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INDICE-SOMMARIO ABBREVIAZIONI..............................................5 PREMESSA..................................................9 CAPITOLO I LA RESPONSABILITÀ PENALE NEGLI ORGANI COLLEGIALI 1. La responsabilità penale dei componenti di organi collegiali.............................................13 2. Il principio di personalità dell’illecito di cui all’art. 27, comma 1, della Costituzione...............16 3. (Segue): Il concetto di “terzo” nel diritto penale.. 27 4. “Reato collegiale” e concorso di persone nel reato.. 32 5. Organi collegiali e attività giornalistica: tutela costituzionale e dimensione sovranazionale.............34 6. L’attività giornalistica come attività di impresa.. .41 7. Impresa giornalistica e profili di responsabilità alla luce dell’attuale panorama normativo...................52 CAPITOLO II LA TRADIZIONALE RESPONSABILITÀ PENALE NEL DIRITTO PENALE DELLA STAMPA 1. La responsabilità penale del direttore del periodico ex art. 57 c.p............................................59 2. (Segue) Il criterio di imputazione soggettiva dell’evento............................................63 3. L’esigenza di predisporre un meccanismo di controllo.74 4. (Segue) Il ricorso alla delega di funzioni..........76 1

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INDICE-SOMMARIO

ABBREVIAZIONI......................................................................5

PREMESSA............................................................................9

CAPITOLO ILA RESPONSABILITÀ PENALE NEGLI ORGANI COLLEGIALI

1. La responsabilità penale dei componenti di organi colle-giali.................................................................................13

2. Il principio di personalità dell’illecito di cui all’art. 27, comma 1, della Costituzione.............................................163. (Segue): Il concetto di “terzo” nel diritto penale............274. “Reato collegiale” e concorso di persone nel reato........32

5. Organi collegiali e attività giornalistica: tutela costi-tuzionale e dimensione sovranazionale..............................346. L’attività giornalistica come attività di impresa..............41

7. Impresa giornalistica e profili di responsabilità alla luce dell’attuale panorama normativo......................................52

CAPITOLO IILA TRADIZIONALE RESPONSABILITÀ PENALE NEL DIRITTO

PENALE DELLA STAMPA

1. La responsabilità penale del direttore del periodico ex art. 57 c.p..............................................................................592. (Segue) Il criterio di imputazione soggettiva dell’evento.

.......................................................................................633. L’esigenza di predisporre un meccanismo di controllo....744. (Segue) Il ricorso alla delega di funzioni........................765. L’ “automatismo” della responsabilità del direttore.......82

6. Direttore di giornale e mezzi di diffusione dell’infor-mazione diversi dalla carta stampata: responsabilità penali a confronto.........................................................................92

7. Il principio di personalità dell’illecito e il trattamento sanzionatorio riservato al direttore dall’art. 57 c.p...........102

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8. Le ulteriori ipotesi di responsabilità del direttore: a) il di-rettore autore dello scritto; b) il concorso di persone nel

reato..............................................................................1069. La responsabilità penale del direttore di giornale negli or-dinamenti stranieri.........................................................10910. (Segue): a) il sistema francese..................................10911. (Segue): b) l’ordinamento spagnolo...........................11312. (Segue): c) l’ordinamento tedesco.............................11513. La fattispecie di omesso impedimento dei reati commessi col mezzo della stampa nei progetti di riforma del codice pe-nale italiano...................................................................117

CAPITOLO IIILA RESPONSABILITÀ DELL’IMPRESA GIORNALISTICA EX D.LGS. 8 GIUGNO

2001, N. 231?

1. Il D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 e il catalogo dei reati-pre-supposto........................................................................123

2. L’opportunità di inserire i reati commessi dal giornalista fra i reati-presupposto della responsabilità ex D.lgs. 8

giugno 2001, n. 231........................................................1333. Le soluzioni in ambito comparatistico: A) i sistemi di civil

law................................................................................1494. (Segue): a) il sistema francese....................................1505. (Segue): b) l’ordinamento spagnolo.............................1536. (Segue): c) il sistema tedesco......................................1577. B) I sistemi di common law: a) l’ordinamento inglese.. .1608. (Segue): b) il sistema statunitense..............................163

9. L’interesse o il vantaggio dell’impresa giornalistica derivante dal reato del giornalista...................................165

10. I soggetti in posizione apicale e sottoposti all’altrui di-rezione all’interno dell’impresa giornalistica....................17211. I modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire i reati-presupposto..........................................17812. L’organismo di vigilanza all’interno dell’impresa giornal-istica..............................................................................186

13. Applicabilità all’impresa giornalistica del sistema sanzionatorio delineato dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.. 188

14. (Segue) La pubblicazione della sentenza di condanna come specifica sanzione diretta all’impresa giornalistica..195

CAPITOLO IVDALLA RESPONSABILITÀ DEL DIRETTORE

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ALLA RESPONSABILITÀ DELL’IMPRESA GIORNALISTICA: UN’ALTERNATIVA ALLA SANZIONE PENALE

1. La possibilità di eliminare dal panorama normativo italiano l’art. 57 c.p....................................................................1992. Il necessario bilanciamento tra la libertà di espressione e

l’esigenza di prevenzione dei reati..................................2013. Dal “danno criminale” al “danno civile”: la costituzione di

parte civile nei confronti dell’impresa giornalistica sotto-posta a procedimento ai sensi del D.lgs. 8 giugno 2001, n.

231................................................................................2074. Tutela dell’onore: un’alternativa alla sanzione penale.. 211

BIBLIOGRAFIA.................................................................213

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ABBREVIAZIONI

AA.VV. = Autori vari.Annali di dir. e proc. pen. = Annali di diritto e procedura

penale.app. = appendice.App. = Corte di appello.Arch. pen. = Archivio penale.art. = articolo.artt. = articoli.Ass. = Corte di assise.Ass. app. = Corte di assise di appello.cap. = capitolo.Cass. civ. = Cassazione civile.Cass. pen. = Cassazione penale.Cass. S.U. = Cassazione Sezioni Unite.c.c. = codice civile.C.E.D. Cass. = Centro Elettronico di Documentazione della

Suprema Corte di Cassazione.cfr. = confronta.cit. = citato.Corte cost. = Corte costituzionale.Corte eur. dir. uomo = Corte europea dei diritti dell’uomoCost. = Costituzione.c.p.c. = codice di procedura civile.c.p.m.g. = codice penale militare di guerra.c.p.m.p. = codice penale militare di pace.c.p.p. = codice di procedura penale.Crim.L.R. = Criminal Law Review.d.d.l. = disegno di legge.Digesto pen. = Digesto delle discipline penalistiche.Dir. & Giust. = Diritto e giustizia.Dir. pen. e processo = Diritto penale e processo.

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D.l. = decreto legge.D.lgs. = decreto legislativo.d.P.R. = decreto del Presidente della Repubblica.Enc. dir. = Enciclopedia del diritto.Enc. for. = Enciclopedia forense.Enc. giur. = Enciclopedia giuridica Treccani.Foro it. = Il Foro italiano.G.I.P. = Giudice per le indagini preliminari.G.U.P. = Giudice dell’udienza preliminare.Giur. cost. = Giurisprudenza costituzionale.Giur. it. = Giurisprudenza italiana.Giur. merito = Giurisprudenza di merito.Giust. pen. = La Giustizia penale.Guida al dir. = Guida al diritto.Indice pen. = L’Indice penale.JW = Juristische Wochenschrift.l. = legge.Leg. pen. = La legislazione penale.n. = numero.NJW = Neue Juristische WochenschriftNoviss. dig. it. = Novissimo digesto italiano.Nuovo dig. = Nuovo digesto italiano.op. cit. = opera citata.op. ult. cit. = ultima opera citata.parag. = paragrafo.p.m. = pubblico ministero.pt. g. = parte generale.pt. s. = parte speciale.r.d.l. = regio decreto legge. Riv. dir. proc. = Rivista di diritto processuale.Riv. it. dir. e proc. pen. = Rivista italiana di diritto e

procedura penale.Riv. it. dir. pen. = Rivista italiana di diritto penale.Riv. it. med. leg. = Rivista italiana di medicina legale.Riv. pen. = Rivista penale.Riv. trim. dir. pen. econ. = Rivista trimestrale di diritto

penale dell’economia.s. = seguente.

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Sc. pos. = La Scuola positiva.Sez. = sezione.ss. = seguenti.SZtrR = Trib. = Tribunale.t.u. = testo unico.v. = vedi.vol. = volume.ZStW = Zeitschrift für die gesamte

Strafrechtswissenschaft.

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PREMESSA

Affrontare, in chiave comparatistica, il tema della responsabilità penale negli organi collegiali, con particolare riguardo all’Europa continentale ed agli ordinamenti di common law, significa approfondire un argomento centrale e complesso dell’attuale dibattito giuridico. Infatti, il fenomeno della collegialità - sia nel settore pubblico sia in quello privato - risponde alla finalità di risolvere le molteplici problematiche derivanti dall’articolazione delle moderne organizzazioni economico-sociali e si assiste ad un sempre più frequente ricorso, da parte delle pubbliche amministrazioni e dei privati, a moduli organizzativi complessi, tendenti ad una capillare distribuzione di competenze e di poteri in capo a organi collegiali.

Nell’ambito di tali organizzazioni complesse la struttura pluripersonale dell’organo collegiale assume un rilievo meramente interno, mentre attraverso l’adozione di una deliberazione le volontà particolari delle singole persone fisiche - che appaiono all’esterno come soggetto unico - si fondono in un’unica volontà: quella dell’ente di appartenenza. Il tema della responsabilità penale personale dei componenti degli organi collegiali che operano in seno a società o alla pubblica amministrazione manifestando la volontà dell’ente di appartenenza ed, in particolare, l’imputabilità sul piano psicologico di reati ad ogni membro dell’organo amministrativo della società (magari assente o dissenziente rispetto all’opinione di

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maggioranza che si estrinseca nella delibera formale), appare una questione particolarmente problematica.

Nel settore pubblico, ad esempio, spesso i singoli componenti degli organi di governo locale – a causa della mancanza di una specifica competenza professionale – non sono in grado di valutare e ponderare nella loro totalità tutte le implicazioni delle delibere che formalmente concorrono ad approvare e che, in definitiva, finiscono per costituire espressione anche della loro volontà. Innumerevoli sono stati i casi di amministratori pubblici elettivi sottoposti a procedimenti penali per delibere solo formalmente a loro imputabili. O ancora, nell’ambito delle amministrazioni delle società l’effettiva collegialità sovente cede il posto ad una prassi in cui le decisioni sono assunte da pochi membri del consiglio e solo formalmente condivise dagli altri amministratori che talvolta accettano le cariche per puro prestigio. Non poche difficoltà si pongono, allora, nell’imputazione dell’illecito penale in presenza di un fatto di reato scaturito dall’attività di un organo pluripersonale che rischia di “estendersi” all’intero organo collegiale.

Tale tema, però, è intimamente connesso anche alla problematica relativa alla eventuale responsabilità degli enti. Mentre gli ordinamenti di civil law tentano di restare ancorati ai principi che costituiscono il tradizionale sostrato del loro diritto penale e civile, nel mondo anglosassone la responsabilità penale delle persone giuridiche è indiscussa e connotata dalla incisività del sistema sanzionatorio: nei sistemi giuridici anglosassoni la responsabilità penale delle universitas era, ed è, un dato acquisito. La corporate criminal liability rimarca l’impatto lesivo degli interessi individuali e collettivi delle attività criminali delle grandi imprese. Negli ordinamenti di common law si sta assistendo ad una fase di “espansione” della responsabilità penale degli enti – siano essi pubblici o privati – poiché il corporate crime affonda le sue radici sul concetto di

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immedesimazione tra ente ed individuo che per esso agisce (1).

Naturalmente, poiché i profili tratteggiati sono troppo estesi per essere esaustivamente trattati, è necessario effettuare una scelta di approfondimento selettivo. Alla luce di tali considerazioni, la tematica della responsabilità penale negli organi collegiali nell’Europa continentale e negli ordinamenti di common law può essere più proficuamente considerata all’interno dell’attività di impresa e, più segnatamente, nel settore dell’impresa giornalistica. In tale ambito, infatti, si pone, da un lato, il problema della responsabilità “professionale” dei giornalisti e delle redazioni di giornalisti nelle quali questi operano, cioè nell’organo collegiale (comitato di redazione) e dei rapporti di questo con la direzione del giornale; dall’altro, si pone la questione inerente all’eventuale responsabilità degli organi collegiali della struttura societaria proprietaria del giornale (consigli di amministrazione, collegi sindacali). L’attività giornalistica non si esaurisce, infatti, nell’attività professionale esercitata da un singolo professionista, poiché essa si inserisce in un più ampio contesto di natura imprenditoriale: nel momento in cui la libertà di espressione del proprio pensiero diviene frutto dell’attività di informazione, il luogo naturale in cui quest’ultima si svolge coincide quasi sempre con una organizzazione che si identifica nell’impresa editoriale. La manifestazione del pensiero, infatti, oltre che esercizio di una libertà individuale, può costituire anche oggetto di un’attività economica esercitata in forma di impresa. Talvolta, però, gli episodi diffamatori perpetrati attraverso la pubblicazione di articoli giornalistici, possono essere ricondotti a vere e proprie forme di criminalità di impresa. Non è raro, infatti, che la pubblicazione di determinati

1(?) Invece, la possibile configurabilità della responsabilità penale delle persone giuridiche, alla luce della disciplina introdotta dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, è ipotesi difficilmente configurabile nel nostro ordinamento per il principio societas delinquere non potest.

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Premessa

articoli consenta a quotidiani o a periodici a tiratura nazionale di incrementare le vendite: la ripetuta pubblicazione di articoli lesivi dell’onore e della reputazione potrebbe essere il frutto di mirate scelte d’impresa poste in essere nell’interesse e a vantaggio della stessa impresa editoriale o della c.d. linea editoriale del giornale (magari per ragioni di competizione politica o di concorrenza economica). In tale ottica sembra opportuno approfondire, da un lato, la compatibilità dell’art. 57 del codice penale (2) con il principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27, comma 1, Cost. (3); dall’altro, in un’ottica de iure condendo e mantenendo comunque ferma la responsabilità penale dell’autore dell’articolo, l’opportunità di eliminare dal sistema normativo l’art. 57 c.p., tenuto anche conto dell’imprescindibile inserimento dell’attività giornalistica all’interno dell’attività imprenditoriale. Il panorama normativo esistente, infatti, offre uno strumento idoneo a reprimere i fenomeni sopra descritti: il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, sulla responsabilità amministrativa degli enti. Il legislatore, allora, potrebbe valutare l’opportunità di inserire i reati a mezzo stampa fra i reati-presupposto della responsabilità dell’impresa giornalistica. In tal modo - rispetto al mero controllo del direttore richiesto dall’art. 57 del codice penale - l’adozione di modelli di organizzazione e di gestione potrebbe contribuire a superare le perplessità che connotano il fenomeno in esame proprio attraverso la configurabilità di una responsabilità amministrativa della impresa giornalistica.

Proprio per chiarire gli aspetti sopra sinteticamente illustrati è necessaria una indagine in chiave comparatistica, anche alla luce delle recenti tendenze alla armonizzazione in materia penale delle legislazioni dei Paesi appartenenti all’Unione Europea.

2(?) Che prevede la responsabilità del direttore o vicedirettore per omesso controllo sul contenuto della pubblicazione.

3(?) Secondo cui «la responsabilità penale è personale».

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Premessa

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CAPITOLO I

LA RESPONSABILITÀ PENALE NEGLI ORGANI COLLEGIALI

SOMMARIO: 1. La responsabilità penale dei componenti di organi collegiali – 2. Il principio di personalità dell’illecito di cui all’art. 27, comma 1, della Costituzione. – 3. (Segue): Il concetto di “terzo” nel diritto penale. 4 – “Reato collegiale” e concorso di persone nel reato – 5. Organi collegiali e attività giornalistica: tutela costituzionale e dimensione sovranazionale. – 6. L’attività giornalistica come attività di impresa. – 7. Impresa giornalistica e profili di responsabilità alla luce dell’attuale panorama normativo.

1. La responsabilità penale dei componenti di organi collegiali.

L’attuale realtà economico-sociale impone, con sempre maggiore frequenza, il ricorso a strutture organizzative in cui la presenza di organi collegiali assume un’importanza sempre più significativa, stante l’irrinunciabile necessità di procedere ad una sistematica ripartizione di ruoli e poteri finalizzata ad un efficace funzionamento delle strutture, sia pubbliche che private, all’interno delle quali essi operano.

In un’ottica penalistica le problematiche emergenti dall’osservazione di tale fenomeno, e che appaiono degne di approfondimento, sono molteplici e ricavabili dal concreto funzionamento del “sistema collegiale”. Basti pensare, ad esempio, al momento in cui una deliberazione collegiale di un provvedimento amministrativo si inserisce nel decorso causale realizzativo del delitto di abuso di ufficio (1). In tal caso non pochi problemi si pongono a

1(?) Cass. pen. Sez. VI, 1.2.1990, Papale, in C.E.D. Cass., n. 183188 secondo cui «ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 323 c.p., l’abuso può commettersi pure mediante l’apporto del singolo pubblico ufficiale a risoluzioni collegiali, giacché anche la partecipazione ad un atto collegiale è esercizio dell’attività del

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proposito dell’individuazione della responsabilità penale individuale della singola persona fisica che partecipa alla formazione di un atto collegiale: il pericolo più insidioso è che nel procedere all’attribuzione delle responsabilità ci si fermi alle qualifiche formali. Il fenomeno non può essere sottovalutato, soprattutto con riferimento alle realtà societarie, in cui gli organi di gestione e di controllo sono composti da una pluralità di soggetti riuniti in collegio.

La giurisprudenza, sovente, allettata da soluzioni generaliste, finisce col procedere alla «parificazione assurda delle responsabilità individuali nell’ambito di organi collegiali, nell’indifferenza alle dinamiche e alle logiche organizzative reali» (2); ed è, così, giunta a chiamare a rispondere per bancarotta fraudolenta tutti gli amministratori e i sindaci di un istituto di credito sulla base di un omesso esercizio di quei poteri che, secondo i giudici, sarebbero stati idonei a prevenire il perpetrarsi degli atti distrattivi del patrimonio sociale (3). In particolare, secondo la Corte di merito «l’atteggiamento positivamente connivente degli amministratori si pone quale fatto oggettivamente collegato da adeguato nesso causale all’illecita attività dell’amministratore delegato, collocandosi alla serie causale produttiva dell’evento quale momento di rafforzamento della volontà criminosa del suddetto organo sociale» (4). L’accertamento del nesso causale viene, quindi, messo in discussione fino al punto di essere considerato quasi “implicito” nello stesso comportamento omissivo. Né tantomeno (sempre nell’ambito del medesimo caso concreto) è andato esente da responsabilità penale l’amministratore assente alle riunioni di consiglio, a nulla rilevando che si trovasse

pubblico ufficiale».2(?) A. ALESSANDRI, Un esercizio di diritto penale simbolico: la

tutela penale del risparmio, in AA. VV., La legge per la tutela del risparmio. Un confronto tra giuristi ed economisti, a cura di P. Abbadessa e F. Cesarini, Bologna, 2007, 185.

3(?) Trib. Milano, 16.4.1992, in Riv. trim. dir. pen. econ. 1995, 1477, confermata da App. Milano, 10.6.1996, ivi, 1998, 571.

4(?) Trib. Milano, 16.4.1992, cit.

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La responsabilità penale negli organi collegiali

all’oscuro di ciò che si stava deliberando all’interno dell’organo collegiale di appartenenza. Ecco che allora un soggetto appartenente all’organo collegiale, pur non avendo partecipato alla discussione che ha preceduto la deliberazione, viene chiamato a rispondere del reato commesso attraverso l’adozione della delibera stessa (5). E simili rilievi valgono anche per l’amministratore dissenziente che abbia omesso di fare annotare il proprio dissenso nei termini prescritti dalla legge. Nell’ambito dell’organo di gestione, si è inoltre posto il problema circa la possibile rilevanza in sede penale dell’annotazione del dissenso espresso dall’amministratore secondo le modalità indicate dal terzo comma dell’art. 2392 c.c. Sul punto la Suprema Corte ha affermato che l’annotazione ex art. 2392, terzo comma, c.c. farebbe venire meno la responsabilità penale in quanto «gesto di indubbio peso probatorio anche per il versante penale poiché l’amministratore avrebbe attestato l’interruzione del legame concorsuale con gli altri autori del reato» (6) e, pertanto, laddove nell’ipotesi in cui l’amministratore dissenziente osservasse quanto prescritto dalla norma civilistica non potrebbe essere ritenuto responsabile dell’illecito penale eventualmente realizzato con la deliberazione dell’organo collegiale. Ma è chiaro che una condotta informata al rispetto dei principi civilistici non sembra possa dispiegare un automatico effetto liberatorio anche in sede penale. Anziché procedere ad una valutazione, in concreto, di tutti i comportamenti dei singoli membri che compongono l’organo collegiale ed accertarne l’incidenza sul piano dell’elemento oggettivo e soggettivo, parte della giurisprudenza preferisce rifugiarsi dietro più “comodi” principi di diritto civile. Ecco che allora, soprattutto nell’ambito del diritto penale societario, si

5(?) Cass. pen. Sez. VI, 31.1.1989, Imperato, in Riv. pen., 1990, 882.

6(?) Cass. pen. Sez. V, 5.11.2008, Ferlatti, in C.E.D. Cass., n. 45513.

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La responsabilità penale negli organi collegiali

registra la tendenza a precostituire celate forme di responsabilità di posizione.

Quanto sin qui affermato consente di evidenziare il duplice profilo dal quale il problema della responsabilità penale negli orgni collegiali può essere osservato: il rispetto del principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 della Costituzione e l’istituto del concorso di persone nel reato, disciplinato dagli artt. 110 e ss. del codice penale. Il principio costituzionale di personalità dell’illecito, infatti, e il concorso di persone nel reato costituiscono due capisaldi del diritto penale che - sebbene apparentemente sembrano tendere verso direzioni opposte - rappresentano un irrinunciabile punto di osservazione della problematica in esame (7).

2. Il principio di personalità dell’illecito di cui all’art. 27, comma 1, della Costituzione.

Non può negarsi che l’intero sistema penale vada riletto e interpretato attraverso il “filtro” della Costituzione

7(?) A fronte di una vastissima letteratura italiana e straniera sull’istituto del concorso di persone nel reato, non sembra riservarsi particolare attenzione per la tematica della responsabilità penale dei singoli per la delibera collegiale. Sul tema, ma in riferimento al solo aspetto causale: U. GIULIANI BALESTRINO, Problemi generali dei reati societari, Giuffrè, Milano, 1978, 134; M. DONINI, La partecipazione al reato tra responsabilità per fatto proprio e responsabilità per fatto altrui, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, 175; F. MUCCIARELLI, La tutela penale del capitale sociale e delle riserve obbligatorie per legge, in Il nuovo diritto penale delle società, a cura di A. Alessandri, Ipsoa, Milano, 2002, 310. Da ultimo, cfr. F.M. DE MARTINO, Sulla responsabilità dei singoli negli organi collegiali, in Giust. pen., 2008, II, 585.

Nella dottrina tedesca, a proposito dei criteri di imputazione della responsabilità per la partecipazione alla formazione di delibere collegiali criminose B. WEIẞER, Kausalitäts- und Täterschaftsprobleme bei der strafrechtlichen Würdigung pflichtwidriger Kollegialentscheidungen, Duncker & Humblot, Berlin, 1996.

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La responsabilità penale negli organi collegiali

(8). La dottrina è pressoché unanime nel riconoscere l’indiscutibile incidenza dei principi costituzionali sull’attività di esegesi delle norme penali e anche il codice penale, nonostante costituisca un corpus normativo assai pregevole e sistematicamente ben costruito, necessita della “bussola” costituita dai principi costituzionali (9). Dalla sua entrata in vigore ad oggi la Costituzione ha assunto sempre maggiore importanza, sia in riferimento alle singole norme penali incriminatrici, sia, soprattutto, in ordine alla stessa teoria generale del reato. A differenza dello Statuto Albertino – una costituzione “corta” che non menzionava in modo specifico il diritto penale – essa annovera al suo interno una serie di disposizioni che si pongono alla base del sistema penale e, tra questi, un’importanza fondamentale assumono gli articoli 25 e 27 (10). Sia il principio di legalità che quello di personalità della responsabilità penale, infatti, si connotano per una immediata ed essenziale rilevanza nei confronti del legislatore penale e dell’interprete.

Se da un lato, però, la Costituzione contempla lo spettro dei principi del nostro ordinamento positivo e ha dato contributi decisivi all’affermazione e alla difesa di garanzie liberali in campo penale, dall’altro non può e non deve negarsi che tali principi sono suscettibili di molteplici

8(?) Così S. CANESTRARI- L. CORNACCHIA- G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, Il Mulino, Bologna, 2007, 41.

Circa la necessità di postulare uno stretto collegamento tra l’art. 27, comma 1, Cost. e le problematiche generali inerenti alle scelte di criminalizzazione cfr. G.A. DE FRANCESCO, Il principio della personalità della responsabilità penale nel quadro delle scelte di criminalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, 21.

9(?) Così A. CADOPPI – P. VENEZIANI, Elementi di diritto penale, pt. g., 3ª ed., Cedam, Padova, 2007, 60.

10(?) B. ROMANO, Guida alla parte generale del diritto penale, Cedam, Padova, 2009, 26 e 168 ss.

Sui riferimenti alla materia penalistica rinvenibili all’interno della Costituzione cfr. M. SPASARI, Diritto penale e Costituzione, Giuffrè, Milano, 1966.

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opzioni interpretative (11). Proprio con riferimento al primo comma dell’art. 27 Cost. non poche difficoltà si pongono all’interprete che intende cimentarsi nell’attribuire un significato a tale disposizione (12). Ciò, del resto, è confermato dal fatto che sia nella dottrina penalistica che nella giurisprudenza della Corte costituzionale il principio di personalità ha assunto una molteplice dimensione semantica, frutto di visioni differenti. Diverse, infatti, sono state le interpretazioni che, dall’entrata in vigore della Costituzione ad oggi, hanno avuto ad oggetto la disposizione di cui si discute, ma la presenza di molteplici visioni della norma è comprensibile poiché la lettera del primo comma dell’art. 27 Cost. di per sé non fornisce all’interprete dei sicuri punti di riferimento: essa può «conciliarsi vuoi con l’interpretazione oggettiva, vuoi con quella soggettiva» (13). Tale disposizione è stata definita,

11(?) I principi costituzionali hanno gradualmente assunto un sempre maggiore rilievo anche all’interno della stessa manualistica di diritto penale ponendosi, in un primo momento, come «conferma» di principi già contenuti nel codice penale per giungere infine ad essere considerati come irrinunciabili punti di riferimento per una «trattazione del diritto penale che non voglia rischiare di essere scientificamente obsoleta e insensatamente lontana dallo stesso diritto vivente»: G. FLORA, Il rilievo dei principi costituzionali nei manuali di diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, 1187.

12(?) La lettura della locuzione la responsabilità penale è personale «rivela una desolante laconicità». L’efficace espressione è di A. ALESSANDRI, Commento all’art. 27, comma 1 Cost., in Commentario della Costituzione. Rapporti civili (art. 27 – 28), a cura di G. Branca – A. Pizzorusso, Bologna - Roma, 1991, 4. L’A. afferma altresì che la norma si colloca in una posizione di «cerniera» tra le altre statuizioni penalisticamente rilevanti.

13(?) G. VASSALLI, Responsabilità penale per i reati commessi col mezzo della stampa, Giuffrè, Milano, 1969, 80. Gli stessi costituenti palesarono non poche preoccupazioni sulla possibilità che l’espressione contenuta nel primo comma dell’art. 27 Cost. potesse determinare l’insorgere di equivoci interpretativi tanto da proporne l’eliminazione.

Data la partizione delle norme costituzionali in precettive (suscettibili o meno di immediata applicazione) e programmatiche si iniziò immediatamente a discutere sul valore precettivo o

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infatti, una classica «norma aperta, in grado cioè di recepire contenuti sempre nuovi assecondando i progressi della scienza penalistica e delle scienze ad essa complementari» (14).

È noto che sulla base di una visione restrittiva, la dottrina, inizialmente, ha ritenuto che l’art. 27, comma 1, Cost. si limitasse a fissare il divieto di responsabilità per fatto altrui (15). In tale ottica l’attribuzione della responsabilità penale troverebbe fondamento nella programmatico della norma de qua.

14(?) G. FLORA, «La responsabilità penale personale» nelle sentenze della Corte costituzionale, in «Temi», Riv. giur. it., 1974, 276. L’A. precisa che tale tipologia di norme è molto frequente nell’ambito della normativa costituzionale poiché proprio le norme costituzionali, ancor più di quelle ordinarie, sono formulate in modo da consentire l’ampliamento dell’ambito della loro efficacia in armonia con l’incessante evoluzione delle esigenze dell’individuo e della società. Pertanto ritiene l’art. 27 Cost. suscettibile di una triplice diversa interpretazione: divieto di responsabilità per fatto altrui; divieto di responsabilità per fatto proprio incolpevole; divieto di responsabilità per fatto proprio incolpevole e necessità di commisurare la responsabilità alla personalità dell’autore.

15(?) P. NUVOLONE, Le leggi penali e la costituzione, Milano, 1953, 33; G. VASSALLI, Sulla legittimità costituzionale della responsabilità obiettiva per fatto proprio, in Giur. cost., 1957, 1005.

Anche la Corte costituzionale nell’arco di circa un ventennio ha sostanzialmente condiviso tale visione considerando il principio di personalità dell’illecito come espressione della responsabilità per fatto proprio intesa come divieto di responsabilità per fatto altrui. Tra le pronunce che possono ricondursi a tale visione: Corte cost., 4.4.1985, n. 102, in Foro it., 1985, I, 1914; Corte cost., 21.3.1974, n. 88, in Giust. pen., 1974, I, 213; Corte cost. 21.12.1972, n. 190, in Giust. pen., 1973, I, 80; Corte cost., 5-8.7.1971, n. 167, in Giust. pen., 1972, I, 53; Corte cost., 11-17.2.1971, n. 20, in Giust. pen., 1971, I, 214; Corte cost., 18-24.5.1967, n. 62, in Giust. pen., 1967, I, 423; Corte cost., 9-3.6.1965, n. 54, in Giust. pen., 1964, I, 257.

L’interpretazione del comma 1 dell’art. 27 della Costituzione nel suo primo significato di divieto di responsabilità per fatto altrui (sia per fatti della collettività o anche semplicemente non propri) fu ritenuta del tutto pleonastica, se non anacronistica, trattandosi di un principio entrato nel sentimento giuridico universale più di un secolo e mezzo prima dell’entrata in vigore della Costituzione. Tra i primi a sostenere tale assunto A. CASALINOVO, Norme penali nel progetto di Costituzione della repubblica italiana, in Giust. pen., 1947, I, 49.

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sussistenza di un fatto proprio ravvisabile grazie alla presenza di un nesso di causalità materiale tra la condotta del soggetto e l’evento. Il fatto, cioè, può considerarsi proprio di un soggetto e, quindi, non altrui, quando alla sua realizzazione questi abbia dato un qualsiasi contributo: il criterio causale, pertanto, garantirebbe il rispetto del principio costituzionale di responsabilità per fatto proprio, nel senso di divieto di responsabilità per fatto altrui (16). L’originaria lettura del primo comma dell’art. 27 della Costituzione si è essenzialmente concentrata solo su uno degli aspetti emergenti dalla norma in questione: la responsabilità per fatto proprio. Ci si è accontentati della riferibilità del fatto al soggetto sul piano del nesso causale per ritenere risolto il problema dell’imputazione oggettiva della responsabilità penale (17).

16(?) Prendendo le mosse dai lavori preparatori, a proposito dell’art. 27, comma 1, Cost. – nella consapevolezza che le convinzioni dei compilatori non possano assumere una portata vincolante per l’interprete – sembrerebbe emergere che l’Assemblea costituente, al fine di evitare il ripetersi delle tragiche esperienze della seconda guerra mondiale, avesse inteso bandire le cosiddette «pene collettive» (l’estensione della responsabilità ai familiari innocenti di appartenenti a determinate correnti politiche, la responsabilità collettiva nelle punizioni esemplari, le deportazioni di massa e simili). L’inserimento di un principio di così «elementare giustizia» era, secondo alcuni, dovuto all’esigenza di «dare un solenne monito alle generazioni venture, a cagione della esperienza di un recente passato»: D. FOLIGNO, Il principio costituzionale della responsabilità personale e la responsabilità del direttore di giornale periodico, in Riv. pen., 1956, I, 768. Tuttavia, nonostante la posizione di quella dottrina che considera tale visione «un pericoloso errore di prospettiva storica e giuridica» in quanto in tali casi ci si trova di fronte a crimini contro l’umanità e non a violazioni del principio di responsabilità penale personale poiché il loro esercizio non risultava legato ad alcun potere di natura giurisdizionale (A. ALESSANDRI, Commento all’art. 27, comma 1 Cost., cit., 61), non sembra insensato ritenere contemplata nella Costituzione anche una affermazione di tale tenore.

17(?) Per la tesi che assimila il principio di responsabilità per fatto proprio con la sussistenza di un nesso causale tra l’azione o l’omissione del soggetto e l’evento v. P. NUVOLONE, Le leggi penali, cit., 33, 120; G. VASSALLI, Sulla legittimità costituzionale, cit., 1005.

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Secondo un’ulteriore impostazione, poi, la responsabilità penale può dirsi personale solo se il soggetto agente sia in grado di esercitare un dominio personale sul fatto: tra il primo e il secondo deve potersi individuare una relazione di evitabilità finalistica. Sarebbe proprio quest’ultima a identificare il carattere personale della responsabilità penale (18).

La lettura tradizionale, invece, interpreta l’aggettivo «personale», oltre nel senso di necessaria presenza di un nesso causale tra la condotta e l’evento, nella ulteriore accezione di «colpevole»: l’attenzione degli studiosi, infatti, si è essenzialmente focalizzata sul profilo soggettivo del reato (19). A tal proposito, però, l’atteggiamento della Corte costituzionale sino ad oggi è stato caratterizzato dallo sforzo di dimostrare che le forme di responsabilità che vengono sottoposte al suo giudizio di costituzionalità non si presentano come ipotesi di responsabilità oggettiva (20).

18(?) A. PAGLIARO, Il fatto di reato, Priulla, Palermo, 1960, 410; ID., Fatto, condotta illecita e responsabilità oggettiva, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1985, 645 ss.; F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Giuffrè, Milano, 1984, 68; S. ARDIZZONE, I reati aggravati dall’evento. Profili di teoria generale, Giuffrè, Milano, 1984, 205; V. MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Giuffrè, Milano, 1988, 258.

19(?) Tra gli altri: G. FLORA, «La responsabilità penale personale», cit., 277; F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. g., 5a ed., Cedam, Padova, 2007, 285.

20(?) Il concetto di rimproverabilità del fatto assume una portata centrale nella storica sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale (in Foro it., 1988, I, 1385, con nota di G. FIANDACA, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: “prima lettura” della sentenza n. 364/88; in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, 686, con nota di D. PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza) e viene ulteriormente specificato nella successiva pronuncia n. 1085 del medesimo anno (in Foro it., 1989, I, 1378 con nota di A. INGROIA, Ulteriori sviluppi del riconoscimento costituzionale del principio di colpevolezza: parziale incostituzionalità del furto d’uso) nella quale si sottolinea che «non soltanto risulta indispensabile, ai fini dell’incriminabilità, il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto ma risulta altresì necessaria la rimproverabilità dello stesso soggettivo collegamento». E pertanto «perché l’art. 27, primo comma, Cost, sia pienamente

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A distanza di più di un ventennio dalle sentenze n. 364 e n. 1085 del 1988 la Corte costituzionale non è intervenuta – così come invece ci si sarebbe aspettato – dichiarando l’incostituzionalità di quelle che vengono tradizionalmente considerate le ipotesi di responsabilità oggettiva presenti nel nostro ordinamento (21). Ecco che allora ancora oggi è possibile affermare che «le innovative pronunce della Corte, mentre sono di rilevantissima importanza sul piano dei principi, hanno inciso

rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed e altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati». Da ultimo, infine, va segnalata Corte cost., 24.7.2007, n. 322, in Dir. pen. e processo, 2007, 1461, con nota di L. RISICATO, L’errore sull’età tra error facti ed error iuris: una decisione “timida” o “storica” della Corte costituzionale?; in Fam. e dir., 2007, 979, con nota di P. PITTARO, La consulta introduce nei reati sessuali l’ignoranza inevitabile dell’età del minore; in Cass. pen., 2008, 21, con nota di G. ARIOLLI, L’ignoranza dell’età della vittima nell’ambito dei delitti contro la libertà sessuale: un necessario contemperamento tra il principio di colpevolezza e le esigenze di tutela dell’intangibilità sessuale dei soggetti deboli. Si tratta della questione di legittimità costituzionale dell’art. 609-sexies c.p. - secondo cui l’autore di atti sessuali con minore infraquattordicenne non può invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa - sollevata in riferimento all’art. 27, primo e terzo comma, Cost. e ritenuta inammissibile dalla Corte costituzionale. Quest’ultima, nonostante abbia riconosciuto la correttezza delle premesse argomentative del remittente, ha preferito optare per l’inammissibilità della questione per mancata verifica della possibilità di un’interpretazione secundum constitutionem della norma impugnata e l’inadeguatezza della motivazione in ordine alla rilevanza della questione nel giudizio a quo. Pertanto, alla luce della sentenza n. 364 del 1988 non è possibile ritenere sancita dall’art. 609-sexies c.p. una presunzione assoluta, iuris ed de iure, della conoscenza dell’età del minore infraquattordicenne, ma occorre interpretare la norma nel senso che, nei reati sessuali ivi previsti “il colpevole non può invocare, a propria scusa, l’ignoranza dell’età della persona offesa, a meno che non si tratti di una ignoranza inevitabile”. Il problema sarà procedere alla verifica dell’effettivo contenuto di tale “inevitabilità” dal momento

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direttamente su zone marginali del sistema penale e soprattutto della sua prassi applicativa» (22).

Nonostante un fatto di reato appaia, prima facie, imputabile ad un soggetto sotto il profilo del dolo o della colpa potrebbe non essere comunque rispettata la responsabilità per fatto proprio essendo indispensabile, in via preliminare, attribuire oggettivamente il fatto materiale al suo autore soprattutto nel momento in cui un soggetto del quale si intende accertare la responsabilità penale “entra in contatto” con il fatto di un terzo. Solo successivamente occorrerà verificare la sussistenza dell’elemento soggettivo in capo al primo: l’imputazione oggettiva rappresenta un profilo indipendente e prioritario rispetto all’imputazione soggettiva e come tale deve costituire oggetto di un’autonoma indagine (23). Invece, l’oblio che ha “fagocitato” il principio di responsabilità penale per fatto proprio del singolo soggetto ha indotto la dottrina ad “accantonare” anche il suo significato “uguale

che la Corte costituzionale non ha fornito precise indicazioni in tal senso. Sulla questione, che si inserisce, tra l’altro, nella più ampia tematica dell’intangibilità sessuale di soggetti considerati, in ragione dell’età, incapaci di una consapevole autodeterminazione agli atti sessuali e particolarmente esposti ad abusi v., per tutti, B. ROMANO, Delitti contro la sfera sessuale della persona, 4ª ed., Cedam, Padova, 2009, 157 ss.

21(?) La «forza demolitrice» delle sentenze della Corte costituzionale «non si è spinta oltre»: B. ROMANO, Guida alla parte generale, cit., 306.

Interessante sarebbe verificare inoltre, ma ciò esula dall’oggetto della nostra indagine, come negli ultimi cinquanta anni la Corte costituzionale si sia avvalsa dei principi costituzionali per procedere al controllo di legittimità sulle norme penali. A questo proposito ci appaiono condivisibili le osservazioni di E. BELFIORE, La giurisprudenza costituzionale attaverso al lente del penalista, in Principi costituzionali in materia penale e fonti sovranazionali e fonti sovranazionali, a cura di D. Fondaroli, Cedam, Padova, 2008, 47.

22(?) A. ALESSANDRI, Commento all’art. 27, comma 1 Cost., cit., 79.23(?) In tal senso, M. DONINI, Il principio di colpevolezza, in AA. VV.,

Introduzione al sistema penale, vol. I, 3ª ed., Giappichelli, Torino, 2006, 251.

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e contrario”, cioè il divieto di responsabilità per fatto altrui, per dedicarsi allo studio del significato evolutivo dell’art. 27, comma 1, Cost.: il principio di colpevolezza inteso come divieto di responsabilità oggettiva. E quello che avrebbe dovuto costituire il punto nodale – la responsabilità per fatto proprio – è stato, per così dire, assorbito dal problema della responsabilità oggettiva. Ma i concetti di responsabilità per fatto altrui e responsabilità oggettiva non sono identificabili: «nei casi di responsabilità oggettiva il soggetto risponde sempre per fatto proprio e l’anomalia consiste nel fatto che l’evento è riferito all’agente prescindendo dal dolo o dalla colpa, nella responsabilità per fatto altrui si prescinde anche dal nesso di causalità materiale e l’anomalia consiste proprio nel rispondere per l’illecito di terzi» (24). È proprio quest’ultimo aspetto che sembra essere meritevole di rinnovata attenzione: il divieto di responsabilità penale per fatto altrui quale contenuto minimo dell’art. 27, comma 1, Cost. (25).

Prevalentemente, però, si ritiene che il significato minimo di divieto assoluto di responsabilità per fatto altrui, attribuito originariamente al primo comma dell’art. 27 della Costituzione, banalizzi il significato innovativo del disposto costituzionale, non trovando alcuna conferma nella

24(?) Così F. MANTOVANI, La responsabilità per i reati commessi a mezzo della stampa nella nuova disciplina legislativa, in Arch. pen., 1959, I, 38. Del resto, anche la stessa Corte costituzionale in più di un’occasione (v., tra le tante, Corte cost., 8.7.1957, n. 107, in www.cortecostituzionale.it e Corte cost., 13.5.1965, n. 42, in C.E.D. Cass., n. 2361) ha confermato la differenza intercorrente tra queste due forme di responsabilità.

25(?) Su tale nuovo approccio al principio di personalità della responsabilità penale v. B. ROMANO, Guida alla parte generale, cit., 168 ss. Responsabilità penale per fatto proprio e divieto di responsabilità penale per fatto altrui rappresentano due aspetti del medesimo concetto poiché, se da un lato il principio di responsabilità personale viene inteso, per così dire, in positivo, come responsabilità per fatto proprio, dall’altro, esso è da intendersi, in negativo, come divieto di responsabilità penale per fatto altrui.

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legislazione penale; disconosca l’irrinunciabile esigenza di colpevolezza; contrasti col finalismo rieducativo della pena essendo privo di ogni logica sottoporre a rieducazione un soggetto cui non può essere mosso alcun rimprovero per l’evento causato; non trovi alcuna conferma nella celeberrima pronuncia n. 364 del 1988 della Corte costituzionale (26). Tali argomentazioni, che hanno condotto la dottrina ad abbandonare tale prospettiva, sarebbero condivisibili qualora si ritenesse che il divieto di responsabilità penale per fatto altrui debba costituire l’unico significato della norma costituzionale. Al contrario, in questa sede non si intende ovviamente disconoscerne il contenuto anche in termini di colpevolezza, ma lo si vuole leggere in modo da sottolineare la possibile incidenza del fatto del terzo nella individuazione della responsabilità penale di un altro soggetto. Prospettiva che non sembra possa essere trascurata (27): «il principio di personalità non ammette letture parziali. Come è riduttivo scorgervi solo l’affermazione del criterio materiale, altrettanto inattendibile è relegare quest’ultimo solo sullo sfondo, o almeno in posizione marginale, per spostare il fulcro del giudizio sulla riprovevolezza della Gesinnung» (28).

Attenta dottrina ha posto in risalto come tale tematica sia emersa nel dibattito dottrinale più come

26(?) F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. g., cit., 2007, 285. In senso analogo G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, pt. g., 5a ed., Zanichelli, Bologna, 2007, 628.

27(?) Nel momento in cui un soggetto “entra in relazione” con il fatto di un terzo non è sempre agevole individuare con certezza i criteri in base ai quali è possibile chiamarlo a rispondere penalmente. Probabilmente occorrerebbe, in primo luogo, soffermarsi, così come suggerito dalla dottrina (G. DE VERO, Corso di diritto penale, vol. I, Giappichelli, Torino, 2004, 160) sul fatto che così come non è sufficiente che una cosa (mobile o immobile) non sia altrui perché possa ritenersi propria di un soggetto, al tempo stesso si rende necessario verificare «il grado di appartenenza del fatto al soggetto candidato alla sanzione penale ancora dopo la previa esclusione di una sua riferibilità a persona diversa».

28(?) A. ALESSANDRI, Commento all’art. 27, comma 1 Cost., cit., 86.

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«convitato di pietra» che come argomento meritevole di un’accurata riflessione (29). Invece, gli stimoli che determinano l’insorgere di tale interrogativo traggono la loro origine anche dalla prassi applicativa poiché è soprattutto in tale sede che occorre verificare se il principio della responsabilità penale personale sia concretamente applicato o se la sua portata finisca col risolversi in un mero enunciato teorico costituendo semplicemente “l’impalcatura” del dover essere del diritto penale.

Non va dimenticato, poi, che il principio della responsabilità individuale pone non pochi interrogativi se rapportato alla dimensione plurisoggettiva dei crimini internazionali. Anche il diritto penale internazionale, originariamente elaborato sul modello concettuale della responsabilità dello Stato, ha dovuto misurarsi con un nuovo modello di responsabilità orientato proprio sulla responsabilità personale e, per transitività, con le corrispondenti problematiche che nei diritti penali nazionali sono alla base della costruzione teorica e della concreta disciplina della responsabilità dell’individuo. Infatti, già a partire dalla Carta del Tribunale Militare Internazionale di

29(?) L. CORNACCHIA, Concorso di colpe e principio di responsabilità penale per fatto proprio, Giappichelli, Torino, 2004, 4. Secondo l’A. il vero significato di responsabilità personale intesa come responsabilità per fatto proprio e conseguente divieto di responsabilità per fatto altrui sarebbe da intendersi nel senso che «ciascuno risponde solamente nei limiti della propria sfera di competenza e mai al di là di essi» (ID., op. ult. cit., 119). La norma giuridico-penale posta a fondamento del rimprovero viene considerata come norma di rango costituzionale e «costitutiva di status» nel senso che da un lato, essa rappresenta espressione diretta del principio di responsabilità personale di cui all’art. 27, come «regola che lo concretizza» e, dall’altro, riconosce in capo ai suoi destinatari lo status di soggetto di diritto, ovvero un prisma di posizioni giuridicamente riconosciute dall’ordinamento (ID., op. ult. cit., 95 ss.). In tale ottica, si considera essenziale individuare preliminarmente i soggetti «competenti» per la gestione dei rischi concernenti lo status loro riconosciuto dall’ordinamento: il principio di responsabilità per fatto proprio troverebbe attuazione attraverso la selezione dei soggetti responsabili secondo «una precisa scansione dei doveri giuridici ad essi facenti capo» (ID., op. ult. cit., 112).

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Norimberga fino a giungere allo Statuto della Corte Penale Internazionale, è andata progressivamente consolidandosi la costruzione della responsabilità penale internazionale dell’individuo. Tale costruzione, però, non può assolutamente prescindere dalle irrinunciabili garanzie che devono guidare ogni forma di responsabilità che sia pienamente legittima secondo i principi democratici, ponendo il principio di personalità dell’illecito al centro del sistema del diritto penale moderno. Il rischio di costruire modelli di attribuzione del fatto basati sulla partecipazione al gruppo e l’affacciarsi di forme di imputazione collettiva costituiscono problematiche di rilevante spessore sul piano del diritto penale internazionale. Il rimprovero personale come perno attorno al quale ruota l’imputazione, pertanto, rappresenta una della questioni più spinose anche all’interno di tale settore in cui l’illecito rischia di divenire sempre più “impersonale”.

Nonostante si ammetta che lo Statuto della Corte Penale Internazionale contempli un sistema di imputazione oggettivo-soggettiva dei fatti di reato, ci si trova comunque dinanzi ad una «sistematica sui generis, non definitivamente stabilizzata e non ancora sottoposta al concreto vaglio giudiziale» (30). Forse una valorizzazione dell’aspetto concorsuale e delle fattispecie associative potrebbe essere d’ausilio per l’elaborazione di un sistema di imputazione dell’illecito che garantisca effettivamente il rispetto del principio di personalità.

3. (Segue): Il concetto di “terzo” nel diritto penale.

30(?) S. MANACORDA, Imputazione collettiva e responsabilità personale, Giappichelli, Torino, 2008, 145. Si veda altresì R. SICURELLA, Per una teoria della colpevolezza nel sistema dello statuto della Corte Penale Internazionale, Giuffrè, Milano, 2009.

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Poiché, proprio per le ragioni suesposte, nell’accertamento della responsabilità penale di un soggetto non è possibile trascurare l’eventuale incidenza del fatto del terzo, si rende necessario specificare il significato che il concetto di “terzo” può assumere per il diritto penale. Se per il diritto civile “terzo” è chi non è parte o non è soggetto di un rapporto giuridico, per il diritto penale tale termine potrebbe assumere diverse coloriture. Può essere inteso come colui che pone in essere un fatto di reato e con il quale un altro soggetto di cui si intende accertare la responsabilità penale non è assolutamente entrato in contatto o, che dir si voglia, in relazione (31); oppure può essere adoperato per indicare, con maggiore utilità, un soggetto diverso, altro, rispetto a colui del quale si intende accertare la responsabilità penale ma che si pone in relazione con questo.

Nell’accogliere, naturalmente, la seconda prospettiva – poiché solo lo studio del rapporto tra due soggetti, e le loro rispettive condotte, che, per diverse ragioni, possono “entrare in relazione” potrebbe presentare dei risvolti meritevoli di approfondimento – il concetto di “terzo” finisce comunque per comprendere al suo interno una categoria di soggetti piuttosto variegata.

In tale ottica il pensiero corre immediatamente al concorso di persone nel reato, poiché - secondo i principi generali che regolano tale istituto - il correo risponde sia del fatto proprio che del fatto di un altro soggetto per il semplice, consapevole inserimento nello svolgimento della vicenda criminosa, mediante condotte preparatorie o esecutive, preventive o successive, purché psicologicamente o materialmente funzionali alla realizzazione dell’evento (32). In ulteriori ipotesi, poi, il

31(?) Ma, in tal caso, ovviamente, nessun interesse avrebbe per lo studioso di diritto penale soffermarsi sulla possibile configurabilità di tale responsabilità atteso che fra i due soggetti non sussiste alcun legame ma un’assoluta estraneità.

32(?) Il tema è notoriamente più complesso di quanto possa apparire ad una prima lettura. A proposito del concorso morale di

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codice penale attribuisce rilievo alle “relazioni tra individui”: ad esempio, quando un soggetto si serve di un’altra persona per commettere il reato, facendo ricorso alla violenza (art. 46, comma 2, c.p.), alla minaccia (art. 54, ultimo comma, c.p.), all’inganno (art. 48 c.p.) ovvero mettendola in stato di incapacità (art. 86 c.p.). Gli esempi appena riportati, ovviamente, non possono essere considerati forme di responsabilità per fatto altrui poiché in tali ipotesi di causazione di un fatto di reato da parte del terzo se, da un lato, il fatto è materialmente posto in essere da un terzo soggetto, dall’altro è possibile affermare che tale fatto possa considerarsi proprio. Infatti, in tali casi il codice penale attribuisce rilievo alla relazione tra diversi soggetti in cui l’uno utilizza l’altro come strumento per la realizzazione di un illecito penale.

Escluse le ipotesi appena menzionate, allora, la responsabilità penale per fatto del terzo è configurabile nel momento in cui un soggetto viene chiamato a rispondere penalmente di un fatto posto in essere da un altro individuo solo perché ricopre una ben precisa qualifica soggettiva non tenendosi in considerazione alcuna divisione dei compiti e dei ruoli: in altri termini, si imputa ad un soggetto un evento cagionato da un terzo e a lui non ricollegabile nemmeno sotto il profilo oggettivo. È evidente che non è possibile affidare al comportamento futuro di un terzo l’assunzione di una responsabilità penale frutto dell’applicazione di un sistema di attribuibilità dell’evento persone nel reato è stato osservato che «poiché ogni condotta ha necessario bisogno di un aspetto subiettivo e di uno obiettivo, l’unica spiegazione possibile della punibilità del mero concorso morale è che lo stesso attinga comunque, sia pur indirettamente la realizzazione comune». La questione, allora, si pone «sulla verificazione di quella “fetta” di accadimento materiale dovuta anche al soggetto che non ha partecipato fisicamente e non ha fornito neppure i mezzi. La spiegazione è nella circostanza che, sebbene non abbia fornito i mezzi, egli si è fornito di un “mezzo” quello del partecipe (o dei partecipi) che pone in essere l’aspetto materiale della condotta illecita, e su di esso ha influito, ottenendo mediatamente la realizzazione»: B. ROMANO, Guida alla parte generale, cit., 383.

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basato sulla mera qualità di un soggetto o sul suo ritrovarsi in una determinata situazione fattuale. Se così fosse si dovrebbe concludere come, del resto, già sostenuto in passato, che accanto alla “normale” responsabilità personale di colui che ha commesso il fatto potrebbe configurarsi una responsabilità personale di posizione ancorata all’assunzione libera e volontaria di una qualità giuridica alla quale inerisce il rischio della responsabilità: aver accettato tale rischio renderebbe automaticamente personale la responsabilità anche se l’illecito è stato posto in essere da altri (33).

In virtù di quanto sino ad ora affermato e vista l’assenza di un obbligo di carattere generale gravante sui cittadini di impedire che terzi, responsabili delle loro scelte, realizzino condotte penalmente rilevanti, appare naturale richiamare il principio di affidamento (34). Tale principio si presenta, infatti, intimamente connesso al principio di responsabilità penale personale intesa nel suo significato originario di divieto di responsabilità penale per fatto altrui. Naturalmente, solo una corretta applicazione del principio di affidamento può garantire il pieno rispetto del principio della personalità dell’illecito. Infatti, qualora, ad esempio, si intendesse in senso eccessivamente ampio il dovere di diligenza, prudenza e perizia posto a carico del singolo

33(?) In tal senso P. NUVOLONE, Le leggi penali e la costituzione, cit., 31 ss.

