ha consolidato la propria democrazia da almeno qualche an-no. Insomma, le eccezioni ci sono, e per affermare la tesi in modo rigido, occor-re spesso riscrivere a proprio uso e consumo la storia.

In maniera più ponderata, altri stu-di si sono concentrati su una versionedebole, che si limita a sostenere che èmeno probabile che due stati demo-cratici si facciano la guerra. La variante probabilistica della tesi diadica sostienecosì che la probabilità che coppie di stati democratici combattano tra loro è si-gnificativamente inferiore alla probabilità di guerra fra due stati di cui almenouno non è democratico21. Rispetto all’ipotesi deterministica, la variante probabi-listica, più modestamente, sostiene che il comune carattere democratico riduce,ma non elimina completamente, il rischio di conflitti armati tra due stati. Anchenella sua versione probabilistica, è cruciale come sono classificati i dati e, soprat-tutto, la significatività statistica.

Ci si è, infatti, chiesti qual è la probabilità di una guerra tra due democrazie.Le guerre, per fortuna, sono poche rispetto alle coppie di stati. Gli stati possonoessere troppo distanti o privi di contenziosi aperti per avere motivi di combatte-re. Solo 2,69 diadi di stati su diecimila sono effettivamente state coinvolte in guer-re22. Se le probabilità sono così basse, e se si considera che gli stati democratici era-no fino a tempi recenti assai pochi, pochi esempi di guerre tra democrazie sonosufficienti a togliere qualsiasi valore statistico all’ipotesi. Basterebbero i pochi ca-si menzionati per rendere la probabilità di guerra tra democrazie uguale alla pro-babilità di guerra tra due stati non congiuntamente democratici. La differenza ècosì sottile che classificare in maniera diversa il regime di un paese o un eventocome guerra può comportare risultati opposti.

21 B. RUSSETT - J. ONEAL, cit.22 J.L. RAY, Democracy and International Conflict: An Evaluation of the Democratic Peace Proposition,

New York 1995.

I differenti approcci a cui si è ricorso per declinare lateoria della pace tra democrazie scontano un viziocomune: l’arbitrarietà dei criteri di classificazione

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Democrazia nel tempo e nello spazio

Uno dei punti più deboli della tesi della pace tra democrazie riguarda propriola definizione di democrazia. Negli ultimi anni, si è sviluppato un certo consen-so nel classificare i paesi in base al proprio regime politico, ma diventa più arbi-trario stabilire quali siano state le democrazie del passato. L’Atene di Pericle erademocratica rispetto a Sparta, ma nel XX secolo sarebbe stata ritenuta un regimedi apartheid pari e forse peggiore di quello del Sud Africa. In che ambito tempo-rale si applica la tesi della non belligeranza tra democrazie?

Uno dei principali sostenitori della tesi della pace tra democrazie, Bruce Rus-sett, ha studiato il fenomeno anche in società assai diverse dalle moderne demo-crazie, quali le città-stato greche e società pre-industriali23. Con l’aiuto di storicie antropologi, Russett ha tentato di vedere se popolazioni indigene pre-indu-striali nelle quali il potere era condiviso, in cui ci fossero i primi germi di ciò chechiamiamo oggi democrazia, fossero meno propense alla guerra, e soprattutto sefossero meno propense a combattere tra loro. Si è esteso così di molto l’universodi applicabilità dell’ipotesi, anche a società di dimensioni assai più piccole deimoderni stati, con organizzazione sociale più rudimentale, risalenti a epoche as-sai remote.

Il materiale empirico sembra confermare che anche società pre-industrialinon autoritarie avessero la propensione a non combattere tra loro. Ma questatendenza ad estendere il concetto moderno di democrazia a civiltà assai diversefa anche sparire casi scomodi per la tesi: ad esempio, sono esclusi i conflitti tra icolonizzatori occidentali, che spesso vivevano in comunità molto coese e parte-cipative, e le tribù aborigene. Lo stesso Russett ammette che i colonizzatori euro-pei e americani non ritenevano possibile che gli abitanti indigeni dei territori co-lonizzati potessero avere istituzioni di auto-governo24. Se ne può inferire che,qualora i colonizzatori del Far West si fossero accorti che gli indiani erano go-vernati da un consiglio dei vecchi capi tribù in cui si votava a maggioranza si sa-rebbero astenuti dallo sterminarli?

Se questa ipotesi sembra poco cre-dibile, bisogna ricercare altre spiega-zioni per capire come mai le democra-

zie, nonostante la tolleranza interna, abbiano così tante difficoltà a convivere consocietà molto diverse. È ciò che Mann ha chiamato «il lato oscuro della demo-crazia», che spesso fa scaricare all’esterno quella violenza che è invece tenuta sot-to controllo all’interno25. Il risultato è quello di imporre a popolazioni diversel’assimilazione forzata. E, in caso di fallimento, giungere alla pulizia etnica o ad-dirittura al genocidio.

Ma, al di là dell’opinabilità dei casi storici considerati e della loro classifica-

23 B. RUSSETT, cit., capp. 3 e 5.24 Ibidem, p. 34.25 M. MANN, The Dark Side of Democracy. Explaining Ethnic Cleansing, Cambridge 2005; trad. it., Il lato

oscuro della democrazia, Milano 2005.

Sistemi democratici simili, e che si riconoscono come tali,hanno una bassa propensione a combattere tra loro

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zione, c’è da chiedersi che senso abbia mettere a confronto conflitti così diversicome quelli tra i colonizzatori del Far West e gli Apache, tra popolazioni andinee tra moderni stati. Proprio l’eterogeneità del materiale storico studiato mostraquello che, a nostro avviso, è un aspetto problematico dell’ipotesi della pace trademocrazie, ossia il fatto che si prendono in considerazione sistemi politici tal-mente diversi senza dare rilievo alla differenza esistente e alla loro evoluzione sto-rica. Dai tempi di Atene ad oggi le democrazie si sono evolute e ci sono ancoradifferenze ugualmente rilevanti tra due paesi con governi eletti quali la Svezia el’Iran. L’ipotesi dovrebbe dunque essere riformulata: sistemi democratici simili, eche si riconoscono come simili, hanno una bassa probabilità a combattere tra loro.È un’ipotesi assai più riduttiva, e anche molto più accettabile. La parola chiave di-venta, allora, il riconoscimento, problema su cui torneremo.

Correlazioni pure e spurie

Anche ammettendo che vi sia una regolarità empirica rispetto ai rapportidiadici tra democrazie, che cosa spiega questo fenomeno? Prima di esaminarele possibili spiegazioni, bisogna vedere se la correlazione tra diadi democrati-che e probabilità di conflitti armati sia spuria. Torniamo a ragionare sull’ipote-si per la storia recente, il periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Inquesto caso, abbiamo un numero più corposo e relativamente più omogeneo distati democratici. L’assenza di conflitti armati tra stati democratici dal 1945 al1989 potrebbe dipendere non dalle istituzioni politiche, ma dal fatto che que-sti stati fossero alleati per far fronte alla minaccia sovietica. In altre parole, laGuerra Fredda, non la condivisa natura democratica, avrebbe prevenuto con-flitti armati tra le democrazie.

I sostenitori della pace democratica hanno controbattuto a questa tesi fa-cendo riferimento sia a dati statistici che a casi esemplari. Nella sua analisi sta-tistica dei conflitti armati negli ultimi due secoli, Maoz ha separato l’impattodelle alleanze militari da quello della democrazia ed è giunto alla conclusioneche: «le democrazie non allineate sono significativamente meno propense acombattere tra loro che le non democrazie allineate»26. Ad esempio, la comu-ne appartenenza alla Nato non ha impedito alla Turchia e alla Grecia di scon-trarsi sul problema di Cipro, mentre per converso la comune minaccia del-l’Occidente capitalistico non ha impedito alla Cina e all’Urss di avere scontriarmati ai propri confini nel 1969. I sostenitori della pace democratica non in-tendono con questo negare che le alleanze possano avere un effetto pacifica-tore tra i propri membri, ma solo sostenere che la democrazia ha un effettocausale aggiuntivo e indipendente.

26 Z. MAOZ, The Controversy over the Democratic Peace: Rearguard Action or Cracks in the Wall?, in«International Security», 22, 1997, 1, pp. 168-198.

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Spiegazioni predominanti

Le spiegazioni della regolarità empirica identificata dagli studi storici e stati-stici si possono raggruppare in due categorie.

Il primo gruppo attribuisce la pace democratica a un certo tipo di cultura po-litica propria delle democrazie, che spingerebbe le élites politiche degli stati de-mocratici ad estendere alla sfera internazionale la norma interna secondo cui iconflitti vanno risolti pacificamente.

Il secondo gruppo di spiegazioni attribuisce l’effetto della democrazia alle isti-tuzioni politiche nazionali, e in particolare ai vincoli con cui devono fare i conticoloro che prendono decisioni.1) Il ruolo della cultura politica. Secondo la teoria culturale, una democrazia«estende all’arena internazionale le norme culturali del “vivi e lascia vivere” e del-la risoluzione pacifica dei conflitti che operano all’interno delle democrazie»27.Una componente cruciale di questo approccio è l’idea che coloro che governanostati democratici tendono a presumere che le loro controparti a capo di altre de-mocrazie si comportino secondo le stesse norme che guidano il loro propriocomportamento. Ma questo approccio intende spiegare anche perché le demo-crazie sono spesso coinvolte in guerre con stati autoritari. Chi agisce nella sferainternazionale per conto di stati democratici tenderebbe a pensare che chi è a ca-po di stati non democratici si attiene a regole di comportamento che sono in fon-damentale contrasto con quelle proprie delle democrazie. In particolare, riter-rebbe che i governi di stati autoritari abbiano una maggiore propensione a usarela coercizione e la violenza per raggiungere i propri obiettivi di politica estera,perché questo è il modo in cui si rapportano con i propri cittadini. In altre paro-le, le democrazie si aspetterebbero non solo che altre democrazie proiettino ipropri principi interni verso l’esterno, ma che anche le autocrazie esternalizzinoi propri comportamenti ingiusti ed oppressivi. È l’argomento di Demostene: conle democrazie si può trattare, con le oligarchie no. In breve, le democrazie non sifidano degli stati autocratici e non li rispettano28. Una conseguenza è che uno sta-to democratico che si trova ad avere una disputa con uno stato non democraticonon tende ad esternalizzare le proprie norme interne, poiché «può sentirsi ob-bligato ad assumere le norme di condotta più dure di quest’ultimo, altrimentipuò essere sfruttato o eliminato dallo stato non democratico, che approfitta del-la intrinseca moderazione delle democrazie»29.

Questo tipo di spiegazione non è del tutto convincente per diverse ragioni. Inprimo luogo, i casi in cui stati democratici hanno mancato di esternalizzare prin-cipi democratici non sono certo limitati a situazioni in cui essi si sono trovati atemere per la propria sicurezza. Le democrazie decidono di usare la violenza e lacoercizione non soltanto quando vi sono costretti. La storia del colonialismo e

27 B. RUSSETT, cit, p. 119.28 M. DOYLE, cit., 1997.29 B. RUSSETT, cit, p. 33.

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dell’imperialismo europeo e americano mostra ampiamente che vantaggi eco-nomici e strategici possono con facilità avere un peso maggiore di ogni inclina-zione a gestire i rapporti esterni in armonia con i principi dell’ordine interno. Lepotenze europee non avevano motivo di ritenersi minacciate dalle comunità chesi apprestavano a colonizzare e per questa ragione sentirsi giustificati ad ignora-re la norma contro la violenza. La storia recente non manca di fornire altri esem-pi. Il fatto che le democrazie si siano raramente considerate vincolate da princi-pi democratici nelle loro interazioni con stati o comunità che non apparteneva-no alla propria sfera culturale mette in rilievo una seconda limitazione della spie-gazione culturale: la disponibilità di uno stato a comportarsi in modo democra-tico nei confronti di un altro stato dipende in modo cruciale dal riconoscimentodi quello stato come democratico. Il problema è che i governi di stati democrati-ci hanno spesso applicato criteri arbitrari, volubili e incoerenti nel definire i re-gimi politici dei propri potenziali avversari. Come visto sopra, in alcuni casi ciòdipendeva dalla insormontabile differenza tra civiltà, che ha indotto i paesi occi-dentali a optare per lo scontro tra civilizzazioni per secoli e secoli. Ma in altri ca-si, la percezione di uno stato può cambiare a seconda delle convenienze e addi-rittura essere manipolata. La percezione della Germania imperiale negli StatiUniti, ad esempio, mutò con il deteriorarsi dei rapporti politici dei due stati ne-gli anni precedenti alla prima guerra mondiale30. In certi casi non è l’interpreta-zione del regime politico di un determinato paese a determinare la politica este-ra nei confronti di quel paese, ma viceversa.

Cambiamenti di queste interpreta-zioni possono avvenire per ragioni di-verse: da un lato, può essere il risulta-to di processi non intenzionali, peresempio perché gli esseri umani sono portati a sviluppare un’immagine negativadella natura di un attore con cui entrano in conflitto. Oppure può risultare daun’esplicita manipolazione della percezione pubblica da parte delle élites politi-che di un paese. Quale ne sia l’origine, se si considera la possibilità che la perce-zione di un regime come democratico può essere il risultato piuttosto che la cau-sa della politica estera nei confronti di quello stato, la fiducia nell’effetto pacifi-catore della democrazia non può che venirne intaccata.

Lo vediamo oggi con il caso dell’Iran: istituzioni occidentali quali FreedomHouse classificano l’Iran come paese non libero, addirittura con un punteggio as-sai basso (libertà politiche pari a 6 su un minimo di 7); una valutazione, insom-ma, coerente con quella di coloro che nell’amministrazione americana hanno de-finito l’Iran uno “stato canaglia”. L’Iran è ben lungi dall’essere il paese più demo-cratico del mondo, ma le ultime elezioni presidenziali sono state ritenute dagli os-servatori internazionali eque e libere, la percentuale di persone che hanno vota-

30 I. OREN, The Subjectivity of the “Democratic” Peace: Changing U.S. Perceptions of Imperial Germany, in«International Security», 20, 1995, 2, pp. 147-184.

La teoria culturale si propone di spiegare sia perché ledemocrazie non combattano tra loro sia perché lofacciano con i regimi autoritari

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to è di molto superiore a quella delle ultime elezioni presidenziali americane, e ilpresidente eletto ha conseguito una percentuale di consensi assai superiore aquello conseguito dagli esecutivi negli Stati Uniti e in Italia. Eppure, per gli occi-dentali è difficile comprendere e ancor di più riconoscere l’Iran come sistema de-mocratico. Non può che preoccupare l’uso che alcuni studiosi fanno dei dati pro-dotti da Freedom House, un’organizzazione guidata da chiari obiettivi politici. Ilrischio è che si produca un circolo vizioso, nel quale i governi democratici se-gnalano quali sono i paesi amici e nemici, istituzioni come Freedom House nevengono influenzate quando classificano i regimi politici, e poi studiosi usanoquesti dati per sviluppare teorie sulla politica estera delle democrazie e delle au-tocrazie che aiutano i governi a legittimare le proprie decisioni.

C’è poi una terza limitazione della teoria culturale della pace tra democrazie.Talvolta i governi di stati democratici intenzionati a colpire un altro stato demo-cratico preferiscono agire all’insaputa della propria opinione pubblica piuttostoche giustificare pubblicamente un intervento negando la natura democratica del-l’avversario. Russett ha chiamato le operazioni segrete effettuate dagli Stati Uni-ti ai danni di altre democrazie una “anomalia” per la teoria della pace tra demo-crazie31. Si è tuttavia premurato di notare che i governi che hanno subito azioniostili coperte, compreso quello cileno presieduto da Salvador Allende, non eranoabbastanza democratici. Secondo Russett, in questi casi le norme e le istituzionidel sistema politico americano si sono dimostrate sufficientemente vincolanti daprevenire un’azione militare diretta e aperta, ma non abbastanza forti da preve-nire azioni segrete di supporto ai nemici interni dei politici democraticamenteeletti. Si tratta di un’ammissione importante, perché indica che, anche nei casi incui esistono condizionamenti culturali, questi possono passare in secondo pianoquando altri interessi – strategici o economici – sono in gioco. Ciò a ulteriore ri-prova che la natura democratica di due stati non è sufficiente a garantire che es-si coabitino d’amore e d’accordo.2) La teoria istituzionale. La teoria istituzionale della pace tra democrazie asseri-sce che le istituzioni democratiche accrescono l’influenza politica di gruppi so-ciali che hanno una maggiore probabilità di essere contrarie alla guerra. Sonochiare le radici kantiane di questo approccio: per “il popolo” i costi della guerrageneralmente eccedono i benefici e quindi un governo responsabile nei confron-ti di esso dovrebbe essere meno incline a partecipare in conflitti armati. Un evi-dente problema di questa ipotesi è che questo comportamento dovrebbe essereriscontrato in tutti i conflitti armati, non solo di quelli tra democrazie. In altre pa-role, ci si aspetterebbe un determinato comportamento monadico, mentre l’evi-denza empirica conferma al massimo la sola tesi diadica.

Bueno de Mesquita e i suoi collaboratori hanno presentato un’ipotesi istituzio-nale che non risente di questo problema32. Questa ipotesi si basa su quattro propo-

31 B. RUSSETT, cit., p. 120.32 BUENO DE MESQUITA et al., An Institutional Explanation of the Democratic Peace, in «American

Political Science Review», 93, 1999, pp. 791-807.

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sizioni: (i) i dirigenti di paesi democratici in stato di guerra tendono ad investire unaquota maggiore delle risorse nazionali per vincerla rispetto a quanto fanno i capi au-tocratici, perché è maggiore la probabilità che vengano rimossi dal potere in caso disconfitta; (ii) questo comportamento conferisce un vantaggio militare alle demo-crazie e quindi fa in modo che potenziali avversari (democratici o meno) siano piùriluttanti ad attaccarle; (iii) i dirigenti di stati democratici attaccano altri stati sol-tanto quando sono relativamente certi di poterli sconfiggere, perché (come si è det-to) è maggiore la probabilità che vengano rimossi dal potere in caso di sconfitta; (iv)la combinazione di (ii) e (iii) significa che i capi di stati democratici sono partico-larmente riluttanti ad attaccare altri stati democratici, generando il fenomeno dia-dico della pace tra democrazie. Questo risultato non sarebbe dovuto quindi a con-dizionamenti culturali, ma alla semplice preoccupazione di essere puniti dall’elet-torato in caso di sconfitta militare. Questa teoria, dunque, non ritiene che il com-portamento delle democrazie sia dettato da saldi principi, ma da un calcolo razio-nale dei propri vantaggi, e quindi non è attaccata dalle anomalie della tesi cultura-lista indicate in precedenza. Colonialismo, imperialismo e interventi indiretti aidanni di altri paesi democratici sono coerenti con questa ipotesi perché in questi ca-si le democrazie non si esporrebbero ai rischi che correrebbero facendo guerra adaltre democrazie. E offre anche una spiegazione del fatto che le democrazie, proprioperché compiono un calcolo razionale, vincono la maggior parte delle guerre checombattono – secondo Reiter e Stam, circa l’80% di esse33.

Benché queste tesi istituzionalistepongano l’accento sul modo in cui lepreferenze della società condizionanole decisioni dei governi, questo non èincompatibile con l’osservazione opposta: i governi possono influenzare quelloche le proprie popolazioni desiderano. Tanto nelle democrazie quanto nelle au-tocrazie, i dirigenti politici possono sfruttare il loro ruolo nella gestione degli af-fari internazionali per manipolare l’informazione disponibile ai cittadini e perspingere questi ultimi verso certe preferenze. E la storia è piena di esempi in cuii governi riescono a fomentare i sentimenti nazionalistici del popolo.

Le implicazioni politiche

La breve rassegna precedente mostra come il dibattito sulla pace tra de-mocrazie sia stato in gran parte guidato dall’indagine empirica. Ma, come ab-biamo segnalato, si tratta di indagini che, inevitabilmente, sono cariche digiudizi di valore, principalmente per quanto riguarda la classificazione dei re-gimi politici.

33 D. REITER - A.C. STAM, Democracies at War, Princeton 2002, p. 29.

Tanto la dimensione culturale quanto quella istituzionalechiamano in causa il problema della percezione dell’altroe della manipolazione che tale percezione può subire

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Al di là degli aspetti propriamente analitici, l’ipotesi della pace tra democra-zie contiene sottaciute implicazioni normative, che non sono sempre sufficiente-mente esplicitate nella letteratura e che hanno, di rimando, provocato tante cri-tiche. Chi ha elaborato la tesi34 non nega che ci sia addirittura l’intenzione dienunciare una sorta di profezia che avvera se stessa: sostenere che le democrazienon combattano tra loro può servire ad indurle a trovare mezzi pacifici per ri-solvere le proprie controverse. Purtroppo, ciò non è stato sufficiente ad evitare laguerra tra la Serbia e i paesi membri della Nato nel 1999, nonostante i conten-denti avessero un governo eletto e la teoria fosse ben nota nel Quartier Generaledella Nato. Ma la stessa ipotesi può avere effetti esattamente opposti, ad esempiopuò indurre le democrazie a scatenare guerre contro le autocrazie.

Con un sillogismo mai esplicitato, la tesi della pace tra democrazie suggerisceinfatti che, se a tutt’oggi persiste la guerra, ciò va ascritto al fatto che alcuni statinon sono democratici e che quindi, in ultima analisi, la colpa dei conflitti ricadesugli stati autoritari. Una tale credenza ha fatto scaturire l’idea che basti forzaregli stati a diventare democratici per conseguire una comunità internazionale pa-cifica. Il nesso causale dalla democrazia alla pace può far scaturire la politica del-la guerra per la democrazia.

La profezia che si auto-avvera sem-bra essere entrata nel vivo del dibatti-to politico non, come auspicato, perscongiurare guerre tra democrazie,

ma, al contrario, per promuovere le guerre delle democrazie contro le autocrazie.Diversi presidenti degli Stati Uniti hanno richiamato la pace tra democrazie neiloro discorsi. Bill Clinton ha sostenuto che la migliore strategia per garantire lasicurezza nazionale è il progresso della democrazia. Più diretto è stato, invece,George W. Bush: nel mezzo dell’invasione dell’Iraq ha ricordato che, dopo lasconfitta nella seconda guerra mondiale, Giappone e Germania sono stati tra-sformati in paesi democratici, e questo ha avuto l’effetto di consolidare la sicu-rezza degli Stati Uniti, perché questi paesi sono diventati loro partner politici ecommerciali e non più una fonte di minacce35.

Seguendo lo stesso ragionamento, Bush ha difeso l’invasione dell’Iraq, soste-nendo che un Iraq democratico avrebbe smesso di rappresentare una minacciaper gli Stati Uniti. Se gli stati democratici promuovono la democrazia negli statiautoritari, ciò non avrebbe solamente l’effetto di realizzare le aspirazioni dei po-poli, ma anche quella di aumentare la propria sicurezza.

Sembrerebbe che il presidente degli Stati Uniti sia stato ispirato dai teorici dellerelazioni internazionali del suo paese. Ma se si tiene in considerazione che, già nel1988, Ronald Reagan aveva dichiarato che «più grandi sono le libertà in altri paesi,e più sicuri sono sia le nostre libertà che la nostra pace»36, viene da pensare che, for-

34 Si veda ad esempio B. RUSSETT, cit., p. 136.35 Si vedano, rispettivamente, il discorso del presidente Bill Clinton sullo stato dell’Unione del 25

gennaio 1994, e il discorso del presidente George W. Bush tenuto il 6 novembre 2003 al “NationalEndowment for Democracy” dedicato alla democratizzazione del Medio Oriente.

36 Citato in B. RUSSETT, cit., p. 127.

Il nesso causale, implicito nella teoria della pace trademocrazie, tra democrazia e pace ha finito percondurre alla politica della guerra per la democrazia

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se, è stato il presidente degli Stati Uniti ad ispirare gli studiosi di relazioni interna-zionali e non viceversa.

Eppure, i teorici della pace tra democrazie avevano messo in guardia da un usostrumentale delle proprie tesi: già nel 1993, Russett aveva messo esplicitamente inguardia da una troppo semplicistica traduzione pratica di questi principi: «il model-lo “combattiamoli, sconfiggiamoli e poi rendiamoli democratici”è irrimediabilmen-te sbagliato come base per l’azione contemporanea»37. Ma, come forse ci si poteva at-tendere, i decisori politici americani non hanno prestato attenzione a questi “detta-gli” quando hanno elaborato le giustificazioni pubbliche per l’invasione dell’Iraq.

Sembra, insomma, che le maggiori energie degli studiosi di relazioni interna-zionali, soprattutto negli Stati Uniti, siano state indirizzate su un campo di ricer-ca non solo inevitabilmente fondato su giudizi di valore (chi merita di essere de-finito democratico?), ma che addirittura è stato strumentalizzato per fini politi-ci in maniera del tutto indesiderata da parte degli stessi proponenti. Il program-ma di ricerca è stato dettato da un problema interno alla disciplina, ossia dimo-strare che, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni autori di scuola realista,il regime politico degli stati può avere un’influenza determinante sui rapporti tradi essi. E che, almeno su un aspetto circoscritto (la propensione a combattere),gli stati democratici risparmiavano i propri simili. È finito per diventare un’armaideologica nelle mani del Pentagono, di cui gli stessi studiosi di relazioni inter-nazionali negli Stati Uniti si dovrebbero oggi pentire, se è vero che ben l’80% diloro era contrario all’invasione dell’Iraq38.

Sarebbe stato, allora, più proficuo indirizzare le energie su altri programmi di ri-cerca, e in particolare sulla questione fondamentale: come si può ridurre la divari-cazione tra comportamento interno e comportamento esterno delle democrazie? Inconsiderazione del nuovo quadro storico, che vede oggi le democrazie e in primoluogo gli Stati Uniti dominare il mondo, sarebbe stato più utile individuare quali so-no i principi e i metodi usati nella sfera politica interna che possono essere applica-ti anche nei rapporti con il mondo esterno39. Questo approccio avrebbe avuto unpunto di partenza diverso dall’approccio della “pace democratica”: invece di usarecome termine di paragone la politica estera dei regimi autocratici, la politica esteradelle democrazie sarebbe stata messa a confronto con le norme e le pratiche che re-golano i rapporti tra i gruppi politici e sociali all’interno degli stati democratici stes-si. Lo studio della qualità dei vari regimi democratici rispetto ai diritti e al benesse-re dei loro cittadini ha fatto considerevoli passi in avanti negli ultimi anni40. Il pro-gramma di ricerca a cui alludiamo avrebbe potuto aggiungere un’importante di-mensione esterna alla valutazione della qualità democratica e, se c’è un po’ di sag-gezza nell’approccio costruttivista, avrebbe potuto aiutare a definire i principi dicondotta delle democrazie sulla scena internazionale. Finora, l’occasione non è sta-ta colta. Ma anche in questo caso, non è mai troppo tardi.

37 B. RUSSETT, cit., p. 136; F. ANDREATTA, cit.38 S. PETERSON - M.J. TIERNEY, Teaching and Research Practices, Views of the Discipline, and Policy

Attitudes of International Relations Faculty at U.S. Colleges and Universities, Williamsburg 2005, tab. 59.39 D. ARCHIBUGI, So What If Democracies Don’t Fight Each Other, in «Peace Review», 9, 1997, 3, pp.

379-384.40 L. MORLINO, What is a “Good” Democracy?, in “Democratization”, 11, 2004, 3, pp. 10-32.

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Un labirinto di legittimità

Nelle crisi internazionali degli ultimi mesi c’è un elemento comune che lamaggior parte delle cronache e dei commenti trascura, sebbene esprima più ditutti la crisi dell’ordine internazionale: un conflitto radicale di legittimità. Seb-bene declinato in modi opposti, questo è ciò che tiene insieme la rivendica-zione, da parte degli Stati Uniti, di sottoporre i paesi “pericolosi” a norme e re-gole diverse da quelle valide per tutti gli altri, e la contestazione da parte dipaesi come l’Iran della pretesa avanzata dai paesi occidentali di stabilire chisiano i paesi pericolosi e quali restrizioni di diritti debbano pesare su di loro.E sempre lo stesso conflitto accomuna il rifiuto da parte di Israele (appoggia-to dagli Stati Uniti e dai paesi europei) di trattare con il nuovo governo pale-stinese, in quanto espressione di un soggetto “terroristico” indisponibile, perdi più, a riconoscere lo stato ebraico, e il rifiuto da parte del nuovo governo diHamas di effettuare tale riconoscimento almeno prima che sia definito “qua-le” stato verrebbe, in questo modo, riconosciuto – se quello delimitato daiconfini del 1967, come vorrebbe il diritto internazionale, o quello prefiguratodai confini ridisegnati in modo unilaterale da Israele, con l’acquiescenza del-la comunità internazionale, dapprima attraverso la politica quarantennale direquisizione e colonizzazione dei territori occupati e poi con la costruzionedella cosiddetta barriera di sicurezza decisa dal governo Sharon.

Conflitti della stessa natura, cioè relativi a quali principi e norme debbanoregolare la vita internazionale, hanno investito negli ultimi anni tutte le mate-rie più significative dell’agenda internazionale: dai requisiti di ammissionenelle organizzazioni internazionali esistenti, come quelli dettati dall’UnioneEuropea ai paesi candidati (come oggi la Turchia), alla tensione permanentefra il tradizionale principio di sovranità e i nuovi diritti di ingerenza, dalla isti-tuzione dei tribunali internazionali sulla ex Jugoslavia e sul Ruanda alle divi-sioni sull’istituzione di una Corte Penale permanente, dal regime di non pro-liferazione nucleare al diritto stesso di autorizzare e impiegare l’uso della for-za – come in occasione delle guerre contro la Jugoslavia e l’Iraq oppure, da cin-que anni a questa parte, su temi quali la guerra preventiva, i sequestri e gli omi-cidi mirati di terroristi o presunti tali, l’esistenza stessa di uno stato di guerrapermanente contro il terrorismo.

Stando alla grammatica tradizionale della politica internazionale, questa

Una democrazia senza eguaglianza.I paradossi di un nuovo ordine internazionale democratico

ALESSANDRO COLOMBOè Professore straordinariodi Relazioni Internazionaliall’Università degli Studi di Milano e Direttoredell’Osservatorio Sicurezzae Studi Strategici dell’ISPI.

Alessandro Colombo

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Una democrazia senza eguaglianza

proliferazione di conflitti di legittimità potrebbe non riflettere altro che la fa-se costituente che il dopoguerra fredda condivide con tutti i contesti di dopo-guerra: una fase nella quale la vecchia gerarchia del potere e del prestigio nonesprime più la nuova realtà della politica internazionale, mentre questa non èancora in grado di esprimerne una propria riconosciuta e condivisa da tutti iprincipali attori. Sennonché dietro a questa debolezza strutturale – e in rap-porto continuo ma controverso con essa – è facile intravedere una crisi piùprofonda che tocca i fondamenti stessi della convivenza internazionale, cioè iprincipi e le norme che prescrivono chi siano i titolari dei diritti e dei doveridel diritto internazionale; quale rapporto (di eguaglianza o disuguaglianza)debba intercorrere tra loro; come possano essere ottenuti gli obiettivi elemen-tari e primari di qualunque ordine sociale: la limitazione della violenza, ilmantenimento delle promesse e la stabilizzazione del possesso1.

Nell’incertezza crescente su tali principi, l’ordine internazionale è investi-to contemporaneamente da due diverse e, in una certa misura, inconciliabilicontestazioni di legittimità, eredi di altrettante correnti che avevano già attra-versato l’intero Novecento. Da un lato, anche senza sposare la tesi di SamuelHuntington sui conflitti di civiltà, non c’è dubbio che la fine della guerra fred-da abbia coinciso con l’apertura di una nuova fase della deoccidentalizzazio-ne del sistema internazionale, già segnata dalla riappropriazione dei linguag-gi “locali” tanto nell’opera di legittimazione quanto in quella di contestazionedel potere ma, soprattutto, incline ad opporre alla pretesa occidentale di det-tare e, se è il caso, modificare le norme “universali” della convivenza interna-zionale la rivendicazione dell’autonomia e della irriducibilità dei diversi spazipolitici, culturali ed economici.

Dall’altro lato, a questa contestazione gli Stati Uniti e, in forma diversa, glialtri paesi occidentali replicano non con una difesa dell’ordine esistente bensìcon un’altra contestazione di legittimità, che non risponde agli argomenti del-la prima ma ne pone altri ai quali quella non può rispondere. Il problema co-stituente, dicono i paesi euro-occidentali, non è tanto restituire un eguale di-ritto a tutti i membri della convivenza internazionale quanto, piuttosto, san-cire una volta per tutte la superiorità non soltanto politica ed etica ma, a que-sto punto, anche giuridica delle democrazie rispetto a tutti gli altri regimi po-litici.

Per ironia della storia, l’ideale del-la democrazia viene giocato contro ilprincipio di eguaglianza e, in parti-colare, contro quello tradizionaledell’eguaglianza formale degli stati. A essere rimesso in questione è nientedi-meno che il principio costitutivo della convivenza internazionale: conta di più

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1 H. BULL, The Anarchical Society. A Study of Order in World Politics, New York 1977, pp. 3-22.

Accanto ad una proliferazione dei conflitti di legittimitàemerge un’inedita contrapposizione: quella trademocrazia e eguaglianza

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il principio di sovranità che, come tale, non dovrebbe distinguere tra demo-cratici e non democratici, o l’adesione ai principi della democrazia che, al con-trario, non può non distinguere? Chi ha diritto di esprimere la volontà dellacomunità internazionale: tutti gli stati, purché non commettano violazioni deidiritti degli altri, oppure soltanto o soprattutto gli stati democratici, persinoquando violano i diritti altrui? E, infine, dove va cercata la fonte di un ordineinternazionale autenticamente democratico: nella partecipazione di tutti onell’oligarchia illuminata delle democrazie?

La democrazia nel nuovo ordine internazionale

La tentazione di elevare la democrazia a nuovo principio di legittimità in-ternazionale possiede, a propria volta, una lunga tradizione. Già tra la fine del-l’Ottocento e l’inizio del Novecento, suggestioni in questo senso erano diffusenella cultura politica dell’Europa occidentale, per esempio nella polemica con-tro gli stati autoritari e gli imperi multinazionali del continente o, già allora,nel diverso standard applicato alla condanna della dominazione altrui – “pri-gioni dei popoli” l’impero zarista e quello asburgico ma, sia ben chiaro, non gliimmensi imperi coloniali britannico o francese. Mentre l’aspirazione a espor-tare la democrazia o, quanto meno, a non trattare come propri pari i paesi nondemocratici contrassegnò sin dal principio la cultura politica internazionali-stica e lo stesso stile diplomatico degli Stati Uniti, dalla legittimazione dellaguerra ispano-americana all’occupazione delle Filippine fino alla proclama-zione dei 14 punti di Wilson.

Il prepotente riemergere di questo motivo, drammatizzato nel linguaggiodella amministrazione Bush dalla combinazione con lo strapotere militare (l’e-sportazione “armata” della democrazia) ma presente anche nella retorica enelle scelte politiche dell’amministrazione precedente, può essere ricondottoad almeno cinque fattori, in combinazione variabile ma solida tra loro.

Il primo e più macroscopico è laricomposizione, dopo il riassorbi-mento della grande lacerazione bipo-

lare, di un alto grado di omogeneità ideologica tra i principali attori del siste-ma internazionale – non soltanto stati, ma anche organizzazioni internazionaliintergovernative e non governative. Tale ricomposizione, che abbraccia l’inte-ro lessico politico e giuridico occidentale, passa prima di tutto proprio dallaparola “democrazia”. Dopo che, nel corso della guerra civile mondiale del No-vecento, essa era diventata l’epicentro della biforcazione dell’eredità culturaledell’Occidente nelle due direzioni alternative del liberalismo e del marxismo

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dossier Democrazia e legittimità

L’amministrazione Bush sta tentando di elevare lademocrazia a nuovo principio di legittimità internazionale

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Una democrazia senza eguaglianza

2 D. ZOLO, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano 2002, pp. 21-38.3 G. SCHMITT, A Case of Continuity, in «The National Interest», 69, 2002, Fall, pp. 11-13.4 R. ARON, Paix et guerre entre les nations, Paris 1968; trad. it. Pace e guerra fra le nazioni, Milano 1970,

p. 168.5 J. MONTEN, The Roots of the Bush Doctrine. Power, Nationalism, and Democracy Promotion in U.S.

Strategy, in «International Security», 29, 2005, 4, pp. 112-156.

– tanto da acquistare significati del tutto opposti a seconda che fosse accom-pagnata dall’aggettivo “liberale” o dall’aggettivo “popolare” – con la fine dellaguerra fredda la parola democrazia è tornata ad assumere un significato uni-voco, coerentemente con gli orientamenti politici ed economici di chi quellaguerra, alla fine, l’ha vinta. Democrazia, nel lessico politico del dopoguerrafredda, è solo ed esclusivamente la democrazia liberale. Mentre, a propria vol-ta, tale univocità le consente di essere il luogo di convergenza di aspettative ecriteri comuni; di costituire uno standard riconoscibile di normalità politica eideologica; di esercitare, grazie a ciò, una potente forza di attrazione perchiunque desideri essere ammesso nel salotto buono della comunità interna-zionale.

