Introduzione: imparare dentro un gioco - icverdello.gov.it · analizza le strategie dei consumatori...

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Dispense del Laboratorio pratico di scrittura collettiva per la scuola (Dalmine, 20-21 giugno 2018) a cura di Beniamino Sidoti ([email protected]) Cosa c’è in queste dispense? I giochi che abbiamo fatto insieme e un testo che richiama i contenuti teorici. Lo scopo è quello di suggerire come proseguire l’esperienza fatta insieme, e lasciarvi una traccia precisa. Cosa manca? Anzitutto l’esperienza, ma spero ne serbiate un buon ricordo. Mancano ulteriori considerazioni teoriche, che sono sparse altrove (in rete ne trovate). Manca la bibliografia: se avete bisogno di qualcosa, scrivetemi. Mi pare più pratico, e credo che poche pagine, operative, mettano più facilmente addosso voglia di fare: e questo era quello che volevo.

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Dispense del

Laboratorio pratico di scrittura collettiva per la scuola

(Dalmine, 20-21 giugno 2018)

a cura di Beniamino Sidoti ([email protected])

Cosa c’è in queste dispense? I giochi che abbiamo fatto insieme e un testo che richiama i contenuti teorici. Lo scopo è quello di suggerire come proseguire l’esperienza fatta insieme, e lasciarvi una traccia precisa. Cosa manca? Anzitutto l’esperienza, ma spero ne serbiate un buon ricordo. Mancano ulteriori considerazioni teoriche, che sono sparse altrove (in rete ne trovate). Manca la bibliografia: se avete bisogno di qualcosa, scrivetemi. Mi pare più pratico, e credo che poche pagine, operative, mettano più facilmente addosso voglia di fare: e questo era quello che volevo.

La premessa teorica Da Eccetera (edizioni la meridiana, 2013)

Per me gioco e scrittura sono sempre stati naturalmente vicini: come la musica e il ballo, per dire. Poi, crescendo, mi sono accorto che questa vicinanza non era così banale: era naturale per molta gente, come i giocatori di ruolo. Ma non era banale. Il gioco, in particolare il gioco di ruolo, fa parte di un grande movimento che sta cambiando lentamente il modo di produrre e di fruire letteratura: sta cambiando il modo in cui leggiamo e scriviamo, facendole diventare sempre più due cose intrecciate, legate, due movimenti della stessa danza. Lo scopre chi analizza le strategie dei consumatori di media, come ha teorizzato Michel de Certeau ne L’invenzione del quotidiano (Edizioni Lavoro) e poi ha fatto per esempio Henry Jenkins in un bel libro chiamato Textual poachers (Routledge).

La scrittura collettiva mette silenziosamente in crisi molti dei miti che riguardano la scrittura. La scrittura collettiva è una modalità di produzione sempre più diffusa, assolutamente naturale, e per questo in grado di contrastare alcune idee scontate e sbagliate che abbiamo dello scrivere.

Per esempio, la solitudine dello scrittore; per esempio che si scriva anzitutto per se stessi; per esempio che la scrittura sia sofferenza.

Questi miti sono legati a un’idea romantica dello scrittore, che a sua volta deriva da un mondo molto diverso da quello attuale. Gli ultimi anni di progresso tecnologico hanno offerto e imposto nuovi modi di lavorare, nuove tecnologie, nuove idee dell’individuo e dell’intelligenza. Scrivere insieme ad altri è un fatto naturale, oggi: almeno quanto lo è scrivere su una tastiera. Lo scrittore è ancora, se lo vuole, solo, sofferente, e rivolto essenzialmente a se stesso; più spesso però si scrive, scriviamo, in tanti, mettendo insieme piccoli frammenti in affreschi collettivi, collaborando, giocando, lavorando a progetti a firma multipla. Ci sono tanti modi di portare avanti una scrittura collettiva: perché la scrittura è un processo complesso in cui si può intervenire in maniera diversa in fasi diverse. Gli psicologi della scrittura (di Bereiter eScardamalia, per chi cerca i riferimenti bibliografici, è stato tradotto qualche anno fa dalla Nuova Italia un libro molto esauriente) parlano di quattro fasi salienti: la ricerca delle idee, la pianificazione, la stesura, la revisione.

A grandi linee, e giusto per capire di cosa stiamo parlando, quando vogliamo scrivere qualcosa cerchiamo anzitutto informazioni sul nostro soggetto, poi buttiamo giù una bozza di scaletta, quindi scriviamo e poi rileggiamo il testo. Certe fasi possono rimanere implicite (per esempio, colto da ispirazione, so già cosa voglio scrivere, e non ho bisogno di cercare nuove idee; oppure non riguardo il testo e premo il tasto invia); più spesso, certe fasi possono essere iterate (mentre scrivevo il primo paragrafo mi sono reso conto che non mi ricordavo il titolo del libro di Jenkins, ho quindi spulciato nei miei appunti, ritornando indietro alla fase di ricerca, e poi ho ripreso la stesura). Ognuna di queste fasi può essere collettivizzata: vale a dire, può essere fatta in più di uno. Per esempio questa introduzione è stata scritta la prima volta come articolo per un prezioso sito che si occupa di scrittura e gioco, rill.it: il redattore, Alberto Panicucci, lo ha riletto e mi ha segnalato alcune cose. Poi, dalla rete, come capita, sono arrivati altri stimoli che ho accolto o ho ignorato. In qualche modo, e per fortuna, questo scritto è diventato un’opera anche collettiva: abbiamo condiviso la revisione del testo. Provo a dare qualche altro esempio.

Una delle pratiche più comuni che ho incontrato riguarda la collettivizzazione della prima fase, quella di ricerca delle idee. L’esempio più diffuso è quello del brainstorming: prima di scrivere qualsiasi cosa ci si mette intorno a un tavolo, un telefono o un computer connesso a internet e se ne parla, scambiandosi idee e prendendo appunti. Poi si mettono insieme gli appunti di tutti e qualcuno prova a cavarci il capo. Un lavoro simile fa un qualsiasi editore quando pianifica un’opera collettiva: per esempio i RiLLini (cioè i suddetti animatori del sito rill.it) avevano deciso di dedicare una serie di articoli alla scrittura e avevano chiesto aiuto, gentilmente obbligando amici e colleghi a scrivere dei contributi. In questo caso è stata la pianificazione a diventare collettiva: si è deciso quali fossero gli

argomenti da trattare insieme ai singoli e si sono distribuiti. Una volta fatta insieme la scaletta, ognuno ha fatto il proprio percorso personale, in modo da avere contemporaneamente tante opere individuali e un unico testo collettivo. La stesura diventa collettiva quando decidiamo di scrivere un’opera a staffetta: io ne scrivo un pezzo, poi qualcuno continua. O quando partecipiamo a un forum: l’insieme dei contributi dà un’opera collettiva di cui, a ben vedere, non si sono condivise pianificazione, revisione o ricerca delle idee. Infine, posso condividere la revisione chiedendo a qualcuno di aiutarmi a correggere eventuali errori e a migliorare il mio testo: è la tecnologia dell’open source.

I giochi di narrazione sono a loro volta spesso delle scritture collettive: i cadaveri squisiti (le carte piegate, quel gioco dove ognuno scrive qualcosa su un foglio ignorando cosa hanno scritto gli altri, seguendo una regola comune, per poi leggere dei non sensi divertenti) sono un esempio di gioco di narrazione in cui c’è una pianificazione comune (la regola) che poi viene svolta raccogliendo i pezzi in modo casuale. La maggior parte dei giochi di narrazione condivide le fasi di stesura e di ricerca delle idee, mentre la pianificazione e la revisione sono poco affrontate: in fin dei conti, è abbastanza naturale che siano trascurate, in quanto fasi tipiche della cultura scritta, difficili cioè da ritrovarsi in una produzione orale; e poiché la maggior parte dei giochi di narrazione viene praticata ad alta voce, è facile che si condivida anzitutto la stesura, cioè l’aspetto più “performativo” della narrazione, come nei giochi di ruolo. Non è un limite: è la scoperta di terre ancora inesplorate.

Il gioco di narrazione, quando si intreccia con la scrittura, offre nuove, insperate, risorse: perché il gioco è di sua natura un fatto collettivo, che si fa attraverso l’interazione fra pensieri e obiettivi diversi.

Inoltre il gioco offre una sua matrice di regole che consentono esperimenti molto puntuali sui modi di scrivere insieme. Giocando, infatti, possiamo scoprire che ci sono tanti modi di condividere una certa fase del processo di scrittura, e che ognuno di questi può produrre infinite forme di scrittura. La letteratura interattiva, infatti, trova nel gioco il suo ambiente naturale: perché il gioco può insegnare un’infinità doppia di modi di creare testi insieme. Inoltre, è più facile inventare un nuovo gioco che imporre un nuovo esperimento di scrittura; i giochi stanno cambiando rapidamente, con il cambiamento di una società che pone sempre maggiore attenzione a diverse forme di scrittura, a modi diffusi di condivisione del sapere.

Il gioco, insomma, è il luogo dove si esprimono le più interessanti potenzialità dei soggetti collettivi.

Ed ecco i soggetti collettivi: credo che la scrittura collettiva (e certi giochi, più in generale) sia uno strumento eccezionale per la creazione di soggettività. Di solito, ci dicono, uno scrittore dà vita nella scrittura alle sue ossessioni personali: l’autore preesiste al testo – con la scrittura collettiva questo paradigma si rovescia, ed è il testo a dar vita all’autore. Fare un testo collettivo significa farsi soggetto – farsi l’autore di quella scrittura e il soggetto di quell’enunciazione, e questo è un passaggio fondamentale per molti versi.

Quindi: quelli che ho raccolto qui sono solo giochi: ma nel loro essere solo giochi permettono di divertirsi e di fare scoperte interessanti, di esplorare nuovi campi e nuove possibilità.

Larga è la foglia, stretta è la via. Dite la vostra che ho detto la mia.

Ritratto collettivo

Chi: Da dieci a trenta persone, dai dodici anni in su

Cosa: Costruire un ritratto di riferimento rispondendo a domande individuali

Dove: In uno spazio tranquillo, con possibilità di scrivere

Quando: Mezz’ora circa, compresa la lettura del testo finale; può anche essere un buon rompighiaccio

Perché: Per conoscersi, per riconoscere sotto le differenze le affinità di gruppo, per fare emergere spunti di discussione

Istruzioni per l’uso:

Le descrizioni di soggetti collettivi sono di solito deludenti; vi troviamo quello che, in media, siamo: quanto siamo ricchi, chi abbiamo votato, cosa pensiamo di un dato argomento. In questo caso si fa la stessa domanda a tutti, si pesano le risposte, e si dà per buona la risposta più ricorrente. È un metodo come un altro, ma di solito, quando ci si lavora all’interno di un gruppo, favorisce l’insoddisfazione e il distacco della minoranza che non si sente rappresentata.