34(?) Colui che agisce nel rispetto dei doveri di diligenza è legittimato a “fare affidamento” su un comportamento ugualmente diligente del terzo la cui condotta interferisce con la sua. In questo modo il singolo può confidare nel fatto che gli altri membri della collettività non strumentalizzeranno le sue azioni allo scopo di commettere reati ma adempiranno a tutti i doveri di diligenza cui sono tenuti. In ogni caso, l’aver reso possibile ad altri (fuori dai casi di concorso nel reato o di controllo sulle organizzazioni criminali) la realizzazione di un reato, non determina per il soggetto l’insorgere di alcuna responsabilità. Così A. PAGLIARO, Principi di dir. pen., pt. g., Giuffrè, Milano, 2003, 380. L’A., specificando tale assunto, evidenzia come il principio di affidamento possa considerarsi una particolare applicazione del concetto di rischio consentito.

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come obbligo di regolare il proprio comportamento in funzione del rischio di condotte altrui, si rischierebbe di dar luogo ad una responsabilità per fatto altrui: un’eccessiva estensione degli obblighi di diligenza sino a richiedere un controllo dell’altrui attività non può ammettersi come regola generale. L’affidamento nel corretto comportamento di altri soggetti, non solo permette che ciascun individuo, libero dalla «costante preoccupazione di controllare l’altrui operato», svolga al meglio le proprie mansioni, ma consente di contemperare il principio della responsabilità penale personale con la specializzazione e la divisione dei compiti (35). Il Vertrauensgrundsatz, elaborato dalla dottrina tedesca nel periodo nazionalsocialista, fu sviluppato con specifico riferimento al problema della circolazione stradale (36). Ed è proprio all’interno di settori come quelli della circolazione stradale e del lavoro in équipe (37) che il principio in parola ha assunto il massimo della sua portata: ogni conducente può fare affidamento sul rispetto delle regole da parte degli altri conducenti. Solo quando percepisca (o divenga percepibile) la mancata osservanza delle regole da parte del terzo il conducente ha l’obbligo a sua volta di porre in essere manovre di

35 (?) MANTOVANI, Colpa, in Digesto pen., vol. II, Utet, Torino, 1988, 311; ID., Diritto penale, pt. g., cit., 343.

36(?) Tale espressione si deve a H. GÜLDE, Der Vertrauensgrundsatz als Leitgedanke des Straßenverkehrsrechts, in JW, 1938, 2785.

37(?) Occorre precisare che nei casi in cui una medesima attività è svolta in équipe da più il concetto di affidamento assume carattere diverso a seconda del tipo di attività svolta, delle specializzazioni, competenze e capacità degli altri partecipi, delle modalità e difficoltà dell’attività intrapresa. I componenti di una équipe chirurgica avranno un ben diverso livello di affidamento rispetto agli automobilisti che si trovino a percorrere la medesima strada. Così come ben diversa considerazione dovrà avere l’eventuale condotta colposa da parte del capo équipe rispetto a quella dei chirurghi che si trovino in posizione subordinata e l’attività dei partecipi ad un intervento chirurgico rispetto all’attività degli specialisti: Cass. pen. Sez. IV, 14.11.2007, Pozzi, in C.E.D. Cass., n. 238957.

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emergenza per evitare danni (per es. chi si accorge per tempo che un veicolo marcia contro mano ha l’obbligo di fermarsi; il titolare del diritto di precedenza ha l’obbligo di eseguire le manovre idonee ad evitare incidenti se percepisce tempestivamente che altro conducente sfavorito non gli concede la precedenza). La giurisprudenza italiana, invece, ha tradizionalmente attribuito l’onere in capo al conducente di un veicolo di prevedere anche le infrazioni e i comportamenti illeciti altrui escludendo l’operatività dell’affidamento (38). Solo di recente, sempre in materia di circolazione stradale, la Cassazione ha mostrato un’apertura verso tale principio, definendolo «pietra angolare della responsabilità colposa» e applicazione del principio del rischio consentito, da riconoscere sia in riferimento alla colpa specifica che a quella generica, con riferimento al requisito della prevedibilità in concreto (39).

Ma la possibilità di invocare il principio di affidamento si scontra, da un lato, con la sua possibile applicabilità esclusivamente nell’ambito di zone di rischio autorizzato, in contesti leciti ma pericolosi e, dall’altro, con il limite costituito dalla eventuale presenza di un’espressa disposizione di legge che preveda in capo ad un soggetto l’obbligo di impedimento di eventi cagionati dalla condotta di terze persone determinando, così, l’insorgere di una posizione di garanzia. Difatti, il limite riconosciuto a tale principio è quello per cui esso non opera in presenza di una situazione giuridica in cui il soggetto è tenuto a porre in essere un’attività di controllo e vigilanza, il che, quindi, gli impedisce giuridicamente di fare generico affidamento sul corretto comportamento di altri soggetti (40).

38(?) Si vedano, ad esempio, Cass. pen. Sez. IV, 28.10.1993, Iannacchero, in Arch. giur. circ., 1994, 384; Cass. pen. Sez. IV, 18.3.1996, Lado, in Cass. pen., 1997, 1014.

39(?) Cass. pen. Sez. IV, 8.10.2009, Minunno, in Cass. pen., 2010, 3201, con nota di R. RUSSO, Sul principio di affidamento in materia di circolazione stradale.

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4. “Reato collegiale” e concorso di persone nel reato.

Come anticipato, la tematica della responsabilità penale in seno agli organi collegiali risulta intimamente connessa, oltre che al principio di personalità dell’illecito penale, anche all’istituto del concorso di persone nel reato.

Preliminarmente occorre precisare che da tempo è stata superata, e dai più respinta, la categoria del c.d. “reato collegiale”, ovvero quel reato commesso «non da persone che si uniscono allo scopo di commettere uno o più reati ma da persone già costituite dalla legge in collegio, come organo di una persona giuridica pubblica o privata, per compiere atti giuridici leciti, anzi doverosi, di natura amministrativa, giudiziaria o di diritto privato, le quali persone, nell’esercizio delle loro funzioni, commettono uno o più reati» in cui la condotta di ciascun soggetto riceverebbe «l’impronta di fatto punibile dal verificarsi della condotta altrui» (41).

40(?) Secondo F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, cit., 169 ss, nel caso in cui il comportamento del terzo si presenti come doloso, il principio dell’affidamento non sarebbe invocabile da chi sia destinatario di un obbligo di controllo in virtù di una norma che gli imponga di provvedere specificamente al controllo di determinate fonti di pericolo cui il terzo possa servirsi per porre in essere la propria condotta; o da chi risulta essere titolare di un obbligo di protezione di uno specifico bene giuridico che potrebbe essere dolosamente aggredito dalla condotta di un altro soggetto. In presenza di una condotta colposa del terzo, poi, il criterio dell’affidamento alla diligenza altrui non potrebbe operare laddove si prospettino circostanze concrete che rimuovano le ragioni che legittimano l’aspettativa di un corretto comportamento di tale soggetto; né tantomeno nel caso in cui il soggetto che si affida la comportamento diligente del terzo abbia agito in modo superficiale o negligente.

41(?) D. RENDE, Disposizioni penali su società e consorzi, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja – G. Branca, Libro V, Del lavoro (artt. 2555 - 2642), Zanichelli, Bologna, 1947, 47 ss. Per una critica alla teoria del reato collegiale v., per tutti, L. CONTI, I

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Tuttavia, la possibilità di configurare una responsabilità penale riferita indistintamente a tutti i membri del collegio per il solo fatto di far parte dell’organo rischia di divenire, nella prassi, un fenomeno tutt’altro che sporadico. La giurisprudenza più avveduta ha avvertito la necessità di precisare che «la commissione di reati societari o fallimentari mediante atto collegiale non è costante ma eventuale, potendo detti reati essere realizzati anche da una sola persona (organo amministrativo unipersonale) e perfino da un solo sindaco; perciò non può assurgere a caratteristica distinta di una particolare categoria di reati (reato collegiale), ma può solo integrare una modalità del concorso di più persone nel medesimo reato; essendo la responsabilità penale personale e non potendo concepirsi alcuna forma di responsabilità collettiva, si dovrà accertare caso per caso, con riferimento all’operato di tutti i membri del collegio, se vi sia stata una partecipazione dolosa al reato, nella forma tipica del concorso, ovvero se tale dolosa partecipazione debba escludersi per taluni di essi» (42).

Pertanto, nel corso della presente indagine dovremo necessariamente verificare come siano utilizzate ed applicate le norme di cui agli artt. 110 ss. del codice penale. Si tratta, come è noto, di norme che nel nostro ordinamento, a stretta legalità formale, assolvono una vera e propria funzione incrminatrice: dunque, occorre interpretarle con particolare attenzione e severità. In altri termini, proprio da una indagine “sul campo”, su un settore di approfondimento necessariamente circoscritto, potrebbero venire utiti indicazioni, tali da consentire – in via induttiva – considerazioni più generali.

soggetti, in Trattato di diritto penale dell’impresa, diretto da A. Di Amato, vol. I, Cedam, Padova, 1990, 255.

42(?) App. Napoli, 5.12.1988, Mottura, in Riv. pen. economia, 1990, 183, con nota di G. GUIDA, Il reato di falso in bilancio e la valutazione degli immobili.

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5. Organi collegiali e attività giornalistica: tutela costituzionale e dimensione sovranazionale.

Alla luce della complessità e dell’ampiezza della tematica della responsabilità penale all’interno degli organi collegiali sin qui emersa, è pertanto necessario procedere ad un ulteriore approfondimento selettivo.

Certamente l’attività di impresa rappresenta il luogo all’interno del quale l’attività svolta dagli organi collegiali assume un ruolo centrale, ma è sullo specifico settore dell’impresa giornalistica che appare interessante focalizzare l’attenzione. In tale ambito, infatti, si pone, da un lato, il problema della responsabilità “professionale” dei giornalisti e delle redazioni di giornalisti nelle quali questi operano, cioè nell’organo collegiale (comitato di redazione) e dei rapporti di questo con la direzione del giornale; dall’altro, si pone la questione inerente all’eventuale responsabilità degli organi collegiali della struttura societaria proprietaria del giornale (consigli di amministrazione, collegi sindacali). L’attività giornalistica non si esaurisce, infatti, nell’attività professionale esercitata da un singolo professionista, poiché essa si inserisce in un più ampio contesto di natura imprenditoriale: nel momento in cui la libertà di espressione del proprio pensiero diviene frutto dell’attività di informazione, il luogo naturale in cui quest’ultima si svolge coincide quasi sempre con una organizzazione che si identifica nell’impresa editoriale. La manifestazione del pensiero, infatti, oltre che esercizio di una libertà individuale, può costituire anche oggetto di un’attività economica esercitata in forma di impresa.

Nel panorama normativo italiano non è dato rinvenire una definizione diretta e specifica di attività giornalistica; tuttavia è possibile ricavarne la nozione dalla lettura sistematica di alcune disposizioni contenute nella legge 3

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febbraio 1963, n. 69, sull’ordinamento della professione di giornalista (43). In particolare, dall’art. 2 della legge appena richiamata – che disciplina i diritti e i doveri dei giornalisti – è possibile dedurre che l’attività giornalistica consiste nella diffusione di notizie, di commenti alle notizie stesse e, più in generale, di opinioni. Secondo la giurisprudenza civile di merito per attività giornalistica deve intendersi quella prestazione di lavoro intellettuale, della sfera della espressione originale o di critica rielaborazione del pensiero, la quale, utilizzando il mezzo di diffusione scritto, verbale o visivo, è diretta a comunicare ad una massa differenziata di utenti idee, convinzioni o nozioni, attinenti ai campi più diversi della vita sociale, politica, economica, spirituale, scientifica e culturale, ovvero notizie raccolte ed

43(?) L’organizzazione professionale dei giornalisti fu disciplinata per la prima volta dalla legge 31 dicembre 1925, n. 2307, che aveva istituito l’Ordine dei giornalisti prevedendo la costituzione di Albi professionali tenuti presso le singole Corti di appello e demandando ad un successivo regolamento la predisposizione della disciplina per la relativa iscrizione. Tuttavia, la legge 3 aprile 1926, n. 563, che instaurava l’ordinamento corporativo, ne impedì l’attuazione e le funzioni concernenti la gestione degli Albi furono attribuite al sindacato unico fascista dei giornalisti.

Come precisato, la normativa attuale di riferimento è la legge 3 febbraio 1963, n. 69. Tale corpus legislativo, però, sin dalla sua entrata in vigore, è stato tacciato di incostituzionalità. Da un lato, è stata messa in dubbio l’istituzione di un Ordine e di un Albo dei giornalisti alla luce di quanto disposto dal primo comma dell’art. 21 Cost. che garantisce a tutti la libertà di espressione e con ogni mezzo di diffusione; dall’altro, si è prospettato un contrasto con gli artt. 18 e 39 Cost. in quanto la presenza di un Ordine dei giornalisti potrebbe colpire sia la libertà di associazione sia la libertà sindacale della categoria giornalistica. La Corte costituzionale, però, sino ad oggi, ha fatto salva l’organizzazione della professione giornalistica così come delineata dalla legge 3 febbraio 1963, n. 69. Le poche pronunce di illegittimità costituzionale, invece (Corte cost., 23.3.1968 n. 11, in Giur. cost., 1968, 311; Corte cost., 10.7.1968, n. 98, in Giur. cost., 1968, 1554), hanno avuto ad oggetto esclusivamente aspetti marginali dell’ordinamento della professione di giornalista non intaccando l’impianto originario della legge. Su tali questioni S. FOIS, Giornalisti, in Enc. dir., vol. XVIII, Giuffrè, Milano, 1969, 706.

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elaborate con obiettività, anche se non disgiunte da valutazione critica (44).

Il fine primario dell’attività giornalistica, dunque, viene usualmente ricondotto all’attività di informazione e, sebbene nessun articolo della Costituzione italiana le riservi un espresso richiamo, sono vari i profili costituzionali ad essa inerenti (45). Tradizionalmente se ne riconduce la ratio all’art. 21 della Costituzione, essendo tale norma rivolta a disciplinare gli aspetti fondamentali della libertà di espressione del pensiero e della stampa (46). Si è, così, proceduto ad un’interpretazione della norma costituzionale che ha condotto alla piena equiparazione tra manifestazione del pensiero e diffusione di fatti, notizie, informazioni sino al riconoscimento di una vera e propria «libertà di informazione» (47). Anche la Corte costituzionale,

44(?) Cass. civ., 2.2.1982, n. 625, in Riv. dir. lav., 1983, II, 359.45(?) Secondo L. PALADIN, Problemi e vicende della libertà di

informazione nell’ordinamento giuridico italiano, in La libertà di informazione, a cura di L. Paladin, Utet, Torino, 1979, 6, il “disinteresse” della Costituzione per la tematica dell’informazione non è casuale ma rappresenta il frutto della tendenza dell’Assemblea costituente di rimuovere i divieti e i vincoli che caratterizzavano la legislazione fascista piuttosto che «affrontare in positivo le implicazioni sociali della libertà di stampa e di pensiero».

46(?) Anche lo Statuto albertino conteneva un riferimento alla disciplina della libertà di espressione segno, questo, che la libertà di manifestazione del pensiero come libertà costituzionale fu originariamente concepita come libertà strettamente individuale. L’art. 28 dello Statuto considerava la sola libertà di espressione a mezzo stampa mentre l’art. 21 della Costituzione repubblicana fa ricorso ad una formula più generale facendo riferimento, oltre che alla parola e alla stampa, ad ogni altro mezzo di diffusione.

In dottrina è stato posto in evidenza come la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di stampa «non sono due diverse libertà da cui promanino due diversi diritti ma si tratta del medesimo diritto di libertà come si atteggia nella sua dimensione sostanziale e in quella strumentale»: M. POLVANI, La diffamazione a mezzo stampa, 2ª ed., Cedam, Padova, 1998, 99.

47(?) Sulla libertà di informazione nei contributi dottrinali degli anni cinquanta e sessanta v. L. PALADIN, Problemi e vicende della libertà di informazione, cit., 8 ss.

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nel definire la libertà di manifestazione del pensiero «pietra angolare» dell’ordinamento democratico, ne ha riconosciuto la perfetta coincidenza con la libertà di informare, poiché la prima ricomprende tanto il diritto di informare, quanto il diritto di essere informati (48): la libertà di manifestazione del pensiero trova infatti tutela non solo nel momento dell’ideazione ma anche in quello in cui il pensiero stesso viene esternato e reso noto ai terzi (49). L’esercizio dell’attività informativa, pertanto, gode di una tutela di rango costituzionale poiché il discorso narrativo implica operazioni intellettuali contraddistinte da una indispensabile componente soggettiva, come la scelta dei dati rilevanti e la loro conseguente interpretazione, rappresentando, quindi, il frutto di elaborazioni mentali che vengono rese note agli altri individui, frutto, cioè, della manifestazione di pensiero. Non sempre, però, il concetto di “stampa” può essere automaticamente associato e ricondotto all’espressione del pensiero ed all’attività informativa e, come tale, costituzionalmente garantito.

48(?) In Corte cost., 17.4.1969, n. 84, in C.E.D. Cass., 1969 e Corte cost., 24.3.1993, n. 112, in Foro it., 1993, I, 1339 il primo comma dell’art. 21 Cost. è stato fatto assurgere a fondamento di un complessivo diritto all’informazione, strutturato nei suoi aspetti attivi e passivi. Nello stesso senso: Corte cost., 14.07.1988, n. 826, in C.E.D. Cass., 1988; Corte cost., 21.7.1981, n. 148, in C.E.D. Cass., 1981; Corte cost., 28.7.1976, n. 202, in C.E.D. Cass., 1976.

In dottrina si è precisato che la distinzione tra libertà di manifestazione del pensiero e libertà di informare non debba condurre verso l’erronea conclusione di ritenere quest’ultima avulsa dalla tutela fornita dal primo comma dell’art. 21 della Costituzione, infatti la narrazione dei fatti, da un lato, e l’espressione del pensiero, dall’altro, «costituiscono un unicum che acquisisce valenze giuridiche diverse, a seconda che sia oggetto di manifestazioni individuali, oppure dell’attività dei mezzi di comunicazione di massa. Libertà, nel primo caso, e diritto di informare nell’altro, nell’interesse della collettività ad acquisire notizie»: C. CHIOLA, Manifestazione del pensiero (libertà di), in Enc. giur., vol. XIX, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1990, 2.

49(?) Sui rapporti tra illecito penale e libertà di parola e, in particolare, sulle forme di criminalizzazione del discorso pubblico cfr. C. VISCONTI, Profili penali del discorso pubblico, Giappichelli, Torino, 2008.

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L’osservazione, che prima facie potrebbe apparire banale, non è priva di risvolti pratici. A titolo esemplificativo basti pensare all’ipotesi in cui si proceda al sequestro preventivo di riviste, siti internet, materiale documentale e informatico poiché attraverso la pubblicazione di determinati annunci si è proceduto alla realizzazione di condotte illecite inerenti al favoreggiamento e allo sfruttamento della prostituzione. A tal proposito, recentemente, un giudice del riesame aveva accolto la richiesta di revoca del provvedimento di sequestro di riviste ed altro materiale osceno proprio nell’ambito di un procedimento penale per sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione considerando tale misura incompatibile con la tutela di manifestazione del pensiero attraverso la stampa. Decisione annullata dalla Suprema Corte che invece ha precisato che in tal caso la “stampa” costituisce solo il veicolo del messaggio pubblicitario, ed, in quanto tale, non si inquadra nel diritto costituzionalmente garantito dall’art. 21 Cost. costituendo un mezzo pubblicitario da valutare in sé (50).

Da un punto di vista sovranazionale poi, non ci si può esimere dal richiamare l’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo secondo cui «ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione, e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere» e, sulla falsariga di tale disposizione, il Patto sui diritti civili e politici del 1966 il quale sancisce che la libertà di espressione comprende «la libertà di ricercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto, attraverso la stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi altro mezzo di sua scelta».

Anche nell’art. 10 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali è possibile

50(?) Cass. pen. Sez. III, 27.9.2007, Bassora, in C.E.D. Cass., n. 237818.

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rinvenire il fondamento della libertà di espressione e di informazione. La norma, infatti, riconosce come profilo della libertà di espressione «la libertà di ricevere e di comunicare informazioni e idee» e contempla specificamente, quale facoltà rientrante nel diritto di espressione, la libertà «di comunicare informazioni ... senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera» (51). Con specifico riguardo all’attività giornalistica, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che «la stampa gioca un ruolo primario in una società democratica: pur non dovendo oltrepassare certi limiti, nondimeno essa ha il compito di comunicare, nel rispetto dei suoi doveri e delle sue responsabilità, informazioni e idee su tutte le questioni di interesse generale» (52). Secondo la Corte, la collettività ha il diritto ad essere informata da una stampa chiamata al ruolo di «cane da guardia della giustizia» (53).

51(?) In particolare, l’art. 10 CEDU prevede che «1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il presente articolo noti impedisce che gli Stati sottopongano a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione.

2. L’esercizio di queste libertà, comportando doveri e responsabilità, può essere sottoposto a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge e costituenti misure necessarie in una società democratica, per la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei reati, la protezione della salute e della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, o per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali o per garantire l’autorità e la imparzialità del potere giudiziario».

52(?) Corte eur. dir. uomo, 21.1.1999, Fressoz e Roire, in Foro it., 2000, IV, 165.

53(?) Tale metafora è stata utilizzata dalla Corte a partire dalle sentenze Corte eur. dir. uomo, Observer Guardian c. Regno Unito, 26.11.1991 e Sunday Times c. Regno Unito, 26.11.1991, in Publications de la Cour Europénne des Droits de l’Homme, Série A, n. 216, e 217.

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In materia di libertà di espressione giornalistica la Corte europea ha posto in essere valutazioni rigorose delle condizioni che giustificano un’ingerenza statale nell’esercizio di tale libertà. In tale ambito, infatti, il margine di apprezzamento di cui godono le autorità nazionali, secondo la Corte, va limitato proprio dall’interesse di una società democratica di consentire alla stampa di svolgere il citato ruolo di «cane da guardia», tenendo ben presente che «la libertà giornalistica comprende anche il ricorso ad una certa dose di esagerazione e persino di provocazione» (54). Ecco che, in tale ottica, la giurisprudenza della Corte europea sull’art. 10 della CEDU si presenta abbastanza severa e rigorosa. In diverse occasioni la Corte ha avuto modo di pronunciarsi a proposito della libertà di espressione, anche in casi che hanno visto l’Italia come protagonista. Tra questi ricordiamo i casi Perna c. Italia (55) e Riolo c. Italia (56). Nella prima pronuncia un giornalista era stato condannato in sede penale in quanto autore di uno scritto diffamatorio ai danni di un magistrato (57). Nonostante la Corte europea avesse ravvisato in tale condanna una ingerenza nel diritto alla libertà di espressione ha comunque ritenuto la decisione del giudice nazionale giustificata e legittima alla luce delle previsioni legislative poste a tutela della reputazione: l’ingerenza nel diritto alla libertà di espressione realizzatasi con la condanna del giornalista poteva, infatti, «ragionevolmente considerarsi necessaria in una società democratica». Di segno opposto, invece,

54(?) Corte eur. dir. uomo, 20.5.1999, Bladet Tromsø e Stensaas c. Norvegia, in www.osservatoriocedu.it.

55(?) Corte eur. dir. uomo, 6.5.2003, Perna c. Italia, in www.osservatoriocedu.it.

56(?) Corte eur. dir. uomo, 17.7.2008, Riolo c. Italia, in www.osservatoriocedu.it.

57(?) Il giornalista criticava la “militanza politica” di un magistrato che avrebbe «contribuito alla strategia di conquista delle Procure di molte città d’Italia» ed utilizzato un collaboratore di giustizia per cercare di distruggere la carriera politica di un Senatore.

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l’altra pronuncia con la quale l’autore dell’articolo diffamatorio è stato dichiarato responsabile sul piano civilistico (58). La Corte europea ha condannato l’Italia ravvisando la violazione dell’art. 10 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo poiché le critiche dell’autore dell’articolo non presentavano carattere diffamatorio, essendo fondate su fatti veri ed espressione legittima della libertà di opinione in una società democratica, inserite in un dibattito di interesse pubblico e formulate nei confronti di un uomo politico che occupava un posto chiave nell’amministrazione pubblica locale il quale doveva necessariamente aspettarsi che i suoi atti fossero sottoposti ad uno scrupoloso esame ad opera della stampa. La Corte ha ulteriormente specificato che si trattava di espressioni mai scivolate in insulti e non giudicabili gratuitamente offensive, avendo sempre conservato una connessione con la situazione analizzata dall’autore dell’articolo.

Dalle pronunce appena riportate si evince che l’enfasi conferita alla libertà di espressione giornalistica non equivale ad affermare che i giornalisti possano comunque operare senza alcun limite. Ed infatti «chiunque, ivi inclusi i giornalisti, eserciti la sua libertà di espressione assume “doveri e responsabilità” la cui ampiezza dipende dalla situazione concreta e dal mezzo di comunicazione impiegato … I giornalisti non sono in linea di principio sottratti al loro dovere di rispettare le leggi penali di diritto comune per effetto della protezione loro offerta dall’art. 10 CEDU: il paragrafo 2 dell’art. 10 impone alcuni limiti all’esercizio della libertà di espressione giornalistica. La garanzia che l’art. 10 offre ai giornalisti per quanto riguarda i resoconti su questioni di interesse generale è

58(?) L’autore dell’articolo si era mostrato fortemente critico nei confronti di un noto esponente politico presidente di un ente provinciale che, esercitando la professione di avvocato, aveva deciso di mantenere le difesa di un suo cliente mentre l’ente di cui era presidente decideva di costituirsi nel procedimento in cui il politico esercitava il proprio mandato difensivo.

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subordinata alla condizione che gli interessati abbiano agito in buona fede in maniera da fornire informazioni esatte e degne di credito nel rispetto della deontologia giornalistica» (59).

6. L’attività giornalistica come attività di impresa.

La manifestazione del pensiero, oltre che esercizio di una libertà individuale, può costituire anche oggetto di un’attività economica esercitata in forma di impresa (60). Nel momento in cui la libertà di espressione del proprio pensiero diviene frutto dell’attività giornalistica, il luogo naturale in cui quest’ultima si svolge coincide quasi sempre con una organizzazione aziendale di diffusione della notizia stampata, radiofonica, televisiva o telematica e la professione giornalistica si colloca essenzialmente nel quadro di un rapporto di lavoro con tale impresa. L’attività giornalistica è caratterizzata ormai da un’incessante e vorticosa evoluzione in cui l’aspetto imprenditoriale ha assunto proporzioni sempre più significative, tali da non consentire di sottovalutare l’importanza assunta dall’«industria della comunicazione»: il continuo evolversi delle forme di produzione giornalistiche ha finito per trasformare il prodotto intellettuale del giornalista in un vero e proprio «prodotto industriale» (61). In tale ottica, allora, non sembrerebbe poi così paradossale giungere a qualificare l’informazione come «prodotto al pari di altre

59(?) Corte eur. dir. uomo, 20.5.1999, Bladet Tromsø e Stensaas c. Norvegia, in www.osservatoriocedu.it.

60(?) In dottrina v’è chi a tal proposito parla di una «doppia relazione tra attività di pensiero e attività economica»: M. PEDRAZZA GORLERO, Il giornalismo nell’ordinamento costituzionale, in Riv. trim. dir. pubbl., 1987, 659.

61(?) F. SANTONI, Giornalisti. Lavoro giornalistico, in Enc. giur., vol. XV, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1989.

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entità, sia pure connotate dall’elemento della corporeità ma non meno vitali: gli alimenti, i medicinali, i prodotti per l’igiene», rappresentando un «bene di consumo, suscettibile di innumerevoli forme di presentazione sul mercato» (62).

Nell’attuale panorama legislativo italiano pochissime disposizioni normative fanno ricorso alla locuzione “impresa giornalistica”: si tratta degli articoli 1, comma 7 lett. d), e 6, ultimo comma, della legge 5 agosto 1981, n. 416, recante la “Disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l’editoria” e degli articoli 5, comma 2, e 6, ultimo comma, della legge 8 febbraio 1948, n. 47, recante “Disposizioni sulla stampa”. Dalla lettura delle disposizioni appena richiamate – in cui tale locuzione viene utilizzata come sinonimo di impresa editrice – si ricava che l’informazione giornalistica può rappresentare l’oggetto (o uno degli oggetti) della più ampia attività imprenditoriale di un’impresa editrice (63).

Il processo di organizzazione delle principali imprese editoriali in senso aziendale ha origine agli inizi del Novecento, in seguito all’incremento della tiratura della stampa quotidiana e periodica. È in questo periodo che tali imprese gradualmente assumono quelle caratteristiche che ancora oggi connotano la c.d. stampa di opinione. Gli elevati costi di impianto e di gestione delle imprese aventi ad oggetto l’attività di informazione rendeva inevitabile, però, già negli anni settanta, che la proprietà delle stesse confluisse in capo a pochi soggetti e che tali imprese finissero per divenire «collaterali di altre di tutt’altro

62(?) Così V. ZENO ZENCOVICH, «Pubblico» e «privato» nel sistema dell’informazione, in Rass. dir. civ., 1992, 60 ss.

63(?) Cioè di una organizzazione in cui inevitabilmente finiscono per confluire i poteri dell’imprenditore, i poteri organizzativi e direttivi dell’organizzazione del mezzo di diffusione e la medesima libertà di manifestazione del pensiero degli altri giornalisti: M. PEDRAZZA GORLERO, Il giornalismo nell’ordinamento costituzionale, in Riv. trim. dir. pubbl., 1987, 691.

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genere» (64). L’obiettivo di garantire un assetto economico e proprietario dell’impresa editoriale che presentasse, in primo luogo, il carattere della trasparenza ha dato vita all’esigenza di delineare una disciplina idonea a distinguere tale tipologia di impresa da tutte le altre imprese commerciali. Di qui la già richiamata legge 5 agosto 1981, n. 416, recante la “Disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l’editoria” con la quale per la prima volta il legislatore italiano ha posto attenzione in modo organico e contestuale a tutte le varie attività imprenditoriali e professionali legate al mondo dell’editoria (65). Il Titolo primo della legge 5 agosto 1981, n. 416, è dedicato alla “Disciplina delle imprese editrici di quotidiani e periodici”. Si tratta un vero e proprio statuto dell’impresa giornalistica. Va evidenziato che già prima dell’entrata in vigore della legge 5 agosto 1981, n. 416, la configurabilità di un siffatto statuto rappresentava una problematica che

64(?) G.A. VENEZIANO, Stampa, in Enc. giur., vol. XXX, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1993, 8.

65(?) Alcuni Autori hanno osservato, però, che il legislatore si trovò dinanzi ad una scelta «almeno parzialmente obbligata» poiché il mondo dell’informazione si caratterizzava comunque già per la presenza di fenomeni concentrazionistici talmente consolidati che non avrebbero consentito di modificare radicalmente la situazione esistente. Si consentì, allora, che la titolarità delle imprese giornalistiche di maggiore rilevanza nazionale permanesse all’interno degli stessi gruppi economici all’interno dei quali avevano avuto origine: così, G.B. GARRONE, Profili giuridici del sistema dell’informazione e della comunicazione, Giappichelli, Torino, 2002, 38.

In dottrina vi è chi ha definito la legge 5 agosto 1981, n. 416, «una legge omnibus nella quale tutte le categorie interessate hanno trovato modo di vedere codificato un proprio interesse»: C. PROTETTÌ – E. PROTETTÌ, Giornalisti ed editori nella giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 1989, 23. Nel tempo tale corpo normativo è stato oggetto di numerose modificazioni ed integrazioni: dalla legge 30 aprile 1983, n. 137, “Modifiche alla legge 5 agosto 1981, n. 416, recante disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l’editoria”; fino alla legge 7 marzo 2001, n. 62, “Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla legge 5 agosto 1981, n. 416” e legge 9 maggio 2001, n. 198 di conversione in legge del d.l. 5 aprile 2001, n. 99, “Disposizioni urgenti in materia di disciplina del prezzo di vendita dei libri”.

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aveva suscitato l’attenzione della dottrina (66). Ci si interrogava, da un lato, sulla possibilità di adattare la disciplina di diritto comune dell’impresa commerciale all’impresa giornalistica e, dall’altro, sull’opportunità di apportare o meno delle deroghe a tale disciplina. Al quesito la dottrina dava una risposta positiva atteso che, secondo la Costituzione, la libertà di iniziativa economica e la proprietà si presentano «suscettibili di limitazioni anche se queste non siano direttamente finalizzate a garantirne l’esercizio»; mentre l’unico limite avrebbe potuto individuarsi proprio nell’art. 21 Cost. nel senso che un intervento del legislatore non avrebbe mai dovuto assumere una portata restrittiva e censoria della libertà di manifestazione del pensiero (67). Anzi, un intervento legislativo mirato a disciplinare l’impresa giornalistica avrebbe contribuito a rafforzare il pieno esercizio dei diritti di cui all’art. 21 Cost. Il primo comma dell’art. 1 della legge 5 agosto 1981, n. 416, delinea una nozione di impresa editrice più ampia di quella fornita dalla legge sulla stampa del 1958; infatti, l’esercizio dell’impresa editrice di giornali quotidiani è riservato alle persone fisiche, alle società costituite nella forma della società in nome collettivo, in accomandita semplice, a responsabilità limitata, per azioni,

66(?) Cfr. P. MARCHETTI, Problemi in tema di organizzazione giuridica dell’impresa giornalistica, in La stampa quotidiana tra crisi e riforma, a cura di P. Barile – E. Cheli, Il Mulino, Bologna, 1976, 477.

67(?) P. MARCHETTI, Problemi in tema di organizzazione giuridica dell’impresa giornalistica, cit., 479.

In sede di lavori preparatori dell’Assemblea Costituente diverse proposte prevedevano che l’art. 21 Cost. sancisse l’obbligatoria pubblicazione dei bilanci delle società editrici (Proposta dell’on. La Pira, in www.legislature.camera.it) e la predisposizione da parte del legislatore ordinario di controlli sulle fonti di notizia al fine di assicurare la genuinità e la veridicità dell’informazione (Proposta dell’on. Rossetti, in www.legislature.camera.it). Ma, data l’attuale formulazione dell’art. 21 Cost. è evidente che tali proposte, in sede di approvazione definitiva della disposizione, furono stralciate cancellando così nella Costituzione ogni riferimento ad un possibile controllo sulle aziende editoriali.

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in accomandita per azioni o cooperativa, il cui oggetto comprenda l’attività editoriale, esercitata attraverso qualunque mezzo e con qualunque supporto, anche elettronico, l’attività tipografica, radiotelevisiva o comunque attinente all’informazione e alla comunicazione, nonché le attività connesse funzionalmente e direttamente a queste ultime (68).

Ancora oggi la formulazione dell’articolo 1 della legge 5 agosto 1981, n. 416, costituisce oggetto di discussione. Nel 2005 la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, sulla base dell’assunto che l’autonomia e la libertà di informazione risulterebbe messa in pericolo dai troppi intrecci proprietari ha proposto di introdurre nel nostro ordinamento lo statuto dell’impresa di informazione e norme più stringenti nel caso di scalate a società editoriali quotate, con l’obiettivo di una chiara distinzione di questo tipo di impresa da ogni altro interesse economico dei proprietari, a garanzia dell’autonomia del contenuto editoriale (69). Non può sottovalutarsi che, come in passato,

68(?) Tra i soggetti legittimati ad esercitare l’attività imprenditoriale nel campo dell’editoria il legislatore annovera anche le cooperative di giornalisti ed i consorzi ad esse equiparati. A tal proposito in dottrina, C. PROTETTÌ – E. PROTETTÌ, Giornalisti ed editori nella giurisprudenza, cit., 31, definiscono le cooperative giornalistiche una «zattera di salvataggio» di iniziative editoriali naufragate in quanto «nascono per rilevare testate cessate e vivono per gestirle».

69(?) In particolare, la F.N.S.I. proponeva di aggiungere i seguenti commi all’art. 1 art. della legge 5 agosto 1981, n. 416: 1 bis: «L'impresa editrice è organizzata per divisioni autonome. Obbligatoria è l'istituzione di una divisione autonoma per la sola informazione giornalistica. Detta divisione societaria fa capo alla direzione dell'impresa editoriale per quanto attiene alla gestione economica, ma risponde alla sola direzione giornalistica per quanto attiene all'informazione».1 ter: «La divisione dell'impresa editrice che ha per oggetto l'informazione giornalistica ha un proprio statuto autonomo che fa parte integrante dello statuto dell'impresa e che fa esplicitamente richiamo ai criteri di libertà e di autonomia della stampa fissati dall'art.21 della Costituzione. I singoli giornalisti che violino lo statuto

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ancora oggi il rapporto tra informazione ed economia si caratterizza per un indissolubile intreccio che vede i maggiori quotidiani e periodici nazionali fare capo a banche e società di vario genere, in cui l’attività di informazione rappresenta soltanto uno dei molteplici interessi di tali enti. Vi è, pertanto, uno strettissimo collegamento dell’impresa editoriale con grandi gruppi finanziari o industriali di cui i quotidiani, in particolar modo, sono divenuti diretta espressione. Il punto di maggiore

di autonomia dell'informazione possono essere pubblicamente richiamati dal responsabile dei diritti degli utenti previsto dal successivo comma 1 sexies, oltre che dal direttore responsabile della testata giornalistica e dall'Ordine dei giornalisti. La direzione giornalistica che violi lo statuto autonomo previsto dal corrente comma può subire un richiamo pubblico, oltre che dall'Ordine dei giornalisti, dal responsabile dei diritti degli utenti previsto dal successivo comma 1 sexies. In caso di ripetute e comprovate, gravi violazioni dello statuto autonomo il direttore responsabile delle testate giornaliste può essere deferito dal responsabile dei diritti degli utenti all'Ordine nazionale dei giornalisti.1 quater: «Le attività di raccolta pubblicitaria e di promozione commerciale, cosiddetto marketing, non possono essere organizzate all'interno della divisione societaria che ha per oggetto l'informazione giornalistica».1 quinquies: «La divisione dell'impresa editrice che ha per oggetto l'informazione giornalistica fissa ogni anno le linee della propria autonoma politica editoriale sulla base delle indicazioni esplicite di linea politico-editoriale indicate della direzione aziendale o della società controllante».1 sexies: «La divisione dell'impresa editrice che ha per oggetto l'informazione giornalistica nomina ogni due anni un responsabile dei diritti degli utenti, fissandone pubblicamente compiti e poteri, in autonomia dalla direzione giornalistica, dalla direzione dell'impresa editrice o della società controllante. Detto incarico può essere affidato a una singola persona fisica, a più persone fisiche o a persone giuridiche. L’incarico di detto responsabile non può essere rinnovato per più di due volte».1 septies: «Fermi restando gli obblighi di trasparenza sulla proprietà delle azioni di società editoriali, chiunque acquisisca, a titolo individuale o in accordo con altri soci, pacchetti azionari di dette società che superino quote del 5 per cento del capitale sociale deve chiarire quali progetti persegue e aderire formalmente allo statuto

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criticità dell’impresa di informazione italiana è rappresentato «dalla concentrazione insolitamente alta della proprietà dei media rispetto agli standard europei». Sono questi i termini utilizzati a proposito della libertà di stampa in Italia da Freedom House nel suo rapporto del 2010 (70). Lo stesso Parlamento europeo, nella risoluzione del 25 settembre 2008 sulla concentrazione e il pluralismo dei mezzi d’informazione nell’Unione europea 2007/2253, ha sottolineato che «la concentrazione della proprietà del sistema mediatico crea un ambiente favorevole alla monopolizzazione del mercato pubblicitario, ostacola l’entrata di nuovi attori sul mercato e contribuisce altresì all’uniformità del contenuto dei mezzi d’informazione». E qualche anno prima nella risoluzione del 22 aprile 2004 sui rischi di violazione nell’UE, e in particolare in Italia, della libertà di espressione e di informazione ha affermato che nel nostro Paese «potrebbero sussistere rischi di violazione del diritto alla libertà di espressione e di informazione» e che, in particolar modo, «il tasso di concentrazione del mercato televisivo in Italia è oggi il più elevato d’Europa», rilevando che «il sistema italiano presenta un’anomalia dovuta a una combinazione unica di poteri economico, politico e mediatico» (71).

Non sembra azzardato sottolineare che le imprese di informazione sono divenute molto spesso strumenti di pressione politico-finanziari, basti ricordare che sovente il termine «stampa» viene ricondotto all’idea del c.d. «quarto potere» ed in tal caso tale termine è utilizzato proprio nell’accezione di insieme di imprese di informazione.

dell’impresa per la parte che riguarda l’autonomia e la libertà dell'informazione».

70(?) Si tratta di un istituto di ricerca, finanziato prevalentemente con fondi governativi, avente la propria sede a Washington D.C. e che ha come obiettivo la promozione del liberalismo nel mondo.

Il testo del rapporto è consultabile su www.freedomhouse.org.71(?) È possibile leggere il testo delle suddette risoluzioni su

www.europarl.europa.eu.

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Ma non solo; la progressiva trasformazione dei gruppi editoriali in gruppi multimediali rappresenta un fenomeno che sta assumendo il carattere di trasformazione strutturale del settore dell’impresa di informazione. Infatti, l’integrazione tra le varie piattaforme distributive dell’informazione consente ad una medesima impresa di fornire contenuti non solo su supporto cartaceo, ma anche audiovisivo attraverso web, canali radio e televisivi (72). Attualmente quasi tutti i gruppi editoriali hanno un loro spazio web ed offrono prodotti e servizi telematici. I prodotti editoriali vengono veicolati attraverso piattaforme online e offline il cui comune denominatore è il trattamento digitale dei contenuti editoriali: l’informazione viene incanalata attraverso una pluralità di mezzi (carta, web, cellulare, radio, televisione). Ecco che allora la diversificazione dell’offerta e la moltiplicazione dei contenuti ha contribuito a determinare un sistema dei media molto più complesso e articolato rispetto al passato. Basti pensare come il rilievo della “industria dei quotidiani” si vada progressivamente riducendo a vantaggio dei media elettronici e digitali. Tale nuovo scenario multimediale non incide soltanto sugli assetti proprietari dell’industria della comunicazione ma comporta necessariamente l’esigenza di rintracciare nuove soluzioni organizzative all’interno della stessa e di procedere allo sviluppo di professionalità e competenze rispetto alla comunicazione multimediale attraverso l’adeguamento infrastrutturale e l’aggiornamento degli operatori della comunicazione. La

72(?) Tale fenomeno ha spinto la dottrina ad osservare che per certi aspetti anche dal punto di vista del trattamento giuridico ormai «tendono a svanire i confini tra audiovisivo, informatica, editoria e telecomunicazioni, e ci troviamo così ad essere testimoni della nascita, in Europa e nel mondo, di un nuovo diritto, il diritto della convergenza, che distingue la disciplina delle reti, indipendentemente dal tipo di messaggio su di esse veicolato, dalla disciplina dei servizi, indipendentemente dalle reti sulle quali essi vengono offerti»: E. CHELI, Prefazione al volume di F. BRUNO – G. NAVA, Il nuovo ordinamento delle comunicazioni, Giuffrè, Milano, 2006, XVI.

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tradizionale figura dell’editore proprietario di un solo giornale sta gradualmente scomparendo, essendo ormai evidente che un unico “prodotto” non può che appagare parzialmente la richiesta d’informazione, sempre più multimediale e multicanale. I tipici contenuti cartacei devono necessariamente confrontarsi con l’invadenza di motori di ricerca, blog, social network, della stessa televisione e gli editori sono ormai consapevoli della necessità di consentire che le diverse piattaforme tecnologiche possano dialogare tra loro in modo flessibile. Questi ultimi, infatti, diffondono sempre più la loro offerta sul web e pertanto dipendono in larga misura dai proventi della pubblicità online e non può ignorarsi che lo sviluppo del sistema mediatico è sempre più determinato dal profitto, anzi; l’operato delle imprese private del settore è motivato, soprattutto, dal profitto economico.

Anche nell’ambito delle imprese di informazione è possibile assistere al profilarsi dei tradizionali problemi di criminalità d’impresa che connotano il sistema economico contemporaneo, poiché «il contrasto con i modelli di condotta e con i beni penalmente tutelati può annidarsi profondamente nel ventaglio delle scelte imprenditoriali» (73): ci troviamo dinanzi a organizzazioni strutturalmente complesse, sovente contraddistinte dall’esasperata ripartizione dei compiti e, talora, dalla polverizzazione delle responsabilità individuali. La tematica dei criteri di attribuzione della responsabilità penale nell’ambito di enti a struttura complessa – in seno ai quali è possibile annoverare le imprese giornalistiche – pertanto, involge i tradizionali problemi dell’individuazione delle posizioni di garanzia, delle pericolose semplificazioni dell’accertamento della responsabilità penale, dell’ammissibilità del ricorso allo strumento della delega di funzioni e, soprattutto, della compiuta attuazione del principio costituzionale di personalità della responsabilità penale all’interno di realtà

73(?) A. ALESSANDRI, Impresa (responsabilità penali), in Digesto pen., vol. VI, Utet, Torino, 2005, 195.

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aziendali che vedono nella ripartizione di funzioni tra più soggetti un momento indefettibile di una efficiente organizzazione. E le medesime problematiche potranno profilarsi a prescindere dalla natura pubblica o privata dell’impresa. Il carattere pubblico dell’attività, infatti, «non incide sul diverso versante dei riflessi che il coordinamento di persone e mezzi, colto nel suo momento dinamico, può spiegare sull’indagine rivolta ad accertare chi debba razionalmente soggiacere al peso della sanzione se si vuole che questa sia efficace, coerente allo scopo di tutela e ai principi costituzionali» (74).

Vi sono tuttavia delle problematiche che caratterizzano peculiarmente il settore dell’impresa di informazione. Una riflessione che intenda occuparsi dell’ “aspetto imprenditoriale” della diffusione dell’informazione e dei connessi profili di responsabilità configurabili, deve prendere necessariamente le mosse dalla preliminare constatazione che l’ottimizzazione del profitto rappresenta il fine di tali imprese (così come per ogni altra impresa commerciale); tuttavia non può essere ignorato il fenomeno attraverso il quale tale obiettivo spesso venga perseguito mediante il ricorso a strumenti illeciti come continui episodi diffamatori, o meglio, “campagne diffamatorie” che, dirette proprio all’ottimizzazione del profitto, mediante l’incremento delle vendite o dell’audience o degli accessi al web, finiscono per divenire vere e proprie forme di criminalità di impresa.

Non è possibile negare l’esistenza di imprese giornalistiche che strumentalizzano lo scandalo e l’attacco fazioso alle persone al fine di procedere all’accaparramento di intere quote di mercato. Basti pensare al significato economico di uno scoop che consenta a un quotidiano o a un periodico a tiratura nazionale un incremento delle vendite. In altri termini, oggi l’informazione appare indissolubilmente legata alla “irrinunciabile” esigenza di aumentare il numero dei lettori

74(?) A. ALESSANDRI, Impresa (responsabilità penali), cit., 195.

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o comunque di accrescere l’audience o il numero di accessi al web: la crescente tendenza a diffondere notizie offensive comporta per le imprese giornalistiche vantaggi economici non irrilevanti. Le imprese commerciali «dominate dalla amorale “legge del mercato”, devono vendere ad ogni costo il prodotto ed accaparrarsi la pubblicità commerciale attraverso l’indice di ascolto e di diffusione» e, il «sensazionalismo, lo scandalismo facile e gratuito, la notizia incontrollata purché rapida, l’offerta di tutto ciò che si crede che i lettori o spettatori chiedano» (75) sembrano essere spesso uno degli obiettivi “patologici” dell’attività di informazione.

Dinanzi a tale quadro, all’interprete non resta che chiedersi se - e in qual misura - l’attuale assetto normativo sia in grado di fornire una risposta sanzionatoria adeguata alla repressione di tale fenomeno. Infatti - ferma la responsabilità penale della singola persona fisica autrice della diffamazione o di qualsiasi altro reato che può esser posto in essere attraverso l’esercizio dell’attività giornalistica, e considerata la eventuale responsabilità del direttore che, in base al singolo caso concreto, potrà assumere i contorni di una responsabilità dolosa in concorso con l’autore del reato o “colposa” ex art. 57 c.p. per omesso controllo sul contenuto della pubblicazione - appare naturale chiedersi quali strumenti offra il nostro ordinamento per contrastare validamente il fenomeno appena descritto. Prima di passare in rassegna i profili di responsabilità configurabili a carico dell’impresa giornalistica sembra opportuna, però, una precisazione: la risposta sanzionatoria dell’ordinamento non può prescindere dalle innegabili caratteristiche della struttura dell’organo di informazione e deve essere modulata, o rimodulata, sulla base di esse. Ragionare sul necessario ed esclusivo intervento penale senza tenere in considerazione il contesto imprenditoriale all’interno del quale si svolge

75(?) F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. s., I, Delitti contro la persona, 3ª ed., Cedam, Padova, 2008, 195 e 221.

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l’attività di informazione, in cui le regole penali non possono essere sottratte a una verifica in termini di costi-benefici circa la loro effettiva efficacia deterrente potrebbe costituire un grave errore metodologico.

7. Impresa giornalistica e profili di responsabilità alla luce dell’attuale panorama normativo.

Prima di soffermarci sui rimedi rintracciabili per contrastare specificamente il fenomeno sopra descritto, pare opportuno verificare quali siano i profili di responsabilità che, più in generale, sono configurabili a carico dell’impresa giornalistica. Per tali ragioni, pare opportuno prendere le mosse dall’esame di quei corpi normativi che si riferiscono specificamente alle imprese di informazione. La tematica involge la questione inerente all’ammissibilità, all’interno del nostro ordinamento, di forme di responsabilità diretta della persona giuridica.

Il complesso normativo di riferimento per l’impresa editoriale - la “Disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l’editoria” di cui alla legge 5 agosto 1981, n. 416 - non contempla forme di responsabilità diretta dell’impresa editoriale, così come, invece, sembrerebbe potersi ricavare dal “Testo unico della radiotelevisione”, di cui al D.Lgs. 31 luglio 2005, n. 177 (76). Posto che sarebbe superfluo ribadire che l’impresa giornalistica non possa identificarsi esclusivamente con l’impresa editrice di quotidiani e periodici (poiché, ovviamente, la diffusione

76(?) A dire il vero, tale normativa non consente di rinvenire una panoramica davvero esaustiva dell’ordinamento in materia radiotelevisiva poiché diverse disposizioni sono comunque sopravvissute al lavoro di riordino e di abrogazione posto in essere attraverso il T.U. Per tali rilievi e, più in generale, sull’ordinamento delle comunicazioni, si rinvia a F. BRUNO – G. NAVA, Il nuovo ordinamento delle comunicazioni, Giuffrè, Milano, 2006.

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dell’informazione si realizza anche attraverso il mezzo radiotelevisivo) e che non è questa la sede per approfondire la lunga e travagliata evoluzione che sino ad oggi ha condotto a determinare le attuali caratteristiche della struttura dell’informazione radiotelevisiva italiana pubblica e privata, non possiamo esimerci, tuttavia, dal richiamare nuovamente la legge 6 agosto 1990, n. 223, recante la “Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato”, proprio al fine di volgere lo sguardo ai profili di responsabilità dell’impresa radiotelevisiva ivi rintracciabili. Tale normativa, all’art. 31, contemplava la disciplina delle sanzioni amministrative di competenza del Garante e del Ministro delle poste e delle telecomunicazioni. L’articolo appena richiamato è stato oggetto di abrogazione ad opera dell’art. 54 del T.U. della radiotelevisione e le relative norme sono confluite negli artt. 51 e 52 del citato T.U., le quali si occupano, rispettivamente, delle sanzioni di competenza dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e di quelle di competenza del Ministero delle comunicazioni in caso di violazione di obblighi in materia di programmazione, pubblicazione e contenuti radiotelevisivi indicati dallo stesso art. 51 e nelle ipotesi specificate dall’art. 52. In particolare, l’art. 51 del T.U. - oggetto, tra l’altro, di recenti modifiche ad opera dell’art. 8-decies, d.l. 8 aprile 2008, n. 59, e del comma 302 dell’art. 2, legge 24 dicembre 2007, n. 244, - fa riferimento a diverse tipologie di disposizioni la cui violazione comporta l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie da parte dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni secondo le procedure disciplinate dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, (77) e prevede, altresì, la sospensione dell’attività e la revoca della concessione o dell’autorizzazione nel caso di violazioni gravi o reiterate (78). Da un lato, però, l’effetto di

77(?) Viene escluso, però, il beneficio del pagamento in misura ridotta previsto dall’art. 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

78(?) Il comma 4 dell’art. 51 T.U. prevede che «nei casi più gravi di violazioni di cui alle lettere h), i) e l) del comma 1, l’Autorità dispone

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deterrenza che ne deriva, è comunque pressoché nullo in tutte quelle ipotesi in cui i vantaggi economici derivanti dall’inosservanza delle disposizioni di legge siano superiori alla sanzione amministrativa pecuniaria conseguente alla commissione dell’illecito e, dall’altro, la valutazione della eventuale adozione di misure particolarmente incisive sulla libertà di manifestazione del pensiero, come la sospensione dell’attività e la revoca della concessione o dell’autorizzazione è rimessa ad un’Autorità amministrativa e non al giudice. Il richiamo a tale disciplina è necessario poiché questa - assieme agli altri modelli di responsabilità introdotti dal legislatore degli anni ’90 (79) - attribuendo a determinate Autority amministrative la facoltà di irrogare sanzioni alle persone giuridiche, è stata da molti considerata una forma di responsabilità diretta della persona giuridica e pertanto un modello “alternativo” alla responsabilità da reato di cui al recente D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (80). Non è questa la sede per procedere ad un’esegesi del sistema sanzionatorio che caratterizza le Autorità amministrative indipendenti ed, in particolare, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (81). Tuttavia, altresì, nei confronti dell’emittente o del fornitore di contenuti, la sospensione dell’attività per un periodo da uno a dieci giorni», mentre il comma 9 del medesimo articolo stabilisce che «se la violazione è di particolare gravità o reiterata, l’Autorità può disporre nei confronti dell’emittente o del fornitore di contenuti la sospensione dell’attività per un periodo non superiore a sei mesi, ovvero nei casi più gravi di mancata ottemperanza agli ordini e alle diffide della stessa Autorità, la revoca della concessione o dell’autorizzazione».

79(?) Intendiamo fare riferimento alla legge 10 ottobre 1990, n. 187, recante “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato” e alla legge 17 maggio 1991, n. 157, recante “Norme relative all’uso di informazioni riservate nelle operazioni in valori mobiliari e alla Consob”, novellato dal d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, “Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria”.

80(?) M.A. PASCULLI, La responsabilità da reato degli enti collettivi nell’ordinamento italiano. Profili dogmatici ed applicativi, Bari, Cacucci, 2005, 76.

81(?) Per un’attenta analisi delle caratteristiche di tali enti o organi pubblici dotati di sostanziale indipendenza dal Governo si rinvia

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può osservarsi che le Autorità indipendenti attualmente «si trovano fra la grande “tentazione” di far da giudice e, viceversa, la possibilità di svolgere un ruolo preventivo, regolatorio di base, di ordine di funzioni aziendali, di indirizzo di organizzazioni aziendali, di “consulenza” … forse il difetto non è tanto dell’autorità indipendente quanto del legislatore e, ancora una volta, della norma primaria da applicare che viene poi consegnata all’autorità indipendente» (82).