Il secondo fattore, collegato come il precedente all’esito costituente della fi-ne della guerra fredda, è l’affermazione comune ai dopoguerra delle grandiguerre egemoniche di una visione dell’ordine internazionale comprensiva del-la natura dei singoli ordini interni, secondo quello che un critico severo ha de-finito il «modello cosmopolitico della Santa Alleanza»2: un modello che, pro-prio come all’epoca della Restaurazione, affida ai garanti del nuovo ordine in-ternazionale il diritto di vigilare anche sull’ordine politico dei singoli stati, sul-la base della convinzione (comune, non a caso, all’amministrazione Clinton eall’amministrazione Bush)3 che certi regimi (i rogue states, l’asse del male ecc.)e certi attori politici (estremisti, fondamentalisti ecc.) costituiscano di per séuna minaccia all’ordine internazionale e, pertanto, meritino di essere isolati,contenuti o addirittura abbattuti in anticipo – cioè prima che la loro irresisti-bile tendenza al Male si manifesti pienamente.

Il terzo fattore è costituito dal terreno favorevole che la suggestione di una tra-sformazione in senso democratico delle “vecchie” norme della società interna-zionale europea ha trovato nella cultura politica e giuridica del paese che si è im-posto come egemone e garante del nuovo ordine internazionale, gli Stati Uniti.Già in passato, l’attitudine che gli è sempre stata propria a percepirsi come unpaese esemplare, separato e moralmente superiore rispetto alla «immoralità tra-dizionale e prudente»4 del consueto gioco diplomatico, si era periodicamentesposata con l’aspirazione a diffondere il “segreto” dell’esemplarità, la democrazia.Mentre queste fasi avevano generalmente coinciso, sul versante interno, con l’in-contro tra ideologie nazionaliste e culture politiche inclini all’ingegneria socialee, su quello esterno, con le fasi di crescita del potere relativo degli Stati Uniti nel-la dimensione economica, ideologica e militare5.

La struttura (almeno provvisoriamente) unipolare dell’attuale sistema in-ternazionale, unita al trionfalismo seguito all’affermazione nell’ultima guerraglobale del Novecento, portano al livello più estremo queste due condizionipermissive:

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«Per natura, tradizione e ideologia», scrive Robert Kagan, gli Stati Uniti«sono sempre stati portati a promuovere principi liberali disprezzando le sot-tigliezze del sistema vestfaliano…In questo senso, l’America è ed è sempre sta-ta una forza rivoluzionaria, una presenza perturbatrice, talvolta involontariama comunque decisiva, dello status quo ovunque abbia fatto sentire la sua in-fluenza. Fin dalla generazione dei padri fondatori, gli americani hanno consi-derato le tirannie straniere come transitorie, destinate a crollare davanti alleforze repubblicane liberate dalla stessa rivoluzione americana…La dottrinaBush, così com’è, ha semplicemente rispolverato e riportato alla luce la tradi-zione dell’America liberale e rivoluzionaria»6.

Questi tre primi fattori sarebbero già sufficienti a rafforzare la forza d’at-trazione della democrazia come nuovo principio di legittimità internazionale– sulla base dell’ovvia regolarità per la quale spetta sempre alla potenza o allepotenze uscite vincitrici dalla guerra dettare il contenuto politico, economicoe ideologico dell’ordine successivo. Ma a rendere ancora più forte questo ri-chiamo alla democrazia contribuisce la sua coerenza con le convinzioni poli-tiche e giuridiche dominanti, almeno in Europa e negli Stati Uniti. Da un la-to, l’idea che i regimi politici democratici siano migliori (e, quindi, meritinodi più) di tutti gli altri regimi politici costituisce il fondamento minimo delconsenso transatlantico, non soltanto tra i governi ma anche – se non in mi-sura ancora maggiore – tra le opinioni pubbliche, i partiti e gli intellettuali7.Dall’altro lato, la trasparenza dei regimi politici democratici alle preferenze eai diritti individuali figura come il complemento necessario del cosmopoliti-smo della cosiddetta società globale, in quanto assicura che tali preferenzepossano avere voce e tali diritti una tutela adeguata8.

Questa credenza radicata rende apparentemente irresistibile la suggestionedell’esportazione della democrazia – tanto che, nel dibattito politico euro-americano, le divisioni sembrano ormai concentrarsi (come hanno fatto anchenel caso della lacerazione sull’Iraq) non sull’obiettivo in sé quanto sui mezziper conseguirlo.

Mano a mano che si consolida ilconvincimento che la democrazia li-berale sia il punto d’arrivo (e di nonritorno) dello sviluppo politico – che

poi è la stessa cosa che intendeva Francis Fukuyama per «fine della storia»9 –l’idea che non si debba fare di tutto per diffonderla e trasformarla nel fonda-mento della vita internazionale è condannata ad apparire sempre meno plau-sibile (e, quindi, sempre meno difendibile) tanto sul terreno politico quanto suquello etico: per quale ragione si dovrebbe escludere qualcuno dal godimento

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dossier Democrazia e legittimità

6 R. KAGAN, American Power and the Crisis of Legitimacy, New York 2004; trad. it. Il diritto di fare laguerra. Il potere americano e la crisi di legittimità, Milano 2004, pp. 38-41.

7 M. McFAUL, Democracy Promotion as a World Value, in «The Washington Quarterly», 28, 2004-05, 1,pp. 147-163.

8 S. BENHABIB, On the Alleged Conflict between Democracy and International Law, in«Ethics&International Affairs», 19, 2005, 1, pp. 85-100.

9 F. FUKUYAMA, The End of History?, in «The National Interest», 16, 1989, Summer, pp. 3-18.

Le divergenze tra Usa ed Ue riguardano i mezzi perconseguire quello che pare essere un obiettivocondiviso: l’esportazione della democrazia

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Una democrazia senza eguaglianza

di un sicuro bene? O meglio, per dire la stessa cosa nella sua forma più comu-ne: per quale ragione non si dovrebbe liberare qualcuno da un sicuro male?

Ma a dare l’incentivo decisivo alla soluzione democratica contribuisce, perultima, una considerazione di efficienza. Oltre che come più virtuosa, la de-mocrazia è vantata come la soluzione più efficace a tutti i principali problemie le principali minacce dell’attuale contesto internazionale: in quanto, com-battendo sul nascere l’esclusione sociale, favorirebbe lo sviluppo economico;procurando strumenti pacifici per la promozione e la difesa dei propri inte-ressi e valori, toglierebbe alimento all’estremismo e (come suo esito estremo)al terrorismo; coinvolgendo tutte le componenti (politiche, sociali, etniche)della popolazione nell’amministrazione dell’ordine, costituirebbe la miglioreassicurazione (o la migliore cura) contro il fallimento o il collasso di singolistati o intere regioni; infine, se è vero che le democrazie non si fanno mai laguerra tra di loro, in quanto una diffusione della democrazia comporterebbeautomaticamente la diffusione del bene per eccellenza dell’ordine internazio-nale, la pace.

Una società internazionale doppia

Sebbene non possa ancora essere considerato come il nuovo principio or-dinatore della convivenza internazionale – e sebbene, naturalmente, non è det-to che lo diventi in futuro – la discriminazione a favore delle democrazie svol-ge già un ruolo considerevole nelle relazioni tra gli stati. In Europa, essa ope-ra come la soglia d’accesso riconosciuta a tutti i processi di integrazione re-gionale, dall’Unione Europea all’Alleanza Atlantica alle organizzazioni subre-gionali e settoriali. Su scala globale, la medesima discriminazione accompagna,pur senza (ancora) coincidervi perfettamente, la geopolitica binaria fondatasulla separazione tra il cosmos della “comunità internazionale” e il caos dei ro-gue states, dei gruppi terroristici e delle organizzazioni criminali. Mentre, nel-la prassi e nel dibattito politico degli ultimi quindici anni, essa fa sì che persi-no le stesse azioni (come l’acquisizione di armi di distruzione di massa, l’usodella forza o l’occupazione di territori altrui) non siano trattate (anche giuri-dicamente) nello stesso modo se compiute da regimi di un tipo o di un altrotipo. Tanto che persino il ristabilimento dei diritti degli individui, dei popolie degli stati stessi finisce per essere subordinato all’accertamento della loroadesione ai principi democratici e liberali, se non all’accertamento che a vio-larli non siano proprio attori (riconosciuti come) democratici.

A propria volta, questo principio di discriminazione tende progressiva-mente ad ampliarsi ben oltre quella che è possibile considerare come la sua ba-

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dossier Democrazia e legittimità

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se originaria: la disponibilità a riconoscere un diritto di resistenza a coloro che,sottoposti a un regime autoritario o totalitario, non dispongono di canali le-gali e pacifici per la promozione delle proprie ragioni, e l’indisponibilità a fa-re altrettanto per coloro che, in democrazia, quei canali li possono liberamen-te impiegare10. Questa prima e consolidata discriminazione basterebbe già anegare ai regimi politici non democratici lo stesso diritto spettante ai regimidemocratici di difendere il proprio ordine interno, persino quando questocoincide con la difesa della propria integrità territoriale – come nel caso dellaJugoslavia nei confronti dei secessionisti albanesi o in quello dell’Iraq nei con-fronti dei secessionisti curdi.

Sennonché al di sopra di questadiscriminazione di carattere ancoraessenzialmente interno, altre se ne

vanno formando sul terreno più squisitamente internazionale. La prima, checostituisce anche la più immediata estensione della precedente, riguarda il di-ritto a difendersi contro minacce provenienti non più dall’interno ma dell’e-sterno. Tale diritto, che costituisce la prerogativa essenziale della sovranità,vorrebbe appunto che ciascuno stato venisse riconosciuto libero di tutelarel’integrità del proprio territorio, della propria popolazione e del proprio stes-so regime politico, non soltanto contrastando le aggressioni in atto, ma accu-mulando in anticipo le risorse necessarie a farlo (cioè armi, alleati ecc.). Que-sto è, per esempio, il diritto a cui si appella Israele ogni volta che associa la pro-pria sicurezza al mantenimento di una chiara superiorità militare nei con-fronti di tutti i suoi potenziali nemici. Ed è lo stesso diritto, naturalmente, chemuove la risposta americana al terrorismo, a maggior ragione in quanto essasi fonda sul riconoscimento che una difesa efficace non può più neppure at-tendere che l’attacco nemico sia sferrato.

Lo stesso principio sembra non valere più o, almeno, sembra valere sempremeno per i paesi e gli attori non democratici. Mano a mano che prende piedela discriminazione a favore delle democrazie, i primi si trovano a non goderepienamente neppure del tradizionale diritto di autodifesa, a maggior ragionese questa autodifesa è rivolta (almeno potenzialmente) contro un aggressoredemocratico. Basti pensare, per cominciare dagli attori non statuali, all’iscri-zione degli Hezbollah libanesi nell’elenco dei gruppi terroristici – unico e pa-radossale lascito di quindici anni di occupazione israeliana del Libano; oppu-re, per tornare agli stati, alle limitazioni esplicitamente poste alla sovranità mi-litare dell’Iran, in una situazione in cui quest’ultimo ha più di un motivo di te-mere che un’aggressione al proprio territorio sia già in preparazione.

Questa lacerazione dello jus belli tradizionalmente connaturato alla sovranitàè completata e, per molti versi, portata fino in fondo dall’analoga discriminazio-

10 P. WILKINSON, Terrorism and the Liberal State, New York 1977.

La democrazia costituisce un principio di discriminazionedi carattere interno e internazionale

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ne che sta prendendo corpo sul versante “offensivo” del ricorso legittimo all’usodella forza. In un sistema internazionale nel quale tutti i principali stati si ispira-no (o dichiarano di ispirarsi) ai principi democratici e liberali, quote crescentidello jus belli vengono riappropriate dai paesi democratici proprio mentre ven-gono sottratte ai paesi non democratici. Nello stesso momento in cui questi ulti-mi si vedono limitato o negato persino il diritto elementare all’autodifesa, i pae-si democratici tendono a svincolarsi sempre di più tanto dai limiti dell’architet-tura politico-giuridica delle Nazioni Unite (come nella dottrina della guerra pre-ventiva) quanto da quelli preesistenti del rispetto della giurisdizione altrui (co-me nella dottrina dell’ingerenza umanitaria).

Il risultato di questa duplice di-scriminazione è una crescente disu-guaglianza nella soglia stessa tra pacee guerra. Per i paesi democratici, laguerra (e il diritto di autodifesa che le è associato) sembra cominciare nel mo-mento stesso in cui una minaccia si profila all’orizzonte – anzi persino prima,stando al principio enunciato nella nuova dottrina strategica degli Stati Unitidi «agire contro le minacce prima esse che siano interamente formate»11. Per ipaesi non democratici, al contrario, il diritto a riconoscersi in guerra (e a com-portarsi di conseguenza) sembra non cominciare mai – neppure quando è si-stematicamente violata l’integrità del loro territorio (attraverso sorvoli aerei,incursioni terrestri o persino bombardamenti), come nel caso dell’Iraq nelcorso degli anni novanta o in quello della Siria, del Libano e dei territori pale-stinesi da quarant’anni a questa parte.

I paradossi della democrazia internazionale

L’innalzamento della democrazia a nuovo, possibile principio di legittimitàinternazionale può già vantare la buona prova di sé offerta quale incentivo al-la trasformazione in senso democratico dei paesi non democratici. In Europa,la subordinazione della politica di allargamento dell’Unione Europea e del-l’Alleanza Atlantica all’adesione agli standard democratici e liberali ha contri-buito all’instaurazione e al consolidamento delle democrazie nei paesi ex co-munisti, dalla transizione dei primi anni novanta all’esautorazione di Milose-vic nel 2000. Fuori dell’Europa, l’adozione del principio di condizionalità ne-gli aiuti allo sviluppo ha fatto lo stesso in molti paesi dell’Africa sub-saharia-na, tanto da fare parlare anche qui di una nuova ondata del processo di de-mocratizzazione. Infine, saldato in maniera politicamente e concettualmentespregiudicata al diritto di ingerenza, il richiamo all’esportazione della demo-

11 THE WHITE HOUSE, The National Security Strategy of the United States of America, WashingtonD.C., September 2002.

Dalla discriminazione tra attori democratici e nonscaturisce una profonda disuguaglianza in termini dilegittimo ricorso alla guerra

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crazia in Medio Oriente ha operato come una sorta di legittimazione ex postdella guerra contro l’Iraq, rinvigorita da ogni manifestazione anche superfi-ciale di contagio democratico nei paesi vicini.

Sennonché persino dietro alcuni di questi successi e, a maggior ragione, pro-prio dietro il fallimento dell’esperimento iracheno, non è difficile riconoscere do-ve siano i problemi, le debolezze o le vere e proprie contraddizioni del program-ma di trasformazione della convivenza internazionale in senso democratico.

Una prima e più tradizionale bat-teria di problemi discende dalla na-tura stessa dell’agire politico e, inparticolare, dell’agire nel contesto

politico internazionale. Il primo di essi investe il tema politicamente ed etica-mente cruciale della responsabilità o, in termini weberiani, della tensione in-sopprimibile tra etica della convinzione ed etica della responsabilità12. Che l’e-sportazione della democrazia soddisfi più o meno pienamente le nostre con-vinzioni etiche e politiche non solleva, infatti, dalla necessità di «risponderedelle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni»13, a maggior ragione se ta-li conseguenze sono destinate a cadere su qualcun altro e non su di noi. Pren-diamo proprio il caso dell’Iraq. Il tentativo di instaurare un regime politico de-mocratico al posto di quello autoritario di Saddam Hussein è già costato la vi-ta a decine di migliaia di civili e militari iracheni (oltre a tremila militari del-la coalizione); nell’attesa che un nuovo governo ristabilisca le condizioni ba-silari di pace, sicurezza e ordine, la popolazione vive da tre anni in uno statodi guerra civile strisciante permanente; lo svolgimento delle prime libere ele-zioni è servito più a rassicurare i governi e gli osservatori esterni che a risol-vere o mitigare i problemi interni. Anche ammesso che l’instaurazione demo-cratica, alla fine, riesca, chi può assumersi il diritto di affermare che questoprezzo meritasse di essere pagato? O che esso debba interamente ricadere suchi si è opposto alle “buone intenzioni” della democrazia, e non anche su chiha trascurato di mettere in conto (sapendo, per di più, che non sarebbe statolui a pagarlo) che altri si sarebbero opposti e che, pertanto, la transizioneavrebbe richiesto tempo e sofferenze (altrui)?

Su questi quesiti, etica della convinzione ed etica della responsabilità sug-geriscono preoccupazioni opposte. Chi agisce secondo la prima, scrive Weber,«si sente “responsabile” solo quanto al dovere di tener accesa la fiamma dellaconvinzione pura»14. Per lui,

«se le conseguenze di un’azione determinata da una convinzione pura so-no cattive, ne sarà responsabile …non l’agente bensì il mondo o la stupidità al-trui o la volontà divina che li ha creati. Chi invece ragiona secondo l’etica del-

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dossier Democrazia e legittimità

12 M. WEBER, Politik als Beruf, Monaco 1919; trad. it. La politica come professione, in M. WEBER, Illavoro intellettuale come professione, Torino 1966, pp. 47-121.

13 Ibidem, p. 109.14 Ibidem, p. 110.

L’innalzamento della democrazia a principio di legittimitàinternazionale non può sollevare dalla responsabilitàpolitica

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Una democrazia senza eguaglianza

15 Ibidem, pp. 109-110.16 Ibidem, p. 112.

la responsabilità tiene appunto conto di quei difetti presenti nella media degliuomini; egli non ha alcun diritto – come giustamente ha detto Fichte – di pre-supporre in loro bontà e perfezione, non si sente autorizzato ad attribuire adaltri le conseguenze della propria azione, fin dove poteva prevederla. Costuidirà: “queste conseguenze saranno imputate al mio operato”»15.

A ciò si collega un secondo problema, ancora più comune nella riflessionesulla politica internazionale. Come accade spesso nella sfera politica e, a mag-gior ragione, in quella anarchica del sistema politico internazionale, non è af-fatto detto che dal bene derivi sempre il bene e dal male soltanto il male16. Diquesto ovvio paradosso l’esperimento iracheno procura la versione più ele-mentare. Per quanto buone potessero essere le sue intenzioni iniziali (e am-messo e non concesso che lo fossero), i suoi risultati provvisori sono l’oppo-sto di quelli auspicati o, almeno, dichiarati: invece di un nuovo regime demo-cratico, il collasso generale dello stato iracheno; invece dell’uscita dal terroredi un regime sanguinario, la ricaduta nel terrore anche peggiore della guerracivile; invece della trasformazione dell’Iraq in un polo di attrazione per le éli-tes democratiche e occidentalizzanti del Medio Oriente, un nuovo alimento alrisentimento anti-occidentale e, come suo esito estremo, al terrorismo.

Ma lo stesso può essere vero persino nei casi in cui l’esecuzione del benenon fallisce, anzi corrisponde perfettamente alle intenzioni iniziali. Prendiamol’altro caso politicamente scottante della proliferazione nucleare. Dietro loschermo della lotta senza quartiere alla proliferazione, è noto che gli Stati Uni-ti hanno sempre operato una discriminazione strisciante a vantaggio dei pro-pri alleati (come Israele e Pakistan); mentre, in occasione della recente visitadi George Bush in India, questa discriminazione è stata apertamente ripropo-sta come parte di una discriminazione più comprensiva a vantaggio delle de-mocrazie. Sennonché dal momento che, in un sistema competitivo, anchequando nessuno tra gli stati ha intenzione di attaccare gli altri, nessuno puòessere sicuro che le intenzioni altrui siano o restino pacifiche, non è possibileconsentire a qualcuno di appropriarsi di tecnologie di un tipo senza dare a tut-ti gli altri un incentivo a fare la stessa cosa. Il principio di discriminazione sirovescia, concretamente, in un principio di diffusione – come ha confermatorecentemente la scontata richiesta da parte del Pakistan di godere di un accor-do gemello di quello favorevole strappato dall’India, e come continua a con-fermare la corsa agli armamenti in Medio Oriente, dove il rifiuto ripetuta-mente ribadito dagli Stati Uniti di includere Israele nel regime di non prolife-razione regionale spinge alla rincorsa tutti i possibili competitori, non perchéessi siano politicamente o culturalmente anomali ma perché, al contrario, pos-siedono una normale razionalità strategica.

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Infine, anche ammesso che la trasformazione in senso democratico deglistati sia un obiettivo auspicabile e raggiungibile – e tutta la nostra cultura po-litica sembra concordare sulla prima cosa, mentre quasi tutta sembra concor-dare anche sulla seconda – resta ancora da stabilire se tale obiettivo debba es-sere messo al primo posto dell’agenda politica internazionale oppure subor-dinato ad altri, o perché ancora più essenziali o perché favorevoli o necessarial soddisfacimento del primo. Un esempio concreto di questa tensione è of-ferto, ancora una volta, dal conflitto israelo-palestinese. Nell’ultimo decennio,anche il tradizionale appoggio degli Stati Uniti a Israele è stato declinato sem-pre più decisamente nei termini della discriminazione a favore delle demo-crazie. Invece di esercitare pressioni su Israele perché ponesse fine a qua-rant’anni di occupazione illegale (per il diritto internazionale esistente) deiterritori occupati nel 1967, la diplomazia statunitense ha insistito sulla neces-sità che fossero i palestinesi a fare la prima mossa, liberandosi delle proprieleadership (Arafat prima e il governo di Hamas poi) e dimostrando, con que-sto, di avere le carte in regola per fare e ricevere concessioni significative. Sen-nonché la subordinazione dei negoziati alla trasformazione interna della par-te più debole ha avuto come unico effetto quello di legittimare la parte più for-te a procedere in modo unilaterale, mentre questo ha progressivamente ri-stretto lo spazio per futuri negoziati. La priorità concessa al tema della demo-crazia non ha favorito la pace, bensì solo l’occupante “democratico” nei con-fronti dell’occupato “non democratico”.

Proprio questo conflitto di prio-rità ci conduce alla seconda batteriadi problemi: non più problemi di re-sponsabilità politica, bensì di equità

e giustizia. Se è vero, infatti, che l’innalzamento della soglia di accesso alla pie-na legittimità non contraddirebbe di per sé i requisiti di equità e inclusivitàdell’ordine internazionale, in quanto non farebbe altro che elevare la qualitàpolitica e giuridica dei soggetti ammessi, affinché la discriminazione che ne ri-sulta non si riveli concretamente iniqua sono necessarie almeno tre condizio-ni aggiuntive che, nella realtà attuale, appaiono lontanissime dall’essere sod-disfatte.

La prima è quella basilare dell’eguaglianza di opportunità: perché possagiustificarsi una discriminazione a favore delle democrazie è necessario chetutti i soggetti abbiano la stessa possibilità di diventare, volendolo, democra-tici – cioè che non esistano per nessuno (e non in astratto, ma nella realtà at-tuale nella quale la discriminazione comincerebbe a operare) ostacoli insor-montabili di natura politica, economica, sociale o culturale. Tralasciamo purel’ultimo punto, se esista cioè una qualche relazione tra la democrazia liberale

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dossier Democrazia e legittimità

Per arginare la propensione a fare della discriminantedemocratica un fattore di iniquità devono esseresoddisfatte alcune chiare condizioni.

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Una democrazia senza eguaglianza

e la cultura politica e giuridica occidentale – ma senza trascurare che, qualoratale relazione esistesse, la discriminazione a favore delle democrazie non fa-rebbe che perpetuare la tradizionale discriminazione a favore dell’Occidente.È plausibile che l’instaurazione e il consolidamento della democrazia liberalesiano indipendenti dal rispettivo grado di sviluppo economico, o dallo stadiodi avanzamento dei processi di state e nation building, o dall’esistenza di mi-nacce immediate o già in atto alla sopravvivenza della propria comunità poli-tica, o dal grado di ordine (politico e istituzionale) del sistema regionale o sub-regionale a cui si appartiene? Il contesto internazionale attuale può offrire giàqualche indicazione. Dopo avere intimato per quindici anni all’Autorità na-zionale palestinese di aumentare il proprio tasso di democraticità, malgrado ilpermanere dell’occupazione israeliana e la distruzione sistematica che essacomportava delle strutture di sicurezza e del quadro di normalità e ordinedella società palestinese, gli Stati Uniti hanno finalmente l’occasione di dimo-strare in Iraq che una democrazia funzionante può fare a meno della pace.Mentre, dopo il trauma dell’11 settembre, hanno l’occasione supplementare didimostrare che non esiste davvero alcuna relazione tra percezione della vul-nerabilità e rispetto dei diritti dei (potenziali) nemici.

La seconda condizione ha direttamente a che fare con il problema del rico-noscimento. Perché la discriminazione a favore delle democrazie si riveli poli-ticamente e giuridicamente sostenibile, è necessario almeno che la soglia traregimi democratici e regimi non democratici sia chiara e condivisa: che, in al-tre parole, sia possibile stabilire con certezza chi meriti di godere e chi no deidiritti riservati alle democrazie. Sennonché tale distinzione, che è sempre sta-ta ambigua (a maggior ragione nei contesti politici e culturali diversi dall’Oc-cidente), lo è resa ancora di più dall’incentivo che proprio la discriminazionea favore delle democrazie procura a dichiararsi o fingersi democratici agli oc-chi degli altri. Una comunità internazionale democratica è destinata ad attira-re, che lo voglia o no, un numero crescente di ipocriti, cioè di soggetti interes-sati meno alla democrazia che ai privilegi accordati a tutte le democrazie. Ba-sta guardare, d’altra parte, al continuo allargamento della categoria interme-dia delle democrazie più o meno autoritarie e (in misura maggiore o minore)irrispettose dei diritti civili, come è considerata da molti la stessa FederazioneRussa. Oppure alla mancanza di consenso che questo produce tra le agenzie,gli intellettuali e i commentatori indipendenti impegnati a stilare l’elenco de-gli stati democratici e a determinare quanto gli standard democratici e libera-li vi siano soddisfatti.

L’ultima condizione non opera più dal basso, bensì dall’alto. Affinché la di-scriminazione a favore delle democrazie soddisfi requisiti minimi di equità,non è sufficiente che tutti i soggetti abbiano la stessa possibilità di superare la

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soglia e che, una volta superata, siano chiaramente distinguibili da tutti gli al-tri, ma è necessario che l’accertamento del soddisfacimento avvenga in modoimparziale e per mano di un soggetto imparziale. In un sistema internaziona-le almeno provvisoriamente unipolare quale l’attuale, tale imparzialità è mes-sa fortemente a rischio dallo strapotere politico e ideologico degli Stati Uniti.Nella pretesa che essi si riservano di stabilire chi e quanto sia democratico e chie quanto non lo sia, l’arbitrarietà tende a operare come il complemento dell’i-pocrisia: in un situazione nella quale sempre più stati dichiaratamente demo-cratici non possiedono ancora (o non possiedono più) tutte le carte in regola,il nodo dell’appartenenza alle democrazie è sciolto volta per volta dal paese piùforte, in prevedibile accordo con i propri interessi politici ed economici. Bastipensare al caso paradigmatico della Federazione Russa, le cui clamorose vio-lazioni dei diritti umani in Cecenia sono state provvisoriamente sanate (anchedi fronte all’opinione pubblica) in vista della cosiddetta guerra globale controil terrorismo, ma restando sempre a portata di mano qualora una diminuzio-ne del grado di acquiescenza agli obiettivi politici e strategici americani sug-gerisca di rimettere in discussione l’appartenenza della Russia alla comunitàdelle democrazie.

Ma la questione generale dell’equità confina già con una terza batteria diproblemi, relativi al modo in cui la prima è stata tradotta e, a suo modo, risoltain quella che può essere considerata l’impresa per eccellenza del razionalismooccidentale nella politica internazionale: il diritto internazionale. Che la di-scriminazione a favore delle democrazie contraddica tuttora i principi, le nor-me e le regole del diritto esistente è qualcosa su cui è facile concordare, sia chesi guardi all’impianto tradizionale dello jus publicum europaeum sia che siguardi alla profonda revisione introdotta dalla Carta delle Nazioni Unite17.Tanto che persino i suoi promotori, a cominciare dagli Stati Uniti, riconosco-no esplicitamente che quello che hanno in mente è un nuovo diritto interna-zionale, fondato su un principio più sofisticato di quello politicamente ed eti-camente opaco dell’eguaglianza formale degli stati.

Sennonché una discriminazionepermanente tra soggetti appartenen-ti allo stesso ordinamento rischiereb-be di pregiudicare la funzionalità

non di un diritto, ma di qualunque diritto, almeno in tanto in quanto rende-rebbe impossibile contare su norme generali e astratte valide indistintamenteper tutti. Una volta che la qualità delle azioni dovesse contare meno della qua-lità degli attori, la stessa azione potrebbe persino figurare come illecita se com-messa da un soggetto non democratico e lecita (o almeno tollerabile) se com-messa da un soggetto democratico; tanto che, paradossalmente, il modo più

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dossier Democrazia e legittimità

17 J.L. COHEN, Whose Sovereignty? Empire Versus International Law, in «Ethics&International Affairs»,18, 2004, 3, pp. 1-24.

La discriminazione a favore delle democrazie non si limitaa contraddire l’attuale impianto del diritto internazionale,ma giunge a minare l’idea stessa di diritto

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Una democrazia senza eguaglianza

18 G. MIGLIO, L’unità fondamentale di svolgimento dell’esperienza politica occidentale, in G. MIGLIO, Leregolarità della politica, Milano 1988, vol. I, pp. 327-350.

sbrigativo per sfuggire a possibili sanzioni sarebbe quello di cambiare (o di-chiarare di farlo) non il proprio comportamento bensì la propria identità. Latendenza alla spersonalizzazione del comando propria di tutta l’esperienza po-litica e giuridica occidentale18 finirebbe radicalmente rovesciata, insieme all’a-spirazione razionalistica (ed egualitaria) ad un ordinamento fatto di precettiimpersonali e validi in eguale misura per chiunque.

Ma c’è di più. Anche qualora l’obiettivo della transizione non dovesse piùessere un ordinamento universale nel senso di comprensivo di qualunque ti-po di attori, bensì un ordinamento più esigente (e, inutile dirlo, più avanzato)di sole democrazie, resterebbe comunque il problema di quale natura conferi-re ai rapporti con gli esclusi. Tali rapporti manterrebbero ancora, e in che mi-sura, una natura giuridica? E quale, visto che le soluzioni del vecchio e agno-stico diritto internazionale diventerebbero, a quel punto, impraticabili? Op-pure le relazioni tra la “comunità internazionale democratica” e le “canaglie”non ammesse (i rogue states, appunto) sarebbero destinate a piegare verso unasorta di stato di guerra permanente, come sembrano già suggerire i documen-ti e le pratiche dell’attuale amministrazione degli Stati Uniti? E, in questo ca-so, che cosa dovrebbe indurre i soggetti non ammessi a sottoporsi e rispettarei principi, le norme e le regole del diritto internazionale, considerato che que-ste norme li escludono dichiaratamente dal godimento dei diritti spettanti atutti gli altri?

Ed è qui che arriviamo all’ultimae decisiva batteria di problemi, cheriguardano il significato stesso dellademocrazia nella politica internazio-nale e ci riportano ai conflitti di le-gittimità dai quali siamo partiti. Giànella sua tradizionale elaborazione politica e filosofica, la democrazia ha sem-pre sperimentato una tensione tra inclusività e liberalizzazione, vale a dire, trala proporzione dei soggetti ammessi a partecipare, controllare e opporsi allepolitiche governative e il grado in cui sono consentiti il dissenso, l’opposizio-ne e la competizione attraverso il godimento di diritti civili quali la libertà diassociazione, di stampa o di parola. La democrazia richiede il consenso dellamaggioranza ma quest’ultimo, appunto, non autorizza qualunque cosa; in par-ticolare, non autorizza l’ascesa di leadership illiberali propense a violare i di-ritti delle minoranze.

Trasferita nella dimensione internazionale, questa tensione è destinata acrescere sia in intensità che in ambiguità. Nell’attesa che il sistema internazio-nale si trasformi in qualcosa di simile a un sistema politico interno su scalaglobale – cosa che attualmente non è e non è affatto detto che diventi – un as-

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Un assetto democratico della vita internazionalepotrebbe significare l’assoluta eguaglianza tra gli statima anche l’assoluta disuguaglianza tra gli statidemocratici e tutti gli altri

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setto democratico della vita internazionale potrebbe significare, infatti, o l’as-soluta eguaglianza tra gli stati o l’assoluta disuguaglianza tra gli stati demo-cratici e tutti gli altri. I fautori della discriminazione a favore delle democra-zia puntano il dito contro i rischi della prima soluzione: in una comunità in-ternazionale tuttora composta da una maggioranza di stati non democratici onon interamente democratici, il consenso puro e semplice rischierebbe di fa-vorire politiche illiberali, fino a pregiudicare la posizione stessa della mino-ranza democratica. Il precedente storico, inutile dirlo, è la Germania di Hitler:un governo regolarmente eletto ma responsabile della distruzione della de-mocrazia tedesca.

Ma i problemi non mancano neppure per la soluzione opposta. In primoluogo, la condizione per assicurare i diritti dei più deboli non è mai stata, nel-la politica internazionale, controbilanciare il numero bensì controbilanciare ilpotere; e si dà il caso che, nell’attuale contesto internazionale, questo figuri giàconfortevolmente sbilanciato a vantaggio delle democrazie. In un sistema in-ternazionale nel quale quasi tutti i principali stati si ispirano (o dichiarano diispirarsi) ai principi democratici e liberali, la discriminazione a favore delle de-mocrazie non trattiene per nulla la disuguaglianza, anzi la sanziona con il cri-sma della legittimità.

Una tale concentrazione di potere e legittimità – che, inutile dirlo, è la condi-zione opposta a quella propria delle costituzioni liberali – solleverebbe già di persé il rischio dell’abuso, a maggior ragione poiché non è affatto detto, come di-mostra la storia degli ultimi due secoli (a cominciare da quella del colonialismo),che le democrazie siano tanto democratiche nei loro affari esterni quanto si im-pegnano a esserlo nei propri affari interni. È ciò che ricordava Kenneth Waltz sul-la scorta dei primi dieci anni del dopoguerra fredda: «i Padri Fondatori dell’A-merica ammonivano contro i pericoli del potere in assenza di controlli e bilan-ciamenti. Per quale ragione un potere non bilanciato dovrebbe costituire un pe-ricolo minore nella politica internazionale che nella politica interna?»19.

Ma ad aggravare ulteriormente questo rischio contribuisce proprio il mo-do in cui una oligarchia illuminata delle democrazie finirebbe concretamenteper operare. In assenza di contrappesi istituzionali e di obblighi di accounta-bility non nei confronti dei propri cittadini, ma nei confronti di tutti gli altri,le democrazie si trasformerebbero in qualcosa di simile ad “avanguardie”, de-positarie del segreto della storia e del diritto/dovere di indicare la strada aglialtri: una visione della democrazia più vicina ad altre catastrofi novecentescheche alla cautela e al sospetto propri della tradizione liberale. A differenza chenella degenerazione hitleriana, qui le élites “autenticamente” democratiche cisarebbero; anzi, di un genere così autentico da poter fare a meno del consen-so e del controllo altrui.

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dossier Democrazia e legittimità

19 K.N. WALTZ, Structural Realism after the Cold War, in «International Security», 25, 2000, 1, p. 28.

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Una democrazia senza eguaglianza

20 J.L. COHEN, Whose Sovereignty?..., cit., p. 12.

È in questa piegatura che la discriminazione a favore delle democrazie tor-na a collidere con l’altra corrente di democratizzazione dell’ultimo secolo: larivolta contro il dominio politico, economico e culturale dell’Occidente. Os-servati da una prospettiva globale invece che da quella particolare dell’Euro-pa, infatti, principi come l’eguaglianza formale degli stati, l’autodetermina-zione e la non ingerenza negli affari altrui non figurano più come vecchi, ben-sì come totalmente nuovi20, dal momento che è soltanto dalla seconda metà delNovecento che essi hanno faticosamente cominciato a valere anche negli spa-zi extraeuropei precedentemente aperti alla conquista e alla colonizzazione.Mentre è proprio la tentazione di opporre loro un nuovo restringimento del-la “comunità internazionale” che rischia di apparire come l’ultima e anacroni-stica espressione del “mondo di ieri” – non una forma più avanzata di univer-salismo, ma la più persistente e invadente manifestazione di particolarismodella storia delle relazioni internazionali degli ultimi quattro secoli.

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Le Nazioni Unite, come le altre principali istituzioni

multilaterali sorte allo scopo di promuovere l’ordine

mondiale nel secondo dopoguerra (Fondo Monetario

Internazionale, Sistema della Banca Mondiale, Organiz-

zazione Mondiale del Commercio), hanno avviato un

processo di progressivo adeguamento della propria ar-

chitettura organizzativa per rispondere con maggiore

efficacia alle nuove sfide nel campo del mantenimento

della pace e della sicurezza internazionale, dello svilup-

po economico, della promozione dei diritti umani e del-

lo sviluppo del quadro giuridico internazionale.