Il ritratto collettivo è un gioco che fa l’esatto contrario: anziché fare la stessa domanda a tutti, fa a ciascuno una domanda diversa, sfruttando un grumo di coerenza tra domande che renda le risposte leggibili e interessanti. Lo ritengo particolarmente utile per discutere e introdurre argomenti di discussione. Ecco come funziona:

• Il conduttore distribuisce casualmente dei cartellini che riportano le domande seguenti (una per cartellino; i cartellini sono forati in un angolo). Le domande sono fra loro diverse ma legate da un filo comune che permetta di ricostruire un’identità collettiva comune a persone diverse.

• Ognuno dovrà rispondere alla propria domanda in modo personale, cioè scrivendo quello che pensa, e non cercando di interpretare il pensiero comune. Si risponde scrivendo dietro il cartellino, cioè in uno spazio limitato – il gioco chiede risposte brevi.

• Via via che i cartellini vengono riempiti, vanno riconsegnati al conduttore. Volendo, si può dare un secondo cartellino a chi ha risposto velocemente al primo, quindi un terzo e così via.

• Quando tutti i cartellini sono stati riempiti con delle risposte, il conduttore li leggerà ad alta voce, seguendo (più o meno) l’ordine suggerito.

Per rendere visivamente l’idea di un ritratto collettivo, si possono legare fra loro i cartellini dopo che sono stati letti, infilandoli su un filo (il filo conduttore) per il foro, e quindi appendendoli in un angolo.

Ecco di seguito un esempio di domande, in ordine pressoché sparso:

Che nome ti piacerebbe avere?; Come ti chiamavano da piccolo/a?; Di che segno vorresti essere?; Quali sono i tuoi dolci preferiti?; Scrivi tre giochi che ti piacciono; Come ti piacerebbe che ti venisse proposto un

invito a cena?; Scrivi cinque buone scuse per rifiutare un invito a cena; Scrivi tre cose che tu “qualche volta anche sei, ma poi…”; Scrivi tre cose che “purtroppo, non sei”; Una persona fantasiosa, di cosa dovrebbe parlare con te? (cinque argomenti); Trova cinque buone scuse per rimandare un appuntamento dal dentista; Scrivi tre cose che non vuoi; Scrivi cinque cose che ti piacciono esageratamente; Scrivi cinque qualità che ti rendono speciale; Come passi un’ora tutta per te?; Sogni nel cassetto?; Scrivi (almeno) tre cose che ti piacerebbe inventare; Cosa volevi fare da grande?; Che giochi ti piacciono?; Come vorresti che fosse; un giardino ideale?; Se qualcuno volesse cantarti una serenata, quale sarebbe il momento migliore?; Scrivi tre cose che ti emozionano; Se tu dovessi abitare nella città del sogno, vicino al museo del soprappensiero, che indirizzo avresti?; Hai piantato un albero speciale: che frutti vorresti che desse?; Che nome daresti a un giardino dove fioriscono le amicizie?; Scrivi tre cose che succedono in una notte buia e tempestosa; Scrivi tre cose che succedono intorno a un braciere; Trova cinque buone scuse per saltare un giorno di scuola; Cosa ti aspetti dal tuo lavoro?; Scrivi tre parole che non sopporti; Scrivi tre giochi che sono permessi nel tuo condominio; Trova tre verbi per descrivere le azioni di una scuola ideale; Ti ricordi il tuo primo giorno di scuola? Com’era?; Trova tre verbi per descrivere le azioni di una scuola reale; Ti piace questo gioco?; Da chi hai imparato di più?; C’è un libro che ti ha insegnato qualcosa? Cosa?; Cosa hai imparato dai giochi? ; Descriviti con i nomi di tre giochi; Dillo con i fiori: “giochiamo!” Che fiori useresti?; Quanto a lungo riesci ad ascoltare una persona? ; Da adolescente, hai mai pensato di essere speciale?; Chi ti sarebbe piaciuto avere come nonni?; Consigliaci un libro; Perché sei qui? Voglio dire, perché segui questo corso?; Cosa ti piace di più nella formazione? ; Cosa ti piace di meno nella formazione? ; Dicci ciao in un’altra lingua!

Le domande del ritratto vanno adattate al gruppo e soprattutto agli obiettivi: io tendo a tenere tre blocchi di domande, uno di curiosità personali (che ci consentono di visualizzare il personaggio e di renderlo credibile, anziché cercare l’autore della singola risposta), un secondo blocco che parla delle storie e del nostro approccio (in maniera implicita e leggera, coinvolgendo bugie, scuse e passioni), un terzo blocco che affronta in modo più circoscritto il tema intorno a cui si è formato il gruppo, quello su cui penso il ritratto possa servire anche a riflettere. Ecco per confronto un secondo gruppo di domande, costruito per un incontro sulla scrittura territoriale a Pescara nel 2011. Lo riporto integralmente, anche per sentire come cambiano di tono e di portata alcune domande calate in un contesto diverso.

Che nome ti piacerebbe avere?; Come ti chiamavano da piccola?; Scrivi cinque buone scuse per rifiutare un invito a cena; Di che segno vorresti essere?; Quali sono i tuoi dolci preferiti?; Scrivi tre giochi che ti piacciono; Come ti piacerebbe che ti venisse proposto un invito a cena?; Scrivi tre cose che tu “qualche volta anche sei, ma poi…”; Scrivi tre cose che “purtroppo, non sei”; Un uomo fantasioso, di cosa dovrebbe parlare con te? (cinque argomenti); Trova cinque buone scuse per rimandare un appuntamento dal dentista; Scrivi tre cose che non vuoi; Scrivi cinque cose che ti piacciono esageratamente; Scrivi cinque qualità che ti rendono speciale; Come passi un’ora tutta per te?; Sogni nel cassetto?; Scrivi (almeno) tre cose che ti piacerebbe inventare; Cosa volevi fare da grande?; Cosa fai stasera?; Come vorresti che fosse il tuo vicino ideale?; Se qualcuno volesse cantarti una serenata, quale sarebbe il momento migliore?; Scrivi tre cose che ti emozionano; Se tu dovessi abitare nella città del sogno, vicino al museo del soprappensiero, che indirizzo avresti?; C’è un vicino con cui ti sei identificata? Quale?; A cosa pensi che serva un buon cittadino?; Perché sei qui? Voglio dire, perché segui questo laboratorio?; Scrivi tre cose che succedono in una notte buia e tempestosa; Da dove vengono le idee?; Trova cinque buone scuse per saltare un giorno di scuola; Da chi hai imparato di più?; Cosa ti piace fare più di tutto nel tuo lavoro?; Cosa ti fa soffrire di più nel tuo lavoro?; A cosa servono le storie?; Ti ricordi la tua prima casa? Com’era?; Negli anni hai cambiato molto il tuo modo di lavorare?; Come scegli un mobile?; Che storie ti piace raccontare?; Ti piace questo gioco?; Scrivi tre cose che ti danno fastidio dei tuoi vicini; A cosa servono le storie?; Il tuo mezzo di trasporto preferito?; Da cosa giudichi la qualità di un posto dove vivere?; Dove vorresti vivere?; Qual è l’ultima cosa che hai comprato per la casa?; Hai un attimo per te. Dove lo trascorri?; C’è un albero fantastico. Che frutti produce?; Qual è il tuo primo ricordo del posto dove ora vivi?; Come ti piace visitare un posto che non conosci?; Pianta un cartello inventato da te: cosa proibisce? cosa impone?; Dove sei nata?; Da quanto tempo vivi qui?; Quanti siete in casa

vostra?; Cosa hai fatto ieri?; Cosa hai mangiato per cena ieri sera?; Qual è l’ultimo viaggio che hai fatto?; La prima canzone che ti viene in mente?; Quanto ci hai messo per arrivare qui, oggi?; Uscita da qui, trovi un taxi. Dove gli dici di andare?; Come vorresti fosse il tuo cortile ideale?; Cosa nasconderesti sotto un tappeto di foglie?; C’è un posto buono per nasconderti, vicino a casa tua?; C’è un posto buono per farsi vedere da tutti, vicino a casa tua?

Ed ecco il ritratto di Pescara: di nuovo, lo riporto per intero, in modo che si possa cogliere anche come leggendo le varie risposte non ci si limiti a uno scrutinio dei voti, ma si debba cercare di restituire un personaggio, con tutte le sue incoerenze.

Mi chiamo Anna, è il mio nome e lo era anche da piccola, e mi piace il mio segno zodiacale, lo terrei anche se potessi

scegliere; sono nata a Cantalupo nel Sannio (Is), un piccolo paese del Molise; i miei dolci preferiti sono esclusivamente al cioccolato, in alternativa millefoglie. Mi piacciono esageratamente la mia famiglia, i miei alunni, leggere, guardare film, il mare d’inverno. Qualche volta sono pigra, attrice, figlia, ma poi… purtroppo non sono coerente, estroversa, e non porto a termine tutto.

Cinque qualità che mi rendono speciale: sono sincera, altruista, simpatica, buona e intelligente. Cinque buone scuse per rimandare un appuntamento dal dentista: la tosse, una riunione a scuola, la macchina rotta,

bambini da andare a riprendere, ho dimenticato l’appuntamento. Se ho un’ora tutta per me la passo in palestra; se ho un attimo, sul letto. Tre giochi che mi piacciono: nascondino, Monopoli e i castelli di sabbia. Tre cose che non voglio: il buio, il rumore, l’aglio.

Tre cose che mi emozionano: la primavera, i bambini, il gelato. Ieri, ho preparato. Se qualcuno volesse cantarmi una serenata, il momento migliore sarebbe sicuramente la mattina al risveglio! La prima

canzone che mi viene in mente: Acqua azzurra, acqua chiara. Stasera faccio la mamma Cinque buone scuse per saltare un giorno di scuola: non ne ho voglia, tanto non serve a niente, ho di meglio da fare, tanto

vale restare a dormire, e non ne posso più dei soliti rituali. Un uomo fantasioso con me dovrebbe parlare di cucina, di sogni, di volo in parapendio, di viaggi, di libri. Tre cose che succedono in una notte buia e tempestosa: si sentono rumori strani, si ricorda l’infanzia, si fa l’amore. Sogni nel cassetto? Ovviamente sì e tanti che conducono sempre ad uno. Da grande volevo fare l’ingegnere elettronico. Da dove vengono le idee? Dalla nostra mente… impregnata di altre menti Un invito a cena dovrebbe essermi proposto con un fiore. Se dovessi invece rifiutarlo cinque buone scuse sarebbero: è brutto,

non fa sorridere, non ho voglia, sono stanca, ho un impegno. Non ho ancora iniziato a lavorare… non ho un lavoro fisso, il mio lavoro è studiare, fare il tirocinio e preparare la tesi…

mi piace tantissimo e non c’è niente che mi fa soffrire. La cosa che mi piace di più del mio lavoro è stare con i bambini. Da chi ho imparato di più? Dalla mia famiglia Vorrei vivere in campagna. La mia prima casa era molto grande, con tante stanze. Il primo ricordo che ho della casa dove

vivo sono tanti bambini che giocavano nel parco vicino casa… Vivo qui da quando sono nata, e ci ho messo tre minuti per arrivare alla libreria. In casa mia al paese siamo in cinque.