Volgendo, invece, lo sguardo alle conseguenze sanzionatorie che potrebbero ricadere sull’impresa giornalistica in seguito a comportamenti penalmente rilevanti di giornalisti che al suo interno svolgono la propria attività professionale, l’eventuale condanna di un giornalista e/o del direttore o vicedirettore responsabile al pagamento di una pena pecuniaria - per un reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità da loro rivestita, ovvero commesso nell’interesse dell’impresa giornalistica - potrebbe comportare un “coinvolgimento” dell’impresa giornalistica stessa solo nell’ipotesi in cui tali soggetti fossero insolventi. Infatti, ai sensi dell’art. 197 c.p. è possibile rintracciare in capo agli enti forniti di personalità giuridica - eccettuati lo Stato, le regioni, le province ed i comuni - un obbligo al pagamento di un equivalente monetario della pena pecuniaria qualora il condannato risulti insolvibile: si tratta di un’obbligazione civile sussidiaria delle persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende. La disposizione in parola prevede che tali enti, qualora sia pronunciata condanna per reato contro chi ne abbia la rappresentanza, o l’amministrazione, o sia con essi in rapporto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi

a A. LA SPINA – S. CAVATORTO, Le autorità indipendenti, Il Mulino, Bologna, 2008.

82(?) P. MARCHETTI, Il ruolo delle Autorità indipendenti, in Impresa e giustizia penale: tra passato e futuro, in Atti del Convegno, Milano, 14-15 marzo 2008, Giuffrè, Milano, 2009, 231.

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inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, ovvero sia commesso nell’interesse della persona giuridica, sono obbligati al pagamento, in caso di insolvibilità del condannato, di una somma pari all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta. Non ci troviamo di fronte ad una responsabilità diretta dell’ente ma ad un’obbligazione civile meramente sussidiaria, per la quale, tra l’altro, è previsto il diritto di regresso per l’intero nei confronti dell’autore della violazione. Tuttavia, la sporadica applicazione pratica della disposizione de qua, ancorata all’insolvibilità del condannato, e la modesta portata intimidatoria - dal momento che si prescinde dalle condizioni economiche della persona giuridica - ne sottolineano un limitatissimo impatto pratico (83). Se si riflette, poi, sul fatto che le sanzioni penali di tipo pecuniario previste dal nostro ordinamento come conseguenze di condotte lesive dell’onore sono irrisorie già se destinate al giornalista autore della condotta penalmente rilevante, non è difficile immaginare quale impatto possano avere le stesse, su un’impresa giornalistica, nell’ipotesi di insolvibilità del condannato: le somme che l’impresa editoriale potrebbe essere obbligata a pagare ai sensi dell’art. 197 c.p. potrebbero addirittura già essere “preventivate” dalla stessa e considerate come un “costo” cui far fronte aumentando, anche minimamente, il prezzo del prodotto editoriale.

Le medesime riserve avanzate a proposito dell’art. 197 c.p. si ripropongono a proposito della legge 24 novembre 1981, n. 689. Tale normativa, infatti, delude le aspettative di chi si accinge a ricercarvi un’ipotesi di

83(?) Ciò, del resto, trova conferma anche sul piano della casistica giurisprudenziale che, nelle poche pronunce in materia, ha messo in risalto esclusivamente problematiche di natura processuale. A tal proposito: Cass. pen. Sez. I, 19.10.1966, Mastantuono, in C.E.D. Cass., n. 104539; Cass. pen. Sez. III, 10.5.1966, Iraci, in C.E.D. Cass., n. 102490; Cass. pen. Sez. I, 20.2.1964, Scarpa, in C.E.D. Cass., n. 099216; Cass. pen. Sez. IV, 16.1.1963, Mariotta, in C.E.D. Cass., n. 098961.

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responsabilità della persona giuridica. L’art. 6 della legge appena richiamata si limita a tratteggiare esclusivamente una responsabilità solidale della persona giuridica o dell’ente privo di personalità giuridica con l’autore della violazione (rappresentante o dipendente della persona giuridica o dell’ente privo di personalità) per il pagamento della somma da questo dovuta, prevendo il diritto di regresso per l’intero nei confronti dell’autore della violazione laddove, più opportunamente, avrebbe potuto prevedere una responsabilità diretta dell’ente (84). La previsione di un’unica sanzione sia per l’autore materiale del reato che per la persona giuridica, da versare in solido, non conduce a risultati soddisfacenti in termini di prevenzione generale e speciale. Nel caso in cui, ad esempio, il direttore responsabile, violando quanto disposto dall’art. 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, non proceda a fare inserire gratuitamente nel giornale le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, e venga condannato al pagamento della sanzione amministrativa corrispondente, l’impresa giornalistica, potrà essere chiamata a rispondere

84(?) A tal proposito, evidenziano come il legislatore si sia lasciato sfuggire un’importante occasione per introdurre una responsabilità diretta della persona giuridica: C. FIORE, Pene accessorie, confisca e responsabilità delle persone giuridiche nelle “Modifiche al sistema penale”, in Arch. pen., 1982, 259; C.E. PALIERO – A. TRAVI, Sanzioni amministrative, in Enc. dir., vol. XLI, Giuffrè, Milano, 1989, 389.

In generale, a proposito dell’introduzione di un sistema sanzionatorio ex legge 24 novembre 1981, n. 689: T. PADOVANI, La distribuzione di sanzioni penali e di sanzioni amministrative secondo l’esperienza italiana, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, 952; E. DOLCINI Sanzione penale o sanzione amministrativa: problemi di scienza della legislazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, 589; G. LATTANZI, Sanzioni penali e sanzioni amministrative: criteri di scelta e canoni modali, in Foro it., 1985, V, 251; G. D’AURIA, L’“amministrazione repressiva”, in Pol. dir., 1996, 229.

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in solido per il pagamento della somma dovuta dal direttore.

L’impresa che esercita un’attività giornalistica potrà essere destinataria, quindi, delle disposizioni richiamate, ma esclusivamente nei limiti applicativi appena indicati. Tali strumenti, però, non possono essere di alcun ausilio per contrastare quella criminalità di impresa che connota specificamente l’impresa giornalistica e che può essere realizzata mediante la condotta penalmente rilevante dei giornalisti nell’esercizio della loro professione.

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CAPITOLO II

LA TRADIZIONALE RESPONSABILITÀ PENALE NEL DIRITTO PENALE DELLA STAMPA

SOMMARIO: 1. La responsabilità penale del direttore del periodico ex art. 57 c.p. – 2. (Segue): Il criterio di imputazione soggettiva dell’evento. – 3. L’esigenza di predisporre un meccanismo di controllo. – 4. (Segue): Il ricorso alla delega di funzioni. 5. – L’ “automatismo” della responsabilità del direttore. – 6. Direttore di giornale e mezzi di diffusione dell’informazione diversi dalla carta stampata: responsabilità penali a confronto. – 7. Il principio di personalità dell’illecito e il trattamento sanzionatorio riservato al direttore dall’art. 57 c.p. – 8. Le ulteriori ipotesi di responsabilità del direttore: a) il direttore autore dello scritto; b) il concorso di persone nel reato. – 9. La responsabilità penale del direttore di giornale negli ordinamenti stranieri. – 10. (Segue): a) il sistema francese. – 11. b) l’ordinamento spagnolo. – 12. (Segue): c) l’ordinamento tedesco. – 13. La fattispecie di omesso impedimento dei reati commessi col mezzo della stampa nei progetti di riforma del codice penale italiano.

1. La responsabilità penale del direttore del periodico ex art. 57 c.p.

Nel sistema delle responsabilità dei soggetti che prestano la propria attività professionale all’interno dell’impresa giornalistica la figura del direttore responsabile suscita particolare interesse per diversi ordini di ragioni. Da un lato, perchè tale soggetto rappresenta l’emblema del mondo dell’informazione; dall’altro, perché i profili di responsabilità emergenti dalla prassi applicativa non possono lasciare indifferente l’interprete che intende osservare da vicino il fenomeno dell’informazione e i suoi rapporti con il diritto penale e con gli strumenti di tutela che l’ordinamento pone a sua disposizione. Il profilo sotto il quale la figura del direttore responsabile assume significativa importanza è duplice: sul piano della

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responsabilità penale, per quanto pubblicato sul giornale da lui diretto e su quello della direzione in senso tecnico (ed anche politico) dello stesso. Basti pensare, a quest’ultimo proposito, ai rapporti con l’editore e con la redazione non dimenticando, tra l’altro, che in un contesto come quello italiano il fortissimo legame tra potere economico e stampa attribuisce al direttore un ruolo cardine ancora più importante.

Sul piano del diritto penale per decenni la responsabilità configurata dal codice penale ex art. 57 per il direttore responsabile ha determinato l’insorgere di forti dubbi e perplessità che ancora oggi non appaiono sopite. Sebbene il potere-dovere di controllo attribuito dal legislatore penale a tale soggetto sembra costituire un logico corollario della posizione da questi ricoperta nel settore giornalistico, la questione di fondo che emerge dalla responsabilità penale di tale soggetto per omesso controllo si colloca in un quadro che involge lo stesso principio di personalità dell’illecito.

Il punto di partenza per una riflessione che abbia ad oggetto l’art. 57 c.p. è rappresentato dalla (discutibile) collocazione di tale specifica ipotesi di fattispecie criminosa nella parte generale del codice penale, mantenuta anche dal legislatore della riforma (1). Forse tale ubicazione potrebbe essere giustificata dal fatto che la fattispecie ivi tipizzata sembra essere priva di un oggetto giuridico proprio, essendo invece finalizzata a rafforzare la tutela di quell’interesse a sua volta protetto dalle norme incriminatici di quei reati suscettibili di essere commessi attraverso la pubblicazione. Non va dimenticato che il suo campo applicativo si estende fino a coprire una vasta area criminosa, che ricomprende sia i reati consistenti in manifestazioni di pensiero, come il vilipendio delle istituzioni, l’apologia, le pubblicazioni oscene, la

1(?) P. NUVOLONE, La responsabilità penale del direttore di giornale nel quadro della teoria della colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1966, 1142, osservava come l’art. 57 c.p. fosse una disposizione che si poneva «a cavaliere tra la parte generale e la parte speciale del diritto penale».

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La tradizionale responsabilità penale nel diritto penale della stampa

diffamazione, la pubblicazione di notizie segrete, il trattamento illecito di dati personali; sia quei reati che prescindono da un’attività giornalistica in senso stretto, come quegli illeciti penali commessi attraverso la pubblicazione di lettere, inserzioni, annunci pubblicitari (2). Il rafforzamento della tutela di quegli interessi si concretizza assimilando, accanto a quella dell’autore dello scritto, l’ulteriore responsabilità di chi, provvisto dei poteri per farlo, non ha impedito la commissione del reato (3). Piuttosto che norma puramente incriminatrice l’art. 57 c.p., allora, potrebbe essere inteso come clausola di estensione della punibilità in quanto consente che ad ogni reato commesso col mezzo della stampa venga affiancata una fattispecie sanzionata a titolo di colpa (4). In questo senso

2(?) In quest’ultimo caso, a proposito della responsabilità del direttore per non aver impedito la pubblicazione di una lettera di un cittadino contenente accuse penalmente rilevanti nei confronti dei terzi: Cass. pen. Sez. V, 21.10.2003, Bottari, in Cass. pen, 2005, 3883, con nota di F. VERRI, Il «decalogo» delle Sezioni unite in materia di «diritto d’intervista» si applica alle lettere del direttore? Sulla responsabilità per omesso controllo ex art. 57 c.p. del direttore del giornale che consente l’uscita della locandina del periodico in cui si riscontra un contenuto diffamatorio per la falsità della notizia in essa riportata, compromettente la reputazione di una persona determinata v. Trib. Perugia, 8.2.1999, Botta, in Rass. giur. umbra, 1999, 575, con nota di D. BRUNELLI, Diffamazione a mezzo periodico e diffamazione a mezzo «civetta».

3(?) Nello stesso senso G. DELITALA, Titolo e struttura della responsabilità penale del direttore del giornale per reati commessi sulla stampa periodica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1959, 544; T. PADOVANI, Il momento consumativo nei rati commessi col mezzo della stampa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1971, 824; E. MUSCO, Stampa, in Enc. dir., vol. XLIII, Giuffrè, Milano, 1990, 633.

4(?) Prima facie potrebbe affermarsi, ad esempio, che attraverso l’applicazione dell’art. 57 c.p. possa delinearsi la figura della diffamazione colposa «la figura, cioè, colposa di un reato, del quale ogni altro componente della collettività risponde soltanto se ha agito con dolo»: A. GRIECO, Brevi note sulla responsabilità del direttore di giornale per i reati commessi col mezzo della stampa, in Scritti in onore di Alfredo De Marsico, vol. II, Giuffrè, Milano, 1960, 28. Tuttavia tale affermazione presterebbe il fianco a quelle critiche secondo cui si

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probabilmente si potrebbe comprendere la collocazione della norma di cui si discute nella parte generale del codice penale anche se, a nostro avviso, la sede naturale di tale disposizione sarebbe stata comunque la legge sulla stampa, poiché in questo modo la materia avrebbe assunto contorni maggiormente omogenei trattandosi di una fattispecie autonoma di reato (5). Pare opportuno precisare, comunque, che l’autonomia del reato di omesso controllo rispetto a quello commesso dall’autore della pubblicazione

profilerebbe una vera e propria incongruenza nel punire il direttore a titolo di colpa per un fatto eventualmente previsto dalla legge solo nella forma dolosa: G.D. PISAPIA, La nuova disciplina della responsabilità per i reati commessi a mezzo della stampa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1958, 323. Tali perplessità, comunque, sembrano venire meno riflettendo semplicemente sull’autonomia della fattispecie di cui all’art. 57 c.p.

5(?) Diversi sono gli elementi che consentono di affermare che l’omesso controllo ex art. 57 c.p. costituisce una fattispecie autonoma di reato. Tale affermazione fa perno su innegabili indici testuali. L’art. 58-bis, comma 2, c.p. stabilisce che «la querela, l’istanza o la richiesta presentata contro il direttore o il vice direttore responsabile, l’editore o lo stampatore, ha effetto anche nei confronti dell’autore della pubblicazione per il reato da questo commesso» ma la speculare assenza di un’opposta previsione che preveda l’effetto estensivo per il direttore della querela proposta contro l’autore della pubblicazione consente di ricavare che la responsabilità del direttore o del vicedirettore non possa essere considerata accessoria rispetto a quella dell’autore della pubblicazione (si è però precisato che l’autonomia del reato de quo non va intesa in senso assoluto ed oggettivo sia per l’identità dell’interesse leso sia perché il secondo reato costituisce l’evento rispetto al primo, preferendo definire il rapporto tra i due reati come accessorietà genetica. Così M. ROMANO, Sub art. 57, in Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Art. 1 – 84, Giuffrè, Milano, 2004, 581). Inoltre, dalla clausola «fuori dei casi di concorso» utilizzata dal legislatore all’interno dello stesso art. 57 c.p. si evince che l’alternativa rispetto al concorso non può costituire che l’autonomia della figura criminosa prevista. Non sarebbe possibile affermare che ci si trovi dinanzi ad un caso di concorso colposo nell’altrui reato doloso in cui il concorso colposo del direttore nel reato doloso commesso dall’autore della pubblicazione sarebbe fondato sul fatto che gli elementi costitutivi dell’illecito del primo sono integrati di volta in volta dalla realizzazione dell’illecito del secondo. Ulteriori

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non va intesa nel senso oggettivo di un illecito che lede un interesse differente da quello colpito dall’autore della pubblicazione. In altri termini, autonomia di fattispecie non esprime ineluttabilmente il significato di autonomia di interesse protetto.

2. (Segue) Il criterio di imputazione soggettiva dell’evento.

Una delle questioni più rilevanti sulle quali si è essenzialmente (o forse sarebbe meglio dire esclusivamente) concentrata l’attenzione della dottrina a proposito della fattispecie di cui all’art. 57 c.p., nella sua attuale formulazione, attiene all’esatta individuazione del criterio di imputazione soggettiva dell’evento (6). Com’è elementi, poi, consentono di pervenire alle medesime conclusioni: molti dei provvedimenti di aministia includono nell’ambito di applicazione della causa estintiva “i reati previsti dall’art. 57 c.p. commessi dal direttore o vicedirettore responsabile, quando è noto l’autore della pubblicazione”, indipendentemente dalla concessione di amnistia per tutti o alcuni dei reati commessi con il mezzo della stampa. V., infatti, art. 1 lett. e) d.P.R. 4 giugno 1966, n. 332; art. 1 lett. c) d.P.R. 4 agosto 1978, n. 413; art. 1 lett. c) d.P.R. 18 dicembre 1981, n. 744; art. 1 lett. b) d.P.R. 12 aprile 1990, n. 75.

Le conseguenze del rapporto di autonomia tra il reato di cui all’art. 57 c.p. e quello commesso a mezzo della pubblicazione sono diverse. Nel caso di diffamazione, ad esempio, è possibile che l’accertamento di tale reato intervenga a prescindere da quello relativo all’omesso controllo del direttore ex art. 57 c.p., ma non è ammissibile che avvenga l’esatto contrario.

6(?) All’interno della fattispecie dell’art. 57 c.p., il reato posto in essere dall’autore della pubblicazione costituisce l’evento e non una condizione oggettiva di punibilità. La stessa dizione lessicale «se un reato è commesso» potrebbe far propendere per l’opposta conclusione, ma è noto che i criteri letterali non possono considerarsi del tutto vincolanti. La natura di evento in senso tecnico è confermata anche dal fatto che non avrebbe senso ritenere che il direttore svolga un’attività di vigilanza fine a se stessa. Sia la giurisprudenza di merito sia quella di legittimità è unanime in tal senso. A tal proposito: Trib.

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noto, l’attuale formulazione dell’art. 57 c.p. è la seguente: «Salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo». Ora, l’opinione di chi ritiene che «l’art. 57 c.p., con l’ibrido riferimento al titolo della responsabilità non si colloca correttamente da nessuna parte» rappresenta perfettamente l’espressione delle incertezze che inevitabilmente affiorano dalla formulazione di tale disposizione (7). Infatti, nonostante l’intervento del legislatore della riforma, i dubbi che

Bologna, 27.2.2008, in Dir. pen. e processo, 2008, 12, 1557, con nota di A. ASTROLOGO, L’insindacabilità parlamentare e la responsabilità penale del direttore del periodico; Cass. pen. Sez. V, 15.2.2008, Rutelli, in C.E.D. Cass., n. 239481; Cass. pen. Sez. V, 8.4.2003, Leone, in Guida al dir., 2003, 36, 94; Cass. pen. Sez. V, 26.2.2003, Graldi, in Riv. pen., 2004, 145; Cass. pen. Sez. V, 28.5.1999, Monti, in Giust. pen., 2000, II, 596; Cass. pen. Sez. U. 18.11.1958, Clementi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1959, 543.

In dottrina, tra gli altri, ritengono si tratti di evento: P. NUVOLONE, La responsabilità penale del direttore di giornale nel quadro della teoria della colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1966, 1131; C.F. GROSSO, Stampa, in Enc. giur., vol. XXX, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1993, 4; F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. g., 5a ed., Cedam, Padova, 2007, 385; F. ANTOLISEI, Manuale di dir. pen., pt. s., vol. I, 15ª ed., a cura di C.F. Grosso, Giuffrè, Milano, 2008. Hanno optato, invece, per la qualificazione di condizione oggettiva di punibilità: R.A. FROSALI, Sistema penale italiano, Utet, Torino, 1958, 51 ss.; R. PANNAIN, La responsabilità penale per i reati commessi a mezzo stampa, in Arch. pen., 1958, I, 212; G.D. PISAPIA, La nuova disciplina della responsabilità per i reati commessi a mezzo della stampa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1958, 321.

7(?) A. COVIELLO, Sub Art. 57 c.p., in Commentario al codice penale, diretto da G. Marini - M. La Monica - L. Mazza, Utet, Torino, 2002, 525.

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continuano a caratterizzare la fattispecie ivi contemplata sono innumerevoli (8).

Dalla lettura della disposizione emerge immediatamente la singolarità dell’inciso «a titolo di colpa» se si considera che, da un lato, all’interno del codice penale il legislatore quasi mai vi ha fatto ricorso - se non nel caso dell’art. 83 c.p. a proposito dell’evento diverso da quello voluto dall’agente - e, dall’altro, che tutte le volte in cui ha effettivamente inteso far dipendere la rilevanza penale di un fatto di reato dalla presenza della colpa il legislatore si è avvalso di una formulazione differente (9).

8(?) Uno degli elementi che consente di sottolineare le evidenti difficoltà interpretative derivanti dalla disposizione de qua anche nell’attuale formulazione è rappresentato dai numerosi interventi della Corte costituzionale che più volte è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 57 c.p. I giudici costituzionali, però, hanno sempre dichiarato l’infondatezza delle questioni loro sottoposte.

9(?) Anche a proposito dell’aberratio delicti l’ambigua formula utilizzata dal legislatore «a titolo di colpa» ha determinato l’insorgere di posizioni contrastanti. Da un lato, si è optato per una interpretazione che considera responsabile il soggetto agente dell’evento non voluto solo se attribuibile a sua colpa. Dall’altro, si ritiene invece che il criterio di attribuzione di tale responsabilità sia la responsabilità oggettiva. Nel primo senso A. CADOPPI, – P. VENEZIANI, Elementi di diritto penale, pt. g., 3ª ed., Cedam, Padova, 2007, 340; F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. g., cit., 377; A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, pt. g., 8a ed., Giuffrè, Milano, 2003, 627; nel secondo G. FIANDACA, - E. MUSCO, Diritto penale, pt. g., 5ª ed., Zanichelli, Bologna, 2007, 389; B. ROMANO, Guida alla parte generale del diritto penale, Cedam, Padova, 2009, 322. Sul reato aberrante v. G.A. DE FRANCESCO, Aberratio: teleologismo e dommatica nella ricostruzione delle figure di divergenza nell’esecuzione del reato, Giappichelli, Torino, 1998.

Va comunque evidenziato che, di recente, le Sezioni unite della Cassazione (con sent. n. 22676 del 22.1.2009, Ronci, in Riv. dir. fam. e delle pers., 1691, con nota di A. MINO, Il criterio di imputazione della responsabilità dello spacciatore per la morte del tossicodipendente: le Sezioni unite ammettono la colpa in attività illecita) si sono pronunciate a proposito dell’imputazione soggettiva dell’evento non voluto ex art. 586 c.p., fattispecie comunemente considerata un’ipotesi di aberratio delicti, ammettendo la configurabilità della c.d. colpa in attività illecita. È appena il caso di evidenziare comunque che nell’ipotesi di cui all’art. 57 c.p. il comportamento del direttore si

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Prima facie, allora, potrebbe ritenersi che il legislatore abbia optato per una forma di responsabilità oggettiva, trattando “come se fosse” colposo un fatto che sostanzialmente presenta una struttura diversa. Diversi Autori, infatti, hanno prediletto tale lettura considerando l’inciso «a titolo di colpa» non come elemento fondante la struttura dell’elemento soggettivo, ma come indice del trattamento sanzionatorio riservato al direttore (10).

L’orientamento prevalente in dottrina, invece, tende a considerare la fattispecie tipizzata dall’art. 57 c.p. strutturalmente colposa (11). L’interpretazione in chiave inserisce nell’ambito di un’attività consentita.

10(?) R. PANNAIN, La responsabilità penale, cit., 213; G.D. PISAPIA, La nuova disciplina, cit., 318; A. PAGLIARO, La responsabilità per i reati commessi col mezzo della stampa periodica secondo il nuovo testo dell’art. 57 c.p., in Scritti giuridici in onore di Alfredo De Marsico, vol. II, Giuffrè, Milano, 1960, 244 (cfr., però, infra nt. 25).

Più di recente, sottolinea il rischio del prospettarsi di una responsabilità oggettiva, A. COVIELLO, Sub Art. 57 c.p., cit., 525 ss. L’A., premettendo che titolo e fondamento della responsabilità sono due concetti diversi che non devono essere confusi tra loro, osserva che il legislatore, nell’indicare solo il titolo di responsabilità del direttore non chiarendo quale sia l’elemento soggettivo della fattispecie legale omissiva, abbia finito per delineare una vera e propria forma di responsabilità oggettiva.

11(?) I. CARACCIOLI, Manuale di diritto penale, pt. g., 2ª ed., Cedam, Padova, 2005, 468; G. MARINUCCI – E. DOLCINI, Manuale di diritto penale, pt. g., 2ª ed., Giuffrè, Milano, 2006, 288; G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, pt. g., cit., 635; F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. g., cit., 386; B. ROMANO, Guida alla parte generale, cit., 308.

Parte della dottrina esclude la possibilità di ricondurre la fattispecie in questione fra le ipotesi di agevolazione colposa in quanto il direttore può considerarsi penalmente responsabile soltanto quando abbia reso possibile la realizzazione del reato a mezzo stampa e non solo quando ne abbia semplicemente agevolato la realizzazione. La ragione risiederebbe nel fatto che all’interno dell’art. 57 c.p. non appare possibile rinvenire «alcun dato testuale che autorizzi un’interpretazione per la quale si possa concludere che il direttore debba rispondere anche nel caso in cui la condotta di omessa vigilanza abbia semplicemente “facilitato” la realizzazione del reato a mezzo stampa»: F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Giuffrè, Milano, 1984, 115. In senso contrario: T. VITARELLI, Evento colposo e limiti del

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colposa si porrebbe in armonia con il principio della responsabilità penale personale e corrisponderebbe con l’obiettivo del legislatore della riforma che, intenzionato a superare il problema della responsabilità oggettiva, non l’avrebbe poi introdotta comunque “sotto le mentite spoglie” di una responsabilità colposa (12). Quest’ultimo criterio di imputazione soggettiva postula, quindi, una colpa concepita e accertata nei suoi requisiti ordinari: occorrerà poter muovere un rimprovero al direttore per un

dovere obiettivo di diligenza nella responsabilità penale del direttore di stampa periodica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 1224 ss.; M. POLVANI, La diffamazione a mezzo stampa, Cedam, Padova, 1998, 225; I. SANTANGELO, La responsabilità del Direttore nella diffamazione a mezzo stampa, in Giur. merito, 2001, 451. Parte della giurisprudenza di merito ritiene il reato previsto dall’art. 57 c.p. riconducibile alla categoria delle fattispecie colpose di evento, disegnando una ipotesi delittuosa di agevolazione colposa, con esclusione di ogni possibilità di dare corpo a figure di responsabilità obiettiva. Così Trib. Trento, 16.1.2001, in Riv. pen., 2001, 849.

12(?) In ogni caso, sia l’interpretazione che ritiene si tratti di una forma di responsabilità oggettiva, sia quella che preferisce una lettura in chiave colposa poggiano su argomentazioni del tutto plausibili. E pertanto non deve destare stupore come quella dottrina che in un primo momento considerava siffatta forma di responsabilità non riconducibile allo schema colposo ha successivamente evidenziato come la pura e semplice prevedibilità ed evitabilità dell’evento – sufficiente nei casi di responsabilità oggettiva – non può considerarsi sufficiente nei reati di stampa posto che l’importanza della professione del giornalista e il suo riconoscimento giuridico impongono di costruire intorno all’attività del direttore del periodico una sfera di rischio consentito. Di conseguenza, il reato commesso col mezzo della pubblicazione potrà essere attribuito, per omesso controllo, solo quando questa omissione abbia natura e dimensioni tali, da andare oltre il limite del rischio consentito in un normale esercizio delle funzioni di direttore del periodico. Affinché possa configurarsi la responsabilità penale del direttore è necessario considerare tutte le circostanze concrete come le necessità imposte dai tempi di chiusura del periodico, il rilievo anche tipografico dato alla notizia, la specificità delle competenze richieste per giudicare del suo contenuto, e così via. L’omissione di controllo da parte del direttore per essere qualificata come reato deve riportarsi ad una sua negligenza, imprudenza o imperizia o alla inosservanza di regole giuridiche sulla professione di

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evento non voluto sebbene prevedibile - rappresentato dal reato commesso da un terzo soggetto a mezzo della pubblicazione (13) - cagionato mediante la violazione di regole cautelari di condotta e che il direttore poteva evitare se avesse osservato, così come era in suo potere, la regola violata. Se così è, la mera violazione dell’obbligo di controllo imposto dall’art. 57 c.p. non può considerarsi sufficiente al fine di individuare una responsabilità penale in capo al direttore, ma occorrerà verificare altresì se

giornalista: il direttore deve essere in colpa. Così A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, pt. g., cit., 332, nt. 100.

13(?) A proposito del reato commesso dall’autore della pubblicazione è necessario domandarsi se debba essere perfetto in tutti i suoi estremi anche soggettivi o se sia sufficiente la realizzazione oggettiva di un fatto di reato. Sul punto la dottrina è divisa. Infatti, se, da un lato, potrebbe apparire difficilmente comprensibile l’irrilevanza penale dell’omesso controllo del direttore sol perché l’autore dell’articolo non risulta punibile e se, tenendo in considerazione la stessa ratio dell’art. 57 c.p., dovrebbe assumere rilievo non tanto la punibilità dell’autore dell’articolo quanto l’oggettiva lesività dello scritto (F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. g., cit., 385); dall’altro, qualora quest’ultimo venisse prosciolto per mancanza dell’elemento soggettivo, punire comunque il direttore del periodico per omesso controllo potrebbe apparire irragionevole e allora sembrerebbe necessario che l’autore abbia comunque posto in essere un reato completo in tutti i suoi elementi costitutivi. Le argomentazioni a sostegno di quest’ultimo punto di vista traggono forza dallo stesso esordio dell’art. 57 c.p. «salva la responsabilità dell’autore e fuori dai casi di concorso» e dall’articolo successivo, il 57-bis del codice penale, il quale prevede una responsabilità sussidiaria in caso di reati commessi col mezzo della stampa non periodica in caso di autore ignoto o non imputabile: se il legislatore ha deciso di ancorare la responsabilità dell’editore e dello stampatore alla non imputabilità dell’autore dell’articolo se ne deve dedurre che essa presuppone un reato completo di tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi (C.F. GROSSO, Responsabilità penale per i reati commessi col mezzo della stampa, in Riv. pen., 1971, I, 413). Secondo altri la soluzione più corretta appare comunque quella di pretendere che il reato commesso col mezzo della pubblicazione sia perfetto in tutti i suoi estremi anche soggettivi ma deve sottolinearsi che l’interpretazione di “reato commesso” come fatto tipico, antigiuridico e colpevole non comporta che sul direttore incomba l’obbligo di controllare anche

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l’omesso controllo sia dovuto alla violazione di una regola cautelare (14). È indispensabile, allora, verificare quale sia la regola cautelare volta a prevenire il verificarsi dell’evento rappresentato dal reato commesso attraverso la pubblicazione.

Infatti, se si intende procedere all’accertamento di un reale profilo di colpa in capo al direttore, scongiurando di dare vita, nei fatti, ad un caso di responsabilità oggettiva (15), si rende indispensabile verificare quali siano le cautele che il direttore deve osservare – e quali i contorni che esse debbano assumere – affinché non possa essergli mosso alcun rimprovero per l’omesso controllo su quanto pubblicato. La disciplina dell’illecito colposo richiede, cioè, ai fini della rimproverabilità dell’omesso controllo necessario, la ricostruzione di una o più regole di diligenza, la cui osservanza consentirebbe al direttore di andare esente da responsabilità penale. Anche qui, allora, sarà necessario fare ricorso alla figura dell’agente modello, tradizionalmente ricostruito sulla base dell’homo ejusdem professionis et condicionis. La misura di diligenza richiesta, l’atteggiamento psicologico dell’autore dello scritto ma che la sua responsabilità è ancorata al requisito della penale responsabilità di quest’ultimo (E. MUSCO, Stampa, cit., 641). A nostro avviso appare più logico ritenere che il reato commesso dell’autore della pubblicazione debba essere perfetto sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo poiché sembra irragionevole la sottoposizione a sanzione penale del solo direttore qualora, al tempo stesso, la condotta dell’autore dell’articolo non possa considerarsi penalmente rilevante in quanto priva di tutti gli elementi necessari ad integrare un illecito penale.

14(?) Tra coloro che ritengono che la condotta omissiva del direttore debba essere dovuta ad un atteggiamento negligente, imprudente o imperito F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. g., cit., 386; G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, pt. g., cit., 635.

A. PAGLIARO, Il reato, in Trattato di dir. pen., diretto da C.F. Grosso - T. Padovani - A. Pagliaro, Giuffrè, Milano, 2007, 129, ritiene che per costituire reato la condotta del direttore possa riportarsi ad una sua negligenza, imprudenza o imperizia oppure alla inosservanza di regole giuridiche sulla professione di giornalista.

15(?) O, meglio, in un caso di responsabilità oggettiva occulta. A tal proposito F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. g., cit., 381.

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infatti, va ricostruita ex ante sulla base del punto di vista dell’uomo coscienzioso e avveduto e sulla misura della prevedibilità del fatto che secondo tale ottica può essere richiesta: occorrerà fare riferimento al comportamento doveroso tenuto dal “direttore modello”. A nostro avviso, al fine di individuare la regola di diligenza e soprattutto la misura della stessa, occorrerebbe soffermarsi su un aspetto posto in risalto (già un ventennio addietro) da quella dottrina che sottolineava come nello specifico settore del quale ci stiamo occupando «la fissazione della regola di diligenza presuppone, da un lato, la ricognizione dell’attuale realtà dell’azienda giornalistica, del suo modo di essere, delle sue sempre più crescenti esigenze di espansione, dei nuovi ruoli e dei nuovi compiti da essa assunte, del modo sempre più automatizzato di lavorare, dell’accentuata concorrenzialità fra le varie aziende e fra mezzi di comunicazione dotati di differente velocità, ecc.; e, dall’altro, l’individuazione di situazioni tipiche rispetto alle quali l’esperienza ha evidenziato il pericolo dell’insorgenza di fatti dannosi … richiedere al direttore un controllo assiduo, capillare – senza precisare gli ambiti, il settore, i tipi di attività sottoposti a controllo, ecc. – può voler dire e di fatto vuol dire condizionare pesantemente, al di là di ogni ragionevolezza, la legittima attività di informazione svolta dalla stampa» (16). Veniva proposta, così, una modulazione della incisività del controllo in base alla tipologia dell’informazione riportata distinguendo innanzitutto tra cronaca in senso stretto e valutazione degli accadimenti riportati. La capillarità del controllo avrebbe dovuto essere direttamente proporzionale all’impatto della notizia sulla realtà sociale (17).

16(?) E. MUSCO, Stampa, cit., 643.17(?) E. MUSCO, Stampa, cit., 643. Altra dottrina, a proposito

dell’impossibilità di un controllo capillare e continuo da parte del direttore ha affermato come tale impossibilità rappresentasse un’esatta critica alla norma di cui all’art. 57 c.p. non potendo assumere, però, alcun valore per l’interpretazione della stessa, P. NUVOLONE, Reati di stampa, Cedam, Padova, 1971, 109.

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Sarebbe superfluo sottolineare che prescindere da un concreto accertamento dell’elemento soggettivo significherebbe chiamare a rispondere un soggetto che, in quanto direttore, viene considerato responsabile perché un terzo commette un reato, prospettandosi così la possibilità di aprire il varco ad una ipotesi di colpa presunta. Tuttavia, sembra che tale fenomeno caratterizzi proprio il piano applicativo della responsabilità ex art. 57 c.p. Infatti, nonostante la giurisprudenza ritenga la colpa l’elemento soggettivo che caratterizza il reato di omesso controllo, in diverse pronunce è possibile leggere che in tale settore la colpa si concretizza nell’inosservanza della specifica regola di condotta assorbita e tipicizzata all’interno della stessa norma incriminatrice che impone al direttore l’obbligo di attivarsi procedendo al controllo sul contenuto della pubblicazione: colpa identificata non nella generica negligenza, imprudenza o imperizia né nella inottemperanza rispetto a positivizzati dettami cautelari, ma nella stessa inosservanza del precetto penale che impone ad un soggetto qualificato di attuare il dovuto controllo (18). In altri termini, la giurisprudenza ritiene si tratti di un’ipotesi di colpa per inosservanza di disposizioni di legge che, nel caso di specie, si identifica proprio nella violazione dell’art. 57 c.p. che prescrive al direttore il dovere di esercitare il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati (19). Si

18(?) Cass. pen. Sez. V, 30.11.2004, Licata, in Giur. it., 2005, 2386, con nota di D. FALCINELLI, Ipse dixit: si stampi!; Cass. pen. Sez. V, 10.1.2001, Forleo, in Cass. pen., 2002, 2345, con nota di G. LE PERA, Articolo non firmato e responsabilità del direttore: un pericoloso ritorno alla responsabilità senza colpa.

19(?) Nella giurisprudenza di merito si è affermato che la colpa di cui è chiamato a rispondere il direttore «non è ravvisabile genericamente nella negligenza o imprudenza, ma è espressamente individuata dalla legge nella inosservanza di una specifica norma cautelare: la regola di condotta contenuta a contrario nell’art. 57 c.p.: la condotta omissiva può essere indifferentemente volontaria o colposa e in tal caso costituiranno ipotesi equivalenti di condotta contraria al precetto l’omissione colposa di controllo tout court, la negligenza nella

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finisce, così, col confondere la questione della rilevanza oggettiva dell’omesso controllo con la problematica attinente l’accertamento del coefficiente psicologico in capo al direttore. Basti pensare che la stessa Cassazione ha affermato che «in relazione alla fattispecie prevista dall’art. 57 c.p. la prova della colpa del direttore o vicedirettore responsabile si identifica con la prova dell’omissione cosciente e volontaria del controllo sul periodico» (20). Ma l’inosservanza dell’obbligo giuridico di impedire l’evento non può ritenersi senz’altro colposa (21). Infatti, se le ragioni che potrebbero condurre a tale infelice conclusione – giungendo così a perdere di vista, sul piano interpretativo, la non automatica coincidenza tra la fattispecie omissiva e quella colposa – appaiono individuabili nella stessa struttura del reato colposo all’interno del quale è possibile individuare un momento omissivo (22), ciò non potrebbe giustificare l’identificazione della colpa con l’inosservanza dell’obbligo giuridico di impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati invertendo, in sostanza, l’onere probatorio e ritenendo sufficiente il semplice accertamento dell’omesso controllo del direttore. Invece, l’equivoco che conduce ad identificare la questione della rilevanza oggettiva dell’omissione e della sua efficacia causale con la questione della presenza del coefficiente psicologico è tutt’altro che infrequente: accertata la verificazione sua esecuzione, l’inadeguata valutazione della liceità penale dell’articolo». Così, Trib. Milano, 16.7.2003, n. 6415, inedita.

20(?) Cass. pen. Sez. V, 5.5.1981, Valentini, in Riv. pen., 1982, 205. Più di recente, nella giurisprudenza di merito, è stato nuovamente ribadito che la prova della colpa del direttore «si identifica con la prova stessa dell’omissione, cosciente e volontaria, da parte del colpevole di detto controllo, senza che sia necessario accertare se la omissione abbia avuto luogo per colpa»: Trib. Milano, 23.5.2003, n. 3887, inedita.

21(?) F. STELLA, Omissione di controllo e inadeguata valutazione della liceità penale di uno scritto diffamatorio da parte del direttore responsabile di un periodico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1962, 244.

22(?) Sul c.d. momento omissivo della colpa v. F. GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Cedam, Padova, 1993, 90 ss.

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dell’evento e constatata la sussistenza della posizione di garanzia, se ne ricava l’esistenza di un inosservato obbligo di diligenza che determina il rimprovero per colpa in capo al direttore. Le ragioni che conducono a tale ingiustificata commistione probabilmente risiedono nella mancata distinzione tra due categorie di obblighi: l’obbligo di garanzia, che fonda la responsabilità a titolo di omesso impedimento dell’evento, e l’obbligo di diligenza, che ha ad oggetto l’adozione di determinate misure cautelari. È evidente che il primo attiene alla causalità omissiva e il secondo alla colpa (23). Il contenuto dei due obblighi è differente in quanto, mentre l’obbligo di garanzia si identifica nell’obbligo di agire in modo da impedire il verificarsi di eventi dannosi (che possono anche consistere nella condotta di terzi soggetti), l’obbligo di diligenza si identifica nell’osservanza di particolari cautele che devono guidare la condotta del soggetto (24).

Di segno radicalmente opposto e forse, paradossalmente, per certi aspetti, maggiormente ancorata alla realtà giornalistica è una recentissima pronuncia di un giudice di merito in cui si afferma che «l’art. 57 è normativamente connotato dal dolo» (25). Nella decisione in discorso si prende atto dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che ha costantemente

23(?) F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. g., cit., 170, nt. 47. 24(?) A tal proposito, in dottrina vi è chi sostiene che nell’ambito

delle fattispecie omissive improprie le due categorie di obblighi di cui si discute finiscono con l’intersecarsi e coincidere sul piano concreto in quanto il garante, al fine di impedire che l’evento si verifichi, è tenuto a porre in essere «quanto gli è imposto dall’osservanza delle regole di diligenza dettate dalla situazione particolare» ma, al tempo stesso, da un punto di vista concettuale occorrerebbe distinguere il dovere di diligenza e l’obbligo di impedire l’evento in quanto la misura del dovere di diligenza non potrebbe superare quella cui il soggetto è obbligato come garante: G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, pt. g., cit., 615.

25(?) Trib. Catania, 1.1.2010, in Riv. pen., 2010, 538, con nota di L. TERZI, La responsabilità penale del direttore di stampa periodica è dolosa.

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mantenuto un atteggiamento rigoroso nell’applicazione pratica della norma, nonostante la crescente ed obiettiva difficoltà in capo al direttore di controllo globale (non delegabile) sull’intero contenuto del giornale. Difficoltà di controllo derivante dalle «significative modifiche intervenute nel settore editoriale, implicanti tra l’altro una diversa diffusione territoriale delle sedi di trasmissione, la dilazione della mole di notizie e di materiale oggetto di pubblicazione, una significativa contrazione dei tempi intercorrenti tra l’inoltro e l’edizione degli articoli giornalistici» (26). Il giudice di merito afferma, così, che, pur volendo osservare l’orientamento che non riconosce alcuna rilevanza alle problematiche di organizzazione interna dell’impresa giornalistica «non può del tutto eludersi l’indagine relativa alla ricorrenza dell’elemento soggettivo del reato, che resta pur sempre normativamente connotato dal dolo». Nelle motivazioni della sentenza si prosegue, inoltre, affermandosi che se, da un lato, non può negarsi che sul direttore gravi un obbligo di controllo sulla continenza del linguaggio e sulla metodologia utilizzata dall’autore dell’articolo, dall’altro, in capo a tale soggetto deve riconoscersi «un legittimo spazio di affidamento alla professionalità del giornalista quanto ai dettagli dell’articolo che di quel corretto iter sia il risultato, non potendo richiedersi alla figura di controllo un livello di penetrazione nel contenuto di ciascun pezzo che, duplicando senza differenze soggettive l’onere di rispetto dei canoni giornalistici, vanificherebbe le finalità dell’organizzazione aziendale rendendo anche inattuabili i tempi di edizione del quotidiano».

Le conclusioni cui giunge la sentenza de qua si presentano certamente innovative sul piano giurisprudenziale e si pongono in linea con quell’orientamento dottrinale secondo il quale la fattispecie omissiva contemplata nell’art. 57 c.p. sia dolosa e disciplinata solo quoad poenam come se fosse colposa,

26(?) Trib. Catania, 1.1.2010, cit.

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mentre il reato commesso attraverso la pubblicazione andrebbe qualificato come condizione obiettiva di punibilità (27). In tale ottica il rispetto del principio di personalità dell’illecito può considerarsi, nei fatti, garantito solo secondo l’interpretazione proposta. Se, da un lato, siffatta lettura giurisprudenziale si propone di mitigare il fine sin troppo repressivo dell’art. 57 c.p., dall’altro, rappresenta un netto segnale della presa d’atto, perlomeno da parte delle Corti di merito, delle difficoltà interpretative che inevitabilmente affiorano da tale disposizione la cui formulazione non consente di individuare reali profili di colpa e della acronisticità della stessa che non tiene conto dell’attuale assetto della struttura edotoriale.

3. L’esigenza di predisporre un meccanismo di controllo.

Quando il legislatore diede vita all’art. 57 c.p. procedendo poi alla sua successiva modifica, i periodici e soprattutto i quotidiani avevano ridotte dimensioni e pertanto potevano costituire oggetto di un efficace e personale controllo da parte del direttore. Con il trascorrere degli anni l’art. 57 c.p. è stato, per così dire, “messo alla prova” dalla stessa struttura degli organi di informazione che è divenuta sempre più articolata e che presenta una diversa connotazione rispetto a quella di fronte alla quale si era trovato il legislatore del 1930 e poi quello del 1958. Se ci si sofferma sulle incombenze che quotidianamente gravano sul direttore di una grande testata giornalistica e sull’eterogeneità degli impegni di cui tale soggetto risulta essere titolare ci si trova inevitabilmente dinanzi ad una alternativa: o il direttore procede ad una vigilanza e un controllo per così dire

27(?) F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, cit., 110.

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“totalizzanti”, estremamente accurati e rigorosi, finalizzati ad evitare la realizzazione di un reato a mezzo stampa o si occupa della direzione del giornale. Il controllo, allora, dovrebbe essere parametrato alle circostanze del singolo caso di specie; altrimenti si imporrebbe uno standard di diligenza talmente elevato da risultare paralizzante per l’ordinario svolgimento dell’attività giornalistica (28).

Per superare tale impasse occorrerebbe prendere in considerazione l’effettivo ruolo da questi svolto nell’ambito del giornale ma soprattutto valutare le caratteristiche dell’organizzazione al cui vertice il direttore si trova. Probabilmente solo la predisposizione di un efficace meccanismo di controllo potrebbe rappresentare una soluzione plausibile che il diritto penale dovrebbe accogliere e riconoscere attribuendo rilevanza all’organizzazione e alla struttura del giornale e tenendo conto delle dimensioni assunte dalle attuali imprese giornalistiche (29).

E allora, se il direttore ha dato vita ad un’organizzazione di lavoro che gli impedisce di attuare il controllo che la stessa legge gli impone si potrebbe muovergli un rimprovero proprio perché questi si è posto nella condizione di non poter procedere a tale controllo pur essendo titolare di una specifica posizione di garanzia. Ma, al tempo stesso, appare naturale domandarsi se si possa individuare un reale profilo di colpa anche nell’ipotesi in cui

28(?) Nella giurisprudenza di merito in una fattispecie in cui il fatto narrato dal giornalista non presentava alcun allarme, si è affermato che al direttore non si potesse muovere alcun addebito in assenza di elementi sintomatici tali da indurre a ritenere che il giornalista avesse adottato una procedura metodologicamente scorretta con la necessità di attivare un controllo maggiormente pervasivo di quello ordinario: Trib. Milano, 3.2.2004, n. 1079, inedita.

29(?) Secondo C.F. GROSSO, Responsabilità penale, cit., 55 e 135, l’articolo 57 c.p. configura un «dovere che, modellandosi diversamente a seconda delle caratteristiche di ciascun tipo di periodico, specie nelle ipotesi dei grandi giornali quotidiani, si sostanzia nel dovere di precostituire un meccanismo di controllo, che deve operare sotto la continua e attenta vigilanza del direttore stesso».

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il direttore abbia organizzato una struttura del giornale che gli consenta di procedere ad un controllo personalmente (laddove materialmente possibile) o, in alternativa, in caso di testata giornalistica di grandi dimensioni, delegando ai capiredattori il controllo specifico per ogni settore di appartenenza.

4. (Segue) Il ricorso alla delega di funzioni.

Non è semplice immaginare un modus operandi attraverso il quale il direttore potrebbe concretamente assolvere al proprio compito senza ricorrere alla collaborazione di altri soggetti cui poter conferire funzioni di coordinamento e di controllo, per lo meno sulle redazioni distaccate. Una soluzione potrebbe individuarsi nella delega di funzioni ed infatti da tempo si osserva come il tipico modo di operare nel settore giornalistico si caratterizza proprio per il ricorso alla delega da parte del direttore nei confronti dei suoi collaboratori (30).

Il problema risiede, ovviamente, nella possibilità che tale strumento possa produrre i suoi effetti anche nel diritto penale escludendo la responsabilità del direttore del giornale. Parte della dottrina si è soffermata su una possibile apertura giurisprudenziale verso la ammissibilità della delega di funzioni nel settore giornalistico sulla base di una nota pronuncia della Corte di Cassazione che ammetteva, in caso di ferie del direttore, un affiancamento sostitutivo temporaneo di un condirettore, consentendo così che quest’ultimo potesse essere chiamato a rispondere ex art. 57 c.p., in luogo del direttore, del reato commesso attraverso la pubblicazione (31). Si è osservato

30(?) G. FIANDACA, È «ripartibile», cit., 572.31(?) P. PISA, Nuove tendenze giurisprudenziali in tema di

responsabilità del direttore di periodico, in Dir. pen. e processo, 1998, 333, nota a Cass. pen., 20.11.1997, Scalfari.

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infatti che, una volta ammessa la configurabilità della responsabilità penale per un reato a mezzo stampa di un soggetto fisicamente diverso dal direttore responsabile (il condirettore), nessun ostacolo concettuale avrebbe potuto impedire di consentire una ripartizione di responsabilità nel controllo della pubblicazione mediante una delega da parte del direttore responsabile accettata dall’editore. In tal caso la delega avrebbe potuto essere giustificata dalla complessità dei controlli richiesti – come la dimensione del periodico e la cadenza giornaliera entro tempi ristrettissimi – garantita dalla capacità professionale del soggetto delegato e resa pubblica nella forma indicata dalla Cassazione (32). Inoltre, qualora ci si soffermasse sull’effettivo ruolo ricoperto dal direttore, soprattutto nei quotidiani di grandi dimensioni, e sull’attività svolta giornalmente da tale soggetto, ci si renderebbe conto di come l’eterogeneità delle incombenze su di esso gravanti sembrano condurre necessariamente alla delega a collaboratori del compito di redigere il giornale in conformità alle direttive loro impartite, proprio in base al «principio squisitamente fiduciario dell’affidamento» (33).

In dottrina non sono mancate, peraltro, le posizioni di coloro che, invece, hanno sottolineato l’incompatibilità della delega di funzioni con l’attuale formulazione dell’art. 57 c.p. la cui portata, in caso di delega, verrebbe vanificata atteso che la norma, contemplando un reato proprio (34) in cui il soggetto attivo può identificarsi esclusivamente nel

32(?) P. PISA, Nuove tendenze giurisprudenziali, cit.33(?) G. FIANDACA, È «ripartibile», cit., 572. Vi è, poi, chi ha definito

il rifiuto della delega «acritico e concettualistico», essendo tale strumento una «soluzione necessitata» idonea ad escludere la responsabilità penale del direttore (E. MUSCO, Stampa, cit., 645) e chi ha prospettato che nelle aziende giornalistiche di grandi dimensioni la delega dovrebbe configurarsi addirittura come un obbligo (C.F. GROSSO, Responsabilità penale, cit., 199).

34(?) Sul reato proprio v. G. BETTIOL, Sul reato proprio, Giuffrè, Milano, 1939; G. MAIANI, In tema di reato proprio, Giuffrè, Milano, 1965; A. GULLO, Il reato proprio. Dai problemi “tradizionali” alla nuove dinamiche d’impresa, Giuffrè, Milano, 2005.

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direttore o vice-direttore responsabile, non potrebbe trovare applicazione nei confronti di un soggetto delegato poiché nessun precetto penale gli imporrebbe un dovere di controllo, stante la particolare natura della responsabilità prevista dalla norma (35).

Anche la giurisprudenza di legittimità ha costantemente rifiutato la possibilità di ricorrere allo strumento della delega di funzioni all’interno dell’azienda giornalistica (36), nonostante la presenza di una consolidata elaborazione giurisprudenziale – nata e sviluppatasi essenzialmente con riferimento alla responsabilità dell’imprenditore nell’ambito del diritto penale del lavoro e del diritto penale commerciale – che ammette la possibilità di ricorrere a siffatto strumento (37) e la presa di posizione di alcune Corti di merito che in diverse pronunce hanno comunque considerato pienamente legittimo il ricorso allo strumento della delega da parte del direttore (38). Tale

35(?) M. POLVANI, La diffamazione a mezzo stampa, 2 ª ed., Cedam, Padova, 1998, 235. Sulla “impraticabilità” della soluzione adottata dal giudice di legittimità in caso di assenza per ferie del direttore responsabile ID., Quale sostituzione per il direttore responsabile assente per ferie?, in Cass. pen., 1998, 2937.

36(?) Cass. pen. Sez. V, 27.10.2004, Graldi, cit.; Cass. pen., 11.4.1986, Simeoni, in Dir. informaz. e inform., 1986, 458; Cass. pen. Sez. V, 16.1.1986, D’Amato, in Riv. pen., 1986, 891.

37(?) Ex multis, sulla delega di funzioni: G. PIGHI, La delega di funzioni nell’impresa e le sue conseguenze sulla responsabilità penale, in Studi in memoria di Gabriele Silingardi, a cura di M. Jasonni, Giuffrè, Milano, 2004, 547; T. VITARELLI, Delega di funzioni e responsabilità penale, Giuffrè, Milano, 2006; ID., Profili penali della delega di funzioni. L’organizzazione aziendale nei settori della sicurezza del lavoro, dell’ambiente e degli obblighi tributari, Giuffrè, Milano, 2008; A. DE VITA, La delega di funzioni nel sistema penale. Il paradigma della sicurezza sul lavoro, Giannini, Napoli, 2008; A. SCARCELLA, La delega di funzioni e i modelli di gestione nel D. Lgs. 81/08, EPC Editoria Professionale, 2009; E. CRIVELLIN, La delega di funzioni tra dottrina, giurisprudenza e interventi legislativi, in Dir. pen. e processo, 2009, 500.

38(?) La giurisprudenza di merito ha riconosciuto l’efficacia della delega di funzioni nel caso in cui fossero emersi «sicuri elementi tali da escludere la concreta possibilità di adempiere l’obbligo di controllo da

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atteggiamento ha trovato conforto nella posizione della Corte costituzionale che, a proposito del preteso contrasto dell’art. 57 c.p. con il principio di eguaglianza – in virtù dell’attribuzione ad un solo soggetto della responsabilità del controllo sul contenuto di un periodico senza consentire, quindi, la ripartizione della responsabilità stessa anche fra altri soggetti – ha ritenuto la questione non fondata (39). E, pur riconoscendo, da un lato, che le ampie dimensioni dei grandi periodici comportano una crescente complessità delle strutture, una non indifferente vastità di materiale elaborato, una molteplicità di edizioni locali e, dall’altro, che la disciplina in materia determina l’insorgere di «inconvenienti» proprio per «le difficoltà che il responsabile unico può incontrare nell’osservanza degli obblighi che gli incombono», la Corte costituzionale ha concluso affermando che si tratta, tuttavia, di «circostanze inerenti alle modalità di fatto dell’attuazione della disciplina» e pertanto non riconducibili direttamente alla previsione normativa e, conseguentemente inidonee, di per sé, a costituire motivo di illegittimità costituzionale, parte del direttore responsabile» sempre che la delega «attuata in prospettiva del rafforzamento della tutela degli interessi esposti ad un pericolo di pregiudizio, intervenga a favore di un soggetto particolarmente qualificato, dotato di un effettivo potere di controllo». Così Trib. Venezia, 2.11.1994, in Foro it., 1996, II, 81.

