IO NON TACERÒ

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Era un galantuomo, Antonino Caponnetto. Fatto all'apparenza di cartavelina, eppure sempre in prima linea nella lotta alla mafia. Nei suoi ultimi, intensi dieci anni, dall'uccisione dei suoi "figli, fratelli, amici", Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fino al 2002, il giudice Caponnetto ha smentito l'idea secondo cui vi sia un'età per andare in pensione dall'impegno civile. E ha attraversato il nostro Paese in maniera capillare e ragionata. In mille scuole e in cento piazze ha insegnato la Costituzione italiana, l'etica della responsabilità, ha parlato di educazione alla legalità, di solidarietà, di pace, di diritti, ha raccontato un'idea di informazione libera e di giustizia possibile

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Introduzione

Minima “chiave”

Esistono persone la cui vita è una fi nestra spalancata. Che tale rimane. È il “sempre” a cui possiamo tendere e di cui possiamo essere “cercatori” e parziali fi duciosi testimoni.

Se giustizia negata, sopraffazione, egoismo attraversano e incatenano la storia e le storie in una condizione mortifi cata e offesa, uomini e donne rare schiudono fessure, aprono squarci, e in essi intravedono e tracciano inedite, antiche direzioni. Prospettive libere e smisurate. Compongono anche in nostro nome un diverso, possibile racconto.

Il ricordo di ciò che è stato, segni, parole e azioni lasciati da costoro, ciò che il giudice Nino Caponnetto chiama “scrigni”, diventano incastri di un tempo condiviso, che non fi nisce.

Intento di questo libro è custodire “quella” fi nestra, a noi tanto cara e preziosa. Le altre, sono abbracci di uno stesso mare.

Scritti, rifl essioni, trascrizioni di interventi a convegni, di incontri nelle scuole o in altro luogo, interviste, articoli del Giudice sono testimonianza e interrogazione.

Attraverso e oltre la ragnatela sottesa dall’insofferenza che il “potere”, quello cieco, ottuso e arido, invariabilmente e ciclicamente, tesse a celebrazione e protezione di sé medesimo.

Per chi questa raccolta ha curato, il lavoro è stato un privilegio altissimo, come custodire, appunto, un tesoro.

Di quelli che non “appartengono”, ma intangibilmente “sono”.

Cornice

È ancora buio. E l’amarezza è tanta

«Riprendono, con la cadenza di sempre, i tentativi più o meno ambigui di mettere sotto controllo l’autonomia dell’ordine giudiziario e le campagne volte a mettere l’intero Paese contro la

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magistratura […]. Si moltiplicano i ritardi, le imprevidenze e le incurie. I disservizi e i danni passivi diventano intollerabili.

I giudici, sempre più demotivati, abbandonano la prima linea e, confi nati in un luogo periferico, diventano l’anello più debole della catena istituzionale, il bersaglio più facile e indifeso.

Una logica perversa sembra guidare l’atteggiamento politico nei confronti della magistratura. Con colpevoli omissioni si favoriscono tutte le diffi coltà e le tentazioni, per poi accusarla di ineffi cienza e di errori, si gioca al ribasso con la giustizia per renderla invisa ai cittadini, si costringono i magistrati, lasciandoli soli, a impegnarsi e a esporsi in prima persona nelle indagini più diffi cili e scottanti, per poi accusarli di protagonismo.

Viene da chiedersi se la classe politica non voglia liberarsi del controllore più scomodo, non solo ingabbiandone i poteri, ma soprattutto facendolo apparire all’opinione pubblica come il vero responsabile di ogni disservizio».

«...Ma dove sta la verità? È come una roccia situata in cima a un monte e l’uomo non ha ali per raggiungerla.

Egli non può che aprirsi la strada a fatica, su per le pareti, e spesso si smarrisce e spesso si insanguina le mani. Ciò che lo guida, ciò che lo conforta e lo sorregge, è la bellezza di quello che gli risplende da lontano».

Chi ha pensato, chi ha scritto queste parole? Di chi erano gli occhi che le hanno intraviste prima che su una pagina, incise negli eventi, nello specchio di ogni giorno, incontrovertibili?