Qui a Pescara siamo tanti perché ogni giorno vengono tanti miei amici, oltre ai vicini. La qualità di un posto in cui vivere la giudico dalla gestione dell’immondizia. Tre cose che mi danno fastidio dei miei vicini sono la curiosità, l’invadenza e il non aiuto. Il mio vicino ideale è curioso, ma

ottimista e generoso. C’è un vicino con cui mi sono identificata? No, nessuno. Un buon cittadino serve a vivere bene insieme. L’ultima cosa che ho comprato per la casa è il detersivo. Per cena ho mangiato mozzarella e insalata… Un mobile lo scelgo, se è inusuale, per la funzionalità. Un posto che non conosco, mi piace visitarlo camminando. L’ultimo viaggio che ho fatto, credo, era a Roma: è passato molto

tempo. Se dovessi abitare nella città del sogno, vicino al museo del soprappensiero, vivrei in Via della fantasia. C’è un albero

fantastico, come frutti, produce arcobaleni.

Il mio cortile ideale lo vorrei colorato, con panchine, giochi, con spazio per tanti. Se dovessi piantare un cartello inventato da me, direbbe: Non buttare carte per terra. Raccogliere le carte per terra. Il posto buono per farsi vedere da tutti, vicino a casa mia, è Piazza Salotto. No, non c’è un posto buono per nascondersi.

Sotto un tappeto di foglie, nasconderei i rami. Se trovassi un taxi, uscendo da qui, gli chiederei di andare a casa, facendo il tragitto più lungo possibile. L’automobile è il

mio mezzo di trasporto preferito. Tre cose che mi piacerebbe inventare: il raggio laser distruggi malattie, il convertitore cervelli per cervelli usciti male, il

riappacificatore istantaneo per dirimere tutte le controversie Perché sono qui? Per imparare. A cosa servono le storie? A respirare, a conoscersi. Mi piace raccontare storie di avventura Mi piace giocare… Mi piace questo gioco!!

Dopo aver letto tutto il ritratto viene di solito voglia di commentarlo: fino a questo momento lo abbiamo ascoltato come se fosse un personaggio vero, e ritengo giusto mantenere questa finzione. Parleremo quindi di questo personaggio, e non di chi ha scritto le singole risposte: nel caso appena fatto, parleremo di Anna, e delle sue passioni e delle sue incoerenze (dimenticandoci che sono la naturale conseguenza di aver risposto a caso a domande scritte su foglietti, mischiandole!); la discussione è di solito più leggera e naturale se stiamo parlando non di opinioni specifiche e quindi di individui, ma di un soggetto collettivo che un po’ tutti ci rappresenta. Questa qualità sottile, cioè di affrontare argomenti caldi in maniera diversa dal brainstorming, rende il ritratto collettivo un gioco adatto a essere inserito in un percorso di accoglienza.

Note

Ho notato che alcuni giocatori tendono a cercare degli spunti per orientarsi attraverso le domande, cioè, mentre giocano, cercare di capire come è fatto il gioco. Questo non è necessariamente un fatto negativo, ma è importante giocarci sopra. Io personalmente ho imparato due piccoli trucchi: il primo è di non numerare le domande, ma di lasciarle prive di indizi utili a riordinarle – infatti l’ordine finale posso variarlo anche in base alle risposte, affiancando due risposte che mi paiono adatte a star vicine in un modo cui non avevo inizialmente pensato; il secondo trucco è di utilizzare dei cartoncini colorati per stamparvi sopra le domande, usando colori diversi che però non coincidono con il tipo di domande – i giocatori possono così chiedere una domanda “verde” o “rossa”, il che non significa niente, ma rende il tutto più giocoso.

Vale la pena esplicitarlo: il gioco non funziona solo con le domande che ho qui proposto; anzi, invito tutti a farsi delle domande, cioè a crearsele e provarle.

A proposito di adattamenti, il gioco funziona anche come creazione collettiva di personaggio; le domande possono essere orientate e a quel punto è più divertente e istruttivo, crearle insieme al gruppo.

Ho inizialmente ideato il ritratto collettivo per i corsi di formazione Giunti a partire da uno spunto contenuto nel Ricettario di scrittura creativa di Brugnolo-Mozzi (Zanichelli, 1999). La scheda è ripresa da Eccetera (edizioni la meridiana, 2013).

Riordinare il cerchio Chi: almeno sei giocatori sopra i sei anni Cosa: ordinare delle persone secondo criteri diversi, stando in cerchio Dove: ovunque, purché si possa stare in piedi e muoversi comodamente Quando: è un rompighiaccio, ma anche un gioco di accoglienza. Aiuta a sgranchirsi le gambe ma anche a conoscere gli altri giocatori. In sé ha una durata compresa fra i dieci e i trenta minuti Perché: per mostrare diverse classificazioni del gruppo di giocatori, per imparare i nomi del gruppo, per favorire un clima di collaborazione Istruzioni per l’uso

• Mettiamoci in cerchio in piedi, come capita

• Quindi, senza parlare, mettiamoci in ordine alfabetico per nome (è importante che nessuno faccia domande).

• Quando tutti si sono sistemati, facciamo un giro di verifica: ognuno dice il suo nome ad alta voce.

• Alla fine del giro di verifica, se qualcuno è fuori posto può cercare il posto giusto, sempre senza parlare. Si fa un secondo giro di verifica

• E’ utile mischiare il cerchio più volte, seguendo altri ordini: segno zodiacale, giorno del compleanno, numero di scarpe, libro preferito, animale preferito, nome della mamma, parente più distante…

Per continuare Il gioco può proseguire con una qualsiasi attività che preveda l’uso del cerchio. Ma può prendere anche la direzione dell’attività fisica: semplici attività di coordinamento possono prevedere la ripetizione di un gesto o di un suono fatto da chi sta al centro, o la circolazione intorno al cerchio di un gesto o espressione (come nel passaparola, ognuno “passa” al suo compagno di sinistra l’espressione o il gesto che riceve da destra), o di una parola (come nel “telegrafo senza fili”). Tenendosi per mano si genera maggiore intimità e si può per esempio provare il gioco della “scossa”, che prevede la trasmissione di un impulso intorno al cerchio: ogni giocatore può dare origine, quando vuole, a una “scossa” da trasmettere al compagno di destra o di sinistra, semplicemente stringendogli la mano; quando, a sua volta, riceve una scossa, deve trasmetterla con l’altra mano. Il gioco prosegue finché qualcuno non ha contato un numero prefissato di scosse. Note per la discussione A volte non è facile creare un buon cerchio: una situazione in cui tutti stanno attenti a quello che succede al centro e ai bordi, in cui la comunicazione circola senza trovare ostacoli. Può essere utile rimescolarsi un po’, prima di cominciare un’attività basata sul cerchio. E’ molto importante cercare di non parlare: solo nel silenzio, infatti, si impara ad ascoltare e osservare meglio gli altri: a creare quindi le condizioni migliori per una comunicazione ecologica.

C'ero anch'io Chi: almeno sei giocatori dai sette anni in su Cosa: inventare storie all’impronta in un clima collaborativo; raccontare storie realmente accadute Dove: in cerchio, in un ambiente in cui si possa stare comodamente seduti o in piedi Quando: il gioco ha bisogno di un po’ di riscaldamento, e viene meglio se ripetuto un paio di volte; un giro dura dai dieci ai venti minuti Perché: per fare del racconto un’occasione comune, per vedere come si possono moltiplicare i punti di vista. Istruzioni per l’uso Riprendiamo questo gioco cooperativo da Sigrid Loos: è un bel metodo per inventare storie collettive.

• Mettiamoci seduti in cerchio, il conduttore in piedi al centro è “il narratore”

• Il narratore inizia a raccontare una storia nota o improvvisata

• In qualsiasi momento ogni ascoltatore può fermare il racconto dicendo: «C'ero anch'io»; il narratore gli dice allora: «E cosa hai visto amico?», e l'ascoltatore aggiunge qualche particolare

• Quando l'ascoltatore ha concluso il suo intervento tutto il gruppo conclude con un grande «aha!». Il narratore allora riprende dove l'altro si è fermato

• Quando il meccanismo del gioco è chiaro, si può cedere il posto di narratore a un volontario dotato di parlantina

Per continuare La storia può essere raccolta e trascritta per successive attività. Quando si è capito bene come funziona il gioco, si può anche utilizzare per affrontare discussioni su cose realmente avvenute: in questo caso diventa un efficace gioco di dopogioco. Si fa andare al centro un volontario che racconta cosa ha visto del gioco, mentre gli altri possono intervenire per precisare, confermare, aggiungere dettagli. Note per la discussione Le storie raccontate insieme hanno evidentemente bisogno di una base di collaborazione e di dinamiche cooperative: chi racconta ha bisogno del sostegno degli altri. Se però il sostegno è tacito (cioè nessuno interviene) diventa più difficile raccontare: è utile avere anche qualche “provocatore” che faccia precisazioni interessanti, che dica di aver visto qualcosa di bizzarro che faccia andare avanti la storia. Questo tipo di “provocazione” è di tipo competitivo; in effetti la narrazione ha bisogno di un equilibrio fra competizione e collaborazione, che non faccia afflosciare l’invenzione ma che non vada troppo oltre nel delirio (troppe provocazioni uccidono la continuità della narrazione). Ogni processo creativo (e ogni gioco) ha bisogno di qualcuno che vada oltre, che aggiunga punti imprevisti, così come di un buon terreno di collaborazione. Riprendo la scheda da Giochi con le storie (edizioni la meridiana, 2001).

Riprendere una storia

Chi: almeno 10 bambini o ragazzi da 7 anni in su

Cosa: ricostruire collettivamente una storia letta, inventata o vissuta insieme

Dove: in classe o in un posto in cui si possa scrivere comodamente – serve una parete o una finestra libera su cui lavorare

Quando: meno di un’ora, verso la conclusione di un percorso

Perché: per avere una visione dinamica della storia, funzionale alla narrazione e non solo al gioco

Istruzioni per l’uso

Molti dei giochi qui raccolti, e in generale dei giochi di invenzione di storie, sono giochi orali, che non lasciano una traccia scritta. Personalmente, sconsiglio l’uso di un registratore per “tenere traccia” della storia. Meglio invece provare a ricostruirla insieme, a partire da quello che ci ricordiamo. Io adotto un metodo mutuato da Mario Lodi.