La progressiva espansione delle attività dell’Onu,

l’aumento delle missioni di pace (sono 18 attualmente),

la crescita del numero degli stati membri1 e la conse-

guente necessità di migliorare il funzionamento dei

suoi organi principali (Assemblea generale, Consiglio di

Sicurezza, Consiglio Economico e Sociale, Segretariato

generale) sono alcuni dei fattori che hanno contribuito

alla forte spinta al cambiamento degli assetti interni al-

le Nazioni Unite.

La performance delle organizzazioni internazionali

può essere valutata secondo vari parametri. La capa-

cità di conseguire risultati concreti ed un equilibrato

rapporto tra obiettivi raggiunti e risorse impiegate so-

no gli standard usuali e generalmente condivisi. Negli

ultimi anni, tuttavia, è divenuto preminente il criterio

politico della “legittimità”, definita in base all’efficacia

nel perseguire gli obiettivi istituzionali e al grado di par-

tecipazione degli stati membri al processo decisionale.

Un’organizzazione multilaterale è pertanto ritenuta ri-

levante e autorevole se sufficientemente agile da con-

seguire risultati concreti (“multilateralismo efficace”) e

se in grado di adottare decisioni con il sostegno attivo

di un numero rappresentativo dei paesi membri (“legit-

timità democratica”). Nella percezione degli stati e del-

le opinioni pubbliche, la legittimità di un’istituzione mul-

tilaterale dipende in ultima analisi dal mix di “efficacia”

e “rappresentatività”.

Il documento finale del World Summit, approvato

per consensus a New York il 16 settembre 20052, detta

le linee guida per la riforma della governance delle Na-

zioni Unite. Non vi è tuttavia accordo tra gli stati mem-

bri sulle modalità di applicazione delle raccomandazio-

ni per rendere l’Onu più efficiente e, quindi, più legitti-

ma. Nel dibattito a New York sulla riforma si confronta-

no oggi due visioni opposte, che rispecchiano valuta-

zioni differenti sul ruolo dell’Onu. La visione che predi-

lige il richiamo al “multilateralismo efficace” ha come

paradigma l’ordine internazionale fondato sul diritto. Le

istituzioni multilaterali diventano irrilevanti se non sono

in grado di far applicare principi e regole. L’Onu, per-

tanto, deve essere capace di identificare i problemi, de-

finire le regole internazionali e farle applicare, deve es-

sere gestita nel rispetto degli standard internazionali ed

Diplomatia: il punto di vista

La legittimità nei processi decisionali delle Nazioni UniteMassimo Marotti*, MAE

Quaderni di Relazioni Internazionali n. 2 Settembre 200634

dossier Democrazia e legittimità

* Primo Consigliere della Missione permanente dell’Italia presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite – New York1 In 60 anni di vita dell’Onu, il numero degli stati membri è cresciuto da 45 a 192.2 Risoluzione dell’Assemblea generale A/RES/60/1

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Il punto di vista di un diplomatico

esercitare le sue attribuzioni istituzionali con il soste-

gno politico di stati membri, consapevoli del fatto che

la sovranità comporta sia diritti e prerogative che re-

sponsabilità.

Vi è anche un altro modo di vedere la funzione stru-

mentale delle Nazioni Unite. Le istituzioni sono soprat-

tutto un fattore di cambiamento e l’obiettivo fonda-

mentale del governo delle organizzazioni multilaterali

dovrebbe essere la diffusione dei principi della demo-

crazia nella comunità internazionale. Secondo tale vi-

sione, l’Onu può continuare ad essere uno dei pilastri

su cui poggia l’ordine internazionale solo se il caratte-

re democratico del suo processo decisionale viene co-

stantemente rafforzato.

Nella prima metà del 2006, sul nodo politico cen-

trale del rapporto tra efficacia e grado di rappresenta-

tività del processo decisionale, si sono progressiva-

mente polarizzate le posizioni sostenute rispettiva-

mente dai paesi in via di sviluppo ed emergenti (schie-

rati nel “Gruppo dei 77” e nel Movimento dei non-alli-

neati) e dai paesi che, insieme, contribuiscono a circa

l’85% del bilancio dell’Onu (Stati Uniti, Giappone, Unio-

ne Europea, Canada, Australia e Nuova Zelanda). Per i

primi, l’obiettivo principale della riforma dovrebbe es-

sere la crescita della “legittimità democratica” dell’Onu.

Pertanto, per assicurare la partecipazione degli stati al

processo decisionale, andrebbero rafforzati il ruolo e le

competenze dell’Assemblea generale (un paese, un

voto) nel rispetto del principio della sovrana uguaglian-

za dei membri Onu. Per il secondo gruppo di paesi, la

legittimità e la rilevanza dell’Organizzazione dipendono

soprattutto dall’efficacia del processo decisionale. La

riforma deve puntare pertanto a rendere gli organi Onu

più agili e responsabili, capaci di trovare soluzioni ade-

guate e tempestive, nel rispetto dei più moderni e tra-

sparenti standard di gestione finanziaria ed ammini-

strativa.

Il dibattito non ha riflessi solo sul piano organizza-

tivo. La riforma della governance Onu e il disegno di

una nuova architettura multilaterale non sono, infatti,

processi neutrali. Le consultazioni avviate nella prima-

vera del 2006 sulla riforma del Segretariato generale

hanno messo in luce l’esistenza di visioni e interessi

contrapposti sul ruolo dell’Onu e sono sfociate in un

confronto politico sulla modifica dei rapporti di forza tra

stati membri. La percezione diffusa che la riorganizza-

zione dell’Onu comporterà in ultima analisi una ridistri-

buzione del potere tra stati ha indotto molti paesi a

prendere posizione sulla riforma con l’obiettivo di pre-

servare i propri margini di influenza nell’Organizzazio-

ne. La diplomazia multilaterale si è così mobilitata per

contribuire, attraverso alleanze ed iniziative politiche,

ad orientare il riposizionamento in atto. Tutti gli stati

hanno interesse a rafforzare la legittimità dell’Onu, seb-

bene sul presupposto di valori ideali che riflettono dif-

ferenti visioni del mondo e del ruolo dell’Organizzazio-

ne, ma loro azione è dettata soprattutto dall’obiettivo di

rafforzare il proprio ruolo e, parallelamente, di impedi-

re che si rafforzi oltre misura l’influenza di altri paesi.

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dossier Democrazia e legittimità

La politica globale tra globalizzazione e frammentazione

Viviamo in un mondo che è parzialmente globalizzato o in via di globalizza-zione, un mondo segnato dalla contraddizione tra interdipendenza economica eframmentazione politica, tra interconnessione sociale e eterogeneità culturale. Glistati, in particolare quelli dotati di ingenti risorse tecnologiche, militari e finan-ziarie, continuano a essere attori primari della politica mondiale, ma i processi diglobalizzazione erodono la sovranità nazionale in una varietà di modi. In altri ter-mini, l’ampiezza e la velocità dei flussi internazionali di capitali, persone, merci,servizi, informazioni, messaggi, immagini, riducono le capacità dello stato di at-tuare efficaci politiche di sviluppo e di coesione sociale, limitano la sua capacitàdi “proteggersi” dall’ingresso di fattori di destabilizzazione e accrescono la com-plessità etnica e culturale della popolazione. A eccezione di alcuni giganti conti-nentali, gli Stati Uniti d’America in primo luogo ma anche la Cina, l’India, la Rus-sia, gli stati nazionali sembrano impotenti ad affrontare da soli i principali pro-blemi dell’agenda globale, come la scarsità di risorse energetiche, l’alterazionedella biosfera, la volatilità dei mercati finanziari, i flussi migratori, la povertà, lacriminalità internazionale, le violazioni dei diritti umani, il terrorismo, l’instabi-lità politica, il rischio di pandemie.

Questi problemi di scala globale rivestono un’importanza crescente per i cit-tadini dei vari stati, ma è sempre meno possibile affrontarli separatamente l’unodall’altro, ognuno con proprie istituzioni specializzate. In questo senso, si puòparlare di un sistema politico mondiale in fieri, che tuttavia appare più disartico-lato e frammentato e dotato di minore legittimità degli stati nazionali democra-tici. Infatti le organizzazioni internazionali, sia governative che non governative,non sono sufficientemente integrate e coordinate e soprattutto mancano della le-gittimità democratica essenziale per affrontare efficacemente tali questioni; in al-tri termini, la legittimità democratica non procede naturalmente dagli stati na-zionali democratici alle organizzazioni internazionali. Da un lato, le democrazienazionali non hanno la capacità di controllare da sole i processi globali, dall’al-tro le istituzioni internazionali che in linea di principio potrebbero governare ta-li processi sono sospettate di illegittimità.

Con una formulazione un poco diversa, si può rilevare che nel mondo con-temporaneo in via di globalizzazione la politica mondiale non può più essereconsiderata solo come l’insieme delle relazioni intergovernative secondo l’asset-

È possibile una governance democratica del sistema globale?

ALBERTO MARTINELLI È Professore ordinario di Scienza Politica pressol’Università degli Studi di Milano, dove è statoPreside della facoltà di Scienze Politiche.È stato Presidente dellaInternational SociologicalAssociation.

Alberto Martinelli

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È possibile una governance democratica del sistema globale?

to che, in modo un poco approssimativo, viene definito “vestfaliano”. I principifondamentali di questo assetto e cioè l’uguaglianza formale degli stati territoria-li sovrani che non riconoscono alcuna autorità superiore, il non intervento negliaffari interni degli altri stati riconosciuti, e il consenso come base del diritto in-ternazionale unitamente alla stipula di alcune minime regole di convivenza1 so-no in crisi e stanno divenendo sempre più opache le rigide distinzioni tra l’am-bito interno e l’ambito esterno delle comunità politiche: democrazia all’internodegli stati-nazione e relazioni non democratiche tra gli stati, limitazione della sfe-ra del controllo e della legittimità democratica all’interno dei confini statali e per-seguimento dell’interesse nazionale al di fuori di quei confini, diritti democrati-ci e di cittadinanza per tutti coloro che sono considerati “interni” e frequente ne-gazione di questi diritti per coloro che si trovano all’esterno. La politica globalenon può essere ridotta alle relazioni internazionali2.

È quindi urgente sviluppare nuove forme democratiche di organizzazione delpotere a livello sovranazionale che trascendano e integrino il modello delle rela-zioni intergovernative3. Ma come?

Discuterò questo problema, definendo dapprima i principali approcci allostudio della governance globale democratica, così come gli approcci che non ri-conoscono l’esistenza del problema; illustrando poi il modello poliarchico,multipolare e multilivello di governance che ho proposto nel libro La democra-zia globale4; e discutendo, infine, i principali processi che possono favorirlo oostacolarlo.

Esiste un problema di governance globale?

Va rilevato preliminarmente che per molti studiosi e leader politici né la go-vernance globale né tanto meno una sua eventuale forma democratica costitui-scono un problema. Molti economisti neo-liberali sono convinti che il merca-to sia un ordine spontaneo e che si debba ridurre al minimo la regolamenta-zione dei processi di libero scambio5. Favorendo la libertà di movimento dei ca-pitali, l’accesso delle imprese transnazionali ai diversi mercati, l’applicazionedelle nuove tecnologie, si stimola l’innovazione, si garantisce un rapido e co-stante aumento della produttività del lavoro, si accresce l’offerta e la domandadi beni e servizi, e si produce una maggior ricchezza distribuibile anche per ipaesi meno sviluppati, favorendo anche la loro democratizzazione. Si tratta diuna concezione che nelle sue versioni più raffinate e meno dogmatiche contie-ne argomenti apprezzabili ma che, dopo l’11 settembre 2001, gli scandali fi-nanziari e l’attenuarsi della spinta della new economy suscita meno consensi chenel recente passato.

1 Si veda A. CASSESE, International Law In a Divided World, London 1986.2 F. ATTINÀ, Il sistema politico globale, Bari 1999.3 P. LAMY, The European Union, London 2005.4 A. MARTINELLI, La democrazia globale, Milano 2004.5 K. OHMAE, The End of the Nation State, New York 1995.

Quaderni di Relazioni Internazionali

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Anche i politologi che adottano il paradigma realista nello studio della po-litica internazionale non considerano rilevante la questione della governanceglobale e non usano neppure il concetto, preferendo parlare di conflitti tra in-teressi nazionali e di lotta per la leadership mondiale. Analizzano come la lea-dership mondiale sia stata esercitata da potenze egemoniche, come la GranBretagna nell’ottocentesco “concerto delle nazioni”, dagli Stati Uniti d’Ameri-ca e dall’Unione Sovietica nei decenni dopo la seconda guerra mondiale, e da-gli Stati Uniti oggi, senza porre le questioni della sua legittimità, responsabi-lità e accountability.

Anche nelle sue versioni più recenti, gli elementi chiave dell’approccio rea-lista rimangono la lotta per la sopravvivenza degli stati, la competizione perl’egemonia tra le grandi potenze in un’arena mondiale sostanzialmente anar-chica, l’irrilevanza delle strutture e dei processi della politica interna nel con-figurare il ruolo internazionale degli stati6. Si tratta di elementi che compon-gono un quadro conflittuale e asimmetrico della politica internazionale allaluce del quale il governo del mondo sarà più o meno stabile a seconda dei rap-porti di forza tra le grandi potenze: maggiore qualora si instauri un equilibriodi potere riconosciuto tra i contendenti oppure esista una chiara egemonia diuna di esse, minore nelle diverse situazioni intermedie. Si tratterà comunquedi stabilità relativa e storicamente transitoria. Mentre gli economisti neo-libe-rali auspicano regole minime per il mercato mondiale, i politologi realisti af-fermano che i rapporti internazionali sono in realtà tendenzialmente anarchi-ci. Mentre i primi presentano una visione ottimistica del futuro come risulta-to di una crescente interdipendenza economica pacifica, i secondi presentanoun quadro pragmaticamente pessimistico di lotta per l’egemonia tra le grandipotenze.

Ma economisti neo-liberali e poli-tologi realisti, al di là delle loroprofonde differenze, condividono unaspetto fondamentale: pongono l’ac-

cento su un solo attore globale primario, che per i primi è il mercato e per i se-condi lo stato nazionale e ritengono che l’ordine mondiale sia garantito dalruolo di questo attore chiave. Entrambi hanno una concezione riduttiva dellacomplessità della politica mondiale: i primi considerano il mercato come unordine naturale capace di autoregolarsi e di garantire la convivenza interna-zionale; i secondi trascurano il ruolo delle istituzioni e degli attori transna-zionali diversi dagli stati e di tutte le relazioni che non siano riconducibili ameri rapporti di forza, non considerano la complessità del gioco dialettico trala politica interna e la politica mondiale e ignorano il ruolo delle idee e dei mo-delli culturali nella definizione dei rapporti a livello mondiale.

6 K. WALTZ, Globalization and Governance. The 1999 James Madison Lecture, in «Ps: Political Scienceand Politics», 32, 1999, 4, pp. 693-700.

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dossier Democrazia e legittimità

Per molti studiosi e leader politici né la governanceglobale né una sua eventuale forma democraticacostituiscono un problema

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È possibile una governance democratica del sistema globale?

Gli attori della global governance

Senza negare la perdurante centralità degli stati nazionali e dei mercati inter-nazionali, sono invece convinto come altri studiosi7 della esistenza di un proble-ma di governance globale che coinvolge una pluralità di attori globali (mercati in-ternazionali, imprese transnazionali, stati-nazione, organizzazioni e regimi in-ternazionali, unioni sovranazionali, istituzioni religiose, movimenti collettivi, or-ganizzazioni non governative e comunità epistemiche) dotati di diversi gradi dipotere ed influenza.

Le strategie di questi attori rispondono a diverse logiche di azione che si ispi-rano a loro volta ai principi fondamentali dell’integrazione e della regolazione so-ciale – vale a dire, alle modalità essenziali in cui le attività vengono coordinate, lerisorse allocate e i conflitti strutturati – e cioè: lo scambio o coordinamento informa di transazioni, l’autorità o controllo gerarchico e la solidarietà o integra-zione normativa. Ognuno di questi principi si fonda e si nutre di capacità collet-tivamente rilevanti mediante le quali gli esseri umani modellano il mondo so-ciale, e cioè la ragione, l’interesse e la passione. I tre principi sono ricavabili e va-riamente concettualizzati dai classici e da studiosi contemporanei dalle scienzesociali, da Hobbes ad Adam Smith, da Weber a Durkheim, da Polanyi a Hirsch-mann, dagli approcci sociologici della Sociologia economica e dell’organizzazio-ne all’approccio politologico della Political Economy.

Ciascuno di questi principi è sta-to storicamente identificato con dif-ferenti istituzioni, secondo il livellodi analisi e il tipo di sistema socialeconsiderato. Lo scambio è il principio costitutivo dei vari tipi di mercato, chesi fonda sul desiderio di acquisizione di beni degli individui e sulla necessitàdi regolazione pacifica delle transazioni e degli interessi. L’autorità è il prin-cipio costitutivo dello stato e delle altre forme pubbliche e private di governoe di organizzazione burocratica; nelle democrazie moderne si tratta di un’au-torità razionale-legale, sia nel senso del contratto sociale che ne sta alla base,sia nel senso della particolare struttura amministrativa. La solidarietà è il prin-cipio costitutivo delle varie forme di comunità (siano di tipo tradizionale, co-me la famiglia o il clan, oppure di tipo più nuovo, come i movimenti colletti-vi) che si fonda su sentimenti di appartenenza e sulla percezione di un desti-no comune da parte dei membri di un gruppo. Mercati, organizzazioni di go-verno e comunità sono meccanismi di integrazione e regolazione anche nel si-stema mondiale contemporaneo. A causa del raggio globale della loro azione,essi instaurano rapporti conflittuali e di competizione, ma anche di collabo-razione e di coinvolgimento più o meno consapevole nell’integrazione e nel-

7 J.N. ROSENAU - E.O. CZEMPIEL (a cura di), Governance without Government: Order and Change inWorld Politics, Cambridge 1992.

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I principali attori della politica globale hanno interesse aregolare le relazioni di interdipendenza ricorrendo amodelli di governance globale

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la regolazione dei rapporti sociali nel mondo. Questi attori globali hanno, in-fatti, interessi e identità diverse e spesso conflittuali, ma contribuiscono ancheoggettivamente a connettere e a integrare, condividono un interesse nella re-golazione di reti di interdipendenza e alimentano complessi modelli di gover-nance globale.

Le diverse declinazioni della global governance democratica

Ma la complessa rete di interazioni di questi diversi attori globali producemodalità democratiche di esercizio del potere su scala mondiale?

Chiariamo innanzitutto quale significato attribuire all’aggettivo democratico.Esistono diversi modelli di governance globale democratica che si ritrovano va-riamente sviluppati nell’opera dei diversi studiosi. Essi uniscono elementi sia po-sitivi che normativi e pongono l’accento su alcuni degli attori globali da me in-dicati in varia combinazione.

L’internazionalismo liberal-democratico sostiene che per fronteggiare le mi-nacce alla coesione sociale e i rischi ecologici e politici della globalizzazione con-temporanea è necessario estendere il modello di democrazia liberale rappresen-tativa oltre i confini nazionali fino al livello mondiale8. Problema cruciale per gliinternazionalisti liberali è la legittimazione del potere dei decisori e il modo in cuidevono render conto delle conseguenze delle loro azioni. Il potere politico legit-timo è costituito da una struttura impersonale e giuridicamente circoscritta dipotere, delimitato nazionalmente dalla sovranità statuale e internazionalmentedal regime dei diritti umani e dagli standard della governance democratica. Atto-ri chiave rimangono gli stati nazionali accanto al crescente ruolo delle imprese,dei movimenti collettivi e delle organizzazioni e dei regimi internazionali. Il prin-cipale problema di questo approccio è l’immunità degli attori più potenti dellapolitica mondiale dal dovere di rispondere delle conseguenze delle loro decisio-ni a stakeholders esterni. La maggior parte degli accordi e delle convenzioni in-ternazionali infatti non specificano adeguatamente i meccanismi di accountabi-lity transnazionale e in particolare gli strumenti di applicazione di sanzioni ai re-sponsabili di violazioni.

La democrazia radicale (o il repubblicanesimo radicale) si propone invece dicreare le condizioni necessarie per dotare gli individui di poteri di autodeter-minazione (empowerment) e sostiene i meccanismi di organizzazione sociale epolitica globale basati sui principi delle comunità autoregolantisi9. Attori chia-ve sono i movimenti sociali di protesta che si sono sviluppati su base naziona-le (femminista, ambientalista e pacifista) e hanno esteso il loro raggio di azio-ne alla società mondiale, che sono impegnati nel diffondere nuove identità in-

8 COMMISSION ON GLOBAL GOVERNANCE, Our Global Neighbourhood, Oxford 1995; R.O.KEOHANE, Power and Governance in a Partially Globalized World, London 2002.

9 R. FALK, On Humane Governance: Toward a New Global Politics, Cambridge 1995.

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dossier Democrazia e legittimità

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È possibile una governance democratica del sistema globale?

ternazionali e nuove nozioni di cittadinanza globale e che propongono strut-ture alternative di governance nelle forme della democrazia diretta e partecipa-tiva. La principale critica che si può muovere a questo modello è che l’introdu-zione di forme di democrazia diretta e partecipativa sono applicabili alle co-munità politiche di piccole dimensioni ma incontrano ostacoli pressoché in-sormontabili in quelle di grandi dimensioni e, a maggior ragione, nel sistemapolitico globale.

La democrazia cosmopolitica integra elementi delle prime due concezioni e sibasa sulla condivisione di alcuni principi fondamentali (pari dignità, responsa-bilità individuale, consenso democratico, sussidiarietà); pone il fondamento delpotere pubblico legittimo in una legge cosmopolitica che richiede la subordina-zione delle sovranità regionali, nazionali e locali a un quadro normativo so-vraordinato entro il quale si sviluppa una rete complessa di relazioni sistemati-che tra attori politici, reti di gruppi e di istituzioni pubbliche e private, nodi di at-tività e sedi di potere politico interconnessi a livello nazionale, regionale e inter-nazionale, in cui gli stati non sono più i soli centri di potere legittimo entro i lo-ro confini10. Gli attori chiave sono i cittadini, intesi come individui che godono dicittadinanze multiple sovrapposte. Requisito fondamentale è la crescita di una so-cietà civile globale in cui si possa sviluppare il discorso pubblico democratico nel-l’accezione di Habermas. Il modello è criticabile per la sua utopistica concezionedelle motivazioni dei principali attori della politica mondiale, per la sottovaluta-zione della dimensione del potere e della persistente importanza degli stati e deiloro conflitti.

La democrazia delle unioni sovranazionali, infine, sostiene che la governan-ce globale può essere favorita dallo sviluppo nelle diverse regioni del mondodi unioni sovranazionali sul modello dell’Unione Europea che si formano at-traverso la cessione spontanea di porzioni di sovranità mediante il trasferi-mento di funzioni da parte dei governi nazionali11 (come nella istituzione del-la Banca centrale europea di Francoforte) e si sviluppano attraverso accordivolontari di natura tecnica negoziati da esponenti dei governi, esperti e rap-presentanti degli interessi organizzati. Pur non trascurando la dimensione delpotere e della persistente rilevanza degli stati nazionali, questo modello offreindicazioni concrete per la trasformazione di una molteplicità di stati nazio-nali in un numero limitato di entità politiche regionali, con la conseguentedrastica semplificazione della politica globale. Tuttavia, anche nella situazio-ne attualmente più avanzata di superamento della logica dello stato naziona-le, e cioè l’Unione Europea, le rivalità inter-statali e la diversa percezione del-l’interesse nazionale costituiscono un serio ostacolo allo sviluppo del proces-so di unificazione sovranazionale. E resta il dubbio che l’eccezionalismo euro-peo non sia riproducibile in altri contesti.

10 D. ARCHIBUGI - D. HELD - M. KOHLER (a cura di), Re-imagining Political Community: Studies inCosmopolitan Democracy, Cambridge 1998; D. HELD et al., Global Transformations, Cambridge 1999.

11 D. MITRANY, The Functional Theory of Politics, London 1975.

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Al di là delle differenze esistenti traqueste accezioni del concetto di demo-crazia, possiamo rilevare che una go-vernance democratica deve comporta-

re una dimensione di legittimità del potere (meccanismi di rappresentanza checonsentano una reale scelta tra alternative, criteri di accountability, divisione e re-ciproco controllo dei poteri), una dimensione di efficienza/efficacia delle politi-che adottate, una dimensione di libera partecipazione a uno spazio pubblico(partecipazione alle decisioni e alla formazione dell’opinione pubblica), che pre-suppone a sua volta la garanzia dei diritti civili e politici fondamentali e il plura-lismo delle fonti di informazione.

Il modello poliarchico

Ritengo che tali requisiti possano essere meglio soddisfatti da un modello didemocrazia globale multipolare e multilivello, che ho definito poliarchico, che in-tegra i caratteri più interessanti dei modelli che ho esaminato (liberale interna-zionalista, di democrazia radicale, cosmopolitico, delle unioni sovranazionali)senza trascurare alcune fondamentali considerazioni del paradigma realista e checonsidera la governance globale come il prodotto di un insieme di istituzioni ope-ranti in base ai principi dell’autorità, dello scambio e della solidarietà. Il model-lo è poliarchico perché è il prodotto delle strategie di molti attori diversi che for-mano un sistema interdipendente. È multipolare nel senso che risulta da unamolteplicità di azioni da parte di varie entità statuali, intergovernative e sovra-nazionali che bilanciano e contrastano nelle varie regioni del mondo il ruolo dileadership degli Stati Uniti, secondo lo scenario della regionalizzazione e degli sta-ti pivot; e anche nel senso che implica il coinvolgimento di attori della società ci-vile internazionale (associazioni, mercati e imprese) in fieri. È multilivello nelsenso che istituzioni, regole di garanzia, regimi, attori governativi e non gover-nativi della società civile, regolano e integrano la società globale ai diversi livelli,sulla base di identità multiple che definiscono insiemi diversi di diritti e doveri dicittadinanza. Non trascura la persistente centralità degli stati nazionali, ma ten-de a sviluppare la democrazia sia al di sopra di essi, mediante la formazione diunioni sovranazionali come l’Unione Europea, sia al di sotto mediante lo svilup-po delle autonomie locali, sia lateralmente, mediante la crescita delle organizza-zioni non governative, dei movimenti e di altre componenti di una società civileglobale. In altri termini, tiene conto della persistente importanza dello stato na-zionale come fonte primaria di identità e di cittadinanza al fine di costruire si-stemi di governance più complessi, non in alternativa e in opposizione, ma in ag-

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dossier Democrazia e legittimità

Tutti modelli di global governance democraticariconoscono la centralità delle dimensioni della legittimità,dell’efficienza e della partecipazione

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È possibile una governance democratica del sistema globale?

giunta ad esso, attraverso lo sviluppo di cittadinanze multiple dei rappresentati ela spontanea cessione di porzioni di sovranità statuale da parte dei governanti.Non trascura il ruolo dei mercati e dei soggetti economici, ma definisce le con-dizioni necessarie affinché rendano conto delle conseguenze delle loro decisionie siano sottoposti a efficaci forme di controllo. Non trascura il ruolo degli attoricomunitari, siano essi movimenti politici o religiosi, organizzazioni non gover-native o diaspore etniche transnazionali, ma esamina i fattori favorevoli e contrarialla possibilità che agiscano nel rispetto del pluralismo culturale e dell’universa-lismo contestuale.

Tra i principi e le istituzioni corre-late esistono tensioni e conflitti; la cre-scente interconnessione crea infattimaggiori opportunità di collaborazio-ne ma anche maggiori rischi di conflitto. Ad esempio, i mercati chiedono di ope-rare con meno vincoli e meno regole, mentre i movimenti e le organizzazioni co-munitarie rivendicano concrete opportunità di autodeterminazione e di con-trollo sull’attività degli attori economici, ovvero di definire forme di sovranità de-mocratica. Ma si tratta di tensioni che possono essere non distruttive o addirit-tura utili alla democrazia, se regolate in modo non violento, perché contribui-scono a realizzare una governance poliarchica, multipolare e multilivello.

Il carattere poliarchico del sistema globale consente lo sviluppo di istituzionioperanti a vari livelli, che si controllino reciprocamente (secondo la grande le-zione di Montesquieu e dei federalisti americani per cui il potere si controlla conil potere) e che rendano conto delle conseguenze delle loro decisioni (accounta-bility) a tutti coloro che ne sono influenzati (stakeholders).

Elemento chiave del modello è l’Unione Europea, che già contribuisce in mo-do significativo alla global governance disinnescando potenziali conflitti tra pae-si che vengono inclusi come membri dell’Unione, e che può rappresentare unesempio imitabile da altre unioni regionali che possono tentare di realizzare unanalogo processo di unificazione all’interno di aree geopolitiche meno eteroge-nee sotto il profilo economico e culturale, in cui più agevole sia il riconoscimen-to di interessi comuni e la maturazione di un’identità condivisa.

Fattori che ostacolano la governance democratica

Il modello poliarchico di governance globale è realistico? A conclusione diquesto saggio esaminerò i principali fattori che possono favorire o contrastare lasua realizzazione, ovvero agevolare o ostacolare la regolazione dei mercati, la de-mocratizzazione dei governi, e l’apertura delle culture comunitarie ai valori del-

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Il modello di global governance democratica che quisi propone è un modello poliarchico, multipolare emultilivello

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l’universalismo contestuale. L’equilibrio tra questi fattori costituisce la differen-za tra un futuro utopico e uno distopico.

Iniziamo dalle molteplici tendenze politiche e culturali nella società mondia-le contemporanea che hanno ricadute negative sulla realizzazione del progettoche ho delineato. Dal momento che i modelli di governance globale democraticasono prevalentemente elaborati e proposti da parte di esponenti delle democra-zie occidentali è bene partire dagli effetti negativi delle strategie politiche di at-tori globali che sono ben radicati in tali sistemi politici. Le strategie, le decisionie i comportamenti delle organizzazioni internazionali – che per definizione do-vrebbero avere come stakeholder l’intera comunità umana, oltre a preoccuparsi didifendere la propria sopravvivenza burocratica e i privilegi dei propri funziona-ri – appaiono spesso squilibrate a favore dei membri più potenti (come i mem-bri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, i governi dei paesi del G8) odella superpotenza americana (come nel caso del Fondo monetario internazio-nale). Si alimentano in tal modo le accuse secondo cui la governance globale è unprogetto occidentale (quando non addirittura americano tout court), concepitoper diffondere valori, leggi e assetti istituzionali dei paesi sviluppati, e per soste-nere il primato dei paesi più ricchi e potenti negli affari mondiali a spese dei piùdeboli e dei più poveri.

A ciò si aggiunge un secondo processo, che consiste nella diminuita parteci-pazione e declinante fiducia nelle istituzioni democratiche; si tratta di processiche si verificano con diversa intensità nelle democrazie occidentali, che indebo-liscono il prestigio della democrazia e rendono più difficile la sua “esportazione”nei paesi in via di sviluppo che sono retti da regimi autoritari. Le democrazie con-temporanee sono caratterizzate in grado e forma diversi da una duplice derivache riduce lo spazio per la partecipazione e il controllo democratico: da un lato,la deriva verso il populismo plebiscitario, che raccoglie consensi tra gruppi socialimeno dotati di risorse economiche e culturali nel processo di globalizzazione e,dall’altro, la deriva verso l’elitismo tecnocratico, che sembra offrire risposte alledomande politiche dei gruppi meglio dotati e più competitivi. Tendenze alla per-sonalizzazione della leadership e alla banalizzazione mediatica del confronto po-litico hanno ridimensionato il ruolo dei parlamenti e delle assemblee elettive e ri-dotto il ruolo dell’opinione pubblica e del discorso critico. Tendenze neopopuli-ste di chiusura localistica e di pregiudizio etnico nei confronti di immigrati di di-versa cultura hanno trovato leader politici pronti a strumentalizzarle per dar vi-ta a movimenti xenofobi in diversi paesi.

Un terzo fattore che ostacola la global governance democratica è la tendenzadei più potenti attori sulla scena mondiale a trattare le questioni di rilevanza co-mune secondo l’ottica ristretta delle visioni del mondo idiosincratiche, dei pro-pri obiettivi specifici e degli interessi di quelli che ritengono essere i loro gruppi

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dossier Democrazia e legittimità

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È possibile una governance democratica del sistema globale?

di riferimento. Il perseguimento dell’interesse nazionale da parte dei governi na-zionali, la ricerca a tutti i costi dei profitti e delle rendite finanziarie da parte del-le imprese multinazionali e degli investitori internazionali, la diffusione di cre-denze dogmatiche da parte dei movimenti religiosi fondamentalisti, la difesa del-la propria sopravvivenza burocratica da parte delle organizzazioni internaziona-li ostacolano la cooperazione internazionale e contribuiscono a consolidare le di-suguaglianze e le gerarchie esistenti e ad alimentarne di nuove, violando dirittiumani e criteri di giustizia distributiva.

Mentre le prime tre tendenze riguardano i paesi sviluppati, le successive ri-guardano invece prevalentemente i paesi meno sviluppati e sono in parte conse-guenza delle precedenti.

La quarta tendenza contraria allosviluppo della governance globale de-mocratica è che le disuguaglianze tra ipopoli della terra non diminuiscono eanzi in alcuni casi si aggravano12. La povertà, intesa sia come privazione assolutaal di sotto della soglia minima dei consumi di sopravvivenza, sia come assenzadelle capacità di esercitare la propria libertà di scelta e di migliorare le chances divita individuale e collettiva, costituisce un grave ostacolo allo sviluppo della de-mocrazia globale e un possibile terreno di coltura per i movimenti e le dottrineche descriviamo come quinta tendenza (nel senso di fornire una legittimazionealle reazioni violente più che come terreno di reclutamento degli attivisti).

Una quinta tendenza, strettamente legata alla precedente, riguarda infatti l’e-mergere e il diffondersi di nuove forme di fondamentalismo, nazionalismo ag-gressivo e tribalismo, che costruiscono le identità dei popoli su legami primor-diali e credenze dogmatiche e inibiscono la crescita di una cittadinanza demo-cratica, sia a livello nazionale che sovranazionale. Nel mondo contemporaneo as-sistiamo alla crescita di fedi religiose fondamentaliste e credenze ideologiche dog-matiche e registriamo numerosi casi di corruzione delle identità locali in termi-ni di chiusura dogmatica, intolleranza e pregiudizio, anche come reazione alletendenze globalizzanti.

Una sesta tendenza contraria al rafforzamento delle istituzioni e delle normedi governance democratica a livello globale riguarda la persistenza di regimi au-toritari che reprimono i diritti civili e le libertà politiche in un numero ancorapiuttosto elevato di paesi, in particolare in paesi post-coloniali in via di sviluppo.I leader autoritari di questi regimi contrappongono alle regole “formali” della de-mocrazia, di cui i loro sistemi politici difettano, la democrazia “sostanziale” degliobiettivi che affermano di realizzare per il benessere dei loro popoli. Rifiutano lecritiche al loro operato, etichettandole come illegittima ingerenza straniera cheviola la sovranità nazionale, e anche come espressione dell’arroganza occidenta-

12 A. HURREL - N. WOODS (a cura di), Inequality, Globalization and World Politics, Oxford 1999.

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Le tendenze politiche e culturali che contrastano ilprocesso di global governance democratica riguardanosia i paesi sviluppati che i paesi non sviluppati

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le. In realtà, la divisione costituzionale dei poteri, l’equo processo secondo la leg-ge, la competizione elettorale multipartitica, il voto libero e segreto, la libertà diparola e di associazione, il pluralismo delle fonti di informazione non sono ele-menti dell’etnocentrismo occidentale, ma ingredienti essenziali della vita demo-cratica, che possono assumere forme specifiche nelle diverse tradizioni storichee culturali, ma che devono essere garantite a ogni livello della organizzazione po-litica in tutto il mondo.

Infine, l’ultimo fattore che rappresenta un serio ostacolo all’instaurazione diun ordine globale democratico globale riguarda una differenza di livello: consi-ste nella difficoltà di riprodurre a livello mondiale il circolo virtuoso della de-mocratizzazione che si è verificato nel contesto dello stato-nazione in virtù del-l’interazione tra mercati, governi e comunità. Nell’esperienza storica dei paesi svi-luppati, gli stati sovrani sono stati capaci di domare e regolare l’innata vitalità eil corso tumultuoso della crescita capitalistica attraverso politiche di regolazionee di ridistribuzione. Nella realtà globale di oggi non vi è alcun soggetto equiva-lente allo stato-nazione che possa realizzare politiche fiscali e sociali, controlli an-ti-trust, e norme di disciplina dei rapporti di lavoro e di tutela ambientale capa-ci di regolare i rapporti di produzione capitalistica e le dinamiche di mercato. Enon esiste un’unica comunità politica a livello mondiale, in cui gruppi socialisfruttati o svantaggiati possano scambiare la loro lealtà alle istituzioni democra-tiche con uguali diritti di cittadinanza legale, politica e sociale, e possano far sen-tire la propria voce, attraverso il voto, a decisori politici che si contendono il lo-ro sostegno.