Inoltre si è affermato che «non può essere punito, a titolo di colpa – ex art. 57 c.p. – il direttore responsabile di un periodico il quale abbia, per ragioni obiettive dipendenti dalla dimensione della impresa editoriale, nel quadro della divisione funzionale del lavoro, delegato ad apposito dirigente il controllo sul contenuto degli annunci pubblicitari. L’errore del dirigente non può, quindi, essere imputato ad alcun titolo al direttore responsabile»: App. Milano, 7.4.1972, in Giur. it., 1973, 3411.

39(?) Corte cost., 24.11.1982, n. 198, in Foro it., 1983, I, 572, con nota di G. FIANDACA, È «ripartibile», cit. La Corte evidenzia come dagli stessi lavori preparatori della legge 8 febbraio 1948, n. 47 sarebbe possibile evincere che l’art. 57 c.p. sia in armonia con la fondamentale esigenza di indicare un soggetto immediatamente identificabile che rispondesse del periodico di fronte alla legge, così come prescritto dall’art. 21 della Costituzione.

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auspicando che gli inconvenienti prospettati potessero essere eliminati attraverso la predisposizione di «un più soddisfacente sistema normativo in materia» (40). Secondo i giudici della Corte costituzionale l’assoluto scetticismo sulla praticabilità della delega di funzioni nel settore giornalistico appare evidente dagli «inconvenienti cui potrebbe dar luogo la previsione di più soggetti responsabili per ciascun settore del periodico, posta l’unitarietà della pubblicazione e l’esigenza di riferire ad un solo soggetto, per la concreta individuazione delle responsabilità, le conseguenze, di fronte a terzi, della eventuale illegittimità della condotta di chi deve sovrintendere al buon andamento dell’attività del giornale».

Tuttavia, il mancato riconoscimento di un rilievo penale alla delega di funzioni anche nel settore giornalistico postula il rischio che la lettura tradizionale della norma sulla responsabilità del direttore divenga del tutto incompatibile con l’evoluzione attuale dell’attività giornalistica e soprattutto con il ruolo che effettivamente tale soggetto ricopre all’interno dell’impresa in cui opera (41). Invece occorrerebbe valutare la possibilità di attribuire rilevanza penale ad un adeguato e attento trasferimento dell’obbligo di controllo da parte del direttore. In una recente pronuncia la Cassazione, soffermandosi sulla impossibilità in concreto per il direttore di esercitare il controllo su di lui gravante, ha riconosciuto che «sono

40(?) Corte cost., 24.11.1982, n. 198, cit. 41(?) A tal proposito si è osservato che «far gravare solo sul

direttore e vice direttore responsabili tutte le inosservanze di doveri incombenti sui loro collaboratori, regolarmente delegati, non farebbe che riesumare una sorta di responsabilità ormai definitivamente tramontata: quella per fatto altrui»: T. VITARELLI, Evento colposo e limiti del dovere obiettivo di diligenza nella responsabilità penale del direttore di stampa periodica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 1236, che si pone sulla stessa linea di G. GRASSO, Organizzazione aziendale e responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, in Arch. pen., 1982, 745.

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proprio le dimensioni delle aziende (e tale è indubbiamente anche un quotidiano) quelle che pongono il problema della effettiva possibilità per il vertice gerarchico di esercitare reale controllo sull’operato delle articolazioni periferiche» (42). Nella medesima sentenza la Suprema Corte ha anche evidenziato che il problema che si pone attiene proprio alla delegabilità delle funzioni di direttore responsabile ed ha chiarito quale fosse l’atteggiamento assunto dalla giurisprudenza in diverse pronunce specificando che «in giurisprudenza se, da un lato, è stato ritenuto che la figura apicale di una struttura produttiva di notevoli dimensioni non è responsabile nel caso in cui l’azienda sia stata preventivamente suddivisa in distinti settori, rami o servizi ed a ciascuno di questi siano stati in concreto preposti soggetti qualificati ed idonei, dotati della necessaria autonomia e dei poteri indispensabili per la completa gestione degli affari inerenti a quel servizio, dall’altro, e con specifico riferimento alla responsabilità del direttore di un quotidiano, si è affermato che nessuna rilevanza poteva rivestire (nel caso allora in esame, ai fini del reato di diffamazione a mezzo stampa) il conferimento interno di una parziale autonomia ad un vicedirettore relativamente ad una determinata rubrica» (43). I giudici della Suprema Corte concludono sul punto definendo quest’ultima una affermazione «perentoria che, invero, lascia perplessi, anche per la non remota possibilità che essa entri in conflitto con il canone costituzionale ex art. 27, comma 1, Cost.» (44).

42(?) Cass. pen. Sez. V, 26.2.2003, Graldi, in C.E.D. Cass., n. 224404 e in Riv. pen., 2003, 845.

43(?) Il riferimento è a Cass. pen. Sez. V, 16.1.1986, D’Amato, in C.E.D. Cass., n. 172414.

44(?)Cass. pen. Sez. V, 26.2.2003, Graldi, in C.E.D. Cass., n. 224404 e in Riv. pen., 2003, 845. I riferimenti giurisprudenziali indicati in tale pronuncia sono Cass. pen. Sez. III, 26.2.1998, Caron, in C.E.D. Cass., n. 210510 (nello stesso senso: Cass. pen. Sez. III, 22.2.1991, Palma, in C.E.D. Cass., n. 186615; Cass. pen. Sez. III, 28.1.1986, Visotto, in C.E.D. Cass., n. 172040; Cass. pen. Sez. III, 29.3.1983, De

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La pronuncia appena riportata, sembrerebbe integrare un timido tentativo di allontanamento dall’orientamento assolutamente prevalente che nega qualsiasi rilevanza alla delega di funzioni nel settore giornalistico. Nei fatti, però, ha ritenuto priva di fondamento la censura del ricorrente riferita al riconoscimento della delega di funzioni poiché questi non avrebbe, non solo dimostrato, ma neanche sostenuto, che tale delega fosse stata effettivamente conferita. Ci si chiede, allora, quale sarebbe stato l’esito del giudizio nel caso in cui fosse stato provato un effettivo conferimento della delega.

5. L’ “automatismo” della responsabilità del direttore.

Si è sottolineato come nella prassi applicativa, nell’accertamento della responsabilità del direttore, si tenda a ricavare la presenza della colpa dal mero comportamento omissivo consistente nel mancato controllo, assistendosi così ad una commistione tra colpa e inosservanza dell’obbligo giuridico di impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati. La questione, tuttavia, non sembra potersi limitare al fenomeno appena descritto ma si spinge fino a mettere in discussione la stessa sussistenza dell’elemento oggettivo. Nella maggior parte dei casi la giurisprudenza, verificata la sussistenza del reato commesso attraverso la pubblicazione, procede all’accertamento della posizione di garanzia e ne ricava la violazione di una regola di diligenza giungendo così ad una “inequivocabile” constatazione della presenza di una responsabilità penale del direttore per omesso impedimento dell’evento. Un corretto criterio

Tomaso, in C.E.D. Cass., n. 159447) e Cass. pen. Sez. V, 26.2.2003, Graldi, in C.E.D. Cass., n. 224404 e in Riv. pen., 2003, 845.

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logico-sistematico presupporrebbe, invece, l’accertamento, in ordine non solo logico ma anche cronologico, del nesso di causalità, della presenza della posizione di garanzia e, solo successivamente, della violazione di una regola cautelare che possa fondare un reale rimprovero per colpa. In dottrina tale fenomeno è stato efficacemente indicato come “fuga in avanti” all’interno delle strutture della fattispecie omissiva colposa che conduce «al pratico annullamento della verifica del nesso di causalità, perché questo si è appiattito sulla posizione di garanzia, che a sua volta tende a coincidere con quel dovere di attivarsi che fonda la colpa nel delitto omissivo» determinando una vera e propria “volatilizzazione” del nesso causale stesso (45). Nella pressoché totalità delle pronunce che hanno ad oggetto l’accertamento della responsabilità del direttore non è dato rinvenire alcun esplicito accenno ad una effettiva indagine sull’accertamento del nesso di causalità tra l’omesso controllo e l’evento probabilmente perché la presenza del nesso eziologico viene ritenuta un dato pacificamente acquisito vista la sussistenza del reato commesso col mezzo della pubblicazione.

Inoltre, se già sul piano dell’accertamento dell’elemento psicologico del reato occorrerebbe tenere opportunamente in considerazione la concreta possibilità per il direttore di un quotidiano di notevoli dimensioni di poter ottemperare a quanto impostogli dall’art. 57 c.p., in determinati casi potrebbe essere messa in discussione la stessa sussistenza di un’omissione penalmente rilevante - nonostante la presenza di una posizione di garanzia - qualora il direttore si trovasse nell’impossibilità di agire. In altri termini, occorrerebbe domandarsi se l’operatività dell’obbligo giuridico di impedire che altri commetta un reato produca i suoi effetti in capo al direttore in ogni caso o, se al contrario, sia possibile attribuire rilevanza penale alla effettiva impossibilità di impedire l’evento, come

45(?) C.E. PALIERO, La causalità dell’omissione, formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med. leg., 1992, 831.

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potrebbe accadere nel caso di impresa giornalistica di notevoli dimensioni. Non intendiamo riferirci esclusivamente alle ipotesi di assenza del direttore per ferie (46) o per malattia ma a tutti quei casi in cui questi si trova al vertice di un quotidiano di grandi dimensioni all’interno del quale vengono pubblicati innumerevoli articoli che il direttore dovrebbe leggere giornalmente ponendo in essere un controllo attento e approfondito. In tal caso, infatti, data la pregnanza delle difficoltà

46(?) In tema di responsabilità per omesso controllo del direttore che usufruisce del diritto al godimento delle ferie annuali la giurisprudenza si è pronunciata in diverse occasioni, affermando, in un primo momento, che il periodo delle ferie, pur costituendo un diritto costituzionalmente garantito dall’art. 36 Cost., e dalle norme contrattuali dei giornalisti, non può integrare «un fatto di forza maggiore» che esoneri il direttore dalla responsabilità ex art. 57 c.p. (Cass. pen., 11.2.1987, Ponti, in Riv. pen., 1988, 204) o che il direttore che si assenta per ferie è tenuto a richiedere la propria sostituzione non potendo consentire che il suo nome continui ad apparire ancora come responsabile allorché in realtà si trovi, a causa delle ferie, nella concreta impossibilità di esercitare le proprie funzioni e in concreto non le eserciti. Pertanto, il godimento delle ferie senza predisporre o sollecitare alcuno dei meccanismi previsti perché sia assicurato il costante controllo della pubblicazione e consentendo che lo stesso continui ad apparire garantito dalla sua presenza «costituisce di per sé una condotta colposa» ex art. 57 c.p. (Cass. pen. Sez. V, 28.9.1991, Mastroianni, in Cass. pen., 1992, 1233, con nota di M.B. MAGRO, La responsabilità del direttore di stampa periodica e il problema della determinazione della condotta tipica nei reati omissivi). Successivamente la giurisprudenza - resasi conto della necessità di contemperare l’esigenza di evitare che con il mezzo della stampa vengano commessi reati con il diritto al godimento delle ferie da parte del direttore, nonché con i principi posti dagli artt. 42 e 43 c.p., secondo i quali nessuno può essere punito se non ha commesso il fatto con coscienza e volontà - ha escluso la responsabilità ex art. 57 c.p. del direttore di un periodico nel tempo in cui egli gode delle ferie in caso di preventiva individuazione ed indicazione nello stesso periodico della persona che lo sostituisce «in modo che sia ricostituita, sia pur in via provvisoria, la struttura della compagine del giornale e sia così assicurato il controllo sulla pubblicazione, con la possibilità di individuare la persona che risponda dell’eventuale omissione», senza che sia necessario il ricorso alla procedura prevista per i mutamenti

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organizzative di un giornale di apprezzabili dimensioni, è ovvio che il soggetto non possa eseguire contemporaneamente tutti i numerosi adempimenti ai quali dovrebbe sovrintendere, per la regola logica, ancor prima che giuridica, secondo cui ad impossibilia nemo tenetur. In settori diversi da quello giornalistico, ed in particolare nell’ambito dei reati societari, la giurisprudenza ha affermato che il legale rappresentante di una società di notevoli dimensioni non possa essere considerato responsabile dell’osservanza delle disposizioni sanzionate penalmente poste a carico della società, allorché questa sia stata preventivamente suddivisa in distinti settori, rami o servizi e a ciascuno di essi siano in concreto preposti soggetti qualificati e idonei, dotati della necessaria

nell’organico del giornale dagli artt. 5 e 6 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Cass. pen. Sez. V, 20.11.1997, Scalfari, in Dir. pen. e processo, 1998, 333, con nota di P. PISA, Nuove tendenze giurisprudenziali, cit.).

Per mera completezza ricordiamo che, ai sensi dell’art. 6 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, «ogni mutamento che intervenga in uno degli elementi enunciati nella dichiarazione prescritta dall’art. 5, deve formare oggetto di nuova dichiarazione da depositarsi, nelle forme ivi previste, entro quindici giorni dall’avvenuto mutamento, insieme con gli eventuali documenti. L’annotazione del mutamento è eseguita nei modi indicati nel terzo comma dell’art. 5. L’obbligo previsto nel presente articolo incombe sul proprietario o sulla persona che esercita l’impresa giornalistica, se diversa dal proprietario». Nel caso di avvenuta sostituzione del direttore responsabile, la giurisprudenza ha riconosciuto che in assenza della dichiarazione prescritta per la registrazione del mutamento ad opera del soggetto a ciò obbligato (proprietario o persona che esercita l’impresa giornalistica, se diversa dal proprietario) non possa configurarsi a carico del direttore sostituito il reato di cui all’art. 57 c.p. per aver omesso di accertare, per colpa, l’avvenuta registrazione della sostituzione: Cass. pen. Sez. V, 21.4.1983, Loiacono, in C.E.D. Cass., n. 159541. Ed è stato precisato che in tali ipotesi soggetto attivo del reato di cui all’art. 57 c.p. è anche chi eserciti di fatto le mansioni di direttore responsabile del periodico. Pertanto, ne consegue che l’omessa registrazione del mutamento del direttore responsabile non costituisce motivo di impunità per il soggetto che, sia pure irregolarmente, succede nella carica di direttore responsabile assumendone in concreto le mansioni: Cass. pen. Sez. V, 21.4.1983, Signorino, in C.E.D. Cass., n. 159542.

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autonomia e dei poteri indispensabili per la gestione di quel servizio o settore. Tale conclusione è stata considerata l’unica aderente al basilare dettato dell’art. 27 Cost., primo comma, e proprio alla fondamentale regola logica secondo la quale ad impossibilia nemo tenetur, che impedisce il contemporaneo svolgimento, da parte di un unico soggetto, di innumerevoli mansioni, anche di vigilanza, consentendone all’interno di grandi aziende, la delega e il decentramento (47). In materia di responsabilità del direttore di giornale, invece, la Suprema Corte si ostina a non attribuire alcun rilievo a tale profilo (48) diversamente da quanto accade, invece, ad esempio in materia di inottemperanza all’ordine del questore di allontanamento dal territorio dello Stato. In tal caso la Cassazione, nel richiamare «il principio ad impossibilia nemo tenetur» considerato «espressione di quello di inesigibilità», ha ammesso che quest’ultimo, sebbene «non espressamente codificato nel nostro ordinamento», possa assumere rilievo ai fini della declaratoria di responsabilità penale di un soggetto. In particolare, la Cassazione ha precisato che qualora l’ottemperanza a tale ordine risulti concretamente “inesigibile”, si è in presenza di un giustificato motivo (49).

Ed è proprio sul principio di inesigibilità che pare opportuno soffermarsi al fine di valutarne l’eventuale rilevanza nell’ambito della responsabilità del direttore. Solo la giurisprudenza di merito, in qualche rara pronuncia, ha escluso la responsabilità di tale soggetto considerando proprio la “inesigibilità” dell’obbligo di controllo, affermando che «la responsabilità del direttore di giornale ex art. 57 c.p. presuppone la concreta possibilità di impedire che col mezzo della stampa siano commessi reati, e cioè che siano da lui esigibili particolari comportamenti

47(?) Cass. pen. Sez. III, 6.3.2003, Rossetto, in Guida al dir., 2003, 30, 86.

48(?) Cass. pen. Sez. V, 24.10.2008, Lazzaro, in C.E.D. Cass. 2008.

49(?) Cass. pen. Sez. I, 5.5.2008, Geba, in C.E.D. Cass. 2008.

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realizzativi degli obblighi strumentali di diligenza e di vigilanza tali che, attuati, il fatto sarebbe evitato o realizzato in guisa da essere penalmente indifferente» (50). Ma si tratta di pronunce assolutamente sporadiche.

Generalmente, in tutti i procedimenti penali che hanno visto coinvolti direttori responsabili di quotidiani e periodici di grandi dimensioni, per aver omesso il controllo necessario ad impedire la pubblicazione di articoli diffamatori, la linea difensiva viene ancorata ad argomentazioni che mettono in rilievo proprio l’impossibilità per il direttore di verificare la corrispondenza del contenuto di ogni singolo articolo con la verità storica dei fatti ivi descritti. Viene evidenziata, così, la “inesigibilità” di una tale condotta nell’ipotesi in cui ci si trovi di fronte a quotidiani di dimensioni tali da non consentirgli di controllare e leggere in modo capillare ogni singolo articolo. Ma non solo, non può sottacersi che anche nell’ipotesi in cui il direttore riuscisse a leggere il contenuto di ogni articolo, occorrerebbe comunque tenere in considerazione le concrete situazioni che si presentano di volta in volta al suo vaglio, non dimenticando che queste, naturalmente, possono assumere le connotazioni più variegate: vi sono ipotesi in cui, ad esempio, il contenuto diffamatorio dell’articolo è evidente, ma ne esistono altre in cui la rappresentazione giornalistica di un fatto non desta allarme o in cui la notizia è vera e solo una parte di essa è frutto di errore. Ciò consente di ribadire che non è pensabile un dovere di verifica senza distinzioni incombente sul direttore.

50(?) Trib. Roma, 10.3.1989, in Foro it., 1990 II, 138. Il Tribunale poi prosegue affermando che, «escluso che il direttore di un grande quotidiano a tiratura nazionale possa ogni giorno diligentemente controllare tutte le fonti dei numerosi articoli che vi vengono pubblicati, per il direttore medesimo non può non costituire fonte attendibile, con conseguente esclusione della responsabilità per omesso controllo, il giornalista professionalmente accreditato in virtù della specifica esperienza in una determinata materia».

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«Inesigibile è un comportamento – materialmente possibile – che non si può umanamente pretendere da un certo soggetto in una data situazione»: questa la definizione fornita da quella dottrina che compiutamente si è occupata della tematica in questione (51). In diritto penale l’inesigibilità è stata, nel tempo, oggetto di diverse opzioni interpretative che ne hanno riconosciuto l’incidenza ora sul piano della tipicità del fatto, ora sul piano dell’antigiuridicità (52), ora su quello della colpevolezza (53).

51(?) G. FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Cedam, Padova, 1990.

Sul tema dell’inesigibilità, nella dottrina italiana, v. altresì: P. NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, Cedam, Padova, 1972; L. SCARANO, La non esigibilità nel diritto penale, Humus, Napoli, 1948. La dottrina tedesca, invece, si è occupata più diffusamente della categoria dell’inesigibilità. Cfr., a tal proposito ex multis, P. FRELLESEN, Die Zumutbarkeit der Hilfeleistung, A. Metzner, Frankfurt, 1980; D. FREY, Die Zumutbarkeit im Strafrecht, Saarbrucker Dissertation, 1961; H. HENKEL, Zumutbarkeit und Unzumutbarkeit als regulatives Rechtsprinzip, Festschrift fur Mezger, Munchen-Berlin, 1954, 249 ss.; A. HERZBRUCH, Die Zumutbarkeit der Verbotsbefolgung als Bedingung der Strafbarkeit, A. Kurtze, Breslau Neukirch, 1934.

52(?) Il ricorso a tale concezione dell’inesigibilità è stato adottato da quella dottrina che ha ritenuto possibile estendere analogicamente la disciplina dello stato di necessità: P. NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, Padova, 1972, 67.

53(?) L’inesigibilità andrebbe riferita alle stesse condizioni personali del soggetto che consentono di escluderne la colpevolezza in quanto l’impossibilità di muovere un rimprovero potrebbe prospettarsi in tutte quelle ipotesi in cui l’ordinamento rinuncia ad esigere il comportamento doveroso di un soggetto. Tale accezione di inesigibilità ha trovato grandi consensi nella dottrina tedesca secondo la quale questa si risolverebbe proprio nell’impossibilità del rimprovero: in altri termini, all’inesigibilità potrebbero ricondursi tutte quelle ipotesi in cui all’impossibilità di muovere un rimprovero al soggetto consegue necessariamente la rinuncia dell’ordinamento all’adempimento della condotta doverosa. La concezione appena riportata è stata elaborata specularmente alla concezione normativa della colpevolezza la cui prima formulazione si deve a R. FRANK, Uber den Aufbau des Scuhldbegriff, Festschrift der juristischen Kakultat der Universitat Giessen zur dritten Jahrhrndertfeier der Alma Mater Ludoviciana, Giessen, 1907, 519 e successivamente sviluppata da J. GOLDSCHMIDT,

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In giurisprudenza si è affermato, invece, che la c.d. teoria della “inesigibilità” - secondo la quale verrebbe meno la colpevolezza quando sia impossibile pretendere dal soggetto una condotta conforme al precetto - non possa trovare applicazione in tema di elemento soggettivo del reato in quanto il vigente ordinamento giuridico penale è fondato sul principio di legalità ed al giudice non è lasciato alcun margine per la individuazione della condotta punibile (54) e che le condizioni e i limiti alla applicazione delle norme sono posti dalle norme stesse e non è possibile, in materia penale, affidare al giudice compiti di ricorso all’analogia, mancando criteri certi cui riferire la pretesa inesigibilità sotto il duplice profilo oggettivo e soggettivo (55).

Ma nulla vieterebbe di ritenere che gli effetti della categoria della inesigibilità possano ripercuotersi sia sul momento della tipicità, sia su quello della tipicità che su quello della colpevolezza, attribuendo, così, all’istituto in discorso una polivalenza dogmatica (56).

La rilevanza dell’inesigibilità come limite ad un’omissione penalmente rilevante sembra scontrarsi con la difficoltà di rintracciare nel sistema penale una norma di diritto positivo che le riconosca efficacia. La categoria della “inesigibilità”, infatti, secondo un orientamento, presterebbe il fianco a non poche critiche stante la mancanza, al di fuori delle ipotesi codificate di esclusione della colpevolezza, di un’espressa tipizzazione ad opera del legislatore ed essendo suscettibile di integrare la «violazione del principio di legalità, non trattandosi di analogia juris in quanto la formula della “inesigibilità di una condotta diversa” manca di quella concretezza necessaria per costituire un principio giuridico superiore cui ricondurre Normativer Schuldbegriff, in Festgabe fur Frank, Bd. I, Tubigen, 1930, 428.

54(?) Cass. pen. Sez. III, 27.2.1991, Bracco, in Giur. it., 1993, 320.55(?) Cass. pen. Sez. III, 8.5.1985, Viti, in Riv. pen., 1986, 652.56(?) In tal senso, G. FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel

diritto penale, Cedam, Padova, 1990, 245 e ss.

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casi non contemplati dalla legge» (57). Altro orientamento, poi, ha escluso che l’inesigibilità, intesa come impossibilità di richiedere ai cittadini un comportamento diverso, possa costituire il fondamento delle cause di esclusione del reato come lo stato di necessità e la coazione morale, specificando che comunque essa rappresenta un concetto da riservare all’ambito della colpevolezza dei soggetti imputabili (58).

Nonostante i dubbi avanzati dalla dottrina e le sporadiche pronunce in materia che hanno dato ad essa rilievo, nell’accertamento della responsabilità del direttore per omesso controllo non sembra possa essere trascurata l’esigibilità della condotta a questi imposta poiché, in caso contrario, in molte ipotesi si dovrebbe concludere per un vero e proprio “automatismo” della responsabilità penale di tale soggetto, il che equivarrebbe ad una forma di responsabilità di posizione (59). Nei reati omissivi impropri è possibile affermare che ci si trovi al cospetto di una condotta propria di un soggetto, e quindi penalmente rilevante, se il comportamento doveroso del soggetto agente sia riconducibile all’esigibile esplicazione di quell’obbligo di impedimento dell’evento su lui gravante. Pertanto, la sussistenza di un fattore come quello dell’inesigibilità dell’intervento del garante potrebbe delimitare gli effetti di tale obbligo. Se poi si riflette sul fatto che l’obbligo di garanzia e la concreta possibilità di adempierlo costituiscono il presupposto necessario dell’obbligo di diligenza è evidente che non dovrebbe porsi nemmeno un problema di accertamento dell’elemento soggettivo qualora venisse a mancare il suo stesso logico presupposto.

57(?) F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. g., cit., 353. In senso analogo: G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, pt. g., cit., 405; B. ROMANO, Guida alla parte generale, cit., 330.

58(?) A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, pt. g., cit., 456.59(?) Per tali osservazioni circa l’impossibilità per il direttore di

leggere analiticamente tutti gli articoli contenuti nel giornale da lui diretto, cfr. B. ROMANO, Guida alla parte generale, cit., 174 e 308.

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Certamente la struttura omissiva della condotta del direttore non rende agevole il lavoro dell’interprete che dinanzi ad un non facere di tale soggetto deve individuare con precisione l’esatto contenuto del comportamento doveroso su questi incombente (60). Né la lettera dell’art. 57 c.p. fornisce chiare indicazioni in tal senso: la disposizione, infatti, si limita ad affermare che l’azione doverosa consiste nell’esercizio, sul contenuto del periodico, del «controllo necessario ad impedire che, con la pubblicazione, sia commesso un reato». Ma ritenere che l’art. 57 c.p. individui un solo direttore (o vicedirettore) responsabile, allo scopo di identificare, sin dalla registrazione del giornale, il soggetto che si impegna a controllarne il contenuto ed a risponderne non può comportare de plano che, data la presenza del reato commesso attraverso la pubblicazione, il direttore debba essere ritenuto responsabile del reato a lui ascritto. Un tal modo di argomentare, nella sua tautologica astrattezza, potrebbe essere applicato a qualsiasi ipotesi di reato omissivo e condurrebbe necessariamente alla affermazione di colpevolezza e, in particolare, ad un caso di responsabilità per fatto altrui (61).

Quasi tutte le decisioni giurisprudenziali sulla responsabilità del direttore di giornale sembrano essere

60(?) Sul reato omissivo si vedano: G. BONINI, L’omissione nel reato, Bocca, Milano, 1947; M. SPASARI, L’omissione nella teoria della fattispecie penale, Giuffrè, Milano, 1957; G.M. FLICK, Omissione di oculata vigilanza e obbligo giuridico di impedire l’evento, Giuffrè, Milano, 1968; G. FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Giuffrè, Milano, 1979; G. GRASSO, Il reato omissivo improprio, Giuffrè, Milano, 1983; A. MONTAGNI, La responsabilità penale per omissione, Cedam, Padova, 2002.

61(?) In una recente pronuncia della Cassazione, tale questione è stata considerata seria e meritevole di approfondimento. Tuttavia, ancora una volta i Giudici, nonostante abbiano riconosciuto che il problema non fosse ancora stato direttamente affrontato dalla giurisprudenza di legittimità, hanno preferito non esporsi sino a sconfessare il dominante orientamento. Così Cass. pen. Sez. V, 26.2.2003, Graldi, in C.E.D. Cass., n. 224404 e in Riv. pen., 2003, 845.

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contraddistinte da un «automatismo risolutivo, per il quale tale soggetto ha seguito ineluttabilmente le sorti dell’autore della pubblicazione» e che «in sostanza, non si è mai operata una scissione tra la responsabilità dell’autore e quella del direttore, pervenendo per quest’ultimo ad un giudizio indipendente di esclusione della responsabilità» (62). L’atteggiamento assunto dalla giurisprudenza sembra quasi lambire una scarsa attenzione verso le tematiche sulle quali ci siamo sino ad ora soffermati. Molte pronunce si connotano per l’utilizzo di formule sintetiche e di motivazioni che presentano espressioni riassuntive. Certo, tale fenomeno è riconducibile ad una tendenza giurisprudenziale sempre più diffusa e non caratterizza esclusivamente il settore di cui ci stiamo occupando, ma proprio in tale ambito sembra potersi profilare il dubbio che dietro la “facciata” dell’orientamento giurisprudenziale consolidato e della soluzione inequivocabile possa nascondersi lo spettro di sentenze tra loro assolutamente identiche che sembrano appiattire la responsabilità del direttore, affrancandola dalle caratteristiche del singolo caso concreto e fondandola semplicemente sul ruolo da lui ricoperto (63).

6. Direttore di giornale e mezzi di diffusione dell’informazione diversi dalla carta stampata: responsabilità penali a confronto.

62(?) G. CORRIAS LUCENTE, Il diritto penale dei mezzi di comunicazione di massa, Cedam, Padova, 2000, 199.

63(?) Uno degli esempi più recenti del fenomeno descritto, sia sotto il profilo della brevità della decisione, che sotto quello del costante richiamo di precedenti che finiscono per comporre l’intero corpo della sentenza, è costituito da Cass. pen. Sez. IV, 14.8.2008, n. 33472, in Dir. pen. e processo, 2009, 885, con nota di A. MINO, Responsabilità penale del direttore del giornale ed “esigibilità” del controllo.

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Alle evidenti perplessità e ai discutibili profili applicativi sui quali ci siamo sino ad ora soffermati si aggiunge la palese disparità di trattamento che emerge dal raffronto tra i profili di responsabilità penale che l’ordinamento riserva al direttore di giornale ex art. 57 c.p. e le responsabilità penali individuabili in capo a soggetti che sostanzialmente ricoprono il medesimo ruolo in settori di diffusione dell’informazione diversi dalla carta stampata, primo fra tutti il settore radiotelevisivo.

In tale ambito, l’interprete non può che appurare l’assenza di una disposizione che preveda la responsabilità per omesso controllo a carico dei direttori di testate radiotelevisive e che imponga doveri di controllo e vigilanza analoghi a quelli esistenti nel settore della stampa. Sussiste una forte disparità di trattamento ulteriormente acuita dall’impossibilità di applicare in via analogica l’art. 57 c.p. ai reati posti in essere attraverso il mezzo radiotelevisivo (64). Nessuna disposizione penale riguardante il sistema televisivo prevede esplicitamente che il direttore di una testata televisiva possa essere chiamato a rispondere per omesso controllo sul contenuto delle trasmissioni realizzate nell’ambito della testata da lui diretta in modo da impedire che col mezzo della trasmissione siano commessi reati.

64(?) Una pronuncia del Tribunale di Roma costituisce per la giurisprudenza la prima occasione, dall’entrata in vigore della legge 6 agosto 1990, n. 223, in cui si affronta il problema dell’applicabilità dell’art. 57 c.p. anche ai direttori responsabili di testate giornalistiche radiotelevisive (Trib. Roma, 20.3.1995, in Giur. it., 1995, 442, con nota di F.R. DINACCI, Sulla responsabilità penale del direttore di notiziario radio-televisivo). Viene affermato il principio dell’inapplicabilità della fattispecie di cui all’art. 57 c.p. ai direttori di testate radiotelevisive evidenziando che il direttore responsabile di «un quotidiano radiotelevisivo... (è) equiparato a (quello) di un giornale soltanto ai fini dell’obbligo della registrazione presso la cancelleria del Tribunale», come sancito dall’art. 10 legge n. 223 del 1990, derivandone l’impossibilità di applicare ai direttori di testate radiotelevisive la fattispecie criminosa omissiva contemplata dall’art. 57 c.p.

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L’art. 30 della legge 6 agosto 1990, n. 223, indica il concessionario privato, la concessionaria pubblica e la persona da loro delegata al controllo della trasmissione come soggetti che possono essere chiamati a rispondere a titolo di colpa omissiva per trasmissioni di contenuto offensivo, non facendo alcun riferimento, invece, al direttore dell’emittente televisiva. Né, tantomeno, in assenza di una espressa previsione legislativa in tal senso, sarebbe possibile ricorrere all’art. 57 c.p. A tale proposito, in una recente pronuncia, la Suprema Corte ha sottolineato che proprio in applicazione del principio di stretta legalità - dal quale discende la delimitazione, anche sotto il profilo soggettivo, delle fattispecie incriminatrici - l’art. 57 c.p. non può assolutamente intendersi riferito anche alle trasmissioni televisive (65). Nella medesima pronuncia i Giudici hanno precisato che, nel fissare il contenuto della legge 6 agosto 1990, n. 223, il legislatore si è posto il problema della responsabilità omissiva fuori dei casi di concorso nel reato principale - sia per le trasmissioni con carattere di oscenità, sia per quelle ex comma 2 dell’art. 30 della legge appena richiamata, sia per il reato di diffamazione di un fatto determinato - e lo ha risolto individuando i responsabili esclusivamente nel concessionario privato, nella concessionaria pubblica e nella persona da loro delegata al controllo della trasmissione.

Ma, anche nell’estrema ipotesi in cui si volesse riconoscere al direttore dell’emittente la qualifica di persona delegata al controllo della trasmissione, sarebbe comunque evidente che se, da un lato, la previsione di cui all’art. 57 c.p. concerne tutti i reati commessi col mezzo della stampa, dall’altro, il terzo comma dell’art. 30 della legge 6 agosto 1990, n. 223, si limita a sanzionare solo l’omesso controllo necessario ad impedire trasmissioni radiofoniche o televisive che abbiano carattere di oscenità

65(?) Cass. pen. Sez. II, 23.04.2008, Matacena, in C.E.D. Cass., n. 240687.

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o un contenuto impressionante, raccapricciante o istigatorio.

La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulle questioni di legittimità ex artt. 3 e 21 della Costituzione sotto il profilo del trattamento irragionevolmente vantaggioso riservato al mezzo televisivo, ritenuto maggiormente lesivo, ne ha ribadito l’infondatezza affermando che esse avrebbero comportato un inammissibile intervento additivo, o che la differenza di disciplina era comunque giustificata dalla differenza dello strumento di diffusione. In particolare, la Corte costituzionale, a proposito della diversa disciplina prevista per i reati commessi a mezzo della stampa rispetto a quelli commessi con il mezzo della pubblicità costituita dalle trasmissioni radiotelevisive, pronunciandosi anche a proposito del fatto che nei reati a mezzo stampa il direttore viene incriminato in quanto tale, mentre altrettanto non accadrebbe al direttore dei telegiornali e del giornale radio ha, ancora una volta, dichiarato infondata la questione (66). Infatti, anche qualche anno prima, sulla questione della disparità di trattamento, e quindi della violazione del principio costituzionale di uguaglianza, conseguente alla differente disciplina legislativa prevista per gli autori di una diffamazione commessa a mezzo stampa e quello per gli autori del medesimo reato commesso a mezzo di diffusione radiofonica, sottoposti invece al regime comune, ha sostenuto che si trattasse di una scelta eminentemente politica, riservata dall’art. 25 della Costituzione al solo legislatore, restando esclusa ogni possibilità di intervento attraverso sentenze cosiddette additive. I Giudici costituzionali, pur augurando che il legislatore provvedesse

66(?) Corte cost., 22.10.1982, n. 168, in Giur. it., 1983, I, 1, 516, con nota di E. ROPPO, Disciplina dei «mass media» e coerenza del legislatore. (Il regime penale della diffamazione al vaglio di costituzionalità) e in Foro it., 1982, I, 2702, con osservazioni di R. PARDOLESI; Corte cost., ord., 10.3.1983, n. 53, in Giur. cost., 1983, I, 217, e in Foro it., 1983, I, 525, con con osservazioni di R. PARDOLESI; Corte cost., ord., 20.10.1983, n. 323, in Giur. cost., 1983, I, 2105.

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sollecitamente a colmare nella sua discrezionalità lacune eventualmente esistenti, hanno sottolineato di non potersi sostituire ad esso e tanto meno di potere estendere norme legislative previste per un’attività determinata ad altra attività obbiettivamente diversa (67). Né il disposto legislativo, né la giurisprudenza della Cassazione e della Corte costituzionale consentono di applicare al direttore della testata televisiva la normativa di cui all’art. 57 c.p.

Se si volge, poi, lo sguardo alle nuove tecniche di comunicazione che si avvalgono di internet, non potrà negarsi che esse rientrano nella nozione «ogni altro mezzo di diffusione» di cui all’art. 21 della Costituzione. Tuttavia, il contemperamento tra l’interesse pubblico all’informazione e quello del singolo a non vedere lesa la propria reputazione si fa ancor più delicato quando la diffusione dell’informazione è affidata ad internet, poiché tale strumento si pone - allo stesso tempo - come mezzo di manifestazione del pensiero e come mezzo di comunicazione con un’ampissima potenzialità di divulgazione diretta ad un numero indeterminato di individui.

Il direttore di un giornale telematico si trova collocato al vertice di una testata che differisce da quelle tradizionali essenzialmente per l’assenza di un supporto cartaceo (68).

67(?) Corte cost., 20.1.1977, n. 42, in C.E.D. Cass., n. 8743.68(?) La legge 7 marzo 2001, n. 62, contenente nuove norme in

materia di editoria, ha introdotto una più estesa nozione di prodotto editoriale che ricomprende anche quelle pubblicazioni realizzate su supporto informatico e diffuse col mezzo elettronico. Prima delle modifiche introdotte dalla legge 7 marzo 2001, n. 62, si discuteva circa la possibile applicazione analogica o estensiva della disciplina della stampa alla cosiddetta editoria elettronica o telematica, cioè a quei prodotti editoriali offerti off-line, oppure on-line, essendo evidente la sostanziale differenza degli strumenti di diffusione telematica da quelli meccanici e fisico-chimici. La giurisprudenza aveva assunto un atteggiamento di chiusura, interpretando restrittivamente l’art. 1 della legge sulla stampa, non ammetteva la possibilità di estendere tale normativa ai giornali telematici: Trib. Napoli, 18.3.1997, in Dir. & Giust., 1997, 186. In talune occasioni, tuttavia, sono state accolte le

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Appare doveroso, pertanto, domandarsi se tale soggetto possa essere chiamato a rispondere ex art. 57 c.p. per omesso controllo di quanto pubblicato sul web. Certamente, riflettendo sull’identica posizione ricoperta dal direttore di un giornale avente un formato cartaceo e quella di un giornale on line e soffermandosi altresì sul fatto che il web sembra presentare, in concreto, potenzialità lesive dell’onore e della reputazione addirittura più incisive di quelle della mera carta stampata ed il numero ampio e potenzialmente generalizzato dei destinatari – poiché qualsiasi informazione, anche se risalente nel tempo, è fruibile da chiunque stante la permanenza della notizia nella rete – emerge ictu oculi l’assenza di armonizzazione tra tali differenti profili di responsabilità.

Tuttavia, un’estensione della disciplina prevista dall’art. 57 c.p. alle pubblicazioni on line si porrebbe in contrasto con il principio di legalità e specificatamente contro il divieto di analogia in malam partem. In tal senso si è affermato che «l’art. 2 l. n. 47 del 1948 prevede l’obbligo di un direttore responsabile solo per i giornali a stampa, il quale assume i relativi doveri a seguito della prescritta registrazione. Alla edizione telematica dello stesso giornale, non costituendo stampato e non essendo assoggettato a registrazione, non sono estensibili “in malam partem” le responsabilità previste dalla legge penale per il direttore responsabile dell’edizione a stampa» (69). Non può non tenersi in considerazione che la legge 7

richieste di registrazione di quei periodici diffusi via internet che, però, fossero al tempo stesso pubblicati anche su supporto cartaceo: Trib. Napoli, 8.8.1997, n. 242, in Giust. civ., 1998, I, 258. Qualche sporadica pronuncia, comunque, equiparava la comunicazione di notizie a mezzo internet alla stampa :Trib. Roma, 6.11.1997, in Dir. informazione e informatica, 1998, 75; Trib. Teramo, 11.12.1997, in Dir. informazione e informatica, 1998, 370, con nota di P. COSTANZO, Libertà di manifestazione del pensiero e "pubblicazione" in Internet.

69(?) App. Roma, 11.1.2001, Mauro, in Dir. informaz. e informat., 2001, 31.

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marzo 2001, n. 62, in materia di editoria e prodotti editoriali, ha previsto espressamente l’estensione ai periodici on line solo di alcune delle disposizioni della legge 8 febbraio 1948, n. 47, e non ha, invece, previsto una estensione del modello di responsabilità previsto dall’art. 57 c.p. (70).

In una recente pronuncia di merito, invece, si è giunti a conclusioni diametralmente opposte, affermandosi che i periodici on line, in quanto prodotto editoriale, «sono soggetti anche alle indicazioni obbligatorie in tema di editoria previste per gli stampati e alla registrazione obbligatoria della testata (art. 1, comma terzo, legge 7 marzo 2001 n. 62). Quindi anche il giornale on line ha un suo direttore responsabile ed un editore che devono essere riportati sul sito web» (71). Sulla base di tali premesse il giudice di merito ha ritenuto applicabile l’art. 57 c.p. per mancato esercizio, sul contenuto del periodico, del

70(?) Trib. Catania, 8.4.2005, in Giur. aetnea, 2005, 2.La legge 7 marzo 2001, n. 62, stabilisce che «al prodotto

editoriale si applicano le disposizioni di cui all’art. 2 della legge 8 febbraio 1948 n. 47. Il prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata, costituente elemento identificativo del prodotto, è sottoposto agli obblighi previsti dall’articolo 5 della medesima legge n. 47 del 1948». Il legislatore, nel fornire tale definizione, ha pertanto fatto riferimento sia alle modalità con cui l’informazione viene raccolta (cioè mediante la memorizzazione di un file di testo su un supporto informatico) sia alle modalità attraverso le quali la notizia viene poi diffusa (mezzo elettronico costituito dalla rete telematica). Il prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare, e contraddistinto da una testata costituente elemento identificativo dello stesso, è soggetto agli obblighi di registrazione previsti dall’art. 5 della legge 8 febbraio 1948 n. 47: la previa registrazione della testata presso la cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi e la presenza di un direttore o vicedirettore responsabile iscritto all’Albo dei giornalisti. È necessario che le suddette formalità vengano espletate anteriormente alla pubblicazione del periodico, in caso contrario verrebbe ad integrarsi il reato di stampa clandestina ex art. 16, comma 1, legge 8 febbraio 1948 n. 47.

71(?) Trib. Firenze, 13.2.2009, n. 982, in www.penale.it.

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controllo necessario ad impedire che con il mezzo della pubblicazione siano commessi reati e, pertanto, se il direttore «avesse controllato il tenore dei commenti inseriti on line, avrebbe potuto cogliere quel profilo di antigiuridicità che ha dato luogo alla fattispecie penale. Conseguentemente, se il direttore responsabile, la cui attività consiste in una supervisione per impedire che vengano commessi reati, avesse esaminato o controllato e verificato i fatti oggetto della narrazione, avrebbe potuto evitare la diffamazione essendo pacifico che fra i compiti propri del direttore responsabile di un periodico, anche se on line, si annovera, innanzitutto, quello di verificare la certezza della notizia e, quindi, di impartire disposizioni affinché sia accertata la sua attendibilità» (72). Sulla questione è intervenuta anche la Cassazione che, in una recente pronuncia dal tenore radicalmente opposto rispetto a quella appena riportata, ha chiaramente affermato che l’omesso controllo ex art. 57 c.p. non è realizzabile da chi non sia direttore di un giornale cartaceo (73). Le premesse che hanno condotto la Suprema Corte verso tale conclusione vertono sul concetto di stampa e di stampato. In particolare, ha affermato che il messaggio internet e la pagina di un giornale telematico non possono essere ricondotti a tale categoria in quanto questa presuppone: una riproduzione tipografica; che il prodotto dell’attività tipografica sia destinato alla pubblicazione ed effettivamente distribuito tra il pubblico. Il fatto che la pagina di un giornale telematico possa essere stampata dal lettore non integra una circostanza determinante poiché è il destinatario colui che, selettivamente ed eventualmente, decide di riprodurre a stampa quanto riprodotto sul monitor del personal computer. Sebbene le comunicazioni telematiche siano, a volte, stampabili, esse certamente non riproducono stampati: la telematica

72(?) Trib. Firenze, 13.2.2009, n. 982, cit.. 73(?) Cass. pen. Sez.V, 16.7.2010, n. 35511, in www.penale.it.

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presenta un carattere di assoluta eterogeneità rispetto alla stampa (74).

In altri termini, ci si trova dinanzi alla non assimilabilità normativamente determinata del giornale telematico a quello stampato e comunque alla inapplicabilità, nel settore penale, del procedimento analogico in malam partem. Accanto a tali argomentazioni di ordine sistematico la Cassazione prende in considerazione anche la problematica della esigibilità della «ipotetica condotta» del direttore del giornale telematico. Certo, appare singolare che tale aspetto venga sottolineato, forse per la prima volta in tali termini, in assenza di una specifica norma penale incriminatrice e di un corrispondente titolo di responsabilità che potrebbe venir meno tenendo in considerazione proprio tale aspetto.

In un’altra pronuncia di merito si è proceduto all’assimilazione della figura del gestore di un blog a quella del direttore responsabile. La posizione dei due soggetti è stata definita identica, pur se “formalmente” per indicare il gestore del blog o il proprietario di un sito internet non viene utilizzata tale forma semantica. Le ragioni che hanno condotto il Tribunale a tale risultato sono state ancorate al fatto che il gestore di un blog possiede «il totale controllo di quanto viene pubblicato e, allo stesso modo di un direttore responsabile, ha il dovere di eliminare i contenuti offensivi» (75). Ancora una volta si pone il problema di individuare la fonte dell’obbligo giuridico di impedire l’evento diffamatorio che possa verificarsi attraverso il blog. Attualmente non è dato rinvenire alcuna fonte di tale obbligo, non essendo individuabile nessuna norma di legge o contratto, né tantomeno la gestione di un sito internet potrebbe qualificarsi come attività pericolosa consistente nel mettere a disposizione l’accesso alla rete e nella fornitura dei relativi servizi. Né l’astratta possibilità che si commettano reati on-line può comportare che la

74(?) Cass. pen. Sez.V, 16.07.2010, n. 35511, cit.75(?) Trib. Aosta, 26.5.2006, in Dir. & Giust., 2006, 31.

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concessione di servizi destinati agli utenti si qualifichi di per sé pericolosa. È evidente che se, da un lato, il blog può farsi rientrare tra gli strumenti idonei alla comunicazione di massa, dall’altro, non può essere ricondotto al concetto di mezzo di stampa. Né tantomeno sembra proponibile un’estensione analogica delle forme di responsabilità ex art 57 c.p. in capo al blogger o, più in generale, al gestore di un sito internet equiparando tali soggetti al direttore responsabile di un giornale, poiché si profilerebbe un’inaccettabile operazione ermeneutica qualificabile come interpretazione analogica in malam partem. Ciò non esclude, naturalmente che il blogger possa essere chiamato a rispsondere come concorrente del fatto illecito altrui. Ci si potrebbe interrogare sulla possibile configurabilità di una responsabilità dell’internet service provider (76) per mancato controllo del materiale inviato sul

76(?) Un Internet Service Provider è il soggetto che gestisce un server e che consente ai singoli utenti di interagire con l’intera rete internet, fruendo dei molteplici servizi che è possibile reperire sul web. Poiché la stessa esistenza dei singoli utenti del sistema si rende possibile solo attraverso un provider, attraverso quest’ultimo sarà possibile verificare quali attività penalmente (ma anche civilisticamente) illecite possano essere ricondotte ad un determinato individuo. Ovviamente in questa sede non importa riferirci agli illeciti dolosi che presuppongono un comportamento consapevole, sia esso di compartecipazione o agevolazione, dei gestori del servizio, che in talune ipotesi potrebbe anche essere contraddistinto anche dalla presenza di un dolo specifico, come il fine di procurare un profitto.

In Germania il service provider è chiamato a rispondere sia per il materiale illecito da lui creato che per quello prodotto da altri e messo a disposizione sul proprio server. In Francia viene chiamato a rispondere per le violazioni del copyright qualora ponga in essere una condotta che agevoli la preparazione e la diffusione del materiale oggetto della violazione, invece non è considerato responsabile per le comunicazioni effettuate direttamente dagli utenti. Nei sistemi di common law, e in particolar modo in Gran Bretagna, qualsiasi soggetto che partecipi alla diffusione di notizie aventi contenuto diffamatorio stessa viene chiamato a rispondere a titolo di concorso con l’autore. Il fornitore della notizia può discolparsi provando di non aver preso parte alla creazione del materiale diffamatorio, di non essere a conoscenza del suo contenuto, né di essere in grado di venirne a conoscenza. Negli

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proprio server e quindi di una responsabilità per fatto dell’utente. Sul punto va ricordato che l’art. 14 D.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, chiarisce che non sono responsabili dei reati commessi in rete gli access providers, i service providers e gli hosting providers, a meno che non fossero al corrente del contenuto criminoso del messaggio diffuso ma, in tale ipotesi, risponderebbero a titolo di concorso nel reato doloso e non ex art. 57 c.p. Il gestore, infatti, non ha alcun potere di controllo e nessuna conoscenza della posta elettronica inviata di cui, tra l’altro, è fatto divieto di prendere contezza ex art. 617-quater c.p. (77).

In ogni caso, considerando anche il flusso di dati immessi giornalmente sui server, procedere ad un controllo puntuale e concreto sul loro contenuto sarebbe un’operazione pressoché impossibile da realizzare, anche nell’ipotesi in cui il legislatore imponesse un obbligo di vigilanza e di controllo su eventuali contenuti illeciti di qualsiasi connessione. Ecco che allora in tale settore il legislatore ha preferito non imporre alcun obbligo di controllo probabilmente perché consapevole del fatto che il gestore non sarebbe in grado di esercitare un potere di impedimento dell’evento, non avendo la disponibilità di tutto il materiale che verrà pubblicato, ma potrebbe procedere ad un controllo solo ex post; un controllo preventivo in tempo reale, invece, sarebbe impraticabile dinanzi all’enorme massa di dati immessi nella rete e soggetti a continua modificazione (78). Stati Uniti, infine, i fornitori di servizi che offrono servizi di comunicazione o di trattamento delle informazioni, si considerano responsabili, in concorso, per tutte le comunicazioni effettuate sui loro servers.

77(?) In tal senso Cass. pen. Sez. V, 11.11.2008, Ricci, in C.E.D. Cass., n. 24960.

78(?) Uno dei più recenti tentativi – che comunque non ha avuto concreta attuazione – di estendere le disposizioni della legge sulla stampa ai siti internet aventi natura editoriale è racchiuso nel disegno di legge n. 3176 del 26.10.2004 recante “Norme in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante”, dal

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Dal momento che non può più ritenersi attuale - se mai lo fosse stata in passato - l’idea di considerare la stampa un mezzo di diffusione dell’informazione ben più “pericoloso” della radiotelevisione o del web (né tantomeno è possibile negare che tali mezzi di informazione possiedano almeno una pari potenzialità lesiva), non si vede perché - considerate le dimensioni attualmente assunte da settimanali e quotidiani - non si possa pervenire a conclusioni analoghe anche per il settore della stampa eliminando dal panorama normativo esistente la responsabilità del direttore di giornale. Inoltre, la medesima potenzialità lesiva sussistente in capo ai mezzi di diffusione dell’informazione di cui si discute trova conferma nella contraddittorietà rinvenibile anche in diverse pronunce della Corte costituzionale con le quali, da un lato, la Corte ha sottolineato la minore lesività del mezzo radiotelevisivo rispetto alla stampa e, dall’altro, ne ha riconosciuto la capacità di immediata e capillare penetrazione nell’ambito sociale e la forza suggestiva dell’immagine unita alla parola (79).

7. Il principio di personalità dell’illecito e il trattamento sanzionatorio riservato al direttore dall’art. 57 c.p.

La lettura dell’art. 27 della Costituzione sarebbe monca laddove non si tenesse conto che il principio di personalità permea profondamente di sé anche il momento sanzionatorio: personalità della sanzione e personalità quale è possibile evincere la consapevolezza del legislatore circa l’esistenza del problema di cui ci stiamo occupando.

79(?) Corte cost., ord., 22.10.1982, n. 168, in Giur. it., 1983, I, 1, 516, con nota di E. ROPPO, Disciplina dei «mass media» e coerenza del legislatore. (Il regime penale della diffamazione al vaglio di costituzionalità) e Corte cost., 21.7.1981, n. 148, in www.cortecostituzionale.it.

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dell’illecito si muovono parallelamente (80). Ma un’attenta valutazione del principio di personalità dell’illecito non può limitarsi a verificarne la rilevanza esclusivamente sulla struttura del criterio di imputazione del fatto al soggetto, poiché la sottoposizione a sanzione per fatti posti in essere da un altro soggetto si risolverebbe in un esclusivo perseguimento della prevenzione generale e di una finalità unicamente intimidatrice della sanzione penale, perdendosi di vista la rieducazione del condannato. I dubbi e le perplessità sopra evidenziati a proposito della responsabilità del direttore sembrano riflettersi inevitabilmente anche sull’aspetto sanzionatorio: la sottoposizione a pena per un fatto commesso da un altro soggetto si scontra, ancora una volta, con il dettato costituzionale. Da un lato, non è possibile, in nome di un’efficacia intimidatrice, colpire un soggetto estraneo al fatto e, dall’altro, nello stabilire la specie e la quantità della sanzione non possono non tenersi in considerazione le condizioni personali dell’agente e, naturalmente, la gravità del fatto stesso.

Pare opportuno soffermarsi, quindi, anche sul trattamento sanzionatorio riservato al direttore dall’art. 57 c.p. e verificare se possano profilarsi dei dubbi anche sotto tale profilo.