• Lasciamo passare un po’ di tempo dal momento in cui abbiamo inventato la storia (a volte ho provato anche dopo due settimane o un mese, ma un giorno è sufficiente)

• Distribuiamo dei post-it o altri analoghi foglietti; ognuno scrive su un foglietto una scena che si ricorda della storia inventata insieme. Che cosa è una scena? È un frammento della storia dove succede una cosa precisa: niente di più e niente di meno.

• Chi si ricorda più scene usa più foglietti; la descrizione può anche essere molto semplice e sintetica: non ci sono limiti precisi se non quelli fisici del foglietto, su cui più di tanto non si riesce a scrivere!

• Raccogliamo tutti i foglietti, mischiandoli un pochetto.

• Attacchiamo i foglietti a una parete (o a un cartellone), in modo da riportare da sinistra a destra l’ordine cronologico della narrazione, attaccando le diverse scene in successione. Potremo lasciare via via degli spazi vuoti per scene che ci ricordiamo mancare, così come potremo spostare dei blocchi di foglietti per fare posto a una scena.

• Le diverse descrizioni di una scena le riportiamo invece in verticale, sulla stessa colonna.

• Se mettendo i foglietti compare una scena che nessuno si ricorda, o che i più mettono in dubbio, possiamo sospendere un attimo e votare – più facile che la scena sia descritta da qualcuno in maniera diversa: affronteremo dopo questo punto del percorso.

• Da sinistra a destra ora possiamo leggere la storia, dall’alto al basso le varianti di una scena. Una volta che abbiamo attaccato tutti i foglietti, leggiamo quanto raccolto, correggendo ora eventuali sbagli (affidandoci alla memoria dei partecipanti, ancora una volta), e offrendo a chi lo desidera la possibilità di aggiungere scene mancanti (se si vuole – ma non è affatto indispensabile).

• Scegliamo ora, colonna per colonna, la descrizione migliore della scena, se ce n’è una; oppure ricostruiamola collazionando diversi foglietti.

A questo punto abbiamo ricostruito la nostra storia in maniera puntuale (ma incompleta: poco male, si vede che quello che nessuno si ricordava non era così importante!), con in più il vantaggio di averla già suddivisa in scene. Ogni scena potrà quindi essere affidata a un gruppo o singolo perché venga trascritta, ampliata o illustrata per un eventuale pubblicazione.

Il gioco ci permette anche un altro approfondimento sulla storia creata collettivamente: mostra a colpo d’occhio quali sono le scene migliori, cioè quelle più memorabili (e che più giocatori si ricordavano). Sapere quali sono le scene forti ci permette per esempio di decidere quale sia l’illustrazione da mettere in copertina al nostro libro (se in un libro vogliamo raccogliere la nostra storia); ci permette anche di decidere se dedicare più pagine a una scena, con più illustrazioni, ampliandone e arricchendone la descrizione dell’accaduto.

Un discorso analogo riguarda invece le scene che nessuno ricorda: come accennavo prima, non sono importanti. Se vogliamo, possiamo riflettere anche insieme sul concetto di importanza: quali sono le scene importanti in una storia? Quelle che producono conseguenze, quelle che rivelano qualcosa del personaggio, quelle divertenti… se nessuno si ricorda una data scena, probabilmente c’è un motivo, e scoprirlo può essere utile perché la prossima storia che inventiamo sia davvero memorabile. Di solito nessuno ci rimane male perché una certa scena salta (anche perché nel gioco ci sono molti spazi per inserire dettagli o scene cui si è affezionati).

Può meritare soffermarsi anche sull’analisi delle singole colonne, vedendo in quanti modi diversi può essere descritta una stessa scena: esiste un modo migliore? Dipende anzitutto da cosa vogliamo farne – un fotoromanzo chiede poche parole, un libro illustrato ne accetta di più, un romanzo vuole molte parole. Nella discussione, però, è probabile che emergano già degli orientamenti precisi.

Note

Quando si è capito bene come funziona il gioco, si può anche utilizzare per raccontare non una storia inventata insieme, ma qualcosa che ci è successo: una gita scolastica, un esperimento scientifico, un evento che ci ha colpito e di cui siamo stati testimoni, un tema di cronaca di cui abbiamo letto sui giornali. In questo caso sui foglietti scriveremo sempre singole “scene”, dove per scena si intende stavolta qualcosa che è successo davvero.

Carte piegate: perché e metafore Cosa: scrivere un testo seguendo una struttura data, ma senza conoscere cosa viene prima o verrà dopo. Chi: praticamente chiunque sappia scrivere Quando: l'esercizio richiede cinque/dieci minuti di scrittura e altrettanti per la lettura. Può essere anche un utile gioco di riscaldamento Dove: dove ci sia posto per scrivere; può essere utile avere una lavagna o un foglio per riassumere cosa si chiede di scrivere Perché: per divertirsi, per provare come certe regole "meccaniche" funzionino o meno. Le carte piegate sono il gioco surrealista più famoso: l'altro nome con cui viene chiamato è "Cadavere squisito".1 Noi gli preferiremo il nome di "Carte piegate", che meglio descrive il meccanismo di base del gioco. Si prende un foglietto a testa, della dimensione di una pagina di quaderno. Ognuno scrive qualcosa sul proprio foglietto, piega la carta a coprire quello che ha scritto, quindi passa il foglio al suo vicino di sinistra, per riceverne un altro dal vicino di destra. Senza aprirlo, scrive qualcos'altro, lo copre, lo passa al vicino di sinistra e ne prende uno nuovo (piegato due volte) da destra. Ovviamente, perché il risultato finale sia almeno un po' coerente, bisogna che tutti seguano lo stesso schema. Per esempio, con soli due passaggi si potrà avere un periodo ipotetico. Al primo passaggio si scrive «Se…» o «Quando…», una premessa a un periodo ipotetico, quindi si passa il foglio e sul nuovo foglio, senza vedere cosa vi sta scritto, si scrive una conclusione «...». Due esempi dei surrealisti:2

Se non ci fossero ghigliottine Le vespe si potrebbero togliere il corsetto Se il mercurio corresse fino a restare senza fiato Credetemi, saremmo nei guai

Il gioco è molto frequentato dai bambini con uno schema del tipo: Chi è lui, chi è lei, dove sono, cosa dice lui, cosa dice lei, cosa dicono gli altri. Gli schemi secondo me più efficaci sono quelli che rivelano la presenza di regole implicite nelle scritture più diverse: nel caso del periodo ipotetico le regole che tengono insieme la prima e la seconda frase sono puramente grammaticali. Abbiamo realizzato il gioco in due versioni lampo (in due passaggi): dapprima ponendo una domanda (“perché… ?”) che esigeva una risposta (“perché…!”); quindi con le metafore: la regola del primo passaggio chiedeva di scrivere una domanda che iniziasse con “che cosa è…” e che contenesse almeno cinque parole; il secondo passaggio doveva invece cominciare con “è…” e contenere almeno quattro parole. Abbiamo proseguito creando infine (lo vediamo di seguito) degli haiku. Note: Si può usare il gioco delle metafore per costruirvi intorno un dopogioco di valutazione, chiedendo di costruire un gradiente delle metafore, dalle più banali alle più fuori di testa passando per le ben formate, per cercare di trovare quale fosse il giusto mezzo.

1 Dall'inizio del primo testo così prodotto: «Il cadavere squisito berrà il vino nuovo». 2 Brotchie 1995, p. 28

Gli haiku Chi: un gruppo non troppo numeroso, in grado di scrivere autonomamente

Cosa: fare poesie rispettando canoni meno frequentati

Dove: in un posto tranquillo per scrivere

Quando: nessuna controindicazione; alcuni di questi giochi possono funzionare anche da rompighiaccio

Perché: per imparare a fidarsi delle regole; per esplorare

Gli haiku sono un genere della poesia classica giapponese: sono brevissimi, e prevedono tre soli versi, con uno schema metrico che nella traduzione corrente italiana si è imposto in un quinario, un settenario e un ultimo quinario.

Per fare haiku in classe a me interessa partire però più dalle particolarità del contenuto che dallo schema metrico: gli haiku sono poesie legate alla natura, in cui è evidente un elemento temporale, e in cui succede pochissimo. Sto semplificando: il modo migliore per capire come è fatto un haiku è leggerli, cercandoli nelle antologie tra moderni e tradizionali.

• Leggiamo degli haiku e cerchiamo, insieme al gruppo, di cogliere quali sono le regole che rispettano.

• Distribuiamo dei foglietti. Ognuno scriverà un verso (breve!) in cima al proprio foglietto, rispettando tutti una regola comune; quindi piegherà il foglietto a coprire quanto ha scritto, lo passerà alla propria sinistra, riceverà un foglietto piegato da destra e andrà a scrivere un nuovo verso (senza leggere cosa vi è stato scritto prima), sempre seguendo una regola comune. Poi piegherà, scriverà e ripasserà. Vediamolo passo per passo.

• Nel primo verso indichiamo una scansione temporale: possiamo dire “quando” (una grigia mattina) o suggerirlo (fiorivano i ciliegi; il cielo era rosso). Può essere un momento dell’anno, della giornata, purché non si indichi un’ora esatta (non è l’ora esatta offerta dallo sponsor!). Ognuno lo scrive, lo nasconde piegando il biglietto, passa il biglietto a sinistra, riceve un biglietto.

• Sul nuovo biglietto, senza guardare, scriviamo il secondo verso: la regola da seguire adesso è di esprimere qualcosa di sensibile. Si deve cioè dire una cosa, in poche parole, che si esperisce con i sensi: un rumore (il gocciolio della pioggia), un baluginio (la luce si specchia nell’acqua), un odore (profumo di gelsomino), una sensazione tattile (brividi di freddo)… Si piega e si passa.

• Sul nuovo biglietto, sempre senza guardare, scriviamo il terzo verso, centrato su un piccolo avvenimento: deve accadere qualcosa, non necessariamente di grande. Esempi plausibili sono: “salta la rana”, “le nuvole si spostano”, “respiro a fondo”… Si piega e si scambia il biglietto con qualcuno un po’ distante, per essere sicuri di pescare un biglietto cui non abbiamo contribuito neanche con un verso (non è essenziale, ma è divertente).

• Ognuno legge il suo haiku squisitamente casuale: chi vuole può leggerlo ad alta voce.