Fattori che favoriscono la governance democratica

A fronte di questi gravi ostacoli esistono, tuttavia, processi altrettanto signifi-cativi di sviluppo istituzionale e di trasformazione culturale che rendono realiz-zabile il modello di democrazia globale nella versione che ho delineato di gover-nance multipolare e multilivello e che richiamo sinteticamente, non necessaria-mente in ordine di importanza.

In primo luogo, come ho già rilevato, lo sviluppo di unioni sovranazionali nel-le varie regioni del mondo sul modello dell’Unione Europea può rappresentareun esempio imitabile da altre unioni regionali (in America Latina, nel mondoarabo, nel Sud-Est asiatico) nel realizzare un analogo processo di unificazione al-l’interno di aree geopolitiche meno eterogenee sotto il profilo economico e cul-turale, in cui più agevole sia il riconoscimento di interessi comuni e la matura-zione di una identità condivisa. L’Unione Europea è una sorta di laboratorio delfuturo, in cui si mettono alla prova molti degli atteggiamenti culturali e dei mec-

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dossier Democrazia e legittimità

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È possibile una governance democratica del sistema globale?

canismi istituzionali che discutiamo qui come fattori che favoriscono una gover-nance globale democratica13. Sarebbe auspicabile che questi sviluppi a livello re-gionale si accompagnassero al rafforzamento delle istituzioni sopranazionali digovernance a livello mondiale (attraverso un’Organizzazione delle Nazioni Uniteriformata) che invece per il momento non sembra aver luogo. Le istituzioni so-pranazionali, sia a livello mondiale che di macro-area regionale, debbono otte-nere maggiori autorità, risorse, e indipendenza al fine di evitare il caos politicoche lo sciogliersi della relazione rigida tra sovranità, potere statale e territorialitàpotrebbe altrimenti provocare. Devono specificare e garantire la diffusione di re-gole di coesistenza che siano coerenti con i principi condivisi (a cominciare dal-le dichiarazioni universali dei diritti umani), e delle procedure per chiamare arender conto i decisori nelle grandi istituzioni economiche, politiche, culturali,delle conseguenze delle proprie azioni con implicazioni di portata mondiale el’articolazione di un costume cooperativo basato sui principi di trasparenza e re-sponsabilità e sulla pratica delle consultazioni periodiche con tutti gli attori coin-volti e influenzati dalle decisioni di impatto tendenzialmente globale (governi emovimenti, imprese e mercati, comunità e associazioni).

In secondo luogo, la governanceglobale democratica è favorita dalconsolidamento dei processi di colla-borazione inter-statale e internazio-nale esistenti14: armonizzazione delleleggi nazionali in materie regolate da accordi internazionali o risultanti dalla ge-neralizzazione di decisioni assunte da tribunali di paesi specifici; moltiplicazio-ne dei regimi internazionali e degli accordi volontari di natura tecnica negozia-ti da esponenti dei governi, esperti e rappresentanti degli interessi organizzati(come nel caso dell’accordo di Basilea del 1988 sui requisiti di funzionamentodelle banche internazionali); soluzioni di specifici problemi raggiunte da policynetworks tematici; codici etici di autoregolamentazione e standard internazionalidi buona prassi.

Un terzo processo che favorisce la global governance democratica è il sia purlento formarsi di una società civile transnazionale e di uno spazio pubblico in-ternazionale, al cui interno donne e uomini di culture diverse imparano a rispet-tare e a comprendere i valori e i convincimenti degli altri, senza rinunziare ai pro-pri, ma piuttosto valutandoli criticamente e “reinventandoli” in un dialogo tra leciviltà15. Un siffatto dialogo interculturale può essere molto aiutato dall’operasvolta da élites intellettuali e istituzioni scientifiche, artistiche e dell’informazio-ne e richiede due presupposti metodologici fondamentali: l’indebolimento del le-game tra ethos ed ethnos, tra una data visione del mondo con i suoi valori fon-danti, le sue norme di comportamento e le sue implicazioni pragmatiche, da un

13 G.F. MANCINI, Democracy and Constitutionalism in the European Union, Oxford 2000; P. LAMY, TheEuropean Union, cit.

14 J.G. RUGGIE (a cura di), Multilateralism Matters: the Theory and Praxis of an Institutional Form, NewYork 1993.

15 A. FLORINI - N. KOKUSAI - K. SENTA, The Third Force: The Rise of Transnational Civil Society, NewYork 2000; M. KALDOR, Global Civil Society. An Answer to War, Cambridge 2003.

Quaderni di Relazioni Internazionali

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L’Unione Europea rappresenta un modello di globalgovernance di successo e un laboratorio per lasperimentazione di pratiche e meccanismi istituzionalidi questo genere

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lato, e l’appartenenza a una specifica comunità di destino, dall’altro; e la diffu-sione dell’azione e del pensiero autoriflessivi, che sviluppano la possibilità di es-sere attori responsabili nella costruzione della realtà sociale per individui pur ra-dicati in una particolare cultura con proprie norme, istituzioni e pratiche. Uncontributo rilevante alla formazione della società civile transnazionale può veni-re dallo sviluppo di diversi tipi di comunità locali che si autogovernano pro-muovendo l’emancipazione di individui e gruppi e controbilanciando la con-centrazione, per certi versi inevitabile, dei processi decisionali a livello soprana-zionale, secondo una prospettiva di “glocalizzazione”.

Un quarto processo è la diffusione della cultura dei diritti umani e della con-cezione neo-illuministica dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani in quanto do-tati di ragione, che si accompagna alla crescente consapevolezza di un destinocondiviso e di una comune vulnerabilità alle crisi ambientali, sociali e politicheglobali – come la povertà, la disoccupazione, le malattie, l’inquinamento, il ter-rorismo, le pulizie etniche16. Nel villaggio globale costruito dai mezzi di comuni-cazione di massa, in cui siamo costantemente spettatori di drammi ecologici,emergenze umanitarie, guerre e violenze, si fanno meno frequenti gli atteggia-menti di indifferenza egoistica (pur essendo la nostra capacità di empatia sem-pre mediata dall’affinità culturale e limitata dalla confusione tra realtà e finzionetipica del mezzo televisivo) e cresce il bisogno di trovare soluzioni e risposte ef-ficaci e condivise basate su una cultura del dialogo e della cooperazione.

Una quinta tendenza che agevola la global governance democratica è la diffu-sione di forme di cittadinanza multipla, attraverso cui diverse identità sovrappo-ste (locale, nazionale, regionale e cosmopolitica) possono definire differenti com-plessi di diritti e doveri17. Il concetto di cittadinanza multipla non implica che l’e-mergente comunità mondiale debba richiedere ai propri membri un grado ir-realisticamente elevato di lealtà cosmopolitica, che superi ogni altro obbligo esentimento di appartenenza; ma comporta senza dubbio un senso di identità co-mune, in virtù del quale non dovremmo essere indifferenti alla sofferenza deglialtri, e dovremmo attribuire alle preoccupazioni altrui una considerazione ana-loga a quella che diamo alle nostre e a quelle dei nostri cari.

Infine, la crescita dell’atteggiamento culturale dell’universalismo contestuale, chepossiamo definire come incontro fertile e non distruttivo di culture e come impegnodi rispetto reciproco delle diverse prospettive culturali18. Si tratta di una tendenza as-sai controversa, che incontra resistenze molto forti nei vari tipi di fondamentalismoreligioso, nazionalismo aggressivo e tribalismo, ma che è più diffusa di quanto mol-ti non siano disposti a riconoscere perché non si esprime in forme drammatiche.

Un bilancio di questi processi e di queste tendenze e una valutazione delle lo-ro interazioni non è certo agevole, ma offrirebbe indicazioni preziose circa la pos-sibilità di una governance democratica del sistema globale.

16 E. MORIN, Les sept savoirs nécessaires à l’éducation du future, Paris 1999.17 J. HABERMAS, Die Post-nationale Konstellation, Suhrkamp 1998; trad. it., La costellazione

postnazionale, Milano 1999.18 U. BECK, Was ist Globalisierung?, Frankfurt 1997; trad. it. Che cos’è la globalizzazione, Firenze 1999.

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Democratic Peace and Non-Proliferation

1 If one theory holds that democracies don’t go to war with each other, another theory could hold thatcountries with nuclear weapons do not go to war with each other either. Which factor is stronger:democracy or nuclear deterrence?

When a poet writes a poem or a painter paints a picture, their audience pro-duces more meaning from their words or images than the artist intended. The ed-itors of Quaderni di Relazioni Internazionali asked me to write about the impactof democratic peace theory on the Nuclear Nonproliferation Treaty (NPT). Theircommission prompts a range of thoughts wider than the editors might have in-tended, but I hope this essay stimulates thinking about the challenges posed bynuclear weapons.

The literature on democratic peace theory has become extensive and compli-cated. I will not examine it closely here. I also resist the temptation to introducenew themes to this literature by exploring how nuclear deterrence may or maynot explain peacefulness1. Following the spirit of the editor’s commission, I as-sume without discussion the argument that the world will be more secure if ad-ditional states acquire nuclear weapons.

This essay examines instead the propositions underlying the followingsentences: democratic peace theory has encouraged some policy-makers in the United States to promote democracy as a means to enhance interna-tional security. Countries that are not democracies are seen as inherentlythreatening (and morally suspect). Non-democracies that seek nuclearweapons are most threatening of all. Indeed, they are an “Axis of Evil”. Suchregimes are not likely to give up nuclear weapon programs, and even if theywere, the Western world should not offer them positive inducements for non-proliferation because this grants them legitimacy and betrays democrats whowant to get rid of the autocratic governments that repress them. Therefore,the most effective way to remove the twinned threats of undemocraticregimes and nuclear proliferation is to remove such regimes and replace themwith democracies.

As a corollary to the foregoing propositions, a growing share of the U.S. for-eign policy establishment is starting to think that acquisition of nuclearweapons by democracies that are friendly to the United States (and the Westmore broadly?) is not a threat. U.S. treatment of Israel and India exemplifiesthis view. A further extension would be that if Japan and South Korea acquirednuclear weapons but remained friendly pro-Western democracies the U.S.would not mobilize power to roll them back. Washington might welcome thediscomfort that the new nuclear-armed democracies would cause in Beijingand other non-democratic states.

In what follows I first describe and then critique this new approach to non-proliferation: the belief that removing non-democratic governments is an effec-

Democratic Peace and Non-ProliferationGEORGE PERKOVICHis Vice President forStudies and Director ofNonproliferation Programat the CarnegieEndowment forInternational Peace.

George Perkovich

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tive leading counterproliferation strategy, and the corollary that nonproliferationrules and norms need vigorously not be enforced when friendly democraciesseek or acquire nuclear weapons.

The “Democratic Bomb Theory"

The Bush Administration’s national security strategy represents an attempt tosynthesize democratization (regime change) and nonproliferation. The Admin-istration brought to power key officials who rejected several core premises of thenuclear arms control and nonproliferation system that was established during theCold War. Officials such as John Bolton, Robert Joseph, Douglas Feith, StephenCambone, and key congressional figures believed that universal treaties oftenwere contrary to U.S. interests because they imposed constraints on Americanmilitary capabilities. The effect was like weakening the noble sheriff in a worldwith evil outlaws. Some states are threatening, and others are not; it makes littlesense to limit the power of those that are not threatening, such as the UnitedStates. And given that non-democratic regimes are more likely to cheat on legalcommitments, it is potentially foolish for democracies to constrain their own ca-pabilities. The Bush Administration therefore rejected the Comprehensive TestBan Treaty, which had long been considered emblematic of the goal of universallylimiting the development of nuclear weapons. The Administration legally abro-gated the U.S.-Soviet ABM Treaty, to free the U.S. to develop anti-missile systemsthat would protect America from some forms of attack and, in the process, reduceany state’s capacity to deter the United States from projecting power as it sees fit.

The new thinking disparaged treaties negotiated on the premise of the formalequality of states. Not all states are equal in character and in the benefits and dan-gers they pose to the world. Rather than limit or deny all states’ access to certainmilitary capabilities, the United States and the world would be better off if con-straints applied only (or primarily) to threatening actors. International rulesshould be adapted and strengthened specifically to deny technology to “roguestates” and terrorists, while leaving non-threatening states relatively uncon-strained.

This worldview produced a majorinnovation in the U.S. approach toarms control and nonproliferation.No longer were nuclear weapons per

se a problem; rather, bad guys with nuclear weapons were the problem. Nuclearweapons do not need to be eliminated, bad guys do. The essential difference be-tween the traditional rule-based approach to nonproliferation and the new one

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No longer were nuclear weapons per se a problem;rather, bad guys with nuclear weapons were theproblem

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Democratic Peace and Non-Proliferation

appeared in presidential rhetoric. President Bill Clinton in 1998 spoke of «the un-usual and extraordinary threat to the national security…of the Untied Statesposed by the proliferation of nuclear, biological, and chemical weapons and themeans of delivering such weapons». President Bush in his January 2003 State ofthe Union address framed the issue very differently: «The gravest danger facingAmerica and the world is outlaw regimes that seek and possess nuclear, chemical,and biological weapons».

Call it the “democratic bomb theory”: nuclear weapons will not be eliminat-ed as long as evil-doers remain; the benevolent democracies must keep thesearms and focus on preventing tyrants from getting and using them. Given the dif-fusion of technology and the liability of universal rules, removing outlaw gov-ernments (and terrorists) will be more effective than outlawing weapons. Asdemocracy spreads, threats to peace will be reduced and nuclear weapons in dem-ocratic hands will not be dangerous but rather will insure the peace.

From this, it follows that the central original bargains of the NPT can bedowngraded, revised or ignored. These bargains were predicated on the notionthat nuclear weapons per se were excessively dangerous and that all states, ulti-mately, should be treated equally when it comes to possessing such powerful de-vices. The goal was a situation in which no states should have nuclear weapons.In the meantime, those that had them should reduce nuclear inequality by as-sisting others in the peaceful application of nuclear energy and by pursuingarms reductions. Article IV of the NPT pointed toward redistribution of nu-clear wealth by calling on those «in a position to do so» to further the develop-ment of peaceful applications of nuclear energy «with due consideration for theneeds of the developing areas of the world». Article VI promised vaguely thatthe nuclear-weapon states would not widen the gap between the “haves” and“have nots” and would eventually narrow it to zero, first by pursuing «cessationof the nuclear arms race at an early date», and then by moving toward nucleardisarmament.

Such bargains are based on the be-lief that nuclear weapons per se arenot desirable and that states should betreated equally. Instead of universally-minded bargains, the U.S. and like-minded states should promote a system whereby the good guys (and Russia, Chi-na and Pakistan) retain nuclear weapons indefinitely and cooperate to keep thebad guys from acquiring the capability to make nuclear weapons. If a bargain isnecessary to induce the world to go along with this approach, then its central fea-ture will not be nuclear disarmament, but rather more explicit reassurance thatcountries that forswear development of uranium enrichment and plutonium re-

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Instead of universally-minded bargains the U.S.promote a system where only democratic states (plus Russia, China and Pakistan which shoulddemocratize!) retain nuclear weapons

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processing technology will receive fuel cost-efficiently from already-establishedfuel producers. President Bush suggested such an approach in a February 2004speech at the U.S. National Defense University. A special experts group commis-sioned by the director general of the International Atomic Energy Agency (IAEA)has made similar suggestions.

The new strategy is an adaptive extension of the strategy that neoconservativescredit with winning the Cold War. In this view, the U.S. led the West to triumphover the Soviet Union and Communism because Ronald Reagan did not acceptthe détente notion that the two blocs were equal. He insisted on the moral-polit-ical superiority of the free world and sought to achieve decisive military superi-ority over the Soviet Union. He dared to call the Soviet Union an “evil empire”,and to actively undermine it through rhetoric, proxy wars, arms competition, andother means2. Democracy and markets are good, and governments that do notpromote human freedom should be contested until they fall. The good shouldnot constrain its military power or believe that the bad will live by universal rules.Instead, they should maintain or even expand military superiority so that thepower of good can be projected anywhere in the world.

William Kristol and Robert Kagan trumpeted this strategy in an influential1996 article in Foreign Affairs. «The United States achieved its present positionof strength», they wrote, «not by practicing a foreign policy of live and let live,nor by passively waiting for threats to arise, but by actively promoting Americanprinciples of governance abroad – democracy, free markets, respect for liberty3».The Reagan years were a model. Then «the United States pressed for changes inright-wing and left-wing dictatorships alike…The policy of putting pressure onauthoritarian and totalitarian regimes had practical aims and, in the end, deliv-ered strategic benefits». Foreshadowing the Bush Administration’s strategy, Kris-tol and Kagan continued, «sometimes that means…actively pursuing policies –in Iran, Cuba, or China, for instance – ultimately intended to bring about achange of regime»4.

At the same time that market democracy was winning the Cold War, a hand-ful of scholars had been developing what became known as democratic peacetheory. In a 1983 essay in Philosophy and Public Affairs, Michael Doyle gave acausal explanation for statistical observations that democracies do not fight eachother. He argued that «Even though liberal states have become involved in nu-merous wars with nonliberal states, constitutionally secure liberal states have yetto engage in war with one another»5. The reasons are difficult to define, butDoyle posited that the constitutional restraints on power in republics, combinedwith mutual respect for law as the basis of conduct, and related features of con-tract-based market economics combine to make liberal states peaceable witheach other.

2 His deep aversion to nuclear weapons was slightly anomalous and was not shared by the rest of thepolitical leadership of his party. His successors ignore this part of his legacy.

3 W. KRISTOL - R. KAGAN, Toward A Neo-Reaganite Foreign Policy, in «Foreign Affairs», 75, 1996, 4,pp. 18-32.

4 Ibidem.5 M. DOYLE, Kant, Liberal Legacies and Foreign Affairs, in «Philosophy and Public Affairs», 12, 1983, 3,

p. 213.

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Democratic Peace and Non-Proliferation

When the Cold War ended with the sudden and peaceful collapse of the Sovi-et bloc, the idea of democratic peace became much more than an academic cu-riosity. If many new countries were on the verge of becoming democratic, it wasinteresting and important to know if the internal character of states would affectthe international system. Would the spread of democracy widen the zone of in-ternational peace? Heretofore, the leading theories of international affairs heldthat states all sought to maximize their power and compete in the internationalsystem in relatively similar ways. Capabilities – power – and the structure of theinternational system determined behavior much more than the character of par-ticular states. Democratic peace theory pointed in a different direction.

Scholars worked overtime in the late 1980s and the 1990s refining and debat-ing the data and causal mechanisms behind democratic peace theory. A full, com-plicated literature has resulted. One important variant produced by Jack Snyderand Edward D. Mansfield concurs that mature democracies do not fight each oth-er, but maintains that states in transition to democracy (or autocracy) are proneto war. «On average», Snyder and Mansfield conclude, «democratizing states wereabout two-thirds more likely to go to war than were states that did not experiencea regime change»6.

Of course, politicians and theirspeechwriters tend not to follow theseemingly endless esoterica of aca-demic debate. In the United States inthe heady aftermath of the Cold War few politicians could resist the idea thatdemocracies are peace-loving and that the U.S. and the world will be safer ifmore states become democratic. It follows politically (if not academically) thatthe United States should use its power to promote democracy around the world.On June 3, 1997, men who would become the driving figures of the Bush Ad-ministration’s foreign policy signed a “Statement of Principles” forming the Pro-ject for The New American Century: Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wol-fowitz, Zalmay Khalilzad, Lewis Libby, Peter Rodman, Elliott Abrams, and JebBush, the future president’s brother. The Statement urges increased defensespending, more active challenging of «regimes hostile to our interests and val-ues», and promotion of «the cause of political and economic freedom abroad».

All of the trends discussed above come together in The National Security Strat-egy of the United States, released in early 2006. This strategy declares:

«It is the policy of the United States to seek and support democratic move-ments and institutions in every nation and culture, with the ultimate goal of en-ding tyranny in our world. In the world today, the fundamental character of re-gimes matters as much as the distribution of power among them. The goal of our

6 E.D. MANSFIED - J. SNYDER, Electing to Fight. Why Emerging Democracies Go to War, Cambridge2005, p. 12.

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The top international security objective becomes toeliminate tyrannies while denying their acquisition ofnuclear weapons

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statecraft is to help create a world of democratic, well-governed states that canmeet the needs of their citizens and conduct themselves responsibly in the inter-national system. This is the best way to provide enduring security for the Ame-rican people»7.

Administration strategists argue that democracy promotion enhances securi-ty «Because democracies are the most responsible members of the internationalsystem, promoting democracy is the most effective long-term measure forstrengthening international stability; reducing regional conflicts; countering ter-rorism and terror-supporting extremism; and extending peace and prosperity»8.The primary threats, in this view, are “tyrannies,” which include terrorist organ-izations. And the single greatest danger posed by tyrannies is the likelihood thatthey would use nuclear, biological or chemical weapons if they could acquirethem. Therefore, the top international security objective must be to eliminatetyrannies while, in the meantime, denying their acquisition of these weapons.Given the difficulty of stopping all spread of nuclear, biological and chemicalweapon capabilities, arms control and nonproliferation instruments will not beas effective as regime change.

Between a “Regime Change” Strategy and a “Behavior Change” Strategy

Iraq was the first case against which the new U.S. grand strategy was exercised9.The Bush Administration believed that the UN and IAEA inspections processesin 2002 and 2003 were largely a waste of time and merely served the interests ofIraq and others (including Russia, France and China) that put commercial con-cerns above enforcement of nonproliferation. A regime like Saddam Hussein’swould not give up its weapons of mass destruction capabilities and ambitions un-less it was forced to by major powers. And if key major powers were not willingto coerce Saddam into verifiably implementing disarmament resolutions, thenthe only solution was to remove the Saddam regime. Key administration officialsand influential pundits had concluded years earlier that Saddam must be strick-en from power; the point here is that they based their case for regime change in2003 on the need to enforce UN disarmament resolutions, and they argued thatthe advent of democracy in Iraq would eliminate future threats of nuclear, bio-logical or chemical weapons.

Painful experience in Iraq and the departure of leading neoconservatives fromthe Bush Administration after the 2004 elections have diminished Washington’sconfidence that regime change and democratization can be the leading elementsof effective nonproliferation strategy. But this approach has not been abandoned.

7 THE WHITE HOUSE, The National Security Strategy of The United States of America, WashingtonD.C., March 2006, p. 1.

8 Ibidem, p. 3.9 This was not only a neoconservative or Republican strategy; a significant minority of Democrats in

Congress supported the Bush Administration’s decision to invade Iraq.

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Democratic Peace and Non-Proliferation

For approximately five years powerful actors in the Bush Administration, partic-ularly Vice President Richard Cheney and his advisors, have favored regimechange over diplomatic engagement regarding North Korea and Iran. Propo-nents of regime change and proponents of deal-making have tended to canceleach other out, resulting in U.S. rhetoric and actions that were patently insuffi-cient either to build strong diplomatic coalitions to pressure and pull Pyongyangand Tehran into compliance or to overthrow the rulers of these states. North Ko-rea is exceptionally closed and offers little prospect of democratization, but Iranis one of the most open societies in the Middle East and therefore remains atempting opportunity for the U.S. to pursue nonproliferation through democra-tization.

The 2006 National Security Strate-gy reveals the tension between thosewho urge diplomacy with the currentgovernment of Iran to address the spe-cific problem of nuclear proliferation and those who want to withhold diplo-matic engagement unless and until that government changes:

«As important as are these nuclear issues, the United States has broader con-cerns regarding Iran. The Iranian regime sponsors terrorism; threatens Israel;seeks to thwart Middle East peace; disrupts democracy in Iraq; and denies theaspirations of its people for freedom. The nuclear issue and our other concerns canultimately be resolved only if the Iranian regime makes the strategic decision tochange these policies, open up its political system, and afford freedom to its peo-ple. This is the ultimate goal of U.S. policy»10.

This passage could be read to say that the U.S. would deal with the currentregime if it changed its behavior – a strategy of “behavior change” rather than“regime change”. On the other hand, the authors probably believe that the open-ing up of the Iranian political system and granting of freedom to the Iranian peo-ple will occur only under a different regime. This may well be true and desirable.From a nonproliferation point of view, however, the issue is whether a strategyand formulation as complex and ambiguous as this can be effective in the timeavailable before Iran has the capability to produce nuclear weapons.

The Bush Administration itself appeared to recognize the inadequacy of aregime-change-first strategy when in June 2006 it agreed to offer Iran direct talkswith the United States if Tehran would resume full suspension of fuel-cycle re-lated activities. The June initiative was driven by the State Department. It reflect-ed the departure of Lewis Libby, Paul Wolfowitz, and Douglas Feith from the ad-ministration, and the loss of power of John Bolton and Donald Rumsfeld. No one

10 THE WHITE HOUSE, The National Security Strategy, cit., p. 20.

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Painful experience in Iraq have diminished the confidencethat regime change and democratization can representthe key elements of a nonproliferation strategy

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in the Bush Administration believes that economic incentives and diplomaticengagement are going to persuade Iran to abandon uranium enrichment. Rather,the view is that regime change in Iran is a distant prospect and military attack onIran would have major negative consequences. Officials recognize that the U.S.cannot solve the Iran proliferation challenge alone and therefore must take stepsnecessary to build an international coalition, as discussed below. Others will notjoin such a coalition if the U.S. is not willing to participate in direct diplomacywith Iran; hence the June offer by the Bush Administration.

Democratic States and the “Democratic Bomb Theory"

There is another side of the strategy to base nuclear nonproliferation policyon the character of governments. Beyond targeting bad actors, the “democraticbomb strategy” seeks to reduce penalties imposed on friendly democracies thatpossess nuclear weapons outside of the NPT. This follows the logic that nuclearweapons per se are not the proliferation problem.

Since the mid-1960s the United States has not sought to pressure or cajoleIsrael to give up its nuclear-weapon capabilities. Israel’s discretion in notdemonstrating it has nuclear weapons has facilitated Washington’s tacit sup-port. Generations of U.S. officials, foreign policy elites, and reporters have ac-cepted that the small, beleaguered democracy’s nuclear weapons pose nothreat to the U.S. or anyone else and exist only for defensive purposes. Israel’sarsenal also could spare the U.S. difficult decisions about intervening in war todefend the Jewish state. To the extent that Israel can defend itself (and/or de-ter its adversaries from exercising mortal threats), the U.S. can stay out of itsfights. The deference given to Israel’s nuclear status could be different if Israel’sneighbors, including the Palestinians, operated liberal democracies. But if thatwere the case, then it would be plausible to create a zone free of weapons ofmass destruction in the Middle East, as Israel, the United States, and severalNPT conferences have endorsed.

Israel’s nuclear discretion enabledthe U.S. for decades to deny that it fol-lowed an egregious double standard inits nonproliferation policy. Implicitly,

the U.S. and many other countries tolerated Israel’s possession in ways they didnot accept India’s and Pakistan’s – the two countries that, like Israel, did not signthe NPT. Again, there were many reasons for this, but one of them was the beliefthat Israel’s democratic character made an enormous difference (ignoring issuesof how Palestinians are treated under Israeli occupation).

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dossier Democrazia e legittimità

The "democratic bomb theory" extends the logic ofthe traditional U.S. treatment of Israel and turns it intoa strategic principle

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Democratic Peace and Non-Proliferation

The “democratic bomb strategy” of the Bush Administration extends the log-ic of U.S. treatment to Israel and turns it into a strategic principle. India is the firstexplicit application of the strategy. In July 2005 President Bush and Indian PrimeMinister Manmohan Singh announced a plan for U.S.-Indian nuclear coopera-tion that, in effect, ended three decades of American punishment of India fordemonstrating its nuclear weapon capability. The Bush Administration decidedthe U.S. would change its laws and allow India to receive American nuclear ma-terial, technology and know-how that had been denied since 1978 because Indiadid not accept safeguards on all of its nuclear facilities. The U.S. also pledged touse its influence to persuade the Nuclear Suppliers Group to amend its rules andfacilitate nuclear commerce with India.

The details of the U.S.-India deal are unimportant for the purposes of thisessay. What matters is that the U.S. decided to abandon a long-standing inter-national approach to nonproliferation which prohibited nuclear cooperationwith all non-nuclear-weapon states under the NPT that do not apply interna-tional safeguards on all of their nuclear facilities. Washington is making an ex-ception for India because it is a friendly democracy. As Undersecretary of Statefor Political Affairs, Nicholas Burns put it during a May 16 discussion at theCarnegie Endowment for International Peace, «We treat law-abiding demo-cratic countries that are friends of ours differently than law breaking authori-tarian governments».

To be sure, many officials in the Bush Administration and the U.S. Congressdo not like this deal and wish the President had not made it. And many nonpro-liferation specialists reject the overall strategy from which the India deal derives,the strategy of basing policy on the character of particular governments ratherthan on the danger of nuclear weapons and materials and the desired universal-ity of rules. There is a tension between the two approaches, and it deserves fullerU.S. and international debate. To that end the following section critiques theemerging U.S. strategy of making regime type the determining factor in nonpro-liferation policy.

The Difficulties of the “Democratic Bomb Strategy”

Focusing nonproliferation policy on the types of government involved is notnecessarily ineffective, but it is insufficient and, in many ways, problematic. Lia-bilities arise whether action is focused on eliminating a bad tyrannical regime orrewarding a good democratic one. Each side of the regime-centric strategy isrisky; the combination of the two – trying to eliminate bad regimes and rewardgood ones – compounds the risk.

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In Iran, for example, conservatives have consolidated their position since2003, in part due to the nationalism engendered by U.S. belligerence towardTehran. Even Iranian democrats do not foresee major political reform hap-pening this decade. But Iran is highly likely to master the uranium enrichmentprocess in this time. Similarly, when the U.S. negotiated the agreed frameworkwith North Korea in 1994, Washington officials expected that the North Ko-rean regime would collapse before the U.S.-led consortium would have tocomplete installation of two nuclear power reactors. But the North Koreanregime remains in power and has produced many more nuclear weapons. Re-moval of authoritarian governments by means other than major warfare(which has its own liabilities) is more complicated and difficult to managethan a nuclear-weapon-acquisition program; the disjunction in time lines be-tween the two processes is a major problem for a regime-change nonprolifer-ation strategy.

Eliminating non-democratic regimes also can create great danger. Iraq is themost recent example, and the only case where regime change was executed ex-plicitly as a nonproliferation measure. But as noted earlier the scholars Jack Sny-der and Edward D. Mansfield have documented that governmental transitions of-ten lead to military conflict. Such military conflict, as in Iraq, may or may not bemore dangerous than the acquisition of nuclear weapons by Iraq would havebeen, but the matter needs to be weighed more seriously than proponents of co-ercive democratization tend to do. What would be the effects of toppling the gov-ernments of North Korea, Iran, or, in the future Syria, Egypt or Saudi Arabia ifthey sought to acquire nuclear weapons capabilities?

If removing non-democratic regimesis a risky, potentially ineffective strategy,so, too, is the focus on regime type overthe danger of nuclear weapons and fissile

materials per se. Despite the desire to find virtue in the good guys’ possession of nu-clear weapons, the fact is these weapons and fissile materials are dangerous wher-ever they exist. Weapons and materials can be stolen or otherwise diverted to irre-sponsible actors from good and bad states. Good and bad states also can haveflawed command and control systems or other organizational weaknesses thatcould result in nuclear weapons being used unjustifiably. These dangers associatedwith all nuclear weapons and materials must be contained and eliminated by uni-versal action. Standards of behavior must be established sufficient to meet the giv-en challenge and then all states must be held accountable to uphold the standards,whether they are democracies or not.

Not everyone agrees on who is good and who is bad. The differences over suchjudgments can cause ruptures in coalitions necessary to enforce international

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dossier Democrazia e legittimità

Pursuing nonproliferation through regimechange/democracy promotion can actually increasedemand for nuclear weapons

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Democratic Peace and Non-Proliferation

rules, and can even lead to conflict. Isolating Iran is difficult in part because theU.S. seems so opposed to the particular Iranian regime, while Russia and Chinado not find it much more odious than regimes the U.S. tolerates. If Taiwan movedto hedge its nuclear bets, the U.S. now might be reluctant to treat it harshly as abad regime, while China would insist on tough action. If Iran acquires nuclearweapons, and the European Union rebuffs Turkey’s bid to join it, one can imag-ine the U.S. tolerating Turkey’s development of a nuclear weapon option. Russia,for its part, would probably view this much more dimly. Furthermore, good statescan become bad on the long road to democracy: Iran under the Shah was a friendof the United States, then became an enemy. The Afghan mujaheddin were free-dom fighters in the 1980s and terrorists in 2001. The Russia that became a part-ner of the West in 1992 appears different today. Is Pakistan a nuclear armed goodguy or bad guy? Again, the challenge of mustering international coalitions to en-force rules will be easier to meet if leading powers such as the United States, Rus-sia, or China are not seeking to exempt themselves and their friends while singlingout their adversaries, but rather press for rigorous enforcement of the rules every-where. Russia, China and the U.S. would not necessarily see eye-to-eye and co-operate well; but the great power that is not pursuing double standards will havemore political leverage over the others.

Pursuing nonproliferation through regime change/democracy promotion canactually increase rather than reverse demand for nuclear weapons. Governmentleaders in states such as Iran, North Korea, Iraq, and perhaps others may seek nu-clear weapons precisely to preserve their rule against internal and external threats,including the United States. U.S. policies to remove these governments and/or topromote democratic reforms within their societies can harden leaders’ determi-nation to acquire nuclear weapons. Nuclear weapons become seen as a bulwarkagainst U.S. intervention and a means to consolidate regime power. Unintendednegative effects may extend beyond nonproliferation: common sense suggeststhat countries will not undertake successful democratization under duress;rather, the toleration, give-and-take, and patience required for democracy willonly be embraced when a state and society feel secure that they will not suffer for-eign aggression while they are establishing their democratic practices. Threats offoreign aggression tend to cause power to be centralized and democratic cultureand practice to be constrained. If countries such as Iran, North Korea, Uzbek-istan, Syria, etc., believe that the U.S. will undertake coercive regime change theirpopulations may be less inclined to challenge their strong-armed rulers who willbe using U.S. interference to justify the tough international policies.

Any strategy to persuade or coerce a country to reverse a program that hasneared the capability to build nuclear weapons requires the full support of ma-jor powers. Even a state as strong as the United States cannot achieve such a dif-

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ficult nonproliferation task alone. Other major powers are required to help guar-antee the benefits that a proliferating country might be offered to desist, and todemonstrate that punishment in the form of isolation, sanctions and possiblearmed attack will be inescapable if the country continues to acquire nuclearweapons. By far the best way to achieve this international unity is through theUnited Nations Security Council. Under Chapter VII, Council resolutions anddemands are mandatory for all states to uphold. Thus, for example, if sanctionswere imposed by the Council under Chapter VII, even Iran’s major trading part-ners such as Japan, Italy, and others would have to uphold them (or face interna-tional consequences themselves).

Unfortunately, a nonproliferationstrategy focusing on regime change(aggressive democracy promotion)

undermines the great power cooperation on which success ultimately depends.The reasons for this are simple if not pleasing. Russia and China hold veto pow-er in the UN Security Council, and neither supports efforts by the U.S. (or theEU) to promote democracy and regime change in other countries. Rulers inMoscow and Beijing seek to stymie democratic pressures in their own societiesand, respectively, in Russia’s near-abroad and Taiwan. Both regimes demonize the“color revolutions” of recent years and blame these democratic movements onWestern interference. The Carnegie Endowment’s Robert Kagan is correct thatChina and Russia oppose UN-backed sanctions in principle. «Russians and Chi-nese see nothing natural» in democratic revolutions, «only Western-backed coupsdesigned to advance Western influence in strategically vital parts of the world».

Naturally, then, Moscow and Beijing will refuse to support Chapter VII reso-lutions to coerce Iran or other countries to give up nuclear activities as long asthey believe that the deeper aim of the U.S. (and the West) is to promote democ-racy. As a Chinese official recently said in private, «as long as America’s strategyis regime change, we will not support it».

Recognizing this reality does not mean endorsing it. The democratic worldshould neither disavow the spread of democracy nor abandon support of de-mocrats in Iran, Burma, Egypt, Pakistan, Ukraine, Georgia, Taiwan or anywhereelse. The issue is the means by which democracy is promoted, and the priorityand timing with which multiple interests should be pursued. The analysis offeredhere suggests strongly that stopping and reversing suspicious nuclear activitiesdeserves the highest priority and cannot be achieved reliably and at reasonablecost by a democratization strategy.