In primo luogo, dalla lettura dell’ultima parte della disposizione – che prevede l’applicazione della pena stabilita per il reato commesso col mezzo della pubblicazione, diminuita in misura non eccedente un terzo – sembrerebbe potersi evincere che il legislatore, anziché

80(?) Così A. PAGLIARO, Il fatto di reato, Priulla, Palermo, 1960, 409. L’A. ha precisato che il principio della personalità della responsabilità penale si scinde in una duplice statuizione: personalità dell’illecito e personalità della sanzione. Nella prima accezione comporta che il soggetto abbia contribuito alla realizzazione del fatto di reato, nella seconda sta ad indicare che il contenuto afflittivo della sanzione debba necessariamente rivolgersi solo al soggetto cui è imputabile l’illecito penale e non a soggetti diversi. Nello stesso senso F. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, vol. I, Giuffrè, Milano, 1965, 87.

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prevedere un autonomo trattamento sanzionatorio per un’autonoma fattispecie di reato, quale è quella contemplata nell’art. 57 c.p., abbia preferito ancorare tale trattamento al sistema sanzionatorio previsto da altre norme penali incriminatrici, procedendo ad un richiamo quoad poenam della fattispecie di volta in volta integrata attraverso la condotta posta in essere dall’autore della pubblicazione (81). La sanzione di cui il direttore risulta essere destinatario viene, pertanto, determinata con riferimento alla pena stabilita per il reato dell’autore dello scritto incriminato ma non ci si può esimere dall’osservare come nonostante il direttore venga punito “a titolo di colpa”, questi sarà destinatario di una pena commisurata ad un reato che normalmente sarà doloso, come la diffamazione (82).

A quanto appena osservato sembrerebbe naturale opporre il rilievo che la prevista diminuzione di pena (in misura non eccedente un terzo) debba intendersi come un esplicito riconoscimento da parte del legislatore dell’atteggiamento colposo che connota (o dovrebbe connotare) la condotta del direttore, soggetto che dovrebbe essere punito meno intensamente dell’autore del reato commesso col mezzo della pubblicazione. Tuttavia, non sembra superfluo interrogarsi, ancora una volta, sulla corrispondenza tra previsione legislativa e prassi applicativa e, quindi, sull’effettiva conferma sul piano

81(?) La giurisprudenza a tal proposito ha precisato che il legislatore ha istituito un criterio autonomo di commisurazione della pena ancorato alla pena a sua volta comminata per il reato-evento, non già a quella irrogata. E, poiché l’art. 57 c.p. prevede una fattispecie di reato autonoma, le circostanze aggravanti contestate per il delitto di diffamazione, ad esempio, non sono riferibili anche al delitto previsto dall’art. 57 c.p., sebbene incidano sulla misura della pena irrogabile per tale reato. Così Cass. pen. Sez. I, 10.12.1990, Bonanno, in C.E.D. Cass., n. 186159; Cass. pen. Sez. V., Tossi, 13.5.2008, in C.E.D. Cass., n. 240494.

82(?) È comunque possibile che il reato commesso dall’autore della pubblicazione possa essere colposo come nel caso della contravvenzione di cui all’art. 656 c.p.

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pratico di tale differenziazione circa il trattamento sanzionatorio riservato a tali soggetti. Nell’applicazione giurisprudenziale la distinzione di cui si discute sembra appiattita da riduzioni di pena in concreto minime e, spesso, sia il direttore che il giornalista autore dell’articolo vengono sottoposti alla medesima sanzione (83). Inoltre la giurisprudenza, nella quasi totalità dei procedimenti penali che vedono come protagonisti il direttore responsabile (chiamato a rispondere ex art. 57 c.p.) ed un giornalista (generalmente chiamato a rispondere di una condotta diffamatoria), di fronte alla pena alternativa della reclusione o della multa opta quasi sempre per la condanna al pagamento della pena pecuniaria. Ciò accade perché nel rapporto tra art. 595 c.p. che disciplina la diffamazione (che prevede la pena alternativa della reclusione e della multa) e art. 13 della legge 8 febbraio 1947, n. 47, che riguarda la diffamazione commessa col mezzo della stampa (che prevede la pena cumulativa della reclusione e della multa) quest’ultima disposizione viene considerata un’aggravante della prima e non un’autonoma fattispecie di reato. In tal modo, nel giudizio di bilanciamento delle circostanze, stante la quasi “automatica” concessione delle attenuanti generiche, si finisce per non tenere conto dell’aggravante di cui all’art. 13 summenzionato e per applicare l’art. 595 c.p. che prevede la sanzione alternativa della reclusione e della multa: e il giudice opta quasi sempre per la sanzione pecuniaria.

Tale ultimo rilievo va comunque posto in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, nella decisione Kydonis c. Grecia (84), ha per la prima volta espressamente affermato un generale principio di

83(?) Sono diverse le pronunce dei Giudici di merito che riservano un medesimo trattamento sanzionatorio al direttore e all’autore dell’articolo. Tra queste: Trib. Milano, Belpietro, 27.11.2007, inedita e confermata da App. Milano, Belpietro, 2.10.2008, inedita; App. Trento Sez. Bolzano, Schwezer, 3.10.2007, inedita; Trib. Roma, Cervi, 7.6.2001, inedita e confermata da App. Roma, Cervi, 4.6.2004, inedita.

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incompatibilità tra la previsione della pena detentiva per i reati a mezzo stampa e la libertà di espressione. Va sottolineato che la pronuncia appena richiamata si è spinta oltre il controllo sul giudizio di bilanciamento posto in essere dal giudice nazionale nel caso concreto fino a lambire la discrezionalità del legislatore nelle scelte sanzionatorie a tutela dell’onore e della reputazione. Dalle argomentazioni utilizzate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo emerge che già la mera presenza di una minaccia della privazione della libertà personale – e quindi di una sanzione detentiva anche convertibile in pena pecuniaria – potrebbe influire sui mezzi di informazione nel senso di produrre un effetto dissuasivo per l’esercizio della libertà di stampa e ciò potrebbe avere delle ripercussioni anche sullo stesso diritto ad essere informati.

Sebbene si tratti di una isolata pronuncia (non riguardante, tra l’altro, l’Italia), sembra comunque naturale interrogarsi sulla compatibilità della diffamazione con il complesso delle garanzie contemplato nell’art. 10 CEDU. Emerge una certa divergenza con il diritto interno che si riflette, per alcuni aspetti, anche sulle scelte legislative concernenti l’entità della sanzione per i reati commessi con il mezzo della stampa. La Corte europea dei diritti dell’uomo sembrerebbe considerare ammissibile una sanzione detentiva solo per tipologie ben precise di reati a mezzo stampa, primi fra tutti quelli che integrano la diffusione di messaggi di incitamento all’odio o alla violenza.

8. Le ulteriori ipotesi di responsabilità del direttore: a) il direttore autore dello scritto; b) il concorso di persone nel reato.

84(?) Kydonis c. Grecia, 2.5.2009, n. 24444/07, in www.echr.coe.int/echr.

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Sembra doveroso, a questo punto, esaminare le ipotesi di responsabilità penale del direttore diverse dal caso di omesso controllo sulla pubblicazione. Se nessun problema pone la condotta del direttore che sia allo stesso tempo l’autore dello scritto che integra gli estremi di un illecito penale, pare opportuno soffermarsi, invece, sulle ipotesi di pubblicazione di articoli redazionali o, in ogni caso, privi di firma. È necessario, infatti, interrogarsi sui profili di responsabilità penale che possono scaturire in capo al direttore in caso di pubblicazione di un articolo anonimo.

A tal proposito in giurisprudenza si registra la presenza di un duplice orientamento. Da un lato si è optato per un’interpretazione secondo la quale «la pubblicazione di un articolo senza nome comporta l’attribuzione di questo alla redazione e cioè al direttore responsabile del periodico; la firma apposta sull’articolo, infatti, ha la funzione di individuare la persona che si assume professionalmente la responsabilità delle notizie pubblicate». Pertanto, «il direttore che consente la pubblicazione di un articolo anonimo, ne assume in prima persona la responsabilità. Non si tratta, al riguardo, di una “responsabilità oggettiva”, bensì di una consapevole condotta volta a diffondere uno scritto diffamatorio» (85). Dall’altro, secondo un’interpretazione maggiormente garantista, si afferma che, «contrariamente a quanto comunemente si ritiene, la pubblicazione di un articolo di stampa senza indicazione dell’autore non dimostra di per sé che ne sia autore il direttore del quotidiano o del settimanale che lo pubblica. Certo, il direttore che autorizza la pubblicazione di uno scritto anonimo assume un obbligo di verifica più rigoroso. Ma ciò non esclude che il titolo della sua eventuale responsabilità permanga quello previsto dall’art. 57 c.p., ove non ne risulti provata la

85(?) Cass. pen. Sez. V, 10.1.2001, Forleo, in Cass. pen., 2002, 2345 con nota di G. LE PERA, Articolo non firmato e responsabilità del direttore: un pericoloso ritorno alla responsabilità senza colpa.

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paternità dello scritto ovvero il concorso nel delitto di diffamazione» (86).

Invece, qualora il direttore abbia contribuito materialmente o moralmente alla pubblicazione potrà essere chiamato a rispondere del reato commesso attraverso la pubblicazione stessa. Inutile ribadire che la responsabilità a titolo di concorso postula la presenza di tutti gli elementi generalmente occorrenti a norma dell’art. 110 c.p., secondo la ordinaria disciplina normativa, tra i quali il dolo. Per affermare il concorso nel reato commesso attraverso la pubblicazione, che generalmente si identifica nella diffamazione commessa dall’autore dello scritto, la giurisprudenza ritiene che occorra dimostrare che il direttore ha voluto la pubblicazione conoscendone il contenuto lesivo e, quindi, la sussistenza della consapevolezza di aggredire la reputazione altrui (87). Il giudice dovrà tener conto di quel complesso di circostanze esteriorizzate nella pubblicazione, come il contenuto dello scritto, la sua correlazione con il contesto sociale dal quale trae ispirazione, la forma della esposizione, l’evidenza e la collocazione tipografica ad esso assegnata nello stampato. Tali circostanze, dalle quali si deve desumere la prova del concorso, costituiscono «espressione del meditato consenso e della consapevole adesione del direttore all’oggetto dello scritto, quale manifestazione del

86(?) Cass. pen. Sez. V, 9.5.2007, Rinaldi Tufi, in C.E.D. Cass., n. 237437. In dottrina è dello stesso avviso M. POLVANI, La diffamazione a mezzo stampa, cit., 249. Secondo l’A. non è possibile ritenere che ci si trovi al cospetto di una «responsabilità per il delitto di diffamazione, quando l’autore della pubblicazione sia ignoto, perché mancano le basi normative per ancorare, in mancanza di dolo, una responsabilità del direttore diversa da quella prevista dall’art. 57 c.p.».

87(?) In tal senso v. Cass. pen. Sez. V, 30.4.2008, De Luca, in C.E.D. Cass. 2008; Cass. pen. Sez. I, 7.7.1981, Cingoli, in Cass. pen., 1983, 421; Cass. pen. Sez. V, 2.5.1990, Scalfari, in C.E.D. Cass., n. 185122.

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convincimento e della partecipazione attiva di colui che la deve autorizzare» (88).

Queste le argomentazioni della giurisprudenza in tema di concorso del direttore nel reato commesso attraverso la pubblicazione, che consentono di individuare altresì i limiti tracciati dalla prassi applicativa tra l’omesso controllo integrante la fattispecie di cui all’art. 57 c.p. e un caso di concorso di persone nel reato commesso col mezzo della pubblicazione. Occorre, infatti, tenere in considerazione che nel caso in cui la condotta del direttore sia di natura omissiva, la distinzione tra responsabilità per omesso controllo di natura colposa ex art. 57 c.p. e responsabilità in concorso con l’autore dello scritto per omissione volontaria del controllo non rappresenta un’operazione agevole stante la presenza di un’identica condotta materiale.

9. La responsabilità penale del direttore di giornale negli ordinamenti stranieri.

Ulteriori spunti di riflessione possono delinearsi verificando quali siano i profili di responsabilità penale del direttore di giornale nei sistemi giuridici diversi da quello italiano. Sebbene abbiano caratteristiche differenti, i profili di responsabilità penale concernenti la figura del direttore negli ordinamenti di civil law presentano un tratto comune: sul piano pratico si rischia di lambire una responsabilità per fatto altrui, contraria al principio di personalità della responsabilità penale riconosciuto in tali ordinamenti. Ecco che allora il ricorso allo strumento comparatistico in un quadro normativo tutt’altro che semplice come quello rappresentato dal diritto penale dell’informazione può essere posto in chiave dialettica o problematica. In tale

88(?) Cass. pen. Sez. V, 13.2.1985, Criscuoli, in Cass. pen., 1986, 1192.

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prospettiva l’analisi di altri ordinamenti stranieri può avere lo scopo di suggerire all’interprete spunti di ragionamento giuridici diretti ad evitare il perpetrarsi delle identiche problematiche presenti in ordinamenti differenti. Se una determinata previsione normativa comune a diversi ordinamenti si traduce in soluzioni giurisprudenziali discutibili il legislatore più avveduto ne potrebbe ricavare il suggerimento di procedere ad una radicale “inversione di rotta”. Il richiamo ad esperienze straniere non può determinare una supina condivisione delle soluzioni normative ivi proposte se queste presentano notevoli profili di perplessità ma può, anzi, costituire uno stimolo verso l’adozione di soluzioni radicalmente differenti, come quella di eliminare dal panorama legislativo una disposizione normativa evidentemente problematica.

10. (Segue): a) il sistema francese.

Nel sistema francese la legge sulla stampa del 29 luglio del 1881 dedica un paragrafo di sei articoli, 42-46, alla responsabilità penale e civile dei delitti commessi a mezzo stampa delineando la c.d. responsabilità en cascade. In particolare, secondo quanto previsto dall’art. 42, «le directeurs de la pubblications ou éditeurs, quelle que soient leurs professions ou leurs dénominations» saranno considerati gli autori principali, mentre gli autori materiali degli scritti saranno perseguiti quali complices. Solo se non è possibile individuare il direttore e l’editore della pubblicazione gli autori principali saranno individuati nei soggetti che hanno scritto la pubblicazione incriminata. Nel caso in cui non si renda possibile individuare nemmeno questi ultimi saranno perseguiti i tipografi e se nemmeno costoro potranno essere individuati verranno chiamati a rispondere i venditori e i distributori.

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Ecco che allora si comprende il motivo per il quale l’art. 6 della legge del 1981 esordisce precisando che necessariamente «toute publication de presse doit avoir un directeur de la publication»: il primo soggetto perseguito per i reati a mezzo stampa è proprio quest’ultimo. La dis-posizione appena richiamata prosegue, poi, precisando che «lorsqu’une personne physique est propriétaire ou loca-taire-gérant d’une entreprise éditrice au sens de la loi n° 86-897 du 1er août 1986 portant réforme du régime juri-dique de la presse ou en détient la majorité du capital ou des droits de vote, cette personne est directeur de la publi-cation. Dans les autres cas, le directeur de la publication est le représentant légal de l’entreprise éditrice. Toutefois, dans les sociétés anonymes régies par les articles L. 225-57 à L. 225-93 du code de commerce, le directeur de la pu-blication est le président du directoire ou le directeur géné-ral unique» (89).

Va notato, quindi, che a differenza del nostro ordinamento il sistema francese identifica il direttore della pubblicazione con il proprietario, o con il locatario-gerente, di una impresa editrice, con colui che detiene la

89(?) Per completezza, va precisato che l’articolo in discorso si chiude disciplinando specificamente l’ipotesi in cui il directeur de la pu-blication goda dell’immunità parlamentare: «si le directeur de la publi-cation jouit de l’immunité parlementaire dans les conditions prévues à l’article 26 de la Constitution et aux articles 9 et 10 du Protocole du 8 avril 1965 sur les privilèges et immunités des communautés euro-péennes, l’entreprise éditrice doit nommer un codirecteur de la publi-cation choisi parmi les personnes ne bénéficiant pas de l’immunité par-lementaire et, lorsque l’entreprise éditrice est une personne morale, parmi les membres du conseil d’administration, du directoire ou les gé-rants suivant la forme de ladite personne morale. Le codirecteur de la publication doir être nommé dans le délai d’un mois à compter de la date à partir de laquelle le directeur de la publication bénéficie de l’im-munité visée à l’alinéa précédent. Le directeur et, éventuellement, le codirecteur de la publication doivent être majeurs, avoir la jouissance de leurs droits civils et n’être privés de leurs droits civiques par aucune condamnation judiciaire. Toutes les obligations légales imposées au di-recteur de la publication sont applicables au codirecteur de la publica-tion».

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maggioranza del capitale della stessa, o comunque, con il rappresentante legale dell’impresa editrice.

Il sistema della responsabilità en cascade, però, sebbene sia diretto alla realizzazione del duplice obiettivo di assicurare l’individuazione di un soggetto responsabile e di tutelare i giornalisti garantendo loro un’ampia libertà di espressione, non consente al direttore di fornire una prova contraria che possa consentirgli di andare esente da responsabilità penale e quella così prospettata sembra assumere i contorni di una responsabilità per fatto altrui. Quest’ultima forma di responsabilità, è inutile dirlo, contrasta con il principio della personalità della responsabilità penale riconosciuto anche dal sistema francese: il codice penale del 1993, all’art. 121-1, infatti, dispone che «nul n’est responsable pénalement que de son propre fat». Non sono configurabili, pertanto, forme di responsabilità collettiva, per fatto altrui o presunzioni di colpevolezza.

Nonostante ciò la giurisprudenza francese ha espressamente negato che la disciplina sulla responsabilità del direttore possa porsi in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo la quale, al secondo comma dell’art. 6, espressamente stabilisce che «ogni persona accusata di un reato è presunta innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata». La Corte di cassazione francese ha, infatti, affermato che «dès que le caractère diffamatoire d’un écrit périodique est dé-montré, le directeur de publication qui l’a rendu public est responsable de droit, en qualité d’auteur principal, du délit de diffamation, en application de l’article 42 de la loi du 29 juillet 1881 dont les dispositions ne sont pas incompatibles avec celles de l’article 6 de la Convention européenne de sauvegarde des droits de l’homme et des libertés fonda-mentales» (90).

90(?) Cour de Cassation, Chambre criminelle, 17.121991, 90-83.534, in www.legifrance.gouv.it.

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Ma essendo estremamente difficile che il direttore di un grande quotidiano verifichi personalmente il contenuto di ogni singolo articolo, è inevitabile anche qui il riproporsi delle medesime perplessità sollevate a proposito del sistema italiano soprattutto se ci si sofferma sul fatto che neanche il sistema francese, in tale settore, ammette il ricorso all’istituto della delega di funzioni. Ancora una volta si finge di credere che il direttore di un quotidiano composto da centinaia di pagine verifichi personalmente l’integrale contenuto dello stesso.

Va comunque segnalato che dalla giurisprudenza, resasi conto del fenomento appena descritto, non provengono dei segnali del tutto negativi. In una pronuncia del 2000, è stata ammessa la possibilità che - allorquando la responsabilità del direttore di giornale sia accertata secondo le regole di diritto comune per una pubblicazione che non integra un reato di stampa - tale soggetto possa andare esente da responsabilità qualora si sia trovato nell’impossibilità di adempiere al suo dovere di controllo (91). Certo, sarebbe auspicabile che tale soluzione trovasse applicazione anche nell’ipotesi prevista dall’art. 42 della legge sulla stampa del 1881, ma sicuramente ci troviamo dinanzi ad un’apertura giurisprudenziale di non poco conto che potrebbe aprire il varco a nuovi orientamenti che tengano effettivamente conto della realtà organizzativa giornalistica.

11. (Segue): b) l’ordinamento spagnolo.

Anche l’ordinamento spagnolo prevede una forma di responsabilità “a cascata” che assume però contorni differenti rispetto a quelli delineati dal sistema francese. La norma di riferimento trova collocazione all’interno della

91(?) Cour de Cassation, Chambre criminelle, 14.6.2000, in Bulle-tin des arrêts de la Cour de cassation, n. 223.

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parte generale del codice penale spagnolo, mentre il ruolo del direttore viene definito dall’art. 34 della legge sulla stampa del 19 marzo 1966.

In particolare, l’art. 30 del codice penale spagnolo stabilisce che «en los delitos y faltas que se cometan utilizando medios o soportes de difusión mecánicos no responderán criminalmente ni los cómplices ni quienes los hubieren favorecido personal o realmente. Los autores a los que se refiere el artículo 28 responderán de forma escalonada, excluyente y subsidiaria de acuerdo con el siguiente orden: 1º Los que realmente hayan redactado el texto o producido el signo de que se trate, y quienes les hayan inducido a realizarlo; 2.º Los directores de la publi-cación o programa en que se difunda; 3.º Los directores de la empresa editora, emisora o difusora; 4.º Los directores de la empresa grabadora, reproductora o impresora. Cuando por cualquier motivo distinto de la extinción de la responsabilidad penal, incluso la declaración de rebeldía o la residencia fuera de España, no pueda perseguirse a ninguna de las personas comprendidas en alguno de los números del apartado anterior, se dirigirá el procedimiento contra las mencionadas en el número inmediatamente posterior». Come è evidente il sistema di responsabilità ivi descritto risulta strutturato in quattro livelli differenti: autore, direttore, editore e stampatore, o loro equivalenti, quando si tratta di mezzi di comunicazione diversi come la radio, la televisione, etc… Se nessun problema pone la responsabilità di coloro che hanno «realmente» posto in essere la condotta criminosa, qualche perplessità può sorgere in ordine ai profili di responsabilità individuabili in capo agli altri soggetti, primo fra tutti il direttore della pubblicazione o del programma. La disposizione fa riferimento anche a coloro che svolgono funzioni direttive all’interno dei moderni mezzi di comunicazione televisiva e radiofonica: anche qui non va dimenticato, però, che la maggior parte degli editori non sono persone fisiche ma

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giuridiche e pertanto si pongono problemi di tipicità che non appaiono certamente di poco conto.

Il fondamento della disciplina in discorso è stato rinvenuto da parte della dottrina spagnola in una duplice finalità in quanto garantirebbe, in tale settore, una limitazione della responsabilità penale ed una effettività della stessa. In altri termini, da un lato, grazie a tale disciplina si ridurrebbe il numero dei responsabili anche se la pubblicazione è stata opera di una pluralità di soggetti poiché, secondo la lettera della legge, i complici e coloro che hanno favorito la realizzazione dell’illecito non saranno destinatari della sanzione penale; dall’altro, la disciplina in discorso rappresenterebbe uno strumento idoneo ad evitare la vanificazione dell’intervento del diritto penale nel caso in cui un soggetto – che per qualunque causa sia non punibile – fingesse di essere l’autore del testo (92).

L’apparente semplicità del precetto contemplato nella disposizione de qua assume dei contorni poco nitidi nel momento in cui si prova a riflettere sulle condizioni in base alle quali tale forma di responsabilità va imputata ai soggetti contemplati nell’elenco. L’ultimo comma dell’articolo 30 del codice penale spagnolo dispone che sarà chiamato a rispondere il soggetto indicato al livello successivo quando «per qualunque motivo» non è possibile agire contro i soggetti inclusi nel livello superiore. Anche qui sembra configurabile un contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale: la mancata perseguibilità di uno dei soggetti sopra indicati fa si che il soggetto collocato immediatamente dopo nell’elenco sia chiamato a rispondere del reato commesso rischiando di vanificare l’operatività del principio di personalità dell’illecito. Invece, nella dottrina spagnola, vi è chi sottolinea come l’esistenza del principio di colpevolezza impedisce che il sistema di responsabilità descritto dall’art.

92(?) J. LÓPEZ BARIA DE QUIROGA, Commento all’art. 30 c.p., in Comentarios al código penal, (diretto da) C. Conde-Pumpido Tourón, Bosch, Barcelona, 2007, 437.

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30 c.p. possa essere interpretato come un’ipotesi di responsabilità oggettiva, né, tantomeno, come un caso di culpa in vigilando. E si afferma, così, che - poichè l’art. 30 darebbe vita ad un sistema di posizioni di garanzia - il soggetto indicato nel gradino successivo potrà essere chiamato a rispondere solo qualora si verifichi una delle condizioni previste dal terzo comma della disposizione, quando questi possa essere considerato autore a titolo omissivo del delitto in questione (93). Ci sia comunque consentito palesare qualche perplessità a tal proposito, in quanto il direttore della pubblicazione, primo fra tutti, verrebbe chiamato a rispondere in forza di circostanze che potrebbero essergli estranee e nemmeno una lettura costituzionalizzata delle norme penali in discorso consentirebbe di superare tale grosso ostacolo.

12. (Segue): c) l’ordinamento tedesco.

Il comma 1, n. 2 dell’art. 75 della legge fondamentale tedesca prevede che ciascuno Stato federale abbia il diritto di dar vita alle c.d. disposizioni “cornice” in materia di stampa. In particolare, nel prevedere una ripartizione della competenza penale tra lo Stato e i Länder, la legge fondamentale stabilisce che questi ultimi possano regolare determinati settori, soprattutto laddove manchi una regolamentazione a livello federale. Proprio in materia di stampa, in assenza di una specifica legge statale, la relativa disciplina è rinvenibile nelle singole leggi dei Länder; pertanto all’interprete non resta che volgere lo sguardo verso queste ultime. Le leggi regionali sulla stampa - ad eccezione di quelle della Renania-Palatinato e della Turingia - si occupano della particolare responsabilità penale del verantwortlicher Redakteur (cioè del direttore

93(?) J. LÒPEZ BARJA DE QUIROGA, Commento all’art. 30 del codice penale spagnolo, cit., 438.

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responsabile) o, nel caso della stampa non periodica, del Verleger (cioè dell’editore). Per i direttori responsabili del settore radiotelevisivo e per i provider di servizi internet, invece, le relative norme del diritto radiotelevisivo, nonché il § 55 co. 2 RStV del trattato sulla radiodiffusione non fanno specifico riferimento a una responsabilità penale di tali soggetti.

Se dal punto di vista della formulazione, le disposizioni normative che concernono la responsabilità penale del verantwortlicher Redakteur si discostano tra loro in modo rilevante, in un’ottica di insieme tale particolare forma di responsabilità penale è configurata in modo molto simile nelle leggi dei singoli Länder. Nel settore della stampa periodica i direttori responsabili - il cui nominativo deve essere obbligatoriamente indicato nel colophon - hanno per legge l’obbligo di verificare che il contenuto della pubblicazione non assuma rilevanza penale e di vietare la pubblicazione del contenuto penalmente rilevante. Tale obbligo incombe sul soggetto che sia effettivamente designato per volontà dall’editore quale direttore responsabile e che per tale ragione decide se un determinato articolo può essere pubblicato o meno. Pertanto, anche nel sistema tedesco la funzione essenziale del direttore responsabile consiste nell’obbligo di verificare e di impedire la pubblicazione di articoli aventi contenuto penalmente rilevante; ed in capo a tale soggetto, generalmente, viene previsto un obbligo di controllo sul contenuto dello stampato. In sostanza, viene delineata una duplice presunzione: da un lato, si presume che il verantwortlicher Redakteur sia a conoscenza di quanto pubblicato e, dall’altro, che la pubblicazione sia comunque stata oggetto di una sua autorizzazione, mentre la delega di siffatto obbligo di controllo viene considerata comunque una violazione dell’obbligo di diligenza richiesta nello svolgimento di tale attività.

Nell’ambito della stampa non periodica, invece, la legge non dispone che venga nominato un direttore

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responsabile: al suo posto vi è l’editore sul quale graverà la responsabilità penale.

Il direttore o l’editore saranno punibili qualora abbiano violato l’obbligo su loro gravante purché non siano già punibili secondo quanto previsto dalle disposizioni generali del diritto penale come autori o partecipanti, avendo concorso alla concreta realizzazione dell’illecito. Va, però, precisato che tali soggetti verranno considerati responsabili solo se hanno agito con dolo o con colpa e che è necessario che nel singolo caso concreto si accerti non solo la presenza di una pubblicazione che abbia un contenuto che possa assumere una rilevanza penale, ma anche che il direttore sia stato in grado di impedire la pubblicazione. Ciò presuppone che questi abbia contribuito alla realizzazione dell’oggetto della pubblicazione, ipotesi che non può realizzarsi qualora questi sia in ferie o assente per malattia.

13. La fattispecie di omesso impedimento dei reati commessi col mezzo della stampa nei progetti di riforma del codice penale italiano.

La fattispecie di omesso impedimento dei reati commessi col mezzo della stampa è presente in tutti i progetti di riforma del codice penale che si sono susseguiti nel corso degli anni.

Ad eccezione del progetto Riz, che sostanzialmente ricalca la vigente disciplina (94), negli articolati elaborati dalle varie Commissioni si procede alla parificazione delle posizioni dei soggetti responsabili delle pubblicazioni e

94(?) Il progetto Riz, consultabile in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 927, agli artt. 56 (Reati commessi col mezzo della stampa) e 57 (Procedibilità), non presenta profili innovativi essendosi semplicemente limitato a riportare all’interno di due articoli ciò che l’attuale codice penale prevede agli artt. 57, 57-bis, 58 e 58-bis.

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delle trasmissioni radiotelevisive, segno questo della coscienza dell’attuale disparità di trattamento tra le discipline vigenti.

In particolare, il Progetto Pagliaro (95) dedica un apposito articolo (art. 31) al Mancato impedimento di reati a mezzo della stampa o di trasmissioni radiotelevisive prevedendo la punibilità del responsabile della pubblicazione o della trasmissione che, fuori dei casi di concorso, omettendo di controllare il contenuto della pubblicazione o della trasmissione, non impedisce per colpa che col loro mezzo sia commesso un fatto di reato, comminando la pena preveduta per il reato commesso, diminuita da un terzo a due terzi. Il medesimo articolo prosegue stabilendo che la procedibilità per il reato si uniformi a quella preveduta per il reato commesso col mezzo della pubblicazione o della trasmissione e che la querela, la istanza o la richiesta, presentata contro il responsabile della pubblicazione o della trasmissione, abbia effetto anche nei confronti dell’autore. Infine, si prevede che sia considerato responsabile della pubblicazione, il direttore o il vicedirettore responsabile della stampa periodica o la persona, cui sia stata effettivamente trasferita la funzione di controllo; ovvero, nel caso di stampa non periodica o clandestina, l’editore, se l’autore della pubblicazione è ignoto o non imputabile, o lo stampatore, se l’editore non è individuato o non è imputabile. È considerato responsabile della trasmissione la persona che l’ha organizzata. Si ammette, dunque, la possibilità di procedere ad una delega della funzione di controllo.

Nella relazione che accompagna il lavoro della Commissione Grosso del 1998 (96) da un lato, si evidenziano gli aspetti innovativi dello schema Pagliaro a

95(?) La bozza di articolato del Progetto Pagliaro del 1992 è pubblicata in Indice pen., 1992, 579 e disponibile su www.giustizia.it.

96(?) In Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 574, nonché in www.giustizia.it.

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proposito dei reati a mezzo stampa o a mezzo trasmissioni radiotelevisive; la considerazione congiunta della stampa e della radiotelevisione; la previsione - quali destinatari della norma penale, accanto al direttore o vicedirettore responsabile - di soggetti “delegati” a svolgere la funzione di controllo e una accentuata riduzione di pena per il caso di omesso impedimento colposo. Dall’altro, ci si interroga se sia opportuno estendere, per ciascuno dei reati d’opinione previsti nella parte speciale come reati dolosi, la responsabilità penale a soggetti “garanti”, incriminando condotte di mancato impedimento colposo. Nella relazione si legge che «nel capo relativo alla responsabilità per omissione è stata inserita una disposizione (art. 27) in materia di omesso impedimento di reati commessi col mezzo della stampa o della radiotelevisione, che sostituisce gli attuali artt. da 57 a 58-bis. c.p. Rocco. La collocazione nella parte generale si pone in continuità con il diritto vigente». Nella citata relazione si specifica poi che «come “garante” è indicato il soggetto tenuto al controllo della pubblicazione “in base alla legge o alle disposizioni organizzative dell'impresa editoriale o radiotelevisiva” (art. 27 comma 2). Ciò intende evitare l’indicazione di un modello rigido, in cui la responsabilità sia sempre e comunque concentrata sul direttore, e si coordina con il sistema adottato in via generale a proposito delle posizioni di garanzia entro organizzazioni complesse. In via sussidiaria è prevista la responsabilità dello stampatore (art. 27 comma 3), limitatamente al caso in cui né autore né l’editore siano indicati (stampa clandestina). La responsabilità per colpa, alla quale soltanto si riferisce la disposizione in esame, è limitata all’ipotesi che l’autore del reato non sia indicato o non sia punibile per qualsiasi causa. La responsabilità penale per omesso controllo diviene così solo sussidiaria: ciò ne restringe di molto l’ambito di applicazione, e sottolinea la responsabilità primaria dell’autore. Ovviamente, resta ferma la possibilità di un concorso doloso nel reato: in tal caso, anche il

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concorrente risponde secondo le regole generali (come precisato, ad abbondanza, nell’art. 27 comma 1)». Su tali premesse, l’art. 27 dell’articolato (Omesso impedimento di reati commessi col mezzo della stampa e della radio-televisione) prevede che «per i reati commessi con il mezzo della stampa e della radio-televisione l’autore risponde secondo i principi generali. Fuori dei casi di concorso doloso nel reato, quando l’autore non è indicato o non è punibile per qualsiasi causa, per i reati commessi col mezzo della stampa o della radio-televisione risponde a titolo di colpa il soggetto che, in base alla legge o alle disposizioni organizzative dell’impresa editoriale o radio-televisiva, sia tenuto al controllo della pubblicazione o della trasmissione, e che non abbia, per colpa, impedito la realizzazione del delitto. La pena è quella prevista per il delitto doloso diminuita della metà. Se non sono indicati l’autore o l’editore, risponde ai sensi dei commi precedenti lo stampatore».

La Commissione Nordio del 2001 (97), decide di collocare la disciplina dell’Omesso impedimento dei reati commessi con il mezzo della stampa o della radiotelevisione (art. 22-bis) dopo la disposizione sul trasferimento di funzioni perché la si considera una forma anomala di partecipazione mediante omissione colposa nel reato doloso commesso dall’autore. La norma prevede che «dei reati commessi col mezzo della stampa o della radiotelevisione oltre all’autore risponde, fuori dei casi di concorso doloso, anche colui il quale, essendo tenuto per legge o secondo l’organizzazione dell’impresa a controllare il contenuto della pubblicazione o della trasmissione, non impedisce per colpa la commissione del reato, anche se di esso non è prevista dalla legge la punibilità a titolo di colpa. La pena è quella prevista per il reato doloso diminuita fino a un terzo».

97(?) L’articolato elaborato dalla Commissione Nordio è rinvenibile in www.giustizia.it.

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La Commissione Pisapia chiama a rispondere il soggetto preposto al controllo in via residuale, laddove l’autore non è individuato o non è punibile (98). In particolare, si prevede che «per i reati commessi col mezzo della stampa o della radio-televisione l’autore risponda secondo i principi generali; fuori dai casi di concorso doloso nel reato, quando l’autore non è individuato o non è punibile, ne risponda a titolo di colpa chi, in base alla legge o alle disposizioni organizzative dell’impresa, sia tenuto al controllo della pubblicazione o della trasmissione e non abbia, per colpa, impedito la realizzazione del reato; se non sono individuati l’autore o l’editore ne risponda lo stampatore ai sensi del comma precedente».

L’idea - presente in tutti i progetti di riforma - di non abbandonare la previsione della responsabilità penale per omesso controllo risulta comunque fortemente mitigata dall’ammissibilità del ricorso allo strumento della delega di funzioni e ciò indica certamente un’apertura del legilsatore verso il riconoscimento della validità dell’istituto della delga nel settore giornalistico, istituto considerato irrinunciabile nell’ottica del mantenimento di siffatta forma di responsabilità per omesso controllo. Ma è su un ulteriore aspetto che sembra opportuno soffermarsi: la presenza costante, all’interno dei progetti di riforma, di un riferimento all’impresa giornalistica, proprio a sottolineare l’ormai acquisita consapevolezza dell’aspetto imprenditoriale all’interno del quale si inserisce l’attività di diffusione dell’informazione, ma soprattutto dell’irrinunciabile necessità di un apparato organizzativo diretto ad un più efficiente controllo della pubblicazione o della trasmissione.

98(?) L’articolato elaborato dalla Commissione Pisapia è rinvenibile in www.giustizia.it.

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CAPITOLO III

LA RESPONSABILITÀ DELL’IMPRESA GIORNALISTICA EX D.LGS. 8 GIUGNO 2001, N. 231?

SOMMARIO: 1. Il D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, e il catalogo dei reati-presupposto. – 2. L’opportunità di inserire i reati commessi dal giornalista fra i reati-presupposto della responsabilità ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. – 3. Le soluzioni in ambito comparatistico: i sistemi di civil law – 4. (Segue): a) il sistema francese. – 5. (Segue): b) l’ordinamento spagnolo. – 6. (Segue): c) il sistema tedesco. – 7. I sistemi di common law: a) l’ordinamento inglese. – 8. (Segue): b) il sistema statunitense.– 9. L’interesse o il vantaggio dell’impresa giornalistica derivante dal reato del giornalista. – 10. I soggetti in posizione apicale e sottoposti all’altrui direzione all’interno dell’impresa giornalistica. – 11. I modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire i reati-presupposto. – 12. L’organismo di vigilanza all’interno dell’impresa giornalistica. – 13. Applicabilità all’impresa giornalistica del sistema sanzionatorio delineato dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. – 14. (Segue): La pubblicazione della sentenza di condanna come specifica sanzione diretta all’impresa giornalistica.

1. Il D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 e il catalogo dei reati-presupposto.

Il panorama normativo esistente, da qualche anno, si è arricchito di un nuovo strumento, il D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che sancisce una responsabilità dell’ente diretta e autonoma conseguente alla commissione di un reato. Le disposizioni ivi contenute possono trovare applicazione anche nei confronti di un’impresa che esercita un’attività giornalistica, qualora essa sia annoverabile tra i soggetti di cui all’art. 1 del decreto. Ai fini della tematica che in questa sede interessa forse qualche dubbio potrebbe porsi in riferimento alla possibile applicabilità del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, a società come la Rai s.p.a., che gestiscono il servizio pubblico radiotelevisivo, in virtù di apposita convenzione con il Ministero delle Comunicazioni. In dottrina, però, vi è chi ritiene che le società con

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partecipazione dello Stato e degli enti pubblici (art. 2449 c.c.) e le società di interesse nazionale (art. 2451 c.c.), sono equiparabili agli enti privati e, pertanto, assoggettate a responsabilità in quanto dispongono di una struttura privatistica e, secondo tale ottica, il modello di riferimento sarebbe proprio costituito dalla Rai s.p.a (1). Con specifico riferimento all’applicabilità del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, a società pubbliche occorre segnalare una recente sentenza della Suprema Corte secondo la quale «la natura pubblicistica di un ente è condizione necessaria, ma non sufficiente, all’esonero dalla disciplina in discorso, dovendo altresì concorrere la condizione che l’ente medesimo non svolga attività economica». Infatti, «ogni società, proprio in quanto tale, è costituita pur sempre per l’esercizio di un’attività economica al fine di dividerne gli utili, a prescindere da quella che sarà - poi - la destinazione degli utili medesimi, se realizzati». Né tantomeno, conclude la Cassazione, «supporre che basti - per l’esonero dal D.Lgs. n. 231 del 2001 - la mera rilevanza costituzionale di uno dei valori più o meno coinvolti nella funzione dell’ente è opzione interpretativa che condurrebbe all’aberrante conclusione di escludere dalla portata applicativa della disciplina un numero pressoché illimitato di enti operanti non solo nel settore sanitario, ma in quello dell’informazione, della sicurezza antinfortunistica e dell’igiene del lavoro, della tutela ambientale e del patrimonio storico e artistico, dell’istruzione, della ricerca scientifica, del risparmio e via enumerando valori (e non “funzioni”) di rango costituzionale» (2). La Cassazione ha quindi fatto specifico riferimento all’impresa di informazione pubblica quale possibile destinataria del corpus normativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001.

In ogni caso, fatta tale doverosa precisazione, il quesito che si pone attiene alla validità dello strumento

1(?) R. GALLI – D. GALLI, Corso di diritto amministrativo, 4ª ed., Cedam, Padova, 2004, 339.

2(?) Cass. pen. Sez. II, 9.7.2010, Vielmi, in C.E.D. Cass., n. 247669.

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La responsabilità dell’impresa giornalistica ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231?

normativo costituito dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, alla luce della sua attuale formulazione, al fine di contrastare il fenomeno sopra descritto. Sono note le ragioni di politica criminale che hanno condotto il legislatore ad introdurre, con il D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, la “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma della legge 29 settembre 2000, n. 300”. Il raffronto con l’esperienza comparatistica e l’esigenza di dare esecuzione nell’ordinamento interno agli obblighi internazionali previsti da convenzioni internazionali o da accordi assunti dall’Italia nell’ambito del diritto comunitario hanno costituito, infatti, un significativo impulso all’introduzione di tale disciplina debitrice, in gran parte, dell’apertura verso una tendenziale responsabilità di tipo punitivo delle persone giuridiche concretizzatasi, il 16.9.2000, nella pubblicazione dell’articolato e della Relazione al Progetto preliminare di riforma del codice penale che, al Titolo VII, contempla la responsabilità delle persone giuridiche (3).

Dal 2001 ad oggi il catalogo dei reati-presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente – che originariamente contemplava solo i delitti di indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato o di un ente pubblico o per il conseguimento di erogazioni pubbliche e frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico (art. 24 D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231) e di concussione e corruzione (art. 25 D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231) – si è sensibilmente arricchito anche se, a dire il vero, dall’attuale quadro di reati che costituiscono il presupposto della responsabilità dell’ente sembra arduo riuscire ad individuare un disegno unitario di politica penale (4). Sono

3(?) Relazione e articolato del Progetto elaborato dalla Commissione Grosso sono rinvenibili in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 574 ss.

4(?) S. VINCIGUERRA – M. CERESA GASTALDO – A. ROSSI, La responsabilità dell’ente per il reato commesso nel suo interesse , Cedam, Padova, 2004, 10.

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La responsabilità dell’impresa giornalistica ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231?

stati aggiunti, a mezzo di specifici interventi del legislatore, gli articoli: 24-bis Delitti informatici e trattamento illecito di dati (5), 24-ter Delitti di criminalità organizzata (6), 25-bis Falsità in monete, in carte di pubblico credito, in valori di bollo e in strumenti o segni di riconoscimento (7), 25-bis.1. Delitti contro l’industria e il commercio (8), 25-ter Reati societari (9), 25-quater Delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (10), 25-quater.1. Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (11), 25-quinquies Delitti contro la personalità individuale (12),

5(?) Articolo aggiunto dall’art. 7, legge 18 marzo 2008, n. 48 (“Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica, fatta a Budapest il 23 novembre 2001, e norme di adeguamento dell’ordinamento interno”).

6(?) Articolo aggiunto dal comma 29 dell’art. 2, legge 15 luglio 2009, n. 94, “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”.

7(?) Articolo aggiunto dall’art. 6, d.l. 25 settembre 2001, n. 350, “Disposizioni urgenti in vista dell’introduzione dell’euro in materia di tassazione dei redditi di natura finanziaria, di emersione di attività detenute all’estero, di cartolarizzazione e di altre operazioni finanziarie”, e modificato dal comma 7 dell’art. 15, legge 23 luglio 2009, n. 99, “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”.

8(?) Articolo aggiunto dalla lettera b) del comma 7 dell’art. 15, legge 23 luglio 2009, n. 99, “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”.

9(?) Articolo aggiunto dall’art. 3, D.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, “Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell’articolo 11 della L. 3 ottobre 2001, n. 366” e modificato dalla legge 28 dicembre 2005, n. 262, “Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari”. Le sanzioni pecuniarie previste dall’articolo 25-ter sono state raddoppiate ai sensi di quanto disposto dall’art. 39, comma 5, legge 28 dicembre 2005, n. 262.

10(?) Articolo aggiunto dall’art. 3, legge 14 gennaio 2003, n. 7, “Ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo, fatta a New York il 9 dicembre 1999, e norme di adeguamento dell’ordinamento interno”.

11(?) Articolo aggiunto dall’art. 8, legge 9 gennaio 2006, n. 7, “Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile”.

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La responsabilità dell’impresa giornalistica ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231?

25-sexies Abusi di mercato (13), 25-septies Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (14), 25-octies Ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (15), 25-novies Delitti in materia di violazione del diritto d’autore (16), 25-novies Induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (17). Vanno poi aggiunte le integrazioni legislative operate a latere e ab externo rispetto al corpus del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Si tratta dei reati transnazionali, così come

12(?) Articolo aggiunto dall’art. 5, legge 11 agosto 2003, n. 228, “Misure contro la tratta di persone” e modificato dall’art. 10, legge 6 febbraio 2006, n. 38 “Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet”.

13(?) Articolo aggiunto dal comma 3 dell’art. 9, legge 18 aprile 2005, n. 62, “Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004”.

14(?) Articolo aggiunto dall’art. 9, legge 3 agosto 2007, n. 123, “Misure in tema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia” e poi sostituito dall’art. 300, D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”.

15(?) Articolo aggiunto dall’art. 63, D.lgs. 21 novembre 2007, n. 231, “Misure in tema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia”.

16(?) Articolo aggiunto dalla lettera c) del comma 7 dell’art. 15, legge 23 luglio 2009, n. 99, “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”.

17(?) Tale articolo è stato aggiunto dall’art. 4, comma 1, legge 3 agosto 2009, n. 116, “Ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003, nonché norme di adeguamento interno e modifiche al codice penale e al codice di procedura penale, come articolo 25-novies non tenendo conto dell’inserimento di un articolo con identica numerazione disposto dall’art. 15, comma 7, lettera c), legge 99/2009.

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indicato dall’art. 10 della legge 16 marzo 2006, n. 146, di Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001 e del divieto di abbandono di rifiuti solidi e liquidi sul suolo di cui all’art. 192 del D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante “Norme in materia ambientale”.

In dottrina vi è chi ha individuato tra i reati-presupposto quattro tipologie di illeciti enucleabili in base al rapporto con l’ente nell’interesse o a vantaggio del quale sono stati realizzati: i reati propri della persona giuridica in quanto tale, che esternano il programma criminoso che connota invasivamente e segna negativamente la politica d’impresa della stessa, rispetto al quale gli autori-persone fisiche costituiscono i meri realizzatori (come i reati societari di cui all’art. 25-ter e i reati di abuso di mercato di cui all’art. 25-sexies); i reati soltanto strumentali alla politica d’impresa della persona giuridica (tra questi, i delitti di corruzione, le ipotesi di criminalità informatica di cui agli artt. 24-bis e 25); i reati connessi alle operatività istituzionali della persona giuridica, anche in specifico legame con le attività produttive della stessa (i reati di omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute o sicurezza sul lavoro, di cui all’art. 25-septies); i reati ove l’ente funge da esclusiva copertura di apparente attività lecita (falso nummario, art. 25-bis; reati di finanziamento al terrorismo, art. 25-quater; delitti contro la personalità individuale, art. 25-quinquies; ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, art. 25-octies) (18). Si è inoltre proceduto all’ulteriore distinzione dei reati-presupposto in reati “comuni”, in quanto possibili sviluppi

18(?) Così, A. ROSSI, La responsabilità degli enti da reato, otto anni dopo - Modelli di organizzazione, gestione e controllo: regole generali e individuazioni normative specifiche, in Giur. it., 2009.

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accadimentali di qualsiasi gestione imprenditoriale, e reati “peculiari”, tipici di una determinata attività aziendale (19).

In ogni caso, tale catalogo è inevitabilmente destinato ad arricchirsi, per lo meno con riferimento a reati strettamente connessi con l’esercizio dell’impresa, anche se, ad esempio, a proposito delle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili quale reato presupposto della responsabilità dell’ente, non sempre appare agevole comprendere le ragioni che hanno condotto il legislatore ad optare per determinate scelte, nell’ambito di attività imprenditoriali lecite, mentre diverso sarebbe il discorso se ci si trovasse al cospetto, ad esempio, di un ente collettivo costituito proprio per lo svolgimento di pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili.

In questa sede non intendiamo soffermarci sull’annosa questione della natura giuridica della responsabilità delle persone giuridiche introdotta dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, né passare in rassegna le variegate concezioni dottrinali con cui si è cercato di dare un inquadramento sistematico alla responsabilità in discorso. Non perché la questione sia da considerarsi frutto di elaborazioni sterili e astratte, prive di implicazioni rilevanti nella prassi, ma perché ciascun argomento a sostegno ora dell’una ora dell’altra tesi presta comunque il fianco ad ulteriori argomentazioni di segno opposto ma altrettanto efficaci (20). Se a ciascun interprete non resta che prendere

19(?) A. CARMONA, La responsabilità degli enti: alcune note sui reati presupposto, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2003, 1005.

20(?) In dottrina attribuiscono la natura penale alla responsabilità delle persone giuridiche: C.E. PALIERO, Il d.lgs 8 giugno 2001, n. 231: da ora in poi societas delinquere (et puniri) potest, in Corr. giur., 2001, 845; A. TRAVI, La responsabilità della persona giuridica nel d.lgs. 231/2001: prime considerazioni di ordine amministrativo, in Soc., 2001, 1305; V. MAIELLO, La natura (formalmente amministrativa, ma sostanzialmente penale) della responsabilità degli enti nel d.lgs. 231/2001: una «truffa delle etichette» davvero innocua?, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2002, 879; A. MANNA, La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: un primo sguardo d’insieme, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2002, 501; P. PATRONO, Verso la soggettività

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posizione tenendo conto delle argomentazioni che reputa maggiormente convincenti, allora ecco che, ad avviso di chi scrive, si fanno nette le perplessità nei confronti di una responsabilità in termini penalistici della responsabilità degli enti, essendo questa incompatibile con i principi di rango costituzionale sanciti nell’art. 27 Cost. È vero che la disciplina in discorso ha ricalcato in gran parte quella penale, ma non si può negare che, al tempo stesso, se ne è distinta per diversi aspetti. Né può sottacersi che il diritto penale sia strutturato in funzione della persona fisica e dell’applicazione della sanzione detentiva. Pertanto, un sistema di responsabilità che concerne gli enti deve essere necessariamente qualcosa di diverso. E non è detto che una responsabilità amministrativa sia meno temibile per l’ente rispetto alla sanzione penale. Anzi, la qualificazione delle sanzioni rivolte agli enti come sanzioni penali non aggraverebbe la situazione del responsabile ma

penale di società ed enti, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2002, 187; D. PULITANÒ, La responsabilità amministrativa per i reati delle persone giuridiche, in Enc. dir., Agg., vol. V, Giuffrè, Milano, 2002; C. DE MAGLIE, In difesa della responsabilità penale delle persone giuridiche, in Leg. pen., 2003, 349; A. ASTROLOGO, Concorso di persone e responsabilità della persona giuridica, ne Indice pen., 2005, 1003; G. DE VERO, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in Trattato di diritto penale, diretto da C.F. Grosso – T. Padovani – A. Pagliaro, Giuffrè, Milano, 2008. Hanno optato per la natura amministrativa: G. MARINUCCI, “Societas puniri potest”: uno sguardo sui fenomeni e sulle discipline contemporanee, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 1202; G. COCCO, L’illecito degli enti dipendente da reato ed il ruolo dei modelli di prevenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, 90; G. RUGGIERO, Capacità penale responsabilità degli enti. Una rivisitazione della teoria dei soggetti nel diritto penale, Giappichelli, Torino, 2004; B. ROMANO, Guida alla parte generale del diritto penale, Cedam, Padova, 2009, 188.

Ex multis in giurisprudenza hanno optato per la natura chiaramente penalistica: Cass. pen. Sez. II, 20.12.2005, D’Azzo, in Guida al dir., 2006, 15, 60; ha ritenuto che la responsabilità in esame sia prettamente di natura amministrativa: Trib. Milano, 11.12.2006, in www.abi.it; secondo Cass. pen. Sez. VI 9.7. 2009, Mussoni, in C.E.D., Cass. 2009 ci si troverebbe dinanzi ad un tertium genus di responsabilità.

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costituirebbe il presupposto per il riconoscimento di maggiori garanzie.

L’impresa giornalistica, quale soggetto di cui all’art. 1 del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, può essere (anzi, è già attualmente) destinataria delle sanzioni amministrative previste da tale decreto, qualora sussistano i presupposti ivi descritti. Come tale, allora, adotta i modelli di organizzazione e di gestione quali strumenti di sensibilizzazione nei confronti di coloro che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; e nei confronti di coloro che sono sottoposti alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti in posizione apicale, affinché tengano comportamenti corretti nell’espletamento delle proprie attività, tali da prevenire il rischio di commissioni di reati previsti dal decreto stesso. Come tutti i destinatari della normativa di cui al D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, attraverso l’adozione del modello, l’impresa giornalistica procede ad un’azione di monitoraggio sulle aree di attività a rischio al fine di intervenire tempestivamente per prevenire o contrastare la commissione dei reati. Tale risultato presuppone una “mappatura” delle attività a rischio posta in essere mediante un’analisi che, sulla base delle caratteristiche della singola impresa di informazione, condurrà all’individuazione delle attività “sensibili” alla commissione dei reati-presupposto. Ogni ente, infatti, presenta peculiari aree di rischio la cui individuazione implica una particolareggiata analisi della struttura aziendale e delle singole attività svolte.

Alla luce dell’attuale contenuto del catalogo di tali reati, difficilmente le aree potenzialmente a rischio nell’ambito dell’impresa giornalistica riguarderanno i reati di falso nummario di cui all’art. 25-bis, i reati con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico di cui

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all’art. 25-quater, o le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili di cui all’art. 25-quater.1, poiché, nonostante non possa escludersi del tutto la loro astratta verificabilità, la loro realizzazione in concreto sembra essere inverosimile. Tutti gli altri reati, invece, potranno tendenzialmente costituire presupposto della responsabilità amministrativa dell’impresa giornalistica. A tal proposito pare opportuno sottolineare che all’interno delle linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, redatte da Confindustria (21) uno specifico riferimento all’impresa giornalistica è rinvenibile a proposito dei delitti contro la personalità individuale di cui all’art. 25-quinquies. In particolare, secondo tali linee guida il delitto di prostituzione minorile «potrebbe essere posto in essere da un’impresa che, operando nel settore editoriale o dell’audiovisivo, pubblichi materiale pornografico attinente a minori, o, ancora, da imprese che gestiscono siti internet su cui siano presenti tali materiali o che pubblichino annunci pubblicitari riguardanti i materiali descritti». Viene ulteriormente specificato che con l’introduzione del delitto di pedopornografia virtuale, poi, «le società che svolgono attività per via telematica (ad es., nei settori dell’editoria, della pubblicità, ecc.) sono particolarmente esposte a fattispecie criminose di questa specie, per cui sono tenute ad analizzare con maggiore attenzione il contesto aziendale interno al fine di individuare le aree, i processi ed i soggetti a rischio e predisporre un sistema di controlli idoneo a contrastare efficacemente, cioè ridurre ad un livello accettabile, i rischi così identificati» (22).

21(?) Le prime “Linee Guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D.lgs. 231/2001” sono state approvate da Confindustria nel 2002 e, da ultimo, aggiornate al 2008.