È probabile che molti haiku siano ben formati: ce ne accorgiamo diventando esigenti con quelli che invece mancano di concordanze o sono deludenti per altre ragioni. Il gioco, in qualche modo, ha messo alla prova la sua stessa regola: se le regole non sono pertinenti, gli haiku risultano deludenti; se le regole sono ben poste e azzeccate, siamo più soddisfatti. Indirettamente, e al di là della scrittura poetica, è un bel modo per imparare a fidarsi delle regole, e a metterle alla prova.

Note

Riprendo questa scheda da Eccetera, ma di haiku ho parlato anche in Giochi con le storie, dove sono protagonisti di un gioco oulipiano (la Haikizzazione). Lì parlo anche di altri generi giocosi. Il metodo che invece qui seguo è quello delle Carte piegate.

Lo sdettato Cosa: scrivere una storia "sotto sdettatura", ovvero seguendo le suggestioni e le domande di un ispiratore. Chi: gruppi di cinque-venti persone senza eccessive difficoltà di scrittura (dal secondo ciclo in avanti) Quando: dopo un esercizio di riscaldamento, in un gruppo che si conosce già un po', o dove comunque si respira un'atmosfera di rispetto e ascolto reciproco. Venti minuti circa per l'esercizio, altrettanti per la lettura e il dopogioco. Dove: in uno spazio raccolto e non eccessivamente disturbato dall'esterno (silenzioso, dunque, nei limiti del possibile), dove si possa scrivere comodamente, anche per terra. Perché: per rilassarsi, per scoprire la gioia dell'abbandono della scrittura, per vincere la paura della pagina bianca, per esplorare alcuni "meccanismi" sottostanti alla costruzione del ritmo narrativo. I dettati sono uno dei simboli più normativi della scuola: chi è bravo scrive esattamente quello che gli viene detto e dettato. D'altra parte si dettano solo cose giuste: si "detta legge", si "dettano le ultime volontà", e così via. Lo sdettato ne è in parte la negazione: c'è un animatore che racconta qualcosa, ad alta voce, ma chi ascolta non è tenuto a riscrivere alla lettera quello che sente. Le parole che ascolta sono solo un suggerimento, un'impalcatura di storia su cui costruire il proprio racconto. È un esercizio molto rilassante e liberatorio, se ben guidato. Il segreto è quello di creare un'atmosfera creativa, fornendo molti vincoli aperti: da una parte bisogna far sì che la penna non si stacchi quasi mai dal foglio, dall'altra suggerire domande aperte, che possano produrre risultati i più diversi e inaspettati. Nella pratica l'animatore inizia fornendo una frase uguale per tutti (come in un dettato vero e proprio), quindi dando alcuni stimoli (domande, oggetti da introdurre nella storia, eccetera), al ritmo di uno ogni minuto. Ogni tanto, mentre parla, l'animatore deve tornare indietro per ripetere le domande già fatte, ma non fermarsi ed aspettare ("Un attimo! Sono rimasto indietro!"): non è importante che vengano raccolti tutti gli stimoli, ma è essenziale non lasciare mai gli scrittori senza stimoli. L'insieme di questi stimoli, domande, suggerimenti, elementi da inserire nella storia è quello che chiamo traccia. Una traccia non può essere uguale per ogni contesto: l'animatore deve seguire la propria traccia come se a sua volta stesse vedendo la storia (una sua storia); se gli appaiono nuovi stimoli o sente di dover saltare qualche cosa, deve adattare il suo sdettato al nuovo configurarsi della storia. Nel suo essere un racconto fondamentalmente eterodiretto, lo sdettato può essere sicuramente considerato una scrittura a due voci. Praticandolo ci si rende però conto che è anche una scrittura polifonica, in cui i diversi racconti scritti contemporaneamente si richiamano reciprocamente, come un'antologia inconsapevole: sono diverse versioni della stessa suggestione, e la loro composizione è sicuramente un prodotto collettivo. Negli sdettati è ben visibile il ridimensionamento del ruolo dell'autore, che diventa uno solo dei molti elementi che contribuiscono al farsi della scrittura. Di seguito fornisco la traccia che abbiamo provato insieme: altre due le trovate in Giochi con le storie, e altre potete inventarne da sole! La passeggiata Si tratta di descrivere un paesaggio - questa traccia è sempre molto più improvvisata. Si inizia scrivendo "Svolto a destra": è l'inizio di un percorso, magari stiamo uscendo di casa. Si cammina per un po' senza indicazioni, magari scrivendo, sempre scrivendo. A un certo punto c'è un colpo di vento. Da cosa si capisce? Cosa sposta? Solleva qualcosa in aria, lo lasciamo volare, cerchiamo di fermarlo. Ecco che i nostri occhi si alzano al cielo: come è il cielo? Che ora sarà? Come stiamo? Continuiamo a camminare, lo sguardo vaga distratto, sentiamo dei rumori, un brano di conversazione. A un certo punto attraversiamo (una strada, un ponte, una striscia bianca...) e vediamo qualcuno dall'altra parte: è qualcuno ma chi? L'abbiamo già visto, forse...

Quando ci avviciniamo non la/o vediamo più. C'è qualcosa di scritto (un giornale, un foglio, un biglietto, un manifesto...) Che ore saranno? C'è un orologio? E noi, come stiamo? C'è un odore che arriva, che odore è? Ci ricordiamo qualcosa. Alziamo gli occhi, la passeggiata sta per finire. Ripensiamo a qualcosa che abbiamo visto (la scritta, la persona...). Siamo arrivati (dove?). Come stiamo? Ecco un esempio di sdettato, prodotto dai bambini delle Quinte della Scuola Elementare Italo Calvino di Firenze (anno 1999-2000): «Svolto a destra, il cielo è roseo e con un colpo di vento un giornale mi vola nello specchietto; un rumore mi dà noia: è la piastrella dei freni; laggiù c'è una scritta, un'insegna di un gadget per animali, mi sento rilassato, ma una buca mi fa traballare la macchina. La supero. Sento un odore strano, non so da dove possa provenire, vedo i miei nonni; è tardi ora e sento una musica che sembra una ninna nanna e mi sembra di dormire. Alla fine torno a casa con molto sonno e mi ricordo il mio passato.» Un altro esempio, stavolta di una ragazza della prima Liceo Sperimentale Rodari di Prato, 1998-99: «Svolto a destra: e sto per arrivare in una splendida prateria quando ad un tratto sotto ad un albero spostato dal vento vedo un animale fantastico stupendo: è un cervo che incuriosito della mia presenza alza la testa e mi guarda ed il vento fa muovere di nuovo in maniera stupenda l'erba come se fossero dei capelli; rimango così a guardare la prateria, ma incuriosita dall'alto guardo il cielo celeste vedendo una splendida nuvola bianca piena, come se fosse piena di felicità. Io in quel momento mi sono sentita serena e felice e soprattutto molto tranquilla, però ad un certo punto sento un rumore dietro di me allora mi giro cercando di individuare chi ha provocato questo rumore, non riuscendo a vederlo mi incammino verso il posto in cui ho sentito il rumore per scoprire cosa sta succedendo. Attraverso un fiumiciattolo non molto profondo ma s'intravvedono dei grossi sassi, ho i piedi a mollo allora guardo l'orologio e vedo che sono le quattro e il mio sguardo si posa su di un'incisione di un albero; sento un odore come se il vento avesse portato con sé il profumo dei ciclamini selvatici in attesa di essere colti da me. Ripensando a ciò che ho fatto mi sono sentita piena di un sentimento che non si può provare tutti i giorni in tutti i momenti della giornata. Guardando quella scritta mi viene in mente che in questo posto magnifico c'è già stato qualcuno prima di me non da solo ma in compagnia.» Nel dopogioco, anzitutto chiedo «Per quanto tempo abbiamo scritto?»: la sospensione del flusso normale del tempo è una delle scoperte che si accompagna a un tangibile senso di benessere. La scrittura "passiva", che si lascia trascinare dal senso di ciò che viene prodotto, è un meraviglioso mezzo di dominio sul tempo, di abbandono totale. Dopo aver letto i diversi racconti (e se l'atmosfera è buona, i racconti sono davvero molto diversi!) ci si può iniziare a interrogare sulla struttura imposta dall'animatore nello sdettato, che è quella che contiene gli elementi comuni ai diversi racconti. Questo sdettato in particolare lo uso per sottolineare la capacità evocativa di particolari diversi, per propagandare un atteggiamento sinestesico nei confronti delle descrizioni, che devono nascere da un pieno coinvolgimento dei sensi e non da un distacco narrativo. Ogni senso può evocare un particolare di qualcosa che scorre dentro e che a volte può emergere solo per frammenti. Quello che mi piace è anche la capacità di farsi portare per mano dalla scrittura (che è già rilassamento), e di lasciare a tutti qualcosa cui pensare, un racconto intenso (perché son sempre molto intensi) che abbiano voglia di leggere, e che è già perfetto (quasi sempre), e che è stato scritto in meno di mezz'ora, quindi: perché non provare di nuovo? Serve anche, indirettamente, a superare i propri blocchi e a fidarsi di alcuni dati puramente tecnici della scrittura (le regole compositive).

Note La traccia è ripresa da Giochi con le storie.

Il libro O-H

Chi: un gruppo qualsiasi di lettori più o meno diversamente piccoli

Cosa: realizzare un libro che si può sviluppare insieme alla storia

Dove: in un posto dove ci si possa comodamente appoggiare su un tavolo; serve carta e forbici (o taglierini)

Quando: una mezz’oretta circa, il gioco si può riprendere a volontà

Perché: per creare facilmente un proprio libro

Istruzioni per l’uso Questo libro non richiede cuciture, ma solo l’uso di fogli di carta o cartoncino leggero che si incastrano fra loro. Per

realizzare l’incastro di base è necessario piegare i fogli al centro, quindi tagliarli () nel seguente modo: O H In pratica il foglio rappresentato a sinistra avrà un buco al centro, come una O, mentre il foglio disegnato a destra avrà due tagli sopra e sotto, come una H. Ecco il perché del nome “O-H”. Adesso bisogna arrotolare gentilmente una delle metà di H, senza strappare oltre, quindi infilarla nel foro fatto in O, quindi riaprire. I due fogli sono ora incastrati, in modo da formare un piccolo libro di sole quattro pagine (otto facciate). Volendo aggiungere pagine, basterà aver cura di alternare fogli O e fogli H, per evitare di incastrare troppe pagine nello stesso foro. Questo modello, oltre a essere molto facile da realizzare, ha il pregio di potersi allungare a piacere, senza che si debba programmare in anticipo la lunghezza del libro e la relativa quantità di pagine. Inoltre, dal momento in cui non richiede alcun uso di ago e filo, è molto pratico da realizzare a scuola. Note Debbo questo modello all’artista Angela Lorenz, specializzata nella creazione di meravigliosi libri d’artista. Il libro O-H è prezioso come base per una qualsiasi attività di creazione di libri: non è un gioco in sé ma lo trovo un supporto insostituibile per praticità e semplicità.