The liabilities of focusing on regime types rather than weapons and country-neutral rules arise whether the policy in question is rewards or sanctions. Coun-tries, including Russia and China, generally are happy to reward their friends by,

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Any strategy of nonproliferation requires the fullsupport of major powers; the U.S. cannot act alone

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for example, selling them nuclear reactors or fuel that the rules otherwise pro-hibit. The problem is that not everyone agrees on who is a friend and who is a foe.When the U.S. moves to change the rules to help India, several reactions occur.Some countries object (quietly) because they feel that no country should be re-warded for having nuclear weapons, and that the world should have one rule foreveryone. Others, such as Russia, France, the United Kingdom, support thechange because they hope to benefit from it, too, and will hold the U.S. account-able (morally at least) if the exception sought for India (or other U.S. friends) isexploited later to help less friendly states. Russia and China as competitors to theU.S. will simultaneously seek similar rule exemptions to help their friends andthey will justify their reluctance to enforce other rules, as with Iran, by arguingthat the U.S. enforces some rules and revises others whenever it serves its inter-est, and is in no position to criticize Moscow or Beijing for their selective regardfor rules. Americans (and others) can point out objective criteria that distinguishbetween good, friendly states and those that threaten universal human rights andinternational security, but this will be politically unpersuasive. The unavoidableinconsistency in U.S. treatment of states will be used to break the credibility ofAmerican arguments and free Russia, China and others from pressure to enforcerules. In other words, changing rules to suit one’s friends weakens rather thanstrengthens the overall effectiveness of a rules-based system. Selective enforce-ment begets lax enforcement.

Finally, if nuclear weapons are nottreated as a problem per se, and univer-sal rules are not strengthened, but in-stead policy seeks to remove or reformindividual states and terrorists to promote democracy, the world could quickly facegreater rather than lesser nuclear dangers. In terms of strategic logic, the only thingstanding in the way of welcoming Japan, South Korea, Taiwan, and Turkey to ac-quire nuclear weapons is the NPT. Morally, politically, and strategically, under thepolicy critiqued here it would be good if these friendly democracies had nuclearweapons. They would not threaten the United States; they would deter or alarmNorth Korea and China (in Northeast Asia) or Iran and perhaps Russia (in the caseof Turkey). And given the view that arms control treaties are unenforceable paperhardly worth relying on for international security, why should the NPT be allowedto impede the formation of a friendly, democratic nuclear bulwark around Russia,China, Iran and other insufficiently democratic states?

Of course, strong arguments can be deployed against such a scenario, and fewin the United States would endorse nuclear weapon acquisition by Japan andSouth Korea (even fewer would welcome Taiwan and Turkey into the nuclearclub). But given the shift in U.S. strategy reflected in policy toward Iraq, Iran, Is-

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Changing rules to suit one's friends weakens ratherthan strengthens the overall effectiveness of a rules-based system

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rael and India, and the disregard of disarmament obligations under Article VI ofthe NPT, is it unimaginable that leaders in Tokyo and Seoul would conclude thatthe U.S. would do nothing serious to stop or punish them if they hedged their nu-clear bets? After all, they’re friendly democracies.

Conclusions

For many reasons the world would be a better place if every society were rep-resented by a democratic government. The prospect of perpetual peace amongstsuch states is enticing. If all were mature democracies, perhaps none would feelthe need to possess nuclear weapons. Or, perhaps, a few states would retain nu-clear weapons, but the others would not be unsettled by this and would regardthese residual arsenals as a collective insurance policy of sorts. If all were democ-racies, perhaps North and South Korea would be unified and would not seek nu-clear weapons, and Iran would not feel the need for them, too. Many possibilitiescan be imagined.

Unfortunately, we are not yet close to a world where all states are maturedemocracies. We have mature democracies living alongside unstable fledglingones, jostling for power with autocracies that feel threatened by democracy pro-motion on their borders or in their midst. We have failed and failing states. Grow-ing evidence indicates that turning societies from failed or authoritarian govern-ment to democracy is exceedingly difficult, and filled with risks of backslidingand conflict.

Adding nuclear weapons to thismix makes it more volatile. Ninecountries have nuclear weapons andappear determined to keep them.

Some of these countries are friends, some are adversaries. And the adversariesamong the nine do not share the same friends or the same judgments aboutwhich other states deserve to be treated as friend or foe. These cross-cuttinginterests and preferences among the acknowledged nuclear weapon possess-ing states and their various friends and foes mean that attempts to treat pro-liferation on a case-by-case basis – some cases to be tolerated, others not – willengender serious conflict. Only common rules to be applied in all cases offera basis for managing the diversity of interests affecting the nuclear order to-day.

A founding premise of the nuclear nonproliferation system is that it will beexceedingly difficult to sustain a world in which a handful of countries possessnuclear weapons and tries to keep the rest from following suit. The only way this

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Discriminating between democracies and non-democracies will result in less stability and securitythan the original strategy reflected in the NPT

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would be possible for the foreseeable future would be if the “haves” provide suchbountiful benefits to the “have nots” that the differences between the two cate-gories appear equitable. Reneging on core bargains and the goal of universal stan-dards will only exacerbate risks of proliferation and disorder. Discriminating be-tween democracies and non-democracies in punishing or tolerating nuclearweapon proliferation will result in less stability and security than the originalstrategy reflected in the NPT.

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1 S. HUNTINGTON, The Third Wave of Democratization in the Late Twentieth Century, Norman 1993;trad. it., La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, Bologna 1995.

2 I dati sono tratti dalle statistiche della Freedom House, che classifica i vari paesi del mondo a secondadel grado in cui tutelano i diritti politici e le libertà civili dei cittadini,<http://www.freedomhouse.org>.

Introduzione

I recenti processi di allargamento dell’Unione Europea e della Nato nascononella grande cesura del 1989. La fine della guerra fredda, infatti, come quella ditutte le precedenti grandi guerre, ha posto le condizioni per la riorganizzazionedello spazio politico europeo, restituendo a un destino individuale paesi che ilconfronto fra i blocchi aveva pietrificato in una storia collettiva. Come sappia-mo, molti di quei paesi hanno iniziato e proseguito in modo serio, anche se condiverso successo, un percorso di riforme politiche, economiche e sociali che li haavvicinati agli ex-nemici dell’Europa occidentale. Anche dopo il 1989, di conse-guenza, così come era successo dopo le altre grandi cesure internazionali del pas-sato, la diffusione della democrazia come forma di governo ha conosciuto unasignificativa accelerazione, contribuendo in modo deciso alla terza ondata dellademocratizzazione che era cominciata nella seconda metà degli anni ‘701: infat-ti, 57 dei 69 paesi che hanno conosciuto processi di apertura politica fra il 1974e il 2004 hanno incrementato in modo stabile il loro grado di libertà a partiredal 19892.

Ora, se l’Europa ha giocato un ruolo di primo piano nei recenti processi di de-mocratizzazione, dato che 21 di quei 57 paesi, e cioè il 37% del totale, sono col-locati sul continente europeo, va anche sottolineato che il 1989 ha portato con séuna radicale modificazione delle matrici profonde della conflittualità e dell’in-stabilità internazionale. In questo processo, il panorama strategico della guerrafredda, statico, monolitico e centrato sulla divisione dell’Europa in due blocchicontrapposti, è divenuto sempre più complesso e variegato: da un lato, la naturadelle principali fonti di conflitto internazionale si è diversificata, a seguito del-l’accresciuta importanza delle minacce non tradizionali alla sicurezza degli stati;dall’altro lato, la stessa collocazione spaziale delle minacce è mutata, spostando-si dallo spazio europeo in una pluralità di aree geopolitiche extra-europee.

Insomma, mentre l’Europa superava le sue grandi divisioni – quella militarefra i blocchi e quella politico-economica fra liberaldemocrazia e comunismo – es-sa conosceva un processo di provincializzazione che la ha portata ai confini delcentro strategico del nuovo sistema internazionale. La democratizzazione e laprovincializzazione strategica dell’Europa sono i termini cardine da tenere pre-senti nel riflettere sui processi di allargamento dell’Ue e della Nato, che tanto han-no contributo alla prima nel quadro della seconda.

Ordine internazionale e democrazia.L’allargamento dell’Unione Europea e della Nato dopo il 1989

MARCO CLEMENTIè Ricercatore confermatoe docente incaricato di Relazioni Internazionalipresso l’Università di Pavia.

Marco Clementi

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Ordine internazionale e democrazia

I processi di allargamento dell’Ue e della Nato

I nuovi membri non sono figure eccezionali nei processi dell’integrazione eu-ropea e della cooperazione militare occidentale. Anzi, essi sono una costante nel-la storia istituzionale dell’Ue e della Nato. Nel corso della guerra fredda, l’alloraComunità economica europea ha conosciuto due ondate di allargamento chehanno portato, al fianco dei 6 paesi fondatori3, la Gran Bretagna, l’Irlanda e la Da-nimarca nel 1973, la Grecia nel 1981, la Spagna e il Portogallo nel 1986. La Nato,dal canto suo, ha iniziato ad allargarsi subito dopo il 1949, quando fu firmato ilPatto atlantico, poiché ai 12 membri iniziali si sono aggiunte la Grecia e la Tur-chia nel 1952; la Germania ovest nel 1955 e la Spagna nel 19824. I processi di al-largamento dell’Ue e della Nato, in altre parole, sono un tratto naturale del lorofunzionamento. Da questo punto di vista, l’ingresso di nuovi membri appare siauna conseguenza del loro operare sia un mezzo che permette loro di continuarea farlo, adeguandosi all’evoluzione delle loro condizioni interne e del contesto in-ternazionale. Se si preferisce: sia una testimonianza della loro vitalità sia una ne-cessità per conservare quella vitalità.

In termini generali, questi due aspetti hanno caratterizzato anche i proces-si di allargamento del post-1989 che, tuttavia, hanno assunto diversi trattiinediti rispetto al passato. Guardandoli a posteriori, per quanto lungo un cam-mino non ancora compiutamente percorso, i recenti processi si sono caratte-rizzati per almeno tre elementi di novità. In primo luogo, per la loro ampiez-za quantitativa, che ha portato l’Ue e la Nato ad accogliere in tempi relativa-mente rapidi un numero di paesi nettamente superiore a quello dei nuovimembri di tutta la guerra fredda. In secondo luogo, per la loro grande etero-geneità, conseguente alla marcata difformità politica, economica, culturale edemografica esistente fra i vecchi membri e gli aspiranti tali ma, anche, fra inuovi membri stessi. In terzo luogo, per la loro stretta interconnessione, poi-ché i processi di allargamento dell’Ue e della Nato si sono spesso sovrappostie incrociati, influenzandosi a vicenda, come mai era capitato nel passato. Que-sti tre elementi possono essere usati per isolare in uno sguardo d’insieme ipunti essenziali dei processi di allargamento dell’Ue e della Nato e i problemiche hanno incontrato e sollevato5.

Per cominciare questo rapido esa-me occorre osservare che la grandedifformità nelle condizioni di parten-za degli aspiranti membri ha imposto quale criterio ispiratore dei processi di al-largamento una logica di condizionalità che in misura molto minore aveva gui-dato gli allargamenti del passato. Secondo tale logica, l’ingresso nelle due istitu-zioni sarebbe stato possibile solo per quei paesi che avessero attuato riforme suf-

3 Essi erano Belgio, Francia, Germania ovest, Italia, Lussemburgo e Olanda.4 I firmatari iniziali del Patto atlantico furono Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Gran Bretagna,

Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo e Stati Uniti.5 Per delle analisi approfondite si vedano N. NUGENT (a cura di), European Union Enlargement,

Houndmills 2004; R.W. RAUCHHAUS, Explaining Nato Enlargement, London 2001; F.SCHIMMELFENNIG, The EU, NATO and the Integration of Europe, Cambridge 2003.

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I processi di allargamento post-1989 sono caratterizzatida ampiezza, eterogeneità, stretta interconnessione

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ficienti a soddisfare l’insieme di requisiti giudicato necessario a renderli compa-tibili con i valori, gli obiettivi, i doveri e le regole dell’Ue e della Nato.

Così, per l’Ue, mentre gli allargamenti precedenti il 1989 erano avvenutisulla scorta del rispetto di principi politici generali, come quelli di democrati-cità stabiliti nel Consiglio europeo (Ce) di Copenhagen del 1978, ma non disimili standard burocratici o economici6, quelli seguenti hanno proceduto sul-la base di una definizione molto più dettagliata e stringente dei requisiti perl’accesso, che ha trovato forma compiuta nel Ce di Copenhagen del 1993. Se-condo quella sintesi:

«l’appartenenza all’Unione richiede che il paese candidato abbia raggiun-to una stabilità istituzionale che garantisca la democrazia, il principio di le-galità, i diritti umani, il rispetto e la protezione delle minoranze, l’esistenza diuna economia di mercato funzionante nonché la capacità di rispondere allepressioni concorrenziali e alla forze di mercato all’interno dell’Unione. Pre-suppone anche la capacità dei paesi candidati di assumersi gli obblighi di taleappartenenza, inclusa l’adesione agli obiettivi di un’unione politica, economi-ca e monetaria»7.

Un insieme di condizioni che, in pratica, ha implicato per i paesi candidati, ol-tre alla liberalizzazione del sistema politico, riforme estremamente articolate e atutto campo, tramite l’adozione di politiche di tutela della proprietà privata, diapertura alla concorrenza economica e al pluralismo informativo, di riforme delsistema bancario e della pubblica amministrazione, di lotta alla corruzione, emolte altre ancora.

Così, per la Nato, che nel passato si era ampliata senza porre requisiti specifi-ci in nome delle necessità di contenere il blocco sovietico8, dopo il 1989 sonocomparsi espliciti criteri per l’ammissione, anche se non rigidamente fissati co-me nel caso dell’Ue. Infatti, mentre il Rapporto sull’allargamento della Nato, ap-provato nel 1995, specificava che «non vi è una lista rigida o chiusa di criteri perinvitare nuovi membri a unirsi all’Alleanza»9, gli alleati hanno in seguito aggiun-to condizione a condizione, richiedendo ai paesi candidati di sottoporre al con-trollo democratico le forze armate, di risolvere le rispettive dispute territoriali, digarantire all’alleanza il pieno accesso al loro territorio, di ammodernare le loroforze militari e di rendere compatibili con quelle alleate le loro strutture di con-trollo e comando, di contribuire al budget comune e alle strutture militari comu-ni, per esempio fornendo almeno una brigata in grado di combattere sul campoal fianco degli altri membri, e altre ancora.

6 Rispetto all’allargamento meridionale della Cee, per esempio, Wallace sottolinea come «[i] criteribasilari per la partecipazione all’Ue erano politici. Se questi principi non avessero scavalcato leconsiderazioni economiche, né Portogallo né Grecia sarebbero stati accettati come candidati», W.WALLACE, Opening the door. The enlargement of NATO and the European Union, London 1996, p. 16.

7 Consiglio europeo di Copenhagen, 21-22 giugno 1993, Conclusioni della Presidenza.8 L’art. 10 del Patto atlantico, infatti, sancisce semplicemente che: «Le Parti possono, con decisione

unanime, invitare ad aderire qualunque Stato europeo in condizione di favorire i principi di questoTrattato e di contribuire alla sicurezza dell’area nord-atlantica».

9 Consiglio Nordatlantico, Bruxelles, 3 settembre 1995.

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Naturalmente, fissare dei requisitiminimi per ottenere l’ingresso nell’Ueo nella Nato non risolveva di per sé ilproblema, poiché l’elevato numero deicandidati imponeva una qualche regolazione dell’accesso alle due istituzioni e,nella sostanza, rispondere a domande come: con quale velocità aprirsi ai nuovimembri? A quali candidati aprire le porte per primi e a quali in seguito? In qua-le misura mediare o sacrificare l’effettivo rispetto dei requisiti dell’accesso a op-portunità e incentivi di altra natura? Domande complicate di per sé ma, anche,rese particolarmente spinose dal pericolo che risposte inadeguate avrebbero po-tuto causare gravi danni in almeno tre direzioni.

Prima di tutto, per gli stessi aspiranti membri, poiché la loro stabilità politicainterna così come la continuità del loro percorso di riforme dipendevano dal ri-conoscimento esterno dei traguardi eventualmente raggiunti. In caso contrario,le élites schierate a favore della modernizzazione economica e politica avrebberodovuto scontare le conseguenze interne degli alti costi politici, economici e socialiche le riforme portavano con sé. In secondo luogo, per le stesse Ue e Nato, poi-ché l’impatto di processi di allargamento di simili dimensioni ed eterogeneità nonpoteva non ripercuotersi sul loro operare, mettendone a rischio la vitalità inveceche rafforzarla10. In terzo luogo, per il continente europeo nel suo complesso, poi-ché un allargamento dell’Ue e della Nato che avesse ridotto la capacità delle dueistituzioni di influenzare l’evoluzione politica dell’Europa e, al contempo, delusole speranze di coloro che ne erano coinvolti o irrigidito i rapporti con coloro chene erano esclusi, poteva finire con il rinfocolare le tensioni esistenti o crearne dinuove, invece che contribuire alla sua definitiva pacificazione.

Alla luce di tutto ciò, infine, può non stupire che gli allargamenti dell’Ue e del-la Nato si siano influenzati in modo molto significativo, e non sempre senza pro-blemi. Dal momento che entrambe hanno seguito la medesima logica della con-dizionalità, i requisiti dell’una si sono assommati a quelli dell’altra, aggravandoil fardello dei paesi che volevano accedere a entrambe le istituzioni e, di conse-guenza, sollevando il rischio di potenziali conflitti circa la destinazione delle scar-se risorse disponibili. Ma le strade dell’Ue e della Nato si sono incrociate ancheper ciò che è rimasto al di fuori dei requisiti della condizionalità, e cioè rispettoagli altri criteri di opportunità politica che con i primi potevano entrare in con-traddizione. In particolare, le necessità strategiche della Nato hanno avuto granpeso nell’influenzarne la politica di allargamento, immettendo nelle decisionicirca la selezione dei candidati da accogliere e circa la velocità per farlo dei crite-ri che solo in una certa misura potevano armonizzarsi con quelle dell’Ue.

Naturalmente, un’interazione così complessa fra le due istituzioni non potevanon produrre conseguenze di rilievo sui loro stessi rapporti reciproci, anche perché

10 Per una discussione di questo rischio si veda almeno M.J. BAUN, A Wider Europe. The Process andPolitics of European Union Enlargement, Lanham 2000.

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Una rigida logica di condizionalità ha tentato di porrerimedio ai problemi derivanti dall’elevato grado didifformità delle condizioni di partenza dei candidati

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è proprio dal 1989 che i paesi europei avevano iniziato in modo concreto il cammi-no della loro integrazione nelle questioni di sicurezza, incrociando la Nato anche sulversante dei compiti da svolgere sul continente. Tralasciando qui l’intrico di proble-mi che ne sono derivati11, dobbiamo però almeno sottolineare il punto di fondo: lapossibile divergenza nei processi di allargamento dell’Ue e della Nato poteva osta-colare, nella peggiore delle ipotesi, il buon funzionamento delle clausole di difesa col-lettiva che avevano retto la cooperazione militare dell’Occidente per tutta la guerrafredda, obbligando la Nato a proteggere paesi che non ne erano membri o esclu-dendo dal processo di integrazione militare dell’Ue paesi che erano però alleati nel-la Nato, come è successo in modo eloquente nel caso della Turchia.

In questo quadro, irto di problemi e interrogativi difficili da sciogliere con net-tezza, è possibile cogliere le ragioni della grande complessità con cui i processi di al-largamento sono avvenuti dopo il 1989. L’Ue ha sviluppato nel tempo un protocol-lo per l’accesso molto articolato che, in sostanza, prevede tre snodi cruciali: la do-manda di adesione dell’aspirante membro, che viene valutata dalla Commissione aseconda della situazione specifica del richiedente; i negoziati di adesione che seguo-no l’accoglimento della domanda, durante i quali l’Ue attiva il grosso dei suoi pro-grammi di assistenza tecnica, giuridica, amministrativa e finanziaria per aiutare ilprocesso di riforme dell’aspirante e, contemporaneamente, sottopone a periodicocontrollo il grado in cui questo procede verso l’effettivo soddisfacimento dei requi-siti specificati; il finale e formale invito all’adesione che segue il parere positivoespresso dalla Commissione circa le riforme effettuate dall’aspirante.

A seguito di questo percorso, dopo l’ingresso di Austria, Svezia e Finlandia av-venuto nel 1995, sono divenuti membri dell’Ue Cipro, Estonia, Lettonia, Litua-nia, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria nel 2004.Per quel che riguarda il futuro, Romania e Bulgaria attendono di ricevere il pare-re finale positivo a proposito del loro ingresso nel 2007; Croazia e Turchia hannoricevuto il via libera per i negoziati di adesione e la Macedonia attende che laCommissione esprima parere favorevole alla sua domanda di adesione.

La Nato, dal canto suo, dopo averecostruito dei canali di cooperazionepolitica e militare con tutti i paesi del-

l’ex blocco sovietico, così da lenire le tensioni derivanti dalla sua politica di al-largamento12, ha accolto tramite dei negoziati bilaterali Polonia, Repubblica Ce-ca e Ungheria nel 1999 e, contestualmente, ha avviato il Membership action plan(Map) per coloro che erano stati esclusi da questo primo allargamento. In pra-tica, il Map è un protocollo di accesso che prevede la domanda di adesione de-gli aspiranti membri, il cui accoglimento è seguito da negoziati bilaterali in cuila Nato offre assistenza tecnica e politica mentre valuta l’avanzamento dei can-didati verso gli standard fissati per la partecipazione, e che si conclude con l’in-

11 Al riguardo si veda almeno R.E. HUNTER, The European Security and Defense Policy: NATO’scompanion or competitor?, Santa Monica 2002.

12 I più importanti fra questi sono stati il Partenariato per la pace, lanciato nel 1994 e poi trasformatonel Consiglio di partenariato euro-atlantico nel 1997 e, da ultimo, nel 2002, la creazione del ConsiglioNato-Russia: un organismo dedicato a discutere e gestire le sfide alla sicurezza comuni a tutti i paesieuropei, come, per esempio, la lotta al terrorismo, la gestione delle crisi militari e civili e il controllodella proliferazione nucleare.

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Ue e Nato hanno seguito un percorso simile che hadeterminato una forte sovrapposizione tra i nuovi membri

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Ordine internazionale e democrazia

vito formale ad aderire alla Nato. Grazie a questo protocollo, nel 2004 sono en-trati nella Nato Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slo-venia; mentre Albania, Croazia e Macedonia sono attualmente nella fase dei ne-goziati bilaterali.

Nel complesso, come è facile constatare, l’Ue e la Nato hanno seguito un per-corso simile che le ha portate a una forte sovrapposizione dei nuovi membri. Pri-ma di commentare brevemente le conseguenze che questi processi hanno pro-dotto in senso profondo su queste istituzioni e sulla società internazionale nel suocomplesso, conviene interrogarsi su quali sono stati i fattori trainanti che li han-no innescati e promossi: quali gli interessi in gioco?

L’allargamento dell’Ue e della Nato fra interessi collettivi e individuali

I processi di allargamento dell’Ue e della Nato hanno assunto nel giro di po-chi anni dimensioni imponenti e ciò non sarebbe potuto avvenire in assenza didiversi e importanti interessi comuni ai paesi dell’Europa occidentale e orientalee agli Stati Uniti. Al contempo, tuttavia, i protagonisti di queste vicende hannonutrito alcuni interessi individuali di indubbia rilevanza, al fianco di quelli co-muni. Per cogliere la complessità di questi processi occorre guardare al modo incui gli interessi comuni e quelli individuali hanno interagito, talvolta rendendo-li più complessi, talaltra rafforzandosi a vicenda e, dunque, facilitandoli.

La principale ragione dell’allargamento dell’Ue e della Nato comune a tut-ti i paesi coinvolti è stata quella di produrre stabilità e sicurezza. Badando al-la prospettiva dell’Europa orientale,la difficile transizione conseguente ilcrollo del muro di Berlino avrebbepotuto provocare crisi economiche,tensioni politiche e conflitti locali cui l’ingresso nell’Ue e nella Nato rispon-deva in vari modi. La partecipazione all’Ue dava agli aspiranti membri la pos-sibilità di entrare in un network politico virtuoso in cui, senza rinunciare allapropria identità peculiare, ciascuno vedeva controllate e moderate le scelte al-trui dal contesto istituzionale comune a tutti, e accompagnava questa aspira-zione con aiuti di varia natura per avviare la ricostruzione economica e leriforme. Queste ultime, a loro volta, avrebbero smorzato le diversità fra gliaspiranti, uniformandone gli obiettivi e smussandone le potenziali matrici diconflitto. La partecipazione alla Nato, d’altro canto, offriva loro la possibilitàdi entrare nella più efficiente alleanza militare del globo, garantendone la tu-tela della sicurezza sia nei loro rapporti reciproci sia rispetto a ipotetiche nuo-ve politiche espansionistiche della Russia.

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La ricerca di stabilità e sicurezza ha rappresentato il terreno di convergenza tra gli interessi di tutti i paesicoinvolti nei processi di allargamento di Ue e Nato

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Badando ai paesi occidentali, l’ingresso dei nuovi membri nell’Ue e nella Na-to serviva interessi collettivi quasi simmetrici: per i paesi dell’Europa occidenta-le, la stabilità e la sicurezza dei fratelli orientali comportava il venire meno di ten-sioni e crisi locali che potevano ripercuotersi sul loro territorio; e a ciò contri-buiva anche l’allargamento della Nato che, inoltre, aumentava la sicurezza di tut-ti gli occidentali per un’altra via: l’espansione a oriente implicava la sottrazionedi spazio geografico e di influenza politica al loro maggiore competitore sul con-tinente, e cioè la Russia, sulla cui evoluzione non si potevano nutrire certezze.

D’altra parte, anche importanti interessi economici hanno compattato i paesicoinvolti da questi processi. Per l’Est europeo, l’ingresso nell’Ue significava, in pro-spettiva, anche l’accesso ai fondi strutturali e agricoli che l’Ue distribuisce ai suoimembri. Per gli europei occidentali, invece, l’allargamento significava nuovi mer-cati e manodopera a basso costo. Un incrocio di interessi che non lasciava indiffe-renti gli Usa: dalla prosperità e integrazione economica del continente, infatti, essitraevano buone notizie sull’espansione dell’economia internazionale di libero mer-cato, che tanta parte gioca nell’assicurare la loro vitalità interna e internazionale.

Gli interessi economici, tuttavia, sono anche stati un fattore di divisione che hacomplicato i problemi sul tavolo, poiché i diversi paesi dell’Europa occidentale era-no diversamente legati ai paesi orientali per storica amicizia politica e intercon-nessione produttiva e commerciale. Così capitava in particolare per Germania eAustria rispetto all’Europa centrale, per i paesi del nord Europa rispetto ai paesibaltici e per l’Italia rispetto alla Slovenia. Di conseguenza, la spinta ad aprire l’Ueverso certi paesi anziché verso altri ha finito con il diventare un modo per perse-guire interessi nazionali in un quadro in cui se ne perseguivano di collettivi.

Un incrocio fra interessi collettivi e individuali di natura economica che, tut-tavia, per le ricadute rilevanti che aveva nei rapporti fra gli stessi membri dell’Ue,ne produceva un altro di natura politica. L’allargamento svolto seguendo i lega-mi speciali fra i vecchi e i nuovi membri, infatti, non poteva che aumentare l’in-fluenza di alcuni a scapito di altri, incidendo sui rapporti di potere nell’Ue stes-sa. Per questa ragione, la Germania era fortemente favorevole all’allargamento, apartire dall’Europa centrale, poiché ciò le avrebbe conferito una marcia in più,economica e politica, rispetto ai suoi partner dell’Ue. Al contrario, la Francia fre-nava in quella direzione, per il timore che una Germania molto più forte in Eu-ropa avrebbe sminuito l’importanza dell’asse franco-tedesco e, di conseguenza, ilsuo ruolo di leadership nell’Unione. Quanto alla Gran Bretagna, che non nutrivaforti interessi commerciali nell’Est europeo, l’allargamento poteva giocare unruolo di rilievo se avesse diluito la coesione interna dell’Unione, prevenendo ec-cessive accelerazioni verso una maggiore integrazione politica13.

Ma è nella sfera politico-militare che gli interessi individuali hanno interagi-to ancora più strettamente con quelli comuni. In questo settore, infatti, gli inte-

13 Si veda M.J. BAUN, A Wider Europe, cit.

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ressi individuali degli Usa e degli eu-ropei hanno contato nella massimamisura poiché con l’allargamento del-la Nato essi si sono confrontati con lesfide e l’evoluzione del sistema internazionale nel suo complesso14.

L’allargamento della Nato non ha servito solamente le esigenze della sicurezza oc-cidentale sul continente europeo, ma è conseguito anche dall’esigenza di mantene-re in vita, adattandola, la forma della cooperazione militare fra gli occidentali nelnuovo contesto internazionale, in cui la sicurezza non poteva più essere prodotta sta-ticamente difendendo il territorio, ma andava prodotta intervenendo attivamentenelle zone di crisi e conflitto. In questa transizione, una Nato allargata poteva rag-giungere più velocemente i teatri di crisi, contando sul diritto di passaggio attraver-so i nuovi alleati e sulla costruzione di basi militari nei loro territori, più prossimi aquelli delle aree instabili del mondo post-89 come, prima fra tutte, l’Asia. Ma unaNato allargata offriva anche vantaggi diversi ai suoi diversi protagonisti.

La rinnovata vitalità della Nato, cui l’allargamento contribuiva, garantiva aglieuropei la presenza degli Usa sul continente nonostante il crollo del blocco so-vietico e, di conseguenza, evitava loro di dovere compiere scelte difficili e costo-se. Da un lato, infatti, la permanenza americana in Europa con la nuova Nato per-metteva agli europei di contare su una struttura militare comune efficiente, evi-tando a ciascuno di loro di rinazionalizzare la propria sicurezza e, cioè, di torna-re a produrre sicurezza in modo unilaterale. Dall’altro, quella permanenza evita-va loro di affrontare il problema che una compiuta integrazione militare in sedeeuropea – l’unica alternativa possibile alla rinazionalizzazione della sicurezza –avrebbe posto: il problema di sciogliere il nodo della leadership nei loro rapportireciproci. Da questo punto di vista, anzi, non solo gli Usa potevano continuare aoffrire agli europei dopo il 1989 ciò che avevano offerto loro per tutta la guerrafredda, e cioè lo svolgimento di un ruolo di garante che ne smussava la competi-zione reciproca, ma ciò tornava ora buono anche rispetto ai paesi dell’Europaorientale, poiché nella Nato questi ultimi trovavano una sponda per integrarsinell’Ue senza il timore di diventare subordinati alle grandi potenze europee15.

I vantaggi che gli Usa stessi traevano dalla Nato allargata, tuttavia, erano bendiversi e derivavano dalla loro particolare esposizione nel sistema internaziona-le, conseguente al ruolo globale che la condizione di superpotenza solitaria gliconferiva. Per chi ricopre quel ruolo, un’Europa stabile era certo un bene, ma eraun bene anche poiché l’Europa è la piattaforma di proiezione della forza in Asiae in Medio Oriente, dove il cuore strategico del sistema internazionale si è spo-stato dopo il 1989.

In questa direzione, l’allargamento della Nato offriva agli Usa due ulteriori, eindividuali, vantaggi. In primo luogo, come è ovvio, la disponibilità del territo-

14 Sul rapporto fra trasformazione della Nato e mutamento del sistema internazionale, si veda A.COLOMBO, La lunga alleanza. La Nato tra consolidamento, supremazia e crisi, Milano 2001.

15 Sul ruolo di pacificatore degli Usa verso gli europei, si veda R.J. ART, Why Western Europe Needs theUnited States and Nato, in «Political Science Quarterly», 111, 1996, 1, pp. 1-39.

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Gli interessi economici individuali hanno talvolta finitoper divenire un fattore di divisione, quelli attinenti allasfera politico-militare un fattore di coesione

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rio continentale per la dislocazione della sua forza: da questo punto di vista, l’al-largamento della Nato invertiva il rapporto fra America ed Europa rispetto al pas-sato: se, durante la guerra fredda, la prima aveva perseguito una politica di con-tenimento globale dell’Urss per proteggere la seconda; ora la seconda diveniva labase perché la prima potesse intervenire su scala globale. In secondo luogo, lapossibilità di tenere le mani legate agli europei16; e ciò in un duplice senso. Da unlato, visto che il crollo dell’Urss aveva fortemente incrinato l’identità degli inte-ressi strategici fra America ed Europa, e che il cuore strategico del sistema inter-nazionale si era spostato in aree geopolitiche dove quegli interessi non eranocompatti nemmeno durante la guerra fredda, l’allargamento della Nato offrivaagli Usa una sede stabile per continuare a influenzare la politica di sicurezza de-gli europei. Dall’altro lato, poiché l’allargamento della Nato offriva lo strumentoper mantenere in una cornice comune paesi, vecchi e nuovi membri dell’Ue, chedavano mostra di avviarsi verso una più compiuta integrazione militare.

Conclusioni: l’allargamento dell’Ue e della Nato e la società internazionale

I processi di allargamento dell’Ue e della Nato hanno prodotto vantaggi co-muni ai loro protagonisti e questi ultimi hanno perseguito, in essi e grazie ad es-si, degli interessi individuali. Se questi processi hanno grandemente cambiato ilvolto dell’Europa, è importante sottolineare come ciò sia avvenuto per il tramitedi strumenti istituzionali. In altre parole, la sfida della riorganizzazione politicadel continente europeo che il crollo del muro di Berlino ha lasciato sul campo èstata affrontata – e, a posteriori, in buona misura risolta – grazie al ricorso a sedimultilaterali stabili di cooperazione fra i paesi europei e gli Usa. Ciò che rimaneda aggiungere, a questo punto, è che il ricorso a questi strumenti istituzionali haavuto conseguenze istituzionali di grande rilievo, sia badando all’Ue e alla Natostesse, sia al sistema internazionale nel suo complesso.

La Nato è sorta per difendere i suoi membri dall’Urss e ora comprende lamaggior parte dei paesi europei e tutti quelli militarmente rilevanti, Russia eUcraina escluse, con cui, però, ha instaurato significativi rapporti di cooperazio-ne. Congruentemente a questo percorso, essa ha solennemente dichiarato di nonessere nemica di nessun paese e di essere aperta a tutti coloro che ne vogliono fa-re parte e che rispettano certe condizioni. Con l’allargamento, in sostanza, la na-tura stessa della Nato è cambiata: da alleanza difensiva che era, essa è divenutaun’istituzione per la sicurezza continentale; con i suoi membri, sono cambiate an-che le sue funzioni, che sono ora più simili a quelle di un’Onu regionale che aquelle di un’alleanza militare vera e propria.

16 Sul punto si veda J. JOFFE, Bismarck or Britain? Toward an American Grand Strategy after Bipolarity,in «International Security», 19, 1995, 4, pp. 94-117.

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Ciò non è accaduto per l’Ue, nel senso che il processo di allargamento non hacomportato una sua modificazione genetica, un mutamento della sua specie isti-tuzionale. Tuttavia, esso non è stato – e non sarà – privo di conseguenze sul pia-no istituzionale. Per limitarsi alla più macroscopica, un incremento delle dimen-sioni attuali impone all’Ue una seria revisione della sua architettura istituziona-le, del modo in cui opera e in cui prende le sue decisioni. Non è difficile coglierequante tensioni e rischi questa revisione necessaria ha comportato per i delicatiequilibri su cui l’Ue si regge; e quanti potrebbe portarne nel futuro, visto che iconfini ultimi di questo processo sono ancora incerti.

Ma forse il tratto istituzionale piùprofondo che è connesso a questi pro-cessi – e alle loro conseguenze istitu-zionali, appunto – riguarda il rappor-to che l’Ue e la Nato hanno con la democrazia. Entrambe, durante la guerra fred-da, hanno incarnato la comunità di sicurezza occidentale delle democrazie; do-po il 1989, gli altri paesi europei le hanno «rincorse in quanto insostituibili agen-zie di legittimazione» democratica17. Come sappiamo, questa rincorsa si è svoltasecondo un canovaccio per cui l’accesso ai networks virtuosi dell’Ue e della Natopoteva avvenire solo in base al compimento di una transizione verso la demo-crazia, con tutti i relativi corollari e requisiti.

Ora, se si guarda questo processo dal punto di vista della società internazio-nale e, cioè, delle regole e principi basilari della convivenza internazionale che glistati accolgono e riproducono quando agiscono, si può affermare che l’allarga-mento dell’Ue e della Nato ha grandemente contribuito ad affermare un princi-pio per cui un paese è membro legittimo della società internazionale se presenta– o adotta – una formula organizzativa della politica interna di un certo tipo: seè – o diviene – una democrazia. Se, allora, la Nato e l’Ue hanno integrato nuovimembri come fossero delle “mini-società internazionali”18, si deve anche rilevareche il loro allargamento ha svolto una funzione politica fondamentale nel siste-ma internazionale contemporaneo: esso ha contribuito al perseguimento di unobbiettivo politico e strategico condiviso dai vincitori della guerra fredda, e cioèl’espansione della democrazia nel mondo19.