22(?) Sui delitti di prostituzione minorile e pornografia virtuale e, più in generale, sui delitti contro la sfera sessuale v., per tutti, B. ROMANO, Delitti contro la sfera sessuale della persona, Cedam, Padova, 2009.

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Sebbene, dunque, l’impresa di informazione sia già destinataria delle disposizioni contenute nel D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non sembra che l’attuale catalogo dei reati-presupposto possa essere d’ausilio nel contrastare il perseguimento di quelle determinate politiche d’impresa sopra accennate che caratterizzano peculiarmente il settore dell’informazione.

2. L’opportunità di inserire i reati commessi dal giornalista fra i reati-presupposto della responsabilità ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

Una riflessione che intenda prospettare un ampliamento del catalogo dei reati-presupposto deve tenere in considerazione l’esigenza di non stravolgere o comunque modificare eccessivamente - attraverso l’introduzione di continue deroghe o integrazioni - la disciplina della responsabilità amministrativa dell’ente finendo per creare un “sottosistema” di responsabilità all’interno dello stesso D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (23). Basta soffermarsi sul recente intervento del legislatore che, con il D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, ha esteso la responsabilità dell’ente ai reati di omicidio e lesioni colpose, e sulla possibile incidenza di tale nuova previsione legislativa sui modelli interni di organizzazione e gestione derivante dall’interazione tra il reato-presupposto e criteri generali di imputazione: il legislatore ha specificato il

23(?) L’ampliamento della sfera dei reati-presupposto a fattispecie estranee alla criminalità delle organizzazioni complesse fa divenire sempre più ardua l’individuazione dei modelli organizzativi a finalità preventive: M. PELISSERO, La responsabilità degli enti, in F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, vol. I, 13ª ed., a cura di C.F. Grosso, Giuffrè, Milano, 2007, 912.

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contenuto dei modelli di organizzazione interna finendo, così, per integrare i criteri generali fissati dagli artt. 6 e 7 del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (24). Ecco che allora è possibile dedurre che una progressiva espansione del catalogo dei reati-presupposto potrebbe porre dinanzi all’interrogativo circa l’effettiva incidenza della “parte speciale” del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, sull’assetto complessivo della “parte generale” del medesimo decreto. Pertanto, nel prospettare tale espansione occorre porre attenzione a non stravolgere l’impianto originario delle regole generali fissate dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

In un recente disegno di legge di iniziativa governativa è stata proposta l’integrazione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche in relazione al reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale, di cui all’art. 684 c.p. Si tratta del disegno di legge C 1415 recante “Norme in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali. Modifica della disciplina in materia di astensione del giudice e degli atti di indagine. Integrazione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche”, presentato il 30 giugno 2008, attualmente in seconda lettura alla Camera. La formulazione originaria dell’art. 14 del disegno di legge prevedeva l’inserimento, all’interno del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, di un articolo, rubricato “Responsabilità per il reato di cui all’articolo 684 del codice penale”, dal seguente contenuto: «in relazione alla commissione del reato previsto dall’articolo 684 del codice penale, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da cento a trecento quote». Tale testo è stato oggetto di emendamento in fase di approvazione alla Camera: è stato previsto un inasprimento della sanzione pecuniaria che

24(?) M. PELISSERO, La responsabilità degli enti da reato, otto anni dopo. La progressiva espansione dei reati-presupposto, in Giur. it., 2009. L’A. evidenzia analiticamente come l’ampliamento dei reati-presupposto segnali importanti effetti sulla disciplina di “parte generale” del sistema di responsabilità di cui al D.lgs. 231.

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potrà oscillare da un minimo di duecentocinquanta quote ad un massimo di trecento quote, emendamento che ha trovato conferma anche in Senato (25).

Nel testo modificato dal Senato il 10 giugno 2010 e ritrasmesso alla Camera si prevede, inoltre, l’introduzione, all’interno del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, dell’art. 25-undecies, rubricato “Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”, ed avente il seguente contenuto: «in relazione alla commissione del reato previsto dall’articolo 617, quarto comma, del codice penale, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da cento a trecento quote». Va precisato che, sempre secondo il disegno di legge in discorso, il quarto comma dell’art. 617 c.p. sarebbe frutto di un’aggiunzione normativa secondo cui «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque pubblica intercettazioni in violazione dell’articolo 114, comma 7, del codice di procedura penale è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni»; mentre il comma 7 dell’art. 114 c.p.p. appena richiamato andrebbe sostituito dal seguente: «è in ogni caso vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche di cui sia stata ordinata la distruzione ai sensi degli articoli 269 e 271. È altresì vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni o a flussi di comunicazioni telematiche riguardanti fatti, circostanze e persone estranee alle indagini, di cui sia stata disposta l’espunzione ai sensi dell’articolo 268, comma 7-bis». Anche gli articoli

25(?) Il testo del d.d.l. è rinvenibile in www.camera.it.Il d.d.l. riprende altre iniziative avanzate nella precedente

legislatura. In particolare, i disegni di legge C. 1165 del 20 giugno 2006 e C. 1587 del 3 agosto 2006, in www.camera.it, recanti “Disposizioni in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali e di pubblicità degli atti del fascicolo del pubblico ministero e del difensore”, che prevedevano la sanzione per l’ente, in relazione al medesimo reato di cui all’articolo 684 c.p., da cento a centocinquanta quote.

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appena richiamati sono oggetto di ulteriori modifiche normative ad opera del disegno di legge de quo ma, senza addentrarci nei labirinti di aggiunzioni, sostituzioni, e modifiche normative, né tantomeno sull’opportunità di procedere ad una rivisitazione dei criteri di ammissibilità delle intercettazioni, ciò che qui importa sottolineare è la volontà dei proponenti le citate modifiche di rendere più rigorosi i divieti di pubblicazione degli atti processuali facendo ricadere la responsabilità per le eventuali infrazioni di tali divieti anche sugli enti. Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sul tema della pubblicazione di alcuni passaggi del testo di un’intercettazione telefonica riscontrando la violazione da parte dello Stato italiano dell’art. 8 della CEDU sul diritto al rispetto della vita privata e familiare (26). Non si trattava di atti coperti dal segreto, tuttavia secondo la Corte la pubblicazione del contenuto di una conversazione telefonica in gran parte privato e totalmente estraneo ai fatti oggetto di imputazione non rispondeva a nessun bisogno sociale imperioso e, pertanto, non era necessario in una società democratica. Con tale pronuncia, per la prima volta, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ricavato dall’art. 8 della CEDU la sussistenza di un obbligo in capo a ciascuno Stato di garantire la custodia del contenuto delle intercettazioni e di procedere alla verifica delle modalità attraverso le quali i giornalisti abbiano avuto accesso a tali atti.

Nella relazione illustrativa del disegno di legge cui si è fatto sopra riferimento si precisa che: in relazione alle condotte di pubblicazione arbitraria, viene introdotto il principio della responsabilità dell’ente, attraverso una modifica del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231; il giudice, con la sentenza con la quale accerta il reato potrà condannare l’editore al pagamento di una sanzione pecuniaria e la responsabilità dell’ente potrà essere

26(?) Corte eur. dir. uomo, 17.7.2003, Craxi c. Italia, in www.osservatoriocedu.it.

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esclusa dimostrando di avere adottato, nell’organizzazione interna, codici di condotta che rendono la pubblicazione arbitraria non attribuibile all’inosservanza delle regole di governance (27).

Si evince un’attenzione rivolta alle condotte penalmente rilevanti poste in essere nell’esercizio dell’attività giornalistica e nell’interesse o a vantaggio dell’impresa giornalistica stessa e se ne ricava che tale previsione potrebbe determinare un impatto rilevante sull’organizzazione interna delle aziende editoriali, le quali dovrebbero dotarsi di appositi modelli organizzativi idonei ad evitare eventuali pubblicazioni di materiale vietato e prevedere un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate.

Se, allora, la possibilità di individuare un interesse o un vantaggio dell’impresa giornalistica derivante dalla pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale, è stata considerata un’ipotesi plausibile, tanto da essere trasfusa in un disegno di legge, non si vede perché, sempre in un’ottica de iure condendo, non si possa prospettare una responsabilità di tale impresa anche per altre possibili condotte criminose che un giornalista può porre in essere, nell’esercizio della sua professione, nell’interesse o a vantaggio dell’ente. Nel tentativo di avviare una riflessione in tal senso, poiché la responsabilità dell’ente non potrebbe essere genericamente riferita “ai reati commessi a mezzo stampa” ma circoscritta a fattispecie criminose espressamente indicate, si rende necessario appurare innanzitutto quali norme penali incriminatrici potrebbero trovare applicazione nell’ipotesi in cui il soggetto attivo del reato sia un giornalista.

Il pensiero corre immediatamente al reato di diffamazione e, probabilmente, nella pressoché totalità dei casi, la responsabilità amministrativa dell’impresa giornalistica vedrebbe come reato-presupposto proprio tale

27(?) Il testo della relazione illustrativa è rinvenibile in www.camera.it.

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figura criminosa. Si potrebbe anche valutare, però, l’opportunità di prendere in considerazione ulteriori figure criminose da inserire nel catalogo dei reati-presupposto della responsabilità dell’ente ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Ecco che allora occorrerà verificare di quali reati, oltre a quello di diffamazione, potrebbe rendersi autore il giornalista nello svolgimento della propria attività. Poi occorrerà appurare quali, tra questi, potrebbero essere commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente e, infine, sulla base di tale risultato, si renderà necessario valutare l’opportunità di inserirli tra i reati-presupposto della responsabilità dell’ente ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

La tradizionale distinzione tra reati di stampa e reati commessi col mezzo della stampa non sembra tornare particolarmente utile ai nostri fini (28). Va comunque ricordato che nel primo caso ci si trova al cospetto di specifiche fattispecie, generalmente omissive, concernenti la violazione di obblighi inerenti alla pubblicazione (es. il reato di stampa clandestina di cui all’art. 16 legge 8 febbraio 1948, n. 47; le false dichiarazioni nella registrazione dei periodici di cui all’art. 19 legge 8 febbraio 1948, n. 47; l’asportazione, la distruzione ed il deterioramento degli stampati di cui all’art. 20 legge 8 febbraio 1948, n. 47) e previsti, per la maggior parte, dalla legge sulla stampa; mentre nel secondo caso si intende fare riferimento a tutte quelle condotte rispetto alle quali la pubblicazione rappresenta il mezzo, lo strumento, attraverso il quale poter determinare l’evento. In altri termini, «sono reati commessi col mezzo della stampa gli illeciti, contenuti in uno scritto o in un disegno stampato, nei confronti dei quali la stampa funziona, almeno di regola, come uno dei possibili strumenti di realizzazione; non sono invece tali i reati rispetto ai quali la stampa opera come presupposto del fatto, ovvero come oggetto

28(?) In dottrina, su tale distinzione, v. P. NUVOLONE, Stampa, in Noviss. dig. it., vol. XVII, Utet, Torino, 1971, 102.

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materiale della condotta» (29). Attualmente tale distinzione sembrerebbe priva di alcuna utilità atteso che i c.d. reati di stampa sono stati, per la maggior parte, oggetto di depenalizzazione (30) e, pertanto, sarebbe indifferente ricorrere all’una o all’altra locuzione (31). I reati di stampa non presentano particolare rilievo ai fini dello sviluppo della tematica in questa sede affrontata in quanto le corrispondenti norme penali incriminatrici attribuiscono rilevanza penale a condotte che attengono alla mera violazione di obblighi concernenti la pubblicazione, come la registrazione del giornale o del periodico, la mancata o falsa indicazione dell’editore o dello stampatore e simili, tutte condotte che difficilmente potrebbero assurgere a presupposto della responsabilità dell’impresa giornalistica. Pertanto, l’attenzione dovrà essere rivolta a quei reati che il giornalista può commettere con il mezzo della stampa – ma anche, vedremo, attraverso gli altri mezzi di comunicazione di massa – nell’interesse o a vantaggio dell’impresa di informazione.

29(?) C.F. GROSSO, Responsabilità penale per i reati commessi col mezzo della stampa, Giuffrè, Milano, 1969, 23. L’A. escludeva dalla categoria anche «le ipotesi criminose previste dagli artt. 8, 16, 17, 18 e 19 della legge 8 febbraio 1948 n. 47», ma, il legislatore è intervenuto procedendo alla depenalizzazione di alcune e alla modifica di altre.

30(?) A titolo esemplificativo, fra i reati di stampa oggetto di depenalizzazione, è possibile ricordare l’art. 663-bis c.p. (Divulgazione di stampa clandestina); gli artt. 17 e 18, legge 8 febbraio 1948 n. 47, rispettivamente (Omissione delle indicazioni obbligatorie sugli stampati) e (Violazione degli obblighi stabiliti dall’art. 6). L’art. 662 c.p. (Esercizio abusivo dell’arte tipografica) è stato abrogato dall’art. 13 d.lgs. 13 luglio 1994, n. 480.

31(?) In dottrina a proposito della differenziazione tra reati di stampa e reati a mezzo stampa è stato osservato che l’espressione “reati commessi col mezzo della stampa” consente di raffrontare, proprio dal punto di vista dello strumento utilizzato, tale categoria di reati con quelle fattispecie realizzabili mediante l’utilizzo di altri mezzi di comunicazione e informazione. Così A. APOSTOLI CAPPELLO, Reati commessi col mezzo della stampa e con i mezzi informatici, in Commentario sistematico al codice penale, diretto da M. Ronco, vol. II, Il reato, Zanichelli, Bologna, 2006, 434.

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Oltre alla diffamazione, è possibile richiamare i delitti che attengono alla tutela dei segreti. Se, da un lato, appare raro che nell’ambito dell’esercizio della professione giornalistica si compiano violazioni del segreto di Stato (art. 261 c.p.), dall’altro, è più facilmente possibile che un giornalista possa, ad esempio, rivelare: le notizie delle quali l’Autorità competente ha vietato la divulgazione (art. 262 c.p.); il contenuto della corrispondenza (artt. 616 e 618 c.p.); il contenuto di una comunicazione o conversazione (art. 617, comma secondo e art. 617-quater, comma secondo); il contenuto di documenti segreti (art. 621 c.p.); potrebbe concorrere, quale extraneus, nel reato di rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio (art. 326 c.p.) (32). A tutela del segreto delle discussioni e delle deliberazioni del Senato e della Camera dei deputati non vanno, poi, dimenticate la contravvenzione di cui all’art. 683 c.p., che sanziona la pubblicazione non autorizzata delle discussioni o delle deliberazioni segrete di una delle Camere e la disposizione successiva, posta a tutela della segretezza delle votazioni nelle deliberazioni giurisdizionali penali, l’art. 685 c.p., che punisce l’indebita pubblicazione di notizie concernenti un procedimento penale.

Per quanto concerne il reato di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante di cui all’art. 15 legge 8 febbraio 1948, n. 47, la giurisprudenza ha ritenuto responsabili il direttore di un settimanale e i due giornalisti autori di un articolo pubblicato col corredo di fotografie a colori riproducenti le immagini del cadavere di una donna uccisa, così come rinvenuto nell’immediatezza dell’omicidio, con particolari impressionanti e raccapriccianti delle tracce sul corpo e sugli indumenti, e delle nudità del corpo medesimo e delle modalità di esecuzione del delitto, tali da turbare il comune sentimento della morale e l’ordine delle famiglie (33).

32(?) Non perché si limiti a ricevere la notizia segreta ma, in quanto, abbia fornito un contributo morale o materiale alla rivelazione.

33(?) Cass. pen. Sez. III 27.4.2001, in Foro it., 2001, II, 446.

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Tra i reati commissibili a mezzo stampa è possibile annoverare, poi, le pubblicazioni e gli spettacoli osceni (art. 528 c.p.); gli attentati alla morale familiare (art. 565 c.p.) anche se la disposizione appena richiamata, data la sua formulazione «tutt’altro che felice e circoscritta in limiti che non si giustificano» e «il suo contenuto quanto mai vago e incerto, non ha avuto in pratica alcuna applicazione» (34); le interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis) (35); la pubblicazione e la divulgazione di notizie false esagerate o tendenziose atte a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo delle merci ovvero dei valori ammessi nelle liste di borsa o negoziabili nel pubblico mercato (art. 501 c.p.) o atte a turbare l’ordine pubblico (art. 656 c.p.); il delitto di lenocinio ex art. 3, secondo comma n. 5, legge 20 febbraio 1958, n. 75, commesso a mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità. A proposito di quest’ultimo delitto la giurisprudenza ha affermato che integra tale figura criminosa la condotta del direttore del giornale che, consapevole del contenuto, consente la pubblicazione di inserzioni relative ad un’attività di prostituzione, in quanto pone in essere, in tal modo, un’attività di intermediazione tra cliente e prostituta (36). Attraverso il mezzo della stampa si potrebbero realizzare, inoltre, i reati di vilipendio, sebbene siano veramente sporadiche e risalenti nel tempo le pronunce giurisprudenziali che vedono coinvolti i giornalisti (37).

34(?) F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, pt. s., 14ª ed., Giuffrè, Milano, 2002, 519.

35(?) Da un punto di vista numerico va appurata l’esiguità del numero delle pronunce di legittimità e di merito in tema di interferenze illecite nella vita privata. Pronuce che, per la gran parte, sono assolutorie. Da ultimo, è possibile segnalare Cass. pen. Sez. V, 29.4.2008, R.C.S. Quotidiani s.p.a., in Giur. it. 2009, 159, con nota di A. TABOGA, Interferenze nella vita privata e diritto di informazione.

36(?) Cass. pen. Sez. III 20.2.2007, Paroni, in C.E.D. Cass. n. 237045.

37(?) Prima dell’intervento della Corte costituzionale che, con sentenza del 20.11.2000, n. 508, ha dichiarato l’illegittimità

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Un settore particolarmente delicato all’interno del quale l’attività giornalistica gioca un ruolo di primo rilievo è sicuramente quello della riservatezza. Si tratta, infatti, di una delle tematiche che con estrema facilità possono essere ricondotte a tale attività. Il legislatore del codice Rocco non avvertiva la necessità di dettare una tutela generalizzata della riservatezza personale e solo in isolate norme ha tratteggiato una disciplina comunque frammentaria, limitata soltanto ad alcuni diritti astrattamente riconducibili a tale ampia nozione. Invece, la normativa originaria di riferimento, la legge 31 dicembre 1996, n. 675, e l’attuale codice in materia di protezione di dati personali, il D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, rappresentano un continuum normativo in materia. In tema di tutela penale della privacy la giurisprudenza ha infatti ravvisato continuità normativa tra il reato di trattamento illecito di dati personali aggravato dalla produzione di un nocumento, previsto dall’art. 35, legge 31 dicembre 1996, n. 675, e la fattispecie attualmente prevista dall’art. 167 del D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in cui il nocumento non costituisce più circostanza aggravante ma condizione intrinseca di punibilità (38). Così il direttore responsabile di una rivista che aveva pubblicato dati personali di un soggetto, è stato chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 35 della legge 31 dicembre 1996, n. 675, nel testo previgente rispetto alla riformulazione operata dal D.lgs. costituzionale dell’art. 402 c.p., la giurisprudenza di merito ha ritenuto penalmente responsabili il direttore del giornale e un vignettista di un quotidiano di vilipendio della religione dello Stato per la pubblicazione di una vignetta in cui appariva ipotizzato un velato intento masturbatorio del Cristo: Trib. Roma, 22.12.1997, in Cass. pen., 1998, 1253. Ed è stata altresì ritenuta la sussistenza dei reati di vilipendio della religione di Stato, nei confronti del direttore responsabile di un settimanale per disegni e didascalie oltraggiose rivolte alla crocefissione di Cristo, al dogma della Immacolata Concezione, al Pontefice, quale ministro di culto e alla Sacra Sindone: Trib. Roma, 7.7.1979, in Foro it., 1980, II, 456.

38(?) Cass. pen. Sez. III, 26.3.2004, Modena, in Riv. pen., 2005, 163.

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30 giugno 2003, n. 196, che ha aumentato le sanzioni penali e introdotto nella struttura del reato il danno cagionato alla vittima, in quanto norma più favorevole al reo (39).

Occorre, però, precisare che al trattamento dei dati personali per finalità giornalistiche è riservata una disciplina derogatoria rispetto a quella generale prevista dal Codice in materia di protezione dei dati personali che invece prevede una serie di adempimenti a carico del titolare del trattamento dei dati, posti a tutela dei soggetti cui si riferiscono i dati medesimi (40). Il terzo comma dell’art. 137 del D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, prevede che, in caso di diffusione o di comunicazione dei dati per le finalità di giornalismo «restano fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all’art. 2 e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico». L’art. 2 del Codice medesimo, a sua volta, fa espresso riferimento al rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché alla dignità dell’interessato, alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali.

39(?) Trib. Roma 30.1.2004, in Foro it., 2005, II, 131.40(?) Ai trattamenti svolti per finalità giornalistiche non si

applicano le disposizioni del Codice della privacy che richiedono: la necessaria autorizzazione del Garante prevista per il trattamento di dati sensibili (art. 26 del Codice della privacy); l’autorizzazione di legge o del Garante, previste per il trattamento di dati giudiziari (art. 27 del Codice della privacy); i casi particolari in cui è consentito il trasferimento dei dati all’estero. Il trattamento di tali dati è posto in essere anche senza il consenso dell’interessato, richiesto dagli articoli 23 e 26 del Codice della privacy.

Sul rapporto tra tutela dei dati personali e attività giornalistica, v. G. VOTANO, L’attività giornalistica, in AA. VV., Il codice dei dati personali. Termini e problemi, a cura di F. Cardarelli – S. Sica – V. Zeno-Zencovich, Giuffrè, Milano, 2004, 507; M. MESSINA, Tutela dei dati personali e manifestazione del pensiero, in AA. VV., Il codice del trattamento dei dati personali, a cura di V. Cuffaro – V. Ricciuto – R. D’Orazio, Giappichelli, Torino, 2007, 617.

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Dinanzi a tale apertura riservata all’attività giornalistica il legislatore ha inteso ribadire i limiti posti al diritto di cronaca, e in particolare quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, ossia della pertinenza e rilevanza del dato divulgato rispetto al contenuto della notizia fornita. Ecco che allora il giornalista potrà divulgare esclusivamente quei dati che risultino indispensabili per informare la collettività su accadimenti di interesse collettivo. In materia di dati sensibili, di recente, la Cassazione ha avuto modo di specificare che in riferimento al trattamento dei dati nell’ambito dell’attività giornalistica, la possibilità di prescindere dal consenso del diretto interessato e dall’autorizzazione del Garante deve considerarsi condizionata alla natura essenziale dell’informazione su fatti di interesse pubblico e alla divulgazione direttamente ad opera degli stessi interessati o mediante un comportamento pubblico (41).

Non va comunque dimenticata l’ipotesi prevista all’art. 734-bis c.p., che sanziona la divulgazione delle generalità o dell’immagine della persona offesa da atti di violenza sessuale (42), né la violazione della normativa posta a tutela dei dati personali del minore. A tal proposito va anche segnalato l’intervento, in diverse occasioni, del Garante della privacy nei confronti di testate giornalistiche

41(?) Cass. pen. Sez. III, 24.4.2008, Parenti, in Cass. pen., 2009, 4863 con nota di G. ANDREAZZA, Cronaca giornalistica e trattamento dei dati personali: le condizioni di esonero dal consenso dell’interessato.

Il caso di specie è noto: gli autori di un programma televisivo avevano proceduto alla raccolta di dati personali sensibili - prescindendo dal consenso degli interessati e dall’autorizzazione del Garante - dopo aver ottenuto, con l’inganno, i campioni biologici di alcuni parlamentari utilizzando un tampone frontale fingendo di detergere il loro sudore durante un’intervista. Avevano sottoposto ad analisi di laboratorio i reperti al fine di rintracciare tracce di sostanze stupefacenti. Di qui la condanna per il reato di cui all’art. 167, secondo comma, D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196.

42(?) Sull’art. 734-bis c.p. v., per tutti, B. ROMANO, Delitti contro la sfera sessuale della persona, cit., 261 ss.

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che, riportando episodi di violenza sessuale a danno di minori, hanno divulgato elementi che, anche indirettamente potevano portare alla loro identificazione. Così, ai sensi degli artt. 139, comma 5, e 154, comma 1, lett. d) del D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, ha vietato alla testata giornalistica ogni ulteriore diffusione, anche tramite i relativi siti web, delle informazioni idonee, anche indirettamente, a identificare il minore disponendo, contestualmente, l’invio di copia del provvedimento al competente Consiglio regionale e al Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti.

Inoltre, il d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, recante “Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”, all’art. 13 vieta «la pubblicazione e la divulgazione, con qualsiasi mezzo, di notizie o immagini idonee a consentire l’identificazione del minorenne comunque coinvolto nel procedimento» e il D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, all’art. 50 prevede che «il divieto di cui all’articolo 13 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, di pubblicazione e divulgazione con qualsiasi mezzo di notizie o immagini idonee a consentire l’identificazione di un minore si osserva anche in caso di coinvolgimento a qualunque titolo del minore in procedimenti giudiziari in materie diverse da quella penale».

Le condotte sin qui descritte possono essere realizzate non solo attraverso la carta stampata ma anche il mezzo radiotelevisivo. Infatti, dal momento che la radiotelevisione costituisce un mezzo di pubblicità il giornalista potrà essere chiamato a rispondere di tutti quei reati che possono essere commessi attraverso «qualsiasi mezzo di pubblicità» o di comunicazione, che dir si voglia, diverso dalla stampa. Diverse disposizioni, invero, fanno riferimento a condotte realizzabili attraverso «qualsiasi mezzo di informazione al pubblico». Si pensi, a titolo esemplificativo, oltre all’art. 595 comma terzo c.p., all’art. 615-bis c.p., all’art. 617 c.p., all’art. 617-quater c.p., all’art. 13 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448. Pertanto,

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eccezion fatta per quelle norme penali incriminatrici in cui la “stampa” è tipicizzata come mezzo esclusivo di commissione del reato – si pensi, ad esempio, alla pubblicazione delle discussioni o delle deliberazioni segrete di una delle Camere di cui all’art. 683 c.p., disposizione che fa espresso riferimento al mezzo della stampa – il giornalista radiotelevisivo potrà essere chiamato a rispondere di tutti quei reati cui sopra si è fatto riferimento a proposito del mezzo stampa.

Parte della dottrina ha comunque proceduto alla distinzione tra «reati di televisione» e «reati per televisione» quale ideale pendant dei reati di stampa e dei reati a mezzo stampa. Mentre i primi sono stati identificati in quelle offese penalmente rilevanti connesse all’attività televisiva in quanto tale, non concepibili al di fuori dell’esercizio di essa e sostanzialmente integrati da quelle condotte sussumibili nell’esercizio abusivo di attività televisiva e nella violazione di norme di trasparenza televisiva, con i secondi si è inteso fare riferimento a quelle figure criminose non specifiche ed esclusive dell’attività televisiva ma in cui il mezzo televisivo assumeva più semplicemente un carattere strumentale rispetto alla loro realizzazione (43). Anche in questo caso valgono le medesime osservazioni fatte a proposito della distinzione tra reati di stampa e reati a mezzo stampa.

Nell’accostarci a tale categoria di reati va richiamato, innanzitutto, il già menzionato art. 30 della legge 6 agosto 1990, n. 223, sulla disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato. La disposizione contempla diverse norme penali incriminatrici che individuano, quali soggetti attivi «il concessionario privato o la concessionaria pubblica ovvero la persona da loro delegata al controllo della trasmissione». I primi due soggetti si identificano più

43(?) L. FIORAVANTI, Televisione, stampa ed editoria, in Digesto pen., vol. XIV, Utet, Torino, 1999, 150. Più diffusamente, sui rapporti tra diritto penale e strumento televisivo ID., Statuti penali dell’attività televisiva, Giuffrè, Milano, 1995.

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genericamente nell’editore televisivo che però, nella quasi totalità dei casi, è una persona giuridica. Ecco che allora - tenuto conto del principio societas delinquere non potest - ci si è chiesti quali persone fisiche potessero essere chiamate a rispondere concretamente di tali reati e, ai fini che in questa sede ci interessano, occorre domandarsi se il giornalista, in particolare, possa essere ricompreso tra tali soggetti (44). In alcune pronunce giurisprudenziali, a proposito del reato di diffamazione con attribuzione di un fatto determinato commesso attraverso trasmissioni radiotelevisive, di cui al quarto comma dell’art. 30 della legge 6 agosto 1990, n. 223, si è affermato che le norme speciali ivi contemplate valgono esclusivamente con riferimento ai soggetti specificamente indicati, i quali non possono identificarsi nella persona che concretamente commette la diffamazione alla quale, pertanto, non sarebbe possibile applicare le norme di cui all’art. 30, ma esclusivamente l’art. 595 c.p. (45). Secondo altre pronunce giurisprudenziali di segno opposto il reato di diffamazione con attribuzione di un fatto determinato commesso attraverso trasmissioni radiotelevisive potrebbe vedere come soggetto attivo anche una persona non rientrante tra quelle indicate nel primo comma dell’art. 30 della legge 6 agosto 1990, n. 223 (46). Sulla base di tali premesse, allora, ferma restando la responsabilità del giornalista radiotelevisivo, ex art. 595, comma terzo, c.p. non è chiaro se questi possa essere chiamato a rispondere ex art. 30,

44(?) Parte della dottrina ha ritenuto che le persone fisiche responsabili dei reati di cui all’art. 30 debbano essere identificate negli amministratori delle società concessionarie (T. PADOVANI, in Il sistema radiotelevisivo pubblico e privato, a cura di M.V. Ballestreo – E. Roppo – R. Zaccaria, Giuffrè, Milano, 1991, 505) e, in particolare, per quanto concerne le concessionarie pubbliche, nei direttori generali di queste (L. FIORAVANTI, Televisione, stampa ed editoria, cit., 171).

45(?) Cass. pen. Sez. I, 27.2.1996, Ferrara, in Cass. pen., 1997, 1347.

46(?) Cass. pen. Sez. I, 13.12.1996, Sindoni, in Riv. pen., 1997, 491.

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comma quarto, della legge 6 agosto 1990, n. 223. Sembra, però, che il primo degli orientamenti giurisprudenziali riportati possa determinare la configurabilità di un’ipotesi di responsabilità per fatto altrui: i soggetti indicati nel primo comma dell’art. 30 della legge 6 agosto 1990, n. 223, sarebbero chiamati a rispondere penalmente per il mero ruolo ricoperto, delineandosi così una vera e propria responsabilità di posizione.

Tra i mezzi di comunicazione di massa, infine - sempre nel tentativo di verificare la gamma di reati perpetrabili dal giornalista - non si può non prendere in considerazione lo strumento telematico, atteso il peculiare connotato di “diffusività” della rete che sempre più garantisce la fruibilità delle informazioni ivi immesse ad un elevatissimo numero di utenti. Certamente il primo quesito che l’interprete si pone è quello di verificare se i reati realizzabili con il mezzo della stampa possano ricomprendere al loro interno i reati che utilizzano differenti media, dal momento che la definizione che l’art. 1 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, ci fornisce sembrerebbe incompatibile con la nozione di comunicazione telematica. E soprattutto il principio di legalità ed il conseguente divieto di estensione analogica in malam partem parrebbero impedire l’applicabilità della regolamentazione penalistica della stampa ad eventuali comportamenti commessi attraverso le reti telematiche. Anche qui valgono le medesime osservazioni e riserve poste a proposito dei reati commissibili attraverso il mezzo televisivo. Pertanto, ad eccezione di quelle norme penali incriminatrici nelle quali la “stampa” è tipicizzata come mezzo esclusivo di commissione del reato, tutte le fattispecie a forma libera, come la diffamazione, o comunque quelle nelle quali il legislatore fa riferimento «a qualsiasi mezzo di pubblicità» potrebbero essere realizzate attraverso il mezzo telematico ed assumere rilevanza penale. Ed infatti la Suprema Corte ha affermato che la diffamazione posta in essere mediante internet è punibile

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in forza dell’art. 595 c.p., comma terzo, poiché esso, riferendosi all’offesa recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, consente di far rientrare nel suo alveo anche il mezzo telematico (47).

Elencate le possibili figure criminose di cui il giornalista potrebbe rendersi soggetto attivo, non resta che verificare se queste possano essere realizzate nell’interesse o a vantaggio dell’ente. In linea astratta, tutte le fattispecie di reato cui si è fatto riferimento potrebbero essere realizzate nell’interesse o a vantaggio dell’impresa giornalistica in quanto potrebbero determinare un incremento delle vendite del giornale, un aumento dell’odience radiotelevisivo o degli accessi al web. Sul piano pratico, però, è evidente che occorrerà una precisa opzione del legislatore. Sino ad oggi quest’ultimo ha effettuato le proprie scelte di corresponsabilizzazione dell’ente operando, su diversi piani: sia, nel contesto di obblighi internazionali, procedendo all’estensione dei reati-presupposto a forte valenza simbolica, sia dietro la spinta interna diretta a combattere determinate politiche di impresa. Se, inserendo la fattispecie criminosa della diffamazione all’interno del catalogo dei reati-presupposto il legislatore potrebbe efficacemente contrastare tale fenomeno nell’ambito giornalistico - che talune imprese giornalistiche potrebbero aver assunto quale leit motiv della loro politica imprenditoriale - per quanto concerne le altre figure criminose cui si è fatto sopra riferimento occorrerebbe procedere ad una più attenta valutazione. Nel tentativo di procedere a tale selezione, il legislatore, confrontando il numero dei procedimenti penali per diffamazione e quello degli altri reati che vedono come soggetto attivo il giornalista nell’esercizio della propria attività, dovrebbe prendere atto della sproporzione in termini quantitativi dei primi rispetto ai secondi. Ma una

47(?) Cass. pen. Sez. V, 1.7.2008, Alberti, in C.E.D. Cass. 241182; Cass. pen. Sez. V, 17.11.2000, n. 4741, in Dir. informaz. e inform., 2001, 21.

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ponderata e consapevole scelta legislativa non può fondarsi esclusivamente su tale dato. Occorrerebbe valutare altresì quali ambiti, oltre a quello della diffamazione, si caratterizzano per una scarsa incidenza sul piano della prevenzione generale e speciale che, invece, sostenuta dall’introduzione di tale sistema di responsabilità ne uscirebbe rafforzata.

3. Le soluzioni in ambito comparatistico: A) i sistemi di civil law.

L’esperienza dei più importanti paesi appartenenti all’area europeo-continentale in tema di responsabilità delle persone giuridiche si presenta alquanto variegata (48) e le relative opzioni legislative sono state definite «frutto di una svolta, insieme, tardiva e “rivoluzionaria”, tale cioè da avere, per così dire, fatto troppo in fretta i conti con la complessità del problema politico-criminale e dogmatico» (49).

Sono stati diversi gli impulsi provenienti dal Consiglio d’Europa, dall’Unione europea e dalle Nazioni Unite nel

48(?) Per un esame delle varie opzioni accolte negli ordinamenti penali stranieri sulla responsabilità degli enti, v., ex multis, K. TIEDEMAN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 615; A.M. CASTELLANA, Diritto penale dell’Unione Europea e principio societas delinquere non potest, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1996, 747; N. SELVAGGI, La responsabilità penale della persona giuridica: un dibattito europeo, in Cass. pen., 1999, 2778; C. DE MAGLIE, L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle società, Giuffrè, Milano, 2002.

49(?) G. DE VERO, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in Trattato di diritto penale, diretto da C.F. Grosso – T. Padovani – A. Pagliaro, Giuffrè, Milano, 2008, 70.

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tentativo di armonizzare la responsabilità degli enti collettivi. Tuttavia, da un’ottica comparatistica, sembra doversi registrare una instabilità dei modelli di responsabilità degli enti nei diversi ordinamenti. Ogni Stato, infatti, ha introdotto un regime di responsabilità scolpito sulla base delle proprie esigenze. Del resto, le indicazioni fornite dagli strumenti internazionali presentano un contenuto generico, identificabile nel cumulo di responsabilità tra ente e autore del reato, nella suddivisione dei criteri di imputazione sulla base del ruolo ricoperto dalla persona fisica all’interno dell’ente e nel ricorso ad un sistema di sanzioni interdittive (50).

4. (Segue): a) il sistema francese.

Nel sistema francese – in cui la responsabilità dell’ente ha natura penale – dall’iniziale limitazione della responsabilità delle persone giuridiche alle fattispecie di reato tassativamente previste, così come stabilito dal codice penale del 1994 (51), si è passati ad una definitiva

50(?) V. gli artt. 3 e 4 del secondo Protocollo della convezione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee stabilito in base all’articolo K3 del Trattato sull’Unione europea, adottato a Bruxelles il 19 giugno 1997, entrato in vigore il 19 maggio 2009, reso esecutivo dall’Italia con legge 4 agosto 2008, n. 135.

51(?) In dottrina, sulla responsabilità penale delle persone giuridiche nel sistema francese: P. CONTE, Il riconoscimento della responsabilità penale delle persone giuridiche nella legislazione francese, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, 93; G. DE SIMONE, Il nuovo codice penale francese e la responsabilità penale delle personnes morales, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 227; T. DALMASSO, Responsabilité pénale des personnes morales, Editions EFE, Paris, 1996; N. RONTCHEVSKY, Les conditions de mise en jeu de la responsabilité pénale des personnes morales à la lumière de la jurisprudence récente, Rjda, 3/1998, 175; J.C. PLANQUE, La détermination de la personne morale pénalement responsable, L’Harmattan, Paris, 2003; J.C. SAINT PAU, La responsabilité des personnes morales: réalité et fiction, in Le risque pénal dans l’enterprise, Litec, 2003, 71; C. DOCOULOUX FAVARD, Un primo tentativo di comparazione della responsabilità penale delle persone giuridiche

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espansione della responsabilità delle persone giuridiche generalizzata a tutte le fattispecie di reato (52). Pertanto, se in origine, in ossequio al principio di legalità, l’ambito di applicazione della normativa era ancorato ad un’espressa previsione legislativa che individuava le singole fattispecie di parte speciale che potevano determinare la responsabilità penale della persona giuridica, oggi le personnes morales rispondono di tutti i reati commessi, per loro conto, dai loro organi o rappresentanti. L’art. 54 della legge 9 marzo 2004, n. 2004-204, c.d. Perben II, entrato in vigore il 31 dicembre 2005, infatti, ha disposto l’abrogazione della parte dell’art. 121-2 del codice penale francese ove si faceva riferimento alla punibilità delle persone giuridiche nei soli casi previsti dalla legge e dai regolamenti (53).

francese con la cosiddetta responsabilità amministrativa delle persone giuridiche italiana, in Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, a cura di F. Palazzo, Cedam, Padova, 2003, 93; G. ROUJOU DE BOUBEE, La responsabilité pénale des personnes morales. Essai d’un bilan, in Mélanges André Decoq, Paris, 2004, 535; S. GIAVAZZI, La responsabilità penale delle persone giuridiche: dieci anni di esperienza francese, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2005, 593.

52(?) Occorre comunque ricordare che nel sistema francese l’azione penale è discrezionale e, pertanto, l’organo d’accusa ha la possibilità di scegliere se perseguire esclusivamente la persona fisica, o l’ente, o entrambi, o nessuno dei due.

53(?) L’attuale formulazione dell’art. 121-2 del codice penale fran-cese è la seguente: «Les personnes morales, à l’exclusion de l’Etat, sont responsables pénalement, selon les distinctions des articles 121-4 à 121-7, des infractions commises, pour leur compte, par leurs organes ou représentants. Toutefois, les collectivités territoriales et leurs grou-pements ne sont responsables pénalement que des infractions com-mises dans l'exercice d’activités susceptibles de faire l’objet de conventions de délégation de service public. La responsabilité pénale des personnes morales n’exclut pas celle des personnes physiques au-teurs ou complices des mêmes faits, sous réserve des dispositions du quatrième alinéa de l’article 121-3».

L’art. 121-2, nella sua versione originaria, invece, limitava l’ambito di applicazione della responsabilità penale delle persone giuridiche «dans les cas prévus par la loi ou le règlement» (c.d. clausola di specialità).

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Proprio ai fini dell’approfondimento della tematica in questa sede affrontata va segnalato, però, che nel sistema francese l’unica eccezione in cui non opera la responsabilità delle persone giuridiche concerne i reati relativi alla stampa o commessi attraverso mezzi di comunicazione audiovisiva. L’art. 55 della legge 2004-204, infatti, ha aggiunto l’art. 43-1 alla legge 29 luglio 1881 sul-la libertà di stampa disponendo che «les dispositions de l’article 121-2 du code pénal ne sont pas applicables aux infractions pour lesquelles les dispositions des articles 42 ou 43 de la présente loi sont applicables» ed ha altresì ag-giunto l’art. 93-4 alla legge 29 luglio 1982 sulla comunica-zione audiovisiva introducendo una analoga disposizione anche in tale settore: la disposizione appena richiamata prevede che «les dispositions de l’article 121-2 du code pé-nal ne sont pas applicables aux infractions pour lesquelles les dispositions de l’article 93-3 de la présente loi sont ap-plicables». Sulla base di tali previsioni è possibile dedurre che in Francia le persone giuridiche saranno perseguibili per diffamation (cioè per l’attribuzione al soggetto passivo di un evento o di una condotta determinati che possono essere provati in giudizio) e per injure (che consiste nell’espressione oltraggiosa nell’insulto, nell’invettiva non ancorati, però, alla realtà concreta) soltanto qualora tali condotte non vengano commesse a mezzo stampa.

A dire il vero, anche prima della modifica legislativa tali illeciti penali, erano esclusi dal catalogo di reati di cui le personnes morales potevano essere chiamate a

In dottrina: N. STOLOWY, La disparition du principe de spécialité dans la mise en cause pénale des personnes morales, loi n. 2004-204 du mars 2004, dite Perben II, in JCP, 2004, ed. E, 955; E. PIRE, Respon-sabilité pénale des personnes morales: difficultés de droit transitoire, in Rec. Dalloz, 2004, n. 23, 1650; M.C. SORDINO, La disparition du prin-cipe de spécialité de la responsabilité pénale des personnes morales: una fin espérée, adoptée dans la plus grande discrétion, in Gazette du Palais, 2004, n. 255, 13; C. MASCALA, L’élargissement de la responsabili-té pénale des personnes morales: la fin du principe de spécialité, in Bullettin Joly Sociétes, 2006, n. 1, 5.

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rispondere; tuttavia, la presenza di altri “grandi esclusi” quali il settore del diritto penale commerciale, il diritto del lavoro, il diritto dei consumatori, poteva comunque far ritenere tale estromissione meno incisiva di quanto, invece, possa apparire oggi. Invece, il legislatore francese ha escluso i delitti di stampa dal novero dei reati che possono dar luogo alla responsabilità delle persone giuridiche optando per la precisa e singolare scelta di non voler perseguire queste ultime in caso delle più gravi lesioni all’onore, qualora vengano commesse a mezzo della stampa, il mezzo sicuramente maggiormente penetrante nella lesione di tale bene giuridico. Attraverso tale scelta il legislatore ha voluto evitare l’applicazione cumulativa della responsabilità en cascade, propria del diritto della stampa, con quella della responsabilità penale delle personnes morales, in quanto ciò avrebbe potuto condurre ad una eccessiva repressione della libertà di stampa. Nel combinare i dati normativi rappresentati dall’attuale disciplina della responsabilità penale delle persone giuridiche e dalla legge sulla stampa del 1881 se ne ricava, allora, che nel sistema francese il direttore/editore potrà essere chiamato a rispondere penalmente per quanto pubblicato sul suo giornale ma, al tempo stesso, la medesima responsabilità penale non potrà essere imputata all’impresa editrice per tutti quei reati che, al suo interno, vengono commessi a mezzo stampa.

Occorre chiedersi, allora, quali conseguenze possano derivare in capo alle imprese editrici in caso di reati commessi nell’esercizio dell’attività giornalistica. Secondo quanto previsto dall’art. 44 della loi del 1881, sulle imprese editrici di giornali e periodici grava soltanto l’obbligazione civile per le condanne pecuniarie pronunciate a vantaggio dei terzi contro le persone fisiche penalmente responsabili. E va, infine, segnalata anche l’esclusione dell’applicazione delle sanzioni accessorie, previste dall’art. 131-6 del codice penale francese, alla figura del giornalista e all’attività editoriale. La disposizione appena richiamata, infatti,

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prevede la confisca della cosa che è servita o è destinata a commettere il reato e l’interdizione per un periodo di cinque anni dall’esercizio dell’attività professionale o sociale in quanto tale attività sia stata utilizzata per preparare o commettere il reato. Tuttavia, laconicamente, al comma 11 si stabilisce che la stessa non può trovare applicazione in caso di reati di stampa.

5. (Segue): b) l’ordinamento spagnolo.

Volgendo lo sguardo al diritto penale spagnolo si avrà modo di appurare come questo, tradizionalmente, non ammetta la responsabilità penale diretta delle persone giuridiche (54). All’interno del codice penale del 1995 l’art. 31 stabilisce che la persona giuridica sarà responsabile in misura diretta e solidale del pagamento della pena pecuniaria cui è stato condannato il soggetto che ha agito come amministratore di fatto o di diritto o nel nome e come rappresentante legale o volontario di un altro, così come previsto dal primo comma della stessa disposizione. Il precetto in discorso non sembra delineare una responsabilità penale della persona giuridica derivante da

54(?) Per un esame della vigente disciplina spagnola: S. BACIGALUPO, La responsabilidad penal de la personas juridicas, Bosch, Barcelona, 1998; A. MENGHINI, Conseguencias accesorias e responsabilità delle persone giuridiche, in Le strategie di contrasto alla criminalità organizzata nella prospettiva del diritto comparato, a cura di G. Fornasari, Cedam, Padova, 2002, 139; L. ARROYO ZAPATERO, Persone giuridiche e responsabilità penale in Spagna, in Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, a cura di F. Palazzo, Cedam, Padova, 2003, 179; F. DE LA FUENTE HONRUBIA, Las Consecuencias Accesorias del artículo 139 del Código Penal, Lex Nova, Valladolid, 2004; L.A. SOLER PASCUAL, Responsabilidad de las personas jurídicas en los delitos economicos. Especial referencia a los consejos de administración. Actuar en nombre de otro, M.A. GARCÍA GARCÍA, (diretto da) Responsabilidad penal de las personas jurídicas. Derecho comparado y derecho comunitario, Consejo General del Poder Judicial, Centro de Documentación Judicial, Madrid, 2007.

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una “condotta volontaria” della stessa e distinta da quella della persona fisica e, pertanto, il principio societas delinquere non potest appare rispettato. Tuttavia, anche la dottrina spagnola, come quella italiana, non è unanimemente concorde sull’attuale validità di tale principio ed infatti vi è stato chi, nell’analizzare i rapporti tra le consecuencias accessorias di cui all’art. 129 c.p. e il principio in discorso, ha ritenuto che debba parlarsi di «hipocresía dogmática» (55). Oltre all’art. 31 c.p., infatti, è indispensabile accennare anche a quanto disposto dall’art. 129 c.p. il quale prevede una serie di sanzioni interdittive che possono essere applicate all’ente nei casi previsti dallo stesso codice (56).

55(?) L. RODRÍGUEZ RAMOS, ¡Societas delinquere potest! Nuevos as-pectos dogmáticos y procesales de la cuestión, in La Ley, V, 1996, 1490.

In dottrina, ritiene che attraverso l’introduzione della disposizione de qua il principio societas delinquere non potest sia decaduto J.M. ZUGALDIA ESPINAR, La responsabilidad de las personas juridicas en el derecho penal español. (Requisitos sustantivos y procesales para la impocisión de las penas previstas en el art. 129 del Código Penal), in El Nuevo derecho penal español. Estudios penales en Memoria del Profesor José Manuel Valle Muñiz, a cura di G. Quinterno – F. Morales – Aranzadi, Pamplona, 2001, 885. A proposito dell’art. 129 v. anche J.G. FERNANDEZ TERUELO, Las consecuencias accessorias del art. 129 c.p., Madrid, 2003.

56(?) La disposizione stabilisce che: 1. «El juez o tribunal, en los supuestos previstos en este Código, y sin perjuiciode lo establecido en el artículo 31 del mismo, previa audiencia del ministerio fiscal y de los titulares o de sus representantes legales, podrá imponer, motivadamente, las siguientes consecuencias:a) Clausura de la empresa, sus locales o establecimientos, con carácter temporal o definitivo. La clausura temporal no podrá exceder de cinco años.b) Disolución de la sociedad, asociación o fundación.c) Suspensión de las actividades de la sociedad, empresa, fundación o asociación por un plazo que no podrá exceder de cinco años.d) Prohibición de realizar en el futuro actividades, operaciones mercantiles o negocios de la clase de aquellos en cuyo ejercicio se haya cometido, favorecido o encubierto el delito. Esta prohibición podrá tener carácter temporal o definitivo. Si tuviere carácter temporal, el plazo de prohibición no podrá exceder de cinco años.

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Tra i reati che possono comportare l’applicazione di una delle consecuencias accessorias ivi previste non sono contemplati i reati che concernono l’attività giornalistica (57). Né tantomeno è possibile individuarne la presenza, quale presupposto della responsabilità delle persone giuridiche, nel recente progetto di riforma del codice penale spagnolo elaborato nel 2006 (Proyecto de ley 121/000119 Orgánica por la que se modifica la Ley

e) La intervención de la empresa para salvaguardar los derechos de los trabajadores o de los acreedores por el tiempo necesario y sin que exceda de un plazo máximo de cinco años.2. La clausura temporal prevista en el subapartado a) y la suspensión señalada en el subapartado c) del apartado anterior, podrán ser acordadas por el Juez Instructor también durante la tramitación de la causa.3. Las consecuencias accesorias previstas en este artículo estarán orientadas a prevenir la continuidad en la actividad delictiva y los efec-tos de la misma».

57(?) Si tratta delle ipotesi di cui all’art. 189, delito de utilización de menores o incapaces con fines o espectáculos exhibicionistas o pornográficos o para elaborar cualquier clase de material pornografico; all’art. 194, che prevede la chiusura temporanea o definitiva degli stabilimenti o locali utilizzati per la realizzazione dei delitti di cui ai capitoli IV e V del codice penale spagnolo dedicati, rispettivamente, ai delitti de e ai delitti relativi alla prostitución y la corrupción de menores; art. 221, suosiciòn de parto; art. 262, sull’alterazione dei prezzi negli appalti e nelle aste pubbliche; art. 271, relativo ai reati contro la proprietà intellettuale; art. 276, relativo ai reati contro la proprietà industriale; art. 288 che prevede l’applicabilità delle pene accessorie nell’ambito dei delitos contra la propriedad industrial, el mercato y los consumidore; art. 294, a proposito dei reati di resistenza al controllo di supervisione dei soggetti legittimati da parte degli istituti di credito; artt. 298 e 299 sulla ricettazione; art. 302, a proposito delle condotte di riciclaggio (receptación); 318, delitos contra los derechos de los trabajadores; art. 327, che prevede l’applicazione dell’art. 129 in caso di reati contro l’ambiente; art. 348, in materia di esplosivi; art. 366, che prevede l’applicazione dell’art. 129 in caso di reati di frode alimentare; artt. 369, 370 e 371, in materia di stupefacenti; art. 386, in materia di falsificazione di monete; art. 430, sul tráfico de influencias; art. 445, in materia di delitti di corruzione nelle transazioni commerciali internazionali; art. 520 che prevede l’applicazione dell’art. 129 in caso

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Orgánica 10/1995, de 23 de noviembre, del Código Penal) (58).

La dottrina spagnola non sembra essersi posta, sino ad oggi, particolari interrogativi su tale mancata previsione. Ciò non deve sorprendere se sol si riflette sul fatto che, da quando sono state introdotte, le misure accessorie non hanno mai trovato applicazione, eccezion fatta per i casi di terrorismo (59). La giurisprudenza, infatti, non ha riconosciuto alle concecuencias accessorias l’importanza ad esse attribuita dalla dottrina. Ciò perché il carattere della prevenzione da queste posseduto viene comunque inteso dalla giurisprudenza come rivolto sempre e comunque alla persona fisica e non alla persona giuridica, poiché solo quest’ultima può effettivamente delinquere. I tribunali spagnoli non considerano possibile l’applicazione di una delle misure di cui all’art. 129 c.p. per l’imputazione di un delitto direttamente alla persona giuridica per una responsabilità propria e pertanto «las consecuencia accesorias de la pena, como su caracterización lo explica, requieren que la persona que las sufre haya sido condenada a sufrir la pena principal» (60).

6. (Segue): c) il sistema tedesco.

Nel sistema tedesco la disposizione di riferimento per la responsabilità ammininistrativa degli enti è costituita dal § 30 della legge sulle violazioni amministrative di associazione illecita.

58(?) In dottrina, sul progetto di riforma del codice penale spagnolo ed, in particolare, sulla responsabilità delle persone giuridiche: G. QUINTERO OLIVARES, Sulla responsabilità penale delle persone giuridiche e sul passaggio della responsabilità dalle persone fisiche in Spagna, in Dir. pen. XXI sec., 2008, 293 ss.

59(?) G. QUINTERO OLIVARES, Sulla responsabilità penale delle persone giuridiche e sul passaggio della responsabilità dalle persone fisiche in Spagna, in Dir. pen. XXI sec., 2008, 316.

60(?) Trib. Supr., Sala Seg., 28.9.1996, n. 599, rec. 2379/1995.

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(Ordnungswidrigkeitsgesetz) (61), che è necessario leggere in combinato disposto con il § 130 della medesima legge (62). Quest’ultima disposizione punisce colui che, titolare di un’azienda o di un’impresa, omette dolosamente o colposamente misure di sorveglianza necessarie ad impedire illeciti contrari ad obblighi che investono il titolare stesso, e la cui violazione è punita con una pena o con una sanzione amministrativa. Il § 30 consente di sanzionare le persone giuridiche per illeciti penali o amministrativi

61(?) Così dispone il § 30 OWiG: «Hat jemand 1. als vertretungsberechtigtes Organ einer juristischen Person oder als Mitglied eines solchen Organs, 2. als Vorstand eines nicht rechtsfähigen Vereins oder als Mitglied eines solchen Vorstandes, 3. als vertretungsberechtigter Gesellschafter einer rechtsfähigen Personengesellschaft, 4. als Generalbevollmächtigter oder in leitender Stellung als Prokurist oder Handlungsbevollmächtigter einer juristischen Person oder einer in Nummer 2 oder 3 genannten Personenvereinigung oder 5. als sonstige Person, die für die Leitung des Betriebs oder Unternehmens einer juristischen Person oder einer in Nummer 2 oder 3 genannten Personenvereinigung verantwortlich handelt, wozu auch die Überwachung der Geschäftsführung oder die sonstige Ausübung von Kontrollbefugnissen in leitender Stellung gehört, eine Straftat oder Ordnungswidrigkeit begangen, durch die Pflichten, welche die juristische Person oder die Personenvereinigung treffen, verletzt worden sind oder die juristische Person oder die Personenvereinigung bereichert worden ist oder werden sollte, so kann gegen diese eine Geldbuße festgesetzt werden.