Parole pesanti nella stanchezza, inquiete e determinate. Nella solitudine intermittente o continua di una vita “estrema”, perché conseguente. Segni sparsi come pulviscolo dorato. In un tramonto che fi nisce nella sera, una sera che si schiude in un chiarore. Affacciandosi. Cosa fuori? Che ora era?

Forse, un magistrato per sempre “ragazzino”, un uomo assorto, ironico, forte e indifeso, libero e saggio, raccontatore di storie dalle scarpe impolverate, o magari una donna, ostinata e risoluta, come ostinato e risoluto è il vento che spalanca le fi nestre e “profuma di libertà”?

Quando è stato “necessario” scriverle?

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Il rapporto politica /magistratura è chiaramente complesso.Non è una noce che si spacca a metà, una parte chiara e una scura.Esistono, sono esistiti, esisteranno uomini politici autorevolissimi,

con un’etica rigorosa e giudici grigi o disonesti e corrotti. Ma un’insofferenza del “potere” al controllo democratico, espresso anche dalla magistratura, in determinate fasi o come costante sottofondo, è innegabile.

L’“amarezza” nasce anche dalla consapevolezza dolorosa dell’assoluta attualità delle rifl essioni sopra trascritte. Da un eterno ritorno simile a un sortilegio. Dalla permanenza storico-temporale dei meccanismi, origine e causa di esso: culturali, di potere, economici, sociali, psicologici, relazionali. Una catena cifrata. Un’acqua stagnante dove il pensiero collettivo è “pallido”, informe la coscienza civile e gli eventi scivolano.

E allora se il giudice, il magistrato «tende» a essere «colui che cerca come dovendo trovare e trova come dovendo ancora cercare», nel rispetto dei princìpi più alti, è con uno stesso inchiostro ed è sopra una stessa carta che si scrivono i segni incancellabili di ciò «che risplende da lontano».

È una stessa memoria, testimonianza, convinzione e impegno che sostanzia e motiva sentieri e percorsi. Anche e soprattutto i sentieri interrotti, “dolenti come ferite”, parti intrecciate di un medesimo cammino. Una stessa voce, una stessa solitudine e fi erezza.

Che, per un tempo a noi dato, qualche volta si manifesta in un racconto troppo bello, spesso in un’esistenza troppo breve.

Contro il “buio”, ancora e ancora, lucente speranza, continuazione.E dono.

I brani di cui sopra sono tratti da Parole effi caci1 di Antonio Scopelliti, ucciso dalla mafi a il 9 agosto 1991.

«Avrebbe dovuto sostenere il ruolo della pubblica accusa, nel giudizio di legittimità sul primo e più importante dei maxiprocessi istruiti dal “pool” palermitano» − ricorda il giudice Caponnetto che, nella sua introduzione al testo, lo defi nisce «l’amico caduto».

1 Parole effi caci. Scritti e interventi pubblici di Antonio Scopelliti (a cura di Maria Pascuzzi), Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (cZ) 2002.

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Avevano in comune molte cose. Anche un libro particolarmente caro: le Confessioni di Sant’Agostino.

Nino. Ritratto

…E il ricordo di voi brilla come una festa(Marcel Proust)

Un ragazzino ritornava d’estate a Catania. E la vedeva bella.

Chissà che rumore avevano i suoi passi. Quali le attese. Quanto fu intensa, dilatata quella notte a Firenze quando,

pensando a una terra straziata, un magistrato “scelse di andare”.Quale il calore di un lavoro condiviso, impossibile e possibile, come scalare il cielo, ora dopo ora, esorcizzando la paura, giocando a dadi con la speranza.

Chissà che nome Nino Caponnetto dava alla stanchezza che cambiava di segno e si accendeva in fi ducia, ogni volta, incontrando il volto attento di un bambino, la partecipazione esigente di un ragazzo, la lucidità ancora innocente di un adulto.

Sta a noi misurare quanto l’ipocrisia di inutili, vacue, bugiarde parole, potesse essere poi, ai suoi occhi, offesa insopportabile e cancellazione. Quanto, come e verso dove, sempre presente sia il suo “camminare”.