Tutto ciò è accaduto con mezzi istituzionali e pacifici che rispondevano a unaprecisa volontà politica e, tuttavia, quella volontà politica ha potuto manifestarsi an-che – e forse soprattutto – grazie alla provincializzazione strategica dell’Europa: que-st’ultima, infatti, ha ridotto la posta in gioco sul continente e spostato nelle aree ex-tra-europee le principali minacce e matrici di conflitto. È in quelle regioni, non a ca-so, che sono più aspre le tensioni circa i modi legittimi per perseguire quell’obbiet-tivo condiviso e, cioè, circa le regole con cui definire quali sono le condotte legitti-me – oltre ai membri legittimi – della società internazionale contemporanea.

17 A. COLOMBO, La lunga alleanza, cit., p. 185.18 I. CLARK, Legitimacy in International Society, Oxford 2005, p. 175.19 Per cogliere la centralità di questo obbiettivo nella postura internazionale delle potenze occidentali

basta rifarsi alle concezioni strategiche elaborate dopo il 1989. Per l’Ue si veda A Secure Europe in aBetter World, Bruxelles, 12 dicembre 2003; per gli Usa si veda almeno l’ultima versione: The NationalSecurity Strategy of the United States of America, Washington D.C., 16 marzo 2006.

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Dopo la fine della Guerra Fredda i paesi dell’Europa excomunista hanno rincorso Ue e Nato in quantoinsostituibili agenzie di legittimazione democratica

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1 Spaak cit. in C. DELMAS, L’O.T.A.N., Paris 1965, p. 9; M. BROSIO, Introduzione a AA. VV., Trent’annidi Alleanza Atlantica, Roma 1979, p. VII.

2 Si veda il memorandum di E.M. ROSE, Soviet Accession to the North Atlantic Pact, 14-3-49, PublicRecord Office, London [PRO], FO 371/79239, Z 2566. Nel 1954, nel quadro di un’offensivapropagandistica, l’Urss ventilò in effetti una sua richiesta d’adesione alla Nato.

Il primato della sicurezza

Nel preambolo del trattato Nord-Atlantico del 4 aprile 1949, che secon-do la prassi diplomatica delinea gliscopi dei contraenti, troviamo tre af-fermazioni. I firmatari si dicono «de-terminati a salvaguardare la libertà deiloro popoli, il loro comune retaggio ela loro civiltà, fondati sui principi del-la democrazia, sulle libertà individua-li e sulla preminenza del diritto»,«aspirano a promuovere il benessere ela stabilità nella regione dell’Atlanticosettentrionale», infine si dichiarano«decisi a unire i loro sforzi in una di-fesa collettiva e per la salvaguardiadella pace e della sicurezza». Non vi èdubbio che assoluta urgenza e premi-nenza fossero attribuite all’ultimo deitre propositi. Il 28 settembre 1948, al-l’Assemblea generale dell’Onu, il pri-mo ministro socialista belga Spaak,futuro segretario generale della Natodal 1957 al 1961, si era così rivolto al-la delegazione sovietica: «Sapete qualè la base della nostra politica? È lapaura, la paura di voi, la paura del vo-stro governo, la paura della vostra po-litica». Nel 1978, Manlio Brosio, giàsegretario generale della Nato dal1964 al 1971, osservò che «a tenere inpiedi l’Alleanza per lungo tempo ba-

starono la sensazione del pericolo e lenecessità della comune difesa»1.

Sarebbe sbagliato considerare i rife-rimenti al retaggio ed alla civiltà comu-ni ed alla democrazia come una sconta-ta espressione retorica, ma è indubbioche, durante la guerra fredda, soprat-tutto fuori d’Europa, ma anche nel vec-chio continente, le democrazie occi-dentali e la Nato dovettero talvoltascendere a compromessi con i loroprincipi democratici per fronteggiare ilpericolo sovietico. Del resto, alla vigiliadella firma del trattato, quando il Fo-reign Office britannico si pose il proble-ma di una possibile richiesta di adesio-ne dell’Urss stessa, il ministro di StatoMcNeil osservò che i principi delpreambolo non avrebbero fornito al-cun pretesto valido per escludere Mo-sca, essendo concetti facilmente stru-mentalizzabili da chiunque, come di-mostrato dal fatto che i riferimenti allademocrazia nella “Dichiarazione sul-l’Europa liberata” sottoscritti a Jalta an-che dall’Urss non le avevano impeditodi imporre il totalitarismo in Europaorientale2. Un’altra circostanza rivela-trice è che quando nel marzo 1949 il se-gretario di Stato Acheson sottopose alpresidente americano Truman due listed’argomenti pro e contro l’ammissionedell’Italia, le vicende del settembre 1943

Realpolitik e valori democratici nell’AlleanzaAtlantica durante la guerra fredda

Massimo De Leonardis

MASSIMO DE LEONARDISè Professore ordinario di Storia delle relazioniinternazionali e Direttoredel Dipartimento di ScienzePolitiche nell’UniversitàCattolica del Sacro Cuore di Milano. Coordinal’insegnamento di Storiadelle relazioni internazionali al Master in Diplomacydell’ISPI.

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Realpolitik e valori democratici nell’Alleanza Atlantica durante la guerra fredda

3 Memorandum by the Secretary of State, 2-3-49, in Foreign Relations of the United States [FRUS], 1949,vol. IV, Western Europe, Washington 1975, pp. 142-145.

4 Si vedano P. BRUNDU OLLA, L’anello mancante. Il problema della Spagna franchista e l’organizzazionedella difesa occidentale (1947-1950), Sassari 1990; A. JARQUE ÍÑIGUEZ, Queremos esas bases. Elacercamiento de Estados Unidos a la España de Franco, Alcalá de Henares 1998; A. MARQUINABARRIO, España en la política de seguridad occidental 1939-1986, Madrid 1986; F. PORTERO, Francoaislado. La cuestión española (1945-1950), Madrid 1989.

non furono menzionate tra i motivi afavore, ricordando la scelta a fianco del-le democrazie, mentre, in un’ottica diesasperato realismo, si ricordò al punto6 tra le ragioni per escluderla che: «Nel-le due guerre mondiali, l’Italia ha mo-strato di essere un alleato inefficace einfido, avendo cambiato bandiera inentrambe le guerre»3.

Al di là di queste “curiosità” diplo-matiche, sono da prendere in esame icasi di Spagna, Portogallo, Turchia eGrecia, ed anche, di segno ideologica-mente opposto, della Jugoslavia.

La Spagna è “indigesta”

Nell’ambito dei negoziati per il Pat-to atlantico, il problema della Spagnaaffiorò a più riprese: la sua partecipa-zione alla futura alleanza era strategica-mente auspicabile ma, al momento, co-me nel caso della Germania occidenta-le per diverse ragioni, politicamenteimpossibile4. Nella riunione del 26 lu-glio 1948, il rappresentante britannicoHoyer Millar affermò che gli stati mag-giori del suo paese consideravano laposizione strategica della Spagna dellamassima importanza – addirittura vita-le in relazione alle linee di comunica-zione marittime nel Mediterraneo –,ma definì “indigesta” la sua situazionepolitica, aggiungendo che la sua assen-za non avrebbe prodotto gravi conse-guenze, poiché in un conflitto Est-Ove-st il generale Franco si sarebbe comun-que schierato con l’Occidente, conce-dendo sul territorio spagnolo le basi

militari che gli sarebbero state richie-ste. Il Portogallo, facendo leva sull’unitàgeografica e strategica della penisolaiberica, sostenne l’ammissione di Ma-drid, il cui governo cercò di dissuadereLisbona dall’aderire al Patto atlanticosenza la Spagna, poiché ciò avrebbe co-stituito una violazione del Patto ibericodel 1939-40.

I più convinti sostenitori dell’am-missione della Spagna furono gli statimaggiori americani, che assegnavanoalla Spagna la stessa importanza strate-gica della Gran Bretagna e dell’Italia, siaper la sua posizione geografica, sia peril contributo militare e psicologico alladifesa dell’Europa contro un attacco so-vietico. In due documenti del Pentago-no si leggeva: «Come le isole britanni-che erano la chiave strategica e geogra-fica per le operazioni nel nord Europa enella penisola scandinava in qualsiasiguerra contro l’Unione Sovietica, cosìla Spagna era la chiave strategica e geo-grafica per le operazioni nel sud Euro-pa, nei Balcani e in Medio Oriente» e«Dal punto di vista militare c’è, nell’Al-leanza Atlantica, un grande bisognodella Spagna, come dell’Italia, perchéanche la Spagna è parte integrante del-l’area che deve essere difesa secondo ipropositi del Patto. In termini di guer-ra terrestre in Europa occidentale, laSpagna è almeno tanto importantequanto lo è l’Italia, se non addiritturapiù importante, perché la Spagna for-nisce la copertura difensiva per Gibil-terra e, probabilmente, potrebbe offrirein tutti i sensi migliori possibilità di di-fesa rispetto all’Italia. In termini di ope-

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5 Si vedano A. MARQUINA BARRIO, cit., p. 206; P. BRUNDU OLLA, cit., pp. 148-149.6 Cit. in B. BAGNATO, France and the Origins of the Atlantic Pact, in E. DI NOLFO (a cura di), The

Atlantic Pact Forty Years Later. A Historical Reappraisal, Berlin-New York 1991, p. 107.7 Intervista al «Daily Express», 24-3-49.8 Citato in PORTERO, cit., p. 315.

razioni navali e aeree la collocazionestrategica della Spagna rappresenta unaltissimo valore potenziale come basedalla quale operare dentro e sopra l’A-tlantico, nel Mediterraneo e nelle areeadiacenti»5. Lo spirito combattivo e pa-triottico della popolazione e l’antico-munismo del regime erano punti diforza della Spagna, ma le forze armatedovevano essere modernizzate.

Il parere definitivo degli stati mag-giori fu formulato troppo tardi per in-fluire sul negoziato; il governo ameri-cano non avrebbe comunque spintoper superare le obiezioni politiche dimolti europei. Va rilevato che ancheuno studio dell’Institut des Hautes Etu-des de Défense Nationale francese delmarzo 1949 riteneva necessario supe-rare le obiezioni sul regime franchista,perché «la strategia deve guidare la po-litica»6. I militari delle maggiori poten-ze dell’Alleanza condividevano quindil’opinione del generale Franco che sen-za la Spagna essa era «un’omelette sen-za le uova»7. Nel gennaio 1949 l’ammi-raglio Carrero Blanco aveva scritto aFranco: «Hanno bisogno di noi e cichiameranno»8. La chiamata venne nel1953 non dalla Nato, ma dagli USA,che firmarono con la Spagna un accor-do di collaborazione militare, nelpreambolo del quale non vi erano rife-rimenti a “principi”, ma solo al «peri-colo che minaccia il mondo occidenta-le». Il via libera al negoziato era venu-to già dalla precedente amministrazio-ne democratica di Truman, che si eraespresso in questo modo: «Franco nonmi piace e non mi piacerà mai, ma non

permetterò che i miei sentimenti per-sonali abbiano la meglio sulle convin-zioni di voi militari». Dopo l’accordo,che concedeva agli Usa basi sul territo-rio spagnolo, il segretario di Stato Dul-les prese l’abitudine, dopo le riunionidella Nato, di compiere visite a Madridper tenere informato degli sviluppi ilgenerale Franco e nel 1958 gli Usa fi-nanziarono un vasto piano di moder-nizzazione delle forze armate spagnole.Il Caudillo non insistette mai pubblica-mente per l’ammissione nell’Alleanza,favorita da Washington, dal Portogallo,dai governi conservatori britannici(che però dovettero abbandonare taleposizione per le proteste dell’opposi-zione laburista), dal generale De Gaul-le e da Adenauer, che nel 1960 valutò lapossibilità di un legame militare ispa-no-tedesco che avrebbe portato al di-slocamento di forze spagnole in Ger-mania (progetto abbandonato conl’avvento a Bonn del governo social-li-berale). Decisamente ostili alla Spagnarimasero sempre Belgio, Danimarca eNorvegia. Tre presidenti americani, Ei-senhower, Nixon e Ford, compironovisite ufficiali a Madrid. Ancora nel1975, alla vigilia della morte di Franco,il segretario di stato Kissinger, preoc-cupato per gli sviluppi della situazionein Portogallo, ribadì il suo interesse allegame della Spagna con la Nato, siastenne, a differenza degli europei, dalcriticare il regime sulle condanne amorte di oppositori colpevoli di atti diterrorismo e colse anzi l’occasione perrinnovare a vantaggio degli Usa il trat-tato bilaterale.

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9 Si vedano L. CROLLEN, Portugal, the U.S. and NATO, Leuven 1973; A.J. TELO, Portugal e a NATO,Lisboa 1996; A. NOGUEIRA, Portugal’s Special Relationship: the Azores, the British Connection andNATO, in L.S. KAPLAN - R.W. CLAWSON - R. LURAGHI (a cura di), Nato and the Mediterranean,Washington 1985, pp. 79-96; S. TEXEIRA, Portugal e a NATO: 1949-1999, in «Nação e Defesa»,Primavera 1999, n. 89, pp. 43-84.

10 Discorso del 25-7-49 all’Assemblea nazionale, in J. PLONCARD D’ASSAC, Salazar; trad. it., Milano1968, p. 231.

Non sorprende che al ritorno dellademocrazia in Spagna fosse diffusa trale sinistre l’ostilità verso gli Usa, che siaggiungeva all’antico anti-americani-smo, di matrice ideologica diversa, con-seguenza della guerra per Cuba del1898. Tali sentimenti si riflettevano an-che sulla Nato, strettamente identifica-ta con gli Usa. Non è possibile qui esa-minare le varie posizioni all’internodella Spagna, dopo l’avvento della de-mocrazia, sull’adesione alla Nato, chefu una delle ultime decisioni, nel 1982,del governo moderato di Calvo Sotelo,prima dell’ascesa al potere del partitosocialista, che votò contro, ma lasciòpoi cadere la sua ostilità. Il referendumpopolare del 1986 confermò l’apparte-nenza all’Alleanza, pur con riserve sul-la piena integrazione nelle strutturemilitari, che si realizzò pienamente so-lo nel 1996, un anno dopo la nomina asegretario generale della Nato del socia-lista Javier Solana, già oppositore del-l’adesione.

L’atlanticità del Portogallo

L’Estado Novo portoghese, istituzio-nalizzato con la costituzione del 1933,era un regime autoritario, con elezioniparzialmente libere, ispirato al corpora-tivismo ed alla dottrina sociale cattoli-ca, guidato da Antonio de Oliveira Sa-lazar, primo ministro dal 1932 al 1968(alla presidenza della repubblica si al-ternarono generali ed ammiragli),quando, colpito da grave malattia, fusostituito da Marcelo Caetano. In poli-

tica estera il Portogallo vantava unaplurisecolare “alleanza” con la GranBretagna e durante la seconda guerramondiale era passato dalla stretta neu-tralità ad una “neutralità benevola” ver-so gli anglo-americani, concedendo lo-ro l’utilizzo militare delle Azzorre condue accordi del 1943 e 1944. Tale arci-pelago, fondamentale per le rotte traUsa ed Europa, e la “atlanticità” del Por-togallo furono gli elementi determi-nanti per ritenerne indispensabile lapresenza nell’Alleanza Atlantica9, neicui negoziati non furono formulate ri-serve sul regime portoghese.

Fu anzi Salazar, geloso difensore del-la sovranità e degli interessi nazionali edella specificità del sistema politico por-toghese, ad avere dubbi sull’opportunitàdell’adesione, per il timore che gli Usamirassero ad ottenere in tempo di pace ilcontrollo permanente delle basi militarinelle Azzorre, per l’esclusione della Spa-gna, e perché nel preambolo del trattato“la definizione” della sua “ideologia” era«manifestamente poco felice, infatuatadel vuoto e dell’imprecisione di certe for-mule logore e vane usate ovunque nelleaccezioni più diverse»10. Per Salazar il va-lore ideologico del trattato stava nell’an-ticomunismo.

La stessa opposizione democraticaportoghese aveva sostenuto l’entratanella Nato, nella speranza che favorisseuna democratizzazione del regime. Inrealtà fu soprattutto quest’ultimo adacquisire prestigio e rispettabilità, macertamente l’appartenenza alla Nato,promuovendo la modernizzazione del-le forze armate e formando una nuova

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11 Sulle vicende del 1974-76 si vedano N.S. TEXEIRA, O 25 de Abril e a Política Externa Portuguesa, in«Relações Internacionais», Março 2004, pp. 5-12; T. MOREIRA DE SÁ, Os Estados Unidos daAmerica e a transição para a democrazia em Portugal, in «Politica Internacional», Outono-Inverno2002, pp. 117-159.

classe di ufficiali, alla lunga preparò lacaduta del regime ad opera dei militari.Già nell’aprile 1961, un esponente del-la “generazione Nato”, il ministro delladifesa generale Botelho Moniz, che ave-va rapporti con il presidente americanoKennedy, tentò un colpo di stato controSalazar. Da quell’anno esplosero le ri-volte anti-colonialiste nei territori por-toghesi d’oltremare, che impegnaronogran parte dell’esercito, il cui contribu-to alle forze integrate della Nato diven-ne così pressoché nominale. Gli Usa sipronunciarono a favore dei movimentidi liberazione, votarono all’Onu controil Portogallo e ridussero le fornituremilitari per evitare che fossero utilizza-te in Africa. Dal canto suo il Portogallocriticò apertamente la mancanza di so-lidarietà da parte della Nato e, dopo lascadenza nel dicembre 1962, non rin-novò l’accordo con gli Usa sulle Azzor-re, mantenendo la presenza americanasu una pura base de facto.

Nella seconda metà degli anni ’60 vifu però un riavvicinamento tra Porto-gallo e Nato. Nel 1966, alle dipendenzedel Comando supremo dell’Atlantico,fu costituito il comando Iberlant, consede a Sintra e poi ad Oeiras, agli ordinidi un ammiraglio americano, ed unafregata portoghese partecipò alla Forzanavale permanente dell’Atlantico (Sta-navforlant). Nato, Usa e Portogallo tro-varono un modus vivendi che salvaguar-dava le rispettive posizioni. L’Alleanza,pur non condividendo la politica colo-niale di Lisbona, non poteva permette-re la sconfitta di un suo membro e nellesue riunioni fu criticato l’appoggio

aperto dato da Olanda e Norvegia aimovimenti di liberazione. Il ritiro for-zato di Salazar e l’avvento di Nixon fa-vorirono il riavvicinamento con gli Usa;nel 1971 fu rinnovato l’accordo sullebasi nelle Azzorre in cambio di aiutieconomici e nel 1973 il Portogallo ful’unico paese della Nato a permetterel’uso delle sue basi agli aerei americani asostegno di Israele nella guerra delloYom Kippur. L’allora direttore, WilliamColby, riteneva la situazione così stabileda proporre nel 1973 la chiusura dellasede della Cia in Portogallo.

La “rivoluzione dei garofani” (o“colpo di stato”, termine forse più usa-to in Portogallo) del 25 aprile 1974 col-se di sorpresa la Nato. Per una signifi-cativa coincidenza, quel giorno incro-ciavano al largo di Lisbona tre forze na-vali, la Stanavforlant, una spagnola eduna sovietica. Il progressivo scivola-mento a sinistra della situazione politi-ca in Portogallo fu visto con pessimi-smo dal segretario di stato americanoKissinger, che temette una “crisi medi-terranea” coinvolgente i paesi del fron-te sud della Nato; si stavano infatti ve-rificando il mutamento di regimi inSpagna e Grecia, la crisi di Cipro fraAtene ed Ankara e l’avanzata del parti-to comunista nelle elezioni italiane11. Inun colloquio a Washington il 18 ottobre1974 Kissinger apostrofò il ministro de-gli Esteri del Portogallo, il socialistaSoares, come “Kerensky portoghese”.

In più occasioni il governo americanodichiarò pubblicamente di ritenere in-compatibile la presenza di ministri co-munisti con l’appartenenza del Portogal-

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12 Si vedano E. ATHANASSOPOULOU, Turkey-Anglo-American Security Interests 1945-1952. The FirstEnlargement of NATO, London 1999; W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000, London 2000 eTurkish Politics and the Military, London-New York 1994; S. KEDOURIE, Seventy-Five Years of theTurkish Republic, London 2000; B. KUNIHOLM, The Evolving Strategic Significance of Turkey’sRelationship with NATO, in G. SCHMIDT (a cura di), A History of Nato – The First Fifty Years, vol. 3,Basingstoke-New York 2001, pp. 339-357; E.J. ZÜRCHER, Turkey. A Modern History, London-NewYork 1997.

lo alla Nato. Oltre alla minaccia di esclu-dere il paese lusitano dall’Alleanza, gliUsa segnalarono all’Urss che una derivafilo-comunista del Portogallo avrebbecompromesso il clima di “distensione”. Inrealtà nessuno dei maggiori partiti por-toghesi (compresi i comunisti) chiese l’u-scita del paese dalla Nato, un’ipotesi chesi sarebbe realizzata, come Soares avvertìKissinger, se gli Usa, non fidandosi piùdel Portogallo, avessero appoggiato i mo-vimenti indipendentisti delle Azzorre. Imaggiori alleati europei (Gran Bretagna,Germania e Francia) da un lato indusse-ro gli Usa ad evitare azioni radicali perisolare il Portogallo, dall’altro s’impegna-rono nel sostegno ai partiti democraticiportoghesi e la Nato esercitò pressioni suFranco perché non adottasse una politi-ca d’aperta destabilizzazione del governodi Vasco Gonçalves. Nel biennio 1974-76Nato e Cee svolsero un’azione parallela,attraverso pressioni politiche ed econo-miche, per portare la crisi portogheseverso lo sbocco di una democrazia di ti-po occidentale. In particolare gli aiuti al-la modernizzazione delle forze armateportoghesi ed il rafforzamento della lorointegrazione nella Nato furono la contro-partita della emarginazione dei militaripiù estremisti e del ritiro degli ufficialidalla lotta politica.

La Turchia periodicamente ingessata dai militari

A seguito degli sviluppi prodottidalla guerra di Corea e della visionestrategica del generale Eisenhower –

primo Comandante supremo delle for-ze alleate in Europa – che le attribuivagrande importanza in caso di guerra,nel 1952 la Turchia entrò nella Nato, in-sieme alla Grecia12. Negli anni prece-denti la Turchia aveva compiuto latransizione ad una democrazia multi-partitica. Durante la guerra fredda laTurchia concluse 56 accordi militari bi-laterali con gli Stati Uniti ed alla vigiliadel crollo dei regimi comunisti era ilterzo paese al mondo, dopo Israele edEgitto, per assistenza militare america-na. Le forti pressioni sul Congresso del-le lobbies filo-greche e filo-armene im-posero di mantenere un rapporto di 10a 7 negli aiuti a Turchia e Grecia.

Dopo anni di peggioramento deirapporti tra le forze armate ed il gover-no capeggiato da Adnan Menderes, pri-mo ministro dal 1950, il 27 maggio1960 fu realizzato un colpo di stato daun gruppo di ufficiali quarantenni, chetrovarono il loro rappresentante in unex comandante in capo delle forze ter-restri, il generale Cemal Gürsel, nomi-nato capo dello stato, primo ministro eministro della Difesa. L’appartenenzaalla Nato aveva portato ad un profondorinnovamento delle forze armate turcheed i giovani ufficiali radicali avevanomisurato quanto la società turca e leforze armate fossero arretrate rispetto ailoro alleati occidentali. Il 3 agosto il Co-mitato di unità nazionale (Millî BirlikKomitesi) al potere congedò 235 genera-li su 260 e circa 5.000 colonnelli e mag-giori. Realizzando la “seconda repubbli-ca”, una nuova costituzione, più liberaledella precedente, introdusse però un

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ruolo costituzionale per le forze armate,attraverso un Consiglio di sicurezza na-zionale (Millî Güvenlik Kurulu) che as-sunse gradualmente il ruolo di supervi-sore del governo e di vero centro di po-tere decisionale. Già nell’ottobre 1961 sisvolsero libere elezioni politiche; unmese prima Menderes (il giorno dopoun tentativo di suicidio) e gli ex ministridegli esteri e delle finanze erano statiimpiccati con accuse di violazione dellaprecedente costituzione.

Nel marzo 1971 vi fu un secondo in-tervento delle forze armate. Il capo distato maggiore generale consegnò alprimo ministro Demirel un ultimatum,chiedendo la formazione di un governoin grado di fermare «l’anarchia» e direalizzare riforme «in uno spirito kema-lista». Demirel si dimise ed i militari in-stallarono un governo di tecnici guida-to da un civile, con un vasto program-ma di riforme. A seguito di attentati ter-roristici, il 27 aprile il Consiglio di sicu-rezza nazionale istituì la legge marziale,che restò in vigore per due anni. Furonoaccresciuti i poteri del Consiglio di sicu-rezza nazionale ed emendati 44 articolidella costituzione riducendo le libertàcivili. Tuttavia i militari, alla luce del-l’infelice esperienza della Grecia, purmantenendo per sé la carica di capo del-lo stato, non assunsero direttamente ilpotere, e nell’ottobre 1973 si tennero li-bere elezioni politiche.

Gli anni successivi furono caratteriz-zati da instabilità politica, violenze, cri-si economica, crescita del fondamenta-lismo islamico e del separatismo curdo.Tutto ciò indusse i militari a rendere

pubblico il 2 gennaio 1980 un ultima-tum alla classe politica e quando il par-lamento, dopo cento votazioni, si dimo-strò incapace di eleggere il nuovo presi-dente della repubblica, il 12 settembreassunsero nuovamente il potere: il ge-nerale Kenan Evren, capo di stato mag-giore, divenne capo dello stato e no-minò un ammiraglio in congedo allaguida di un governo composto di ex uf-ficiali e tecnici. Il regime militare agìcon mano pesante, sciogliendo i partitied i consigli comunali, controllandostrettamente università, stampa e sinda-cati, ed arrestando in un anno 122.000persone. Allo stesso tempo, i militariannunciarono subito la loro volontà diripristinare un sistema democratico, in-staurando una “terza repubblica”, chemarcasse una forte discontinuità con laprecedente, i cui protagonisti furonoesclusi per un decennio dalla vita politi-ca. La nuova costituzione, introdotta nelnovembre 1982, limitò fortemente le li-bertà civili e rafforzò i poteri del capodello stato e del Consiglio di sicurezzanazionale. Le elezioni del novembre1983 registrarono però la sconfitta deipartiti sostenuti dai militari, e TurgutÖzal, capo del Partito della madrepa-tria, emerse, fino alla sua morte nel1993, come figura dominante della po-litica turca, che procedette verso unagraduale liberalizzazione.

Gli interventi militari precedentiavevano provocato scarsa attenzione daparte dei principali stati europei. Il col-po di stato del 1980 suscitò maggiorireazioni da parte della Cee e del Consi-glio d’Europa (che sospese l’apparte-

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Realpolitik e valori democratici nell’Alleanza Atlantica durante la guerra fredda

13 Prendendo le distanze dalle denuncie di Amnesty International, il Dipartimento di Stato dichiarò:«Non vi sono prove che la brutalità e la tortura siano diffuse e sistematiche», G.S. HARRIS, Turkish-American Relations Since the Truman Doctrine, in M. AYDIN - Ç. ERHAN (a cura di), Turkish-American Relations. Past, Present and Future, London-New York 2004, p. 76.

14 S.V. PAPACOSMA, Greece and Nato: A Nettlesome Relationship, in SCHMIDT, cit., p. 363.15 Si veda C.M. WOODHOUSE, The Rise and Fall of the Greek Colonels, New York 1985, p. 40.16 Cit. in T.A. COULOUMBIS, The United States, Greece and Turkey: the Troubled Triangle, New York

1983, p. 20.

nenza della Turchia), preoccupati per lasituazione dei diritti umani. Tuttavia lerelazioni commerciali con l’Europanon subirono conseguenze. Gli StatiUniti, interessati soprattutto al ruolodella Turchia nella Nato, guardaronoinvece con comprensione ed anche consollievo all’intervento dei militari, cheponeva fine ad una situazione assaicaotica e pericolosa13. La caduta delloShah in Iran e l’invasione sovietica del-l’Afghanistan nel 1979, la guerra Iran-Iraq iniziata nel 1980 e la forte ripresadella guerra fredda durante la primapresidenza Reagan avevano enorme-mente accresciuto l’importanza dellaTurchia per l’Occidente. Va anche os-servato che, differenziandosi dalle altreautocrazie qui considerate, gli interven-ti dei militari turchi si caratterizzaronocome dittature temporanee e prive diconnotazione ideologica precisa per ri-mediare a gravi carenze del sistema po-litico e suscitarono quindi opposizionimeno forti.

La Grecia dei colonnelli

I colonnelli che il 21 aprile 1967s’impadronirono del potere in Greciautilizzarono il piano Nato Prometheus,previsto in caso di gravi disordini in-terni. «Mentre l’opinione pubblica ed igoverni di vari stati dell’Europa occi-dentale membri della Nato espresseroabitualmente critiche alla giunta [mili-tare] greca, essa non subì mai seriepressioni da parte della Nato o degli

Stati Uniti»14. Le critiche ai colonnellivennero soprattutto dai parlamenti na-zionali, compreso il Congresso ameri-cano, e da organismi come le Assem-blee parlamentari del Nord-Atlantico edel Consiglio d’Europa (dal quale laGrecia si ritirò per evitare una possibi-le espulsione), ma non dal Consiglioatlantico, dai ministeri degli Esteri, daldipartimento di Stato o dalla CasaBianca15. L’opposizione democraticagreca ricevette sostegno da organismistatali in Norvegia e Danimarca, conmaggiore regolarità, e, più occasional-mente, in Italia, Germania occidentaleed Olanda.

Alla Commissione esteri della Ca-mera dei rappresentanti, il 27 aprile1971 il segretario alla Difesa Packardgiustificò la politica americana verso ladittatura greca dichiarando: «Le nostreconsiderazioni militari sono di prima-ria importanza»16. Gli Usa rimasero iprincipali fornitori di equipaggiamentimilitari alla Grecia; un embargo sullaconsegna di armamenti pesanti decre-tato nel maggio 1967 fu revocato nelsettembre 1970. Va ricordato che gli an-ni della dittatura, dal 1967 al 1974, vi-dero non solo costanti tensioni in Me-dio Oriente (con le due guerre arabo-israeliane del 1967 e del 1973) ma an-che la crescente presenza russa nel Me-diterraneo, per fronteggiare la quale nelmaggio 1969 la Nato istituì la Forza na-vale “su chiamata” del Mediterraneo(Navocformed). Nel 1972 la Greciafirmò un accordo che autorizzava lostazionamento nel porto del Pireo del-

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17 Citato in S.V. PAPACOSMA, Greece and Nato, in Nato and the Mediterranean, cit., p. 197.18 Si vedano B. HEUSER, Western “Containment” Policies in the Cold War. The Yugoslav Case 1948-53,

London-New York 1989; H.W. BRANDS Jr., Redefining the Cold War: American Policy towardYugoslavia, 1948-60, in «Diplomatic History», 11, 1987, 1, pp. 41-53; D. RUSINOW, The YugoslavExperiment 1948-1974, London 1977; il mio La “diplomazia atlantica” e la soluzione del problema diTrieste (1952-1954), Napoli 1992.

le portaerei americane, ricevendo incambio forniture di cacciabombardieri.

Non mancò da parte americana laconsapevolezza che i vantaggi a brevetermine offerti dalla giunta militareavrebbero potuto portare ad un peg-gioramento dei rapporti tra Washing-ton ed Atene al ritorno della democra-zia. Un rapporto presentato alla Com-missione esteri della Camera dei rap-presentanti nel febbraio 1974, dal tito-lo significativo Controlling the Damage:U.S. Policy Options for Greece, criticavain conclusione la politica americanaverso la Grecia dei colonnelli («danno ègià stato prodotto agli interessi ameri-cani in Grecia ed ancor più ne verràprodotto prima che l’attuale situazionegiunga al termine») e prevedeva: «Sa-rebbe del tutto irrealistico pensare chegli Usa potranno mai ritornare alla co-moda relazione tra stato protettore estato cliente goduta un tempo riguardoalla Grecia»17.

La caduta del regime dei colonnelli,nel luglio 1974, fu la diretta conseguen-za del fallito putsch della Guardia na-zionale greco-cipriota, istigata da Ate-ne, contro il presidente di Cipro Maka-rios, considerato troppo indipendenteed etichettato come “l’arcivescovo ros-so”; la Turchia intervenne occupandoparte dell’isola e la Giunta militare gre-ca cedette il potere all’ex primo mini-stro conservatore Karamanlis. Questi,di fronte all’invasione turca di Cipro,annunciò che la Grecia abbandonava lastruttura militare integrata della Nato(nella quale rientrerà solo nel 1980), ri-tenendo che essa fosse rimasta troppo

inerte di fronte all’azione di Ankara eche il comportamento degli Usa nellacrisi (che avvenne a cavallo delle dimis-sioni del presidente Nixon) fosse sbi-lanciato a favore della Turchia. La mos-sa di Karamanlis aveva motivazioni na-zionalistiche e di pressione sugli alleati;a più lungo termine mirava, in manie-ra non dissimile alla politica di deGaulle nel decennio precedente, a darepiù autonomia alla politica estera gre-ca. Certamente il problema di Cipro edi rapporti con la Turchia furono alla ba-se delle complesse relazioni tra Grecia,Usa e Nato dopo il ritorno della demo-crazia. Al nazionalismo, prevalente ne-gli ambienti conservatori, si unì però,come in Spagna, il risentimento deiprogressisti per l’eccessiva condiscen-denza dimostrata da Washington e dal-la Nato verso la dittatura. La Grecia di-venne quindi il paese della Nato nelquale i sentimenti anti-americani furo-no più diffusi.

La Jugoslavia: Tito è “la nostra canaglia”

Il caso della Jugoslavia è assai diver-so dai precedenti, ma è anch’esso em-blematico per il nostro tema. Dopo lasua rottura con Mosca del giugno 1948,le tre maggiori potenze della Nato, Usa,Gran Bretagna e Francia, vararono unapolitica di crescente sostegno economi-co (588,5 milioni di dollari fino al 1955,un miliardo e 200 milioni nel decenniosuccessivo) e militare alla Jugoslavia18.Tito era stato “scomunicato” da Mosca

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19 Le due citazioni in E. ORTONA, Anni d’America, I, La ricostruzione 1944-1951, Bologna 1984, pp. 356-357 e Comrade Marshal, in «The Economist», 20-9-52, p. 674.

20 Report prepared by the Foreign Operations Administration, 11-3-54, FRUS, 1952-1954, vol. I, Generaland Political Matters, Washington 1984, p. 695.

21 United States Policy Towards Yugoslavia, 6-2-54, FRUS, 1952-54, vol. VIII, Eastern Europe; Soviet Union;Eastern Mediterranean¸ Washington 1988, pp. 1373-77.

22 Verbale della riunione Eden-Dulles-Bidault, 18-10-53, PRO, FO 371, 107383, WE 1015/618.23 Da notare che Tito approvò nel novembre 1956 l’invasione sovietica dell’Ungheria.24 Si veda il “Concetto strategico” della NATO del 1957, in G.W. PEDLOW (a cura di), NATO Strategy

Documents 1949-1969, Bruxelles 1997, pp. 303-304.

non perché il suo regime avesse devia-to dall’ortodossia comunista, ma per-ché mirava ad attribuire alla Jugoslaviauna posizione di egemonia nell’areabalcanica che contrastava con il ruolodell’Urss di unica guida del blocco so-vietico. Dopo la rottura, il regime di Ti-to rimase un totalitarismo comunista,come avvenne poi anche in Cina, Ro-mania e Albania, gli altri paesi che pre-sero le distanze dalla leadership sovieti-ca in politica internazionale. Tito, di-chiarandosi pronto a rinunciare agliaiuti, rifiutò qualunque liberalizzazio-ne, proprio per non dare fondamentoalle accuse di Mosca di aver tradito lacausa del comunismo e gli occidentali,lasciando increduli gli stessi jugoslavi,accettarono questa sua argomentazio-ne, astenendosi da qualunque pressioneed evitando di porre condizioni al lorosostegno. Gli americani dissero di com-battere «Stalin, non il comunismo», ilministro degli Esteri britannico Bevinaffermò: Tito è «una canaglia, ma è lanostra canaglia»19.

Il 14 novembre 1951 Usa e Jugosla-via firmarono un Mutual SecurityAgreement (il cui preambolo, come nelcaso dell’accordo con la Spagna del1953, non conteneva riferimenti a valo-ri comuni), al quale seguirono fornitu-re di armi e conversazioni militari. Dal-la primavera 1952 Grecia e Turchia, ap-pena entrate nella Nato, chiesero al go-verno jugoslavo di arrivare al più prestoad una collaborazione strategica; ne ri-

sultarono il trattato tripartito di amici-zia e di assistenza di Ankara (28 feb-braio 1953) ed il trattato di alleanza mi-litare di Bled (9 agosto 1954). Secondogli americani, «la forza militare dellaJugoslavia, in termini di forze terrestri»era «la più grande in Europa da questaparte della cortina di ferro, compren-dendo 28 divisioni»20. Quindi, per ilNational Security Council, era di «gran-de importanza strategica per la sicurez-za del mondo libero»21 il mantenimen-to al di fuori del blocco sovietico dellaJugoslavia, «legata alla Nato attraversoil patto balcanico»22. Dopo la normaliz-zazione dei rapporti tra Mosca e Bel-grado nel 195523 e la leadership di Titonel movimento dei non allineati, l’al-leanza militare greco-turco-jugoslavacadde nel dimenticatoio, ma non fu de-nunciata, ed i piani della Nato conti-nuarono per qualche tempo a fare affi-damento che in caso di guerra con ilPatto di Varsavia la Jugoslavia avrebbesvolto un ruolo a copertura dell’Italia edella Grecia24.