Die Geldbuße beträgt 1. im Falle einer vorsätzlichen Straftat bis zu einer Million Euro, 2. im Falle einer fahrlässigen Straftat bis zu fünfhunderttausend Euro. Im Falle einer Ordnungswidrigkeit bestimmt sich das Höchstmaß der Geldbuße nach dem für die Ordnungswidrigkeit angedrohten Höchstmaß der Geldbuße. Satz 2 gilt auch im Falle einer Tat, die gleichzeitig Straftat und Ordnungswidrigkeit ist, wenn das für die Ordnungswidrigkeit angedrohte Höchstmaß der Geldbuße das Höchstmaß nach Satz 1 übersteigt.

§ 17 Abs. 4 und § 18 gelten entsprechend. Wird wegen der Straftat oder Ordnungswidrigkeit ein Straf- oder

Bußgeldverfahren nicht eingeleitet oder wird es eingestellt oder wird von Strafe abgesehen, so kann die Geldbuße selbstständig festgesetzt werden. Durch Gesetz kann bestimmt werden, dass die Geldbuße auch in weiteren Fällen selbstständig festgesetzt werden kann. Die

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commessi da soggetti legati all’ente da un vincolo funzionale, mediante la violazione di obblighi inerenti all’ente stesso. Quest’ultimo, infatti, potrà essere destinatario di una pena pecuniaria amministrativa (Geldbusse) in caso di commissione di un reato o di un illecito amministrativo da parte di soggetti che siano rappresentanti, direttori o procuratori commerciali dell’ente, o da sottoposti alla vigilanza dei soggetti suddetti che non siano stati idoneamente controllati, in mancanza di idonee misure organizzative per la prevenzione dei reati e degli illeciti amministrativi. La persona giuridica, pertanto, non può essere chiamata a rispondere penalmente ma solo in via amministrativa. Ha selbstständige Festsetzung einer Geldbuße gegen die juristische Person oder Personenvereinigung ist jedoch ausgeschlossen, wenn die Straftat oder Ordnungswidrigkeit aus rechtlichen Gründen nicht verfolgt werden kann; § 33 Abs. 1 Satz 2 bleibt unberührt.

Die Festsetzung einer Geldbuße gegen die juristische Person oder Personenvereinigung schließt es aus, gegen sie wegen derselben Tat den Verfall nach den §§ 73 oder 73a des Strafgesetzbuches oder nach § 29a anzuordnen».

62(?) Il § 130 OWiG stabilisce che «Wer als Inhaber eines Betriebes oder Unternehmens vorsätzlich oder fahrlässig die Aufsichtsmaßnahmen unterläßt, die erforderlich sind, um in dem Betrieb oder Unternehmen Zuwiderhandlungen gegen Pflichten zu verhindern, die den Inhaber treffen und deren Verletzung mit Strafe oder Geldbuße bedroht ist, handelt ordnungswidrig, wenn eine solche Zuwiderhandlung begangen wird, die durch gehörige Aufsicht verhindert oder wesentlich erschwert worden wäre. Zu den erforderlichen Aufsichtsmaßnahmen gehören auch die Bestellung, sorgfältige Auswahl und Überwachung von Aufsichtspersonen.

Betrieb oder Unternehmen im Sinne des Absatzes 1 ist auch das öffentliche Unternehmen.

Die Ordnungswidrigkeit kann, wenn die Pflichtverletzung mit Strafe bedroht ist, mit einer Geldbuße bis zu einer Million Euro geahndet werden. Ist die Pflichtverletzung mit Geldbuße bedroht, so bestimmt sich das Höchstmaß der Geldbuße wegen der Aufsichtspflichtverletzung nach dem für die Pflichtverletzung angedrohten Höchstmaß der Geldbuße. Satz 2 gilt auch im Falle einer Pflichtverletzung, die gleichzeitig mit Strafe und Geldbuße bedroht ist, wenn das für die Pflichtverletzung angedrohte Höchstmaß der Geldbuße das Höchstmaß nach Satz 1 übersteigt».

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prevalso, infatti, la tesi secondo cui gli enti collettivi «sono capaci di azione (Handlungsfähig) solo per mezzo dei loro organi e non sono assoggettabili a pena anche perché non in grado di avvertire la disapprovazione etico-sociale che con la pena criminale l’ordinamento esprime» (63). Il § 30 della legge sugli illeciti amministrativi non contempla un elenco specifico di reati che potrebbero costituire presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente, ma fa riferimento alle categorie generali dei reati e degli illeciti amministrativi.

Occorrerebbe interrogarsi, a questo punto, sulla possibilità che, nell’ordinamento tedesco, un’impresa giornalistica possa essere condannata al pagamento di una pena pecuniaria nel caso di reati o illeciti amministrativi posti in essere da un giornalista che eserciti la propria attività professionale al suo interno. Se, in linea astratta, tale possibilità non andrebbe esclusa, un esame della giurisprudenza tedesca non consente di rinvenire precedenti significativi in proposito.

Ciò, probabilmente, si pone in linea anche con l’opzione legislativa che, recentemente, ha optato per un’ampia tutela della libertà di stampa, valore costitutivo della democrazia tedesca. Il 25 agosto 2010 è stato

63(?) G. FORNASARI, I principi del diritto penale tedesco, Cedam, Padova, 1993, 79. Nella dottrina tedesca, secondo H.J. HIRSCH, Die Frage des Straffähigkeit von Personenverbänden, in Strafrechtliche Probleme, 1999, 597, il diritto penale tedesco non conosce, a differenza del sistema anglosassone, la punibilità delle persone giuridiche poiché «solo l’uomo è considerato capace, non la corporazione». V. altresì C. JÄGER, Sanzionabilità penale e amministrativa degli enti in Germania, in Dir. pen. XXI sec., 2008, 281 ss.

Più in generale, sul sistema dell’illecito amministrativo, v. J. BOHNER, OWiG. Kommentar zum Ordnungswidrigkeitenrecht, Beck, München, 2007; E. GÖHLER – F. GÜRTLER – H. SEITZ, Gesetz über Ordnungswidrigkeiten, Beck, München, 2009; M. LEMKE – A. MOSBACHER, Ordnungswidrigkeitengesetz. Kommentar, Müller, Heidelberg, 2005; L. SENGE – K. BOUJONG, Karlsruher Kommentar zum Gesetz über Ordnungswidrigkeiten, Beck, München, 2006.

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approvato un disegno di legge volto a tutelare i giornalisti nell’ambito della diffusione di informazioni riservate o segreti istruttori escludendo la punibilità per concorso nella violazione del segreto su notizie riservate di cui all’art. 353b StGB.

La scarsa propensione verso la configurabilità di una specifica responsabilità dell’impresa editoriale derivante da reato trova, probabilmente, una sua giustificazione nella riluttanza, come precisato per il sistema francese, a cumulare la responsabilità del direttore – già discutibile in quanto contrastante con il principio di personalità dell’illecito – e quello dell’impresa editoriale. Il timore di una eccessiva repressione della libertà di stampa e la necessità di garantire un’informazione quanto più ampia possibile sembrano costituire la ragione per la quale gli ordinamenti stranieri appaiono restii verso l’introduzione di una peculiare responsabilità delle imprese giornalistiche.

7. B) I sistemi di common law: a) l’ordinamento inglese.

Nell’ordinamento inglese, in cui il termine “persona” comprende anche gli enti (64), oggi si ammette pacificamente la responsabilità penale di tali soggetti. Non esiste un elenco dei reati di cui l’ente può essere chiamato a rispondere e per l’individuazione dei rispettivi limiti è possibile fare riferimento a quella giurisprudenza secondo la quale l’ente non potrebbe essere considerato responsabile dei reati al cui verdetto di colpevolezza non potrebbe seguire la condanna ad una pena effettiva e di quei reati che per loro natura non possono essere commessi da un ente (65). Si rimette al giudice, pertanto, la decisione di stabilire quali sono gli illeciti per i quali una

64(?) Ciò si deve ad una disposizione dell’Interpretation Act del 1889 confluita poi nel vigente Interpretation Act del 1978.

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persona giuridica può essere chiamata a rispondere. In dottrina vi è, poi, chi ha ulteriormente precisato che non tutti i reati sono ascrivibili alla persona giuridica, ma solo i reati economici e i c.d. regulatory offences (66). In tale ambito rientrano disposizioni a tutela del consumatore, norme relative alla corretta gestione degli affari, disposizioni in materia di commercio, di sicurezza pubblica, di ambiente. Al fine di individuare quali reati possono essere ascritti agli enti la distinzione tra regulatory offences e convenzional o meanstream offences (cioè i reati tradizionali come l’omicidio, il furto, la violenza sessuale) costituisce, quindi, uno strumento difficilmente rinunciabile da parte dell’interprete. In ogni caso, in Inghilterra sembra essere maggiormente avvertita la necessità di intervenire penalmente proprio in quei settori, come quelli dell’ambiente e dell’economia, all’interno dei quali la criminalità d’impresa presenta un maggiore sviluppo, mentre nessun riferimento è dato rinvenire al settore giornalistico.

Non è possibile passare in rassegna i criteri di attribuzione della corporate liability. Basti qui ricordare l’impossibilità di individuare un unico criterio di imputazione di tale responsabilità essendo rinvenibili, oltre alla vicarious liability correlata alle strict liability offences, anche la doctrine of identification relativa alle mens rea offences. Ma non solo. Occorre inoltre tenere in considerazione anche i criteri di responsabilità diretta dell’ente elaborati, ad esempio, nel settore della sicurezza sul lavoro e dell’ambiente. Vale la pena di ricordare, però,

65(?) Cosi S. VINCIGUERRA, Diritto penale comparato. I principi, Cedam, Padova, 2002, 229, il quale richiama la pronuncia R. v. I.C.R. Haulage Ltd. [1944] K.B. 551. La pronuncia, tra i reati difficilmente ascrivibili all’ente, faceva riferimento anche alla falsa testimonianza, ma l’A. esprime a tal proposito qualche riserva.

66(?) C. DE MAGLIE, L’etica e il mercato, cit., 146. In particolare si rinvia a C. HARDING, Criminal liability of corporations – United Kingdom, in La criminalisation du comportement collectif, a cura di H. De Doelder – K. Tiedemann, Kluwer law international, The Hague, 1996, 371 ss.

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che in origine, grazie alla vicarious liabilty – la quale, in deroga al principio di responsabilità per fatto proprio ammette che un soggetto possa essere chiamato a rispondere per un reato commesso da un altro agente sottoposto al suo controllo – la giurisprudenza anglosassone ha intrapreso l’elaborazione dello schema concettuale della responsabilità delle corporations. In particolare, proprio in materia di criminal libel i giudici chiamavano a rispondere l’editore per la pubblicazione diffamatoria posta in essere dal dipendente, a prescindere dalla prova della diligenza del comportamento dell’editore stesso e solo con il Libel Act del 1843, sez. 7, si stabilì che questi potesse provare la propria estraneità al fatto. Tra i primi reati di cui si ritenne possibile chiamare a rispondere vicariously la corporation figurava, oltre alla public nuisance (67) e ai reati in materia di regulatory legislation, proprio la criminal libel, in quanto reato interpretato secondo la struttura della strict liability.

Tuttavia, la depenalizzazione dei reati di defamation, sedition and seditious libel, defamatory libel, obscene libel, intervenuta ad opera dell’art. 73 del Coroners and Justice Act del 12 novembre 2009, non ci consente di proseguire ulteriormente nell’esame della responsabilità penale delle persone giuridiche nel sistema inglese, poiché l’impresa giornalistica non potrà essere chiamata a rispondere penalmente in seguito alla commissione di un reato inerente all’attività di stampa, quale la diffamazione e i reati appena richiamati.

67(?) In particolare l’ente fu ritenuto responsabile e condannato al pagamento di pene pecuniarie nelle ipotesi di condotte omissive poste in essere da suoi dipendenti. A tal proposito v. R. v. Birmingham and Gloucester Railway Co. (1842) 3 Q.B. 223; R. v. Great Nord of Eng-land Railway Co. (1846) 9 Q.B. 315; The Queen v. Stephens (1865-66) 1 Q.B. 702.

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8. (Segue): b) il sistema statunitense.

Nell’accostarci ad esaminare le caratteristiche della responsabilità penale degli enti nel sistema statunitense e nel verificare quali siano i reati che possono condurre ad una loro responsabilità occorre preliminarmente tenere in considerazione una fondamentale distinzione tra le soluzioni adottate dalla State Jurisdiction e dalla Federal Jurisdiction, all’interno delle quali la natura e la stessa struttura della responsabilità penale degli enti presenta caratteristiche distinte. Per quanto concerne l’ordinamento statale, il Model Penal Code del 1962, al § 2.07, prescrive la vicarious liability della società per le violazioni amministrative punite con la multa, con la confisca o con altra sanzione civile. A proposito delle condotte penalmente illecite, il Model Penal Code contempla tre sistemi di responsabilità penale degli enti derivante da un ristretto catalogo di reati, ma si tratta di un modello che ha trovato scarsa applicazione in giurisprudenza e che è stato oggetto di profonde critiche da parte della dottrina statunitense che si è posta il problema dell’esistenza di una colpevolezza delle persone giuridiche (68). Si è così

68(?) Per una puntuale descrizione dell’evoluzione dottrinale in materia si rinvia a C. DE MAGLIE, L’etica e il mercato, cit., 25, ss.

L’ente sarà responsabile solo se il reato è stato commesso, autorizzato o tollerato dagli high manager, dirigenti o dai manager di vertice che ricoprono la funzione di rappresentanza del soggetto collettivo (c.d. primary liability). Sotto tale aspetto vi è, pertanto piena coincidenza con il modello inglese in quanto la responsabilità dell’ente potrà prospettarsi solo nel caso in cui la persona fisica autrice del reato, ricoprendo un ruolo di vertice, costituisca l’alter ego della persona giuridica. A proposito del triplice sistema di responsabilità degli enti delineato nel Model Penal Code il primo concerne i reati più gravi di frode, sottrazione di beni altrui e manslaughter; un altro riguarda alcuni reati minori, come le frodi di minore gravità e il price-fixing (l’accordo anticoncorrenziale rivolto ad abbassare in modo significativo il prezzo di un prodotto al fine di escludere illegittimamente alcuni concorrenti dal mercato) ed, infine, il terzo trova applicazione nelle ipotesi in cui venga commesso un illecito o una violazione cui la legge impone la strict liability del soggetto autore

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pervenuti all’elaborazione dei primi modelli standardizzati di codici comportamentali diretti alle corti federali: le Federal Sentencing Guidelines del 1991, con cui il legislatore ha assunto, tra l’altro, una netta presa di posizione proprio sulla colpevolezza della organizzazione. I reati per i quali sorge la responsabilità della corporation sono indicati al loro interno (69). La corporation potrà essere destinataria di misure riparatorie e, per certi aspetti, rieducative, (quali la restitution, i remedial orders, il community service, il probation, la adverse publicity) in seguito alla commissione di qualsiasi delitto o di quelle contravvenzioni indicate nel § 8 A 1.1 delle Federal Sentencing Guidelines. Mentre, la pena pecuniaria (fine), che si caratterizza per un chiaro obiettivo punitivo e che del reato.

69(?) È nel 1991 che vengono pubblicate a cura dell’Agenzia indipendente United States Sentencing Commission. La finalità di tali modelli era di incentivare l’adozione di meccanismi interni di legal auditing, cioè di un reticolo di informazioni e controlli diretti ad impedire, anche mediante la fissazione di specifiche regole di condotta dell’ente, la realizzazione di determinati reati. Più che criterio di attribuzione della responsabilità dell’ente per il reato commesso, esse fungono da criterio di commisurazione della pena cui il giudice può fare riferimento nell’irrogazione delle sanzioni destinate all’ente. Il testo delle Federal sentencing guidelines è rinvenibile in Dir. comm. int., 1998, 479 o in Federal Sentencing Guidelines Manual. United States Sentencing Commission, West Group, 2007. Va comunque precisato che, di recente, la United States Sentencing Commission ha reso nota una bozza di modifica delle Federal sentencing guidelines (in www.ussc.gov).

In dottrina, G. CAPECCHI, Le sentencing guidelines for organizations e i profili di responsabilità delle imprese nell’esperienza statunitense, in Dir. comm. internaz., 1998, 465. Più in generale, sulla responsabilità degli enti negli Stati Uniti: E.M. Wise, Criminal liability of corporations – USA, in La criminalisation du comportement collectif, a cura di H. De Doelder – K. Tiedemann, Kluwer law international, The Hague, 1996, 383, ss.; M. BECK – M. O’BREIN, Corporate criminal liability, in American Criminal Law Review, 2000, 37; J. POLING – K. WHITE, Corporate criminal liability, in American Criminal Law Review, 2001, 525; GIGLIOLI, La responsabilità penale delle persone giuridiche negli Stati Uniti, in Cass. pen. 2003, suppl. fasc. 6, 47.

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può giungere sino alla forma della incapacitation fine (70), è riservata esclusivamente a quei reati indicati nel § 8 C 2.1 (a). Si tratta di un numero di reati estremamente vasto, restandone esclusi solo i reati ambientali, il controllo delle esportazioni, i reati in materia alimentare, di agricoltura e di stupefacenti (71). I reati di stampa risultano, quindi, compresi tra quelli che potrebbero determinare una responsabilità dell’impresa di informazione, ma anche qui la libertà di espressione – che costituisce cardine del sistema delle libertà fondamentali del sistema statunitense – è talmente ampia da non indurre la giurisprudenza ad assumere un atteggiamento “censorio”, fatta eccezione per i casi di pubblicazione di materiale pornografico o osceno.

9. L’interesse o il vantaggio dell’impresa giornalistica derivante dal reato del giornalista.

Qualora tra i reati-presupposto venissero inseriti quelli posti in essere dal giornalista nell’esercizio della sua attività in seno all’impresa giornalistica occorrerebbe, sempre in un’ottica de iure condendo, verificare se le condizioni di imputabilità all’ente della responsabilità amministrativa siano riferibili anche a tale tipologia di impresa.

L’ art. 5 D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, dispone che l’ente collettivo è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio, responsabilità che andrà esclusa se il reato è commesso nell’interesse esclusivo dei soggetti che lo hanno posto in essere, ovvero nell’interesse di terzi. A tal proposito, la Cassazione ha precisato che si

70(?) Cioè l’ammontare della pena pecuniaria fissato dal giudice ha un ammontare talmente elevato da comportare la paralisi dell’attività di impresa e determinarne, così, l’estinzione.

71(?) C. DE MAGLIE, L’etica e il mercato, cit., 74.

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tratta dell’ipotesi in cui il reato della persona fisica non sia in alcun modo riconducibile all’ente in quanto non realizzato, neppure in parte, nel suo interesse e che in tal caso la responsabilità dell’ente andrebbe esclusa in quanto verrebbe meno la possibilità di muovere un rimprovero all’ente stesso mancando lo stesso schema di immedesimazione organica (72). Sebbene la formulazione della disposizione de qua con il ricorso all’espressione «nell’interesse o a vantaggio dell’ente» sembra dar adito a qualche dubbio interpretativo circa la presenza di un’endiadi rafforzativa o, invece, di due termini atti ad indicare due concetti giuridicamente differenti, appare condivisibile la posizione assunta da quella giurisprudenza che ha optato decisamente per la seconda interpretazione. Secondo la Cassazione, in particolare, i termini “interesse” e “vantaggio” riguardano concetti giuridicamente diversi, «potendosi distinguere un interesse “a monte” per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell’illecito, da un vantaggio obiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato “ex ante”, sicchè l’interesse ed il vantaggio sono in concorso reale» (73).

Se il concetto di vantaggio va riferito alla concreta acquisizione di una utilità economica per l’ente e va valutato ex post, il concetto di interesse si riferisce solo alla finalizzazione della condotta illecita verso l’utilità economica, a prescindere dal fatto che essa venga poi

72(?) Cass. pen. Sez. VI, 23.6.06, La Fiorita soc. coop. a.r.l., in Cass. pen., 2007, 80.

73(?) Cass. pen. Sez. II, 20.12.2005, Jolly Mediterraneo s.r.l., in Cass. pen., 2007, 74. Anche la prevalente dottrina ha optato per tale lettura: A. ASTROLOGO, Brevi note sull’interesse ed il vantaggio nel d.lgs. 231/2001, in Ind. pen. 2003, 657; O. DI GIOVINE, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in AA. VV., Reati di responsabilità degli enti, a cura di G. Lattanzi, Giuffrè, Milano, 2005, 62. Non mancano, comunque, autorevoli opinioni secondo cui la formulazione normativa di cui si discute rappresenta un’inutile ridondanza: C. DE MAGLIE, L’etica e il mercato, cit., 2002; D. PULITANÒ, La responsabilità “da reato” degli enti: i criteri di imputazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 425.

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effettivamente conseguita, e va valutato ex ante (74). L’interpretazione che considera differenti i concetti di cui si discute sembra trovare conferma nel successivo art. 12, comma 1, lett. a) del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che tra i casi di riduzione della sanzione pecuniaria e di esclusione della sanzione interdittiva fa riferimento proprio all’ipotesi in cui l’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato un vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo. Sembre, pertanto, possibile che il reato possa essere commesso nell’interesse dell’ente e che quest’ultimo non ne ricavi alcun vantaggio o ne ricavi un vantaggio minimo.

Fatte queste necessarie precisazioni, ai fini della tematica in questa sede affrontata è indispensabile chiedersi quali situazioni, nell’ambito dell’impresa giornalistica, siano suscettibili di rientrare nell’una e nell’altra nozione. Tali requisiti, a dire il vero, non sembrano porre particolare difficoltà nello specifico settore che ci interessa. Innanzitutto perché la responsabilità

74(?) Non tuta la dottrina è concorde su tale interpretazione. In particolare, vi è chi ritiene che, ai fini dell’imputazione del fatto illecito all’ente, la valutazione ex post concernente la ricaduta a vantaggio dell’interesse collettivo non possa considerarsi un criterio soddisfacente, essa, infatti, potrebbe presentarsi come conseguenza del reato in via del tutto eventuale ed occasionale. Invece, il criterio dell’interesse sarebbe maggiormente significativo dal punto di vista dell’ascrizione della responsabilità perché una condotta posta in essere nell’interesse di un ente «è geneticamente motivata»: A. FIORELLA, Principi generali e criteri di imputazione all’ente della responsabilità amministrativa, in A. FIORELLA – G. LANCELLOTTI, La responsabilità dell’impresa per i fatti di reato, Giappichelli, Torino, 2004, 6.

Inoltre, è stato osservato che occorrerebbe comunque prestare particolare attenzione al requisito del vantaggio non identificandolo automaticamente con quell’utilità di carattere economico che l’ente ottiene in seguito alla commissione di un reato; in particolare, non dovrebbe sottovalutarsi l’inidoneità del fatto di reato a rispecchiare dati riconducibili all’atteggiamento complessivo dell’ente. Così, N. SELVAGGI, L’interesse dell’ente collettivo quale criterio di iscrizione della responsabilità da reato, Jovene, Napoli, 2006, 26.

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La responsabilità dell’impresa giornalistica ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231?

dell’impresa giornalistica avrebbe come presupposto illeciti a connotazione dolosa; maggiori difficoltà potrebbero, semmai, prospettarsi se l’eventuale responsabilità della persona giuridica dovesse fondarsi su una condotta colposa della persona fisica (75). Certamente può considerarsi posta in essere nell’interesse dell’ente quella condotta criminosa conforme ad una politica d’impresa che persegue il massimo profitto adoperando strumenti illeciti: una condotta conforme, cioè, ad una ben precisa logica imprenditoriale attraverso la quale l’ente ha scelto di operare sul mercato. Nel settore giornalistico tale situazione può ricorrere qualora le condotte penalmente rilevanti poste in essere dal giornalista siano frequenti, non rappresentando condotte sporadiche frutto di autonome iniziative del singolo ma emblema di una vera e propria politica di impresa cui il giornalista obbedisce. Ma potrebbero profilarsi ulteriori ipotesi.

Si potrebbe prospettare anche il caso in cui il giornalista ponga in essere una condotta penalmente rilevante che comunque non rientri nella politica d’impresa adottata dall’ente all’interno del quale questi presta la propria opera professionale. Ma, anche in tal caso, l’impresa giornalistica non potrebbe andare esente da responsabilità adducendo che il comportamento illecito del giornalista, frutto di una sua personale iniziativa, non risulti conforme alle linee guida che l’ente ha inteso seguire. La

75(?) Così come accade per le ipotesi di cui all’art. 25-septies di cui al D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 in tema di “Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro”.

La prima sentenza di condanna della persona giuridica per omicidio colposo e lesioni personali colpose commesse in violazione delle norme sulla tutela della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro è stata pronunciata dal Tribunale di Trani, 11.1.2010, in Soc., 2010, 1116. I profili dell’interesse e del vantaggio - considerati come criteri funzionalmente autonomi e alternativi di imputazione oggettiva del fatto di reato - sono stati valutati in relazione alla sola condotta colposa del fatto di reato, che assume rilevanza se può essere tradotta in un risparmio di costi per la società.

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La responsabilità dell’impresa giornalistica ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231?

responsabilità dell’impresa giornalistica ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, potrebbe essere esclusa solo laddove venisse provato che la commissione del reato è stata resa possibile da una fraudolenta elusione dei meccanismi di prevenzione o che non vi sia stata una inosservanza degli obblighi di direzione o di vigilanza con l’adozione di un efficace modello di organizzazione, gestione e controllo.

È possibile, infine, che il giornalista agisca avendo come obiettivo non solo l’interesse dell’ente ma anche il proprio o quello di terzi soggetti. Si pensi all’ipotesi in cui nell’ambito di uno scoop giornalistico di grosso rilievo il giornalista offenda dolosamente la reputazione di alcuni dei soggetti coinvolti. Il fine perseguito dal giornalista potrebbe essere non solo quello di aumentare la tiratura della testata giornalistica ma anche quello di consentire un’accelerazione della propria carriera. Si è evidentemente in presenza di un deficit organizzativo che ha consentito al giornalista di porre in essere la violazione della norma penale: l’impresa giornalistica non è stata in grado di adottare quegli strumenti gestionali necessari ad evitare che mediante comportamenti penalmente rilevanti si perseguissero i suoi interessi economici.

Per quanto concerne, poi, il vantaggio derivante dalla commissione di un reato ad opera dei soggetti indicati all’art. 5 D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, è sufficiente precisare che questo si identifica in una utilità patrimoniale a favore dell’impresa giornalistica. Tuttavia, un’ulteriore puntualizzazione si rende necessaria. Dal momento che oggi le principali imprese editoriali italiane sono organizzate in gruppi di società (76) – che in molti casi

76(?) I gruppi di società sono definibili aggregazioni di imprese sottoposte ad una guida unitaria: «ad un’unica impresa sotto il profilo economico corrispondono più imprese sotto il profilo giuridico tante quante sono le società facenti parte del gruppo»: G.F. CAMPOBASSO, Diritto delle società, Utet, Torino, 2008, 286.

In dottrina sui gruppi di società v.: JAEGER, I “gruppi” fra diritto interno e prospettive comunitarie, in Giur. comm., 1980, I, 916; F. GALGANO, I gruppi di società, in Le società, Trattato diretto da F.

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La responsabilità dell’impresa giornalistica ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231?

prevedono anche partecipazioni estere – un accenno merita la questione inerente alla possibilità di applicare la normativa di cui al D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, a tali gruppi, e alla possibilità di configurare un vantaggio rilevante ai fini della responsabilità dell’impresa giornalistica anche nell’ambito dei rapporti tra controllante e controllata. A differenza del progetto Grosso – dove è rinvenibile un espresso riferimento ai gruppi di società – il D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, tace sulla possibile ascrizione di responsabilità alla società capogruppo. Occorre rilevare che, se da un punto di vista economico, il gruppo costituisce oggetto di valutazione unitaria, sul piano giuridico invece non può dirsi lo stesso. Il legislatore, infatti, ha preferito attribuire rilievo non tanto al gruppo quanto, invece, alle singole realtà che del gruppo fanno parte. Del resto, non si è nemmeno proceduto alla positivizzazione del concetto di gruppo e l’unica disposizione di riferimento è costituita dal terzo comma dell’art. 2359 c.c. che si occupa di specificare la nozione di controllo. All’interno di un gruppo di imprese la holding - che detiene in tutto o in maggioranza le azioni o le quote delle società che operano nei diversi settori di attività o nelle distinte fasi del processo produttivo, esercitando, in tal modo, il governo del gruppo - spesso assume un ruolo di gestione strategica, attribuendo alle società controllate funzioni essenzialmente operative, con il rischio di scaricare verso il basso la responsabilità sanzionatoria della controllante sulla controllata, richiamandosi così, per certi aspetti, la simile problematica che si pone per le persone fisiche in materia di delega di funzioni.

Come anticipato, tra le innumerevoli questioni che emergono dalla disciplina concernente i gruppi di società,

Galgano, Utet, Torino, 2001; G. CAMPOBASSO, La riforma delle società di capitali e delle cooperative, Utet,, Torino, 2003, 77 ss.; R. RORDORF, I gruppi nella recente riforma del diritto societario, in Le Società, 2004, 538; U. TOMBARI, Riforma del diritto societario e gruppo di imprese, in Giur. comm., 2004, I, 61.

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La responsabilità dell’impresa giornalistica ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231?

quella dei rapporti tra società controllante e sue controllate involge la necessità di verificare se un illecito penale posto in essere da un soggetto che opera all’interno di una società controllata sia effettivamente idoneo a determinare un vantaggio nei confronti della società controllante o se tale illecito, finalisticamente orientato a favorire la capogruppo, sia stato commesso nel suo interesse. In sede cautelare parte della giurisprudenza ha proceduto ad interpretare estensivamente il primo comma dell’art. 5 D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ed ha affermato che l’illecito commesso nell’ambito della società controllata possa essere addebitato anche alla controllante, allorché ricorra un interesse comune, individuabile anche nella semplice prospettiva della partecipazione agli utili. Secondo tale lettura, l’effettiva ripartizione degli stessi, ai fini dell’affermazione della responsabilità amministrativa della controllante, non sarebbe necessaria, dal momento che la responsabilità sarebbe configurabile per il solo fatto che la commissione del reato-presupposto sia stata indirizzata al perseguimento di quell’interesse, a prescindere dal vantaggio effettivamente conseguito (77).

Anche le ulteriori problematiche prospettabili non sono di poco conto. Infatti, oltre alla nozione di interesse e vantaggio, nell’ambito del gruppo ci si potrebbe altresì soffermare sulla ripartizione delle responsabilità e corresponsabilità in senso orizzontale (fra società partecipate) e verticale (fra partecipata e holding); sull’eventuale obbligo della capogruppo di vigilanza sulle società controllate; sull’elaborazione di linee-guida della capogruppo per la definizione dei modelli delle società del gruppo; sulla prevenzione dei fenomeni di “migrazione” della responsabilità penale. Le questioni sin qui accennate

77(?) Così: Trib. Milano, 20.9.2004, Soc. Ivri Holding e altre, in Foro it., 2005, II, 528 e in Guida al dir., 2004, n. 47, 69, con nota di G.P. DEL SASSO, Sospesi gli effetti dirompenti delle misure cautelari ma restano dubbi sui modelli per prevenire i reati; Trib. Milano, 14.12.2004, Soc. Cogefi, in Foro it., 2005, II, 527 ss.

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La responsabilità dell’impresa giornalistica ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231?

caratterizzano anche i gruppi editoriali (78). Le società del gruppo, però, sono già destinatarie della normativa di cui al D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, e, come tali, “protagoniste” attuali delle problematiche che ruotano attorno a tale complesso normativo. Certo, il suggerito ampliamento del catalogo dei reati-presupposto ai reati commessi dai giornalisti incrementerebbe le occasioni in cui tali questioni potrebbero prospettarsi; ma si tratterebbe comunque di problemi aventi carattere generale e non esclusivamente riferibili ai gruppi editoriali. Anche qui spetterà alla giurisprudenza accertare, caso per caso, le ipotesi in cui i reati posti in essere dal giornalista all’interno di una società controllata, che svolge attività editoriale, possano considerarsi commessi nell’interesse o a vantaggio della controllante – che potrebbe svolgere anche attività diverse da quella editoriale – e determinare, così, la responsabilità amministrativa di quest’ultima.

10. I soggetti in posizione apicale e sottoposti all’altrui direzione all’interno dell’impresa giornalistica.

Com’è noto, il sistema di cui al D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, “disegna” la responsabilità dell’ente in modo differenziato a seconda che l’autore del reato sia un soggetto in posizione apicale ovvero un soggetto sottoposto all’altrui direzione. Nel caso di commissione di un reato da parte del primo si avrà un’inversione dell’onere della prova: sarà l’ente che dovrà fornire la prova dell’adozione di misure idonee a prevenire la commissione

78(?) I principali gruppi editoriali operanti in Italia sono i seguenti: Gruppo l’Espresso; RCS Mediagroup; Arnoldo Mondadori Editore; Caltagirone Editore S.p.a.; ITEDI S.p.a.; Gruppo Monti Riffeser; Hachette Rusconi; Cairo Communication; Gruppo Il Sole 24 Ore; Gruppo Classeditori; Gruppo Angelucci. Molti gruppi fanno riferimento ad azionisti esteri essendo raro, invece, il fenomeno opposto.

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La responsabilità dell’impresa giornalistica ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231?

di reati. Nel caso in cui invece il reato sia stato commesso da persona sottoposta altrui direzione, non è prevista alcuna inversione dell’onere della prova, restando a carico del pubblico ministero l’onere di provare la sussistenza di un deficit di sorveglianza o di organizzazione che ha reso possibile la realizzazione di una condotta penalmente illecita.

Sulla questione dell’inversione dell’onere della prova va segnalato un recente disegno di legge – “Modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, concernente la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica” (79) – che prevede lo spostamento dell’onere della prova dell’inadeguatezza e dell’inefficacia del modello a carico della pubblica accusa anche quando il reato sia commesso da un soggetto apicale. Nella relazione al disegno di legge si evidenzia che la difficoltà probatoria derivante dalla previsione dell’onere della prova in capo all’ente determina un aumento in maniera esponenziale della situazione di incertezza del diritto nuocendo a quelle imprese che hanno investito risorse anche nell’organizzazione di un sistema di controllo. Sul punto, allora, si propone di modificare l’approccio verso il D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, mutuandolo da quello posto alla base del D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro il quale, all’articolo 30, prevede - tra l’altro - che l’onere della prova della colpevolezza sia posto a carico della pubblica accusa (80).

79(?) Disegno di legge C 3640, presentato il 19.7.2010 alla Camera ed il cui testo è rinvenibile su www.camera.it.

80(?) Il testo del comma come andrebbe sostituito secondo quanto previsto dal disegno di legge è il seguente: «se il reato è stato commesso dalle persone indicate nell’articolo 5, comma 1, lettere a) e b), ai fini della responsabilità amministrativa dell’ente la pubblica accusa deve dimostrare che: a) l’organo dirigente non ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione

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Secondo quanto previsto dall’attuale formulazione del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, appartengono alla categoria dei soggetti in posizione apicale coloro che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché le persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente stesso. Mentre i soggetti in posizione subordinata vengono identificati in coloro che sono

idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;b) il compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento non è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; c) l’organismo di vigilanza di cui alla lettera b), nell’ambito degli enti di interesse pubblico economico di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39: 1) deve essere nominato dall’assemblea dei soci a maggioranza semplice; 2) deve avere natura collegiale; 3) almeno un membro dell’organismo di vigilanza deve essere scelto tra soggetti esterni all’ente e dotati delle stesse caratteristiche di indipendenza di cui all’articolo 2399 del codice civile; d) in tutte le società o enti in cui è nominato un organismo di vigilanza ai sensi della lettera b): 1) deve essere data apposita comunicazione della nomina dell’organismo di vigilanza al registro delle imprese entro trenta giorni a cura degli amministratori; 2) l’organismo di vigilanza deve riferire annualmente all’assemblea in merito al suo operato con apposita relazione da presentare in occasione dell’approvazione del bilancio; e) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; f) vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di vigilanza di cui alla lettera b)».

Per completezza, occorre precisare che il disegno di legge in discorso prevede altresì - sempre in riferimento all’art. 6 del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 - l’inserimento di un comma 2-bis secondo il quale «nelle società indicate al comma 1, lettera c), numero 1), i modelli organizzativi di cui alla lettera a) del medesimo comma 1 devono essere approvati con delibera dell'assemblea ai sensi dell'articolo 2364, primo comma, numero 5), del codice civile, adottata a maggioranza semplice» e la sostituzione del terzo comma del medesimo articolo: «fino a prova contraria, si presumono aver efficacia esimente dalla responsabilità amministrativa degli enti i modelli di organizzazione e di gestione definiti conformemente alle indicazioni

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sottoposti alla direzione o vigilanza dei soggetti in posizione apicale, si tratterebbe, pertanto, dei lavoratori subordinati così come definiti dagli artt. 2094 e 2095 c.c.

Nel settore dell’impresa giornalistica occorrerà, allora, interrogarsi circa il ruolo che i giornalisti ricoprono all’interno della stessa ai fini di una loro qualificazione come soggetti apicali o sottoposti all’altrui direzione.

Se per i caporedattori, i caposervizio, i redattori, non sembrano porsi particolari problemi in ordine alla loro qualificazione quali soggetti in posizione subordinata, maggiore attenzione occorre rivolgere alla figura del direttore responsabile. Il contratto nazionale di lavoro giornalistico, relativo al quadriennio 1 aprile 2009 – 31 marzo 2013, all’art. 6, ultimo comma, definisce direttore, condirettore e vicedirettore figure apicali appartenenti alla categoria massima dei dipendenti prevista dal codice civile.

Il primo passo da compiere consiste nel verificare se la posizione di direttore responsabile sia sussumibile sotto quella del «direttore» descritta da detto contratto o se invece vada da questa distinta.

Data l’esistenza di un rapporto di lavoro con l’ente di appartenenza, sembrerebbe naturale optare per la qualifica di prestatore di lavoro subordinato e, come tale, inquadrabile tra i soggetti in posizione subordinata ex art. 5 lett. b) D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. La giurisprudenza, invece, sembra essere di diverso avviso ed ha infatti precisato che il mero conferimento dell’incarico di direttore responsabile di un periodico, ai sensi dell’art. 3 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, con la relativa indicazione dello stesso nel periodico, non comporta di per sè l’instaurazione contenute nelle linee guida ovvero nei codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative dei medesimi enti e comunicati al Ministero della giustizia secondo modalità stabilite dal medesimo Ministero. Il Ministero della giustizia, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare, entro trenta giorni dalla comunicazione di cui al periodo precedente, osservazioni sulla idoneità delle linee guida o dei codici di comportamento».

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di un rapporto di lavoro subordinato, essendo a tal fine necessario che in capo alla stessa persona chiamata ad assolvere questa funzione di carattere pubblicistico si cumulino altri e diversi compiti di svolgimento dell’attività giornalistica ed in particolare di funzione direttoriale esercitata in regime di subordinazione da dimostrare provando l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione editoriale. In tale seconda ipotesi, il direttore responsabile dello stampato resta assoggettato - come avviene nel normale rapporto di lavoro subordinato - al potere gerarchico e disciplinare del datore di lavoro (81).

A questo punto sembra opportuno richiamare le riflessioni di quella dottrina che, prendendo atto della difficoltà di attribuire un concreto significato alla “funzione di direzione”, cui fa riferimento l’art. 5 lett. a) D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ha osservato che sul piano giurisprudenziale si è proceduto a distinguere tra le figure di direttore, dirigente e impiegato con funzioni direttive proprio sulla base dell’ampiezza dei poteri di cui ciascun soggetto risulta essere in concreto titolare (82). In particolare, quando tali poteri «riguardino l’intera azienda si avrebbe la figura del direttore generale; quando riguardino l’intera azienda o un ramo della stessa si avrebbe la figura del dirigente (ulteriormente caratterizzato dal fatto di essere un intermediario tra l’imprenditore e il personale); quando manchi invece la capacità di influenzare con le proprie azioni l’intera azienda si avrebbe la figura del mero impiegato con funzioni direttive» (83). Tali osservazioni appaiono utili ai fini di una

81(?) Cass. civ. Sez. lav. 4.9.2000, Veo c. Edizioni Cioè, in Dir. & Giust., 2000, 35, 46.

82(?) A. BASSI – T. EPIDENDIO, Enti e responsabilità da reato. Accertamento, sanzioni e misure cautelari, Giuffrè, Milano, 2006, 149; G. DE VERO, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in Trattato di diritto penale, diretto da C.F. Grosso – T. Padovani – A. Pagliaro, Giuffrè, Milano, 2008, 152.

83(?) A. BASSI – T. EPIDENDIO, Enti e responsabilità da reato, cit., 149.

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corretta qualifica del direttore di giornale, ex art. 5 D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, perché – oltre al direttore e al dirigente – sembra possibile riconoscere il ruolo apicale anche all’impiegato con funzioni direttive «ove l’attività coinvolta nell’illecito sia quella in cui egli abbia effettivo potere direttivo» (84). Se così è, allora, anche se al direttore di giornale non si volesse riconoscere il ruolo di dirigente, sembra comunque possibile riconoscergli i poteri di un impiegato con funzioni direttive e quindi attribuirgli il ruolo di soggetto apicale ex art. 5 lett. a) D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. A proposito della qualificazione di direttore responsabile come dirigente, la giurisprudenza suggerisce di procedere a valutazioni caso per caso poiché «la coincidenza della figura del direttore responsabile con quella di dirigente va accertata di volta in volta in relazione alle mansioni in concreto svolte. Sicché è dirigente, ai sensi dell’art. 2095 c.c., il direttore di testata la cui attività è caratterizzata da autonomia e discrezionalità delle decisioni e dall’assenza di una vera e propria dipendenza gerarchica, nonché dall’ampiezza delle funzioni, tali da influire sulla conduzione dell’intera azienda o di un suo ramo autonomo» (85).

Anche per tali ragioni non sembra opportuno inserire l’art. 57 c.p. tra i reati-presupposto della responsabilità

84(?) A. BASSI – T. EPIDENDIO, Enti e responsabilità da reato, cit., 149.

85(?) Cass. civ. Sez. lav., 9.7.2001, Sabelli Fioretti c. Soc. Rusconi Ed., in Corriere giur., 2001, 1277. La Suprema Corte ha così confermato la sentenza dei giudici di primo grado che avevano riconosciuto natura dirigenziale all’attività svolta da un direttore responsabile di un periodico a diffusione nazionale, ritenendo rilevante a tal fine che dipendessero interamente da lui la qualità e i risultati del prodotto editoriale, la direzione di una redazione composta da circa quindici persone, la scelta dei collaboratori esterni e del personale da assumere e la non subordinazione gerarchica all’editore; essendo irrilevante che, in sede d’assunzione, l’editore si fosse riservato il controllo dell’indirizzo politico e della linea editoriale della testata, appartenendo pur sempre al datore di lavoro il potere di emanare direttive programmatiche di indirizzo ed orientamento aziendale.

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amministrativa dell’ente. Infatti, volendo esemplificare, qualora si verificasse un episodio diffamatorio riconducibile ad una condotta dolosa di un giornalista in posizione subordinata (redattore capo, capo servizio, redattore ordinario), nell’accertamento della responsabilità dell’impresa giornalistica ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, come attualmente formulato, sarà il pubblico ministero a dover provare la sussistenza di un deficit di sorveglianza o di organizzazione che ha reso possibile la realizzazione di quella condotta penalmente illecita. Ma se in seguito a quel medesimo episodio diffamatorio si accerta la responsabilità colposa del direttore ex art. 57 c.p. per omesso controllo sulla pubblicazione, sarà l’ente a dover fornire la prova dell’adozione di misure idonee a prevenire la commissione del reato di omesso controllo in quanto il direttore è, con tutta probabilità, annoverabile tra i soggetti in posizione apicale. Poiché l’omesso controllo del direttore costituisce una fattispecie autonoma di reato posta in essere da un soggetto in posizione apicale, sull’ente graverebbe quella che da molti è stata definita una probatio diabolica per un reato di cui il direttore quasi sempre viene automaticamente considerato responsabile.

11. I modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire i reati-presupposto.

I modelli di organizzazione, gestione e controllo «idonei a prevenire i reati della specie di quello verificatosi» rappresentano il punto nodale dell’intero sistema della responsabilità amministrativa degli enti. Sebbene lo stesso D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non li definisca come obbligatori, la loro adozione ed efficace attuazione può consentire all’ente di andare esente da responsabilità. L’adozione del modello dovrebbe assolvere alla primaria funzione di prevenire il compimento dei reati-

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presupposto, oltre, naturalmente, a quella di ottenere l’esonero da responsabilità nel caso di commissione di tali reati. Ovviamente l’adozione del modello non rappresenta di per sé una generica causa di esonero da responsabilità, essendo soggetto a valutazione del giudice che, caso per caso, procederà a tale valutazione verificando: il ruolo - di apicale o di subordinato - della persona fisica che ha commesso il reato; la specifica realtà organizzativa; il contenuto del modello adottato e la sua effettività. In ogni caso, al fine di ottenere tale positivo risultato, sulla persona giuridica incombe l’onere di procedere alla creazione di tali modelli consentendone la corretta operatività (86): un’efficace attuazione dei modelli necessita, innanzitutto, di una verifica periodica e comporta un’eventuale modifica degli stessi qualora emergano rilevanti violazioni delle prescrizioni, ovvero si presentino cambiamenti nell’organizzazione o nell’attività. Più in particolare, ai sensi dell’art. 6, comma 2, del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, i modelli devono rispondere all’esigenza di «individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi i reati; prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire; individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione di reati; prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli; introdurre un sistema disciplinare

86(?) Nonostante l’«onere» per l’ente di adottare il modello di organizzazione, gestione e controllo, la giurisprudenza civile ha comunque ritenuto responsabile l’amministratore dell’ente per mancata adozione del modello stesso obbligando tale soggetto a risarcire i danni subiti dalla società per effetto della mancata attivazione del presidio penal-preventivo: Trib. Milano, 13.2.2008, n. 1774, in Le società, 2008, 1507, con nota di S. BARTOLOMUCCI, Amministratore diligente e facoltativa adozione del compliance program ex D.Lgs. n. 231/2001 da parte dell’ente collettivo.

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idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello».

Se già la concezione a livello teorico di un modello organizzativo si presenta particolarmente complessa, sul piano pratico le difficoltà sembrano moltiplicarsi in modo considerevole. Non esistono formule generalizzanti o comunque regole “universali” valide per qualsiasi ente: solo un modello direttamente elaborato sulla realtà aziendale e produttiva potrà essere considerato idoneo a prevenire la commissione dei reati-presupposto, essendo inevitabili concrete diversificazioni fondate sulle specificità operative e strutturali della persona giuridica stessa.

Nell’elaborazione dei modelli un importante ausilio è sicuramente individuabile nelle linee guida elaborate dagli organismi rappresentativi del mondo imprenditoriale. Nel settore editoriale la FIEG (Federazione Italiana degli Editori), ad oggi, non ha emanato linee guida o redatto codici di comportamento in materia e pertanto, anche in tale ambito, si rende necessario fare riferimento alle linee guida pubblicate da Confindustria le quali hanno carattere generale. Ciascun modello adottato dall’ente potrà, quindi, da queste discostarsi poiché deve essere necessariamente redatto con specifico riferimento alla realtà concreta dell’ente stesso: le linee guida svolgono un ruolo “ispiratore” nella costruzione del modello e dell’organismo di controllo con i relativi compiti da parte del singolo ente, che però, potrà anche discostarsene, qualora specifiche esigenze aziendali lo richiedano, senza che per questo si possano dare per non adempiuti i requisiti necessari per la redazione di un valido modello di organizzazione, gestione e controllo (87). Inoltre, le linee guida di Confindustria

87(?) I punti fondamentali di tali linee guida si identificano nell’attività di individuazione delle aree a rischio - volta ad evidenziare le funzioni aziendali nell’ambito delle quali sia possibile la realizzazione degli eventi pregiudizievoli previsti dal decreto - e nella predisposizione di un sistema di controllo in grado di prevenire i rischi attraverso l’adozione di appositi protocolli. Le componenti più rilevanti del sistema di controllo ideato da Confindustria sono: il codice etico; il

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individuano un protocollo generale nel codice etico. Quest’ultimo assolve alla funzione di enucleare la carta dei valori dei quali il singolo ente si dota, sintetizzando i canoni di comportamento strumentali alla sua attuazione (88). In altri termini, il codice etico di comportamento - cui deve corrispondere un adeguato sistema disciplinare in caso di violazione dello stesso - fissa i principi etici e le linee generali di comportamento che i soggetti apicali, i dipendenti e i collaboratori sono tenuti a rispettare nello svolgimento dell’attività lavorativa: rappresenta uno strumento adottato in via autonoma e avente lo scopo di esprimere quei principi di “deontologia aziendale” che l’ente riconosce come propri. Per quanto concerne i giornalisti, il rispetto delle regole generali di comportamento etico dovrebbe coniugarsi con il diritto-dovere di cronaca riconosciuto dalla Costituzione, con il diritto di riservatezza nel rapporto con le fonti e con le regole dontologiche sulla loro professione.

Molteplici sono le fasi che precedono la costruzione del modello (89). È certamente indispensabile procedere

sistema organizzativo; le procedure manuali ed informatiche; i poteri autorizzativi e di firma; i sistemi di controllo di gestione; la comunicazione al personale e sua formazione. I principi cui devono essere ispirate le componenti del sistema di controllo sono: verificabilità, documentabilità, coerenza e congruenza di ogni operazione; applicazione del principio di separazione delle funzioni; documentazione dei controlli; previsione di un adeguato sistema sanzionatorio per la violazione delle norme del codice etico e delle procedure previste dal modello; individuazione dei requisiti dell’organismo di vigilanza; previsione di modalità di gestione delle risorse finanziarie; obblighi di informazione dell’organismo di controllo.

88(?) A proposito dei rapporti tra modello e codice etico A. SALVATORE, Il “Codice Etico”: rapporti con il Modello Organizzativo nell’ottica con la responsabilità sociale dell’impresa, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2008, 4, 67.

89(?) Più in generale, in dottrina vi è chi ha schematicamente proposto una metologia-tipo per l’elaborazione e l’implementazione del Compliance program nei seguenti termini: occorrerebbe procedere preliminarmente alla redazione, adozione, internalizzazione ed esternazione di un Codice Etico dichiarativo della mission o dei valori

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all’identificazione delle attività sensibili nel compimento delle quali sembra possibile ipotizzare la commissione dei reati da parte del giornalista. Un ausilio potrebbe essere costituito, ad esempio, da una verifica del numero degli episodi diffamatori verificatisi e conclusi con sentenza penale di condanna, procedendo ad una mappatura delle aree a rischio all’interno dell’impresa giornalistica, verificando a quali sezioni della redazione giornalistica (cronaca, economia, politica, interni, esteri, sport, cultura, spettacoli, etc.) appartenevano i giornalisti che hanno posto in essere il numero maggiore di condotte penalmente rilevanti nell’esercizio della loro professione, in modo da conoscere quanto più a fondo possibile l’assetto organizzativo delle aree sensibili dell’impresa stessa.

Effettuata tale verifica sarà necessario individuare, da un lato, le attività che possono contribuire a migliorare le procedure già esistenti che costituiscono l’attuale

aziendali, nonché delle generali regole comportamentali. Le fasi successive dovrebbero identificarsi nel process assessment (check-up aziendale, ricognizione della macrostruttura, dell’organigramma e del funzionigramma vigenti presso l’ente), risk assessment (inventariazione macro-aree a rischio reato; individuazione/abbinamento di specifci rischi per il singolo processo; graduazionee intensit di ciascun rischio-reato; “mappatura” delle attività in funzione del rischio rilevato), risk management (analisi del Sistema preventivo e di auditing, se esistente, e rilevazione delle carenze). Dopodichè occorrerebbe procedere: alla revisione/redazione ed adozione di un sistema disciplinare interno (conforme allo statuto dei lavoratori e al CCNL applicabile) per il sanzionamento delle violazioni di prscrizioni del modello adottato; alla individuazione, nomina, attivazione di un Organismo di Vigilanza dell’ente, autonomo, indipendente, professionale, inerente all’ente ed operante con continuità d’azione. Infine, concluse tali fasi, l’Organismo amministrativo potrebbe procedere alla formale approvazione del Modello. I destinatari dello stesso andrebbero formati e informati in riferimento al suo contenuto. Il Modello, poi, andrebbe continuamente monitorato, aggiornato, al fine di verificarne effettività ed efficacia ed ottimizzato. Così S. BARTOLOMUCCI, Il modello di gestione di organizzazione e gestione con finalità penal-preventiva, in Corriere giur., spec. 2/2010, 25.

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sistema di controllo interno e, dall’altro, i requisiti organizzativi essenziali per la costruzione di un efficace modello. «La descrizione della struttura societaria è di fondamentale importanza, perché consente di saggiare, già in questa fase, l’idoneità dell’assetto societario a confrontarsi con la sfera dei rischi normativi, in particolare con il rischio-reato» (90).

A proposito del miglioramento del sistema di controllo già esistente, si è sopra sottolineato che il tipico modo di operare nel settore giornalistico si identifica nel ricorso ad un sistema di divisione del lavoro all’interno delle redazioni giornalistiche in cui il direttore si avvale dello strumento della delega nei confronti dei suoi collaboratori. Così spesso si verifica, specie nell’ambito dei quotidiani a diffusione nazionale, che al redattore capo vengano conferite funzioni di coordinamento e controllo anche sulle redazioni distaccate. All’interno delle redazioni provinciali, ad esempio, il lavoro viene diretto e controllato da un capo redattore locale. Il sistema di trasferimento delle funzioni da parte del direttore ai caporedattori potrebbe forse divenire uno strumento di ausilio per la costruzione e l’efficace attuazione di un modello organizzativo idoneo a prevenire la commissione dei reati-presupposto della responsabilità dell’impresa giornalistica.

Sebbene la giurisprudenza maggioritaria non abbia attribuito, sino ad oggi, rilevanza penale all’istituto della delega di funzioni nel settore giornalistico – così come invece sarebbe auspicabile anche alla luce delle osservazioni che seguiranno – non appare inutile soffermarsi sui rapporti tra la delega di funzioni e i modelli di organizzazione, gestione e controllo. A tal fine occorrerà prendere la mosse da un recente intervento legislativo in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro con il quale il legislatore è intervenuto specificando

90(?) C. PIERGALLINI, La struttura del modello di organizzazione, gestione e controllo del rischio- reato, in Reati e responsabilità degli enti, a cura di G. Lattanzi, Giuffrè, Milano, 2010, 160.