Chi ha avuto l’occasione e il privilegio di incrociare lo sguardo di Nino Caponnetto, quello sguardo se lo ricorda. Di un’attenzione gentile al “vicino” e, al tempo stesso, radicato e proiettato nella distanza. Rifl esso di un Altrove nitidissimo, come di cristallo. Un particolare cristallo. Della materia indistruttibile e luminosa dei pensieri belli e giusti.

Nell’estate del 1992, Capaci e via D’Amelio sventrate dall’esplosivo, un secondo dopo quel «è tutto fi nito», che aveva, sul piano del sentire assoluto, più istintivo e profondo, il diritto di dire, traducendo in parole di chiara disperazione e mani tremanti, un dolore e un’angoscia collettiva, da subito, il Giudice assunse su di sé, come conseguenza di un giuramento prima silenzioso e poi

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condiviso, un pesantissimo e orgoglioso compito: continuare nella lotta alla mafi a, alla corruzione, all’ingiustizia e preservare intatta la memoria e i princìpi in essa incisi.

Con un amore grande e tenace ha tentato di proteggere i suoi fratelli e fi gli cari, e anche noi tutti, da ogni ulteriore sfregio e menzogna. Separando ciò che è stato da ciò che non è stato mai. E scommettendo nonostante tutto sugli uomini, le donne, i ragazzi e i bambini. Perché continuasse a vivere chi vivo non era più. Ricominciasse a esserlo, nel rispetto della verità, in maniera più alta e per sempre.

Falcone, Borsellino e, prima e dopo, rappresentanti delle istituzioni traditi dalle istituzioni, un Generale con gli occhi di ragazzo, magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti dalla voce ferma e dalla vita affannata, Rita Atria, semplici cittadini. Insieme, i “ribelli”, i partigiani.

La Costituzione italiana quindi. E, in essa e con essa, un’informazione libera, l’etica della responsabilità, l’educazione alla legalità, la solidarietà, la pace, i diritti. Parlandone con Dossetti e con un bambino.

Vigilissimo alla cornice del tempo presente, con la stessa attenzione e cura. «Tra i sassi o all’ombra di archi sospesi», scegliendo e trovando le parole. In mille scuole e cento piazze. In aule odorose di quaderni e di freddo, in strade impolverate e insanguinate, nel luogo più centrale e più remoto.

Il giudice Caponnetto, dal 1992 al 2002, nei suoi ultimi dieci anni, ha inteso attraversare in maniera capillare il nostro Paese. Per la prima volta una tale esperienza è stata così durevolmente e costantemente compiuta. Un lavoro continuo, in salita sempre. Itinerante permanente, per metodo e convinzione.

Il Giudice lo ha fatto concependo ogni possibile luogo come “il luogo”, esattissimo e giusto. Per raccontare, insegnare e ascoltare.

«Potremmo incontrarci in un giardino, in un magazzino, se hanno paura e ci negano la sala…». «Io ci sono andato comunque, per vedere se qualcuno veniva...». «Ti dò il mio numero di fax, è più sicuro…».

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Sono sue frasi. Simboliche e indicative di un pensiero e di un’azione autentica. Senza gabbie, cautele, sovrastrutture. Senza risparmio. Destrutturando per istinto e ragionamento le molteplici fi nzioni, le consuetudini formali e vuote che deformano l’esistenza. Velandola. Talvolta stravisandola, sempre rimpicciolendola.

Ignorando tatticismi e furbizie. Inchiodando, a ogni livello, manchevolezze e contraddizioni con

un pensiero rigoroso, impermeabile a qualsivoglia compromesso. Netto. Nessuna comoda prudenza. Piuttosto la necessità di essere e comunicare l’“essenziale”. In una tensione costante che niente ha a che fare con semplifi cazioni genericamente colpevolizzanti, ma moltissimo con una ricerca che è insieme presa di coscienza, scarto, imperativo e sfi da.

Così scarnifi cate e spesso accompagnate da corrispondenze “letterarie”, frutto e specchio di letture “necessarie”, rifl essioni e parole del Giudice, diversamente modulate, come un urto e come una carezza, diventano attento ascolto, proiezione di un pensiero alto. Tracciato da dolore e bellezza, nell’orgoglioso segno del ricordo incancellabile. Nel segno della memoria.