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L’albero della poesia

Chi: un gruppo da dieci a ottanta giocatori, purché in grado di scrivere (l’ho provato dalla seconda elementare in su)

Cosa: creare una poesia collettiva a forma di albero

Dove: in un posto dove si possa scrivere, con una grande parete o finestra su cui attaccare l’albero; servono delle strisce di carta di larghezza variabile, alcuni pennarelloni, dello scotch carta (o da imbianchino), uno o due grandi fogli di carta da pacchi marrone, alcuni pezzi di carta colorata più piccoli, alcune paia di forbici

Quando: il gioco dura un’oretta al massimo

Perché: per vedere come è anche facile scrivere insieme, purché si sfruttino le regole come motore comune della scrittura

Istruzioni per l’uso

L'albero della poesia è il nome che ho dato ad una animazione che produce una poesia a forma di albero: ho giocato con le parole, quindi; se fossi stato più onesto l'avrei chiamata "La poesia ad albero", e basta. Invece ho invertito le parti, e ne è nato un "albero della poesia".

È un'animazione completa, che può partire dalla lettura per terminare in una scrittura collettiva, giocando con le forme e le strutture della poesia.

Cosa intendo per "forma o struttura"?

La forma è quella con cui la poesia appare sulla carta: quando le parole vengono distese in forme inusuali, saltano subito agli occhi: sono i calligrammi, o le Parole in Libertà dei futuristi. Sono poesie con una forma non lineare, in cui le parole giocano con gli spazi bianchi del foglio disegnando dei percorsi che determinano il senso del testo.

Per struttura invece intendo lo scheletro portante la poesia: fanno parte della struttura poetica le rime, il ritmo, il tessuto sonoro costituito dal gioco di vocali e consonanti. Ma anche la lunghezza dei versi, il numero delle strofe, e altri meccanismi poetici. Esistono delle strutture lineari (la poesia classica, fatta per esser letta dall'inizio alla fine senza tornare sui propri passi, che si svela nel verso finale: «E dolce m'è il naufragar in questo mare»), e delle strutture non lineari, caratterizzate cioè in primo luogo da ripetizioni, inversioni, bivi e circolarità.

Più nello specifico, vi sono poesie lineari (alcune particolarmente diritte, che mirano a una conclusione senza perdersi per strada), e ve ne sono altre che giocano con il tessuto sonoro in modo da creare strutture più originali. Possiamo immaginare alcune forme stravaganti: poesie circolari, speculari, a grappolo, e naturalmente ad albero.

Nella poesia per ragazzi si trovano molti esempi di strutture non lineari: sono degli esempi particolari di "giocattoli poetici", in cui la lingua gioca con la materia sonora e con la struttura al tempo stesso. La poesia per bambini è più concreta, materica: è un'affermazione che non intendo dimostrare qui, ma che accompagna da vicino questo lavoro.

Si entra nell'animazione in punta di piedi, con la lettura di alcune poesie. I bambini (o gli adulti) ascoltano, allenano le proprie orecchie a riconoscere il senso di quello che andremo a fare. È un momento importante sia per dare un senso al lavoro che faremo (la poesia ad albero), sia per riscaldarci e entrare nel vivo del lavoro poetico.

Si possono fare scelte di lettura diverse: stiamo mirando alle poesie ad albero, cioè quelle che si chiamano tecnicamente “poesie anaforiche”, con delle ripetizioni in inizio di verso o di strofa. Gli esempi più antologizzati sono Il cantico delle creature di San Francesco (Laudato sii o mi’ Signore…) e S’io fossi foco di Cecco Angiolieri: giusto per capire di cosa stiamo parlando.

Io porto con me delle poesie ad albero di autori per ragazzi e di scrittori umoristici: Roberto Piumini, Pietro Formentini, Giuseppe Pontremoli, Stefano Benni. Le leggo, a seconda del pubblico, in ordine sparso e senza ansia da prestazione: se possibile le intervallo con altre poesie che giocano in modi diversi con la presentazione e l’ordine delle parole, e allora prendo anche Il paggio saggio di Sto, o Pioggia di Raymond Queneau.

La lettura è utile: sia per sottolineare la circolarità che c’è sempre tra lettura e creazione; ma anche per intuire, sottopelle, come sia fatta una certa cosa. Per capire senza troppe descrizioni. Leggendo, in questo caso, la ripetizione, il ritmo, invitano all'imitazione e alla continuazione, come quando si balla o si battono le mani. Ma veniamo al gioco

• Quando sentiamo che è il momento, appendiamo al centro di una parete o di una grande finestra un mezzo foglio di carta da pacchi con su scritto un verso iniziale, un verso tronco che è il tronco della poesia. Io uso cose semplici come: "Oggi ho aperto la finestra" oppure "Ho la pelle d'oca", ma si può variare (vedi nelle note).

• Distribuiamo ora cinque/sei strisce di carta, più o meno larghe un quinto del foglio appeso, formando così di fatto cinque/sei gruppi di giocatori.

• Ogni gruppo deve aggiungere un verso, scrivendolo con il pennarellone sulla propria striscia di carta: i versi potranno essere in rima o meno, comici o seri, purché leggibili come continuazione del "tronco" e non troppo lunghi (devono essere versi, non strofe – la dimensione della striscia include una regola del gioco).

• Via via che ogni gruppo completa il proprio verso, dovrà attaccarlo all'albero, posizionando la propria striscia di carta obliquamente al tronco a formarne i primi rami.

• Finito il primo giro di scrittura, leggiamo il risultato prodotto, ogni volta ripetendo il verso tronco.

• Distribuiamo ora delle strisce più sottili e più corte: sono i rami più piccoli su cui ognuno, stavolta individualmente, potrà scrivere altri versi, da aggiungere ad uno qualsiasi dei rami già scritti (il proprio o quello di un altro).

• Via via che i versi vengono scritti vanno attaccati all'albero della poesia, sempre obliquamente rispetto ai rami presenti.

• La procedura si può ripetere più volte, fino a che si vogliono aggiungere nuovi versi. Una volta che sentiamo che l'albero è concluso, cioè che ha finito di crescere, ci fermiamo e lo leggiamo per intero.

• Per concludere la scrittura si possono aggiungere, ritagliandole dalla carta colorata, delle foglie (fiori, frutti, o altre forme) con su scritta una parola sola (o un suono, un verso).

• Il risultato finale sarà un prodotto di scrittura collettiva in cui i diversi interventi personali, ancora visibili, si fondono in un testo unico. Il gioco si chiude con un’ultima rilettura della poesia così prodotta e con le firme degli autori sul verso tronco.

Ecco un esempio prodotto all'interno di un corso per Ludotecarie promosso da Nicla Iacovino a Scafati (Sa): il verso iniziale da me proposto (il tronco) è "Ho aperto la finestra"; gli altri versi sono disposti con distanza crescente (verso destra) a seconda della loro lontananza dal tronco. In corsivo, le parole scritte sulle "foglie".

ho aperto la finestra

sento il profumo della primavera che libera la mia anima pace

l'aria entra nella stanza con gli odori e i suoni della strada

sono contento di esistere giù fanno festa . e ora mi vado a divertire guardandoli pensai: ero anch'io una volta bambino

malinconia ho voglia di giocare a nascondino

per cercare lui innamorata

ma io ho altri pensieri nella testa penso ai miei gattini che amoreggiano nella cesta sono quelli del mio amore che mi angoscia accidenti!

così pensai a cosa avevo in testa pensai di scendere e divertirmi con loro e chiesi a me stesso: cosa mi resta? ciao da ora basta!

chiudo gli occhi e immagino un mondo fatto solo di bambini liberi e felici

speranza solidarietà gioia

sento le loro voci quante volte ho sognato che fosse così

i bambini saltellano per strada ho voglia di giocare con loro felicità

il cielo è blu sopra le nuvole, i raggi riscaldano le cose mentre la mente vaga lontano

vita ruota, volteggia, salta, danza come un piccolo cerchio di indiani

Così come è riportata, è una poesia senza forma. La forma dell'albero è stata risolta in pura struttura, assegnando ad ogni verso una distanza crescente, a seconda della sua prossimità al tronco. Per capire bisogna dare un ordine di lettura: viene abbastanza naturale quando si legge il testo ad alta voce: la regola è ripetere quello che leggiamo ogni volta che torniamo indietro da un bivio: il "tronco" va ripetuto prima di ogni "ramo principale"; ogni "ramo principale" prima del relativo "ramo secondario", e così via. In questo caso, una trascrizione lineare di questa lettura darebbe, per le prime tre strofe:

Ho aperto la finestra

sento il profumo della primavera che libera la mia anima

pace

Ho aperto la finestra

l'aria entra nella stanza con gli odori e i suoni della strada

sono contento di esistere

Ho aperto la finestra

giù fanno festa

e ora mi vado a divertire

giù fanno festa

guardandoli pensai: ero anch'io una volta bambino

malinconia

giù fanno festa

ho voglia di giocare a nascondino

per cercare lui

innamorata

giù fanno festa

ma io ho altri pensieri nella testa

penso ai miei gattini che amoreggiano nella cesta

giù fanno festa

ma io ho altri pensieri nella testa

sono quelli del mio amore che mi angoscia

accidenti!

giù fanno festa

così pensai a cosa avevo in testa

pensai di scendere e divertirmi con loro

giù fanno festa

così pensai a cosa avevo in testa

e chiesi a me stesso: cosa mi resta?

ciao

da ora basta!

Se si vuole lasciare ai partecipanti un pezzo di poesia da portare a casa, li si può invitare a cogliere una foglia o un frutto dall'albero (ovvero le parole singole).

Note

Ho portato l’animazione dell’albero in contesti molto diversi tra loro: con bambini, con giovani adulti, con insegnanti. Il gioco regge anche al cambiare delle persone: ovviamente i testi proposti cambiano di volta in volta, e il prodotto finale è diverso.

Per esempio, il testo trascritto è stato prodotto da delle ragazze dell'età media di vent'anni, in un giorno di primavera. L'effetto finale è un po' "rose e fiorellini", ma la partecipazione collettiva forte e intensa lo rende sincero ed efficace: si conserva lo spirito delle autrici senza abbassare il livello del testo a un "minimo comun denominatore".

Con i bambini, invece, i primi rami sono un po' più "legati", trattenuti a un'impostazione scolastica dove si valuta il prodotto del singolo. Via via che l'albero cresce, e i bambini si trovano a lavorare sui rami altrui, la paura del giudizio cala e il testo prende il volo.