Conclusione: il pragmatismo della Nato

Lo scontro bipolare costrinse in mol-ti casi l’Occidente a subordinare i valoridella propria tradizione liberale alla ne-cessità di evitare una escalation verso unconflitto globale ed alle esigenze della si-curezza, sia quindi restando inerte di

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osservatorio internazionale

25 Cfr. il mio Realpolitik e valori democratici negli interventi internazionali per la sicurezza e la pacedurante la guerra fredda, in AA. VV., Missioni Militari italiane all’estero in tempo di pace (1946-1989),Roma 2003, pp. 27-42.

26 A. COLOMBO, La lunga alleanza. La Nato tra consolidamento, supremazia e crisi, Milano 2004, p. 127.27 J.C. HULSMAN-A. LIEVEN, The Ethics of Realism, in «The National Interest», Summer 2005, p. 42.

fronte ad aggressioni clamorose comequelle perpetrate dall’Urss a Budapestnel 1956 ed a Praga nel 1968, sia tolle-rando violazioni della democrazia inpaesi schierati nel proprio campo25. LaNato non poté sfuggire a queste regole.La Nato si tenne «lontana dall’indiffe-renza ideologica propria delle alleanzetradizionali», ma non diventò «mai un“blocco”ideocratico»26, applicando inve-ce un «realismo etico», capace di «di-stinguere chiaramente tra differenti gra-di di male e di scegliere con fermezza tradi essi»27. Non sembra riscontrabile, du-rante la guerra fredda, un ruolo rilevan-te della Nato nel promuovere l’instaura-zione o il ripristino delle libere istituzio-ni negli Stati europei non democraticimembri dell’organizzazione o ad essaindirettamente legati. Nel caso del Por-togallo però la Nato agì per impedirne laderiva a sinistra dopo la “rivoluzione deigarofani”.

Dopo la fine della guerra fredda, lasituazione è ovviamente cambiata; lapiena appartenenza di un paese allaNato è possibile solo alle democrazie edanzi, proprio in nome dei “diritti uma-ni”, l’Alleanza ha condotto in Kosovouna guerra che non trovava alcuna giu-stificazione nel testo del trattato del1949. Tuttavia, attraverso la Partnershipfor Peace, il Mediterranean Dialogue e laIstanbul Cooperation Initiative, la Natoha stretto, anche con stati autoritari, le-gami che sono apparsi ancor più indi-spensabili di fronte al manifestarsi delnuovo nemico, il terrorismo interna-zionale di matrice islamica. Persistequindi, sia pure attenuato, il vecchioproblema di conciliare esigenze di sicu-rezza e fedeltà ai principi democratici.Come durante la guerra fredda, la solu-zione può essere trovata in un costrut-tivo pragmatismo e non in sterili rigi-dezze ideologiche.

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Dottrina Rumsfeld 2006: la fiera delle ambiguità

Dall’“allarme Cina” all’“incubo AlQaeda”. L’amministrazione Bush si in-sediava al potere nel 2001 volgendol’attenzione prevalentemente alla tradi-zionale costellazione delle Grandi Po-tenze, interrogandosi ora sulle creden-ziali di peer competitor della Cina inascesa, ora sugli esiti dell’opaca transi-zione russa, ora in generale sulle tenutadegli assetti di potere regionali (nelGolfo, in Asia orientale): salvo poi tro-varsi quasi immediatamente a misurar-si con una minaccia sgorgata dagli in-terstizi della politica statalizzata, dalvuoto di sovranità dell’Afghanistan ta-lebano e dalla proliferazione dei circui-ti transnazionali sfuggiti al controllodegli stati. La sfida lanciata dal terrori-smo islamico non aboliva la power po-litics interstatale, ma produceva inveceuna sorta di sdoppiamento degli oriz-zonti geopolitici della politica di sicu-rezza americana, chiamando quest’ul-tima ad aggiornarsi, quanto a concetti ecapacità, sulla base dell’inedita politicade-territorializzata.

Certo, già prima dell’11 settembre lapersistente centralità della dimensioneinterstatale non era equivalsa, agli occhidegli esponenti repubblicani, alla con-vinzione che il pacchetto di mezzi mili-tari e paradigmi operativi ereditato daldecennio clintoniano conservasseun’intatta validità di fronte allo scena-rio geopolitico del futuro. Al contrario.

“Trasformazione” era stata la parolad’ordine risuonata nella campagnaelettorale repubblicana in tema di poli-tica di difesa e sicurezza, ribadita coninsistenza all’indomani dell’insedia-mento dell’amministrazione Bush.Ispirava i responsabili repubblicani l’i-dea che l’obiettivo fondamentale delprolungamento della leadership unipo-lare americana esigesse una profondarevisione, o addirittura un’autentica ri-voluzione (come nel caso della deter-renza nucleare), degli indirizzi seguitinel primo decennio post-bipolare, a lo-ro volta lievi aggiornamenti degli appa-rati concettuali e degli schemi d’azioneacquisiti negli anni della guerra fredda.L’11 settembre avrebbe confermato inmodo quanto mai perentorio l’urgenzadell’obiettivo “trasformativo”, benchégli specifici contenuti di innovazioneelaborati sulla base della realtà pre-11settembre non si rivelavano automati-camente adatti a rispondere alle parti-colari esigenze strategiche della cosid-detta “Guerra Globale al Terrorismo” o,come piace dire ora, della “Lunga Guer-ra”. Alla Quadrennial Defense Review2001, trasmessa al Congresso pochesettimane dopo gli attentati messi a se-gno da Al Qaeda ma concepita in granparte prima dell’11 settembre, toccavaregistrare questo sdoppiamento diorizzonte, provando a muovere i primipassi nella ricerca di una soluzione al

Dottrina Rumsfeld 2006: la fiera delle ambiguità

CORRADO STEFANACHIè Ricercatore in ScienzaPolitica e docenteincaricato di RelazioniInternazionali pressol’Università degli Studi di Milano.

Corrado Stefanachi

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osservatorio internazionale

1 Executive Summary of the Report of the Commission to Assess the Ballistic Missile Threat to the UnitedStates, July 15, 1998, <http://www.fas.org/irp/threat/bm-threat.htm>.

2 L. FREEDMAN, The Revolution of Military Affairs, in «Adelphi Papers», n. 318, 1998, pp. 38-48.

nuovo rompicapo strategico, che staevidentemente al centro della Quadren-nial Defense Review 2006: come piegareil processo di revisione del dispositivomilitare americano alle specifiche logi-che d’azione della politica de-territo-rializzata, senza rinunciare allo stessotempo a prepararla alle sfide attese sulterreno tradizionale della competizionetra le Grandi Potenze per l’equilibrio eper l’egemonia?

Dottrina Rumsfeld, 10 settembre2001: «trasformazione,trasformazione, trasformazione»

Quale lettura dello scenario inter-nazionale entrava nel 2001 nel diparti-mento della Difesa al seguito dellanuova amministrazione repubblicana?In base a quale “visione” del futuro po-litico-strategico la potenza unipolareavrebbe dovuto impegnarsi nell’im-presa di ridisegnare le fondamenta mi-litari della sua salda leadership globale?Perché cambiare e trasformare, se ciòche c’era regalava comunque agli StatiUniti il vertice della politica interna-zionale post-bipolare? Innanzituttoperché – così fu la risposta – proprio laschiacciante superiorità militare esibi-ta dagli Stati Uniti sul terreno conven-zionale avrebbe prevedibilmente spin-to le potenze regionali avverse agli in-teressi americani a spostare la contesaal di fuori del campo di battaglia con-venzionale, affidandosi a “strategieasimmetriche” di esclusione della po-tenza unipolare dalle aree regionali

non più maneggiabili, da parte ameri-cana, con gli strumenti e gli approccimutuati dal passato. Quella stessa su-periorità che andava consegnando alleforze convenzionali americane un’ine-dita capacità di deterrenza degli attac-chi diretti e simmetrici alle posizioni eagli interessi degli Stati Uniti nel mon-do prometteva anche di aumentare no-tevolmente il valore delle armi non-convenzionali (segnatamente armi nu-cleari e biologiche abbinate a missilibalistici), agli occhi delle potenze re-gionali eventualmente avverse alla pre-senza americana e interessate a dissua-derne l’intervento attraverso un innal-zamento dei costi e dei rischi potenzia-li di collisione armata. Nei termini del-la cosiddetta Commissione Rumsfeld,incaricata nel 1997 dal Congresso ame-ricano di valutare l’esposizione degliStati Uniti alla minaccia missilisticabalistica: «[U]n certo numero di paesicon ambizioni regionali non accogliepositivamente il ruolo degli Stati Unitiquale potenza stabilizzatrice nelle lororegioni e non lo accetta passivamente.A causa delle loro ambizioni, essi vo-gliono limitare la capacità degli StatiUniti di proiettare potenza o influenzanelle loro aree. Essi vedono nelle armidi distruzione di massa e nella tecnolo-gia missilistica il modo per realizzaretutto ciò»1.

L’uso (e abuso) del concetto di “stra-tegia asimmetrica” da parte dell’analisistrategica degli anni novanta2 riflettevaprecisamente l’aspettativa che le poten-ze interessate ad escludere gli Stati Uni-ti dagli eventuali conflitti sulla ridefini-

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3 Rebuilding America’s Defense. Strategy, Forces and Resources For a New Century, A Report of the Projectfor the New American Century, Washington D.C., September 2000, p. 55.

zione degli assetti regionali avrebberocercato di far leva primariamente suipunti di vulnerabilità americana al difuori del campo di battaglia: e cioé il“fronte interno” americano, in primoluogo, meno propenso ad affrontare icosti potenziali degli interventi militariin aree distanti una volta scomparsa laformidabile sfida globale sovietica, eprevedibilmente tanto più restio a farlouna volta ricomparso il rischio di esca-lation non-convenzionale dei conflitti;la rete di alleati e partner locali necessa-ri ad attivare l’imponente catena logi-stica degli interventi regionali, in secon-do luogo, candidati presumibilmente adiventare i primi bersagli di un attacconon-convenzionale in caso di escalationdel conflitto. In effetti, l’eventuale inse-rimento del rischio di escalation nellecrisi regionali veniva riconosciuto comeil “solvente” più insidioso della credibi-lità dagli Stati Uniti, agli occhi dei loroavversari e dei loro protetti regionali,nel ruolo di garanti dello status quo:presente il rischio di superamento dellasoglia convenzionale, la potenza unipo-lare sarebbe ancora stata in grado di in-tervenire ad un costo politicamente ac-cettabile per l’elettore americano e per isuoi partner regionali?

Ma l’enfasi sull’attesa asimmetriadelle “nuove guerre” coglieva anche l’i-nedito potenziale di vulnerabilità con-

nesso all’integrazione nel dispositivomilitare americano delle innovazionitecnologiche nel campo delle comuni-cazioni e dell’informatica (è la cosid-detta “Rivoluzione negli Affari Milita-ri”, Rma nell’acronimo inglese): alla di-pendenza sempre più stretta dai nuoviglobal commons, spazio ed “infosfera”(cyberspazio), concettualizzati dal pen-siero strategico americano in analogiacon i due “tessuti connettivi” globali(mare ed aria) su cui si è retta nel pas-sato l’ascesa degli Stati Uniti al ruolo dipotenza mondiale, ma ancora in attesadella formulazione di una chiara strate-gia di denial e control. «In effetti – comerilevavano alla vigilia delle elezioni pre-sidenziali del 2000 gli analisti delProject for the New American Century,uno dei centri di ricerca più vicini al-l’amministrazione repubblicana – lospazio diventerà probabilmente il nuo-vo “international commons” nel qualegli interessi commerciali e di sicurezzasi intrecceranno e collegheranno. Cosìcome Alfred Thayer Mahan scrisse sul“potere marittimo” all’inizio del vente-simo secolo, gli strateghi americani sa-ranno obbligati nel ventunesimo seco-lo a prendere in considerazione il “po-tere spaziale”»3.

Straordinaria opportunità di poten-ziamento della “lancia” militare ameri-cana, grazie alle nuove possibilità di let-tura del teatro bellico (information do-minance) e di proiezione/concentrazio-ne del fuoco sui bersagli (armi di preci-sione guidate), la Rma minacciava tut-tavia di offrire anche alcuni varchi allafionda di Davide, sottospecie di conge-

La schiacciante superiorità degliUsa sul terreno convenzionaleimpone agli avversari di ricorrere astrategie asimmetriche

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4 Ibidem.5 Ibidem p.11.6 Su questo rovesciamento della logica della deterrenza applicata durante la guerra fredda, si veda K.

PAYNE, Bush Administration Strategic Policy: A Reality Check, in «The Journal of Strategic Studies»,28, 2005, 5, pp. 775-787.

7 «Integrating missile defense with other defensive as well offensive means will safeguard the Nation’sfreedom of action, enhance deterrence by denial, and mitigate the effects of attack if deterrence fails», U.S.DEPARTMENT OF DEFENSE, Quadrennial Defense Review Report 2001, Washington D.C.,September 30, 2001, p. 42.

8 Ibidem, p.45.9 Ibidem, p.43.

gni dall’impatto dirompente in gradodi mettere in crisi l’infrastruttura tec-nologica che sostiene la proiezioneamericana. «Dati i vantaggi che le forzearmate ricavano dall’uso illimitato del-lo spazio è miope aspettarsi che i po-tenziali avversari degli Stati Uniti siasterranno dal tentare di disattivare ocontrastare le capacità spaziali ameri-cane»: specialmente «[l’]esercito cinesecerca di sfruttare la Rma per contrasta-re i vantaggi di cui gli Stati Uniti godo-no nel potere navale e aereo»4.

Di qui l’imperativo dell’edificazionedi nuovi argini dissuasivi in grado ditrattenere i conflitti regionali sotto lasoglia nucleare, assicurandone la natu-ra convenzionale a tutto vantaggio del-la persistente superiorità militare ame-ricana, da rilanciare d’altronde nel sen-so della Rma e della guerra tecnologica(high-technology warfare), magari at-traverso la messa in campo di una nuo-va generazione di «sistemi d’arma otti-mizzati per le operazioni nell’OceanoPacifico piuttosto che in Europa»5, acertificare l’avvenuto spostamento delfulcro della strategia unipolare ameri-cana dal Vecchio Continente all’Asia,avendo però cura di consegnare agliStati Uniti le chiavi di accesso/interdi-zione dei nuovi circuiti della comuni-

cazione globale. La conversione dellastrategia di deterrenza nucleare ameri-cana dalla logica del punishment (de-terrenza attraverso la promessa di rap-presaglia punitiva e reciproca distru-zione, Mad) a quella del denial (deter-renza attraverso la capacità di soppor-tare un’escalation nucleare, grazie a di-spositivi di difesa del territorio proprioe degli alleati regionali e dotazioni of-fensive, convenzionali e nucleari, rivol-te a colpire gli arsenali del nemico)6 ve-niva in effetti individuata dall’ammini-strazione entrante quale nuovo archi-trave della preservazione delle condi-zioni politico-strategiche di interventoregionale, immediatamente inseritanella Quadrennial Defense Review del2001 (Qdr 2001) tra le priorità trasfor-mative del dipartimento della Difesa eposta alla base della Nuclear Posture Re-view del 20027.

Accanto alla revisione della deter-renza nucleare, la Qdr 2001 identifica-va i settori cardine della trasformazionenell’accesso allo/interdizione dello spa-zio (introducendo l’innovativa missio-ne di “space control”, diretta «ad assicu-rare la libertà d’azione degli Stati Unitie dei loro alleati nello spazio e, quandorichiesto, a negarla agli avversari»8);delle “information operations” (che«forniscono il mezzo per raccogliere ra-pidamente, processare, disseminare eproteggere informazioni, negando alcontempo tali capacità agli avversari»9);della proiezione di potenza a lungo rag-

La Rma accresce le potenzialitàmilitari degli Stati Uniti ma liespone anche a un'ineditavulnerabilità

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10 Ibidem, p.4.11 Già secondo la Qdr 2001, p. 6.

gio, a partire dal mare e dall’aria, in am-bienti “chiusi” da strategie anti-accessoed area-denial («sottomarini, sistemi didifesa aerea, missili cruise e mine»),specialmente in Asia orientale, dove laQdr 2001 collocava le sfide più serieagli assetti del potere internazionale erilevava l’esistenza di condizioni logi-stiche particolarmente sfavorevoli.«Mantenere un equilibrio stabile inAsia – così la Qdr 2001 – sarà un com-pito complesso. Esiste la possibilità cheemerga nella regione un competitor mi-litare dotato di una base di risorse for-midabile. Il litorale est-asiatico – dalGolfo del Bengala al Mar del Giappone– rappresenta un’area particolarmenteproblematica. Nel teatro asiatico le di-stanze sono estese. La densità delle basiamericane e l’infrastruttura en route so-no minori rispetto ad altre aree criti-che. Gli Stati Uniti hanno inoltre mi-nori garanzie di accesso a postazioninella regione»10.

Dottrina Rumsfeld, 2001-2006:quale trasformazione?

E tuttavia la “Lunga Guerra” seguitaall’11 settembre non è esattamente laguerra statalizzata ed iper-tecnologicacui si preparavano gli Stati Uniti ilgiorno prima. Guerra asimmetrica, ov-viamente, essa rimanda però ad unaasimmetria diversa, e ben più radicale,rispetto a quella precedentemente pre-ventivata, e che coinvolge la naturastessa degli attori in gioco: non più sta-to-contro-stato, ma stato contro qual-

cosa o qualcuno che stato non è, non èpiù o non è ancora, e che proprio nelladissoluzione della sovranità (“failing-States”) ha trovato semmai il suo “ele-mento” ed il suo campo d’azione. Guer-ra globale, ovviamente, essa sfida lepartizioni geopolitiche su cui si è tradi-zionalmente appoggiata la Grand Stra-tegy americana e ne mette sotto pres-sione gli sperimentati criteri di selezio-ne di priorità (le poche aree di interes-se vitale, in cui bisogna essere pronti adintervenire, contrapposte alle rimanen-ti aree marginali, da cui ci si può tenerelontani); in effetti, proprio l’assenza diun saldo radicamento territoriale delnemico e la mancanza di una sicura lo-calizzazione della minaccia nello spaziotendono a proiettare la “Lunga Guerra”«virtualmente in ogni continente»11,comunque in ambiti regionali in cui gliStati Uniti avevano preferito negli anninovanta non impegnarsi in prima per-sona (come nel Caucaso o in Asia cen-trale) o non impegnarsi affatto (Afgha-nistan o Africa sub-sahariana). Guerraper la sicurezza, ovviamente, la “LungaGuerra” introduce nell’agenda strategi-ca americana molte di quelle cose cheprima del settembre 2001 il diparti-mento della Difesa aveva disdegnato diaccollare alle forze militari americane(per delegarle magari agli alleati, euro-

pei in testa), a cominciare dalle attivitàdi state e nation-building, insomma diristabilimento della sovranità degli sta-

La "lunga guerra" non è la guerrastatalizzata e iper-tecnologica a cui si preparavano gli Stati Uniti

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12 U.S. DEPARTMENT OF DEFENSE, The National Defense Strategy of the United States of America,March 2005, p. 2 (d’ora in avanti Nds 2005).

13 U.S. DEPARTMENT OF DEFENSE, Quadrennial Defense Review Report 2006, Washington D.C.,February 6, 2006, p. 18 (d’ora in avanti Qdr 2006).

14 Ibidem.15 U.S. DEPARTMENT OF DEFENSE, Nds 2005, cit., p. 3.16 Ibidem.

ti falliti o in via di fallimento, la cui fra-gilità ha finito per regalare all’Islam ra-dicale la sua occasione.

Ebbene, la Quadrennial Defense Re-view 2006 (riprendendo ed articolandola National Defense Strategy 2005) cer-ca di preparare gli Stati Uniti al nuovoscenario, senza perdere però di vista ilvecchio binario trasformativo. A presie-dere all’impresa è una inedita “matricedelle minacce”, che riassume il venta-glio delle sfide strategiche rispetto allequali adeguare il dispositivo militareamericano: rimangono le minacce tra-dizionali (quelle cioè «poste da stati cheimpiegano capacità e forze militari ri-conosciute, nelle forme ben note dicompetizione e conflitto militare»12),cui vengono affiancate le minacce irre-golari (ovvero «terrorismo, insorgenzae guerriglia», favorite dalla «ascesa diideologie estremistiche» e dalla «assen-za di governi efficaci»13), orientate apuntare sul fattore tempo («an attemptto break out our will through protractedconflict»14) «per costringere [gli StatiUniti] alla ritirata strategica da regionichiave o da un [certo] corso d’azione»15;l’ombra dell’impiego di armi di distru-zione di massa è il contrassegno invecedelle minacce catastrofiche, cui sono af-fiancate infine le minacce dirompenti,quelle che fanno leva su “tecnologie ri-voluzionarie” («including advances inbiotechnology, cyber operations, space ordirected-energy weapons») per «sfrutta-re le vulnerabilità americane e contra-stare l’attuale vantaggio degli Stati Uni-ti e dei loro alleati»16. Se non si tratta diun trionfo di eleganza formale e nitore

tassonomico (le sovrapposizioni tra lequattro categorie sono inevitabili), sidelinea il tentativo di aprire la pro-grammazione militare alle diverse for-me di asimmetria strategica (esercitistatali/forze irregolari, da una parte; ar-mi convenzionali/Weapons of Mass De-struction-Disruption, dall’altra parte),volgendo lo sforzo trasformativo ancheverso tipi di missioni e impegni (con-tingencies) che, nel corso degli anni no-vanta, non avevano smesso di figurarecome residuali rispetto alla missionefondamentale di “grande guerra regio-nale” (ricalcata sul modello della guer-ra del Golfo del 1991).

L’allargamento dello spettro di sce-nari potenziali e la delocalizzazione del-le minacce tipica della politica de-terri-torializzata conferma l’innovativo ap-proccio alla programmazione basatosulle capacità (“capabilities-based ap-proach”), anziché sull’identificabilità apriori del nemico e del teatro di inter-vento (“threat-based approach”), già in-trodotto dalla Qdr 2001: «La pianifica-zione basata sulle capacità – ribadisce laNds 2005 – si concentra sul come gli av-versari potrebbero sfidarci piuttostoche su chi sia l’avversario o su dove do-vremo affrontarlo» [corsivi miei]. Neglianni novanta, il dipartimento della Di-fesa aveva in effetti misurato le esigen-ze militari della potenza unipolare se-condo il metro della “grande guerra re-gionale”, tarando la struttura delle for-

Le nuove minacce internazionalinon sono riconducibili ad unaspecifica localizzazione

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17 Cito qui Ryan Henry, Principal Deputy Under Secretary of Defense for Policy nell’attualeamministrazione americana; si veda R. HENRY, Defense Transformation and the 2005 QuadrennialDefense Review, in «Parameters», Winter 2005-06, p. 10.

18 Ibidem, p. 11.19 U.S. DEPARTMENT OF DEFENSE, Qdr 2006, cit., p. 36.20 Ibidem, p. 14.21 B. SCHREER, Quadrennial Defense Review Report. A mixed picture, in «SWP Comments», 5, March

2006, p. 2.

ze armate americane sull’obiettivo delmantenimento della capacità di com-battere e vincere in modo decisivo (cioèfino alla conquista, se politicamenteopportuno, della capitale nemica) dueguerre regionali simultaneamente, nel-le aree identificate come decisive per ilprolungamento del “momento unipo-lare” e contro potenze regionali “revi-sioniste” (presumibilmente ancora nelGolfo Persico, contro Iraq o Iran, op-pure in Asia nord-orientale, nella peni-sola coreana o nello stretto di Taiwan).La Qdr 2001 corresse il livello ottimalenel mantenimento delle capacità suffi-cienti a procurare la vittoria “decisiva”in una guerra regionale ed il simulta-neo ristabilimento dello status quo inun’altra area di interesse prioritaria(ora cioè senza arrivare alla presa dellacapitale nemica, come nel caso di De-sert Storm del 1991), con l’idea di libe-rare nuove risorse da spendere in inter-venti militari al di sotto della soglia cri-tica di guerra regionale («lesser contin-gencies»), da condurre «in unexpectedplaces and unexpected ways»17 e attra-verso uno spettro operativo dilatato,comprendente le missioni di stabilizza-zione e ricostruzione post-bellica, dicontroinsorgenza ed assistenza umani-taria18.

Con la revisione del 2006, la rigi-dità geografica ed operativa della pre-cedente programmazione strategicasembra cedere definitivamente il pas-so, alla ricerca della massima flessibi-lità e della capacità «di operare in tut-to il globo e non solo nelle quattro re-

gioni richiamate nella Qdr 2001 (Eu-ropa, Medio Oriente, Sud-Est asiaticoed Asia nord-orientale)»19, e lungol’ampio ventaglio delle missioni, con-venzionali ed irregolari, che hanno fi-nora costellato e costelleranno la“Lunga Guerra”: «Molto disperse suscala globale – nel Pacifico e nell’O-ceano indiano, in Asia centrale, MedioOriente, Caucaso, Balcani, Africa eAmerica Latina – le operazioni degliultimi anni» sottolinea la Qrd 2006«rendono manifesta l’importanza dipiccole squadre che conducano mis-sioni specificatamente calibrate allecondizioni locali…In certe situazioni,le forze americane si sono concentratesull’attacco e la distruzione delle forzenemiche. In altre hanno lavorato permigliorare le vite delle popolazioni diregioni impoverite o per ricostruire lecapacità delle forze di sicurezza localidi controllare il territorio»20. È notevo-le che, per la prima volta, il diparti-mento della Difesa riconosca tutto ilpotenziale di dispendiosità delle ope-razioni di stabilizzazione e ricostru-zione post-bellica, equiparate ai livellidi impegno delle tradizionali “grandiguerre regionali”: indicativamente, ildispositivo militare americano dovràd’ora in avanti essere capace di regge-re l’urto di due guerre regionali simul-tanee (con la possibilità di ottenere, senecessario, la “vittoria decisiva” in unadi esse) o, alternativamente, di com-battere una guerra regionale ed unaprolungata campagna irregolare (sta-bilizzazione/ricostruzione)21.

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22 U.S. DEPARTMENT OF DEFENSE, Qdr 2006, cit., p. 45.23 Ibidem24 M.A. FLOURNAY, Did the Pentagon Get the Quadrennial Defense Review Right?, in «The Washington

Quarterly», 29, 2006, 2, p. 76.25 U.S. DEPARTMENT OF DEFENSE, Qdr 2006, cit., p. 45.26 Per una sintetica trattazione delle nuove tipologie di installazioni militari americane si veda, oltre, la

sezione “Documentazione”.27 Ibidem.

Coerentemente con questa rivalu-tazione, la Qdr 2006 propone misurecome l’aumento del 15% delle Forzeper le Operazioni Speciali (di un ter-zo dei suoi battaglioni); la creazionedi un Comando per le OperazioniSpeciali, forte di 2600 unità, presso ilcorpo dei Marines (Marsoc), «per ad-destrare le unità militari straniere econdurre azioni dirette e di ricogni-zione (reconnaisance) speciale»22; ilpotenziamento delle squadre dei Sealsin servizio presso la Marina e l’attri-buzione di una squadriglia di aereisenza pilota alle Special OperationsForce23. Nel complesso, si può osserva-re come Esercito e Marines tendano aconcentrarsi sulla guerra irregolare,assumendo le Special Forces come pro-prio paradigma di riferimento per latrasformazione24. Contestualmente, leesigenze operative tipiche della guerra“sul territorio” (controinsorgenza;stabilizzazione e ricostruzione; anti-terrorismo), che è inevitabilmente an-che una partita sulla legittimità gioca-ta “nei cuori e nelle menti” delle po-polazioni interessate, richiamanonuove risorse nei settori della humanintelligence e dell’affinamento dellecompetenze culturali e linguistichedel personale militare americano; inquesta direzione la Qdr 2006 accresce

del 33% il personale addetto alle Psy-chological Operations and Civil Af-fairs25. Sullo sfondo, il risvolto logisti-co di questa ricerca di flessibilità eadattabilità è il ripensamento dell’in-frastruttura che sostiene la presenzaamericana all’estero, secondo un di-verso modulo organizzativo che in-tende associare ad un ristretto nume-ro di grandi basi militari permanentiadibite a funzioni di hub regionali(Main Operating Bases) una rete di ac-cessi e di postazioni più “leggere”(Forward Operating Sites e Cooperati-ve Security Locations), attivabili in ca-so di necessità e secondo livelli cre-scenti di impegno26, da integrare conun potenziamento dei centri di pre-posizionamento di materiali «nelle re-gioni critiche e lungo le rotte di tra-sporto chiave»27, preziosi per abbatte-re i tempi di risposta e dispiegamentodelle forze al manifestarsi delle crisi.

Come accennato, la prepotente irru-zione della guerra irregolare al centrodella revisione strategica non equivaleperò ad un abbandono del modello tra-sformativo intravisto prima dell’11 set-tembre, con la sua enfasi sulla power po-litics interstatale e sulla geopolitica del-le Grandi Potenze. Semmai, i due indi-rizzi coesistono, a volte integrandosi,altre volte entrando in tensione, mentrericorre l’impressione che un genericoriferimento alle nuove minacce del ter-rorismo internazionale serva talvoltacome “copertura di legittimità” checonsente al Dipartimento di proseguirepiù speditamente sul sentiero trasfor-

Gli Usa dovranno prepararsi acombattere simultaneamente dueguerre regionali o una guerraregionale e una campagnairregolare prolungata

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28 La “Nuova Triade” strategica, afferma la Qdr 2006, «will provide a fully balanced, tailored capability todeter both state and non-state threat», U.S. DEPARTMENT OF DEFENSE, Qdr 2006, cit., p. 49.

29 M.P. NOONAN, The Quadrennial Defense Review. U.S. Defense Policy, 2005-2025, in «Special Report»,<http://www.unc.edu/depts/diplomat//item/2006/0103/fpri/noonan_quad.html>, p. 3.

30 M.A. FLOURNAY, cit., p. 75.31 D.C. GOMPERT - J. DOBBINS, A Far Too Costly Pentagon, in «United Press International», February

27, 2006.

mativo caro a Rumsfeld prima dell’11settembre. Se vogliamo, la revisionedella deterrenza28 è forse il caso più si-gnificativo, nella misura in cui il richia-mo ormai rituale alle nuove vulnerabi-lità prodotte dalle reti terroristichenon-statuali concorre a giustificare laricerca di impegnative capacità strate-giche (a cominciare dalla difesa anti-missile) che trovano evidentemente laloro ragion d’essere sul tradizionale ter-reno della politica interstatale.

Più precisamente, si assiste ad unabiforcazione tra l’indirizzo che guida latrasformazione dell’Esercito e del cor-po dei Marines, da una parte, e quelloche ispira la riconfigurazione della Ma-rina e dell’Aeronautica, dall’altra parte,nel quadro di un difficile tentativo «dimantenere un equilibrio tra il brevetermine (vincere la “Guerra Globale alTerrorismo”) ed il lungo periodo»29

(prepararsi all’eventuale ascesa di unpeer competitor globale). Come notaMichèle A. Flournay, «[l]’enfasi sullaguerra irregolare…è intesa a riorienta-re l’Esercito e i corpi dei Marines dalloro fuoco tradizionale sul combatti-mento all’estremo superiore [dellospettro strategico] verso le esigenzequotidiane della lotta al terrorismoglobale, della controinsorgenza e delleoperazioni di stabilizzazione»; diversa-mente, l’interesse dell’Aeronautica e

della Marina è rivolto primariamente,se non esclusivamente, «alle capacitànecessarie a combattere e vincere leguerre convenzionali del futuro, inclu-si i conflitti che comportino minaccedirompenti, come gli sforzi [compiutida] un avversario quasi-paritario perinterdire l’accesso militare in regioni oin conflitti che interessano gli StatiUniti»30. D’altra parte, se questa è la di-visione dei compiti, l’allocazione dellerisorse lascia intravedere una gerarchiadelle priorità che sembra ancora privi-legiare le sfide di lungo periodo rispet-to alle esigenze delle guerre irregolariin corso in Iraq o Afghanistan. Esem-plarmente, benché aumentate, le risor-se in favore delle Forze Speciali am-montano ad appena l’1% della spesamilitare complessiva (e il loro rafforza-mento assorbirà soltanto il 4% dellacrescita del budget per la difesa)31. E an-cora, nonostante il gravoso impegnosostenuto dalle truppe americane nellastabilizzazione dell’Afghanistan e del-l’Iraq e i sintomi di sovraccarico che sisono manifestati, il Dipartimento nonritiene di dovere aumentare gli effetti-vi dell’Esercito, decidendo anzi di por-tarli nel 2011 a 482.000 unità, dalle491.000 attuali. Questa programma-zione dell’organico è destinata a pro-lungare in futuro la dipendenza dell’E-sercito dall’apporto della Guardia Na-zionale e della Riserva, emersa in Af-ghanistan ed in Iraq: «Se la Guardia[Nazionale] e la Riserva – si interrogaun critico della Qdr 2006 – sono di-ventate così intimamente coinvoltenelle operazioni in corso, dov’è oggi la

L'allocazione delle risorse mostrauna gerarchia delle priorità cheprivilegia la sfida convenzionale dilungo periodo incarnata dalla Cina

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32 F.W. KAGAN, A Strategy for Heroes. What’s wrong with the 2006 Quadrennial Defense Review, in «TheWeekly Standard», 11, 2006, 22, <http://www.weeklystandard.com/Content/Public/Articles/000/000/006/701tgdjt.asp>, p. 5.

33 M. BOOT, The Wrong Weapons for the Long War, in «Los Angeles Times», February 8, 2006.34 K. SCHAKE, Jurassik Pork, in «The New York Times», February 9, 2006.35 THE INTERNATIONAL INSTITUTE FOR STRATEGIC STUDIES, The Pentagon eyes China’s

military. Back to threat-based planning, in «Strategic Comments», 11, 2005, 5,<http://www.iiss.org/publications/strategic-comments/past-issues/volume-11---2005/volume-11-issue- 5/the- pentagon-eyes-chinas-military>.

riserva strategica pronta nel caso in cuiuna catastrofe dovesse colpirci in unadelle guerre in corso oppure in un altroteatro? Non c’è»32. Il dipartimento nonsmette invece di finanziare costosi si-stemi d’arma e piattaforme strategichedestinati a conflitti convenzionali, sta-to-contro-stato, specialmente nel set-tore del potere aero-navale: l’impres-sione diffusa presso gli osservatori èche, «[n]onostante tutte le genuflessio-ni della Qdr verso la guerra irregolare,il segretario alla Difesa Donald Rum-sfeld sembri pensare ancora che l’Iraq el’Afghanistan costituiscano l’eccezio-ne, non la norma, e che in futuro nonavremo bisogno di così tante truppesul terreno»33. Secondo Kori Schake,sulla stessa falsariga, la Qdr 2006 «so-stiene programmi di spesa che assomi-gliano straordinariamente al progettodel segretario della Difesa Rumsfled

dell’agosto 2001»34. Scontato il pesodell’inerzia burocratica, che gioca infavore dei vecchi programmi di spesanell’arena decisionale della Difesa, sipuò forse aggiungere che un filo dicoerenza lega queste scelte all’altro do-cumento capitale prodotto dal Penta-gono nel marzo del 2005, il “Rapportoannuale sul potere militare della Re-pubblica Popolare Cinese”: come rias-sume l’Istituto Internazionale per gliStudi Strategici di Londra, «[i]l Rap-porto rappresenta una pietra miliarenella stima americana delle capacitàmilitari della Cina. Per la prima voltada quando l’Amministrazione Bush èentrata in carica, Washington ha quali-ficato la potenza militare cinese nonsoltanto come una minaccia perTaiwan, ma nel più ampio contesto re-gionale»35. Dall’“incubo Al Qaeda”all’“allarme Cina”?