Che è sempre e necessariamente memoria del futuro, grembo, culla del tempo di là da venire.

Negli incontri, quando racconta, «parla ed è come se scrivesse»2. Ha questo dono, il Giudice. Una capacità comunicativa istintiva

e sostanziale. Come un vento benefi co e fecondo che si spande e in esso, in forma di parole, concetti che si incastrano, che cercano e tentano, di sé medesimi, una possibile ricerca di senso e direzione.

Il tormento, l’assenza dolente è, in maniera impercettibile, qualche volta, visibile nei gesti. Nell’espressione del volto, nelle mani contratte sui molti fogli, appunti, articoli di giornale, libri, che immancabilmente ha con sé.

Ma la voce è piana. In uno sforzo estremo di razionalizzazione, anche del dolore. Per tenerlo a bada. «Ne avevano decretato la morte e l’hanno eseguita» dice focalizzando una concatenazione logica. Come osservando un giardino devastato avvolto nelle ombre

2 Antonino Caponnetto, I miei giorni a Palermo. Storie di mafi a e di giusti-zia raccontate a Saverio Lodato, Garzanti, Milano 1992.

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lunghe di un giorno che fi nisce. Sempre interrogandosi sul perché della devastazione, e fi dando sul possibile attraversamento di ogni obliqua ombra, nel rischiararsi di ogni cupissima sera.

Una voce ragionante. A volte quasi un sussurro, a volte alta, accesa come la corsa di un bambino che prende fi ato e, dopo una sosta, ricomincia.

Suoi puntelli, spesso, come ricordato, sono pagine letterarie, fi losofi che. Poesie. Al Giudice piace leggerle, sottolinearle e conservarle. Versi e brani, scritti, cercati da mani che, anche così, oltre ogni possibile lacerazione e distanza, “malgrado tutto” si tengono strette. Come una rete.

L’idea di giustizia, a cui tende, è quella «fuori dal quadro»3. È la giustizia possibile, comunque presupposta, esistenzialmente imprescindibile, presentita da credenti e “non” credenti come valore assoluto, valido sempre e negoziabile mai. È lo «sdegno insaziato» 4 di fronte anche a una sola lacrima innocente. È guardare attraverso quella lacrima.

Nel vissuto individuale e collettivo la giustizia possibile è dignità e rispetto di se stessi e dell’altro, storicamente ricerca di un equilibrio meno scandalosamente prevaricante. Contro ogni apatia «scientemente promossa e diffusa»5. Resistendo a ogni forma di manipolazione, cinico scetticismo e pietrifi cazione.

La ricerca di essa, per defi nizione inconclusa, è anche inquietudine e affanno. È, per dirla con il cardinale Carlo Maria Martini: «...il Dio che si cerca e che si fa cercare. Colui che si rivela e insieme colui che si nasconde».

È «ciò che manca», presente anche nella sua negazione.Laici e cattolici, quindi, bambini e adulti, a qualunque latitudine,

in ogni e qualsiasi contesto e frammento spazio-temporale, ciascuno con le proprie parole silenziose o gridate, come esseri domandanti.

«Sai padre Alex, devo confi darti una cosa: non riesco più a pregare…» – si interroga in modo sofferto, il Giudice, negli ultimi

3 Carlo Maria Martini, Gustavo Zagrebelsky, La domanda di giustizia, Ei-naudi, Torino 2003.

4 F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano 1979.5 C. M. Martini, G. Zagrebelsky, Op. cit.

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anni. «La tua preghiera, Nino, l’hai recitata ogni giorno…» – risponde Zanotelli.

Senso e prospettiva si acquietavano nell’inclinazione di un sorriso, si sostanziavano in un gesto impaziente e fermo, nel cammino.

Daccapo. Che ancora era continuazione e inizio.E guardava te e qualcosa di distinto e di distante e caro, nel

passato e nel futuro insieme. Pensieri belli e giusti, un possibile cielo terso per compagno, la

loro costruzione. Nei Suoi passi, nel Suo sguardo.

Maria Grimaldi

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