Con le insegnanti si sono prodotti molti più rami, dato che ognuno tende a dire la sua: l'albero risulta più basso e più frondoso...

Insomma, ogni contesto, ogni situazione produce un albero diverso; vi saranno dei cipressi, alti e slanciati, dei tigli che buttano foglie anche alla base; dei noci dai rami robusti e dei salici che si piegano sotto il peso dei loro pensieri. Quello che ci interessa non è aver prodotto questo o quell'albero, ma aver piantato un seme: fuor di metafora, la curiosità per una poesia che sia linguaggio completo; che non sia solo parola ma anche suono, ritmo e forma.

Nella creazione dell’albero ha però un suo peso il verso tronco: serve prima di tutto che sia immediato – preferibilmente deve contenere un’azione, e deve essere espresso in prima persona e al tempo presente o passato prossimo, per consentire una più facile adesione. Poi, bisogna stare attenti alla rima che suggerisce – la rima non è obbligatoria, lo ripeto, ma viene voglia di metterla: sarà meglio quindi evitare rime troppo difficili, troppo facili, o troppo chiuse. Il verso tronco potrà essere “Domani vado a Molfetta”, ma sarà meglio evitare Rimini o Firenze (troppo difficile), Cassino o Cremona (troppo facile e scontata), e Giovinazzo (troppo prevedibile).

L’albero può servire non solo per fare poesia: nel capitolo dei Giochi per discutere uso la stessa forma e metodologia per creare un discorso comune.

La costruzione dell’albero con strisce di carta si ispira direttamente agli alberi di Bruno Munari: l’artista ne parla in più punti, dedicandovi anche l’intero Disegnare un albero (pubblicato per Zanichelli, oggi nel catalogo Corraini).

La descrizione del gioco compare per la prima volta in un mio articolo scritto per “Sfoglialibro”: questa scheda è invece ripresa dal mio Eccetera (la meridiana, 2013).

Alberi per discutere (bonus track: un gioco solo accennato durante il nostro incontro)

Chi: almeno 15 bambini o ragazzi da 9 anni in su Cosa: discutere intorno a un tema accogliendo posizioni diverse Dove: occorre una parete vuota di almeno 4 metri di lunghezza Quando: meno di due ore, all’inizio o a conclusione di un percorso Perché: per ragionare intorno a un tema e fare emergere la complessità Il gioco dell’albero consente di raccogliere, in forma di scrittura collettiva, le opinioni di tutti in forma più articolata, a partire da due frasi stimolo “tronche” intorno a un tema dato, una legata al “piacere” e l’altra alla “paura”.

• Su una finestra sufficientemente grande o su una parete libera, appendiamo due fogli grandi (50 x 70 cm circa) a circa due metri di distanza l’uno dall’altro, sulla stessa parete; prepariamo anche, ritagliandole dalla carta da pacchi, delle strisce di carta bianca lunghe circa settanta centimetri e larghe circa dieci. Serviranno inoltre dei pennarelloni grandi, dei fogli di carta colorata, un paio di forbici e due rotoli di scotch.

• Annunciamo che faremo un ragionamento collettivo in forma di albero: i due fogli bianchi saranno i tronchi dei nostri ragionamenti, cioè le affermazioni di partenza da sviluppare intorno al tema. Mettiamo che il tema sia “la città”: su un tronco scriviamo “la città mi piace…”; sull’altro “la città mi fa paura…”. Ora dobbiamo far crescere gli alberi dai tronchi.

• Dividiamo la classe in sei piccoli gruppi; a ogni gruppo diamo due strisce di carta. Ogni gruppo deve scrivere su ogni striscia la continuazione di una delle due frasi, quindi attaccare le due strisce con lo scotch alla parete, inclinate rispetto alle frasi “tronco” in modo da ricordare il ramo di un albero; è vietato nominare delle persone nei rami.

• Quando tutti i gruppi hanno attaccato le proprie strisce, rileggiamo cosa è stato scritto, ripetendo a ogni cambio di frase la frase iniziale. Per esempio se due rami attaccati a “la città mi piace” sono “perché è sicura” e “perché ci stanno i miei amici”, si legge “la città mi piace perché è sicura; la città mi piace perché ci stanno i miei amici”.

• Adesso invitiamo tutti, anche singolarmente, a far crescere le affermazioni, attaccando ulteriori strisce di carta (più sottili) a quelle esistenti, con specificazioni o cambi di senso. Ognuno può attaccare la propria striscia/ramo a qualsiasi ramo esistente (non ci sono rami “propri” o “rami degli altri”), tranne che al tronco; ogni frase va quindi letta contestualmente (cioè come il seguito della frase/ramo cui è attaccata).

• Quando non ci sono più rami da attaccare, o quando tutti sono soddisfatti del risultato raggiunto, rileggiamo la complessa ramificazione dei due alberi, ripetendo la frase di partenza ogni volta che cambiamo ramo.

• Volendo, si possono completare entrambi gli alberi con l'aggiunta di foglie, fiori o frutti - piccoli pezzi di carta colorata, su cui scrivere commenti di poche parole (massimo tre), e che possono essere attaccati in qualsiasi punto dell'elaborato (riferiti a quel punto).

• Si rilegge ancora una volta tutto quanto Il gioco potrebbe anche finire qui: e con i bambini più piccoli è opportuno fermarsi, perché avremo già messo tanta carne al fuoco. Con adulti e adolescenti si può invece proseguire con la seconda parte dell’animazione.

• A questo punto, cosa manca? Le radici. Attacchiamo alla base degli alberi sei/sette pozze d’acqua che nutrono entrambi gli alberi. Devono essere dei termini preferibilmente dotati di una certa ambiguità: il “potere”, per esempio, può nutrire sia l’albero della città che mi piace che quello della città che mi fa paura. Le parole dovrebbero essere quelle emerse dalla discussione e dal lavoro svolto insieme nel corso.

• Attaccate le sei “pozze” o “sorgenti”, chiediamo a ognuno, individualmente, di mettere le radici che desidera. Una radice è un filo che collega uno dei due alberi a una delle pozze (per una più efficace discussione nel dopogioco può convenire usare due colori diversi per ciascuno degli alberi; per esempio, l’albero della città che mi piace avrà radici blu e l’altro verdi).

• Via via che vengono messe le radici, ognuno dovrà chiamarle per nome: come si chiama la radice che collega la città che mi piace al potere? Possibilità? Occasioni? Libertà? (la scelta è personale e anonima). Il nome va scritto su un cartoncino colorato e bucato in un angolo, e legato alla radice cui si riferisce. È lecito usare anche frasi più articolate per spiegare concetti meno chiari.

• Si continua finché tutti non desiderano aggiungere altro. Si rilegge un’ultima volta, e si discute. Note La scelta delle frasi stimolo scritte sui due tronchi è importante: qui abbiamo suggerito di centrarle sulla “città”, tema che però potrebbe in alcuni contesti essere fuorviante. Suggeriamo in generale di circoscrivere la riflessione sulla paura a un ambito più limitato, dicendo “cosa” ci piace o ci fa paura: “la casa”, “la scuola”, “la discoteca”; le frasi tronco saranno allora: “la casa mi piace / mi fa paura”, “la scuola mi piace / mi fa paura”, eccetera. Possono essere temi molto circoscritti come “il lavoro precario” (così in un paio di alberi costruiti con gli iscritti del NIDIL/CGIL) o molto ampi come “il gioco” (per uno degli incontri annuali di Ali-Per giocare) o “la storia” (così in un percorso di formazione per l’Istituto degli Innocenti). Le frasi stimolo possono essere ovviamente variate e adattate: credo per esperienza che sia importante evitare che siano proprio in contraddittorio diretto, cioè che siano per esempio “la città mi piace” / “la città non mi piace”. Questo perché si creerebbe una ridondanza inutile in termini di gioco, e qualcuno potrebbe sentirsi costretto a raddoppiare i propri interventi scrivendo le cose due volte (piazzando le opportune negazioni nei propri rami). Credo sia importante lasciare l’albero dove lo si è fatto, come occasione visiva di una tappa percorsa insieme, e magari anche per ragioni di orgoglio di gruppo. Avere l’albero a disposizione può anche spingere chi vuole ad aggiungere qualcosa anche successivamente. Viceversa, se si vuole lasciare ai partecipanti un pezzo di albero da portare a casa, li si può invitare a cogliere una foglia o un frutto dall'albero (ovvero le parole singole). Ho creato questo gioco come sviluppo, su un terreno decisamente diverso, dei meccanismi dell’Albero della poesia. La scheda è ripresa da Eccetera: nel laboratorio ho solo accennato a questa variante.

L’ Abbecedario

Chi: almeno 10 bambini o ragazzi da 7 anni in su Cosa: discutere intorno a un tema accogliendo posizioni diverse Dove: in classe o in un posto in cui si possa scrivere comodamente Quando: meno di un’ora, all’inizio o a conclusione di un percorso Perché: per ragionare intorno a un tema e fare emergere visioni diverse e un senso comune

L’abbecedario è un libro polifonico e autoprodotto di brevi pensieri e narrazioni. E’ il risultato di un facile percorso cooperativo, veloce e divertente, per “metter giù” (sulla carta) le visioni d’ambiente e i frammenti di storie di ognuno, per poi scoprire che ci si riconosce anche in quelle degli altri: perché dall’intreccio delle brevi storie emergono modi simili e diversi di vivere lo spazio comune. Costruire un abbecedario impegna all’incirca una mezza mattina di lavoro (due ore), e prevede tre fasi. Il gioco dell’abbecedario è produttivo per molti argomenti: per discutere un libro che tutti abbiamo letto, per raccontare una gita scolastica o un esperimento; basta che ci sia un vissuto condiviso come tema portante.

Prima fase: la mappa delle parole

• Mettiamoci in cerchio

• Spieghiamo che creeremo una “mappa di parole” per affrontare l’argomento scelto. Nel nostro caso, è stato ‘il gioco’

• Ognuno propone, a turno, una parola (o gruppo di parole: non una frase) legata al tema. Trascriviamo alla lavagna tutte le parole via via che vengono proposte: “amicizia”, “gioco”, “sorpresa”, “sfogo”

• Qualsiasi parola viene accettata, tranne le parole che sono già state proposte e scritte sulla lavagna e i nomi propri di bambini della classe

• Continuiamo a raccogliere parole per almeno due o tre giri, per fermarci quando non abbiamo più spazio o quando ci accorgiamo di avere fatto una buona raccolta

• Alla fine la lavagna restituisce visivamente una mappa delle parole, che è mappa degli spazi, luoghi ed emozioni del territorio; è una mappa che a tutti dà soddisfazione perché è stata costruita facilmente insieme e contiene tante cose

Seconda fase: la scelta delle parole

• Subito dopo aver completato la mappa delle parole, spieghiamo che faremo un nostro dizionario personale

• Senza rompere il cerchio, distribuiamo a tutti dei fogli di carta bianca

• Ognuno sceglie dalla lavagna la parola che ritiene più importante, e la scrive in cima al proprio foglio a mo’ di titolo. Quindi scrive una o due frasi sulla parola scelta: perché proprio quella? Pensieri, racconti personali, storie, brevi poesie sono le benvenute.