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Quadrennial Defense Review Report 2006

«The United States is a nation engaged in what will be a long war»1. L’asserzione con la quale si apre la Qua-drennial Defense Review (Qdr) 2006 esplicita sin dall’inizio due elementi che contribuiscono a informarel’intero documento. Il primo consiste nella semplice constatazione, ricorrente a partire dall’11 settembre, chegli Stati Uniti sono una nazione in guerra. Il secondo nella caratterizzazione della guerra in questione, checessa di essere definita in termini di “guerra globale al terrorismo” e viene ribattezzata “lunga guerra”.Il documento cerca di fornire una definizione della “lunga guerra” soffermandosi anzitutto su ciò che essanon è: non si tratta di una guerra convenzionale, combattuta all’interno di un territorio circoscritto da eser-citi tradizionali afferenti ad uno stato sovrano. La “lunga guerra” è tutt’altro, è la completa negazione di cia-scuno degli aspetti costitutivi della guerra convenzionale: essa è combattuta da reti terroristiche prive di unconnotato territoriale, che agiscono su scala globale e che hanno una composizione multi-nazionale e mul-ti-etnica. È, a ben vedere, una guerra priva di limiti spaziali così come di limiti temporali.La Qdr 2006, la terza Qdr pubblicata da quando il Congresso ha previsto la predisposizione di questo gene-re di documenti, contiene un triplice elemento di novità. È la prima pubblicata con la nazione in guerra; èla prima ad essere stata concepita dopo l’11 settembre (la Qdr 2001 fu pubblicata il 30 settembre di quel-l’anno ma fu quasi interamente confezionata prima degli attacchi terroristici di New York e Washington);ed è la prima ad essere redatta dalla medesima amministrazione responsabile della preparazione della pre-cedente edizione.L’edificio di sicurezza americano eretto a partire dalle linee strategiche declinate dalla Qdr 2006 poggia sudue pilastri fondamentali. Del primo, la “lunga guerra” si è detto. Il secondo è costituito dalla competizionea lungo termine con la Cina. La potenza asiatica viene definita esplicitamente come «il paese dotato dellemaggiori potenzialità per competere dal punto di vista militare con gli Stati Uniti». La lotta al terrorismo in-ternazionale è l’elemento più macroscopico e ricorrente, la competizione con la Cina è evocata in terminimeno espliciti e, tuttavia, non occupa affatto una posizione marginale, come emerge inequivocabilmentedalle direttive per la trasformazione e per il riorientamento delle forze armate americane.Gli Stati Uniti sono pertanto chiamati ad agire su due fronti, dettati da due differenti orizzonti temporali.In un’ottica di breve periodo domina l’eventualità di una guerra irregolare su larga scala e su una moltepli-cità di teatri – essenzialmente, anche se non esclusivamente, afferenti al Grande Medio Oriente –, in un’ot-tica di lungo periodo si affaccia l’eventualità di una concreta minaccia convenzionale promanante dalla Ci-na – che come si riconosce senza mezzi termini è già oggi in grado di porre in discussione l’equilibrio mili-tare regionale.La Qdr fotografa l’attuale stato delle risorse militari (umane e materiali) degli Stati Uniti riconoscendo chese, da un canto, gli Stati Uniti detengono capacità incomparabili con riferimento alle sfide tradizionali – in-tendendo con esse le operazioni militari convenzionali terrestri, aeree e navali – dall’altro sono sprovvisti, oquantomeno carenti, delle capacità necessarie a far fronte all’ampio spettro di minacce non tradizionali chedà forma all’ambiente di sicurezza prevedibile per i prossimi decenni.Il quadro strategico tracciato dalla Qdr – riprendendo integralmente lo schema introdotto dalla National De-fense Strategy del 20052 – si sviluppa attorno a quattro differenti tipologie di sfide e minacce, che vengonoclassificate come tradizionali, irregolari, catastrofiche e dirompenti.Le sfide tradizionali sono quelle riconducibili alla guerra convenzionale. In tale segmento della competi-zione militare internazionale gli Stati Uniti godono – come detto – di un’incontrastata posizione di vantag-gio, di una potenza militare largamente asimmetrica rispetto a quella di ogni altro potenziale rivale.Alle sfide irregolari afferiscono il terrorismo, l’insorgenza, la guerriglia e tutte quelle altre manifestazionidella violenza a cui i soggetti più deboli dal punto di vista militare fanno ricorso per competere con auto-rità statali consolidate. Questo genere di minacce poggia su un approccio di lungo periodo che si proponedi influenzare il comportamento dell’avversario infliggendogli elevati costi dal punto di vista umano, mate-riale e politico. Per rispondere a tali sfide – segnala la Qdr 2006 – è necessario intraprendere operazioni distabilizzazione, agire al fine di “conquistare i cuori e le menti” della popolazione coinvolta nello scontro edotare le forze militari di competenze e strumenti utili alla ricostruzione delle infrastrutture civili.Le sfide catastrofiche sono quelle che generano istantaneamente un inaccettabile livello di distruzione (at-tacchi terroristici su vasta scala, attacchi con armi nucleari, attacchi con missili balistici). In considerazionedel devastante potenziale di questo genere di minacce, gli Stati Uniti devono cercare di ostacolare l’acquisi-zione delle armi necessarie a porle in essere, dissuaderne l’utilizzo e, in caso di estrema necessità, distrug-gerle prima che possano essere utilizzate.

1 U.S. DEPARTMENT OF DEFENSE, Quadrennial Defense Review Report 2006, Washington D.C., February 6, 2006, p. 1,<http://www.defenselink.mil/qdr/report/Report20060203.pdf>.

2 U.S. DEPARTMENT OF DEFENSE, The National Defense Strategy of the United States of America, Washington D.C., March 2005, pp.2-3, <http://www.defenselink.mil/news/Mar2005/d20050318nds1. pdf>.

documentazionea cura di Antonio Mascia

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Le sfide dirompenti sono quelle che scaturiscono dall’acquisizione o dallo sviluppo di tecnologie in gradodi sovvertire un fondamentale equilibrio strategico.Per far fronte alle denunciate carenze del dispositivo militare americano, la Qdr 2006 predispone una seriedi interventi programmatici tra i quali vale la pena di segnalare:

• l’incremento del 15% del numero delle Special Operations Forces, che dovranno raggiungere, entro il2011, la quota di 66.000 unità;

• l’aumento di un terzo del numero dei battaglioni delle Special Forces;• la creazione nell’ambito del Comando per le Operazioni Speciali (U.S. Socom) di un apposito Co-

mando per le Operazioni Speciali del Corpo dei Marines e di una squadriglia di velivoli aerei privi diequipaggio;

• l’ampliamento dell’organico dei Seal Teams della Marina in seno al U.S. Socom;• l’aumento di un terzo (ossia di circa 3.500 unità) del personale con specifiche competenze in materia

di psycological operations e in civil affairs;• l’incremento delle capacità di conduzione delle operazioni belliche irregolari da parte delle forze po-

livalenti dell’Esercito e della Marina;• il rafforzamento degli strumenti per la difesa del territorio nazionale con la previsione per il prossi-

mo quinquennio di uno stanziamento eccezionale, pari a 1,5 miliardi di dollari, per lo sviluppo di ca-pacità di reazione ad attacchi bio-terroristici.

Tra i progetti di investimento spicca l’assenza di un piano per provvedere all’incremento di 30.000 unità del-l’Esercito in linea con quanto autorizzato lo scorso anno dal Congresso degli Stati Uniti.La Force Planning Construct (Fpc) prevista dal documento del dipartimento della Difesa ruota attorno a trepilastri fondamentali: (a) la difesa del territorio nazionale; (b) lo sviluppo degli strumenti e delle risorse (dinaturale irregolare) essenziali al fine di prevalere nella guerra al terrorismo; (c) il consolidamento delle ca-pacità necessarie ad affrontare e vincere campagne militari convenzionali.Tale Fpc introduce alcuni significativi elementi di novità rispetto a quella del 2001 che era definita dallo sche-ma 1-4-2-1 e prevedeva l’approntamento, la preparazione e l’equipaggiamento di forze sufficienti a: difen-dere il territorio nazionale (1); mantenere una presenza avanzata in quattro regioni, ossia in Europa, Asianord-orientale, Asia sud-orientale e Medio Oriente (4); neutralizzare rapidamente gli avversari in due dif-ferenti campagne militari che abbiano luogo contemporaneamente (2); pervenire ad una vittoria decisivain una di queste due campagne (1).In primo luogo, la Fpc 2006 supera il modello basato su un’esplicita menzione delle regioni centrali dal pun-to di vista strategico; il raggio d’azione viene dilatato su base a tutti gli effetti globale con un’enfasi partico-lare per il cosiddetto arco di instabilità – anch’esso non a caso ampliato rispetto al 2001 – che si estende dal-l’Africa occidentale alle Ande passando attraverso l’Asia sud-occidentale, meridionale e sud-orientale e l’O-ceano Pacifico.In secondo luogo, si ricorre – come in tutto il documento – alla chiara definizione di due piani completa-mente differenziati di minacce: il piano delle minacce irregolari e quello delle minacce convenzionali. La no-vità a tal proposito risiede nel fatto che il primo assurge quantomeno al rango del secondo, facendo discen-dere da ciò tutta una serie di implicazioni e di imperativi che riguardano la sfera operativa.In continuità con la precedente edizione del documento viene mantenuto un capabilities-based approach –vale a dire una prospettiva focalizzata sul tipo di conflitto che l’eventuale avversario potrebbe condurre piut-tosto che sull’identità e sulla localizzazione dello stesso – e per ognuno dei pilastri della Fpc vengono se-gnalate le steady-state activities e le surge activities.Con riferimento alle prime la Qdr prevede un aumento degli interventi di stabilizzazione e di nation buil-ding, una maggiore frequenza delle operazioni di contro-insorgenza di lungo termine, un aumento delleazioni offensive di contrasto alla proliferazione delle armi di distruzione di massa.Tra le seconde si segnalano: la gestione delle conseguenze di un attacco con armi di distruzione di massa odi un evento catastrofico; la conduzione su larga scala di operazioni di contro-insorgenza, di stabilizzazio-ne, di transizione e di ricostruzione; e, soprattutto, il simultaneo ingaggio di due campagne militari con-venzionali oppure di una convenzionale e di una non convenzionale su larga scala;La nuova Fpc viene posta al servizio di quattro obiettivi prioritari: (a) neutralizzare le reti terroristiche, (b)difendere a fondo il territorio nazionale, (c) influenzare le scelte dei paesi che si trovano ai crocevia strate-gici (paesi situati in Medio Oriente, in Asia centrale e in America Latina) e dei paesi che mostrano interessio ambizioni nei loro confronti (anzitutto India, Russia e Cina), (d) impedire che attori statuali, e non, osti-li agli Stati Uniti entrino in possesso o ricorrano ad armi di distruzione di massa.

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Il concetto di paesi al crocevia strategico è notevolmente interessante poiché va ad occupare il vuoto lascia-to dalla scomparsa di quelle che nella precedente Qdr erano indicate come aree di interesse strategico prio-ritario (Europa, Asia nord-orientale, Asia sud-orientale e Medio Oriente). Di esse sopravvive solamente,com’è ovvio, il Medio Oriente – da intendersi nell’ormai prevalente accezione di “Grande Medio Oriente” –ed accanto ad esso assurgono al rango di variabile chiave nell’equazione di sicurezza americana le turbolenteregioni centro-asiatica e latinoamericana.Un ultimo elemento che vale la pena di evidenziare concerne la rilevanza accordata dalla Qdr 2006 ad alleatie partner internazionali. Nella sezione dedicata alle lezioni apprese, con riferimento al versante operativo,nel corso delle campagne militari in Iraq e Afghanistan, il primo posto spetta alla vitale esigenza di accre-scere le capacità di azione congiunta con alleati e partner. Si segnala anzitutto la necessità di perfezionare glistrumenti di interazione operativa, ma l’accento viene posto sull’esigenza di passare da una conduzione di-retta delle operazioni ad un approccio indiretto che metta alleati e partner nelle condizioni di provvedere inprima persona alle operazioni che pongano in discussione la loro stessa sicurezza. Il dipartimento della Di-fesa pare intravedere le insidie di una sovra-estensione delle risorse militari americane e torna a conferirerilevanza al ruolo degli alleati, chiamandoli a condividere, almeno parzialmente, i rischi e le responsabilitàdel mantenimento dell’ordine internazionale.

All’inizio del nuovo secolo la Global Posture americana continua ad essere in larga misura plasmata a par-tire dalle minacce e dagli imperativi strategici della guerra fredda. In maniera del tutto anacronistica lapresenza americana permane concentrata in Germania, Corea del Sud e Giappone e strutturata attornoa basi militari di grandi dimensioni – corredate da sofisticate infrastrutture in grado di ospitare migliaiadi soldati e di accogliere le loro famiglie in un’ottica di presenza permanente. L’odierna Global Posture èpertanto completamente inadeguata a far fronte al complesso spettro di minacce alla sicurezza e agli in-teressi degli Stati Uniti che assumono concretezza proprio laddove la presenza americana palesa le piùevidenti lacune, vale a dire presso le regioni che compongono o che si affacciano sul cosiddetto arco diinstabilità.Il processo di ristrutturazione della Global Posture degli Stati Uniti passa attraverso la revisione della loca-lizzazione, delle dimensioni, della tipologia, delle risorse e delle capacità delle forze armate americane di-spiegate oltre confine1.Un tema centrale resta quello dell’elevato grado di dipendenza strategica del dispositivo globale americanodalle basi e delle postazioni oltremare. Ne testimoniano due delle operazioni militari compiute dagli StatiUniti nel corso dell’ultimo decennio: l’azione militare contro la Serbia e quella contro l’Afghanistan. Nel cor-so della prima si fece ricorso a venti basi aeree; nella seconda il dispiegamento delle forze e la conduzionedelle operazioni richiese più di 80 accordi di sorvolo, di rifornimento e di altra natura con altrettanti paesi.Tuttavia, una Global Posture aggiornata al corrente ambiente strategico non si limiterebbe a consentire un’ef-ficace proiezione di potenza, ma assolverebbe anche alla fondamentale funzione di strumento – tangibile maallo stesso tempo dotato di un elevato contenuto simbolico – per la garanzia di sicurezza degli alleati, per ladissuasione di potenziali sfidanti e per la neutralizzazione delle aggressioni o delle azioni contrarie agli in-teressi degli Stati Uniti.Il nuovo processo di riposizionamento delle forze armate americane oltre confine – la Global Posture Review– prese inizio, in seno al dipartimento della Difesa, durante gli anni della prima amministrazione di Geor-ge W. Bush e compì un decisivo salto qualitativo nell’agosto del 2004, quando lo stesso presidente, nel cor-so dell’assai noto discorso pronunciato di fronte ai veterani, annunciò le linee direttive di un ampio pianoper il ridispiegamento delle forze armate americane che prevedeva una marcata contrazione delle truppe di-slocate oltre confine e il rientro di 60-70.000 unità dall’Europa e dall’Asia.A ben vedere, il riposizionamento aveva già preso corpo durante la prima metà degli anni novanta allorchégli Stati Uniti chiusero o consegnarono ai governi dei paesi ospitanti circa il 60% delle loro istallazioni mi-litari e rimpatriarono o ridislocarono oltre 300.000 soldati. Più di recente, per effetto delle ben note contin-genze internazionali, alcune migliaia di unità delle forze armate americane di stanza in Germania e in Co-rea del Sud sono state trasferite in Iraq, dove almeno una parte di esse rimarrà anche dopo la conclusionedelle operazioni militari in corso.La Global Posture Review perverrà, nel quadro di un graduale processo destinato a durare non meno di undecennio, a una riduzione di circa il 35% del numero dei siti – basi, installazioni e postazioni militari – che

1 Il documento fondamentale per il riposizionamento delle forze e delle strutture militari oltre confine è la Integrated Global Presenceand Basing Strategy (Igpbs), prodotta dal dipartimento della Difesa nel 2004 e parzialmente resa pubblica nel settembre dello stessoanno con il rapporto Pentagono al Congresso: Strengthening U.S. Global Posture, <http://www.defensecommunities.org/Resource-Center/Global_Posture.pdf>.

La revisione della Global Posture americana

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gli Stati Uniti mantengono oltre confine. L’obiettivo dichiarato nel 2004 era quello di preservare il control-lo di non oltre 550 siti a fronte degli 850 allora posseduti.I dati dell’ultimo Base Structure Report pubblicato dal dipartimento della Difesa mostrano i primi segnali diprogresso in tale direzione anche se la Global Posture americana non si è ancora liberata dalla gravosa ere-dità della guerra fredda, se è vero che a fronte di 770 siti militari tuttora attivi oltre confine (pari al 21% deltotale dei siti militari americani) ben 519 sono collocati in tre paesi: naturalmente, Germania (302), Giap-pone (111) e Corea del Sud (106).I due binari lungo i quali procede la Global Posture Review sono il riposizionamento delle strutture militaridegli Stati Uniti e la trasformazione delle medesime, o per meglio dire la loro differenziazione dal punto divista delle dimensioni, delle capacità e delle finalità operative.Il riposizionamento coinvolge proprio quelle che furono le due scacchiere fondamentali per la competizio-ne strategica che ebbe corso durante i decenni della guerra fredda: Europa e Asia orientale.In Europa, al termine del processo, verranno chiusi circa 200 siti mentre grossomodo 40.000 degli oltre105.000 uomini ad oggi presenti saranno ridislocati altrove o rimpatriati. Alcune delle forze che rimarran-no nel vecchio continente verranno impiegate in una logica di rotazione temporanea in Europa orientale(Bulgaria, Romania e Polonia) e in Asia Centrale. Nuove strutture militari saranno costituite lungo il ver-sante sud-orientale del vecchio continente per consentire la proiezione di potenza verso le turbolente areedel grande Medio Oriente, ma anche, in prospettiva, verso l’Africa. I primi passi compiuti in tale direzionesi sono registrati con la stipulazione di specifici accordi con Romania (dicembre 2005) e Bulgaria (aprile2006) per l’utilizzazione da parte delle forze armate americane delle infrastrutture militari dei due paesi –la base aerea Mihail Kogalniceanu, il campo di addestramento di Babadag e il porto militare di Mangalia sulMar Nero per il primo; le infrastrutture aeree di Sarafovo e Graf Ignatievo per il secondo. Anche laddove gliStati Uniti porranno in essere basi concepite per una presenza costante e duratura delle proprie truppe, es-se non disporranno delle infrastrutture che contraddistinguono le basi di più ampie dimensioni dell’Euro-pa occidentale: esempi in tal senso sono forniti da Camp Bondsteel in Kosovo, da Eagle Base in Bosnia-Er-zegovina e dal campo aereo di Manas in Kirghizistan.Le forze e le basi degli Stati Uniti in Europa assumeranno un ruolo che è stato definito “post-moderno” eche include il sostegno a operazioni multinazionali di stabilizzazione – come quella in corso nei Balcani – eil contributo alla trasformazione delle forze militari alleate mediante il rafforzamento delle capacità opera-tive della Nato e della Ue tanto all’interno dell’Europa quanto al di fuori della stessa.Per quanto concerne l’Asia orientale è prevista una ristrutturazione delle presenza americana in Corea delSud che si concretizza in un una contrazione delle truppe per un ammontare di circa 12.500 unità (a fron-te di un totale di 32.700) e nello spostamento di due basi principali dall’area di Seoul a siti localizzati nelleregioni meridionali del paese. Con riferimento al Giappone si prevede la spostamento di 8.000 dei 15.000uomini attualmente sull’isola di Okinawa verso l’isola di Guam. Il dipartimento della Difesa sta inoltre ap-prontando piani per la collocazione di basi per l’addestramento o per il dispiegamento avanzato nelle Fi-lippine, in Malaysia e a Singapore.La trasformazione assume una funzione complementare rispetto al riposizionamento. La natura delle basioltremare sarà fatta oggetto di mutamenti sostanziali che, stando alla tripartizione introdotta dal documentoStrenghtening U.S. Global Posture del dipartimento della Difesa, culminerà nella progressiva introduzione sularga scala, accanto alle tradizionali Main Operating Bases (Mob), di strutture più agili e flessibili come iForward Operating Sites (Fos) e le Cooperative Security Locations (Csl).Le Mob sono basi tradizionali, di grandi dimensioni, con forze di combattimento stazionate in maniera per-manente, dotate di strutture di comando e controllo e di infrastrutture di supporto per le famiglie dei mili-tari oltre che di strumenti di protezione rafforzati. Esempi di questo genere sono la base aerea di Ramsteinin Germania, Camp Humphreys in Corea del Sud e la base aerea di Kadena a Okinawa (Giappone).I Fos – detti anche warm facilities – sono postazioni estendibili con una presenza militare americana più limita-ta e, laddove possibile, con equipaggiamenti pre-posizionati. Possono ospitare forze in rotazione e fungere da ba-se per l’addestramento bilaterale o regionale. Esempi di Fos sono la struttura portuale di Sembawang a Singa-pore, le basi aeree di Thumrait e di Masirah Island in Oman e la base aerea di Soto Cano in Honduras.Le Csl sono postazioni appartenenti al paese ospitante che garantiscono, in virtù di accordi ad hoc, l’acces-so alle forze armate degli Stati Uniti. In esse la presenza americana è di natura non permanente o al limitemolto modesta. Sono mantenute in funzione attraverso un servizio periodico, mediante la concessione del-le strutture a contractors, e con il sostegno della nazione ospitante. Rispondono alle necessità strategiche diaccesso imposte dalla contingenza e rappresentano un punto focale per attività di cooperazione in materiadi sicurezza. Le strutture aeroportuali di Dakar costituiscono un esempio di Csl in ragione di un accordo sti-pulato tra Stati Uniti e Senegal che consente all’aeronautica americana di usufruirne per l’atterraggio, la lo-

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gistica e il rifornimento. Le strutture in questione sono state utilizzate nel 2003 come base di addestramen-to durante l’operazione di peace support in Liberia. L’aeroporto di Entebbe in Uganda rappresenta un ulte-riore esempio di Csl.Una quarta tipologia di basi – per ora si tratta in verità di poco più che di un concetto allo stato embriona-le – è rappresentata dalle “basi marittime”. Il concetto di sea basing promette di dotare gli Stati Uniti di unastraordinaria mobilità e di una flessibilità tattica senza precedenti. Le basi marittime fornirebbero la possi-bilità di condurre forze militari o di trasportare strumenti e risorse di supporto logistico in una determina-ta area senza la necessità di ottenere in via preliminare alcuna autorizzazione diplomatica. Tale tipologia dibasi consentirebbe di aggirare le strategie “anti-accesso” praticate da alcuni paesi ai danni degli Stati Unitial fine di contrastarne la libertà di operazione. Il caso del rifiuto della Turchia di consentire il passaggio del-le forze americane sul proprio territorio nella fase preparatoria dell’invasione dell’Iraq costituisce un esem-pio significativo di come l’opposizione di un paese a concedere il diritto di transito possa compromettere ipiani militari di Washington.Il disegno sotteso a tale schema tripartito (quadripartito se si includono le basi marittime) sarebbe quello di co-stituire un impianto strategico fondato su quelle che il generale James Jones, ricorrendo ad una metafora florea-le, ha definito “lily pads” (ninfee), ossia piccole (e in taluni casi espandibili) postazioni da utilizzare saltando dal-l’una all’altra nel corso delle crisi in cui gli Stati Uniti siano chiamati ad intervenire. Questi siti dovrebbero esse-re concepiti all’interno di un sistema a raggiera che li pone in connessione alle basi ad elevata dotazione infra-strutturale, quali ad esempio Ramstein in Germania e Misawa o Yokosuka in Giappone.Restano da segnalare gli ostacoli che minacciano di complicare o quantomeno ritardare il processo di revi-sione della Global Posture americana.La prima questione attiene all’ostilità e al risentimento che l’installazione di basi militari americane talvol-ta suscita nelle opinioni pubbliche del paese ospitante. Nella dislocazione delle basi gli Stati Uniti dovrannoprestare estrema attenzione alla maniera in cui esse sono percepite. Un sentimento positivo nei confronti del-le installazioni e delle forze americane costituisce un elemento fondamentale per valutare la capacità di uti-lizzarle appieno nelle diverse contingenze. A tale proposito quelle che assumono un valore di gran lungamaggiore sono quelle percepite dal paese ospitante come un fattore di rafforzamento della propria sicurez-za ancor prima che della sicurezza degli Stati Uniti. Generalmente quando c’è accordo sugli obiettivi e sugliinteressi di sicurezza, il paese ospitante è disposto anche a farsi carico di una parte significativa degli onerirelativi alla base per un periodo prolungato.La seconda questione concerne la legittimità, l’effettiva capacità di esercizio della propria autorità e la sta-bilità del governo del paese ospitante. Dato che i più probabili teatri delle future operazioni militari ameri-cane sono situati all’interno dell’arco di instabilità, basi all’interno o in prossimità di quest’area sarebberodi assoluto valore. D’altro canto, tuttavia, esse sono soggette al rischio che i paesi ospitanti divengano partedel medesimo problema che induce gli Stati Uniti ad intervenire, vanificando ogni sforzo per giungere adottenere una postazione strategica chiave.La terza questione riguarda i costi del processo di ridispiegamento e si esplica in due direzioni. In primo luogo,in ragione di quanto detto poc’anzi a proposito della possibile localizzazione delle postazioni militari, gli StatiUniti assai difficilmente potranno fare affidamento sul contributo finanziario dei paesi ospitanti. In secondo luo-go a preoccupare sono i costi complessivi della ristrutturazione della Global Posture. Secondo le stime del dipar-timento della Difesa, l’implementazione della Integrated Global Presence and Basing Strategy (Igpbs) costerà trai 9 e i 12 miliardi di dollari (contemplando gli oneri per lo smantellamento, i costi di trasporto delle persone, de-gli equipaggiamenti e dei materiali, l’installazione delle nuove postazioni per accogliere le truppe ri-dislocate, lostabilimento di Fos e Csl) a fronte di soli 4 miliardi messi a bilancio per il quinquennio fiscale 2006-2011.Va inol-tre segnalato che un’analisi indipendente commissionata dalla Overseas Basing Commission considera sottosti-mate le cifre preventivate ed eleva l’ammontare complessivo dell’Igpbs a 20 miliardi di dollari.

Lo scorso 2 marzo il presidente degli Stati Uniti George W. Bush e il primo ministro indiano ManmohanSingh, nel corso di una conferenza stampa congiunta tenutasi a New Delhi, hanno annunciato il raggiungi-mento di un accordo tra i due paesi sulla cooperazione in materia di nucleare civile.L’intesa, da un lato, assume una portata storica nel quadro delle relazioni tra Stati Uniti ed India, nellamisura in cui va ad invertire una condotta che perdurava da oltre trent’anni – e più precisamente dal1974 quando l’India compì il primo test atomico nel deserto del Rajastan – e, dall’altro, promette di eser-

L’accordo sul nucleare civile tra Stati Uniti e India

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citare ripercussioni notevoli sul sistema internazionale di contrasto alla proliferazione delle armi di di-struzione di massa.L’accordo rimuove la pregiudiziale atomica nei confronti di New Delhi, impegna le parti ad una stretta coo-perazione sul terreno del nucleare civile e contempla la concessione all’India – che come noto non figura trai sottoscrittori del Trattato di non proliferazione nucleare (Npt, nell’acronimo inglese) – della facoltà di ac-quistare dagli Stati Uniti materiale fissile da utilizzare esclusivamente per finalità civili.L’intesa prevede, inoltre, che l’India ponga in essere una netta scissione tra la produzione di energia nuclea-re destinata a funzioni civili e militari. A fronte di 22 reattori nucleari (tra quelli esistenti e quelli in via diultimazione), 14 saranno riservati alla produzione di energia a scopi meramente civili e saranno sottopostial regime dei controlli e delle ispezioni della Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea, nell’acroni-mo inglese). Ciò implica che una quota pari a quasi il 30% del potenziale nucleare indiano avrà una desi-gnazione prettamente militare nella completa assenza di qualsiasi possibilità di controllo da parte degli or-ganismi internazionali a ciò deputati.A temperare l’ampiezza di tali concessioni l’India si impegna a:

• sottoporre al sistema dei controlli della Iaea tutte le centrali nucleari e i reattori autofertilizzanti aduso civile di futura costruzione;

• negoziare e pervenire alla stipulazione di un Additional Procol con la Iaea, che disciplini i confini deipoteri di ispezione dell’Agenzia;

• implementare il Weapons of Mass Destruction Act approvato nel maggio del 2005, corredandolo di unrobusto sistema di controllo sulle esportazioni;

• astenersi dal trasferire tecnologie per l’arricchimento e il ritrattamento dell’uranio a paesi che non nesiano già in possesso;

• operare al fianco degli Stati Uniti al fine di contribuire all’entrata in vigore del Trattato sul bando del-la produzione di materiale fissile per scopi bellici (Fissile Material Cutoff Treaty);

• continuare la moratoria unilaterale sui test nucleari – pur senza sottoscrivere, si badi, il Trattato perla proibizione completa degli esperimenti nucleari (Comprehensive Test Ban Treaty);

• aderire al Regime per il controllo della tecnologia missilistica (Missile Technology Control Regime) ealle linee guida del Gruppo dei fornitori nucleari (Nuclear Suppliers Group).

Tale accordo ha dato adito a molteplici critiche avviando un intenso dibattito tra ferventi sostenitori e aspricontestatori del progetto.I propugnatori dell’accordo ne enfatizzano la centralità nel quadro dell’inaugurazione di un nuovo corso neirapporti tra Washington e New Delhi. Il superamento delle controversie concernenti la questione dello sta-tus nucleare dell’India rappresenterebbe, in quest’ottica, la conditio sine qua non per la trasformazione del-le relazioni indo-americane in un’autentica partnership strategica. L’accordo costituirebbe, quindi, la primatappa di un percorso destinato a culminare con un’alleanza di più ampio raggio. E a testimonianza di ciò vamenzionata l’intesa di natura economica raggiunta a latere dell’accordo sul nucleare, che auspica il conso-lidamento delle relazioni tra i due paesi con l’obiettivo di pervenire, nell’arco di un triennio, al raddoppiodel volume degli scambi commerciali reciproci.Tale mutamento di rotta da parte dell’amministrazione americana sarebbe in altri termini da ascrivere a unamatrice geopolitica e più precisamente alla necessità di accrescere i legami con un paese che reca in sé unaserie di requisiti nient’affatto trascurabili: una potenza economica e demografica che procede celermente nelsuo percorso di ascesa al rango di attore globale, la più popolosa democrazia al mondo e il secondo paese(alle spalle dell’Indonesia) per presenza di cittadini di fede islamica (oltre 150 milioni), e da ultimo, ma cer-tamente non per importanza, il naturale contrappeso regionale all’espansione della Cina.Nel paniere delle argomentazioni a sostegno dell’accordo non mancano quelle di natura economica. Unaumento della capacità di generare energia atomica a fini civili consentirebbe all’India di soddisfareun’ampia quota della crescente domanda energetica domestica e determinerebbe una parziale emanci-pazione dalla dipendenza dai flussi internazionali. Tale processo non mancherebbe di attivare meccani-smi virtuosi per gli Stati Uniti dal momento che la domanda energetica indiana cesserebbe di rappre-sentare una variabile rilevante della determinazione dei prezzi degli idrocarburi sui mercati internazio-nali e consentirebbe di disinnescare le insidie discendenti da un rafforzamento delle relazioni tra l’Indiae quello che pare configurarsi come il più accreditato candidato al ruolo di principale fornitore di risorseenergetiche al subcontinente: l’Iran.Ulteriori incentivi economici scaturiscono, da un lato, dalla possibilità di smaltire, cedendolo all’India, par-te del surplus di materiale fissile derivante dallo smantellamento di alcune componenti dell’arsenale nucleare

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documentazione

degli Stati Uniti e, dall’altro, dalle opportunità di investimento per le aziende americane che operano nei di-versi segmenti del settore del nucleare civile.L’amministrazione americana e i sostenitori dell’accordo sottolineano, infine, come lo stesso produca un de-cisivo rafforzamento del sistema globale di contrasto alla proliferazione nucleare. Per la prima volta – si se-gnala a Washington – l’India, almeno in senso lato, viene collocata all’interno delle logiche e dei meccani-smi di non proliferazione, uscendo dall’isolamento trentennale in cui l’aveva confinata l’ambiguo statuto distate with nuclear weapons, but not a nuclear weapon state, e assume impegni concreti con riferimento allapropria dimensione nucleare.Ma, proprio in merito a tale questione, sorgono i principali interrogativi e le più convincenti critiche all’ac-cordo tra India e Stati Uniti. In via preliminare viene osservato che gran parte degli impegni assunti da NewDelhi – quali ad esempio quello a proseguire la moratoria unilaterale sui test nucleari, quello a rafforzare ilsistema dei controlli sulle esportazioni e quello a contribuire all’entrata in vigore del Trattato sul bando del-la produzione di materiale fissile per scopi bellici – costituiscono una semplice conferma rispetto a posizio-ni che precedono la firma dell’accordo e che pertanto non costituiscono una svolta significativa nell’ap-proccio indiano alla non proliferazione.Ma ciò coglie solo la superficie di un problema più ampio e più profondo. Coloro che contestano l’accordosegnalano, infatti, il pericolo di una compromissione decisiva della strategia di non proliferazione a causadella realizzazione di due passaggi fondamentali: la violazione del Npt e la creazione di un precedente ne-gativo.L’accordo tra India e Stati Uniti contravviene a quanto disposto dall’articolo 1 del Npt che proibisce agli sta-ti contraenti di fornire qualsiasi tipo di assistenza (diretta e indiretta) ai progetti nucleari dei paesi non do-tati di tale genere di armi. Sebbene l’accordo indo-americano non contempli altro che la fornitura di mate-riale fissile da impiegare esclusivamente per scopi civili, esso non mancherà di esercitare ripercussioni – po-sitive, se osservate dal punto di vista indiano – sui programmi nucleari di New Delhi in campo militare, poi-ché consentirà di indirizzarvi gran parte delle limitate dotazioni di uranio di cui dispone attualmente l’In-dia, distraendole dal settore civile.Ma non basta, l’accordo dà il via libera ad un’eccezione al regime di non proliferazione fino ad ora vigentee sancisce un precedente al quale guardano con interesse molti paesi. Il Pakistan, ad esempio, ha già chiestoagli Stati Uniti – ricevendo risposta negativa – di procedere alla negoziazione di un analogo accordo.Su un altro versante si osserva come, già oggi, la Cina, uno dei maggiori esportatori di materiale nucleare –che si sospetta fornisca tecnologie nucleari al Pakistan – potrebbe cercare di pervenire ad un accordo conIslamabad sul modello di quello indo-americano e, domani, potrebbe essere il turno della Russia con l’Iran.La tempistica dell’intesa è assai sfavorevole poiché giunge nel pieno della montante crisi con Tehran e fini-sce per indebolire la già complessa strategia di non proliferazione posta in essere dagli Stati Uniti. L’inter-rogativo ricorrente riguarda l’autorità e la legittimità con cui gli Stati Uniti si impegnano a contrastare, inseno al Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite, il progetto iraniano di arricchimento dell’uranio per fi-nalità civili, mentre consentono all’India di consolidare i progetti di sviluppo della propria potenza milita-re nucleare. Senza dimenticare che l’Iran, a differenza dell’India, figura tra i sottoscrittori del Npt.L’amministrazione americana fa fronte a queste obiezioni ponendo l’accento sul carattere democratico del-l’India, enfatizzando come esso la differenzi in maniera sostanziale rispetto agli altri attori menzionati. L’ec-cezione deriva, si potrebbe dire, dall’eccezionalità indiana. Tale approccio, tuttavia, nasconde non poche in-sidie poiché se per i sostenitori dell’accordo l’attributo democratico dell’India costituisce una garanzia perla sua condotta internazionale, per i critici si configura come un vero e proprio elemento di discriminazio-ne che ha tutte le potenzialità per aprire una falla nella strategia di non proliferazione finora patrocinata da-gli Stati Uniti.Perché l’accordo diventi operativo il Congresso americano dovrà emendare l’Atomic Energy Act del 1954che vieta la vendita di materiale e tecnologie nucleari ai paesi che non aderiscono agli accordi interna-zionali di contrasto alla proliferazione. Il dibattito è aperto e si annuncia davvero complesso: se, per unverso, dare il via libera all’accordo significa passare attraverso la modifica della legislazione interna, de-rogare al Npt e, secondo l’opinione di alcuni, indebolire la strategia di non proliferazione nucleare degliStati Uniti, per l’altro, respingerlo significa rinunciare alla partnership strategica con una potenza globa-le in fieri, nonché con il naturale argine e contrappeso regionale all’ampliamento della sfera di irraggia-mento della potenza cinese.

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Editorialedi Boris Biancheri

dossier Democrazia e legittimità

Che cosa c’è di democratico nella pace democratica?Daniele Archibugi e Mathias Koenig-Archibugi

Una democrazia senza eguaglianza.I paradossi di un nuovo ordine internazionale democraticoAlessandro Colombo

Diplomatia: il punto di vistaMassimo Marotti

È possibile una governance democratica del sistema globale?Alberto Martinelli

Democratic Peace and Non-ProliferationGeorge Perkovich

Ordine internazionale e democrazia.L’allargamento dell’Unione Europea e della Nato dopo il 1989Marco Clementi

osservatorio internazionale

Realpolitik e valori democratici nell’Alleanza Atlantica durante la guerra freddaMassimo De Leonardis

Dottrina Rumsfeld 2006: la fiera delle ambiguitàCorrado Stefanachi

documentazionea cura di Antonio Mascia

Quadrennial Defense Review Report 2006

La revisione della Global Posture americana

L’accordo sul nucleare civile tra Stati Uniti e India

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Quaderni di Relazioni InternazionaliComitato di direzioneAlessandro Colombo, Franco Zallio

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Democrazia e legittimità

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