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il collegamento tra il modello organizzativo dell’ente e la delega di funzioni. Da una prima lettura sistematica degli artt. 16 e 30 del D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, (T.U. in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) sembrava potersi evincere l’inserimento del sistema delle deleghe all’interno del compliance aziendale ed un onere di controllo ad opera dell’organismo di vigilanza sul sistema delle stesse ed in particolar modo sul loro funzionamento. Ai sensi del terzo comma dell’art. 16 – prima della recente modifica intervenuta ad opera dell’art. 12, comma 1, D.lgs. 3 agosto 2009, n. 106, – si prevedeva che la vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite potesse esplicarsi «anche attraverso i sistemi di verifica e controllo di cui all’articolo 30, comma 4», cioè quei sistemi predisposti per i modelli di organizzazione e gestione. Con il D.lgs. 3 agosto 2009, n. 106, recante “Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” si è passati da una previsione che indicava il sistema di controllo adottato nell’ambito di un modello organizzativo e avente le caratteristiche definite dal quarto comma dell’art. 30 quale possibile modalità per l’adempimento dell’obbligo di vigilanza sull’attività del delegato, ad una vera e propria presunzione in grado di esimere il datore di lavoro da eventuali responsabilità per la violazione dell’art. 16 comma 3 D.lgs. 81/2008. Il legislatore è, pertanto, giunto ad affermare che l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo di cui all’articolo 30, comma 4 del D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.

A proposito della costruzione del modello e del sistema delle deleghe all’interno della società in dottrina è stato osservato che «la delega deve contenere

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l’indicazione: a) della funzione delegante e della fonte del suo potere; b) del soggetto delegato, con l’esplicita descrizione delle funzioni attribuite e della posizione organizzativa rivestita; c) delle risorse economiche assegnate al delegato, nel cui ambito questi è legittimato a svolgere i compiti assegnati. Laddove, poi, le funzioni delegate implichino l’assolvimento di posizioni di garanzia penalmente rilevanti, è altresì necessario apprestare sistemi di monitoraggio e di controllo, orientati ad esercitare una vigilanza sul corretto disbrigo delle funzioni delegate e, dunque, sulla “tenuta” del sistema organizzativo prescelto» (91).

Ora, in seguito all’espresso riconoscimento legislativo intervenuto nel 2008, non solo dell’istituto della delega di funzioni, ma anche del rapporto di quest’ultima con il sistema dei modelli di gestione e controllo non sembra azzardato individuare tra questi un rapporto biunivoco. Se il legislatore ha riconosciuto la possibilità per il delegante di assolvere al suo compito di vigilanza attraverso l’adozione e l’attuazione dei modelli ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, mutando prospettiva, nel settore giornalistico, si potrebbe riflettere su un modello di gestione e controllo “disegnato” sulle modalità di ripartizione dei compiti e delle responsabilità proprie della delega tra direttore e capiredattori. Infatti, poiché l’adozione del modello in sé non è sufficiente per andare esenti da responsabilità, essendo necessario che questo venga applicato e gestito con continuità vigilando sulla sua osservanza, è il controllo interno ad assumere un ruolo di fondamentale rilievo.

Nell’elaborazione di un modello di organizzazione, gestione e controllo, diretto ad evitare che vengano poste in essere condotte penalmente rilevanti in seno all’attività giornalistica, potrebbe allora essere utile prendere le mosse dal sistema di controllo e di deleghe già adottato in

91(?) C. PIERGALLINI, La struttura del modello di organizzazione, cit., 162.

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seno alle redazioni giornalistiche - individuando le carenze organizzative esistenti - e tentare di procedere ad un miglioramento dello stesso ed alla definizione dei corrispondenti interventi correttivi. In questo modo sarebbe possibile mantenere l’assetto organizzativo preesistente all’interno delle redazioni, migliorandolo ed evitando un impatto “traumatico” sull’attività dell’impresa giornalistica, impatto che, diversamente, potrebbe assumere contorni “censori”. Si è già avuto modo di osservare che per la natura stessa della loro attività e per il necessario svolgimento della propria opera, ciascun redattore capo provvede a dirigere, coordinandole, le attività di servizi della redazione centrale, delle redazioni decentrate e degli uffici di corrispondenza. Si potrebbe pensare, ad esempio, all’opportunità di affiancare a tali soggetti degli esperti in materia legale che procedono, insieme al redattore capo al controllo del contenuto della pubblicazione.

È su tali basi che potrebbe costruirsi un efficace modello che si ponga come obiettivo quello di prevenire la commissione dei reati da parte dei giornalisti. In questo modo le imprese editrici potrebbero andare esenti da responsabilità qualora nelle loro redazioni venisse adottato un modello organizzativo che implichi il funzionamento di una struttura efficace nei controlli dei testi destinati alla pubblicazione o di ciò che dovrà essere mandato in onda (92).

92(?) Ma non solo; non dovrà sottovalutarsi nemmeno la formazione continua dei giornalisti. E, tenendo anche conto che quest’ultima, prevista dall’articolo 45 del contratto nazionale di lavoro giornalistico, non ha ancora trovato attuazione, l’adozione di tali modelli potrebbe anche contribuire a colmare tale lacuna.

A proposito dell’aggiornamento culturale professionale dei redattori l’art. 45 del contratto nazionale di lavoro giornalistico 2009 – 2013 stabilisce che «le aziende, in relazione alle specifiche esigenze e alle disponibilità, d’intesa con le direzioni e i comitati o fiduciari di redazione, avvieranno a tale scopo iniziative determinandone programma, durata, modalità di svolgimento e di partecipazione. Ciascuna azienda favorirà la partecipazione di singoli giornalisti a corsi

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12. L’organismo di vigilanza all’interno dell’impresa giornalistica.

L’organismo di vigilanza ha il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza del modello e di curarne l’aggiornamento. È dotato di poteri di vigilanza e di controllo, essendogli preclusa qualsiasi attività di gestione, ciò nell’ottica di garantire l’imparzialità dell’organo stesso e di evitare il prospettarsi di conflitti di interesse. Le funzioni svolte dall’organismo di vigilanza consistono nel controllo sull’effettività del modello, cioè nella verifica della coerenza tra comportamenti concreti e modello istituito; nella valutazione dell’adeguatezza del modello, ossia della idoneità dello stesso, in relazione alla tipologia delle attività ed alle caratteristiche dell’impresa, ad evitare i rischi di realizzazione di reati. Ciò impone un’attività di aggiornamento del modello sia alle mutate realtà organizzative, sia ad eventuali intervenuti mutamenti dello stesso D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

Il legislatore del 2001, però, non ha ritenuto opportuno procedere ad una dettagliata descrizione della struttura dell’organismo di vigilanza attribuendo, così, agli operatori del settore un significativo margine di discrezionalità sul punto. Ecco che allora nell’accostarci alla descrizione delle caratteristiche che l’organismo de

di aggiornamento, seminari, iniziative culturali-professionali attinenti le loro specifiche competenze previo parere del direttore sulla base di idonea documentazione; è rinviata alla sede aziendale la regolamentazione degli aspetti relativi ai periodi di permesso retribuito e di concorso alle spese. Le Federazioni contraenti promuovono e organizzano, annualmente e congiuntamente – in collaborazione con gli organismi professionali – corsi nazionali o di aggiornamento culturale-professionale stabilendone di volta in volta programmi, durata, modalità di partecipazione dei giornalisti e concorso delle aziende agli eventuali oneri. Le Federazioni medesime valuteranno periodicamente i risultati delle esperienze realizzate a livello nazionale in materia di aggiornamento professonale».

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quo dovrebbe possedere per assolvere compiutamente alla funzione di vigilanza e di controllo che gli è propria non si può non ricorrere ad una prospettiva sul “dover essere”.

In primo luogo, sarebbe opportuno che venissero nominati membri dell’organismo di vigilanza solo soggetti in possesso di comprovate conoscenze aziendali e dotati di particolare professionalità, nonché di capacità specifiche in tema di attività ispettive e consulenziali. Ciascun componente dovrebbe essere in grado di svolgere le funzioni ed i compiti cui l’organismo di vigilanza è deputato, tenuto conto degli ambiti di intervento nei quali lo stesso è chiamato ad operare: i componenti del suddetto organo dovrebbero avere competenze specifiche in relazione a qualsiasi tecnica utile per prevenire la commissione di reati, per scoprire quelli già commessi ed individuarne le cause, nonché per verificare il rispetto dei modelli da parte degli appartenenti all’organizzazione aziendale. Per tali ragioni, generalmente, i soggetti che fanno parte dell’organismo di vigilanza - avente struttura pluripersonale e collegiale - sono esperti di Internal Audit, esperti in materia legale ed esperti in materia economico/aziendale/amministrativa.

In secondo luogo, diverse sono le attività che, da un punto di vista operativo, l’organismo di vigilanza dovrebbe porre in essere. Dovrebbe assistere il consiglio di amministrazione nella determinazione delle linee di indirizzo del sistema dei controlli interni e nella verifica periodica della sua adeguatezza e del suo effettivo funzionamento; verificare periodicamente la mappa delle aree a rischio reato, al fine di adeguarla ai mutamenti dell’attività e della struttura aziendale, nonché ad eventuali modifiche normative nel frattempo intervenute; controllare periodicamente che i principi etici siano rispettati e verificare l’adeguatezza ed efficacia del modello nella prevenzione dei reati di cui al D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Sulla base di tali verifiche potrebbe predisporre periodicamente un rapporto da presentare

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all’organo di amministrazione, in cui vengano evidenziate le problematiche riscontrate ed individuate le azioni correttive da intraprendere.

Infine, il coordinamento con gli altri organi aziendali potrebbe essere utile al fine di tenere sotto controllo l’evoluzione delle aree a rischio realizzando, così, un costante monitoraggio e al fine di intraprendere tempestivamente le azioni correttive necessarie per rendere il modello adeguato ed efficace. Nell’ipotesi in cui emergesse che lo stato di attuazione degli standard operativi richiesti fosse carente, l’organismo di vigilanza dovrebbe adottare tutte le iniziative necessarie per correggere tale condizione sollecitando i responsabili delle singole unità organizzative al rispetto del modello; indicando e proponendo quali correzioni e modificazioni andrebbero apportate alle prassi di attività e segnalando i casi più gravi di mancata attuazione del modello ai responsabili e agli addetti ai controlli all’interno delle singole funzioni.

In più occasioni si è avuto modo di sottolineare che le imprese giornalistiche sono già soggette all’osservanza di quanto disposto dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, e, pertanto, esiste già al loro interno un organismo di vigilanza che dovrebbe possedere le caratteristiche cui si è appena fatto riferimento. Di conseguenza, qualora i reati posti in essere dai giornalisti assurgessero a presupposto della responsabilità dell’impresa giornalistica ci si trovrebbe al cospetto di una delle modifiche normative intervenute in tal senso cui l’ente dovrebbe adeguarsi nominando componenti dell’organismo di controllo in possesso di competenze specifiche al fine di individuare soluzioni utili per prevenire siffatta tipologia di reati.

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13. Applicabilità all’impresa giornalistica del sistema sanzionatorio delineato dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

Il terreno sul quale valutare l’efficacia delle scelte punitive aventi ad oggetto gli organismi collettivi è certamente l’apparato sanzionatorio ad essi riservato. E pertanto l’opportunità di ampliare il catalogo dei reati-presupposto deve essere valutata tenendo in considerazione proprio la portata e l’effettiva efficacia di tale sistema, verificando la validità degli strumenti previsti per prevenire i reati connessi all’attività delle organizzazioni pluripersonali.

La sanzione pecuniaria rappresenta il cardine del sistema sanzionatorio descritto dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che prevede, per la prima volta nel nostro ordinamento, un modello bifasico di commisurazione di tale sanzione. Il giudice quantifica la pena “per quote”: il numero delle quali viene determinato in riferimento alla «gravità del fatto, al grado della responsabilità dell’ente nonché all’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti», mentre il valore economico della singola quota viene determinato sulla base «delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare l’efficacia della sanzione» (93). In tal modo, da un lato, si tende ad assicurare una maggiore trasparenza del procedimento motivazionale e, dall’altro, la risposta sanzionatoria viene adeguata alle reali capacità economico-finanziarie dell’ente (94).

93(?) Art. 11 D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. 94(?) Un cenno merita il disposto dell’art. 12 D.lgs. 8 giugno

2001, n. 231 che, al comma 2 lett. a), prevede la riduzione della sanzione pecuniaria da un terzo alla metà se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso. È evidente che la riduzione in parola mira ad orientare l’ente

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L’applicabilità del suddetto sistema di sanzioni pecuniarie all’impresa giornalistica sembra costituire una risposta sanzionatoria adeguata ed una valida alternativa al sistema di cui all’art. 197 c.p. che, tra l’altro, potrebbe essere “eluso” ad opera dell’impresa, la quale, come abbiamo già sopra evidenziato, potrebbe preventivare le somme irrisorie che è obbligata a pagare in via sussidiaria ex art. 197 c.p. considerandole come un “costo” cui far fronte aumentando il prezzo del prodotto editoriale. Le somme che invece l’impresa giornalistica sarebbe direttamente condannata a pagare avrebbero un ammontare di gran lunga superiore in quanto commisurate alle effettive capacità finanziarie dell’ente e sarebbero in grado di determinare, probabilmente, un impatto di notevole rilievo sull’assetto economico dell’ente stesso. Tuttavia, verosimilmente si potrebbe sollevare la medesima obiezione avanzata in riferimento all’art. 197 c.p. qualora il sistema sanzionatorio ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, si fondasse esclusivamente sulla sanzione pecuniaria: in tal modo si potrebbe comunque correre il rischio di vanificarne l’efficacia preventiva in quanto l’ente, soprattutto se di grandi dimensioni, potrebbe, per così dire, contabilizzare tali somme nei costi di gestione nel bilanciamento rischi-benefici. Se ciò potrebbe ammettersi in linea generale, nel settore giornalistico, invece, dato l’elevato numero dei reati che il giornalista potrebbe porre in essere - si pensi ai continui episodi di diffamazione che

verso un ripristino della legalità spingendolo altresì ad adottare e rendere operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

L’ipotesi di riduzione in discorso sembra richiamare la circostanza attenuante comune di cui all’art. 62 n. 6 c.p. che fa riferimento «all’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l’essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell’ultimo capoverso dell’art. 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato».

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ogni giorno si verificano attraverso la pubblicazione di articoli giornalistici - l’impatto economico sull’impresa, di qualsiasi dimensione, sarebbe comunque consistente.

Ovviamente non può tacersi a proposito della presenza di un ulteriore tipologia di sanzioni all’interno dell’apparato sanzionatorio tratteggiato dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231: le sanzioni interdittive. Infatti, «il rischio di un abbassamento della funzione general-preventiva del sistema è stato evitato con la previsione di un apparato di sanzioni interdittive ben più temibili a causa della loro capacità di incidere profondamente sull’organizzazione, sul funzionamento e sull’attività dell’ente» (95).

Se ci si sofferma sul citato disegno di legge C 1415, recante “Norme in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali. Modifica della disciplina in materia di astensione del giudice e degli atti di indagine. Integrazione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche” si avrà modo di appurare che in relazione alla commissione del reato previsto dall’articolo 684 c.p., si prevede che l’ente sia destinatario di una sanzione pecuniaria non facendosi accenno, però, a sanzioni interdittive. Del resto, tale opzione legislativa non sarebbe nuova: l’art. 25-ter del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, prevede un sistema sanzionatorio basato esclusivamente sulla sanzione pecuniaria escludendosi, così, la possibilità di ricorrere alle sanzioni interdittive e lo stesso dicasi per gli abusi di

95(?) M. PELISSERO, La responsabilità degli enti, in F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, vol. I, 13ª ed., a cura di C.F. Grosso, Giuffrè, Milano, 2007, 889.

In dottrina, sulle sanzioni interdittive: G. DE MARZO, Le sanzioni amministrative: pene pecuniarie e sanzioni interdittive, in Soc., 2001, 1308; AA. VV., Il nuovo sistema sanzionatorio del diritto penale dell’economia: decriminalizzazione e problema di effettività, a cura di G. Amarilli – M. D’Alessandro – A. De Vita, Jovene, Napoli, 2002; F. MUCCIARELLI, Le sanzioni interdittive temporanee nel D.lgs. 231/2001, in Scritti in onore di G. Marinucci, a cura di E. Dolcini – C.E. Paliero, vol. III, Giuffrè, Milano, 2006.

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mercato di cui all’art. 25-sexies del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Siffatta esclusione, secondo parte della dottrina, non troverebbe alcuna giustificazione su un duplice piano: da un lato, su quello di una politica punitiva attenta alla gravità delle condotte, in quanto la maggior parte dei reati cui fanno riferimento gli artt. 25-ter e 25-sexies del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, si caratterizzano per una significativa carica di offensività per gli interessi tutelati; dall’altro sul piano della parità di trattamento con altri reati-presupposto per i quali il legislatore ha previsto sanzioni interdittive e che si caratterizzano per «affinità offensive» con i reati societari e gli abusi di mercato (96). Se tali osservazioni possono risultare condivisibili in riferimento ai reati societari e agli abusi di mercato, ammettere la possibilità di interdire, ad esempio, dall’esercizio dell’attività giornalistica un’impresa editoriale - nonostante l’eventuale rilevante entità del profitto ricavata dal reato commesso dal giornalista o per quanto gravi possano essere le carenze organizzative dell’impresa - sembra comunque eccessivo.

La compatibilità e l’utilizzabilità di sanzioni che incidono in modo rilevante sull’ente in riferimento ad un’impresa che svolge un’attività che si fonda sulla libera manifestazione del pensiero fa sorgere più di una perplessità: le sanzioni interdittive, infatti, penetrano la struttura e l’attività dell’ente, ne limitano e ne condizionano le capacità operative, ne precludono la

96(?) S. VINCIGUERRA, La responsabilità degli enti da reato, otto anni dopo. Sui principali problemi in tema di responsabilità dell'ente per il reato commesso nel suo interesse o vantaggio. Constatazioni e proposte, in Giur. it., 2009. L’Autore, in particolare, si riferisce alle truffe in danno dello Stato (art. 24, D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231) e ai delitti informatici e di trattamento illecito di dati (art. 24-bis, D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231) rispetto a taluni abusi di mercato.

Sottolinea la mancanza di razionalità politico-criminale di tale scelta legislativa, distonica rispetto ai principi che presiedono al sistema sanzionatorio a carico degli enti, anche M. PELISSERO, La responsabilità degli enti da reato, otto anni dopo. La progressiva espansione dei reati-presupposto, in Giur. it., 2009

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presenza sul mercato. L’irrogazione di una sanzione interdittiva ad una impresa giornalistica, come l’interdizione dall’esercizio dell’attività, sembra stridere drasticamente con il principio costituzionale di libertà di manifestazione del pensiero. Certamente non va dimenticato che la finalità delle sanzioni interdittive è essenzialmente incentrata sulla prevenzione e che, ai sensi dell’art. 17 del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, tali sanzioni non si applicano quando: prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso; ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; ha messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca. Qualora l’impresa giornalistica fosse, in ipotesi, possibile destinataria di una sanzione interdittiva, data la chiara connotazione specialpreventiva della disposizione da ultimo richiamata, questa potrebbe essere fortemente indotta ad eliminare gli effetti negativi del reato e a predisporre concrete misure dirette alla modifica dell’assetto organizzativo dell’ente in modo da impedire l’eventuale compimento di ulteriori illeciti. Ma la minaccia di una sanzione non sembra possa giustificare il rischio di una possibile irrogazione della stessa ad una impresa all’interno della quale si svolge un’attività giornalistica.

Non va dimenticato, inoltre, che il D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, prevede l’applicazione delle misure interdittive anche in via cautelare le quali, inevitabilmente, presentano «un impatto così devastante da portare alla chiusura dell’ente destinatario delle stesse o, in ogni caso, da comprometterne seriamente la sopravvivenza futura in un mercato, come quello attuale, altamente concorrenziale. La loro applicazione in sede cautelare

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accresce notevolmente questa situazione di rischio e di incertezza anche per tutto l’indotto collegato al singolo ente» (97). Sulla base di tali premesse, nel disegno di legge di riforma del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, è stato, così, proposto di aggiungere all’art. 9 del medesimo decreto i commi seguenti: «2-bis. Al di fuori dei casi in cui l’unica finalità della società o dell’ente è quella di realizzare un progetto criminoso, in cui sono applicabili in via cautelare le sanzioni interdittive previste dal presente decreto, in via cautelare possono essere previste solo le misure del sequestro preventivo di cui all’articolo 53 e del sequestro conservativo di cui all’articolo 54.       2-ter. Le sanzioni interdittive possono essere ulteriormente comminate in via cautelare solo dopo la sentenza di condanna di primo grado e su richiesta del pubblico ministero approvata dalla Corte di appello competente, qualora sia presente un grave pericolo di reiterazione del reato» (98). In altri termini, si propone di estendere il regime di esenzione delle misure cautelari di natura interdittiva attualmente vigente per banche, assicurazioni, società di intermediazione mobiliare, società di gestione del risparmio e società di investimento a capitale variabile – previsto rispettivamente dall’articolo 97-bis del D.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, e dall’articolo 60-bis del D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 – a tutti gli enti destinatari del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Ciò perchè le esigenze di salvaguardare la stabilità di tali enti finanziari e del mercato all’interno del quale questi operano e di garantire una maggiore sicurezza agli investitori dovrebbero valere per la generalità degli enti. Di contro, l’unica ipotesi in cui viene ravvisata la necessità di inibire

97(?) Relazione al disegno di legge C 3640, Modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, concernente la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, presentato il 19.7.2010 alla Camera il cui testo è rinvenibile su www.camera.it.

98(?) Art. 2 disegno di legge C 3640, presentato il 19.7.2010 alla Camera ed il cui testo è rinvenibile su www.camera.it.

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l’attività in via cautelare sarebbe quello in cui la sola finalità della società fosse di realizzare condotte integranti reati. In tale ottica le sanzioni interdittive dovrebbero applicarsi esclusivamente con la sentenza di condanna e non anche in via cautelare.

Dal disegno di legge in parola è possibile dedurre la consapevolezza dell’incidenza delle misure interdittive già in via cautelare sulla vita dell’ente e la volontà di perseguire l’obiettivo di garantire un maggiore equilibrio al mercato economico. Nel settore giornalistico le medesime osservazioni fatte circa la conciliabilità tra il principio di libertà di manifestazione del pensiero e l’irrogazione di una sanzione interdittiva ad un’impresa giornalistica acquistano maggiore pregnanza se rapportate all’applicazione in via cautelare della misura stessa: ciò conferma ulteriormente la non opportunità di prevedere tali misure quali conseguenze della responsabilità amministrativa dell’impresa editoriale.

14. (Segue) La pubblicazione della sentenza di condanna come specifica sanzione diretta all’impresa giornalistica.

Di maggiore interesse, e anche di maggiore efficacia, potrebbe essere la pubblicazione della sentenza di condanna, per estratto o per intero, in uno o più giornali indicati dal giudice nella sentenza, nonché mediante affissione nel comune ove l’ente ha la sede principale, prevista dall’art. 18 D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Si tratta di una sanzione che richiama sia la più severa Adverse Publicity statunitense, secondo la quale i giudici possono imporre che l’organizzazione (a sue spese e nelle forme che i giudici stessi stabiliranno) dia pubblicità al reato commesso, al processo, alla pena irrogata e ai rimedi che

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verranno adottati per scongiurare la recidiva (99); sia la Communication de la décision prevista dai commi 3 e 9 dell’art. 131-39 del codice penale francese.

Anche il sistema italiano prevede la pubblicazione della sentenza di condanna, la quale può assumere la natura di pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni ex art. 36 c.p., o di sanzione civile, quale forma di riparazione del danno non patrimoniale, qualora «la pubblicazione costituisca un mezzo per riparare il danno non patrimoniale cagionato dal reato» così come previsto dall’art. 186 c.p. In particolare, secondo l’art. 36 c.p., la pubblicazione della sentenza è prevista, in via generale, in caso di condanna all’ergastolo, mentre negli altri casi la condanna è pubblicata, in ossequio al principio di legalità, solo qualora vi sia una previsione normativa espressa (100).

Tra le ipotesi previste nell’ambito della legislazione extracodicistica va annoverata quella di cui all’art. 9 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, sulla stampa secondo cui «nel pronunciare condanne per reato commesso mediante pubblicazione in un periodico, il giudice ordina in ogni caso la pubblicazione della sentenza, integralmente o per estratto, nel periodico stesso. Il direttore responsabile è tenuto a eseguire gratuitamente la pubblicazione a norma dell’art. 615, primo comma, del codice di procedura penale». Il codice di procedura penale, inoltre, all’art. 694, stabilisce che - qualora la sentenza riguardi un reato commesso con la pubblicazione di un giornale - il direttore o il vicedirettore responsabile sono obbligati a pubblicarla gratuitamente ed entro tre giorni da quello in cui ne hanno ricevuto ordine dall’autorità competente per l’esecuzione.

99(?) V. United States Sentencing Commission, Federal Sentenc-ing Guidelines Manual 1992, Introductory Commentary, § 8 D.1.4.

100(?) Con una recente modifica disposta dall’art. 67, della legge 18 giugno 2009, n. 69 - che ha aggiunto un ulteriore periodo all’art. 36 c.p. - è stata introdotta una nuova modalità di pubblicazione: la sentenza può essere inserita nel sito internet del Ministero della Giustizia.

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La responsabilità dell’impresa giornalistica ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231?

Se la pubblicazione della sentenza di condanna quale pena accessoria per un reato commesso mediante pubblicazione di un periodico è «ispirata alla finalità di integrare e rafforzare la tutela penale, come è anche rivelato dal collegamento della pubblicazione non già alla verificazione del danno cagionato dal reato, ma al reato medesimo» (101), l’efficacia di una previsione ad hoc all’interno del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 – che attualmente subordina l’irrogazione di tale sanzione all’irrogazione di una sanzione interdittiva – da destinare specificamente alle imprese che esercitano un’attività giornalistica e che abbiano subito una sentenza di condanna ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, realizzerebbe un significativo effetto deterrente.

Infatti, la pubblicazione della sentenza di condanna all’interno del medesimo giornale pubblicato dall’ente dichiarato responsabile determinerebbe un’immagine negativa dell’impresa giornalistica stessa. Inoltre, verrebbe assicurata una maggiore conoscibilità della pronuncia rispetto a quella che ne deriverebbe dalla mera lettura del dispositivo in udienza: la collettività verrebbe posta nella condizione di essere informata sulle modalità e contenuto del fatto illecito.

Per quanto concerne le modalità di pubblicazione della sentenza di condanna dell’impresa editoriale pare opportuno precisare che queste, naturalmente, non andrebbero limitate alla pubblicazione all’interno dei giornali in formato cartaceo. Infatti, nell’ipotesi in cui venisse condannato un ente che svolge attività giornalistica attraverso il mezzo telematico la sentenza di condanna andrebbe pubblicata all’interno del sito di riferimento.

101(?) Cass. pen. Sez. V, 14.6.1983, Pisanò, in Riv. pen., 1984, 313.

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CAPITOLO IV

DALLA RESPONSABILITÀ DEL DIRETTORE ALLA RESPONSABILITÀ DELL’IMPRESA GIORNALISTICA:

UN’ALTERNATIVA ALLA SANZIONE PENALE

SOMMARIO: 1. La possibilità di eliminare dal panorama normativo italiano l’art. 57 c.p. – 2. Il necessario bilanciamento tra la libertà di espressione e l’esigenza di prevenzione dei reati. – 3. Dal “danno criminale” al “danno civile”: la costituzione di parte civile nei confronti dell’impresa giornalistica sottoposta a procedimento ai sensi del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. – 4. Tutela dell’onore: un’alternativa alla sanzione penale.

1. La possibilità di eliminare dal panorama normativo italiano l’art. 57 c.p.

Alla luce delle riflessioni sull’aspetto imprenditoriale del sistema dell’informazione e nel richiamare le osservazioni e le perplessità inerenti alla responsabilità del direttore sopra evidenziate, non sembra azzardato affermare che, qualsiasi soluzione si tenti di fornire a proposito della responsabilità di tale soggetto, si prospettano obiezioni difficilmente superabili e i dubbi che sono affiorati difficilmente potrebbero dissolversi mantenendo siffatta forma di responsabilità penale. A riprova di ciò basti pensare che, dopo più di ottanta anni dall’entrata in vigore del codice Rocco, le osservazioni contenute nei Lavori preparatori e avanzate all’interno della Commissione di revisione, nonostante si riferissero alla versione originaria dell’art. 57 c.p. che prevedeva una indiscutibile forma di responsabilità per fatto altrui, appaiono connotate da una sconcertante attualità: «la responsabilità del direttore responsabile si fonda nel fatto di essersi assunta l’impresa giornalistica, cui sono inerenti parecchi rischi, tra i quali quelli di rispondere del fatto di un autore, con cui non si ha nulla di comune, per uno scritto

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che può anche non essere letto» (1). Nel cogliere i temi reali della questione ci si rende conto che oggi più che mai ci si dovrebbe limitare a far ricadere la responsabilità penale solo sull’autore dell’articolo. La debolezza dell’efficacia della repressione penale in materia di reati commessi a mezzo stampa non dipende certo dal permanere della vigenza di siffatta forma di responsabilità del direttore a costo di sconfessare i basilari principi che fondano il nostro sistema penale. Bisognerebbe, invece, avere il “coraggio” di eliminare dal sistema penale la responsabilità penale del direttore per omesso controllo. Il legislatore, ha provato, a dire il vero, a compiere tale passo ma con eccessiva timidezza. Nella formulazione originaria del disegno di legge n. S 3176 del 2004 - testo unificato di altri progetti di legge concorrenti presentati in precedenza - dal titolo “Norme in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante”, la responsabilità del direttore veniva limitata all’ipotesi in cui l’autore della pubblicazione o della diffusione fosse ignoto o non imputabile (2). Nella consapevolezza dei problemi interpretativi che poneva la fattispecie descritta dall’art. 57 c.p. si era tentato, quindi, di eliminare il riferimento all’omesso controllo da parte del direttore o vicedirettore responsabile. Tuttavia questo timido accenno è rimasto tale sia perché residuava comunque una responsabilità per fatto altrui (in quanto si chiamava a rispondere il direttore nel caso in cui l’autore della pubblicazione o della diffusione fosse ignoto o non imputabile); ma soprattutto perchè nel corso dei lavori preparatori si è progressivamente abbandonata l’idea di eliminare la rilevanza dell’omesso controllo del direttore ritornando ad attribuirgli una responsabilità (di posizione) per culpa in vigilando per i delitti commessi con il mezzo della stampa,

1(?) Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale. Progetto definitivo di un nuovo codice penale con la relazione del guardasigilli on. Alfredo Rocco, Roma, 1929.

2(?) Il testo del disegno di legge è consultabile su www.senato.it.

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Dalla responsabilità del direttore alla responsabilità dell’impresa giornalistica

della diffusione radiotelevisiva o con altri mezzi di diffusione (3).

Invece, solo una radicale scelta del legislatore diretta all’eliminazione della fattispecie descritta dall’art 57 c.p. potrà essere risolutiva, soprattutto alla luce della reale articolazione dei ruoli all’interno delle imprese giornalistiche le quali, ogni giorno, assumono carattere di sempre maggiore complessità e all’interno delle quali un capillare controllo da parte del direttore non è nient’altro che un’utopia che non consente di osservare quanto stabilito dai principi di diritto penale. Per non parlare, poi, dell’inefficacia di tale sistema di responsabilità sotto il profilo della prevenzione sia generale che speciale.

Una volta eliminata la responsabilità di cui all’art. 57 c.p. la sanzione derivante dall’omesso controllo non verrebbe “spazzata via” dal sistema giuridico ma risulterebbe “trasferita” sull’impresa editoriale (4). In altri termini, il sistema di controllo diretto ad evitare che col mezzo della pubblicazione vengano commessi reati e che sino ad oggi il legislatore ha considerato irrinunciabile, non verrebbe meno ma risulterebbe “traslato” all’interno della struttura dell’impresa editoriale.

2. Il necessario bilanciamento tra la libertà di espressione e l’esigenza di prevenzione dei reati.

Certamente, nessuno può negare il fondamentale ruolo svolto dalla stampa nella costruzione di una società democratica, dovendo essa comunicare informazioni ed idee su ogni questione di interesse generale. Tuttavia, se

3(?) Per le relative modifiche www.senato.it. 4(?) In tal senso, V. ZENO-ZENCOVICH, La nuova disciplina della

diffamazione a mezzo stampa. Profili civilistici, in Diritto di cronaca e tutela dell’onore, Atti del Convegno tenuto presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Trento il 18 marzo 2005, Quaderni del Dipartimento, Università di Trento, 2005, 93, a cura di A. Melchionda – G. Pascuzzi

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da un lato, la valutazione della legittimità delle “ingerenze” statali alla libertà di stampa deve necessariamente avvalersi di un metro peculiare, dall’altro, occorre comunque ricordare che «non sempre la restrizione di un diritto è, per ciò solo, ingiustificata e quindi ingiusta e … può talora essere giustificata in vista della salvaguardia di un altro principio, o diritto, che possa ritenersi prevalente rispetto a quello che subisce la restrizione» (5). Certo, «è meglio prevenire i delitti che punirli. Questo è il fine principale di ogni buona legislazione» (6) ma nel settore dell’informazione il bilanciamento, la ponderazione, tra valori contrapposti rappresenta un’operazione di difficile realizzazione.

Preso atto della insufficienza dei tradizionali strumenti di intervento del diritto penale rivolti a prevenire la commissione dei reati del giornalista attraverso il controllo del direttore, singola persona fisica, la corresponsabilizzazione dell’ente per i fatti di reato commessi in seno all’attività giornalistica potrebbe essere una soluzione meritevole di attenzione. In particolare, l’adozione dei modelli di organizzazione e gestione potrebbe attenuare fortemente il rischio-reato all’interno della struttura imprenditoriale. Condicio sine qua non del “successo” di tali modelli è, comunque, l’atteggiamento della giurisprudenza: un’apertura a giudizi di idoneità in sede penale potrebbe scongiurare il rischio che l’editore preferisca rinunciare ad affrontare i costi connessi all’adozione e al continuo aggiornamento del sistema di controllo. Non va dimenticato che dal 2001 la prima sentenza che ha riconosciuto efficacia esimente ad un modello organizzativo, prosciogliendo la persona giuridica per un reato-presupposto effettivamente commesso dai vertici della società, è stata pronunciata solo nel 2009 (7).

5(?) A. SPENA, Libertà di espressione e reati di opinione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 710.

6(?) C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, a cura di P. Calamandrei, Le Monier, Firenze, 1945, § XLI.

7(?) Trib. Milano, 17.11.2009, in Soc., 2010, 473, con nota di C.E. PALIERO – V. SALAFIA, La società assolta per il reato dei “vertici”: una

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In particolare, il giudice ha escluso la responsabilità di una società riconoscendo l’idoneità del modello organizzativo a prevenire il reato nella specie commesso, ha ritenuto l’organismo di vigilanza autonomo ed efficiente e provata l’elusione fraudolenta del modello da parte della persona fisica autrice del reato-presupposto. Si tratta di una pronuncia che assume significativo rilevo in quanto consente di ribadire che in presenza della commissione di uno o più reati rilevanti ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, il giudice non può automaticamente considerare inefficace il modello di organizzazione della società, ma deve verificarne la causa della elusione che ha agevolato la consumazione dei reati.

Forse, in un’ottica de iure condendo, la creazione di un’Autorità che si occupasse specificamente della verifica della qualità tecnica dei modelli organizzativi che ciascun impresa si accinge ad adottare potrebbe costituire un valido ausilio per il giudice che si accinge ad accertare la responsabilità dell’ente ma, anche qui, solo una precisa scelta del legislatore potrebbe rilevarsi risolutiva in tal senso.

La prima obiezione che potrebbe opporsi all’introduzione di una responsabilità dell’impresa editrice per i reati commessi dai giornalisti nell’esercizio della loro attività potrebbe essere una possibile violazione o un’eccessiva compressione della libertà di espressione a fronte dell’esigenza di prevenzione dei reati. Infatti, le forme di controllo preventivo dell’editore sull’operato dei giornalisti potrebbero essere intese come “censura preventiva”: gli editori, spinti ad un controllo preventivo sull’operato dei giornalisti attraverso l’acquisizione preliminare di informazioni rilevanti su quanto destinato alla pubblicazione o alla messa in onda, giocherebbero un ruolo determinante nelle scelte quotidiane delle notizie da pubblicare determinandosi, così, un’ingerenza degli stessi

sentenza “apripista” e in Corr. merito, 2010, 296, con nota di G. LUNGHINI e L. MUSSO, I modelli di organizzazione ai sensi dell’art. 6, Dlgs. N. 231/2001: un caso di assoluzione della società.

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sul contenuto dei giornali, una compromissione dell’autonomia della professione di giornalista, con conseguente riduzione del ruolo dei direttori e dei redattori a quello di “impiegati di redazione”. Si potrebbe giungere ad affermare che chiamare a rispondere l’impresa giornalistica ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, per i reati posti in essere dai giornalisti potrebbe cancellare la separatezza di competenze (tra gestione amministrativa, di competenza dell’editore, e gestione dell’informazione, di competenza esclusiva dei giornalisti e dei direttori) e che significherebbe sottoporre i giornalisti al diretto controllo dei proprietari dei media. Di “censura preventiva” aveva parlato la dottrina anche a proposito della responsabilità del direttore ex art. 57 c.p.: secondo qualche Autore tale disposizione avrebbe attribuito al direttore un potere di controllo identificabile in un «eccezionale potere di censura preventiva sull’esercizio della libertà di stampa e di pensiero» (8). Ma a proposito della presunta violazione da parte dell’art. 57 c.p. del precetto contenuto nel secondo comma dell’art. 21 della Costituzione, secondo il quale «la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure», la Corte costituzionale ha dichiarato l’infondatezza della questione dal momento che la “censura” si manifesta ed esercita solo attraverso i provvedimenti cautelari che la P.A. potrebbe essere autorizzata ad adottare per controllare le manifestazioni scritte del pensiero e che potrebbe portare al divieto della pubblicazione, e non mediante l’esercizio del controllo al quale è tenuto il direttore di un giornale, prima ancora che per norma di legge, per la natura stessa della sua attività e per il necessario svolgimento della sua opera (9).

A ben riflettere, però, non sembra possa parlarsi di “censura preventiva” neanche nel caso dell’introduzione di una responsabilità dell’impresa giornalistica ex D.lgs. 8

8(?) M.B. MAGRO, La responsabilità del direttore di stampa periodica e il problema della determinazione della condotta tipica nei reati omissivi, in Cass. pen., 1992, 1241.

9(?) Corte cost., 30.6.1960, n. 44, in C.E.D. Cass., n. 1081.

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giugno 2001, n. 231. Innanzitutto ci si dovrebbe soffermare sulla effettiva “titolarità” della libertà di manifestazione del pensiero all’interno dell’impresa giornalistica. Infatti, se da un lato, i rapporti tra potere economico e informazione influiscono sulla struttura e sull’organizzazione di un’impresa di informazione, dall’altro, comportano l’insorgere di qualche interrogativo circa la individuazione della “titolarità” della libertà di manifestazione del pensiero. In altri termini, il rapporto tra le tre principali figure che convivono all’interno di tale struttura imprenditoriale – l’editore/proprietario, il direttore e i giornalisti – ha determinato l’insorgere di un variegato spettro di problematiche, prima fra tutte l’individuazione del titolare della libertà della manifestazione del pensiero in seno all’impresa. Editore e direttore costituiscono espressione di posizioni differenti all’interno dell’organizzazione imprenditoriale: il primo – che quasi sempre coincide con il proprietario della testata – gestisce l’azienda prefiggendosi come scopo primario quello di incrementare il profitto, sceglie il mercato, fissa la linea politica del giornale e nomina il direttore; il secondo, assume il ruolo di collante tra editore e redattori e garantisce la linea politica fissata dall’editore.

Proprio per evitare che l’impresa di informazione divenisse veicolo esclusivo della manifestazione di pensiero del proprietario/editore in dottrina, in passato, era stata proposta una netta separazione tra la gestione economica dell’impresa, che avrebbe dovuto essere affidata all’editore, e la gestione delle attività informative, che avrebbe dovuto essere affidata al direttore e ai giornalisti (10). Di contro, il problema non avrebbe dovuto porsi ad avviso di chi ha sostenuto che la libertà dell’imprenditore si articola nel diritto di decidere l’organizzazione economica, tecnica e “di pensiero” del

10(?) V. GRISOLIA, I comitati di redazione e i problemi della partecipazione dei giornalisti alla gestione dell’impresa, in La stampa quotidiana tra crisi e riforma, a cura di P. Barile – E. Cheli, Il Mulino, Bologna, 1976, 446.

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Dalla responsabilità del direttore alla responsabilità dell’impresa giornalistica

mezzo di diffusione tale da determinare l’indirizzo informativo della pubblicazione e che proprio nell’ambito di tale indirizzo si sviluppa l’opera di pensiero dei giornalisti che dà vita alla linea politica del giornale: l’editore, pertanto, non diffonde il proprio pensiero ma «traccia il limite dell’altrui diffusione» e non potrebbe essere qualificato come il Tendenzträger dell’impresa giornalistica ma, anzi, il suo indirizzo informativo potrebbe essere definito come «contenitore trasparente che, mentre raccoglie e sagoma di sé il contenuto, viene reso palese come contenitore da ciò che contiene; ed il contenuto, a sua volta, è allo stesso tempo ciò che è e la forma che la struttura di contenimento gli permette di assumere» (11).

11(?) M. PEDRAZZA GORLERO, Giornalismo e Costituzione, Cedam, Padova, 1988, 46 ss.

Per quanto concerne la possibilità di ricondurre l’impresa giornalistica alla “impresa di tendenza” è importante sottolineare che comunque tale espressione non trova alcuna definizione a livello normativo. La dottrina suole utilizzarla per indicare tutta una serie di problematiche - riconducibili essenzialmente all’ambito giuslavoristico - che trovano origine proprio in seno ad attività organizzate in vista del raggiungimento di scopi di natura ideale o ideologica. Portatore di tendenza sarà il soggetto, individuale o collettivo, che elabora il contenuto del messaggio di opinione e/o privilegiato, e ne organizza il consolidamento e la propagazione avvalendosi pure di lavoro dipendente. M. PEDRAZZOLI, Aziende di tendenza, in Digesto disc. priv., Sez. commerc., Utet, Torino, 1987, 108. L’esistenza di una clausola all’interno della contrattazione collettiva, la c.d. clausola di coscienza (v. art. 32 del contratto nazionale di lavoro giornalistico relativo al quadriennio 1 aprile 2009 – 31 marzo 2013), consente al giornalista di chiedere la risoluzione del rapporto di lavoro, con diritto alle indennità di licenziamento, «nel caso di sostanziale cambiamento dell’indirizzo politico del giornale ovvero di utilizzazione dell’opera del giornalista in altro giornale della stessa azienda con caratteristiche sostanzialmente diverse, utilizzazione tale da menomare la dignità professionale del giornalista». Raramente tale clausola, però, ha trovato applicazione pratica e la ragione probabilmente risiede nel fatto che l’attività informativa si svolge in un contesto in continua evoluzione in cui, tra l’altro, le competenze e l’influenza del corpo redazionale contribuiscono sempre più alla determinazione dell’indirizzo del giornale attraverso un sistema di validazione consensuale. Così S. PANIZZA – L. ROSSI, Libertà di manifestazione del pensiero e organizzazioni di tendenza, in Libertà di manifestazione del pensiero e

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Oggi è difficile negare che l’assetto dei rapporti tra proprietà dell’impresa editoriale, direttore responsabile e giornalisti non condizioni la stessa libertà di manifestazione del pensiero e che, essendo la stessa permanenza in carica del direttore ancorata al rapporto fiduciario con l’editore, il potere di informazione, nei fatti, finisca per concentrarsi nelle mani di quest’ultimo (12). Ecco che allora parlare di “censura preventiva” diviene estremamente difficile: l’introduzione di una responsabilità amministrativa dell’impresa editrice e la necessità dell’adozione ed efficace attuazione di un modello di organizzazione e gestione equivale semplicemente ad imporre un sistema di autocontrollo delle imprese sull’attività giornalistica al loro interno esercitata.

3. Dal “danno criminale” al “danno civile”: la costituzione di parte civile nei confronti dell’impresa giornalistica sottoposta a procedimento ai sensi del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

Stante l’opportunità dell’eliminazione della responsabilità del direttore ex art. 57 c.p. e dell’introduzione della responsabilità dell’impresa giornalistica non può non riflettersi sulle conseguenze che tale soluzione potrebbe comportare sul piano della costituzione di parte civile in seno al procedimento di cui al D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

Occorrerebbe, innanzitutto, chiedersi se siano configurabili un danno da reato e un danno da illecito amministrativo dell’ente quali tipologie di danno distinte e separate o se queste finiscano per essere tra loro indistinguibili. In altri termini, ci si potrebbe soffermare a riflettere se dall’illecito amministrativo dell’ente derivi un giustizia costituzionale, a cura di A. Pizzorusso – R. Romboli – A. Ruggeri – A. Saitta – G. Silvestri, Giuffrè, Milano, 2005, 426.

12(?) Sul punto G.A. VENEZIANO, Stampa, in Enc. giur., vol. XXX, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1993, 8.

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danno diverso e ulteriore rispetto a quello derivante dal reato presupposto e se il danneggiato dall’illecito amministrativo e dal reato sia legittimato a costituirsi parte civile all’interno del procedimento penale che vede come protagonista l’ente.

La questione inerente all’ammissibilità della costituzione di parte civile nell’ambito del procedimento di cui al D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, nei confronti dell’ente è, ad oggi, una questione aperta sulla quale sono intervenute esclusivamente le Corti di merito, mentre la Cassazione non ha ancora avuto l’occasione di pronunciarsi in proposito. Dato il silenzio della normativa in discorso, sul punto si registrano decisioni aventi segno nettamente opposto. Si oscilla tra ordinanze che ritengono inammissibile la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente sottoposto a procedimento in quanto, proprio in assenza di una disposizione specifica, non sembra possibile pervenire a tale risultato in base ad una interpretazione sistematica-evolutiva (13), e ordinanze che, invece, ritengono possibile che il danneggiato avanzi le proprie pretese risarcitorie nei confronti dell’ente nel procedimento penale (14).

Poichè solo un intervento del legislatore può metter fine ai dubbi interpretativi che agitano la dottrina e la giurisprudenza a tal proposito, meritano di essere riportate le argomentazioni rinvenibili in una recente ordinanza di un G.u.p. di Milano che, ponendosi in contrasto con la

13(?) Trib. Torino, ord. 2.10.08, in Dir. pen. e processo, 2009, 851; Trib. Milano, ord. 18.4.08, in Corr. merito, 2008, 1062; Trib. Milano, ord. 18.1.08, in Società, 2009, 1031, con nota di D. FRACCHIA, In tema di costituzione di parte civile nel procedimento avviato nei confronti degli “enti” di cui al D.lgs. n. 231/2001; Trib. Milano, ord. 31.3.05, in www.rivista231.it; Trib. Milano, ord. 19.12.05, in Foro ambros., 2005, 443; Trib. Milano, ord. 25.1.05, in Società, 2005, 1441, con nota di S. BARTOLOMUCCI, Inammissibile la costituzione di parte civile dell’ente imputato ex D.lgs. n. 231/2001; Trib. Milano, ord. 9.3.04, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, 1333.

14(?) Trib. Milano, ord. 5.2.08, in www.rivista231.it; Trib. Milano, ord. 24.1.08, in Corr. merito, 2008, 451 e in Guida al dir., 2008, 11, 76; Trib. Torino, ord. 26.1.06, in www.rivista231.it.

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giurisprudenza precedente del medesimo foro, ha rigettato la richiesta di esclusione della parte civile in un procedimento ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (15). È stato osservato, così, che grazie al decreto legislativo del 2001 «il risarcimento del danno e/o riparazione del danno è stato recuperato in chiave pubblicistica di alternativa alla sanzione penale». Il D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, infatti, come confermato all’interno della stessa relazione governativa, palesa chiare finalità specialpreventive, «accordando un premio all’ente che pone in essere un comportamento che integra un “controvalore” rispetto all’offesa realizzata». Comportamento successivo all’illecito e che va posto in essere prima dell’apertura del giudizio, che attenua il bisogno di pena e che controagisce rispetto ai presupposti applicativi delle sanzioni interdittive, annullando la loro carica di disvalore. Il favore che viene ricollegato alla tenuta di queste condotte in latu sensu risarcitorie è confermato anche dalla circostanza che (anche se compiute oltre il termine previsto) comportano la conversione della sanzione interdittiva in sanzione pecuniaria. Se così è, allora, l’illecito amministrativo conseguente da reato disciplinato dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, obbligherebbe direttamente l’ente al risarcimento e/o alle riparazioni del danno a norma delle leggi civili. Né l’assenza di norme nel corpo del decreto che fanno riferimento alla costituzione di parte civile sembrerebbe costituire un ostacolo a tale interpretazione. Gli artt. 34 e 35 del decreto stabiliscono che per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato si osservano le norme ivi contenute nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del Decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, e che all’ente si applicano le disposizioni processuali relative all’imputato in quanto applicabili: la responsabilità dell’ente segue le garanzie del processo penale.

15(?) Trib. Milano, ord. 24.1.08, in Corr. merito, 2008, 451 e in Guida al dir., 2008, 11, 76.

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Inoltre, nemmeno la mancata indicazione nel corpo normativo del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, di una norma equivalente all’art. 74 c.p.p. può essere sintomatica di una volontà del legislatore delegato di escludere l’istituto della costituzione di parte civile nei confronti dell’ente. Il G.u.p. di Milano osserva, inoltre, che un ulteriore argomento che potrebbe porsi in contrasto con l’ammissibilità della costituzione di parte civile potrebbe essere l’art. 54 del decreto in discorso che disciplina il sequestro conservativo del pubblico ministero quale unico titolare della relativa richiesta. Secondo il Giudice di Milano tale obiezione risulta facilmente superabile riflettendo sul fatto che gli artt. 53 e 54 nascono dalla necessità, avvertita dal legislatore delegato, di riconoscere al pubblico ministero un potere di iniziativa cautelare di carattere reale che poteva essere messo in dubbio dal potere di richiedere in via cautelare le misure interdittive, «non essendovi, invece, ragione di disciplinare l’iniziativa cautelare della parte civile stante il generale rinvio alle norme processuali vigenti» (16). In altre ordinanze, nell’escludere l’ammissibilità della costituzione di parte civile, si è sottolineato che l’ente potrebbe essere chiamato a rispondere come responsabile civile del fatto connesso al reato compiuto dal proprio organico (apicale o sottoposto) qualora vi siano i presupposti di legge (17). Tuttavia, l’art. 83, comma primo, c.p.p. prevede che possa essere citato come responsabile civile solo chi debba rispondere civilmente per il fatto dell’imputato: non può perciò essere citato come responsabile civile nel processo penale chi abbia un titolo diretto di responsabilità per i danni lamentati dalla parte civile, diverso da quello addebitato all’imputato avendo l’ente una responsabilità diretta nei confronti del danneggiato (18).

16(?) Trib. Milano, ord. 24.1.2008, in Corr. merito, 2008, 451 e in Guida al dir., 2008, 11, 76.

17(?) Trib. Milano, ord. 25.1.2005, in Società, 2005, 1441, con nota di S. BARTOLOMUCCI, Inammissibile la costituzione di parte civile dell'ente imputato ex d.lgs. n. 231/2001.

18(?) Trib. Milano, ord. 24.1.2008, in Corr. merito, 2008, 451.

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La presenza di tali orientamenti costituisce una buona base di partenza per l’ammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento che vede coinvolta l’impresa giornalistica, ma non vi è dubbio che sarebbe opportuno un espresso intervento del legislatore che chiarisse la possibilità di costituirsi parte civile nel procedimento a carico dell’ente.

La costituzione di parte civile nell’ambito di un procedimento contro un’impresa giornalistica presenta degli innegabili vantaggi rispetto alla costituzione nel processo a carico del direttore della pubblicazione e del giornalista autore dell’articolo. In quest’ultimo caso, infatti, le garanzie dal punto di vista patrimoniale sono senza dubbio minori: in seno al procedimento a carico dell’impresa giornalistica la parte civile avrà maggiori possibilità di trovare adeguate garanzie del soddisfacimento delle somme dovute a titolo di risarcimento delle varie voci di danno che saranno prospettabili e la tutela offerta dall’ordinamento in materia di delitti che offendono l’onore o comunque più in generale in materia di reati commessi dai giornalisti, ne uscirebbe ulteriormente rafforzata anche sul piano del risarcimento del danno.

4. Tutela dell’onore: un’alternativa alla sanzione penale.

Al termine della riflessione sin qui svolta è forse possibile guardare alla tutela penale dell’onore da un diverso punto di osservazione. L’evidente inefficacia di tale tutela sembra assumere contorni meno problematici se accanto allo strumento civilistico del risarcimento del danno si prova a collocare il sistema di responsabilità di cui al D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. I rimedi appena accennati potrebbero avere, nei fatti, una efficacia preventiva maggiore della sanzione penale. In particolare, le finalità

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Dalla responsabilità del direttore alla responsabilità dell’impresa giornalistica

offerte dal sistema sanzionatorio di cui al D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, dimostrano come il sistema della responsabilità degli enti collettivi assuma le fattezze di un vero e proprio sistema generale che si propone di perseguire obiettivi che coincidono con la prevenzione generale e speciale e nel nostro ordinamento non sembrano rinvenibili altri strumenti di controllo sociale che garantiscano una funzione specialpreventiva di tale portata. Si tratta di una prevenzione che affonda le sue radici nel tessuto della prassi organizzativa degli enti poiché le cause dei comportamenti illeciti di questi ultimi traggono origine proprio nel corpo dell’organizzazione aziendale: solo un sistema come quello offerto dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, può provare a sradicare le cause dei comportamenti illeciti in seno alle strutture complesse. L’adozione di meccanismi di autoregolazione da parte delle imprese finalizzati alla riduzione del rischio-reato può condurre verso un’apertura ad una “cultura della legalità” diretta a rafforzare l’impresa non solo da un punto di vista economico ma soprattutto nell’ottica dell’immagine che questa fornisce di sé.

Ricorrere a forme di tutela alternative alla sanzione penale non significa configurare «un’opzione politica favorevole alla stampa e ai giornalisti»: da un lato, l’illecito civile, essendo disciplinato da clausole generali e non soggetto alle regole di stretta legalità, fa si che il giudice possa muoversi «con maggiore libertà nell’individuazione della linea di demarcazione tra lecito ed illecito» (19), dall’altro, l’introduzione della responsabilità dell’impresa giornalistica ex D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, rappresenta un sistema che, stabilendo le funzioni dell’attività d’impresa, punta a colpire quelle che vengono meno al rispetto dell’interesse pubblico all’informazione anteponendo a questo i loro interessi economici.

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