• Ognuno ha dieci/quindici minuti per questo momento di scrittura individuale, anonima o meno, come ognuno si sente

Terza fase: comporre e leggere l’abbecedario

• Ancora in cerchio, raccogliamo tutti i fogli e ordiniamoli alfabeticamente per titolo. Li leggeremo e condivideremo tutti

• Leggiamo sempre per prima cosa il titolo, e poi il pensiero. Volendo, si può chiedere l’aiuto di un volontario per sottolineare sulla mappa delle parole quali sono state scelte

• Non commentiamo subito i pensieri: dopo una breve pausa, passiamo alla voce successiva. Se i pensieri sono firmati, non leggiamo la firma, si scoprirà più tardi: l’abbecedario appartiene un po’ a tutti. Il nostro obiettivo è

quello di leggere di seguito tutte le voci, perché la polifonia dei titoli e pensieri alfabeticamente ordinati ha sempre un suo bel ritmo interno e restituisce con sorpresa una visione d’ambiente plurale

• Di solito i bambini partecipano con attenzione e concentrazione, perché si possono ritrovare in quello che hanno scritto, e scoprire altri modi di guardare a qualcosa di comune

• Finita la lettura, la rubrica può diventare un libro-classe, per esempio bucando i fogli in alto e legandoli con un filo. Volendo, potremo aggiornarlo a più riprese con le nostre scoperte

Le città delle emozioni

Chi: almeno quattro giocatori

Cosa: fare una mappa di emozioni; servono colori e fogli di carta di grande formato

Dove: in un posto dove si possa disegnare comodamente

Quando: il gioco dura circa un’ora e richiede una discussione finale

Perché: per condividere le proprie emozioni, come scrittura creativa, per immaginarsi il mondo come un comune territorio di possibilità

Istruzioni per l’uso

• Dividiamo i giocatori in coppie

• Ogni coppia disegna una regione della “terra delle emozioni” o un quartiere della “città delle emozioni”, scegliendo che tipo di regione è, riferendosi esplicitamente a una emozione

• Il conduttore passa fra i gruppi cercando di suggerire tutto ciò che manca: corsi d’acqua, fabbriche, negozi, uffici comunali… lasciando alle squadre la libertà e la fantasia di assegnar loro i nomi preferiti.

• Dopo un tempo concordato fermiamo il gioco e invitiamo le varie squadre a presentare la propria mappa (magari utilizzando uno stile da guida turistica, o da urbanista provetto)

• Alla fine del gioco è essenziale che le coppie abbiano un’occasione di mostrarsi i vari prodotti: è possibile unire tutte le mappe in un’unica rappresentazione? Quali sono le regioni che vorremo accostare? Quali sono i punti di vista che emergono dalle diverse mappe?

Il gioco è stato rielaborato con Paola Rizzi e in questa forma è apparso nel suo Giochi di città, (edizioni la meridiana).

Gli ombrelli delle emozioni Chi: un bel gruppo di giocatori (da dodici a trentasei, come le uova) diviso in piccoli gruppi di sei-otto giocatori Cosa: esplorare collettivamente il senso di un’emozione Dove: in un posto dove si possa lavorare bene in gruppo, occorrono fili, spaghi, carta, forbici; e un ombrello per ogni gruppo Quando: il gioco dura circa mezz’ora-tre quarti d’ora e richiede una discussione finale Perché: per ragionare insieme e per mantenere traccia delle intuizioni individuali in un contesto di gruppo; per fare una cosa bella che tiene memoria delle idee Istruzioni per l’uso Si dice “termine-ombrello” o “parola ombrello” quando ci riferiamo a una cosa che ne sottintende e comprende molte altre: qualcosa il cui senso è vasto e si collega a esperienze, pensieri, termini, che cambiano individualmente e si arricchiscono nel confronto. Qui usiamo le parole per esplorare il senso di qualcosa che pensiamo di conoscere, ma che conosciamo davvero nel momento in cui lo condividiamo.

• Dividiamo i giocatori in piccoli gruppi di sei-otto giocatori, dando un ombrello a ogni gruppo

• Si aprono gli ombrelli. Sopra ogni ombrello si scrive un’emozione intorno a cui lavorare (per esempio, nel nostro caso: Paura, Gioco, Amore, Rabbia). Poi si attaccano dei foglietti, sempre fuori dell’ombrello, su cui sono scritte le manifestazioni esteriori di questa emozione

• Individualmente ognuno appende alle stecche dell’ombrello un filo da cui scende una storia personale o un ricordo collegato al titolo dell’ombrello: deve iniziare con le parole “Mi ricordo”. L’immagine è quella di qualcosa che piove giù dall’ombrello, come se quella parola, quella emozione, quell’esperienza, ne richiamasse tante altre.

• Finita questa fase ci si sposta tra i vari gruppi e si leggono le altre storie: quando una storia ci ricorda qualcosa che abbiamo vissuto possiamo aggiungere al filo un altro foglietto con la storia che ci siamo ricordati. Stavolta useremo per iniziare le parole “Mi stavo dimenticando”.

• Alla fine del gioco è essenziale che il conduttore legga tutto ciò che è stato scritto. Volendo, gli ombrelli restano a disposizione per accogliere ulteriori storie.

Note È un gioco per me nuovo, che ho fatto con voi per la prima volta: mi piacerebbe ricevere vostri riscontri e considerazioni per metterlo a punto ancor meglio.

Ci sono alcune memorie “contagiose”: sono quelle che ci fanno venire subito in mente un’altra memoria, un ricordo che chiama ricordo: sono piccoli frammenti, individuali e collettivi, che ci permettono di raccontarci e ritrovarci. Esperimenti del genere sono stati fatti da più artisti: Joe Brainard (I remember, Angel Hair Books, 1970), Georges Perec (Je me souviens, Hachette, 1978), Matteo B. Bianchi (Mi ricordo, Fernandel, 2004), e di recente con taglio appena diverso, da Yves Pagès (Ricordarmi di, L’orma editore, 2015; ed. or. Souviens-moi, L’Olivier, 2014). La memoria più contagiosa è forse quella dell’infanzia – esperienza formante e comune a più di una generazione, a più di un luogo, e su cui non ci si sofferma spesso a ragionare insieme ad altri.

Il racconto in scatola non provato durante il corso

Chi: due gruppi distinti di persone, di almeno 7 persone per gruppo Cosa: immaginare chi ha mandato un messaggio non verbale e cosa ha voluto dire Dove: in un posto tranquillo Quando: in due tempi, con un intervallo che consenta di mettere insieme gli oggetti Perché: per verificare la conoscenza del gruppo, per ragionare intorno a ciò che trasmettiamo agli altri Il racconto in scatola ha bisogno di almeno due gruppi distinti (due sezioni diverse, una quarta e una quinta, due scuole nello stesso istituto comprensivo, due “regni”, adulti e bambini…).

• Prima di tutto si mettono insieme le scatole: ogni partecipante del primo gruppo si descrive (anonimamente) tramite tre piccoli oggetti (foto, ricordi, documenti), che verranno messi nella scatola (non devono perciò essere troppo preziosi). La persona dovrebbe dire perché ha scelto proprio quegli oggetti, possibilmente per iscritto per un futuro confronto

• I tre oggetti vengono chiusi nella scatola senza alcuna altra indicazione. Le scatole vengono quindi recapitate all’altro gruppo, da cui potremo anche eventualmente ricevere in cambio altrettante scatole (una più, una meno). Distribuiamole e chiediamo di immaginare chi ce le ha spedite e cosa ha voluto raccontarci

• Può essere utile dare una traccia di lavoro, con alcune domande: Che oggetti si trovano nella scatola? Chi è il mittente (quanti anni ha, da quanto sta in zona, che lavoro fa, che gusti ha, prova a farne un ritratto…)? Che storia vi ha voluto raccontare (Provate a capire, dagli oggetti scelti, che parte della sua vita vi ha voluto raccontare questa persona… cosa significano questi oggetti per voi?)? Immaginate di proporre uno scambio: quale di questi oggetti terreste e cosa dareste in cambio?

Note Il gioco dei racconti in scatola può essere fatto anche a partire da una storia di fantasia, lasciando ogni coppia libera di “adottare” un personaggio del libro che sarà ora il “mittente fantastico” dei nostri racconti in scatola. Attenzione: lo scopo del gioco non è mai semplicemente “indovinare”, quanto immaginare e provare a capire da indizi, e dire cosa sentiamo noi… la comunicazione è una strada a doppio senso di marcia. Questo gioco si collega idealmente a quello dell’abbecedario e a quello degli ombrelli.

Il paesaggio infinito

(non provato durante il corso)

Chi: un numero qualsiasi di adulti o bambini in grado di disegnare

Cosa: creare delle carte componibili in molti modi

Dove: in uno spazio tranquillo, dove disegnare; occorrono cartoncini e colori

Quando: alla fine di una lettura, con il tempo che occorre, da 20 a 40 minuti

Perché: per inventare storie, per disegnare secondo regole vincolanti

Istruzioni per l’uso

Un “paesaggio infinito” è una collezione di carte illustrate con motivi paesaggistici. Le carte possono essere accostate fra loro in qualsiasi ordine, creando innumerevoli variazioni; realizzarne uno non è difficile:

• Prepariamo una serie di cartoncini bianchi dello stesso formato

• Segniamo, sempre alla stessa altezza, sui due lati verticali di tutti i cartoncini delle linee colorate che rappresentano gli elementi che proseguono da una carta all’altra (una strada, la riva del mare, la linea dell’orizzonte…)

• Ogni carta potrà essere disegnata liberamente, rispettando i segni colorati e il tema che ci siamo dati: se è un paesaggio marino, ci potranno essere sommergibili, pesci, piovre… se invece stiamo disegnando un grande stadio, ci saranno calciatori, atleti, tifosi, gelatai …

• Accostiamo fra loro le carte, cambiando l’ordine: con sole dodici carte possiamo già dare luogo a 479.001.600 paesaggi diversi!

Note

I primi paesaggi infiniti vengono messi in commercio durante l’Ottocento, secolo che è probabilmente quello che segna la loro massima diffusione in Europa e Stati Uniti. In rete se ne possono trovare diversi cui ispirarsi, magari usando

come chiave di ricerca il nome che lo ha reso popolare nei paesi di lingua inglese, “Myriorama”.